Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2019

 

LA SOCIETA’

 

 

 DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

  

 

 

QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura?

I Posti maledetti.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO E DI FERRAGOSTO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo.

Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda.

Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo.

Napoleone Bonaparte.

La Grande Carneficina: Verdun.  

Era Ceausescu.

I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.

1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.

Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo.

La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York.

1939. L’estate che portò alla II guerra mondiale.

Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16.

Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo).

Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto.

Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra.

Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri.

1979 Lo spartiacque tra due ere storiche.

Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv.

9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino.

Comunisti 1969. Lobby Continua.

Internet compie 50 anni.

Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia.

Willy il Coyote compie 70 anni.

Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.

Felix, che compie proprio oggi 100 anni.

17 novembre 1869: inaugurato ufficiale del Canale di Suez.

La Setta di Manson: Storia e segreti.

Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna.

11 settembre 2001: voci  e storie del giorno più lungo.

Il Chewing Gum dal 1869.

Gli “space dogs”.

Il Primo Cosmonauta della storia: Jurij Gagarin.

La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna.

Cinquant'anni fa scoppiava l'autunno caldo. E finiva il Miracolo economico.

1989, Good bye Lenin.

Albert Einstein: il genio.

Carosello, la pubblicità in tv: quando Mina consigliava Barilla.

Le 100 canzoni italiane più belle del ventunesimo secolo (fino ad ora...).

Dai Beatles a Lucio Battisti tutti i dischi mitici del 1969.

Jimi Hendrix: un gigante gentile.

Chi era davvero Jim Morrison?

Jack Kerouac della Beat Generation.

Tutti contro Michael Jackson.

Whitney Houston.

George Michael.

L'Uomo Tigre, un eroe tragico che ci ha insegnato a soffrire.

Il Moulin Rouge.

Dieci anni dopo Mike la tv è ancora un quiz.

Dieci anni senza Mino Reitano, l'artista che si faceva maltrattare dalla tv.

Quel magnifico naso di Giorgio Gaber: oggi il Signor G. avrebbe compiuto 80 anni.

Maledetto Faber, ora ti amano tutti!

Le ultime ore di Freddie Mercury prima di morire.

Martin Luther King, l’uomo che sognava Obama.

4 marzo 1994: venticinque anni fa la tragica notte di Kurt Cobain a Roma.

Luciano Pavarotti.

Bud Spencer.

Lucio Battisti, un genio: oggi avrebbe 76 anni.

Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa.

Andreotti, Donat Cattin, Moro: altro che capitani!

Federico Fellini.

Chi era Gustavo Rol.

Auguri Alda Merini, poetessa simbolo del '900 italiano: oggi avresti compiuto 88 anni.

Domenico Modugno, puro genio della canzone.

Califano, la dolce vita quando la vita non era più dolce.

Zapata, l’anti-eroe che 100 anni fa cambiò il Messico.

Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti.

«Luigi Tenco è morto di noia».

Giuni Russo. Una voce di Libertà.

Alex Baroni, 17 anni fa moriva il cantante dopo un incidente stradale.

Prince: tre anni senza il genio del funk-rock.

Il rapimento da cui nacque "Imagine" di John Lennon.

Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra.

Ricordando Paolo Poli.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.

La “Filosofa” Moana Pozzi.

Charlot: Charlie Chaplin.

Frank Sinatra.

Audrey Hepburn: colazione da Hitler.

Marlene Dietrich.

Ava Gardner.

Greta Garbo.

Grace Kelly, la favola triste.

Ricordando Farrah Fawcett.

Marlon Brando. Malato di Sesso.

Un Salvacondotto per Bertolucci.

James Dean.

Dieci anni senza Patrick Swayze.

Robin Williams, 5 anni senza.

Sergio Leone: “…Uno stronzo!” 

Henry Fonda.

Florence, che 68 anni fa fermò il tempo nuotando sulla Manica.

Valentino Mazzola.

Il campione Girardengo ed il bandito Sante.

«Mio padre Fausto Coppi è il ciclismo che vive nel mio cuore».

25 anni fa la morte di Ayrton Senna.

Formula 1, 25 anni senza Roland Ratzenberger.

Pietro Mennea, 40 anni dal record del mondo.

Luciano Re Cecconi.

Di Bartolomei, 25 anni dalla morte di «Ago».

Scirea, 30 anni fa la morte.

Superga, settanta anni fa: la tragedia italiana in cui scomparve il Grande Torino.

Cent'anni di Brera.

Carmelo Bene nel Pallone.

Evita e la sua Argentina, una ossessione lunga 100 anni.

Marzotto. Matteo ricorda Marta.

La leggendaria stilista Coco Chanel.

Silvana Mangano.

Lilli Carati, la rinascita dopo i film hard.

«Mistero Buffo» di Dario Fo.

Chi era Augusto Del Noce, il filosofo che odiava la modernità.

Alla riscoperta di Landolfi, scrittore surrealista.

Giorgio Faletti: la matrioska.

Mariele Ventre: maestra storica del coro dell'Antoniano di Bologna.

Nino Nutrizio, storico direttore del quotidiano «La Notte».

Frank Vincent Zappa.

Franco Franchi.

Marcello Mastroianni.

I Clash.

Woodstock compie 50 anni.

Chiedi chi erano gli Who.

50 anni fa moriva Brian Jones, il geniale inventore dei Rolling Stones.

Rudolf Nureyev: uomo di danza e di sostanza.

Aristotele Onassis e Jackie Kennedy.

Frida Kahlo, 65 anni fa moriva la regina del selfie ante litteram.

Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia.

I 70 anni del bigliardino.

La Mini ha compiuto 60 anni.

La Autobianchi A112 ha compiuto 50 anni.

Ei fu la brutta Duna.

110 anni di moto Gilera.

La Vespa "50 Special" compie 50 anni.

Il primo «citofono» d’Italia.

La vecchia- giovane Bicicletta.

I 50 anni del Boeing 747.

I (primi) cento anni del panettone Motta.

I MORTI FAMOSI.

Si festeggia Halloween o si onorano i Santi/ i Morti?

Il sonno eterno di Rosalia.

Non c’è Diritto a morire.

C’è Posto per te. Carissimo estinto.

Piangi che fa bene.

La musica per il funerale.

Si salvi chi può…ma prima la valigia.

Come capire quando una persona sta annegando e cosa fare per aiutarla.

I Resuscitati.

I morti nel 2019.

La Fine del Maggiolino Volkswagen.

È morto Andrew Dunbar, controfigura di Theon Grevjoy de «Il Trono di Spade.

Morta Sue Lyon, la scandalosa «Lolita» del film di Stanley Kubrick.

E’ morto Salvatore Pagano l’ultimo guardiano di Zannone: l’isola a luci rosse.

Suicida Ari Behn,  lo scrittore che accusò  di molestie Kevin Spacey.

È morta a 72 anni Allee Willis, cantautrice americana.

Morta l’attrice Anna Karina.

È morto l’attore Danny Aiello.

Addio a Marie Fredriksson, indimenticabile voce dei Roxette.

E’ morto Giuseppe Frigo, il maestro dei penalisti.

Morto Davide Vannoni, "padre" del metodo Stamina.

E' morto Pete Frates, l'inventore dell'ice bucket challenge.

Morto Paul Volcker,  il presidente della Fed.

Addio allo stilista Emanuel Ungaro.

Morta Florence Griffith, l’ex donna più veloce del mondo.

Morta Claudine Auger, Bond girl.

Morta Azzurra Lorenzini, cantante e conduttrice tv.

Morto Federico Memola, sceneggiatori del fumett: creò Zona X e Jonathan Steele.

Addio a Mario Sossi, il giudice rapito per un mese dalle Br.

Morto Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz.

La Roma piange Giovanni Bertini: morto per la Sla a 68 anni.

Morti gli arrampicatori Daniele Nardi e Brad Godbright.

Morto Vittorio Congia, caratterista del cinema.

Morto Bruno Nicolè, il più giovane marcatore della storia della Nazionale di Calcio.

Morto Elio Locatelli, sportivo d’altri tempi.

E’ Morta. Maria Baxa: bella star della commedia erotica.

Morta Elda Lanza, fu la prima presentatrice Rai.

E' morto Antonello Falqui, il papà del varietà televisivo.

È morta Maria Perego, la «mamma» di Topo Gigio.

È morta Maria Pia Fanfani.

È morto Fred Bongusto.

È morto Omero Antonutti, attore feticcio dei fratelli Taviani.

Marie Laforet rip.

E’ morto il produttore Robert Evans.

È morta l’Itala di Boris, Roberta Fiorentini.

E’ morto a settant' anni lo scrittore Nick Tosches.

E’ morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi.

E’ morto Harold Bloom: il fustigatore delle mode letterarie.

Come è morto Massimo Colonna, in arte Crash Kid?

È morto Manuel Frattini, il divo italiano del musical.

Morto Paco Fabrini. Fu il «figlio» di Tomas Milian.

Morto il poeta John Giorno, voce sperimentale della Beat Generation.

Se ne va Esmeralda Barros: “la mulata più famosa del pianeta”.

È morto Robert Forster, l'attore di Jackie Brown di Tarantino.

Si è spento l’attore Carlo Croccolo da Totò. Ha lavorato accanto Totò ed Eduardo De Filippo.

Morto il cosmonauta russo Alexei Leonov, il primo a "passeggiare" nello spazio.

Morto Ettore Spalletti, pittore e scultore, maestro dell'arte concettuale.

Morto Filippo Penati, dirigente del Pd, fu presidente della provincia di Milano.

Morto Beppe Bigazzi, volto de «La prova del cuoco».

Lionello Massobrio.

Addio a Michael J. Pollard, l'attore di Gangster Story.

Morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra.

Morta Adriana Spazzoli, moglie di Giorgio Squinzi.

Muore a Milano Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria.

Morto Guido Carandini. Deputato del Pci, chiese di cambiarne il nome.

Addio a Jacques Chirac:  l’ex presidente francese  morto.

E’ morto Barron Hilton.

Morto Charlie Cole, scattò la foto simbolo di piazza Tienanmen. 

Scaramucci, la voce libera che raccontava i mondi nuovi.

È morto il neofascista Stefano Delle Chiaie.

Morta Annalisa Cima, addio all’ultima Musa di Montale.

Morto l'attore Federico Palmieri.

Vaticano, morto  a 95 anni il cardinale Achille Silvestrini.

Carlo Delle Piane è morto a 83 anni.

Morto a Roma pm Antonio Marini, magistrato antiterrorismo.

Morto Giovanni Buttarelli, garante europeo della privacy.

Addio a Cosimo Cinieri l’avanguardia della Puglia.

Morta Ida Colucci, ex direttrice del Tg2.

Morto Richard Williams, il papà del coniglio Roger Rabbit.

Muore in bici Marcello Musso, pm del processo alla coppia dell’acido.

È morto Felice Gimondi.

Morto Peter Fonda.

Addio a Nadia Toffa. 

Ascesa e caduta di Jeffrey Epstein.

Piero Tosi. È morto il costumista premio Oscar.

E’ morto Fabrizio Saccomanni, ex ministro.

Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione sportiva.

Raffaele Pisu è morto.

E' morto Paolo Giaccio, l'inventore di Mister Fantasy.

Morto Jorge Hill Acosta y Lara, noto da noi come George Hilton.

Morto l’avvocato Carlo Federico Grosso.

È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner».

Addio all'ex presidente del Lecce Giovanni Semeraro.

È morta Ilaria Occhini

Morto Francesco Saverio Borrelli.

È morto lo sceneggiatore e regista Mattia Torre.

È morto Luciano De Crescenzo.

E' morto Andrea Camilleri.

Camilleri e Ceronetti.

Morto Alberto Sironi, regista tv del «Commissario Montalbano».

Addio a Valentina Cortese.

È morto l’attore Rip Torn.

È morto Ugo Gregoretti.

Eduardo Fajardo.

Morto il Mago Gabriel.

Zeffirelli se ne va.

Addio a Niki Lauda, leggenda della Formula 1.

È morta Doris Day.

È morto Gianluigi Gabetti. storico manager Fiat.

E’ morto Roberto Silva. presidente del gruppo di detersivi Italsilva che gestisce tra gli altri i marchi Chanteclair e Quasa.

E’ morto Vittorio Zucconi.

Gianni De Michelis è morto.

Morto Massimo Bordin.

Morto l’ex senatore Giuseppe Ciarrapico.

Morto Cesare Cadeo.

Addio a Giacomo Battaglia.

E’ morto Kenneth To.

Addio a Mario Marenco.

E' morto Pino Caruso.

È morto Keith Flint.

E' morto Luke Perry.

È morto Gabriele La Porta.

È morta Marella Agnelli.

Morto Alberto Rizzoli.

Muore Paolo Brera.

È morto Stewart Adams.

È morto Giuseppe Zamberletti.

Muore Fernando Aiuti.

Addio a Paolo Paoloni.

Gli attori famosi che (forse) non sapevi fossero morti.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

Il mancinismo e i miti da sfatare.

Le parti inutili del corpo. I rifiuti dell’evoluzione.

 

 

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

·         Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura?

Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura? Da Alfredino a Julen. Il caso di Julen ci riporta alla tragedia di Vermicino e al senso di terrore e di angoscia che ci prende in questi casi.

A Malaga, in Spagna, da domenica 13 gennaio si lotta, aggrappati a una flebile speranza, per salvare Julen Rossello: due anni e mezzo, caduto in un pozzo di 110 metri largo 25 centimetri. Forse quando leggerete queste righe già saprete se ce l’ha fatta o no. Ma le possibilità sono davvero poche, se ci riesce è un miracolo. In questi anni, dal famoso caso di Alfredino Rampi, che a Vermicino, vicino Frascati, il 13 giugno 1981 fu protagonista sfortunato di un simile caso, quanti bambini sono caduti in un pozzo con esisti alterni?

Una bambina di 5 anni, il 24 giugno 2012, cade in un pozzo di 25 metri a Manesar, vicino a New Dehli, in India. Dopo 86 ore la estraggono viva ma la corsa all’ospedale si rivela inutile, la bambina muore per le conseguenze della lunga permanenza in fondo al pozzo.

Il 3 luglio dello stesso anno, a Carpanzano (Cosenza), Matteo Bonacci, di 13 anni, cade in un pozzo rincorrendo una palla. Fortunatamente il ragazzo ce la fa e dopo un’ora e mezzo viene estratto con qualche graffio dalla sua prigione. La madre Adelaide Vigliaturo, lancia un appello agli amministratori, rimasto inascoltato come sempre, perché chiudano i pozzi ancora aperti e senza protezione che spesso si trovano in campagna.

Il 13 novembre del 2017 un bambino rumeno di 5 anni muore cadendo nuovamente in un pozzo a Corinaldo (Ancona).

Il 12 luglio dello scorso anno cade in un pozzo una bambina di 6 anni a Taviano, vicino Gallipoli (nel Salento). Fortunatamente giocava con un’amica e la tempestività dei soccorsi, e l’intervento dei Vigili del Fuoco, le salva la vita. Il pozzo questa volta si trova in un cortile e viene utilizzato per la raccolta dell’acqua. Era coperto alla meglio ma si sa, i bambini sono curiosi. La bambina è volata giù per otto metri, in un metro d’acqua, che ha attutito il colpo.

Si cade anche in un tombino lasciato aperto. Ma succede che si cada anche in un tombino di città. A Erba (Como) il 10 aprile dell’anno scorso, un uomo di 71 anni cade a testa in giù in un tombino, di quelli per le fognature, collocato in un tunnel dove si trovano i garage del condominio. La moglie s’è accorta dell’assenza del marito solo alcune ore dopo la tragedia. Troppo tardi per salvarlo.

A Cilavegna (Novara) l’11 dicembre, è un operaio di 53 anni a morire per le conseguenze di una caduta in un tombino, mentre tentava di leggere il contatore dell’acqua, evidentemente posizionato in maniera molto poco sicura.

Il 30 ottobre è successo a una contadina nuorese di 70 anni di cadere in un pozzo in campagna, località Sà Pauledda a Loculli. La improvvisa sparizione dell’anziana aveva messo in sospetto il nipote, che ha chiamato soccorso, purtroppo non c’è stato nulla da fare.

La cronaca è purtroppo un bollettino di guerra: Il 23 novembre a Oschiri (Sassari) muore un uomo di 84 anni. A Cocconato (Asti) un pensionato di 88 anni muore in un pozzo. A Lorenzana (Cascina - Pisa) il 7 gennaio di quest’anno muore un anziano di 91 anni: Antonio De Pietro.

Vermicino fu la prima tragedia mediatica Evidentemente anziani e bambini sono le vittime designate di queste cadute e si capisce anche perché. Quello che non si capisce è perché non si rispettano le norme di sicurezza e non vengono mai puniti i responsabili di simili tragedie. Quella di Alfredino Rampi, nel 1981, tenne inchiodati davanti alla tv 21 milioni di Italiani, nella speranza di veder uscire da quel buco nero il povero bambino. “Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte” disse Giancarlo Santalmassi, che curava uno degli spazi della diretta televisiva. Diciotto ore di televisione senza soluzione di continuità. La Rai allora non disponeva delle tecnologie adatte per dirette esterne così lunghe. In genere si usava la differita, anche per timori politici e per intervenire in tempo a tagliare quello che poteva disturbare l’ “editore di riferimento”, come lo chiamava Bruno Vespa. Una tragedia come quella di Alfredino avrebbe consigliato un maggior rispetto per le vittime e per gli stessi spettatori ma i giornalisti vennero presi in contropiede. Si pensò a un salvataggio rapido e spettacolare, in base alle dichiarazioni incaute del capo dei Vigili del Fuoco Elveno Pastorelli. Furono Emilio Fede (direttore del Tg1) e Antonio Maccanico (segretario generale della Presidenza della Repubblica) a esercitare pressioni per non interrompere le trasmissioni, sapendo che anche Sandro Pertini, il Presidente partigiano, stava per recarsi sul luogo.

La vicenda di Malaga dove si tenta di salvare il piccolo Julen Rossello sembra avere molte cose in comune con la tragedia di Vermicino. Le complicazioni che via via hanno contrassegnato le operazioni di salvataggio, ricordano quanto sia difficile raggiungere un essere vivente bloccato in fondo a un pozzo. L’instabilità del terreno, la difficoltà di aprirsi un varco laterale per le scosse che potrebbero far precipitare il piccolo ancora più giù, il terrore che cresce e la perdita di sensi che può intervenire in chiunque, in particolare in un bambino piccolo, solo, impaurito, forse ferito, dolorante, sofferente e spaventato. Sono stati mobilitati i minatori asturiani e anche l’impresa svedese (Stockholm Precision Tools AB) che localizzò e salvò i 33 minatori cileni nel 2010, per scavare un tunnel parallelo e uno trasversale, ma le speranze sono al lumicino. Trecento persone lavorano giorno e notte in turni da 100 ogni 8 ore, dandosi il cambio. Un esercito di ruspe ha sbancato la collina abbassandone la sommità di 25 metri per posizionare una piattaforma stabile che ospiti le trivelle pesanti tonnellate. Una “talpa”, che lavorava alla metropolitana, è stata mandata da Madrid, in tempi record, fino al villaggio di Totalàn, teatro della impresa di salvataggio. Tutto il villaggio è mobilitato per ospitare i soccorritori. Per gli scavi ora sono in pericolo di crolli anche le case degli abitanti di Totalàn. Tutti si sentono in dovere di dare più del massimo per salvare Julen, “che è come il figlio di tutti”. Come nel caso di Alfredino tutta la Spagna è col fiato sospeso. L’emozione si respira nell’aria, è palpabile. Il pensiero che un bambino di due anni e mezzo stia soffrendo in quel buco sotto terra non fa dormire, getta tutti nell’angoscia più profonda.

La paura del pozzo è in tutti noi. Perché il pozzo fa tanta paura? Perché il terrore di caderci dentro è sempre presente in noi e quando accade una paura acuta ci impedisce di essere razionali, ci blocca, ci atterrisce, presagendo il peggio e facendoci immedesimare in quel bambino in pericolo? Il pozzo, ogni pozzo, se ci pensiamo bene ci fa paura. Ci affacciamo ai bordi e guardiamo giù, spesso senza vederne la ne, per cui ci tiriamo una pietra per assicurarci che ci sia una ne… potrebbe non esserci, come fosse la porta di un antro infernale. Da bambini l’immaginazione corre. Un pozzo fa pensare a cose orribili sul suo fondo. Potrebbero esserci dei cadaveri. Qualcuno che c’è caduto o qualcuno che ci sia stato gettato.

Anche nella tragedia di Avetrana, Sarah Scazzi venne uccisa e gettata nel pozzo, ricordate? Lo confessò mentendo lo zio, poi risultato solo complice dell’omicidio. Nei pozzi che si trovano in campagna, abbandonati, sale dal fondo un odore di umidità misto a marcio… quasi una putrefazione, che lascia pensare a esseri viventi morti, forse animali che ci sono caduti. La tecnica di caccia, scavando un’enorme buca, poi coperta e nascosta, è stata utilizzata in molte culture, da quelle primitive ai giorni nostri. Era anche una tecnica usata dai vietcong contro gli americani. Dei pali di bambù acuminati venivano posti in verticale sul fondo del pozzo e chi vi cadeva ne restava inesorabilmente infilzato a morte. La storia è piena di questi riferimenti. Le foibe altro non erano che grotte carsiche profonde metri e metri e dalle quali era impossibile risalire. A centinaia vennero spinti lì dentro coloro che la malvagità della guerra vedeva come nemici. La stessa cosa è accaduto in tante altre guerre, anche recentemente. I pozzi, le grotte, le buche, possono nascondere cadaveri.

Cos'è un pozzo se non un buco nero? Sono paure ancestrali che albergano in tutti noi. La paura del buio, dell’antro oscuro, della solitudine e del pericolo. Ogni volta che si apre una voragine, come se ne sono aperte anche a Roma negli ultimi anni, oltre alla esecrazione per l’incidente che evidenzia lo stato di incuria, in cui versa il sottosuolo della città, il fatto lascia in noi, nel nostro animo, una sensazione di ribrezzo, di orrore, al pensiero che potevamo esserci caduti dentro. La paura del buio e di restare soli è quella che ogni bambino prova quando deve andare a dormire in camera sua, nel suo lettino. Per questo spesso si lascia una lampadina accesa, lo si fa addormentare raccontando una fiaba, lasciandolo poi col bacio della buona notte e l’assicurazione: “Sono qui vicino!” Ma nella grotta e nel pozzo il bambino è solo per davvero e non abbiamo la certezza di come poterlo salvare e forse anche lui se ne rende conto. In “Poltergeist” di Steven Spielberg, regia Tobe Hooper, la biondissima bambina Carol Anne subisce il richiamo dall’aldilà dell’entità maleca. Tanto più la bambina è bionda, piccola, carina quanto più contrasta con la malvagità di chi vuole sottrarla ai genitori. Un vortice di fumo l’attira e la risucchia, portandola in una dimensione sconosciuta, come un “buco nero”. Cos’è un pozzo se non un buco nero? E qual è il tramite di contatto tra la realtà della bambina e l’al di là? Quel geniaccio di Spielberg sa usare l’ironia come nessuno: il televisore! E lì che si annida il maleficio… Giustamente un “cinematografaro” non poteva che esprimere così il suo profondo odio per la tv vista come il pozzo nero. Nel film la mamma sente la voce ma non può sapere dov’è la glia e che pericolo corra. Proprio come i bambini nel pozzo. Si sente il bambino piangere, chiamare aiuto. Ma questo lacera ancora di più il nostro animo e ci fa sentire più deboli, incapaci di aiutarlo. Forse i pozzi nelle campagne un giorno saranno coperti per via dei provvedimenti di amministratori efficienti. Forse riusciremo a far in modo che i nostri anziani non debbano cadere nei tombini lasciati aperti incautamente, ma non ci libereremo mai della paura del buio e del buco nero, porta degli Inferi e di demoniache presenze. Con queste paure dovremo sempre convivere e ci sarà sempre un Alfredino piangente che ci chiederà aiuto. Un essere indifeso, solo, che chiede aiuto e per il quale sarà sempre più duro voltarsi dall’altra parte. Di queste voci ultimamente se ne sentono parecchie, magari non dal fondo di un pozzo, ma dal mare si… ma sembra che gli Italiani, gli Spagnoli e gli Europei tutti non ci sentano...

·         I Posti maledetti.

L’ATLANTE DELLA SFIGA. Giuseppe Marcenaro per “Il Venerdì di La Repubblica” il 18 agosto 2019. D’altra parte non è una novità. L’umano, per sentirsi vivere, anziché farsi coinvolgere dalla serenità vagheggia di sprofondare nella paura. Nel brivido. E così si inventa situazioni e luoghi da costeggiare con terrore. La cosa sorprendente è che angoli del pianeta in apparenza tranquilli, lande di ondulati declivi, coste di fascinoso marezzare, possono mutare in orrorifici paesaggi. Magari a causa di un dettaglio. Per colpa essenzialmente di un’effrazione del pensiero, colpa di una vecchia storia malintesa, raccontata da qualcuno in vena di recare presunti misteri, suscitati dalle insondabili profondità del tempo. Quest’è la bizzarra sensazione, non certo di paura, semmai di curiosità senza tremor panico, che si prova sfogliando un libro, giustissimo per il tempo nostro, in cui l’eccezionale, l’ammirabile, il freak, è di modaiola vocazione, sollecitata più da un diffuso strabismo mentale che dalla realtà. L’andar cercando l’eccentrico per sorprendere. Quando poi ogni cosa e ogni storia sono di banalità disarmante. Esempio di questo gioco a rimpiattino con misteri diffusi e brividi, l’Atlante dei luoghi maledetti, di Olivier Le Carrer (Bompiani). È un calepino che inventaria luoghi spaventagente con un florilegio di situazioni eccentriche sparse per i cinque continenti. Veramente l’imbarazzo della scelta. Intanto per chi volesse visitare, territori, angoli romiti e situazioni insolite. Al contrario, soprattutto a uso dei pavidi, farsi venire la pelle d’oca semplicemente girando le pagine. E scoprire come certi luoghi scomodi, plaghe celebrate per dubbia fama, edificate dal ron ron del passaparola, somiglino in realtà, più che a scenari infernali,  a scalcinati teatri stabili di orrori tutti mentali. Insomma niente di vero. Soltanto cervelli sgomentati dall’autosuggestione. L’Atlante dei luoghi maledetti ce la mette proprio tutta e esibire luoghi sotto le più sinistre e tenebrose luci loro. Angoli di mondo deprecati tanto per cattiva fama, quanto perché, per imperscrutabile fatalità, proprio lì vi si è perpetrato qualche efferato delitto. Mutando di fatto un angolo di mondo sereno in scenario emanante iettature tragiche. Perciò celebrato a eterna ignominia. Al di là dello sproloquiare donde s’origini la paura, compagna imperitura del volgere dell’esistenza nostra, con un necessario rosario di scongiuri, viene spontaneo chiedersi se, d’esempio, la notissima valle dei Re, nel profondo Egitto, meta di battaglioni di turisti infoiati, debba veramente considerarsi un luogo maledetto. Soltanto per il fatto che, si torca quanto si voglia, è un cimitero. Che ospita gente d’alto lignaggio. Notoriamente faraoni. Comunque sempre cimitero è. Con le tombe archeologicamente siglate. La sua malandrina fama, l’egizio sito,  la deve non soltanto all’essere oggi uno dei luoghi più celebrati dell’antichità ma soltanto perché ospita un sepolcreto individuabile con la sigla KV62. Fosse vivo il Belli starebbe lì a dire: «KV62? E che ha da esse? La tomba de Tutankamme!». È colpa del faraone fanciullo se quel luogo di pace eterna viene additato tra i maledetti. Una leggenda ingrata perseguita il povero Tutankhamon. Per qualche delirio della sorte si tirò addosso tutti gli universali anatemi e scongiuri perché un po’ di quelli che ne rinvennero la tomba ed ebbero a che fare con la sua mummia e i sontuosi arredi funerari – soprattutto la celeberrima maschera d’oro –  conclusero l’esistenza loro con morti inspiegabili. D’altra parte tutte le morti, in un modo o nell’altro, sono inspiegabili. La morte medesima lo è. Eppure l’ultima dimora del faraone bambino si è guadagnata l’impronta di sito maledetto. E quale colpa hanno i poveri pipistrelli della specie Eidolon helvum, volgarmente pipistrelli della frutta paglierino, se la loro presenza induce a deprecare il luogo al quale approdano nella loro migrazione? In effetti arrivano a nuvole e oscurano il cielo del parco nazionale di Kasanka in Africa. I pipistrelli sono descritti con un musetto canino e denti affilati. Mica però si avventano alla gola di chi passa per il parco per succhiargli il sangue. Sono pipistrelli vegetariani: «Trecentomila tonnellate di frutta spariscono ogni anno durante la razzia». Da che mondo è mondo, il ciclo naturale. Il volgere delle stagioni, delle migrazioni. Questi vampirini della frutta saranno guardati con occhio torvo, magari temuti. Al fondo però non si può negar loro una certa qual simpatia. Eppure il baedeker stabilisce che il parco nazionale di Kasanka sia maledetto. Come maledettissimi i ruderi di torri e castelli tipo quello di Montségur, conosciuto anche come cittadella della vertigine, con tutto il profluvio della universale palla del Santo Graal; e quello di Tiffauges dove con un balzo di soprassangue la memoria corre a Gilles de Rais, in arte Barbablù, con la notissima solfa delle sette mogli spiaccicate sulle pareti di una stanza segreta. Fatalmente ciò che non si spiega o non si comprende merita l’attributo di maledetto: il villaggio fantasma di Roccasparviera nel Sud della Francia. Anche Norimberga: città maledetta poiché culla del nazismo. Ma non è stata la capitale dei giocattoli? Luogo di vertiginoso incubo spirituale, secondo l’Atlante della sfiga, quale dovrebbe essere se non il Golgota? Con tutto ciò che da quelle parti è successo. Il catalogo delle sventure procede con impietosa costanza. S’effonde verso Kibera, Kenya, dove pare sussista una «cloaca non repertoriata: un luogo di cui i cartografi ne sanno così poco che preferiscono dimenticarlo». Farebbe il paio con Zapadnaya Litsa, definita l’autentica «anticamera dell’inferno», non soltanto a causa delle spaventose condizioni climatiche e dell’interminabile notte polare. Il luogo sta all’estremo nordovest della Russia e sembrerebbe lo scenario più adeguato agli amanti della natura selvaggia. È che negli anfratti di un profondissimo fiordo pare vi sia il deposito di tutti i sommergibili e testate nucleari andate in disuso, ferraglie dismesse dalla disciolta Unione Sovietica. E poiché sul maledettissimo pianeta non ci si può far mancare niente, il rigoglio del terrore sta in certe isole sperdute dove sembra avvenga l’iraddiddio, un incubo tropicale con un nome simbolicamente tranquillizzante: Isola Europa. E poi il golfo di Aden con le moderne marmaglie dei pirati; le lagune avvelenate di Thilafushi nell’arcipelago delle Maldive; l’Houtman Abrolhos, meglio interpretabile come l’arcipelago del massacro: luogo di naufragi plurimi. E come farci mancare le onde maledette al largo di Half Moon Bay, a a sud di San Francisco? E per buon peso i maledettissimi triangoli: quello del Nevada dove pare siano spariti oltre duemila aerei nel corso degli ultimi cinquant’anni. E tutto a mezz’ora di macchina da Las Vegas. Non poteva certo mancare il più classico dei triangoli. Quello delle Bermuda, troppo noto per tentare d’evocare cosa vi succeda. Peccato che, alla fine di una moltitudine di punti geodetici sfigati, a questo salutare Atlante manchi una informazione essenziale. Le coordinate marine dove trovò il suo nefasto destino il Titanic. A proposito di maledetta scalogna.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO E DI FERRAGOSTO.

Storia (e inutilità) dei botti nella tradizione di Capodanno. In una sola notte, i botti esplosi tra Posillipo e Capo di Sorrento rilasciano una quantità di diossina pari a quella prodotta in un anno da 120 inceneritori. Stesso scenario a Londra. Dal 2013 in Italia non ci sono più morti ma sono in aumento in feriti, scrive Marco Demarco il 29 dicembre 2018 su Il Corriere della Sera. È il 31 dicembre 1958 e Lenù e Lila, le protagoniste dell’Amica Geniale di Elena Ferrante (nella foto nella fiction Rai) stanno assistendo ai botti dal terrazzo, mentre i Carracci e i Solara si affrontano a colpi di razzi e tric trac. I Solara poi passano dalle botte a muro alle pistole. I botti di Capodanno sono, per dirla con Elena Ferrante, una rovinosa «smarginatura». Un fenomeno da riportare nei margini. Materia per una spending review degli usi e dei costumi. Guardiamo i fatti. Dovrebbero segnare il passaggio da un «prima» opaco a un «dopo» luminoso. Invece, proprio perché spostano tutto sulle aspettative piuttosto che sull’agire, il più delle volte accompagnano un trapasso illusorio, se non addirittura tragico. È ciò che avviene nei capitoli centrali de L’amica geniale o nella fiction di Saverio Costanzo (andate a rivedere quelle scene su Rai play, sono di assoluta attualità simbolica). Il 31 dicembre del 1958, dunque, mentre i Carracci e i Solara si affrontavano a colpi di razzi e tric trac, «in mezzo ad esplosioni violentissime, nel gelo, tra fiumi che bruciavano le narici e l’odore violento dello zolfo», Lila avvertì che ogni margine di umanità stava cedendo, e che anche i suoi «diventavano sempre più molli e cedevoli». I Solara erano passati dalle botte a muro alle pistole. Da espressione di gioia, e poi di potere, cioè di sfida, i petardi erano diventati preludio di violenza. Una metafora neanche tanto esagerata, se su Facebook, nella stessa Napoli, ma sessant’anni dopo, finisce una foto con una lei in minigonna di latex e pistola in pugno, stile Gomorra, e un lui sul balcone a brindare. Ambientalisti, animalisti, buonsensisti. Tutti dovremmo lasciare i botti illegali sulle bancarelle fuorilegge e moderare l’uso di quelli consentiti. Invece, dicono gli esperti, in una sola notte, i botti esplosi tra Posillipo e Capo di Sorrento rilasciano una quantità di diossina pari a quella prodotta in un anno da 120 inceneritori. Ma anche a Londra, nel 2000, i fuochi per le celebrazioni del millennio immisero nell’aria più veleni di quanti, in un secolo, ne avrebbe potuto produrre un ipotetico inceneritore europeo. Ogni anno, poi, spaventati dal rumore che avvertono più degli umani, muoiono almeno 5.000 animali, e di questi, specifica il Wwf, circa l’80% sono selvatici, soprattutto uccelli. Il che vuol dire che per il resto nel conto ci sono anche i nostri Trilli e Briciola. Tra gli umani, le cose vanno meglio. Ma non bene. Dal 2013 non si contano più morti, ma aumentano i feriti, e cresce il numero dei bambini coinvolti. A Milano, Brescia, Torino, Bolzano: gli ospedali vanno in tilt ovunque. E cioè avviene nonostante divieti e ordinanze. Del resto, può la sola legge frenare chi usa i petardi proprio per «smarginarla»? Ovunque chi ricorre ai fuochi di fine anno lo fa per esorcizzare le proprie paure. Gli antichi li usavano per contrastare demoni e spiriti maligni. E i Romani legarono i rituali d’inizio del nuovo anno al dio Giano, in latino Ianus, da cui deriva il nome di gennaio, il primo dei mesi. Ma a Napoli c’è forse un di più. Quell’attaccamento all’ispirazione panica della natura che qui Ungaretti nota durante un suo viaggio nel Mezzogiorno sembra una costante nel tempo. Resta anche quando lo stesso popolo diventa prima democristiano e poi «di sinistra». E nulla si è fatto per modificare le cose. Lo notò per primo Edmondo Berselli. Com’è — si chiese al tempo di Bassolino — che dal considerare le lacrime delle Madonne episodi di bigotteria a favore della Dc, nella campagna elettorale del 1948, si passò al San Gennaro «santo sociale», simulacro del Sud caldo, profondo e progressista? Non aveva letto Fabrizia Ramondino. Può succedere, spiegò, perché a Napoli le bombe alleate o nazifasciste venivano dal cielo e contro di esse ci si rifugiava sotto terra; mentre le scosse del terremoto venivano da sottoterra e ci si rifugiava all’aria aperta. Tradita dal cielo e dalla terra, la città ha continuato a invocare i miracoli contro la sorte, e a praticare i suoi esorcismi. In fondo, la città tradita non ha fatto altro che ispirarsi a uno dei personaggi di Voci di dentro di Eduardo. Nonostante non sia muto, infatti, zi’ Nicola decide di non parlare più, perché ritiene che l’umanità abbia perduto ogni ritegno. Solo ogni tanto «parla» sparando tric trac. Ma perché i napoletani continuano a sparare? Per «fare i napoletani», direbbe La Capria. Per compiacersi e compiacere. O, forse, per rimuovere con la potenza dei fuochi quel senso di impotenza che viene quanto guardi la città. Ancora così bella, ma ancora così imperfetta.

Buon Ferragosto! (Ma perché si festeggia? Ve lo spieghiamo noi). Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Corriere.it. Anche quest’anno, eccoci arrivati a Ferragosto (nota importante: domani i giornali non saranno in edicola, li ritroverete sabato; oggi invece il Corriere ha un numero speciale, con «Corriere Salute» e «7»). Ma perché si festeggia questa giornata, con cene in spiaggia o gite fuori porta? Cosa significava in origine questa ricorrenza? La giornata ha origini risalenti al periodo romano e al calendario pagano: il termine deriva dal latino feriae Augusti, periodo durante il quale i romani si astenevano dai raccolti. Il nome significa «riposo di Augusto», in onore di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano, da cui prende il nome il mese di agosto. E’ stato proprio lui a istituire una giornata di festa nel 18 a.C. che andava ad aggiungersi ai Vinalia rustica e ai Nemoralia, feste che nel mese di agosto celebravano i raccolti e la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, che nella religione romana era il dio della terra e della fertilità. In questo modo, si concedeva al popolo un meritato periodo di riposo dopo le grandi fatiche delle settimane precedenti. Anticamente, il Ferragosto veniva celebrato l’1 agosto con corse di cavalli, feste, decorazioni floreali, ma i giorni di pausa erano molti di più, tanto che si arrivava fino al 15 di agosto. È stata la Chiesa cattolica a spostare i festeggiamenti a questa data, assimilando la festa pagana intorno al VII secolo, quando è stata fissata al 15 agosto, giorno in cui si celebra la festività dell’Assunzione di Maria. Sarebbe questo il giorno in cui la Vergine venne accolta in cielo sia con l’anima che con il corpo, simboleggiando la morte e la rinascita. Molte delle tradizioni diffuse ancora oggi nella giornata di Ferragosto derivano proprio da questi antichi significati. 

Nelle Marche c’è la tradizionale (dal 1182) Cavalcata dell’Assunta di Fermo: tra cortei in costume, celebrazioni religiose e tornei sportivi.

In Sardegna merita attenzione la Faradda de li candareri, nel cuore di Sassari: una processione religiosa che deriva da un voto fatto alla Madonna nel 1652, che avrebbe successivamente salvato la città dall’arrivo della peste, al tempo la principale causa di morte del territorio europeo. Nel 2013, l’Unesco ha inserito la celebrazione nel Patrimonio orale e immateriale dell’umanità. 

Non mancano poi i festeggiamenti in giro per il mondo. Da Madrid, con la festa della Paloma, al Canada con l’Acadian day, fino all’Irlanda con la «Féile Mhuire ‘sa bhFomhar». E non bisogna dimenticare che il 15 agosto in India si festeggia l’indipendenza del Paese, ottenuta nel 1947. Paese venne allora diviso in due stati: l’attuale India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana. L’India divenne formalmente una repubblica soltanto il 26 gennaio 1950, quando entrò in vigore la nuova Costituzione: tra il 1947 ed il 1950 il capo di stato del Paese rimase il sovrano britannico.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

·         Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo.

Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo, senza far pagare il conto ad altri. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Da Gandhi a Rosa Parks, da Jan Palach a Bobby Sands, fino al ragazzo che fermò i carri armati a Pechino. Nell’Alabama, cambiò la storia la sartina Rosa Parks, a Danzica l’elettricista Lech Walesa, a Praga lo studente Jan Palach. E tanti altri, in altri Paesi. Non piegarono la schiena, scelsero di non tollerare l’ingiustizia. «Scelsero»: cioè praticarono l’unico vero diritto che un essere umano abbia su questa terra, il libero arbitrio. Conobbero certo la paura, come tutti, ma non le permisero di umiliarli. Furono la smentita vivente del detto manzoniano: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Se furono condizionati dalle circostanze storiche in cui vissero, come tutti lo siamo, non ne furono però prigionieri. Non avevano eserciti né ricchezze dietro di loro. Non predicavano la salvezza del mondo. Ma la dignità dell’individuo, di ogni individuo. Alcuni di loro furono dimenticati per dieci, venti, trent’anni. Ma non scomparvero mai del tutto, sono diventati simboli più forti della macina del tempo. Il loro esempio scorre, come certi rivoli carsici che non perdono mai la loro energia nascosta. Basta saperli trovare, e ascoltare il loro scrosciare. Sophie Scholl aveva 22 anni quando fu decapitata il 22 febbraio 1943, dalla lama d’acciaio pesante 15 chili della ghigliottina della prigione di Monaco di Baviera. Scarabocchiò dietro il foglio della sentenza una parola: «Freiheit», «Libertà». Motivazione della condanna: aver seminato nelle strade migliaia di volantini anti-nazisti, aver vergato sui muri «Hitler assassino del popolo». E aver scritto: «Niente è più indegno di una nazione civilizzata, che lasciarsi governare senza alcuna opposizione da una cricca che fa leva sugli istinti più elementari… Il danno reale è fatto da quei milioni di cittadini onesti che vogliono solo essere lasciati in pace... Copiate e diffondete». Sophie era una studentessa di filosofia dal volto anonimo. Lei, il fratello Hans e altri avevano fondato un piccolo gruppo, «La rosa bianca», dal titolo di un racconto di Clemens Brentano, scrittore del Romanticismo tedesco autore di poesie e canzoni contro Napoleone. I loro volantini, 7 in tutto, usciti da un vecchio ciclostile rivelarono già nella prima fase della guerra: «Da quando la Polonia è stata conquistata, 300.000 ebrei sono stati massacrati in quel Paese, nella maniera più bestiale». Questo, secondo alcuni storici, fu la prima denuncia all’Olocausto in terra ed epoca nazista da fonti tedesche. Nessuno, fra coloro che trovarono quei volantini, poteva più giustificarsi affermando: «Non sapevo». E quei fogli dicevano anche altro: «Il tedesco non deve sentire semplicemente pietà: egli deve sentire la colpa. Ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole! (sottolineato tre volte, ndr)».Sophie e i suoi compagni furono arrestati quando il bidello che li conosceva da tanti anni li denunciò alla Gestapo. Ma Traudl Junge, l’ultima segretaria personale di Hitler, la fedelissima che raccolse il suo testamento e scrisse «ero troppo giovane per capire», alla fine della vita annotò nei suoi diari: «Un giorno ho notato la targa alla memoria Sophie Scholl in Franz Joseph Strasse a Monaco, e quando mi sono resa conto che quella ragazza è stata giustiziata nel 1943, ne sono stata profondamente scioccata. Anche Sophie Scholl all’inizio era stata una ragazza del Bdm (Lega delle giovani tedesche, ndr), di un anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale. La mia scusa perdeva ogni consistenza». Un uomo può sconfiggere un impero, e nello stesso tempo essere tormentato dalle paure. Gandhi temeva il buio, i serpenti, i fantasmi. Ed era anche pieno di contraddizioni. Churchill lo aveva definito «un fachiro seminudo, nauseante». Da adulto, con il voto del «brahmacharya», rinunciò al sesso, ma da ragazzo era stato divorato da una vera ossessione sessuale per la moglie quattordicenne Kasturbai. Un giorno che aveva il padre morente fra le braccia, quando questi si assopì, corse subito dalla moglie-bambina, la svegliò per fare l’amore. E nel frattempo, il padre morì: «La vergogna era la vergogna del mio desiderio carnale perfino nel momento tragico della morte di mio padre». Ma non sono i dettagli biografici a fare la storia. Molto più conta l’ammirazione da lontano di Churchill — proprio quel Churchill che di Gandhi si era fatto beffe — per il Mahatma che abbracciava anche gli «intoccabili». Alla fine, il «fachiro semi-nudo, nauseante» vinse nel 1947 l’impero britannico, che dominava su 412 milioni di persone, con le sue marce pacifiche e digiuni a oltranza. Sempre in prima fila, non mandò altri al suo posto. Gli estremisti indù lo chiamavano codardo e traditore. Ma le loro bombe non scalfirono l’impero di Londra. E furono loro nel 1948, ad uccidere Gandhi. Lui si era detto pronto a dare l’unica cosa che poteva dare: la sua vita. E così fece.Rosa Parks era una sartina di 42 anni, e il primo dicembre del 1955 aveva preso l’autobus per tornare a casa dal lavoro. La Corte dell’Alabama aveva appena stabilito che la segregazione razziale violava la Costituzione. Quel giorno l’autobus era affollato, e Rosa si era seduta come sempre nella prima fila riservata ai neri, ma l’autista James Blake le aveva ordinato di cedere il suo posto a un bianco, rimasto in piedi. E lei rispose: «No». Fu arrestata, licenziata. La comunità nera di Montogomery indisse il boicottaggio degli autobus, una cosa mai prima accaduta. Durò per mesi. Nel frattempo, la comunità elesse come capo un giovane di nome Martin Luther King. Nel 1956 la Suprema Corte confermò l’incostituzionalità della segregazione razziale sugli autobus. Rosa morì a 92 anni, prima donna americana della storia a ricevere onoranze funebri nel Campidoglio. Nel 1963, il Sud Vietnam buddista era governato da un aristocratico della minoranza cattolica, Ngô Đình Diem, finanziato dagli americani. La guerra civile era già iniziata. E i monaci buddhisti, che guidavano la cultura del Paese ma erano seguaci della non violenza, pregavano e stavano a guardare passivamente. Finché uno di loro, l’abate Thich Quang Duc, capo della principale pagoda di Saigon, non si immolò per protesta contro la repressione anti-buddhista, la corruzione e l’asservimento del Paese agli Usa. Aveva 66 anni, apparteneva alla corrente buddhista Mahayana che vieta il suicidio. Ma si sedette ugualmente su un cuscino nel centro di Saigon, lasciò che due confratelli gli versassero sul corpo un bidone di benzina, e poi accese da solo il fiammifero. Impiegò 10 minuti a morire, immobile, senza un lamento. L’immagine del suo saio arancione in fiamme fece il giro del mondo, e milioni di persone divennero consapevoli di una guerra e una repressione fino a quel momento pressoché ignorate. Era l’11 giugno 1963. La guerra del Vietnam sarebbe finita solo nel 1975, ma la sua fine simbolica era cominciata con il suicidio del bonzo. «Come un solo fiammifero può accendere una rivoluzione», titolò anni dopo il New York Times.Sei anni dopo, da questa parte del mondo, qualcun altro scelse il fuoco per rivendicare la libertà del suo popolo. «Io sono la torcia numero uno», scrisse a 19 anni Jan Palach, nella lettera che lasciò agli amici. Fino ad allora era stato uno studente universitario timido, appartato. Il 19 gennaio 1969, in piazza san Venceslao nel centro di Praga, si versò addosso un bidone di benzina per protestare contro la censura filo-sovietica sulla stampa. Sembrò un sacrificio inutile, il suo, il regime ne occultò persino la tomba. Ma vent’anni dopo, il 17 novembre 1989, mezzo milione di persone riempì la piazza san Venceslao, là dove la torcia si era accesa. Gridavano «Svoboda», «libertà». E «Palach, Palach!». Non avevano dimenticato quel nome. Lo stesso che, nell’estate precedente, l’astronomo Lubos Kohoutek — poi andato in esilio — aveva attribuito a un asteroide che aveva appena scoperto: «Palach 1834». Poche settimane dopo la manifestazione di piazza San Venceslao, lo scrittore dissidente Vaclav Havel — appena reduce dal carcere — fu eletto presidente dell’Assemblea Federale. Ad Est il mondo stava cambiando, e la Cecoslovacchia era tornata nell’Europa libera. Anche nel nome di Jan.Non voleva indossare l’uniforme del detenuto, Bobby Sands. Voleva che il Regno Unito britannico lo rispettasse come prigioniero politico, patriota della «sua» Irlanda repubblicana. Aveva 27 anni, era un militante del gruppo armato dell’Ira. «Armato», appunto, e infatti Sands fu imprigionato per detenzione illegale di 4 pistole. Ma nel 1981, lui (ed altri 9 compagni detenuti) divenne veramente pericoloso per Londra quando scelse un’ arma più potente, la stessa di Gandhi: lo sciopero della fame. E proprio com’era avvenuto a Gandhi, molti altri militanti non li capirono, li criticarono. Sands morì dopo 66 giorni di digiuno. Margareth Thatcher rifiutò sempre di negoziare con lui. Però, nel 1998, Londra e Dublino firmarono l’«accordo del Venerdì Santo». E le due Irlande ebbero vent’anni di pace. Forse, la morte di Bobby non era stata inutile. Anche se ora, con l’ombra della Brexit che incombe, tutto potrebbe tornare tragicamente in ballo. Secondo molti storici, l’uomo che diede il primo scossone al blocco comunista sovietico è stato Lech Walesa. Un giorno sarebbe diventato premio Nobel per la Pace, e capo dello Stato. Ma all’inizio era solo un elettricista nato in un villaggio minuscolo della Polonia. Da ragazzo Walesa aveva visto la gente schiacciata dai carri armati a Poznan, nel 1956. Nel 1980, con pochi amici fondò «Solidarnosc», primo sindacato libero del mondo comunista. Fu licenziato, e arrestato. Guidò gli altri allo sciopero generale, contro l’aumento dei prezzi alimentari, a mani alzate, fermando chi cercava la violenza. Diceva: «Temo solo Dio. E mia moglie…qualche volta». Avevano 8 figli, ma lui non aveva mai detto «tengo famiglia». Rischiò tutto. E convinse milioni di altri — non eroi, né santi — a rischiare con lui. Certo, c’era il papa polacco e il vento stava cambiando, ma senza il suo coraggio la storia europea avrebbe avuto un altro corso e altri tempi. Oggi è un pensionato qualsiasi. Ha scritto una volta: «Chiunque cerca di fermare con le mani le ruote della storia avrà le dita spezzate». Vissute in epoche diverse, queste persone hanno avuto in comune tre cose: il coraggio, uno sguardo visionario oltre il quotidiano, la volontà di assumersi una responsabilità personale incondizionata. La stessa che ha spinto quel ragazzo cinese a fermare il carro armato in Piazza Tienanmen a giugno del 1989. Nessuno sa che fine abbia fatto, e nemmeno dove sia finito il soldato che alla guida del blindato si rifiutò di «tirare dritto”. Ma l’esercito cinese non è riuscito a seppellirne la portata simbolica, che oggi potrebbe materializzarsi fra i milioni di manifestanti di Honk Kong. E l’esito stavolta potrebbe essere ben diverso.

La lezione di Gandhi, simbolo della lotta pacifista. Valter Vecellio il 12 ottobre 2019 su Il Dubbio. 150 anni fa nasceva il padre dell’India moderna. L’iconografia che ci hanno consegnato è in alcune immagini: lo si vede scheletrico, sommariamente avvolto in un lenzuolo: lavora all’arcolaio, oppure e’ disteso su un lettino di fortuna, impegnato in uno sciopero della fame; piccolo di statura, cranio rasato, occhialini tondi, scuro di pelle… cosa conosciamo esattamente di Mohandas Karamchand Gandhi? Poco, tutto sommato. Perfino la causa di cui è stato maestro e apostolo: quante volte si legge “non violenza” staccato, mentre lui raccomandava di parlare e scrivere “nonviolenza” come un’unica parola, perche’ non la intendeva come negazione, ma come termine a sé? Perfino il nome, spesso, si storpia; fateci caso: Ghandi, invece di Gandhi. Nasce a Portandar, città costiera nella penisola del Kathiawar 150 anni fa ( 1869). Viene ucciso il 30 gennaio del 1948: è appena trascorso un anno dalla proclamazione d’indipendenza dell’India; dell’India moderna è il padre, o meglio il suo Mahatma: la “Grande anima”. Fulminato con tre colpi di pistola esplosi da un giovane fanatico nazionalista indiano, Nathuram Godse. Sono le cinque del pomeriggio; Gandhi è assorto in preghiera. Godse riesce a fuggire. Lo catturano un anno dopo; processo e condanna a morte, eseguita. A pensarci, uno sfregio alla memoria di Gandhi, che aveva dedicato tutta la sua vita, il suo “fare” e la sua dottrina alla nonviolenza, all’imperativo del non uccidere. Cercare di concentrare la sua vita, intensa e ricca, le sue esperienze formative in Sud Africa e in Regno Unito, in poche righe, sarebbe ingiusto oltraggio. E’ stato uno dei pionieri e dei teorici attivi del “satyagraha”, letteralmente dal sanscrito: “insistenza per la verita’”; “satya”, ovvero: verita’; “ahimsa”, “nonviolen- za”. La sua arma: la disobbedienza civile, pronto a pagarne le estreme conseguenze: processi, condanne, carcere; e la resistenza passiva all’oppressione e alla ingiustizia. Così ha ispirato movimenti di difesa dei diritti civili, e personalità come Martin Luther King, Nelson Mandela, Cesar Chavez, Adolfo Maria Perez Esquivel, Aldo Capitini. In India, Gandhi è riconosciuto come ‘ Padre della nazione’; il giorno della sua nascita è festa. L’ONU ha dichiarato quel giorno “Giornata Internazionale della nonviolenza”. Al regista Richard Attemborough si deve essere grati per aver realizzato, nel 1982, un meritatamente celebre film su Gandhi interpretato in modo superbo da Ben Kingsley. Grazie ad Attemborough milioni di persone hanno conosciuto la summa del pensiero gandhiano: «Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere. Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto a uccidere. La paura può servire, ma mai la codardia». In Gandhi si condensa teoria e prassi; in sostanza la sua “filosofia” prescrive che si debba partire da se stessi per compiere la “rivoluzione” che si auspica e per la quale si lotta. C’e’ poi il metodo: la nonviolenza, che si può spingere all’estremo: essere disposti a essere uccisi piuttosto che farlo. C’è poi la comprensione della natura umana: è insensato non aver paura; è normale. Ma si ha il dovere di cercare di vincerla, quando si è profondamente convinti della giustezza di una causa. Un nome si trasforma in simbolo quando lo si può usare come aggettivo. È il caso di Gandhi. Dici gandhiano, e c’è necessità di spiegazione. Gandhiano sta a nonviolenza come un assioma; da intendere in positive: affermazione di “proposta” e non “protesta”, come spesso amava sottolineare Marco Pannella, che pure era animato da una nonviolenza di matrice più anglosassone e pragmatico: quel filone che si snoda da Henry David Thoureau ( autore del celebre Disobbedienza civile), a Martin Luther King, fino a Bertrand Russell. Per quel che riguarda Gandhi, e comprendere l’essenza del suo pensiero, oltre ai libri che ci ha lasciato, importante è scandagliare i profondi rapporti che ebbe con Leone Tolstoi; per questo aspetto, giungono in prezioso soccorso Piero Cesare Bori e Gianni Sofri, autori di numerosi studi e curatori dei carteggi tra i due. Per quello che ci è dato di sapere, c’è un solo partito che ha assunto quale suo simbolo il volto di Gandhi: il piccolo ( numericamente parlando) Partito Radicale, che nella sua dizione estesa, aggiunge: “Nonviolento, transpartito, transnazionale”. Marco Pannella decise di adottare come simbolo l’effigie di Gandhi, perché in quell modo intendeva condensare una serie di obiettivi politici: diritto umano e civile alla conoscenza, presupposto fondamentale per essere cittadini e non sudditi; diritto al diritto e a una giustizia certa, presupposto fondamentale per non essere servi, ma parte consapevole di una collettività. Per tornare a Gandhi e la nonviolenza: è vero che quest’ultima appare mortificata e sfregiata tutti i giorni dai comportamenti di chi detiene il Potere, e da parte di chi il Potere vuole conquistarlo; ma è anche vero che la nonviolenza ci sta sempre più permeando; e assume visive manifestazioni, che a volte possono sembrare ingenue o pittoresche, ma che sono comunque la prova di come certi semi riescano a germogliare. Si pensi alle manifestazioni di lavoratori, che di volta in volta letteralmente si inventano iniziative che appaiono fuori dagli schemi tradizionali, appunto per colpire, fare notizia, e ci si pone il problema di “comunicare”, far sapere, veicolare quello che si cerca di fare. Si tratta spesso di manifestazioni liquidate in poche righe; e andrebbero invece valorizzate, non foss’altro per “premiare” l’opzione nonviolenta. Scioperi e sit in, cartellonate e marce, digiuni singoli e collettivi: sono tutti “strumenti” di lotta pacifica che stentano a fare “notizia”, mentre immancabilmente la fa un esto violento, una vetrina rotta, un’automobile incendiata… Cosa deve pensare chi vuole pubblicizzare una sua causa? Cos’e’ spinto a fare, per farla conoscere? La questione ci riguarda direttamente…

·         Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda.

Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda. Fu il navigatore portoghese a concepire la prima circumnavigazione del globo. Non riuscì a portarla a termine ma ha dato il nome a uno stretto, due galassie e un pinguino. Paolo Fallai il 13 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. Tra le imprese che hanno cambiato la storia dell’uomo, quelle dei grandi esploratori sono le più emozionanti: da Cristoforo Colombo a Vasco de Gama, da Amerigo Vespucci a Ferdinando Magellano che proprio 500 anni fa intraprese il fprimo viaggio capace di circumnavigare il globo (e dimostrarne la forma sferica, cinque secoli prima dei terrapiattisti). Ma sull’epopea di Magellano, nato a Sobrosa nella provincia del Tra-Os-Montes, situata nel nord del Portogallo, il 17 ottobre del 1480, circolano ancora molte imprecisioni che vale la pena approfondire.

Non gli fu affatto facile far passare le sue idee. Orfano di entrambi i genitori a soli 10 anni, venne accolto nella corte reale portoghese di Giovanni II e successivamente avviato alla carriera militare, combattendo in India e nell’odierna Malaysia. Nel 1513 durante una spedizione in Marocco, venne gravemente ferito a una gamba. Accusato di aver organizzato commerci con i musulmani nel 1514 venne licenziato con disonore dal servizio per la Corona portoghese.

Non voleva andare dove andò (come Colombo). Tornato in Portogallo proseguì da privato gli studi nautici e si convinse che esisteva la possibilità di raggiungere l’oriente navigando verso occidente. Esattamente lo stesso presupposto (sbagliato) di Cristoforo Colombo. Ma il re portoghese Manuel, a cui Magellano si rivolse in un primo momento per effettuare il viaggio, non stimava quell’aristocratico decaduto, che era stato allontanato dalla Marina e rifiutò la proposta. Come Colombo, il navigatore lasciò quindi Lisbona facendo la stessa proposta al re di Spagna Carlo V, che aveva solo 19 anni e che la accettò in funzione anti-portoghese. La convinzione di Magellano avrebbe permesso di rompere il monopolio di Lisbona sulle preziosi merci asiatiche.

Non sarebbe partito il 10 agosto. Ottenuta dal re di Spagna una flotta di cinque navi, la Trinidad, la San Antonio, la Victoria, la Concepciòn e la Santiago, con a bordo 265 uomini tra cui 24 italiani partì da Siviglia. Seguirono il corso del fiume Gúadalquivir fino alla foce (Siviglia si trova a circa cento chilometri dal mare) e quindi la partenza effettiva della spedizione avvenne il 20 settembre 1519 quando le navi si mossero dal porto spagnolo di Sanlùcar de Barrameda.

Non sarebbe diventato così famoso senza un italiano. Faceva parte del suo equipaggio un giovane originario di Vicenza, Antonio Pigafetta, che riuscì a completare la spedizione e ne scrisse un dettagliato resoconto, la Relazione del primo viaggio intorno al mondo, in una lingua che confonde parole italiane, spagnole e molte del dialetto veneto. Pigafetta dedica il manoscritto a Carlo V. Sarà pubblicata per la prima volta nel 1525. Creduto perduto per molto tempo, il manoscritto è stato ritrovato nel 1797 nella biblioteca Ambrosiana di Milano da Carlo Amoretti, scienziato e scrittore, che ne era diventato bibliotecario. Oggi la “Relazione” di Pigafetta è considerato uno dei più preziosi documenti sulle grandi scoperte geografiche del Cinquecento.

Non ha fatto la prima circumnavigazione del globo. Ferdinando Magellano non riuscì a completare il suo viaggio. Pigafetta racconta come nelle isole Filippine Magellano fosse riuscito a convertire il re dell’isola di Cebu, al Cristianesimo e a far riconoscere Carlo V di Spagna come nuova autorità; a quella notizia scoppiò una rivolta sulla vicina isola di Mactan, e Magellano decise di usare la forza per sedarla. Il 27 aprile 1521 sbarcò a Mactan, ma venne ucciso insieme con alcuni dei suoi uomini dagli abitanti dell’isola. Il suo corpo non fu mai restituito.

Non ha dato il suo nome solo ad uno stretto braccio di mare. Lo stretto di Magellano è un percorso navigabile a sud del Cile ed è il più importante passaggio naturale tra l’oceano Atlantico e l’oceano Pacifico (e a proposito di nomi, fu proprio il navigatore a dare questo nome all’oceano chiamato fino ad allora Mare del Sud, per segnalare l’assenza di tempeste). Magellano ci mise un mese ad attraversare quello stretto inospitale e battuto dal venti, nel novembre 1520. Ma durante il suo viaggio il navigatore portoghese osservò anche due piccole galassie irregolari che orbitano intorno alla via Lattea e sono visibili a occhio nudo dall’emisfero sud. Ancora oggi portano il suo nome: la Grande Nube di Magellano e la Piccola Nube di Magellano. Ha infine dato il suo nome a un pinguino diffuso sulle coste meridionali dell’America del Sud e osservato durante il suo viaggio.

Non andò benissimo. Nella primavera del 1520 perse la nave Santiago mentre si inoltrava nello stretto che oggi porta il suo nome. Qui si ammutina l’equipaggio e la San Antonio abbandona la flotta e fa rotta verso la Spagna. Il viaggio continuò anche dopo la morte di Magellano nel 1521: il comando della spedizione passò a Juan Sebastiàn Elcano che ordinò di distruggere la Concepciòn perché priva di equipaggio, mentre La Trinidad sbagliò rotta ed arriva quasi in Alaska per poi ritornare indietro ed essere distrutta dai Portoghesi. Il viaggio si concluse il 6 settembre 1522 quando la sola nave superstite la Vittoria con 18 marinai, rientrò nel porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo.

·         Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo.

Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo. Principi scolpiti 230 anni fa. Il Dubbio il 27 Agosto 2019. Ad approvare uno dei documenti sui quali si regge l’intera civiltà fu l’Assemblea nazionale costituente in piena Rivoluzione francese. Conoscere la legge è un obbligo. Ma è forse ancora più importante conoscerne la storia. Essere consapevoli del percorso compiuto per arrivare all’affermazione dei principi che regolano la civile convivenza. E qui che risiede il senso di una ricorrenza come quella caduta ieri: i 230 anni dal giorno, il 26 agosto 1789, in cui fu emanata la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Carta solenne da cui discendono tutte le Costituzioni democratiche oggi in vigore, e la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni unite nel 1948. Ad approvare uno dei documenti sui quali si regge l’intera civiltà fu l’Assemblea nazionale costituente in piena Rivoluzione francese, poche settimane dopo la presa della Bastiglia e l’abolizione del feudalesimo. I 17 articoli della Dichiarazione del 1789 discendono, a loro volta, dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, ma è la forma trovata in Francia ad essere riconosciuta come pietra angolare delle moderne democrazie, tanto da essere esplicitamente richiamata nella Costituzione francese ancora oggi in vigore. Ieri il Consiglio nazionale forense ha citato la ricorrenza sui social network ( a fianco è riportato il tweet pubblicato sul profi lo del Cnf), evidentemente per richiamare alla conoscenza della Storia come base per la diffusione di una vera cultura dei diritti, di cui gli avvocati si sentono giustamente ( e. n.)

·         Napoleone Bonaparte.

Napoleone, un mito salvato dal suo genio: sconfitto ma profeta di un’ Europa unificata. Sergio Valzania il 23 Agosto 2019 su Il Dubbio. A lui si devono realizzazioni come il Codice Napoleone che hanno spinto in avanti l’evoluzione del diritto europeo di parecchi decenni. I 250 anni dalla nascita di Napoleone, 15 agosto 1769, sollecitano alcune riflessioni, in un’epoca di destra risorgente. Che l’imperatore dei Francesi vada collocato su di uno scranno piuttosto sulla destra in un’immaginaria aula che raccolga i protagonisti della storia ci sono infatti pochi dubbi. Certo fu un figlio della Rivoluzione, senza la quale avrebbe fatto una discreta carriera nell’esercito di Luigi XVI e poi di Luigi XVII, ma non molto di più. A lui si devono realizzazioni come il Codice Napoleone che hanno spinto in avanti l’evoluzione del diritto europeo di parecchi decenni e le sue riforme scolastiche sono ancora alla base del sistema francese e non solo, il sistema stradale europeo deve molto alle sue decisioni e si potrebbe procedere parecchio a indicare i contributi da lui offerti sulla via della modernizzazione, meno su quelle della democrazia rappresentativa e della pace. Non si scappa: Napoleone era un dittatore militare, che fondava il suo potere sul consenso dell’esercito e sulle vittorie in guerra. Esaurito questo carburante per l’accordo raggiunto tra i più reazionari monarchi del continente, il suo destino era segnato. La questione sta su come mai esista tutt’ora un mito napoleonico diffuso e accettato, a differenza di quanto è capitato ai dittatori del Novecento. Ne mancò chi scatenò contro di lui la “macchina del fango”, con un qualche successo iniziale. Il sistema propagandistico inglese era efficiente e collaudato. Qualche secolo prima aveva stravinto il confronto con l’impero asburgico madrileno, fornendo un’immagine diffamatoria della sua politica e della corte che la elaborava. Anche contro Napoleone gli inglesi si impegnarono nella denigrazione. Sul piano politico l’accusa era quella di essere il tiranno guerrafondaio, l’Orco che divorava i suoi sudditi mandandone a morire decine di migliaia ogni anno, e questo ci potrebbe stare, su quello personale si diceva di amori di ogni tipo, compreso quello consumato con la figliastra, Ortensia figlia di Giuseppina e regina d’Olanda, rapporto dal quale sarebbe nato Luigi Carlo, che l’imperatore aveva indicato come proprio erede al trono. Dopo Waterloo il governo inglese e quello monarchico francese fecero a gara a stampare pubblicazioni di ogni genere per presentare nel modo peggiore la figura a le imprese di Napoleone. Nonostante questo impegno, del quale l’imperatore deposto era perfettamente a conoscenza a Sant’Elena, Napoleone non ebbe mai dubbi sul fatto che il suo ricordo storico sarebbe stato positivo. Aveva passato l’infanzia leggendo le Vite Parallele di Plutarco e gli anni successivi a creare il proprio personaggio perché gli venisse assegnato un posto accanto a loro. Era sicuro di esserci riuscito; alcuni sostengono che la inspiegabile sconfitta di Waterloo sia almeno in parte dovuta a una sua pulsione verso un finale coerente con una vita da eroe romantico. Nel 1821 fu Alessandro Manzoni con il 5 maggio, ode scritta in morte dell’imperatore, a dare inizio alla rilettura, alla lettura revisionista diremmo oggi, dell’epopea napoleonica che subito prese piede, si consolidò con il rientro della salma da Sant’Elena e con la salita al trono di Napoleone III divenne inarrestabile. La rivalutazione così repentina dell’eredità napoleonica non fu l’esito di una campagna mediatica, né di un’affermazione politica. Precedette la stagione imperiale di Napoleone III e sopravvisse alla sua caduta. Ancora oggi si discute sul segno da attribuire alla sua esperienza di governante. Sono in pochi a credere in una possibile riabilitazione di Benito Mussolini o Adolf Hitler, forse considerazioni diverse valgono per Lenin e Stalin, ma anche il loro futuro mediatico non si presenta come roseo. Domandarsi il perché di questi diversi destini per figure storiche che conquistarono e soprattutto gestirono un potere tendenzialmente assoluto non è ozioso. Mussolini tentò addirittura un esplicito auto riferimento con l’esperienza napoleonica, scrivendo Campo di Maggio, titolo che fa riferimento a un episodio sfortunato dei cento giorni, nel quale il dittatore italiano sostiene che la seconda caduta di Napoleone fu causata dai suoi cedimenti nei confronti di chi auspicava una democratizzazione del sistema politico francese. Napoleone seppe cogliere elementi di progettualità proiettati nel futuro anche, forse soprattutto, nei tratti del suo agire che si ritorsero con violenza contro di lui. L’esperienza dell’impero francese, collegata con la guerra di Spagna e la campagna di Russia, la penalizzazione della Prussia a favore della Germania renana, tutti passaggi che portarono alla sua definitiva sconfitta militare, presentano oggi dei tratti quasi profetici nei confronti di un’Europa unificata. O da unificare meglio. Nella costruzione dell’impero, che al momento del suo massimo sviluppo nel 1812 comprendeva Amburgo, Roma, Bruxelles, Barcellona, Torino, Amsterdam e Firenze, Napoleone non tentò mai di comprimere le istanze culturali dei paesi annessi. Niente imposizione della lingua francese, erano le leggi e la burocrazia centralizzata ed efficiente che dovevano costituire lo scheletro di uno Stato unificato. Riguardo alla Spagna l’imperatore non capì mai perché la popolazione dimostrava di preferire, come in breve avrebbero fatto anche i tedeschi, un governo peggiore, ma nazionale, a quello che lui cercava di imporre. Tutto l’amore per la Francia che provava non fece mai di lui un nazionalista di stampo lepenista. La campagna di Russia, l’errore decisivo, coincise con un sogno, con l’ambizione di aver davvero unificato il continente in vista di un’impresa grandiosa. Ma soprattutto Napoleone fu l’uomo dell’égalité, dell’esportazione dell’uguaglianza rivoluzionaria, di questo valore individuato da San Paolo, cresciuto dal cristianesimo medievale e affermato dall’illuminismo, che le armate rivoluzionarie, ma soprattutto imperiali, diffusero in Europa. Fu allora che vennero cancellate in tutto il continente le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, quelle olandesi che riducevano i diritti civili dei cattolici, quelle svizzere che consideravano il Canton Ticino terra di conquista degli altri cantoni. Sempre in nome di un principio semplice e assoluto “nello zaino di ogni soldato c’è un bastone da maresciallo”, come la variegata e variopinta corte parigina stava a dimostrare. La contemporaneità di Napoleone con gli abitanti dell’Europa del Duemila derivò dal genio, non dall’educazione o dall’ideologia. Hilter e Mussolini, che geni non erano, portavano con sé un pensiero più antico del suo. L’imperatore si rivelava uomo del suo tempo, e della sua isola, nel mettere sui troni di tutto il continente i suoi familiari più stretti, nella superstizione e negli scatti di collera furibonda, più spesso sapeva scorgere i tratti di un futuro a volte così lontano da apparire incomprensibile ai contemporanei. Forse persino a lui stesso. Un tratto ne confermava con certezza le capacità visionarie: l’abbigliamento. In mezzo a una corte di parvenu, che vestivano chiassose divise gallonate d’oro, calcando cappelli piumati, Napoleone avanzava con indosso uno spolverino grigio e un cappello nero fuori moda. Una mise geniale che solo il più ispirato degli stilisti avrebbe potuto disegnare per lui. La memoria storica ce lo consegna come un grande, anche nel quadro di Paul Delaroche che lo ritrae a Fontainebleau il 31 marzo 1914, alla viglia della prima abdicazione. Stanco, scarmigliato, vinto, ma prossimo a prendere il suo posto fra i grandi interpreti della storia.

Napoleone Bonaparte 250 anni dopo Erdogan e Putin gli emuli attuali. Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Se gli indipendentisti corsi, di cui suo padre era stato un capo, avessero sconfitto gli invasori francesi, probabilmente Napoleone Bonaparte non sarebbe diventato un protagonista della storia. Ma proprio nel 1769, l’anno in cui il futuro imperatore venne al mondo il 15 agosto, 250 anni fa, la Corsica fu annessa al regno di Luigi XV. E anche il papà del piccolo Napoleone, Carlo Maria Buonaparte, scelse di collaborare con le autorità di Parigi. Così Napoleone si avviò alla carriera militare nell’esercito non di una media isola, ma di una grande potenza, che per giunta, quando lui era ancora ventenne, fu scossa da un rivolgimento epocale come la Rivoluzione, che portò alla caduta della monarchia, all’esodo massiccio dei nobili e alla nascita della Repubblica. Per le persone ambiziose e di talento si aprivano opportunità straordinarie e il giovane corso, che francesizzò il suo cognome in Bonaparte proprio in quegli anni, ne approfittò fino in fondo. Nel 1793 si distinse contro i monarchici e gli inglesi arroccati a Tolone. Poi schiacciò una sommossa controrivoluzionaria come comandante della piazza di Parigi. La Francia repubblicana in guerra contro le monarchie europee gli affidò nel 1796 il comando dell’armata d’Italia e le sue vittorie fulminanti gli procurarono grande popolarità. Nonostante il fallimento della spedizione in Egitto, nel 1799 tornò in Francia e prese il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio, 9 novembre per il calendario tradizionale. Seguirono anni di clamorosi successi militari su austriaci, prussiani, russi: Marengo (1800), Austerlitz (1805), Jena (1806), Wagram (1809). Napoleone nel 1804 si fece incoronare imperatore e per alcuni anni fece e disfece a suo piacimento la carta geografica d’Europa, piazzando i suoi parenti sui troni di vari Paesi. Gli resisteva solo la Gran Bretagna, che gli aveva inflitto nel 1805 la pesante disfatta navale di Trafalgar, mentre con la Russia c’era una sorta di pace armata. Importante fu anche la sua opera modernizzatrice, con un grande programma di lavori pubblici e di riforme, a partire dal fondamentale codice civile del 1804. Per quanto sia stato un despota bellicoso, gli va riconosciuto il merito di aver incanalato le energie scatenate dalla Rivoluzione. Com’è noto, gli fu fatale l’iniziativa di attaccare la Russia nel 1812. Napoleone vinse la battaglia di Borodino, giunse fino a Mosca, ma non poté far altro che ritirarsi in condizioni ambientali proibitive, con perdite spaventose. A quel punto tutta l’Europa gli si rivoltò contro. Sconfitto e confinato all’isola d’Elba nel 1814, l’anno dopo tornò in Francia e riprese il potere per cento giorni: a Waterloo, il 18 giugno 1815, la sconfitta definitiva. Nonostante il fallimento finale, Napoleone ha lasciato il segno. Ancora oggi si parla di «bonapartismo» per definire un potere personale autoritario, conquistato ed esercitato senza freni in virtù di un forte carisma. Personaggi come Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan, Jair Bolsonaro, Rodrigo Duterte, nel suo piccolo anche Viktor Orbán, presentano tratti del genere. Ma nessuno di essi ha ottenuto successi militari simili, né ha alle spalle un rivolgimento paragonabile alla Rivoluzione francese. Evidente invece il tentativo di legittimarsi richiamandosi al passato: l’Impero romano per Bonaparte, quello zarista e quello ottomano per il presidente russo e quello turco.

·         La Grande Carneficina: Verdun.  

La Grande Carneficina: Verdun.  Ivo Saglietti il 19 Dicembre 1916 su Il Giornale. VERDUN  49°10’00.12”N   5°22’59.88”E   262 m m.s.l. Verdun: Prima Guerra Mondiale. Il 19 dicembre 1916 terminò la battaglia tra le armate tedesche e francesi, era iniziata il 21 febbraio 1916, fu la più terribile e sanguinosa battaglia sul fronte occidentale: I morti furono più di 400.000, non ci furono né vincitori né vinti. Non fu la sola grande carneficina: le Ardenne, la Marna, la Somme, ma anche Caporetto e il Piave, fu la Prima Guerra Mondiale, morirono tra militari e civili, includendo la Rivoluzione Russa e il Genocidio Armeno: circa 30/40 milioni di persone. Poi nel 1918 arrivò dagli Stati Uniti  una terribile influenza: La Spagnola, altri 50/100 milioni di decessi in tutto il mondo un vero Olocausto medico. L’inizio del secolo fu un disastro per l’Umanità. L’uso intensivo di gas tossici: l’iprite usato per la prima volta nei dintorni di Ypre, Belgio, da cui prese il nome, produsse 800.000 tra intossicati e feriti: la prima guerra mondiale fu il primo conflitto con impiego di armi moderne e sofisticate: mitragliatrici, cannoni potenti, i primi carri armati l’aviazione e i terribili gas. Più che battaglie furono vere e proprie carneficine, sulla Marna tra il  5 e il 12 settembre 1914 i caduti/dispersi francesi furono 90.000 I tedeschi 68.000 e 1700 I soldati inglesi, già i soldati inglesi che avanzarono con le baionette innestate e furono falciati dalle mitragliatrici tedesche. Ogni villaggio, paese o città dalla Manica alla Russia, dalla Francia alla Turchia all’Italia è cosparso di cimiteri e lapidi: l’Italia contribuì con 650.000 soldati morti e 1.300.00 invalidi: il totale tra militari e civili fu di 1.400.000 vite. L’ultimo soldato inglese a morire fu George Edwin Ellison, un minatore di Leeds, ma non fu l’ultimo, Henry Gunther, americano cadde in azione alle 10:59 un minuto prima della fine di quella che venne chiamata la Grande Guerra. Un piccione: Cher Ami è stato considerato il vero eroe della battaglie di Verdun, salvo’ la vita di 200 soldati portando messaggi, benché ferita, per 30 Km sotto il fuoco tedesco: insignita della Croix de Guerre riposa imbalsamata nel Museo della storia americana. Cifre, numeri che riletti a più di cento anni di distanza lasciano sgomenti, increduli non fosse, che già gli stati “sovrani” progettavano una carneficina ancora peggiore: la II Guerra Mondiale. Non ci furono né vincitori né vinti, solamente cadaveri. Probabilmente le uniche vincitrici furono le grandi imprese industriali dell’acciaio, del ferro, I grandi fabbricanti di armi: le acciaierie Krupp e I suoi grandi cannoni, gli aerei Fokker e la Fiat, la Caproni, l’Ilva con la ghisa ecc. La Storia si chiude così, con la fine dei Grandi Imperi Centrali: Ottomano, Tedesco, AustroUngarico e la Russia dello Zar Nicola II. Finisce la supremazia inglese e gli Stati Uniti entrano sulla scena mondiale. La pace finalmente, ma durò poco, poco più di 20 anni… fino al 1939.

·         Era Ceausescu.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 28 dicembre 2019. Era Ceausescu. Fra tutti i muri e perfino le staccionate del socialismo reale visti crollare in diretta televisiva, quella di Bucarest, trent’anni esatti fa, nel pieno della festività natalizia, è forse la caduta, il precipizio politico che più assomiglia a uno spettacolo granguignolesco, tra sangue, spari, urla, e ancora colpi di fucile che spazzano le strade della Romania al suo risveglio. Merito e insieme colpa del signore e padrone locale, Nicolae Ceausescu, il Presidente,  pretendente al trono comunista di “Conducator”. Quel dicembre si racconta tra Timisoara e Bucarest. Negli occhi, ancora adesso la memoria dell’abbigliamento dei rivoltosi, simili a torme di sfollati che provano a fuggire da un esodo in tempo di pace apparente, anteriore perfino all’azzurro capitalistico “Adidas”, un’orda assiepata nelle piazze, in attesa del culmine della storia post-bellica della Romania socialista: la fucilazione del Tiranno e di sua moglie, la “Strega”, Elena, mostrata, nell’incubo comune, come complice d’ogni arbitrio, trasfigurata nell’astio popolare, appunto, in fattucchiera, la Lady Macbeth del regime. A fronteggiarsi, spettrali e insieme struggenti, i cappotti di panno ruvido dell’esercito regolare infine sollevato, in un tripudio fantasmatico di bandiere nazionali svuotate al centro dal simbolo dell’oppressione, unico esempio di araldica di Stato che mostri un traliccio tra corona di spighe e stella rossa; non dimentichiamo che Stalin, cui Nicolae, a suo modo, deve essersi ispirato per vocazione paternalistica, pretendeva sinfonie che rendessero onore all’elettrificazione dell’Urss. Non meno vero che Ceausescu, per decenni, ebbe modo d’essere ritenuto un irregolare. Nominato presidente del Consiglio di Stato nel 1967, rifiutando la teoria della “sovranità limitata”, sfida la supremazia sovietica non prendendo parte all’invasione della Cecoslovacchia. Un “riformatore” nell’improprio sentire comune, Nicolae; perfino le nostre feste de l’Unità offrivano le sue opere, accanto agli scialli e alle matrioske del “Paese guida”. Dettagli, minuzie, posto che il Natale del 1989 lo trova ormai sotto finale, la rovina è infatti imminente, lontana l’ascesa, il regime è pronto ad accartocciarsi su se stesso, per precipitare presto a capofitto. E Nicolae? Eccolo al balcone del palazzo presidenziale, reggia di marmi dei Carpazi, il colbacco di astrakan, come Don Camillo e Peppone insieme in viaggio oltrecortina, con la folla dei grandi raduni ufficiali che, sebbene convocata per l’ennesimo bagno di regime, prende a inveire proprio contro il Capo, segnale plastico della rivolta. Gli rimarranno a fianco, ricordiamo, i suoi “orfanelli”, e la polizia segreta, i cecchini della “Securitate”. Un cupo carosello di singoli colpi e poi raffiche che l’altro ieri Raitre, con “Blob”, ha riproposto a memoria del calendario terminale dell’illusione comunista nella terra dell’ “Impalatore”, Vlad Tepes, Dracula. Le bandiere senza più simboli del socialismo reale? Detto. In cima alle aste nel baratro di una diretta televisiva infinita, informale, i protagonisti della “colpo di Stato” a darsi il cambio negli appelli del “tribunale volante” militare, per Nicolae l’accusa di “genocidio” per la strage di Timisoara (la notizia si rivelerà tuttavia falsa) con l’aggravante di “aver condotto la popolazione rumena alla povertà e di aver accumulato illegalmente ricchezze”. Un processo fuori da ogni protocollo, come accade in tempo di terrore e comitati di salute pubblica, la fascia dai colori nazionali al braccio degli ufficiali-giudici, mentre in strada i soldati insistono nel fare fuoco, distesi per terra, verso ogni anfratto che mostri sacche di resistenza, gli “orfanelli di Ceausescu” non ancora ridotti al silenzio, o piuttosto si trattava di mercenari libici e siriani disposti cedere solo dopo avere preso coscienza dell’atto finale, l’esecuzione di Nicolae e Elena, sempre televisivamente mostrati. L’Orco e la Strega, dietro a un banco di scuola, rintuzzano ora le accuse, mostrano tracotanza e insieme arrendevolezza, batte il berretto d’astrakan sul tavolo, un Nicolae che sembra infine dire sia fatta la rovina nostra e altrui, la storia abbia il suo corso. Il crepitio dei kalashnikov sui loro corpi da lì a poco. Eppure, pensandoci bene, l’immagine più significativa, ancora di più della fucilazione dei titolari del potere, è nell’attesa di Zoia, la figlia prediletta, tra i soldati che l’hanno in custodia, così durante la ricognizione del tesoro privato dei Ceausescu, tazze e suppellettili dorati, Zoia regge il guinzaglio del suo cocker spaniel, sprazzo di innocenza dorata nel carnaio di stracci, fucili, elmetti, un sacchetto da duty-free shop colmo di una stecca di Marlboro nell’altra sua mano. Cosa ha trattenuto la memoria comune di quel dicembre di gelo, trent’anni fa, a Bucarest? I cappotti di panno, i simboli spettrali della “democrazia popolare” infine strappati, le misere giacche a vento, i maglioni di celeste stinto, i berretti di lana da fantocci mortuari tra neve e segatura sporca di sangue, i dispacci del nuovo potere che assicurano tutto essere ormai finito, la situazione sotto controllo, e il despota e signora, Elena che aveva il privilegio di donare a se stessa lauree “honoris causa” di scienze mai sfiorate, ormai simili a un mucchio di cenci sotto il muretto scrostato di una scuola di periferia, la sciarpa scozzese del “Conducator” infine nel fango. Tra le accuse: “Cercando di fuggire dal paese sulla base dei fondi per oltre un miliardo di dollari, depositati in banche straniere”. Ironia di un sogno quasi imperiale, ambizioni da Caligola di Transilvania, il plico che custodisce lo scettro che Nicolae aveva commissionato a una gioielleria parigina di Place-Vendôme, giungerà a Bucarest con Nicolae già cadavere. La sua tomba, poco più di un cumulo di terra, a definitiva cancellazione del suo transito nel governo della nazione…Negli anni, su quel mucchietto, quasi a rimpiangerlo, sorgerà, se non un mausoleo, un cenotafio di granito rosso da padre della Patria perduta, colmo di fiori, ad accogliere insieme marito e moglie. Avverrà dopo che il racconto retorico della sopraggiunta liberazione dalle miserie del socialismo avrà incontrato la percezione e i dubbi di una continuità, la convinzione che i nuovi signori di Romania avevano condiviso perfino l’ultima cena con Nicolae, storie di trasformismo, più prosaicamente, di gattopardismo; resta però su tutto il ricordo di una diretta televisiva segnata dall’assenza di un possibile montaggio, un unico filo, i suoi fuori campo, l’epilogo mosso e fuori fuoco della doppia fucilazione. Il mattino del giorno dopo, ricordo di aver proposto a Giulio Einaudi un breve romanzo intitolato “Casa Ceausescu”, una sit-com sugli orrori del socialismo nel paese dei vampiri, protagonista un padre satrapo accompagnato da una compagna proterva, senza dimenticare il resto dei familiari, come no, Nicu, l’altro figlio, aspirante erede presidente, Nicu di cui si narrava ogni infame magnificenza; sullo sfondo Nadia Comaneci, sua vittima eccellente, a volteggiare nell’ossessione agonistica olimpionica propria dei paesi di un comunismo mai davvero sfiorato. Peccato, non averlo mai scritto. Negli anni, in Romania, il giudizio su Ceausescu è tuttavia mutato. Un sondaggio del 2014, durante uno show televisivo, ha evidenziato che addirittura il 66% dei cittadini ha un’opinione positiva del suo operato. Resta che elogiarlo sui media è proibito dalla legge.

·         I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.

I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo. Gli hanno dedicato 120 statue negli ultimi 10 anni e il 70% degli abitanti lo considera un leader positivo. Angelo Allegri, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. L'ultimo monumento in suo onore è stato inaugurato a Novosibirsk nel mese di maggio. Del 2017 è invece il busto sistemato nel viale dei Governanti, in una zona centralissima di Mosca. A Jalta, nel 2015, subito dopo l'annessione della Crimea, è stato immortalato con Roosevelt e Churchill in un grande complesso scultoreo nei luoghi della famosa conferenza. Iosif Vissarionovic Dugavili, detto Stalin, è considerato uno dei grandi criminali della storia. Ma i russi la pensano diversamente, o almeno così pare: negli ultimi dieci anni in tutto il Paese gli sono state dedicate oltre 120 statue. È la dimostrazione concreta del fatto che l'attaccamento al massacratore dei kulaki non solo non viene meno, ma che anzi continua a crescere. Nell'aprile di quest'anno la società demoscopica Levada ha rilevato la sua popolarità tra gli abitanti dell'ex Unione Sovietica: il 51% degli interpellati ha detto di averne un buona opinione «come persona», il 70% ha dichiarato che il suo ruolo di governo è stato «positivo» per la Russia. Risultati record, visto che nel 2016 ad avere una buona opinione politica del «piccolo padre» era solo (si fa per dire) il 54%. Il gradimento è in aumento costante da almeno una ventina d'anni e la riscoperta del dittatore è da attribuire in toto al periodo post-comunista. A differenza di Lenin, la cui figura è sempre rimasta più o meno centrale nel Pantheon sovietico, con la «destalinizzazione» il dittatore georgiano sparì dai radar della propaganda; dopo il congresso del 1956 in cui Krusciov ne denunciò i crimini, la sua persona rimase per decenni uno dei più radicati tabù della vita pubblica. Le cose cambiarono dopo la caduta dell'Unione Sovietica negli anni Novanta del secolo scorso; nel 2005 in occasione del sessantesimo anniversario dalla fine della «grande guerra patriottica», si tornò per la prima volta a sottolineare con forza il suo ruolo di guida nella battaglia per la sopravvivenza del Paese. Negli anni successivi le linee guida governative per l'insegnamento della storia avanzarono un passo dopo l'altro in questa direzione. Dal punto di vista simbolico le cronache segnalano alcuni passaggi chiave di questa rivalutazione: nel 2009, per esempio, in una stazione centrale del metrò moscovita vennero restaurate alcune strofe del vecchio inno sovietico in modo che fossero ben leggibili: «Stalin ci ha cresciuto insegnandoci la lealtà verso il popolo. È lui ad averci spinto al lavoro e all'eroismo». Più in generale l'immagine del dittatore, immortalata da innumerevoli quadri in puro realismo socialista, i baffoni e il sorriso bonario da vecchio zio, sono diventati un elemento immancabile dell'iconografia della nuova Russia. Già qualche anno fa, in un libro di qualche successo, Koba il terribile, lo scrittore inglese Martin Amis si interrogò sulla presentabilità pubblica di Stalin: lui e Hitler sono autori di crimini mostruosi, del tutto paragonabili tra loro, diceva Amis. Eppure nessuno si sognerebbe di trattare l'icona del dittatore tedesco come si fa per quella del georgiano, utilizzata per manifesti, etichette, rievocazioni nostalgiche e diventata in qualche misura un simbolo culturale pop. L'osservazione era indirizzata a una certa opinione pubblica occidentale, liberal e benpensante. In Russia, però, c'è qualche cosa di più e di diverso. I concittadini del dittatore non rimpiangono, come ovvio, gulag e sanguinaria politica di violenza, ma, secondo la sociologa Ella Panejach, vedono in Stalin un esempio di leadership efficace, di lotta alla corruzione e di uno Stato sociale che si prendeva cura dei più deboli. A dare una mano alla (ri)costruzione del mito è senza dubbio Vladimir Putin. Il presidente non manca di rendere periodico omaggio alle vittime delle repressioni e delle purghe. Ma quando si tratta di parlare alla pancia del Paese i toni (e i fatti) sono diversi. Il già citato busto sistemato nel centro di Mosca (e di cui il governo ha detto di non essersi interessato) è stato sistemato di fronte al Museo delle uniformi a cura dell'Associazione di storia militare, fondata da Putin e il cui presidente è il ministro della Cultura. L'ultimo film dedicato al leader georgiano (in Italia è uscito con il titolo: Morto Stalin se ne fa un altro) era una grottesca presa in giro della paranoia del dittatore e della pusillanimità della sua cricca. Girato in Inghilterra nel 2017, ha avuto successo in tutto il mondo. Non in Russia, però, visto che il governo gli ha negato la licenza di distribuzione. L'unico cinema che appellandosi alla libertà di manifestazione del pensiero, ha sfidato la censura, è stato preso d'assalto dalla polizia il primo giorno di programmazione. Per Putin la nostalgia staliniana (è stato lui a ripristinare il vecchio inno voluto dal dittatore, sia pure con altre parole) ha un valore in termini di tecnica del potere: gli serve per recuperare il senso di continuità della potenza russa e per sottolineare la presenza (ancora oggi) di potenti nemici esterni come quelli che il Paese sconfisse nella seconda guerra mondiale. «L'inutile demonizzazione di Stalin» ha detto al regista Oliver Stone che lo intervistava, «serve solo ad attaccare la Russia».

Da Mussolini a Stalin. Quando la dittatura è un "bellissimo" film...Uno studio sul rapporto tra controllo delle masse e storia del cinema nei regimi del Novecento. Claudio Siniscalchi, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche. Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.

Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.

Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».

Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani. Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.

·         1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.

1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo. In una Germania prostrata dalla sconfitta nella prima Guerra Mondiale nasceva il partito che predicava la riscossa nazionalista. Lorenzo Del Boca il 25 luglio 2019. Nel marasma provocato dalla fine del Primo confitto mondiale che aveva lasciato sul campo decine di milioni di morti e almeno cento di milioni di affamati, in una Monaco di Baviera devastata dalla miseria nacque il «partito tedesco dei lavoratori» (Deutsche Arbeiterpartei). Era il gennaio 1919 anche se quella è la data di registrazione burocratica. Per presentare il nuovo raggruppamento furono necessari altri sei mesi: 12 luglio. I soci fondatori fecero leva sul sentimento nazionalista: se la Germania era accerchiata da politiche che miravano a strangolarla, occorreva reagire, facendo leva sull’orgoglio dei cittadini per costruire le occasioni di rivincita. Progetto ambizioso e, a quel momento, velleitario. A distanze di un secolo, il Partito dei lavoratori sarebbe inghiottito in una piega della storia se, fra gli aderenti, non fosse spuntato Adolf Hitler che, di quelle istanze, s’impadronì, le trasformò e, con le opportune modifiche, le catapultò nel Secondo conflitto mondiale. Ad avviare quel movimento provvide Anton Drexler, metalmeccanico, a Berlino, in una fabbrica di locomotive e poi fabbro, a Monaco, nell’azienda statale delle ferrovie tedesche. Alla vigilia della Prima guerra mondiale fu esonerato dal servizio militare ma partecipò alla «costruzione della coscienza bellica» sostenendo i movimenti interventisti. Gli orrori della guerra non gli fecero cambiare idea. Continuò a ritenere che la Germania dovesse riprendersi il posto perduto. E, poiché le sconfitte vanno sempre attribuite a qualcun altro, individuò nei banchieri, negli ebrei e nei comunisti i responsabili del complotto che aveva fatto sprofondare il suo Paese. Con lui il giornalista Karl Harren e gli attivisti di ispirazione socialista Gottfried Feder e Dietrich Eckart. Le forze armate tedesche, alle prese con la difficile transizione dopo la sconfitta nella recente guerra, temettero che quel piccolo partito potesse diventare un pericolo. Le tesi oltranziste sollecitavano i sentimenti più autentici della gente e li spingevano a desiderare la rivincita. Pericoloso per uno Stato ancora troppo traballante cui serviva un periodo di tranquillità per rimettersi in piedi. Gli ufficiali incaricarono un loro caporale - Adolf Hitler - di infiltrarsi fra gli iscritti, indagare segretamente e riferire. Esito scoraggiante (per lo Stato maggiore). Perché Hitler, altro che sorvegliare, rimase affascinato dalle idee di quel nuovo partito, intervenne nel corso dell’assemblea e gli iscritti rimasero, a loro volta, sedotti dalla capacità oratorie di quel piccolo uomo. Il feeling portò Hitler a iscriversi con tessera «numero 55». Drexler lo inserì subito nel comitato direttivo del partito assegnandogli le deleghe per la propaganda. Gli bastarono pochi mesi per impadronirsi dell’intero movimento diventandone il punto di riferimento. Modificò il nome in «Nationalsozialische Deutsche Areitpartei», partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori. E, quando si accorse che era troppo lungo, abbreviò in «nazionalsocialismo». Drexler fu emarginato e finì per accontentarsi della carica di presidente «onorario», senza poteri reali e nessun incarico di rappresentanza. Periodicamente lo esibirono, ma solo come strumento di propaganda. Nel 1934 gli conferirono una medaglia d’oro, ma già nel 1937 era del tutto dimenticato (fino al 1942, anno della morte, quando il nazionalsocialismo sembrava ancora padrone del mondo). Per Hitler, invece, quel partito (al momento minuscolo) rappresentò un trampolino di lancio per dare l’assalto alla Cancelleria della Germania. Le idee originarie del partito e le sue si trovavano sulla stessa lunghezza d’onda. Occorreva boicottare il trattato di pace firmato a Versailles che rappresentava un autentico accanimento contro la Germania. I redditi andavano redistribuiti e gli operai avrebbero dovuto partecipare agli utili delle grandi aziende. Bisognava nazionalizzare quelle strategiche, aumentare le pensioni, assicurare dei privilegi ai tedeschi e negarli agli altri. Agli ebrei doveva essere negata la cittadinanza. Stupisce che questo programma si scontrasse con la stessa biografia del suo leader. Questo campione della leadership tedesca era, in realtà, austriaco. Nacque il sabato di Pasqua del 1889, a Braunau, in un palazzotto di tre piani che ospitava la Locanda del Pomerano, gli uffici della dogana e qualche stanzetta per abitazioni civili. A dispetto del suo antisemitismo esasperato e del culto della razza pura, qualcuno sostenne che le sue origini furono ebraiche o, nella migliore delle ipotesi, slave. Per questo, Hitler vivente, vennero accuratamente nascosti i dettagli della sua infanzia. Che non dovette essere facile. Il padre si chiamava Alois ed era un impiegato dello Stato, anche se le sue preferenze, più che al lavoro, andarono al vino e alle ragazze della città. Si sposò tre volte. Ebbe un figlio e una figlia dal secondo matrimonio. Adolf gli nacque dalla terza moglie. In casa, effetto di troppi bicchieri tracannati all’osteria, furono calci nel sedere, a ripetizione, per un minimo ritardo nell’ubbidire ai suoi ordini. Il giovane Hitler studiò a Linz dove la famiglia si trasferì. Tentò di entrare nell’Accademia delle belle arti di Vienna, ma la sua prova di ammissione fu considerata insufficiente. Campò di espedienti. I suoi coetanei raccontarono che dormì negli ostelli pubblici, ottenne qualche spicciolo disegnando cartelloni pubblicitari e si adattò a eseguire consegne da fattorino. Anche qui, corsi e ricorsi storici, per contrappasso, gli unici che lo aiutarono a non morire di fame furono due famiglie di ebrei e Reinhold Hanisch che era ceco d’origine. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, lui, austriaco, chiese di essere arruolato volontario nell’esercito tedesco dove la guerra la fece per davvero e con un’abnegazione non abituale. Non ritirò le sigarette e la razione di vino, non chiese licenze, non si lamentò dei pidocchi e accettò le sofferenze della prima linea, affondato nel fango della trincea. Proprio la sconfitta della Germania e le condizioni di pace vessatorie che vennero imposte provocarono una crisi economica di proporzioni bibliche e, per conseguenza, montò un’incontrollabile voglia di rivincita. All’orgoglio ferito della sua gente, Hitler offrì una cornice ideologica, capace di rispondere alle esigenze nazionaliste. Non semplicissima la sua scalata al potere. Con un manipolo di congiurati, tentò un putsch nel 1923 che fallì e lui finì in carcere a scontare una condanna di otto mesi. Ma poi, nel 1933, conquistò la cancelleria e lo fece rispettando le regole della democrazia, prendendo più voti degli avversari. Già i contemporanei si meravigliarono del successo politico di Adolf Hitler e, per la verità, nemmeno gli studi successivi riuscirono a spiegare il suo fascino trascinante. Piccolo, minuto, nervoso, vittima di potenti mal di testa e di proverbiali arrabbiature. Non esibiva il fisico del dittatore e, a guardarlo con qualche attenzione, non lo si sarebbe detto in grado di dirigere alcunché. Solo il timbro della voce e la sua capacità di arringare la folla apparvero fuori dall’ordinario. Le sue parole risultarono, contemporaneamente, suadenti e risolute, affascinanti e ultimative. Davanti a una piazza gremita, non incontrò rivali. Riusciva ad assecondare i desideri della folla, la agitava, trascinandola per costruzioni retoriche fantastiche. Talora si mostrò accondiscendente ma, a seconda delle condizioni, fu in grado di provocare indignazione, eccitare, convincere, entusiasmare. Come nemmeno un incantatore di serpenti. Ma, alla fine, si trovò da solo, nel bunker della Cancelleria: lui, Eva Braun e il cane pastore tedesco Blondie che gli rimase fedele. Gli altri si limitarono ad assecondare le sue ultime volontà cioè bruciarne il cadavere perché, al nemico, non volle concedere nemmeno le spoglie.

Quando Keynes "corresse" il Trattato di Versailles. E vide il futuro dell'Europa. Francesco Perfetti, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Nel 1919 John Maynard Keynes - il cui nome sarebbe diventato celebre come «padre» della macroeconomia e come sostenitore di una politica fondata sull'intervento pubblico in particolare nelle fasi di gravi crisi dei cicli economici - venne inviato a Parigi alla Conferenza della Pace come rappresentante del ministero del Tesoro inglese. A quell'epoca Keynes era ancora un giovanotto, a detta di chi lo conobbe, non particolarmente affascinante né di buon carattere, ma di belle speranze. Aveva da poco superato i trent'anni, essendo nato nel 1883, ma si era fatto apprezzare e conoscere come promettente economista tanto che nel 1912 gli era stata affidata la direzione di una rivista prestigiosa, l'Economic Journal. La sua formazione culturale - come ha osservato l'economista danese Jesper Jespersen in un rapido saggio introduttivo al suo pensiero dal titolo John Maynard Keynes. Un manifesto per la «buona vita» e la «buona società» (Castelvecchi) - era vasta ed eclettica, collocandosi «all'incrocio tra la filosofia (in particolare l'epistemologia), la politica e l'economia». Aveva fatto parte degli «apostoli» che ruotavano attorno al filosofo George Edward Moore e a Bertrand Russell e che costituivano il nucleo di quel gruppo informale di intellettuali noto come Circolo di Bloomsbury che, in spirito di contestazione dei principi ispiratori dell'epoca vittoriana, vivevano una esistenza quasi bohémienne, provocatoria, sessualmente trasversale, guardata con orrore e ripugnanza dalla borghesia benestante del tempo. Di questo sodalizio esclusivo fecero parte personalità destinate a lasciare il segno, da Virginia Woolf a Edward M. Forster, da Giles Lytton Strachey a Clive Bell, da Roger Fry ad Adrian Stephen e via dicendo. La frequentazione di questo ambiente da parte di Keynes ne spiega sia, durante il conflitto, i tormenti di pacifista costretto a lavorare per lo sforzo bellico, sia, nell'immediato dopoguerra, lo spirito con cui prese parte alla Conferenza per la pace di Parigi. È sintomatico quanto scrisse a uno dei suoi amici del Circolo di Bloomsbury, il pittore Duncan Grant: «Lavoro per un governo che disprezzo e il cui obiettivo è criminale». Ed è sintomatico, ancora, il fatto che egli decidesse, sia pure in preda a un profondo travaglio interiore, di rassegnare le dimissioni dal Tesoro e di abbandonare i lavori nel giugno 1919 prima ancora della firma del Trattato con queste motivazioni espresse in una lettera a Lloyd George: «Qui non posso più fare nulla di buono. Anche in queste angosciose ultime settimane, ho continuato a sperare che trovaste il modo di fare del trattato un documento giusto e conveniente. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta». Per Lloyd George non nutriva nessuna simpatia, anche se in seguito sarebbe stato chiamato a collaborare con lui e avrebbe attenuato il suo giudizio negativo: lo considerava quasi una creatura mostruosa, per metà umana e per metà caprina, uscita dalle nebbiose montagne gallesi, attorno alla quale si avvertiva un «profumo di assoluta amoralità, di irresponsabilità interiore, di esistenza estranea o distaccata dal bene e dal male, un misto di astuzia, mancanza di rimorsi, sete di potere». Pochi mesi dopo le dimissioni, Keynes, sempre nel 1919, pubblicò il saggio Le conseguenze economiche della pace, che fece registrare un clamoroso successo di vendite e che, soprattutto - lo si riconosca o meno poco importa - ebbe parte notevole nella progressiva delegittimazione del Trattato di Versailles. La tesi centrale del saggio era che la pace imposta dal Trattato avrebbe completato la distruzione economica dell'Europa già operata dalla guerra. Il Trattato non conteneva disposizioni utili per risollevare economicamente l'Europa: non c'era nulla in esso che giovasse a «mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti; né a recuperare la Russia» e neppure a «promuovere in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati». Esso era deprecabile anche dal punto di vista morale, essendo «odiosa e ripugnante» la politica volta a «ridurre la Germania in servitù per una generazione» e a «degradare la vita di milioni di esseri umani privando un'intera nazione della felicità». La critica di Keynes non si esaurì con il volume Le conseguenze economiche della pace - che, per inciso, provocò in Francia una immediata «risposta» da parte dello storico ufficiale dell'Action Française, Jacques Bainville, con il libro intitolato Les conséquences politiques de la paix (1920) - ma proseguì con una analisi serrata. Alla fine del 1921, infatti, egli dette alle stampe un nuovo saggio dal titolo La revisione del Trattato che riprendeva e sviluppava i temi del libro precedente e le proposte di revisione del Trattato che vi aveva anticipato. Questo nuovo volume, subito tradotto in Italia con una prefazione di Claudio Treves, è stato ora riproposto dall'editore Aragno (pagg. XVI-228, euro 20) sulla base di quella edizione con l'aggiunta di una nota di Vittorio Lancieri. Per quanto sia meno conosciuto di Le conseguenze economiche della pace, questo saggio è altrettanto importante perché, tenendo presenti i successivi incontri diplomatici e analizzando in maniera critica le soluzioni adottate o prospettate in tema di riparazioni economiche e debiti interalleati, svela gli errori progettuali di un trattato che, nato sulla base di una ideologia soltanto punitiva, era «pazzesco, ineseguibile e pericoloso per la vita europea». Pur riconoscendo che il Trattato, il quale «oltraggiava la Giustizia, la Pietà e la Saggezza», rappresentava comunque «la volontà del momento dei paesi vittoriosi», Keynes avanzava previsioni fosche per il futuro dell'Europa in mancanza di una revisione sostanziale dei termini del Trattato stesso in tema di abolizione o riduzione delle riparazioni economiche e dei debiti interalleati. Egli faceva notare come, in fondo, nel biennio precedente la pubblicazione del volume, «nessun punto dei Trattati di Parigi» era «stato realmente eseguito, tranne quelli relativi alle frontiere e al disarmo» e aggiungeva che proprio questa situazione aveva consentito che non si fossero materializzati «molti dei mali» da lui previsti «quali conseguenze dell'esecuzione del capitolo delle Riparazioni». In altre parole, lasciava intendere che, insistendo su quella che i francesi definivano «politica di esecuzione», non sarebbe stata possibile una ripresa economica, e non solo economica, della Germania e della stessa Europa. L'impossibilità di pagare ai vincitori le riparazioni avrebbe, anzi, potuto innescare reazioni imprevedibili. L'analisi di Keynes si è rivelata profetica. Ma la sua critica non era l'unica. Un altro economista, questa volta italiano, Francesco Saverio Nitti, nel 1921 pubblicò il libro L'Europa senza pace che definiva il Trattato come «modo di continuare la guerra» e ne denunciò lo spirito volto a «soffocare la Germania» e a «smembrarla», minandone l'unità economica e l'unità politica. E val la pena di rammentarlo, Keynes, proprio insieme a Nitti, nell'anno del centenario della Conferenza della pace.

·         Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo.

Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo. Gustavo Ottolenghi il 14 Settembre 2019 su Il Dubbio. Von Richthofen fu il più famoso pilota della Grande Guerra. Sulla sua tomba gli inglesi scrissero: “Al nostro valoroso e degno avversario”. Fra le numerose innovazioni che la Prima Guerra Mondiale portò in campo bellico, le più importanti furono le bombe a mano, i lanciafiamme, i carri armati, i gas asfissianti e gli aeroplani. Ben presto vennero individuate le grandi possibilità che il mezzo aereo avrebbe potuto esprimere anche nelle guerre, come mezzo di osservazione tattica e di ricognizione dall’alto per scoprire e seguire le mosse terrestri degli eserciti ( aerei “ricognitori”). Da questa attività di spionaggio l’aereo passò in breve ad una di tipo offensivo, sperimentate per la prima volta al mondo dall’Italia nel corso della guerra italo- turca ( 1911/ 12) allorché venne effettuato un attacco dall’aria contro truppe a terra ( fu il S. tenente Giulio Gavotti a lanciare, il 1.11.1911, alcune bombe a mano dal suo aereo "Erich Taube” su un accampamento turco a Ain Zara e poi sulle oasi di Tripoli e Tagiura). Da allora incominciarono a formarsi scuole per l’addestramento di piloti per i bombardamenti aerei e industrie per la costruzione di velivoli atti al trasporto e allo sgancio di sempre maggiori quantità di esplosivo ( aerei bombardieri). Contemporaneamente si rese evidente la necessità di poter disporre di uno strumento aereo che consentisse di proteggere ( o di colpire) i bombardieri durante le loro missioni e vennero quindi progettati e costruiti velivoli più piccoli, più maneggevoli, più agili e veloci, i ‘ caccia’, i cui più famosi furono gli inglesi Vickers Fb5, impiegati del corso della Prima guerra mondiale. Di gran lunga il più famoso e il più coraggioso fra i piloti di aerei da caccia, e non solo della Prima guerra mondiale, ma di tutta la storia dell’aviazione militare, fu il barone tedesco Manfred Albrecht von Richtofen, il “Barone rosso”. Nato a Breslavia, capitale della Slesia, il 2.5.1892, dal Freiherr Albert Philips e da Kunegunde von Schickfuss und Neudorff, primo di due fratelli ( Lothar e Bolko) e una sorella ( Ilse), fu giovane esuberante, sportivo, amante della caccia e dei cavalli. Nel 1903 venne inviato alla Reale Accademia militare dei cadetti di Wahlstatt e, nel 1909, passò all’Accademia dei cadetti maggiori di Gross- Lichterfelde vicino a Berlino, ove si diplomò nel 1912 conseguendo il grado di Leutnant ( Sottotenente) di cavalleria e fu assegnato al I Reggimento Ulani. Allo scoppio della guerra ( agosto 1914) partecipò come ‘ esploratore’ ad alcuni scontri con truppe belghe e francesi nel corso dei quali meritò la Croce di ferro di II classe e la promozione a ‘ Oberleutnant’ ( tenente), ma, insofferente per la mancata partecipazione della sua unità sul campo di battaglia principale, nel maggio 1915 chiese e ottenne il trasferimento alla “Fliegertruppen des deutschen Kaiserreiches’ ( Corpo aereo dell’Esercito tedesco) con la qualifica di ‘ osservatore’. Nel settembre dello stesso anno frequentò a Ostenda il Corso per piloti e ne conseguì il diploma nel gennaio 1916, venendo assegnato alla “Jagdstaffel 11” dello “Jagdesschwader 1” ( 1° stormo) della “Luftstreitkraefte” ( aeronautica da combattimento). Quivi, nel mese di ottobre, incontrò l’asso Oswald Boelcke ( N. B. ‘ Asso’ era il titolo che spettava al pilota che avesse abbattuto 20 aerei nemici) che gli fu maestro e che lo seguì in tutta la sua successiva carriera sino alla morte ( 1916). Il primo aereo assegnato a Manfred a gennaio 1916 fu un Albatros DII, subito dopo gli fu affidato un Albatros D III col quale avrebbe poi compiuto la maggior parte dei suoi voli e conseguito la maggior parte delle sue vittorie ( 59). Il D III era un aereo biplano monoposto, innovativo nella costruzione in quanto la fusoliera, affusolata, aveva un telaio in legno compensato che la rendeva più leggera e resistente rispetto ai precedenti rivestimenti in tela cerata. Era dotato di un motore Mercedes D III a 6 cilindri raffreddato ad acqua; la sua velocità massima era di 175 km/ h; la sua autonomia 2 ore e il suo armamento consisteva in 2 nuove mitragliatrici Spandau LMG O8/ 15 calibro 7,92 mm a fuoco anteriore sincronizzato. Queste mitragliatrici erano estremamente innovatrici rispetto alle precedenti in uso, in quanto potevano essere installare sul muso della carlinga, davanti al pilota, che poteva manovrarle lui stesso poiché il loro fuoco veniva interrotto quando le pale dell’elica passavano davanti alla canna: era iniziata l’era degli aerei da caccia monoposto col solo pilota a bordo che fungeva contemporaneamente da mitragliere. L’Albatros venne in seguito soppiantato dal Fokker Dr I, che venne consegnato a Manfred nell’agosto 1917 e che era caratterizzato da un triplice ordine di ali ( triplano) mentre sino ad allora la “Fliegertruppen” aveva in linea solo aerei a due ordini di ali ( biplani). Caratteristica peculiare ed esclusiva di tutti gli aerei pilotati da Manfred era la colorazione in rosso dell’ala superiore, della cappottatura, della coda e della copertura delle ruote da lui adottata sin dal marzo 1916, che lo fece definire come der Rote Freiherr, il Barone Rosso. Il suo mito aveva avuto inizio il 26.4.1916, quando aveva abbattuto il suo primo aereo nemico, un Nieuport francese, ma la vittoria non gli era stata riconosciuta in quanto non confermata da altri piloti o da terra. Il primo aereo che gli venne accreditato fu un Farman F. E. Shorthorn francese abbattuto nei cieli di Villers Plouich nel nord della Francia il 17.9.1916, cui seguirono altre 79 vittorie che dimostrarono tutte le eccezionali qualità ( lucidità, freddezza, abilità, intuizione, spericolatezza, prontezza di spirito, capacità di manovra e di riflessi, assoluta padronanza del mezzo e micidiale precisione nel tiro) dell’uomo e ne fecero l’asso assoluto della aviazione tedesca nella Prima guerra mondiale.

Nel novembre 1916, a seguito della sua decima vittoria, fu insignito della massima onorificenza militare, la Croce azzurra “Pour la mérite” e subito dopo, nel dicembre la onorò abbattendo l’asso inglese Lanoe Hawker. Nel solo mese di aprile 1917, nel corso della battaglia di Arras, abbatte 21 aerei nemici. Importantissimo e determinante per la sua carriera fu il giugno dello stesso anno allorché fu nominato Rittmeister e, per la sua riconosciuta perizia e bravura nei combattimenti, gli venne anche concessa l’autorizzazione eccezionale ad operare autonomamente rispetto alle altre squadriglie. Fu allora che anche gli altri piloti della Jasta 11 dipinsero i loro aerei con colori sgargianti, cosi che la squadriglia venne identificata come “Circo volante”. Dopo aver conseguito, in un solo anno, lo strepitoso risultato di ben 57 vittorie, il 6 luglio 1917, nel cielo tra Ypres e Armentières, venne colpito e ferito alla testa nel corso di un duello aereo con l’Aircraft Factory FE del capitano Donald Cunnell, ma riuscì ad atterrare in terra tedesca e venne ricoverato nell’ospedale S. Nicola a Courtrai ( Fiandre). Riprese a volare il 16 agosto nonostante il parere contrario dello Stato maggiore e abbatte altri 23 aerei nemici sino al 21 aprile 1918, allorché cadde nei cieli della Piccardia, a Vaux sur Somme, ucciso da un proiettile calibro 303 che lo aveva colpito al cuore. Sulle cause di tale evento sorsero infiniti e lunghi dibattiti: di sicuro si sa che, mentre era alla guida del suo triplano rosso Fokker Dr I e stava inseguendo un aereo Soptwith Camel del 209 squadrone inglese pilotato dal capitano Wilfrid May, era stato a sua volta seguito da un altro Soptwith Camel dello stesso squadrone, pilotato dal capitano Arthur Roy Brown che lo centrò con alcuni proiettili della sua mitragliatrice Maxim 303, uno dei quali attraversò il petto del pilota, uccidendolo, e facendo precipitare il velivolo in terreno nemico. Questa fu la versione ufficiale sempre sostenuta dal Comando supremo aereo inglese. Un’altra versione fu quella fornita da un testimone oculare, il Leutenant australiano Donald Fraser, secondo cui il Barone rosso, mentre volava a volo radente nel tentativo di sfuggire all’attacco del capitan Brown era stato centrato da un proiettile sparato da terra da una mitragliatrice contraerea. In ogni caso l’aereo di von Richtofen si schiantò in una zona presidiata dagli Alleati e il suo cadavere, subito ricuperato e quindi venne sepolto con onori militari: sulla sua tomba gli inglesi posero una targa con la scritta “To our gallant and worthy Foe” ( Al nostro valoroso e degno avversario). Nel novembre 1925, a guerra finita, il corpo venne riesumato e trasferito, con grandi onori, alla presenza del Presidente von Hindenburg nell’Invalidenfriedhof di Berlino e infine, nel 1976, nella tomba di famiglia nel cimitero di Wiesbaden. Il mito del Barone rosso rimane vivo sino ai giorni nostri, soprattutto in Germania, ove uno stormo da caccia porta il suo nome (‘ Von Richtofen Geschwader’) e alcuni piloti della Seconda Guerra mondiale decorati con la Croce di ferro I classe avevano dipinto strisce rosse sotto le ali dei loro aerei durante il conflitto. In oggi, sempre in omaggio al Barone, due modernissimi aerei F 18 Hornet della Luftwaffe presentano due rombi rossi dipinti sulla superficie inferiore delle loro ali. Manfred non si sposò mai né ebbe figli, ma il nome dei von Richtofen tornò alla ribalta della cronaca nel 2002 per una drammatica vicenda legata alla nobile famiglia, quando Suzane Louise von Richtofen, nipote di Bolko, fratello di Manfred, uccise a San Paulo ( Brasile), alla età di 119 anni il padre Manfred e la madre Marisia Abdalla per impossessarsi dell’eredità famigliare, soffocandoli con l’aiuto dei fratelli Daniel ( suo fidanzato) e Christian Cravinhos. Il successivo processo, che ebbe grande risonanza anche per la notorietà del cognome dell’imputata, si concluse nel 2006, con la condanna a 39 anni di reclusione per tutti gli imputati.

·         La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York.

La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Daniele Manca. Il 29 ottobre del 1929, nel «martedì nero», il sogno di facili e veloci ricchezze grazie alla finanza si trasforma in un incubo. Il 29 ottobre del 1929 è un martedì. Raramente per eventi che rimangono scolpiti nella storia dell’umanità si fa riferimento al giorno della settimana. Ma quella che rimarrà per sempre la mattina nella quale la florida America si risveglia impaurita e impoverita, il 29 ottobre del 1929, sarà, per gli storici e per le persone comuni, il martedì nero. La Borsa crolla dell’ 11,73%. Dal 1929 al 1931 chiuderanno 4.300 istituti di credito, diventeranno 9 mila due anni dopo. I prezzi agricoli crolleranno del 40%. I disoccupati saliranno a 12 milioni negli Stati Uniti, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna. Quel crollo darà il via alla più grave crisi economica del secolo scorso nel mondo dei Paesi industrializzati. L’ombra della Grande depressione si allungherà per buona parte del decennio successivo. Ma cosa abbiamo imparato da quella crisi che ha segnato profondamente il mondo? Di sicuro il risveglio da quel sonno della ragione che prende le folle quando credono di aver trovato una strada semplice per facili guadagni, sarà molto duro. E non avverrà in quel 29 ottobre di 90 anni fa che è rimasto nella mente di tutti noi. Qualche giorno prima, alla Borsa di New York c’era stata ben più di un’avvisaglia. La più forte il giovedì precedente, in quel 24 ottobre che sarà solo il primo di una lunga serie a tingersi di nero. La giornata era iniziata in una strana calma. «Ma alle 11,30», racconta un cronista di eccezione, l’economista John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo, «il mercato era in preda a una cieca paura implacabile. Era, in verità, in preda al panico. Si poteva udire fuori dell’Exchange in Broad Street un vocio sinistro. C’era folla. Il commissario di polizia Grover Whalen si rese conto che stava succedendo qualcosa e inviò uno speciale reparto di poliziotti a Wall Street per assicurare l’ordine. Si ammucchiò più gente ad aspettare, benché evidentemente nessuno sapesse bene che cosa fare. Sul tetto di uno degli alti edifici comparve un operaio, che doveva effettuare alcune riparazioni, e subito la folla suppose che si trattasse di un suicida e si mise ad aspettare con impazienza che si buttasse giù. Si formarono capannelli di persone intorno agli uffici delle commissionarie di borsa in tutta la città, in tutto il Paese...». Come spesso accade in questi casi le voci più terribili, informazioni senza possibilità di essere verificate, circolano tra le centinaia di risparmiatori e investitori. Qualcuno parla di una decina di suicidi avvenuti nella notte. Le cronache dell’epoca riportate dal Corriere della Sera raccontano di agenti di Borsa che uscivano dai cancelli urlando e disperandosi. Le telescriventi che l’anno prima, nel 1928, erano state cambiate con altre più veloci capaci di 500 caratteri al minuto, due volte quelle precedenti, e che erano state acquistate per stare al passo con i rapidi guadagni e le altrettanto veloci nuove ricchezze, registrano in tempo quasi reale il crollo dei prezzi. Il Dow Jones a fine giornata scende a 229,5 punti: il 22% in meno del record stabilito solo meno di un paio di mesi prima, il 3 settembre 1929, quando Wall Street aveva fermato la sua corsa a quota 386,1 punti. Ma la caduta avrebbe potuto essere ben più pesante se il capo della Citibank Charles Edwin Mitchell detto «Sunshine Charlie» non avesse fatto sapere che un gruppo di banchieri a mezzogiorno si sarebbe riunito. La notizia riuscì a invertire la tendenza. Ma il sogno questa volta durò soltanto 96 ore. Come scrive il Corriere della Sera in prima pagina il 31 ottobre del 1929, 48 ore dopo il crollo, «il tramonto di questa grande follia collettiva che è stata la corsa alla fortuna nella Borsa di Nuova York, era prevedibile ed era previsto». Perché? In poche righe si descriveva quello che il 29 ottobre era accaduto: la completa scissione tra i valori delle azioni in Borsa e il valore delle società che le avevano emesse. Le statistiche americane ci offrono la storia in cifre di questo periodo di vertigine. Nel 1923 il numero delle azioni negoziate nella Borsa di New York è di 237 milioni; la cifra sale a 280 nel 1924; a 452 nel 1925; a 449 nel 1926; a 577 nel 1927; a 920 milioni nel 1928. Nei primi nove mesi del 1929 il numero delle azioni negoziate ha raggiunto gli 827 milioni, in confronto di 613 milioni nell’eguale periodo dell’anno precedente. Dietro questi numeri c’era però un meccanismo semplicissimo. Come si era arrivati a quei 20 milioni di americani che possedevano azioni? Attraverso la possibilità di comprare titoli senza versare l’intero valore ma anticipando un magro 10 per cento. Con 10 dollari potevi comprare azioni per 100. E depositando quelle azioni in garanzia potevi ottener prestiti con i quali comprare altre azioni. Tra il 1923 e il 1929 i prestiti a brevissimo termine, quelli che speculatori scaltri e risparmiatori poco accorti usavano per le incursioni in Borsa, aumentarono di cinque volte. E tutto questo nel silenzio pressoché complice di banchieri, autorità e anche politici che si godevano un’euforia che sembrava aver contagiato tutti. Lo stesso presidente Herbert Hoover eletto sul finire del 1928 dichiarava contento che «con la garanzia della pace, che durerà ancora per molti anni, il mondo si trova alla vigilia di una grande espansione commerciale». Non andò così. John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo individua 5 incontrovertibili motivi di debolezza degli Stati Uniti:

- la cattiva distribuzione del reddito: pochi ricchi che possedevano tanto

- cattiva struttura societaria che permetteva incroci azionari e riutilizzo di risorse per pagare dividendi

- cattiva struttura bancaria: troppi e fragili istituti di credito

- uno stato della bilancia dei pagamenti americana che indeboliva l’export statunitense e spingeva invece le importazioni

- basso livello dell’informazione economica (la Harvard Economic Society fu chiusa dopo la sua insistenza nel predire la ripresa).

Le varie scuole di pensiero economico si dividono su quali furono le mosse sbagliate. L’eccesso di liberismo o l’eccesso di interventismo statale? Molto più semplicemente non c’è saggezza nella folla. Soprattutto quando pensa di poter guadagnare senza fare fatica.

·         1939. L’estate che portò alla II guerra mondiale.

Paura, intrighi, minacce. L’estate che portò alla II guerra mondiale. Paolo Delgado il 9 Agosto 2019 su Il Dubbio.  Dal patto Molotov- Ribbentrop che sanciva l’accordo tra Russia e Germania per la spartizione della Polonia e dei paesi del baltico all’annuncio di Hitler che «avrebbe distrutto la razza ebraica in Europa». Al mattino del 25 agosto 1939 il cortile della Casa Bruna, a Berlino, era pieno di distintivi del partito nazista gettati lì da militanti delusi. Il giorno prima era stato reso noto il Patto Molotov- Ribbentrop, l’accordo sino a pochi giorni prima considerato impensabile tra la Germania nazista e l’Unione sovietica di Stalin. I nazisti la presero peggio dei rossi, che erano ormai abituati all’idea che la difesa dell’Urss, patria del socialismo, venisse sempre e comunque al primo posto. Per i nazisti, abituati non solo a considerare i rossi il nemico ma anche a guardare alle terre dell’est come preda naturale di una Germania bisognosa di lebensraum, di “spazio vitale”, la pillola fu più indigesta. Lo stesso Hitler a quel patto ci aveva creduto pochissimo, e forse aveva esitato per gli stessi motivi che avevano così profondamente deluso tanti dei suoi militanti. In privato continuava ad assicurare che lo scontro con l’Unione sovietica era comunque inevitabile. Ma al momento il trattato permetteva di invadere la Polonia, come Hitler era deciso a fare sin da marzo, non solo senza dover temere la guerra su due fronti, incubo dei generali tedeschi, ma anche con buone speranze di evitare il coinvolgimento di Gran Bretagna e Francia, che in marzo si erano fatte “garanti” dell’indipendenza della Polonia. Il patto era stato perseguito e realizzato dal più scarso e più disprezzato, anche dallo stesso Fuhrer, tra i gerarchi nazisti, il commerciante di vini von Ribbentrop.

Non era neppure uno dei “vecchi camerati”, quelli che avevano militato nella Ndsap già dagli anni Venti ed era universalmente considerato un pallone gonfiato. Tuttavia fu proprio quel politico e diplomatico di terz’ordine, nel 1939 ministro degli Esteri a immaginare, cercare e realizzare l’alleanza impossibile che apriva all’esercito di Hitler le porte della Polonia. Il Patto comportava infatti una clausola, rimasta segreta sino alla fine della guerra, in base al quale le due potenze spartivano sia la Polonia che i Paesi del Baltico. Le potenze occidentali non furono colte del tutto alla sprovvista dalla firma dell’accordo. Erano al corrente di quel che stava per succedere già da un paio di giorni. La mazzata era arrivata allora. Tuttavia, contro le previsioni di Berlino, sia la Francia che il Regno unito decisero di confermare la garanzia di intervento in caso di attacco alla Polonia. Quell’attacco, del resto, ci sarebbe stato in ogni caso, anche senza il Patto russo- tedesco. Il ritorno alla Germana del "corridoio di Danzica", la striscia di terra che metteva in comunicazione la città a maggioranza tedesca con la Prussia orientale era solo una scusa, come lo era stata l’anno prima, quando il mondo aveva rischiato la guerra per la Cecoslovacchia, la questione dei Sudeti. Hitler voleva la guerra e anzi avrebbe preferito che nessuno si mettesse per offrirgli tutto quello che voleva già nel 1938, quando la conferenza di Monaco aveva evitato all’ultimo secondo, in settembre, lo scoppio di una guerra mondiale. «Spero che stavolta nessun porco arrivi a offrire soluzioni diverse dalla guerra», disse franco e brutale ai gerarchi: il Fuhrer voleva una schiacciante vittoria militare, anche «per una questione di prestigio» come spiegò all’amico e alleato italiano Mussolini. Ma non considerava affatto improbabile una ennesima resa senza combattere delle potenze occidentali. Non fu per paura dell’intervento anglo- francese che l’attacco fu rinviato all’ultimissimo momento, quando le truppe erano già in marcia, la notte del 25 agosto. Fu perché, a sorpresa, l’ambasciatore italiano Attolico annunciò al dittatore alleato che l’Italia fascista non era in grado di onorare il "Patto d’acciaio" firmato il 22 maggio tra Italia e Germania. L’Italia sarebbe dovuta entrare in guerra subito, a fianco dei tedeschi. Non era militarmente pronta, spiegò Attolico per conto del Duce. Hitler la prese malissimo. «Gli italiani fanno come nel 1914», si lasciò sfuggire nel corso di una delle abituali sfuriate. Ma non se la prese mai con Mussolini. Addossò la colpa del voltafaccia ai Savoia, che detestava, e rinviò di una settimana l’attacco. Non perché sperasse in una soluzione pacifica. Piuttosto per verificare se fosse possibile offrire all’Italia gli aiuti necessari per entrare subito in guerra. Erano le ultime frenetiche e concitate giornate di pace. Il 1939 era stato sino a quel momento solo la lunga discesa verso una guerra inevitabile. Il 30 gennaio, sesto anniversario della presa del potere, Hitler aveva pronunciato uno dei suoi discorsi più sinistri e importante. «Se la finanza ebraica riuscirà a provocare una guerra contro la Germania il risultato sarà la distruzione della razza ebraica in Europa». Poi il Fuhrer aveva ricordato che altre volte le sue parole non erano state prese sul serio, erano state accolte con risate ma chi rideva allora aveva dovuto presto smettere. Negli anni successivi avrebbe ricordato più volte quel discorso che costituisce l’annuncio e la promessa della Shoah. Il 15 marzo la Germania aveva occupato l’ultimo lembo di Cecoslovacchia ancora libero. La Cecoslovacchia, venduta dai suoi stessi alleati a Monaco, non esisteva più. Il primo aprile si era conclusa con la vittoria del generale Franco la guerra di Spagna, “prova generale” della guerra mondiale. Una settimana dopo l’Italia occupava l’Albania. In maggio i due dittatori fascisti avevano firmato il patto d’acciaio ma già da marzo Hitler aveva annunciato ai suoi generali la decisione di occupare la Polonia. Senza incontrare più alcuna resistenza. L’anno precedente l’esercito aveva ancora criticato, senza scoprirsi troppo, la scelta di rischiare il conflitto per la Cecoslovacchia. A Monaco, se la conferenza non fosse finita con la resa travestita da pace voluta dell’inglese Chamberlain e dal francese Daladier, era già pronto il piano per un possibile colpo di Stato. Pochi mesi dopo tutto era cambiato. L’esercito si era definitivamente consegnato, per convinzione o per rassegnazione, a Hitler. La stessa popolazione tedesca era molto più ostile ai polacchi di quanto non fosse stata un anno prima ai cecoslovacchi. Ma quando all’alba del primo settembre la guerra contro la Polonia cominciò davvero e quando, due giorni dopo, Francia e Gran Bretagna entrarono in guerra, la reazione del polo tedesco fu ben diversa da quella del 1914, quando tutti avevano festeggiato la guerra riempiendo piazze e strade per salutare i soldati in marcia. Stavolta, al contrario, le strade restarono vuote, una plumbea preoccupazione salutò i militari che andavano al fronte. Hitler doveva la sua popolarità all’aver sempre vinto senza mai combattere, dalla rioccupazione delle Renania sino alla distruzione della Cecoslovacchia. I tedeschi avevano creduto che sarebbe andata allo stesso modo. Rimasero smarriti di fronte alla scoperta che la guerra cominciava per davvero. Sarebbe potuta finire meno di due mesi dopo. L’ 8 novembre, anniversario del fallito pusch nazista del 1923, un attentato nella birreria di Monaco dalla quale era partito il putsch andò a un pelo dall’uccidere il Fuhrer. A sorpresa Hitler aveva lasciato la sala in anticipo. Ci furono 8 mori e 63 feriti, ma la vittima designata si salvò. La Polonia era già stata battuta. La guerra reale con le sue decine di milioni di vittime sarebbe arrivata presto.

L’invasione della Polonia 80 anni fa «Hitler l’avrebbe fatto  anche senza l’accordo con Stalin». Pubblicato domenica, 01 settembre 2019 da Corriere.it. Valeva la pena di rischiare una guerra mondiale, che poi scoppiò davvero, per la città di Danzica? Come si spiega la determinazione assoluta mostrata da Adolf Hitler ottant’anni fa, con l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939? «Per indole e per ideologia, il dittatore della Terzo Reich si comportò con assoluta coerenza. Già nel suo libro Mein Kampf aveva indicato l’obiettivo della conquista di uno “spazio vitale” ad Est per il popolo tedesco. Ed era abituato agli azzardi, a giocare sempre il tutto per tutto», risponde lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore di fondamentali studi sull’occupazione tedesca e sulle stragi naziste in Italia dal 1943 al 1945. D’altronde il Führer si era coperto le spalle attraverso il trattato di non aggressione con l’Urss, il cosiddetto patto Molotov-Ribbentrop (dai nomi dei ministri degli Esteri), che fu stipulato il 23 agosto 1939 e chiuse la Polonia in una morsa. «Ma io sono convinto — precisa Klinkhammer — che Hitler avrebbe scatenato la guerra anche se non fosse stato concluso l’accordo con Mosca. Certamente l’intesa con i sovietici lo incoraggiò, ma i piani d’attacco erano già stati definiti: anche l’ordine di attuare una provocazione a Gleiwitz, dove le SS inscenarono un finto assalto polacco a una stazione radio tedesca, era già stato impartito il 10 agosto, tredici giorni prima del patto con Stalin». Insomma, nulla avrebbe potuto fermare il tiranno nazista. «Già in un incontro riservato con il ministro degli Esteri e i vertici militari, tenuto il 5 novembre del 1937, di cui possediamo il verbale, il cosiddetto memorandum di Hossbach, Hitler aveva esposto piani che andavano ben oltre la revisione del trattato di Versailles, penalizzante per Berlino, con cui si era conclusa la Prima guerra mondiale. Delineò un’autentica politica espansionista, destando notevole preoccupazione in parte del suo uditorio, che temeva lo scoppio di un nuovo conflitto continentale». E la popolazione tedesca? Era tutta pronta a seguire il regime? «No, il ricordo del precedente conflitto mondiale pesava. Tra la gente comune l’apprensione prevaleva sullo slancio patriottico. Ma la macchina repressiva nazista aveva liquidato i partiti di opposizione, uccidendone i militanti, chiudendoli nei lager o costringendoli all’esilio. Sotto la cappa di piombo del terrore non era possibile manifestare alcun dissenso che non fossero le lamentele o le critiche a bassa voce, anch’esse peraltro duramente punite. Poi ovviamente i grandi successi bellici iniziali rafforzarono la popolarità di Hitler. Tuttavia bisogna ricordare che la quota dei volontari di guerra rimase piuttosto bassa e che molte severe condanne vennero irrogate ai soldati tedeschi per insubordinazione o diserzione. In tutto l’arco della guerra vennero emesse circa 50 mila sentenze di morte contro militari, con un ritmo ovviamente in crescita dopo la disfatta di Stalingrado». Insomma, secondo Klinkhammer, è uno stereotipo dipingere tutti i tedeschi come volenterosi esecutori agli ordini del Fuhrer: «I fanatici non mancavano certo, specie tra le SS, ma anche nella classe dirigente conservatrice crescevano i dubbi. Molti avevano condiviso la politica di revisione del trattato di Versailles condotta da Hitler, ma temevano lo scoppio di una guerra che rischiava di vedere la Germania nuovamente isolata. Alcuni cercarono anche di mandare segnali ai britannici per convincerli a non fidarsi del Terzo Reich». Eppure Londra a Parigi reagirono tardi alle mosse aggressive di Hitler, gli consentirono di annettere l’Austria e di smembrare la Cecoslovacchia. «Bisogna tener conto — osserva Klinkhammer — che la Gran Bretagna e la Francia erano potenze globali, con possedimenti coloniali estesi in tutto il mondo, e faticavano a tenere sotto controllo le spinte indipendentiste dei popoli sottomessi e le mire di Stati emergenti come il Giappone. Temevano che una nuova guerra in Europa, oltre a dissanguarle ulteriormente, avrebbe destabilizzato i loro imperi. Non credo che abbiano sottovalutato l’aggressività di Hitler, ma piuttosto la sua disponibilità a correre rischi enormi pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto. Inoltre bisogna tener conto che negli Stati Uniti prevaleva l’isolazionismo, che induceva francesi e britannici alla prudenza. Per esempio l’ambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy, padre del futuro presidente John Fitzgerald Kennedy, era un convinto fautore della necessità di un approccio morbido verso la Germania». Lo stesso orientamento che poi prevalse a Mosca, anche se Hitler non aveva mai nascosto la sua intenzione di annientare il bolscevismo. «L’Unione Sovietica — ricorda Klinkhammer — era in una condizione di debolezza per via delle feroci purghe staliniane che avevano decimato i suoi ufficiali migliori. Aveva senza dubbio bisogno di guadagnare tempo. D’altronde il protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop le assicurò notevoli vantaggi territoriali, consentendole di annettere una vasta fetta di Polonia e i tre Paesi baltici. Colpisce che oggi il presidente russo Vladimir Putin, dopo aver condannato quell’accordo come immorale, sulla scia di Mikhail Gorbaciov, nel 2009, oggi torni a giustificarlo come faceva un tempo la storiografia sovietica». Le vittorie militari del Terzo Reich nella prima parte della guerra furono impressionanti. Come spiegarle? «Senza dubbio contarono le tattiche belliche moderne, specie nell’impiego dell’aviazione e dei reparti corazzati. Ma non dimentichiamo che le forze tedesche agirono senza il minimo scrupolo, invadendo Paesi neutrali come il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, per aggirare le fortificazioni francesi della linea Maginot, in piena violazione del diritto internazionale. Infine bisogna considerare l’avvento della società di massa, cominciato già con la Repubblica di Weimar e accentuato dal nazismo. La fine del regime imperiale determinò il tramonto del dominio aristocratico sulle forze armate, consentendo l’ascesa di molti ufficiali capaci provenienti dalla piccola borghesia. Rispetto a quello del Kaiser, l’esercito di Hitler era più omogeneo, perché erano venuti meno privilegi e incrostazioni dell’antico regime. Per questo si rivelò anche più efficiente».

L’assalto di Hitler al potere globale che precipitò l’Europa nell’abisso. Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Nell’immaginario globale del nostro tempo, non vi è evento più frequentato e celebrato della Seconda guerra mondiale. Commemorazioni ufficiali, film, serie televisive, libri, videogiochi ce la ripropongono di continuo. Sembra che sull’argomento sia stato detto tutto, ma il libro L’Europa in fiamme firmato da Silvia Morosi e Paolo Rastelli, in edicola dal 3 settembre con il «Corriere della Sera», ha la giustificata ambizione di aggiungere qualcosa, di fornire un approfondimento utile alla conoscenza del conflitto da cui trae tuttora legittimità l’intero sistema dei rapporti internazionali, visto che i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dotati del decisivo diritto di veto, restano in sostanza le potenze che, in un modo o nell’altro, uscirono vincitrici da quello scontro titanico: Stati Uniti, Russia (all’epoca nelle vesti più ampie di Unione Sovietica), Gran Bretagna, Francia e Cina. «L’Europa in fiamme», di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, è in vendita dal 3 settembre con il «Corriere della Sera» a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Il fatto è che nella memoria collettiva dominano alcuni avvenimenti e non altri. Certamente occupa un posto di primissimo piano l’orrore indicibile della Shoah, quale estremo limite dell’abiezione umana. E poi alcuni passaggi bellici cruciali, collocati in genere nella parte finale della lotta. Innanzitutto lo sbarco in Normandia, ma anche l’attentato fallito ad Adolf Hitler del 20 luglio 1944, la caduta di Berlino, i marines che issano la bandiera sull’isola di Iwo Jima, le bombe atomiche sul Giappone. Per l’Italia ovviamente lo sbarco in Sicilia degli angloamericani, l’armistizio dell’8 settembre, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, il 25 aprile. Tornando indietro nel tempo, un certo rilievo mantengono l’assedio di Leningrado e la battaglia di Stalingrado (due città che hanno entrambe cambiato nome), così come l’attacco giapponese a Pearl Harbor che, nel dicembre 1941, provocò l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Di recente il cinema ha rievocato i momenti più difficili vissuti dalla Gran Bretagna nel 1940, rendendo omaggio alla figura di Winston Churchill. Assai minore è l’attenzione rivolta verso le origini e le prime battute del conflitto, vicende su cui invece, nell’ottantesimo anniversario dell’attacco tedesco alla Polonia del settembre 1939, si sofferma il lavoro di Morosi e Rastelli. In genere, poiché la responsabilità preminente della Germania nazionalsocialista nello scatenare la guerra è fuori discussione, la si dà un po’ per scontata. Allo stesso modo, poiché la rapidità e la portata dei successi colti inizialmente dal Terzo Reich furono impressionanti, se ne considera palese una superiorità militare che all’epoca non appariva affatto tale. Invece ambedue le questioni meritano una significativa ridiscussione critica. Per questa ragione Morosi e Rastelli prendono l’argomento da lontano, con gli errori compiuti vent’anni prima a Versailles dai vincitori del primo conflitto mondiale e le ricadute devastanti della crisi economica scoppiata a Wall Street nel 1929. Vicende senza considerare le quali non si capiscono i meccanismi che portarono alla conflagrazione del 1939. Ma soprattutto gli autori analizzano il modo in cui le potenze occidentali da una parte e l’Urss di Stalin dall’altra cercarono di scaricarsi addosso reciprocamente l’aggressività nazista, finendo così per agevolare i disegni di Hitler. Da una parte Londra e Parigi si mostrarono arrendevoli alla conferenza di Monaco del 1938, abbandonando al suo destino la Cecoslovacchia, mutilata, smembrata e poi in gran parte occupata dai tedeschi. Dall’altra parte Mosca, nel settembre del 1939, non esitò ad accordarsi direttamente con Berlino, attraverso quel patto Molotov-Ribbentrop che sancì la spartizione della Polonia tra Urss e Terzo Reich. Importante, nel lavoro di Morosi e Rastelli, è anche la rassegna attenta delle forze in campo, dei mezzi disponibili e delle strategie messe in atto, che consente di capire perché la macchina bellica tedesca apparve a lungo inarrestabile. La ricostruzione dei due autori non trascura ovviamente il versante italiano, anche se termina proprio con l’intervento in guerra decretato da Benito Mussolini il 10 giugno 1940, dopo la fase ambigua della «non belligeranza». Anche qui si tratta di richiamare l’attenzione su aspetti della nostra storia studiati senza dubbio dagli specialisti, ma poco presenti nella narrazione usuale del dibattito pubblico. Quando si parla delle colpe di cui si macchiò il regime fascista, si ricordano le violenze squadriste, l’omicidio di Giacomo Matteotti, le leggi razziali del 1938 e (assai meno, a dire il vero) l’invasione dell’Etiopia avvenuta tre anni prima. Ma tra le pagine infami scritte da Mussolini, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e soprattutto alla Francia, ridotta in ginocchio dai tedeschi, occupa un rango nient’affatto secondario. Basta un’occhiata alle date: le truppe del Terzo Reich entrarono a Parigi il 14 giugno 1940, quattro giorni dopo il famoso discorso del Duce dal balcone di Palazzo Venezia, e il 22 giugno i francesi firmarono la resa. L’Italia quindi infierì su un Paese già vinto per saltare sul carro del vincitore all’ultimo momento. E lo fece senza alcuna coscienza delle conseguenze a cui andava incontro in un conflitto per il quale non era affatto preparata, come sapevano benissimo Mussolini e il resto della classe dirigente di allora. Era un bluff miope e meschino, di cui la volontà di resistere della Gran Bretagna (ma anche della debole Grecia…) rivelò presto l’inconsistenza. D’altronde Mussolini si era legato mani e piedi alla Germania un anno prima, con il Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939, e il suo ritrarsi di fronte alla volontà di guerra implacabile del dittatore nazista lo esponeva a un’eventuale rivalsa dello scomodissimo alleato. Il fascismo raccoglieva così i frutti avvelenati di scelte irresponsabili che, a partire dall’impresa abissina, avevano concorso a destabilizzare un assetto internazionale fragile, in sintonia con l’espansionismo montante di Hitler e con quanto andava facendo dall’altra parte del mondo il Giappone: l’invasione della Manciuria nel 1931 e poi l’attacco alla Cina del 1937, che di fatto segnò il vero inizio della guerra in Asia. Eventi, questi ultimi, che mostrano come già a metà degli anni Trenta vi fossero tutte le avvisaglie di una tempesta globale, per lo scatenamento della quale una responsabilità non da poco grava sul nostro Paese. È una lezione da tenere a mente anche oggi. Nel momento in cui la politica estera di parte della classe dirigente italiani sembra aver perso ogni orientamento che non sia la ricerca affannosa del consenso interno, quella follia del passato, pagata a così caro prezzo, induce a riflettere sugli effetti nefasti che può avere la tentazione di scherzare con il fuoco sullo scenario internazionale senza avere i mezzi per spegnere l’incendio, se dovesse scoppiare. Il testo qui pubblicato è la prefazione scritta da Antonio Carioti per il volume di Silvia Morosi e Paolo Rastelli L’Europa in fiamme, in edicola dal 3 settembre con il «Corriere della Sera» al prezzo di 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Nell’ottantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, cominciata con l’invasione della Polonia da parte della Germania nazionalsocialista il 1° settembre 1939, gli autori hanno ricostruito le premesse e le prime battute del conflitto che sconvolse l’Europa e il mondo intero fino al 1945.

L'ultima guerra mondiale? Un grande balzo (hi-tech). Dal nucleare ai carri, dai missili fino alle jeep: così le armi ci hanno portato nel nostro futuro. Matteo Sacchi, Domenica 25/08/2019, su Il Giornale. C'è una definizione di conflitto militare fornita da Carl von Clausewitz (1780-1831) che è diventata molto celebre: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Soprattutto per quanto riguarda i conflitti moderni si potrebbe parafrasarla così: «La guerra non è che la continuazione dell'evoluzione scientifica e tecnologica con altri mezzi». E che mezzi! Può piacere o non piacere ma la Seconda guerra mondiale, la più grande e orrenda strage che l'umanità abbia mai conosciuto, è stata una folle corsa verso il futuro. Nel tremendo urto della tempesta d'acciaio gli scienziati e gli ingegneri di tutto il mondo premettero il piede sull'acceleratore di quasi tutti i rami della produttività umana. È il tema (tra gli altri) di cui si occupa Marco Lucchetti in Le armi che hanno cambiato la Seconda guerra mondiale (Newton Compton, pagg. 610, euro 14,99) che uscirà giovedì prossimo. Lucchetti, grande esperto di storia militare e di armamenti, racconta nel dettaglio il gigantesco balzo scientifico prodotto dalla guerra nella sua ricerca costante di nuove armi. Alcuni di questi sviluppi, ovviamente, sono evidenti e li abbiamo costantemente davanti agli occhi. Un esempio per tutti: senza il «Progetto Manhattan» non ci sarebbe stato nemmeno lo sviluppo dell'energia nucleare a scopo civile. Giusto per dare l'idea dell'enorme sforzo: il Progetto iniziò con poche risorse nel 1939 ma crebbe ad un ritmo forsennato sino ad occupare più di 130mila persone, tra cui moltissimi uomini del genio dell'U.s. Army, e costò quasi 2 miliardi di dollari. Oltre il 90% dei costi fu impiegato per costruire edifici e produrre materiale fissile, con solo il 10% impiegato per lo sviluppo e la produzione di armi. L'attività di ricerca e produzione ebbe luogo in più di 30 siti diversi negli Stati Uniti, Regno Unito e Canada. Senza la guerra nessuno avrebbe portato avanti una ricerca scientifica e industriale del genere così in fretta. L'uomo sarebbe arrivato di sicuro all'utilizzo dell'energia atomica ma probabilmente molti decenni dopo. Ma anche nel campo dell'aviazione. Sì, è vero che i progetti per i primi aviogetti circolavano già dagli anni Trenta (il prototipo Coanda 1 data addirittura al 1910). Ma questi velivoli come l'italiano Caproni-Campini C.C.2 avevano prestazioni non distanti da quelle dei velivoli ad elica ed il loro sviluppo stava avvenendo con grande lentezza. La guerra trasformò l'aviogetto in una priorità, proiettando l'aviazione, anche quella civile, nella contemporaneità di voli di linea capaci di superare con facilità la velocità dei caccia con motori a pistoni dell'inizio del conflitto. Ma molte altre armi hanno dato slancio allo sviluppo post bellico. Senza le V1, le V2, e Von Braun l'uomo sarebbe arrivato sulla Luna? Anche in questo caso la risposta è certamente sì, ma probabilmente molto dopo. Questi sono, come dicevamo, gli esempi più evidenti. Lucchetti accompagna il lettore in una lunga carrellata, molto ricca di immagini, che mette l'accento su tutte le armi e i mezzi innovativi del conflitto, autocarri compresi. Come racconta bene nell'introduzione molte di queste innovazioni restarono, per altro, a lungo incomprese dagli ufficiali e dagli stati maggiori che dovevano utilizzarle. Tedeschi a parte all'inizio delle ostilità erano ben pochi quelli che avevano capito come andasse utilizzato un carro armato. E anche in questo caso, gli stessi inventori del Blitzkrieg non furono esenti da errori o retromarce disastrose. Prendiamo lo studio tedesco per il gigantesco carrarmato Maus (panzer VIII). Di questo mostro iper pesante vennero realizzati solo due prototipi (ritrovati vicino al poligono di Kummersdorf), non si sa se mai usati in combattimento. Eppure era tutt'altro che una super arma. Lentissimo e pesantissimo (188 tonnellate), non avrebbe avuto nessun effetto sulle sorti della guerra. La tattica dei carri era già svoltata verso i carri medi armati con cannoni ad alta penetrazione come il Panther (che però Hitler odiava a morte). Ma alla fine il mito dei carri pesanti continuò a restare nella testa di certi generali, non solo tedeschi, ben oltre la fine del Secondo conflitto mondiale. Ma davvero gli spunti del libro di Lucchetti sono tanti, si va dalle corazzate ai camion, spesso prendendo atto di come gli italiani avessero ottimi spunti innovativi e progettuali ma purtroppo un'industria poco in grado di realizzarli e degli stati maggiori miopi. Ecco, davvero valida la parte dedicata ai mezzi di trasporto che spesso altri libri lasciano un po' in disparte. Basti ricordare che a decretare il vero successo di una idea vincente, come quella del General Purpose Vehicle che i militari americani pronunciavano Jeep, è stato soprattutto il mercato civile. A produrre questi veicoli durante il conflitto erano state svariate aziende. Ma fu la Willys-Overland che subodorando l'affare depositò la domanda di registrazione del marchio «Jeep» nel febbraio 1943. La registrazione del nome da parte di Willys inizialmente incontrò anni di opposizione, principalmente da parte della Bantam, ma anche dalla Minneapolis-Moline. La Federal Trade Commission inizialmente si pronunciò a favore della Bantam nel maggio 1943, ignorando in gran parte le affermazioni di Minneapolis-Moline, e si oppose alla Willys-Overland vietandole l'utilizzo del nome nelle proprie campagne pubblicitarie. Anche la Ftc denunciò formalmente la Willys affinché cessasse di utilizzare qualsiasi affermazione secondo cui il progetto Jeep fosse stato originato dalla stessa. Alla fine la Willys la spuntò. Ma si era già passati dalla Seconda guerra mondiale alla grande guerra della pubblicità e del mercato che dura ancora oggi.

VITE E AMORI DEGLI ANTIFASCISTI RADICALI. Marcello Sorgi per la Stampa il 3 settembre 2019. Oltre a cogliere di sorpresa mezzo mondo, il 23 agosto del 1939, il Patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei due ministri degli Esteri russo e tedesco (rimasto più famoso il primo, anche per l' intitolazione a suo nome delle bottiglie incendiarie che molta fortuna ebbero, come armi improprie, dagli Anni Trenta della Guerra di Spagna al '68), lasciò annichiliti un gruppo di esuli antifascisti italiani, increduli di fronte all' accordo tra le due grandi dittature novecentesche che il primo settembre, otto giorni dopo, doveva accendere la miccia della Seconda guerra mondiale. Erano un gruppo di irriducibili, come li definisce, fin dal titolo, il libro della storica Mirella Serri (Gli irriducibili, in uscita giovedì per Longanesi, pp. 240, 19), che fin dall' avvento del fascismo, quando ancora molti che poi si sarebbero ribellati tardivamente indugiavano, avevano colto l' aspetto autoritario e violento del regime di Mussolini e si erano impegnati a contrastarlo con tutti i mezzi, una resistenza prima della Resistenza che pose fine all' occupazione nazista e all' avventura del Duce. Nati a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, educati quasi tutti in famiglie colte e borghesi, intellettuali, pensatori, filosofi, amanti della scrittura e dei giornali, i loro nomi, anche se con diversa evidenza, sono entrati nella storia, per conoscere successivamente un oblìo a cui il libro della Serri vuole rimediare: ricostruendone le vite romanzesche, lo sprezzo del pericolo, i sentimenti, l' amicizia, gli amori, le morti tragiche. Erano Giorgio Amendola (figlio del ministro liberale Giovanni, assassinato dai fascisti), leader per tutta la sua vita della «destra» comunista e maestro di Giorgio Napolitano, due volte Presidente della Repubblica. I fratelli Emilio, Enzo e Enrico Sereni, ebrei, ministro del governo De Gasperi nel dopoguerra il primo, morto a Dachau in campo di concentramento il secondo, mancato ancor giovane, forse suicida, il terzo. E poi Nadia Gallico, moglie di Velio Spano, tra le prime donne elette all' Assemblea Costituente, Ada Ascarelli, vedova di Enzo Sereni e grande organizzatrice della partenza verso Israele di oltre 25 mila ebrei a rischio di finire deportati, Giuseppe Di Vittorio, che sarà leader della Cgil, Ferruccio Besanson e Maurizio Valenzi, che diventerà sindaco di Napoli negli Anni Settanta, dopo un lungo periodo di emarginazione seguito all' esilio a Tunisi e al ritorno in patria grazie all' aiuto dei servizi segreti inglesi, Carlo e Nello Roselli, assassinati in Francia su mandato del regime fascista dopo la rocambolesca fuga del primo dal confino a Lipari. Erano militanti della sinistra clandestina, in maggior parte comunisti nel Pcd' I non ancora Pci, socialisti, repubblicani o di Giustizia e libertà. Gli anni duri dello stalinismo, con le accuse settarie di «socialfascismo» a chiunque non fosse sottomesso a Mosca, verranno a segnare dolorose divisioni tra loro, compreso il diffuso antisemitismo che finirà col separare anche Emilio Sereni dal fratello Enzo e dalla cognata Ada. Perché anche questo accadde, ci fu un tempo in cui i comunisti, per effetto della «guerra fredda» che gelò la pace in Europa, consideravano Churchill più o meno alla stregua di Hitler e diffidavano di chiunque tra i loro militanti avesse avuto a che fare con gli inglesi. Ma fermiamoci un momento a riflettere su cosa rappresentò, soprattutto per gli esuli a Parigi, ma non solo, l'avvento del patto nazi-sovietico e dell' inizio di una guerra che in quel momento sembrava orientata a concludersi con una spartizione dell' Europa tra le due dittature di Mosca e Berlino e con la cancellazione delle «vecchie» democrazie occidentali di Francia e Inghilterra. Il ritrovarsi, da un giorno all' altro, nemici nel paese che li aveva accolti, consentendogli piena libertà politica e di iniziativa nelle loro attività clandestine. La forzata obbedienza al diktat staliniano della diffidenza verso tutte le altre forme di antifascismo che non fossero quella della fede comunista. La rottura dell' unità nella lotta contro il regime fascista che per loro affondava le radici in un' educazione e una cultura comuni, maturate negli anni dell' adolescenza. La fine di tante amicizie. Su tutte, spicca la figura di Giorgio Amendola, «Giorgione», data la sua mole enorme (un gigante da 120 chili), il carattere gioviale, la passione per il buon cibo e gli abiti eleganti, le capacità di grande oratore, dirigente e organizzatore. Un uomo che anche nei momenti difficili, sapeva prendersi tempo per apprezzare, a Parigi, l' arte, la cultura, gli spettacoli, e forse lo faceva consapevole di rischiare la vita e ignorando se il giorno dopo avrebbe potuto farlo ancora. Eretico e insieme ortodosso con Mosca, implacabile nel confronto personale con chi era in disaccordo con lui (memorabili le discussioni con Di Vittorio nella redazione del giornale per gli emigrati in Francia La voce degli italiani), tenero nell' amore per la moglie Germaine, ma disponibile, per una notte, «con una cameriera che gli era entrata nel letto». Questo era Amendola. Serri ricostruisce le storie, descrive la vita quotidiana degli esuli con il passo di un romanzo e si addentra con fini indagini psicologiche nel carattere dei personaggi. Come ad esempio la coppia Enzo Sereni-Ada Ascarelli, riparati in un kibbutz ebreo in Palestina, esperienza pratica di una sorta di socialismo a lungo sognata e in realtà deludente, per l' esasperante privazione di qualsiasi bene personale e la messa in comune di tutto, perfino le scarpe! Tal che Enzo, senza che Ada riesca a trattenerlo, sentendosi soffocato dalle regole di vita della comunità e richiamato dal suo istinto rivoluzionario, decide di partire, farsi paracadutare nella campagna toscana e finisce prigioniero dei tedeschi e poi in campo di concentramento a Dachau, dove verrà torturato e condannato a morte. Come tutti gli esuli, gli irriducibili sopravvissuti, alla fine della guerra, torneranno a casa. Ma l' accoglienza, da parte del partito «nuovo» togliattiano che si è già affidato a una nuova generazione, non sarà quella che si aspettano. Un' amarezza in più, che si aggiunge alle molte della, come la chiamavano, «generazione delle vite difficili».

·         Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16.

Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16: 65 chili di uranio sopra la città. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 Alessandra Arachi su Corriere.it. Si dice che Laura Capon abbia saputo dalla radio che alle 8.16 di quel lunedì mattina una bomba violenta - la più violenta della storia del mondo - aveva deflagrato Hiroshima, una città giapponese . In una manciata di minuti aveva bruciato 80 mila persone. Era il 6 agosto del 1945. Da suo marito Enrico Fermi Laura non era riuscita a carpire la più piccola emozione che potesse far presagire alcunché, nemmeno una smorfia. Quel lunedì mattina lo scienziato senza il quale la bomba atomica non si sarebbe mai potuta costruire, era uscito dalla sua casa di Los Alamos per raggiungere i laboratori, come tutte le altre mattine. Laura Capon era rimasta in cucina ad aspettare che si svegliassero Nella e Giulio. Fino a quel momento la moglie di Fermi non aveva nemmeno mai saputo il perché tutta la sua famiglia si fosse dovuta trasferire in quel grande complesso di Los Alamos, abitato soltanto dai più grandi fisici del mondo. Sono state le condizioni metereologiche avverse a far deviare su Hiroshima l’areoplano statunitense Enola Gay. Nei piani di volo inizialmente era previsto che il bombardiere americano si dirigesse su Kokura per sganciare quella sessantina di chilogrammi di uranio 235 contenuti nell’ordigno nucleare, il più grande mai neanche immaginato, almeno fino a quel momento. La storia ci insegna che passarono appena tre giorni, e il 9 agosto il massacro nucleare si è ripetuto, toccò Nagasaki questa volta, una dose di sei chili e mezzo di plutonio 239 e il Giappone si mise in ginocchio davanti agli Stati Uniti. Non avrebbero mai potuto immaginare, i giapponesi, che con la bomba di Nagasaki gli americani avevano esaurito le bombe atomiche. A Los Alamos ne avevano costruite tre di bombe, e una era già stata sganciata come bomba test il 16 luglio nel deserto di Alamogordo. Fermi non si era degnato nemmeno di guardarlo in faccia quell’esperimento test, aveva preferito gettare in aria dei piccoli pezzi di carta per calcolare la potenza della bomba misurando lo spostamento dalla verticale della carta per effetto della deflagrazione. Forse non aveva avuto il coraggio. La bomba atomica era stata davvero una creatura tutta sua, non avrebbe mai potuto esistere senza quella sua scoperta della radioattività indotta dai neutroni lenti , fatta tra le gloriose mura del laboratorio di via Panisperna. Gli americani l’hanno chiamata in codice «Little Boy» la bomba che Enola Gay sganciò su Hiroshima quel lunedì mattina. Un nomignolo gentile per un’ordigno che conteneva 64,3 chilogrammi di uranio arricchito all’80 per cento, e aveva un’attività fissile della massa critica che durava 1,35 millisecondi, e nell’esplosione ha liberato un’energia compresa tra i 12,5 e i 20 chilotoni, e poco importa capire nei dettagli cosa significano misure che non ci sono consuete, è sufficiente il massacro che ha provocato . Fu Albert Einstein che nel 1939 chiese che venisse dato il via alla costruzione della bomba atomica. Lo scienziato tedesco si era rifugiato a State Island, nello stato di New York, per sfuggire alle leggi razziali, e da lì scrisse all’allora presidente degli Stati Uniti Roosvelt chiedendo di creare la bomba, e di farlo al più presto, serviva la massima difesa possibile contro la follia di Adolfo Hitler. In quei tempi, infatti, Hitler aveva invaso le miniere di uranio della Cecoslovacchia, e aveva messo al lavoro i suoi fisici migliori per arrivare a costruire l’ordigno nucleare, il terrore di una simile arma in mano al Fuhrer spinse Roosvelt a dare il via al Progetto Manhattan.

·         Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo).

Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo). Silvia Morosi e Paolo Rastelli il 29 agosto 2019 su pochestorie.corriere.it. Una “guerra mondiale per procura” Così Anthony Beevor ha definito la guerra civile nell‘ottimo volume dedicato al feroce conflitto che insanguinò la Spagna tra il 1936 e il 1939. Un concetto che anche gli autori di questo blog hanno ampiamente sviluppato nel loro libro L’Europa in fiamme , in uscita il 3 settembre con il Corriere della Sera, che racconta gli antefatti e lo scoppio del secondo conflitto mondiale a 80 anni dal quel fatale 1939. Un conflitto di cui il massacro spagnolo fu un antefatto significativo. Una definizione affascinante, quella di Beevor, che come tutte le definizioni – però – rischia l’eccessiva semplificazione. Il fronte antifascista della guerra spagnola fu vasto nelle società civili europee e americane, con il fenomeno, mai più ripetuto su scala così vasta, delle “brigate internazionali” che accorsero in difesa del legittimo governo repubblicano spagnolo aggredito dalla rivolta dei militari guidati dal generale Francisco Franco contro il governo di Fronte popolare di Largo Caballero, il “Lenin spagnolo”. Ma a livello governativo Francia e Gran Bretagna si comportarono in modo ben diverso da quanto avrebbero fatto nel settembre 1939 in risposta all’aggressione tedesca alla Polonia. Solo l’Unione sovietica rimase in qualche modo fedele a se stessa, nel bene e nel male (più nel male, almeno alla fine della guerra spagnola), mentre gli Stati Uniti rimasero alla finestra.

Aiuti a Franco – Italia fascista e Germania nazista, come era logico, presero da subito le parti di Franco, inviando armi munizioni e uomini: i volontari italiani, in gran parte camicie nere della milizia ma anche soldati dell’esercito regolare, arrivarono a ben 50 mila unità. Le aviazioni italiana e tedesca aiutarono il trasporto dal Marocco alla madrepatria dei regulares marocchini e della Legione straniera spagnola, i migliori soldati di cui disponessero i ribelli. Poi fornirono a Franco un costante appoggio aereo che ebbe non poca importanza nel determinare l’esito di molte battaglie, oltre a inaugurare l’epoca del bombardamento indiscriminato delle città (Guernica e Madrid, ma non solo). Le marina italiana e germanica protessero la navigazione dei mercantili sotto bandiera nazionalista. Finchè le pressioni internazionali non costrinsero Roma a smettere, i sommergibili italiani silurarono alcune navi rimaste fedeli alla Repubblica: visto che l’Italia non era ufficialmente in guerra con la Spagna,  furono atti di vera e propria pirateria che costituiscono invero una pagina vergognosa per la nostra marina militare.

Eden prudente – Sul fronte opposto, la Gran Bretagna, pur senza affermarlo esplicitamente, decise da subito di non ostacolare il colpo di stato franchista, la cui vittoria era considerata meno dannosa per gli interessi britannici. Anthony Eden, ministro degli Esteri del governo conservatore di Stanley Baldwin, era convinto che in Spagna la guerra civile sarebbe finita con una dittatura fascista o una comunista. Tra le due, preferiva la prima, in questo confortato anche dal fatto che a fianco dei ribelli nazionalisti era schierato l’ambasciatore di Londra in Spagna e buona parte degli ufficiali della Royal Navy di stanza del Mediterraneo. Del resto molti membri del partito conservatore non nascondevano la loro simpatia per i governi tedesco e italiano che avevano in maniera tanto efficace eliminato il pericolo comunista nelle rispettive nazioni. Così Londra decise l’embargo totale sulle forniture di armi alle parti in guerra, equiparando di fatto il governo legittimo ai ribelli. Poichè inoltre il governo Baldwin non riconosceva ufficialmente la partecipazione di Italia e Germania alla lotta, ne conseguì che le uniche armi che furono di fatto bloccate furono quelle che la Repubblica tentava di procurarsi con acquisti all’estero.

Il “non intervento” – In Francia, il governo di Fronte popolare guidato da Leon Blum, in carica da poco quando si verificò il colpo di stato in Spagna, si preparò ad aiutare la Repubblica, ma fu fermato sia dalle pressioni inglesi che dalle preoccupazioni delle forze armate e degli imprenditori: la Francia stessa sembrava sull’orlo della guerra civile, con scontri nelle strade tra estremisti di destra e sinistra, e una mossa di appoggio alla Spagna repubblicana avrebbe rischiato di far sprofondare il Paese nel caos. Così la Francia, per uscire dai suoi problemi,  fu la principale animatrice di quel “Comitato per il non intervento” che, con la nominale partecipazione di Parigi, Londra, Roma e Berlino, si impegnò a non fornire aiuti ad alcune delle due parti in lotta in Spagna, equiparando così, di nuovo, un governo legittimo a uno ribelle. Inoltre, poichè il confine franco-spagnolo era l’unico da cui potevano passare armi destinate alla Repubblica, almeno finchè questa rimase in possesso di una parte delle province settentrionali, ne venne di conseguenza che un altro canale di rifornimento si inaridì quasi completamente. Il tutto mentre Italia e Germania davano al comitato risposte interlocutorie e aumentavano i loro aiuti a Franco.

Usa alla finestra – Gli Stati Uniti, ancora molto isolazionisti e diffidenti verso le complicazioni europee, non si fecero coinvolgere, anche per le pressioni filo-nazionaliste dei cattolici americani, in cui primeggiò Joseph P. Kennedy, il padre del futuro presidente ucciso a Dallas: la Chiesa cattolica spagnola, fortemente schierata su posizioni di destra e quindi attore politico durante tutti gli anni precedenti alla guerra civile, era stata sottoposta a violenze, uccisioni indiscriminate, confische e dissacrazioni di chiese) nei territori controllati dalla Repubblica, il che aveva provocato la reazione dei cattolici in tutto il mondo (anche se il numero complessivo delle vittime di atrocità nazionaliste fu di gran lunga maggiore: circa 200 mila – compresi i giustiziati nelle epurazioni del dopoguerra – contro 38 mila). Tuttavia il mondo degli affari Usa fu tutt’altro che neutrale: la Texas Oil e la Standard Oil del New Jersey fornirono gran parte dei 3,5 milioni di tonnellate di petrolio che Franco ricevette a credito durante il conflitto. Ford, Studebaker e General Motors mandarono 12 mila autocarri e la Dupont de Nemours (chimica) 40 mila bombe, inviate attraverso la Germania.

L’appoggio sovietico – Così al fianco della Repubblica restarono nel mondo solo Unione Sovietica e Messico. All’inizio il dittatore Stalin, timoroso come era di irritare la Germania nazista e fautore temporaneo del “socialismo in un solo Paese“, si rifiutò di aiutare il governo legittimo di Madrid. Poi capì che il suo prestigio di leader del movimento operaio mondiale rischiava di essere molto appannato se avesse lasciato i minatori delle Asturie e gli operai della Catalogna a battersi senza armi contro i generali di destra. Così dimostrazioni “spontanee” a favore della Spagna avvennero in tutta la Russia e gli aiuti cominciarono ad arrivare. Aiuti consistenti, uomini sotto forma di consiglieri politici e militari e armi spesso equivalenti o addirittura migliori (per esempio nel settore mezzi blindati) di quelli forniti da Berlino e Roma. Ma avere un solo fornitore di armi significa avere un padrone. E la Repubblica spagnola se ne accorse presto, man mano che il conflitto si inaspriva chiedendo sforzi e risorse sempre maggiori. Quando i comunisti spagnoli decisero di rinsaldare la presa sullo Stato, impadronendosi prima di tutto delle forze di sicurezza (secondo un copione che si sarebbe ripetuto pari pari nell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale), ogni opposizione al progetto rischiava di mettere in forse le forniture di armi. E quando scoppiò in maniera decisa il conflitto tra comunisti e anarchici, soprattutto in Catalogna, quel che restava della Spagna non comunista dovette cedere al predominio del Pce, i cui vertici accusarono gli anarchici di trotzkismo con l’abituale seguito di processi-farsa, arresti illegali, torture e omicidi politici, sulla falsariga di quanto stava avvenendo nell’Unione sovietica con le “grandi purghe” di Stalin. Una “guerra civile nella guerra civile” (scrive Beevor) che indebolì fatalmente la Repubblica.

·         Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto.

Anna Frank. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Annelies Marie Frank, detta Anne, chiamata Anna Frank in italiano, (Francoforte sul Meno, 12 giugno 1929 – Bergen-Belsen, febbraio o marzo 1945), è stata una giovane ebrea tedesca, divenuta un simbolo della Shoah per il suo diario, scritto nel periodo in cui lei e la sua famiglia si nascondevano dai nazisti, e per la sua tragica morte nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Visse parte della sua vita ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, dove la famiglia si era rifugiata dopo l'ascesa al potere dei nazisti in Germania. Fu privata della cittadinanza tedesca nel 1935, divenendo così apolide e nel proprio diario scrisse che ormai si sentiva olandese e che dopo la guerra avrebbe voluto ottenere la cittadinanza dei Paesi Bassi, Paese nel quale era cresciuta.

Anna nacque il 12 giugno 1929, come seconda figlia di Otto Heinrich Frank (12 maggio 1889 - 19 agosto 1980) e di sua moglie Edith Frank, nata Holländer (16 gennaio 1900 - 6 gennaio 1945), nella clinica dell'Associazione delle donne patriottiche nel parco Eschenheim, a Francoforte: questa clinica venne distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Aveva una sorella maggiore, Margot Betti Frank (16 febbraio 1926 - febbraio 1945). Fino all'età di due anni Anna visse nell'edificio in Marbachweg n. 307 e in seguito si trasferì nella Ganghoferstraße n. 24 (entrambe nel quartiere Dornbusch). La famiglia Frank viveva in una comunità mista e i figli crebbero insieme con bambini di fede cattolica, protestante ed ebraica. I Frank erano ebrei riformati: molte tradizioni ebraiche erano conservate, ma solo alcune venivano praticate. Edith era la più credente, mentre Otto, che aveva prestato servizio come ufficiale per l'esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale, lavorava come imprenditore e si occupava principalmente dell'educazione delle sue figlie, che stimolava alla lettura grazie anche alla ricca biblioteca privata che possedeva. Anna dovette sempre confrontarsi con i paragoni con la sorella maggiore Margot: questa era buona, esemplare e timida, mentre Anna era molto più vivace, piena di interessi, ma anche estroversa e impulsiva e si sentiva costantemente trattata peggio della sorella. Prima che l'avvento del nazionalsocialismo irrompesse e distruggesse la sua vita, Anna viveva tranquillamente con la sua famiglia e con i suoi amici a Francoforte. Poteva anche recare visita alla nonna Alice Frank, la madre di Otto, a Basilea. Nel 1931 questa si era trasferita con la figlia Helene detta "Leni" (zia di Anna e sorella di Otto) e i figli di lei Stephan e Bernhard (divenuto poi famoso come attore con lo pseudonimo di Buddy Elias) a Basilea, dove suo marito nel 1929 aveva aperto la rappresentanza svizzera della Opekta, una ditta producente pectina per la realizzazione di marmellate. Anna Frank viene descritta dal cugino Bernhard come una "bambina vivace, che non faceva altro che ridere". Subito dopo che la NSDAP ebbe ottenuto la maggioranza alle elezioni comunali di Francoforte del 13 marzo 1933 – poche settimane dopo l'ascesa al potere di Hitler – cominciarono a esserci delle dimostrazioni antisemite. Otto Frank cominciò a temere per il futuro della sua famiglia e insieme alla moglie cominciò a pensare che cosa sarebbe potuto succedere se fossero rimasti in Germania. Più tardi, nello stesso anno, Edith si trasferì con le figlie ad Aquisgrana da sua madre Rosa Holländer. Otto inizialmente rimase a Francoforte, in seguito ricevette l'offerta da Robert Feix di andare ad aprire una filiale dell'Opekta ad Amsterdam. Si trasferì nei Paesi Bassi per organizzare i suoi affari e per preparare l'arrivo del resto della sua famiglia. Nel frattempo, con la legge sulla cittadinanza, la famiglia Frank perse la cittadinanza tedesca.

L'esilio ad Amsterdam. Edith e la figlia maggiore raggiunsero Otto nel dicembre del 1933, Anna nel febbraio 1934 e andarono a vivere in un palazzo condominiale in Merwedeplein n. 37, nel nuovo quartiere di Rivierenbuurt in quella che al tempo era la periferia meridionale della città, dove molte famiglie tedesche di origini ebraiche avevano cercato una nuova patria. Anche in esilio i genitori si occuparono dell'educazione delle due figlie: Margot frequentò una scuola pubblica, mentre Anna venne iscritta alla scuola pubblica montessoriana nº 6 nella vicina Niersstraat. Mentre Margot eccelleva soprattutto in matematica, Anna si mostrava portata nel leggere e nello scrivere. Tra le amiche più intime di Anna dopo il 1934 si annoverano Hanneli Goslar e Sanne Ledermann. Goslar più tardi raccontò che spesso Anna scriveva di nascosto e non rivelava a nessuno quello che scriveva. Questi primi appunti sono andati persi, ma "Hanneli", come veniva chiamata da Anna, è oggi un'importante testimone le cui memorie sono state raccolte in un libro nel 1998 da Alison Leslie Gold. Un'altra amica, Jacqueline van Maarsen, raccontò in seguito le esperienze vissute insieme con Anna.

Nel 1935 e nel 1936 Anna poté ancora fare spensierate vacanze con la sua prozia parigina Olga Spitzer in Svizzera a Sils im Engadin, dove strinse amicizia con una ragazza del posto. Solo di recente, su iniziativa privata è stato eretto un monumento in ricordo di Anna dove sorgeva "Villa Spitzer" (oggi "Villa Laret").[9] Dal 1933 Otto Frank diresse la filiale olandese della ditta (tedesca) Opekta. Nel 1938 Otto avviò una seconda ditta insieme con il macellaio Hermann van Pels - anche lui in fuga con la sua famiglia ebrea da Osnabrück - per la distribuzione di sale da conservazione, erbe e spezie: la Pectacon. Nel frattempo ad Aquisgrana i nazisti espropriarono la banca di suo padre Michael, banca per altro già segnata dalla crisi finanziaria del 1929.

Nel 1939 la madre di Edith raggiunse i Frank ad Amsterdam, dove rimase fino alla sua morte nel gennaio del 1942. Di quanto pochi scrupoli si facessero i nazisti i Frank lo appresero in prima persona dal fratello di Edith, Walter Holländer, che durante la notte dei cristalli era stato arrestato e portato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, per poi ottenere un'autorizzazione speciale che gli consentì di emigrare nei Paesi Bassi. Otto Frank non si fece però distogliere dal suo ottimismo dai racconti delle sinagoghe in fiamme: definì l'accaduto come un "attacco febbrile" che avrebbe poi riportato tutti alla ragione. La speranza divenne però paura allorquando, con l'attacco alla Polonia nel settembre 1939, scoppiò la Seconda guerra mondiale. Gli ebrei in esilio temevano che anche i Paesi Bassi, che cercavano di mantenere la loro neutralità, venissero minacciati dall'espansionismo di Hitler. E in effetti il 10 maggio 1940 l'Olanda fu attaccata e occupata dalla Wehrmacht tedesca: le forze olandesi capitolarono e la regina Guglielmina volò in esilio a Londra. Presto apparve evidente che per gli ebrei dei Paesi Bassi incombeva lo stesso destino di quelli delle altre zone occupate. Otto e Edith Frank non poterono più tenere nascosti ai figli i problemi politici: fino a questo momento i genitori avevano sempre cercato di fare da scudo alle bambine, cercando di garantire loro un'apparente normalità. Come testimoniano alcune lettere rinvenute nel 2007, Otto Frank aveva più volte cercato di ottenere asilo negli Stati Uniti o a Cuba, anche con l'aiuto dell'amico Nathan Straus, che aveva contatti con la First Lady Eleanor Roosevelt; ma i tentativi furono vani. Nuove leggi antisemite toglievano loro progressivamente i diritti: vennero esclusi dalla vita sociale e da quella pubblica. In particolare, il divieto di andare al cinema colpì molto duramente Anna, che era un'entusiasta cinefila e collezionista di foto di star del cinema. Come tutti gli ebrei, dovette abbandonare la scuola pubblica a favore di uno speciale liceo per sole ragazze ebree. Fu introdotto l'obbligo per tutti gli ebrei di registrarsi in un apposito registro anagrafico (con foto e impronte digitali); in seguito dovettero registrare addirittura le loro biciclette. Quando furono obbligati a portare sui vestiti la stella gialla che contrassegnava gli ebrei, molti olandesi solidarizzarono con loro. Ma d'altro canto nacque anche un partito nazista olandese, il Movimento Nazional-Socialista. Per proteggere le sue aziende dalla confisca che colpiva le imprese gestite da ebrei, Otto Frank cedette la direzione pro forma ai suoi collaboratori ariani, Johannes Kleiman e Victor Kugler e l'impresa assunse il nome di Gies & co...

Il 12 giugno 1942, Anna ricevette per il suo tredicesimo compleanno un quadernino a quadretti bianco e rosso, sul quale incomincerà a scrivere (in olandese) il Diario, inizialmente sotto forma di annotazioni a proposito della scuola e degli amici, quindi come immaginaria corrispondenza con le protagoniste di una popolare serie di romanzi per ragazze "Joop ter Heul" della scrittrice olandese Cissy van Marxveldt, di cui lei e le amiche erano accanite lettrici.

La clandestinità. Otto Frank aveva preparato un nascondiglio nella casa retrostante (Achterhuis in olandese) l'edificio in cui aveva sede la ditta, in Prinsengracht 263, seguendo un suggerimento del suo collaboratore Kleiman. L'edificio principale, nelle vicinanze della Westerkerk, era discreto, vecchio e tipico di questo quartiere di Amsterdam; l'achterhuis era un edificio a tre piani che si trovava dietro l'edificio principale. Al primo piano c'erano due piccole camere con bagno e toilette; di sopra c'erano una camera grande e una più piccola; infine tramite una scala si arrivava al sottotetto. La porta che conduceva a questo retrocasa di quasi 50 m², che era collegata con una ripida scala all'ingresso degli uffici, venne nascosta da una libreria girevole. Otto Frank aveva chiesto aiuto alla sua segretaria Miep Gies (nata Hermine Santrouschitz): sebbene lei sapesse di andare incontro a grossi problemi nel caso fossero stati scoperti, accettò di aiutarlo e si assunse la pesante responsabilità. Insieme con suo marito Jan Gies e ai collaboratori di Frank Kugler e Kleiman, nonché Bep Voskuijl, Miep Gies aiutò gli abitanti del retrocasa. La situazione della famiglia precipitò quando il 5 luglio 1942 Margot ricevette da parte dell'Ufficio Centrale per l'emigrazione ebraica ad Amsterdam un invito a comparire ai fini della successiva deportazione in un campo di lavoro. Se Margot non si fosse presentata spontaneamente, l'intera famiglia Frank sarebbe stata arrestata. Questo episodio spinse Otto Frank a nascondersi con la famiglia prima di quanto avesse previsto. Già il giorno successivo, il 6 luglio, cominciò per l'intera famiglia una vita in clandestinità, dato che una fuga dai Paesi Bassi appariva assolutamente impraticabile. Quando il suo amico Helmut "Hello“ Silberberg andò a trovare Anna a casa sua, non la trovò più. Per sviare i controlli, i Frank avevano lasciato il loro appartamento sottosopra con un biglietto in cui dicevano di essere improvvisamente fuggiti in Svizzera. Dopo una settimana nell'Achterhuis arrivò anche la famiglia van Pels, mentre nel novembre 1942 si aggiunse il dentista Fritz Pfeffer.

6 maggio 1983 ad Amsterdam. L'iniziale speranza di Otto di poter tornare tutti in libertà dopo qualche settimana o al massimo dopo qualche mese, si rivelò vana: essi furono costretti infatti a restare nascosti per poco più di due anni. Durante questo periodo non potevano uscire né fare nulla che potesse attirare l'attenzione (ad esempio facendo rumore). Il clima di tensione nel retrocasa, dove i rifugiati vivevano costantemente nella paura e nell'incertezza, portava ripetutamente a tensioni e conflitti tra loro. Più passava il tempo, più evidenti diventavano i conflitti interpersonali. Ad esempio Anna era in conflitto con Fritz Pfeffer, con il quale doveva condividere la stanza e che quindi disturbava la sua privacy personale: per tale motivo nel diario Anna utilizzò lo pseudonimo di "Dussel" (sciocco), senza tenere in considerazione che anche per il dentista non erano tempi facili, dovendo tra l'altro stare separato dalla compagna Charlotte Kaletta che in quanto cristiana non aveva la necessità di nascondersi. Anna litigò spesso anche con sua madre, soprattutto perché Edith con il passare del tempo sembrava sempre più disperata e senza speranze, cosa che non si confaceva al carattere di Anna: il padre Otto faceva spesso da mediatore. Per Anna era particolarmente dura perché era all'inizio della sua adolescenza, quando si è lunatici e ribelli per natura, e invece lei si ritrovava rinchiusa con i genitori e obbligata a comportarsi in modo rigidamente disciplinato. Miep Gies non si occupava solo di fornire i viveri, ma anche di informare gli otto sugli eventi di guerra. A mezzogiorno tutti gli aiutanti si incontravano a tavola con gli otto occupanti del retrocasa e la sera, quando tutti gli altri lavoratori dell'impresa se ne erano andati, Anna e gli altri potevano uscire dal retrocasa e andare nell'edificio principale, dove ascoltavano alla radio le sempre più preoccupanti notizie della BBC.

Il 17 luglio partì il primo treno per Auschwitz e agli ebrei fu tolta la cittadinanza. Durante il periodo di clandestinità, Anna Frank lesse molti libri, migliorò il suo stile e si sviluppò velocemente da ragazzina capricciosa a scrittrice consapevole. Mise in dubbio che suo padre Otto amasse veramente sua madre Edith e supponeva che l'avesse sposata solo per motivi razionali. La stessa Anna cominciò a interessarsi a Peter van Pels, inizialmente descritto come troppo timido e noioso, ma dopo un momento impetuoso con tanto di episodi di tenerezza, la relazione presto finì. Dal diario si evince anche che Anna sapeva delle deportazioni e della taglia che era stata messa sugli ebrei, cosa di cui fu ella stessa vittima pochi giorni dopo l'ultima scrittura sul diario. Alcuni brani del diario in cui la ragazza, ormai alle soglie della pubertà, annota i propri dubbi e curiosità riguardo al sesso, vennero in seguito espunti dalle prime versioni date alle stampe, così come una serie di annotazioni della giovane in merito ai suoi dubbi circa l'affiatamento dei propri genitori.

L'arresto. Il mattino del 4 agosto 1944, attorno alle 10.00, la Gestapo fece irruzione nell'alloggio segreto, in seguito a una segnalazione da parte di una persona che non è mai stata identificata. Tra i sospettati vi è un magazziniere della ditta di Otto Frank, Willem Van Maaren. Nel Diario, in data giovedì 16 settembre 1943, Anna afferma esplicitamente che Van Maaren nutriva dei sospetti sull'alloggio segreto, e lo descrive come "una persona notoriamente poco affidabile, molto curiosa e poco facile da prendere per il naso". Gli otto clandestini vennero arrestati insieme con Kugler e Kleiman e trasferiti al quartier generale della SD, in Euterpestraat ad Amsterdam poi nella prigione di Weteringschans e dopo tre giorni l'8 agosto al campo di smistamento di Westerbork. Gli aiutanti non furono più in grado di proteggere i clandestini e furono costretti a mostrare il nascondiglio all'agente nazista (di origine austriaca) Karl Josef Silberbauer. Kugler e Kleiman furono portati nelle prigioni del Sicherheitsdienst delle SS in Euterpestraat. L'11 settembre 1944 furono trasferiti nel Campo di concentramento di Amersfoort. Kleiman fu liberato il 18 settembre 1944 per motivi di salute, Kugler invece riuscì a fuggire il 28 marzo 1945. Miep Gies e Bep Voskuilj, presenti al momento dell'arresto, scapparono mentre la polizia arrestava i clandestini (restando nei paraggi della palazzina). Dopo la partenza della polizia e prima del suo ritorno per la perquisizione, Mep Gies tornò alla palazzina per raccogliere quanti più fogli possibili tra quelli che l'agente Silberbauer aveva sparso per la stanza mentre stava cercando una cassetta con il denaro dei prigionieri: questi appunti furono custoditi in un cassetto della sua scrivania della ditta al fine di restituirli ad Anna o a suo padre alla fine della guerra. È possibile che alcuni scritti di Anna — oltre a un diario tenuto dalla sorella Margot, di cui Anna fa menzione — siano andati perduti. Gli otto rifugiati vennero dapprima interrogati dalla Gestapo e tenuti in arresto per la notte. Il 5 agosto vennero trasferiti nella sovraffollata prigione Huis van Bewaring in Weteringschans. Due giorni dopo ci fu un nuovo trasferimento al Campo di concentramento di Westerbork. Dato che erano stati arrestati come delinquenti, erano costretti a compiere i lavori più duri. Le donne - separate dagli uomini - lavoravano nel reparto pile: vivevano nella speranza di rendersi indispensabili nel loro lavoro, evitando così un destino ancora peggiore. Alle loro orecchie arrivavano non solo notizie positive sull'avanzata degli Alleati, ma anche quelle più tetre sui trasporti verso i campi di concentramento in Europa orientale. Secondo alcune testimonianze dei prigionieri di Westerbork, Anna sembrava persa. Dopo un lungo periodo in clandestinità aveva ritrovato la fiducia attraverso la fede. Il 2 settembre, insieme con la sua famiglia e la famiglia van Pels, durante l'appello venne selezionata per il trasporto ad Auschwitz.

Il delatore. Nonostante le ricerche fatte dopo la guerra, la persona (o forse le persone) che avvisarono la Gestapo della presenza di otto persone negli uffici di Prinsengracht non fu mai individuata con certezza. Otto Frank scrisse a Kugler, già negli anni Sessanta, che, in base alle ricerche da lui effettuate, la telefonata alla Gestapo che portò al loro arresto sarebbe stata fatta da una donna la mattina stessa del 4 agosto 1944. L'agente che arrestò gli otto rifugiati, Karl Josef Silberbauer, non seppe o non volle fornire l'identità del delatore, anche se ammise che non era pratica abituale mandare immediatamente una pattuglia subito dopo una delazione anonima, a meno che la denuncia non provenisse da informatori già noti e, pertanto, affidabili. In base alle annotazioni sul diario di Anna e ai sospetti dei dipendenti della ditta, che dopo la guerra ne misero a parte Otto Frank, il delatore fu inizialmente identificato nel magazziniere Willem van Mareen (1895-1971), assunto dalla Opekta nel 1943 per sostituire il padre di Bep Voskuijl, malato di cancro. Emerse che l'uomo, prima di essere assunto dalla Opekta, era stato licenziato dal precedente lavoro con l'accusa di furto. La giovane impiegata Bep Voskuijl affermò che van Mareen le incuteva timore e tanto lei quanto gli altri benefattori ricordarono numerosi comportamenti del magazziniere che apparivano sospetti. In più occasioni, Van Mareen era stato notato aggirarsi all'interno dell'edificio, anche al di fuori del magazzino dove svolgeva la propria attività e, almeno in un caso, avrebbe chiesto al direttore Kugler se un tal Otto Frank avesse precedentemente lavorato per la Opekta, domanda a cui Kugler rispose evasivamente, lasciando intendere che Frank e la famiglia erano riusciti a fuggire clandestinamente in Svizzera e da allora non avevano più dato notizie. Altre volte, van Maaren avrebbe interrogato con curiosità Kleiman chiedendo a chi appartenessero le stanze ubicate ai piani superiori dell'edificio e come mai mancasse un accesso diretto a detti locali. Kugler sorprese spesso van Mareen piazzare quelle che definì "trappole" (farina sul pavimento dove sarebbero rimaste impronte, oggetti in disordine sui tavoli) nei locali della ditta poco prima dell'orario di chiusura dell'ufficio ma, alla richiesta di spiegazioni, si giustificò asserendo che stava solo cercando di smascherare i ladri che avevano ripetutamente saccheggiato i magazzini. Un giorno, inoltre, van Mareen consegnò a Kugler un borsellino vuoto (appartenente a Hermann van Pels) sostenendo di averlo rinvenuto il mattino presto nel magazzino e chiedendogli se fosse suo. Van Pels confidò a Kugler di essersi effettivamente recato in detto locale la notte prima e che in tale occasione il borsellino, contenente una notevole somma di denaro e tagliandi alimentari, doveva essergli scivolato di tasca; tuttavia, quando van Mareen rese l'oggetto al direttore, i soldi mancavano. Dopo l'arresto dei rifugiati, i furti nel magazzino continuarono e in alcune occasioni furono completamente saccheggiate anche riserve di provviste (spezie, conservanti e altro) e denaro prima di allora rimasti nascosti. A detta di Miep Gies, van Mareen si sarebbe vantato di poter fare qualcosa per ottenere il rilascio degli arrestati e la donna rimase ancor più contrariata quando scoprì che la Gestapo aveva incaricato proprio lui di vigilare sulla ditta. Solo dopo la guerra Kleiman riuscì a licenziare van Mareen, avendolo colto in flagranza nell'atto di rubare.

Van Mareen non negò mai esplicitamente di aver rubato merce sul posto di lavoro: deve comunque notarsi che gli ultimi anni dell'occupazione tedesca nei Paesi Bassi furono particolarmente pesanti per la popolazione locale a causa delle requisizioni di viveri e del razionamento anche dei beni di prima necessità, e che quindi episodi di furto e vandalismo non erano affatto rari. L'ex magazziniere comunque negò con forza di aver tradito lui i rifugiati, anche se il suo collega, tal Lammert Hartog, dichiarò che, al massimo due settimane prima dell'irruzione della Gestapo, van Mareen gli avrebbe detto in confidenza che nell'edificio si nascondevano degli ebrei. Van Maaren fu indagato due volte per le sue presunte responsabilità nel tradimento dei rifugiati, la prima volta nel 1948 e quindi nel 1963, ma non emersero mai prove concrete contro di lui. L'ex nazista Silberbauer, all'epoca ancora in vita, dichiarò che il magazziniere non era noto come informatore della Gestapo e negò di conoscerlo. L'uomo si dichiarò estraneo ai fatti, sostenendo che la sua curiosità era dovuta semplicemente al desiderio di allontanare i sospetti di furto dalla sua persona e aggiunse, smentendo il collega Hartog ormai deceduto di non aver mai avuto sospetti sulla presenza di clandestini nell'edificio, pur ammettendo di aver notato "una certa aria di segretezza" ma asserendo che la notizia dell'arresto lo aveva lasciato sconvolto. Emerse, inoltre, che, durante la guerra, l'uomo aveva tenuto nascosto in casa uno dei propri figli, studente universitario, che aveva rifiutato di arruolarsi al seguito degli invasori nazisti; tale circostanza parve deporre a suo favore. Willem van Maaren morì ad Amsterdam il 28 novembre 1971 all'età di 76 anni, professando la propria innocenza fino all'ultimo. La seconda persona sospettata di delazione fu Lena Hartog-van-Bladeren (deceduta nel 1963), che aveva lavorato per diverso tempo come donna delle pulizie e collaboratrice domestica, anche presso gli uffici di Prinsengracht, anche se inspiegabilmente aveva nascosto tale circostanza agli inquirenti. Suo marito Lammert lavorava in magazzino come aiutante di van Maaren e da questi aveva sentito i racconti sulle sue osservazioni, poi raccontate anche alla moglie. Nel mese di luglio 1944, Lena Hartog avrebbe avuto un colloquio con Bep Voskuijl, chiedendole spiegazioni sulla presenza di ebrei che si nascondevano nell'edificio; l'impiegata non ammise alcunché, limitandosi a suggerire alla donna di guardarsi bene dal fare certe affermazioni, considerato il pericolo cui simili chiacchiere potevano esporre tutto il personale della Opekta. Nello stesso periodo, inoltre, Lena Hartog aveva prestato servizio presso una famiglia di conoscenti di Otto Frank e Johannes Kleiman, tali Anne e Petrus Genot, quest'ultimo collega di lavoro del fratello di Kleiman. La Hartog si sarebbe più volte lamentata con Anne Genot del fatto che alcuni ebrei si nascondevano in Prinsengracht e che ciò avrebbe provocato guai a lei e al marito se la circostanza fosse stata di dominio pubblico. Emerse in seguito che, nel vicinato, non pochi abitanti e impiegati di ditte vicine avevano nutrito sospetti sulla presenza dei rifugiati al numero 263, ma in generale era prevalso un atteggiamento di solidarietà, tanto più che in zona si nascondevano anche altri ebrei. I sospetti su Lena vengono rafforzati dalle ricerche da cui Otto Frank scoprì che probabilmente la chiamata alla Gestapo era stata fatta da una donna: ma nemmeno contro di lei si riuscì a trovare alcuna prova.

Nel 1998 la scrittrice Melissa Müller la identificò come responsabile della delazione, ma ritirò l'accusa nel 2003 allorquando la storica britannica Carol Ann Lee confutò tale tesi, supportata dalle ricerche senza esito del Istituto olandese per la documentazione di guerra (Nederlands Instituut voor Oorlogsdocumentatie, NIOD). Nel suo libro The hidden life of Otto Frank (2002) la Lee propose un nuovo nome, quello di Anton Ahlers (1917-2000), un olandese cacciatore di taglie sugli ebrei. All'epoca dell'occupazione nazista tali cacciatori di taglie erano numerosi e si guadagnavano da vivere grazie ai premi riconosciuti a chi permetteva l'arresto di un ebreo. Dalle ricerche della Lee risulterebbe che il potenziale delatore, che lavorava come informatore per Kurt Döring del quartier generale della Gestapo ad Amsterdam, aveva ricattato Otto Frank. Questa tesi tuttavia è dibattuta: il NIOD non la considera veritiera, in quanto sono supposizioni legate esclusivamente a dichiarazioni dello stesso Ahlers (che si vantava di aver svelato il luogo del nascondiglio) e dei suoi famigliari (la moglie Martha smentì il marito, mentre il fratello Cas confermò la versione del tradimento).

Nel 2009 il giornalista olandese Sytze van der Zee nel suo libro Vogelvrij – De jacht op de joodse onderduiker si occupò dell'ipotesi che la traditrice potesse essere stata Ans van Dijk. Nonostante fosse ella stessa ebrea, la Van Dijk consegnava al Bureau Joodsch Zaken ebrei che si erano nascosti e che lei attirava in una trappola, con la promessa di trovare un nuovo rifugio. Secondo van der Zee, Otto Frank sapeva che la delazione era stata opera non solo di una donna, ma di una donna ebrea: per tale motivo avrebbe taciuto per non alimentare ulteriori pregiudizi. Tuttavia van der Zee non fu in grado di risolvere questo enigma: Ans van Dijk fu comunque l'unica donna fra 39 persone a essere giustiziata per reati in tempo di guerra.

Nell'aprile 2015, nei Paesi Bassi uscì un libro (di cui è coautore uno dei figli di Bep Voskuijl, Joop van Wijk), dal titolo "Bep Voskuijl, Het Zwigen Voorbij" (ovvero: Bep Voskuijl, Basta silenzio)" che fornì una nuova versione sulla possibile identità del delatore, da identificarsi in Hendrika Petronella Voskuijl detta Nelly, sorella minore di Bep Voskuijl e a sua volta, per un breve periodo, dipendente della ditta Opekta in qualità di impiegata. Nelly Voskuijl, diversamente dal padre e dalla sorella, non faceva mistero delle proprie simpatie per il nazismo, tanto da essersi anche offerta per il lavoro volontario in Germania; tale ultima circostanza venne annotata dalla stessa Anna - molto legata a Bep Voskuijl, di pochi anni più grande di lei - nel proprio diario.

In altri passi, Anna rilevò che c'erano state tensioni a proposito della sorella di Bep, che avrebbe preteso di essere stabilmente assunta dalla Opekta. Le testimonianze di Diny Voskuijl, sorella superstite di Bep e Nelly (quest'ultima deceduta nel 2001), nonché tal Bertus Hulsman, amico d'infanzia ed ex fidanzato di Bep durante la guerra, raccolte nel libro, indicano frequenti litigi tra Nelly e Bep, durante i quali la prima avrebbe ripetutamente rinfacciato alla sorella di stare nascondendo degli ebrei. Deve inoltre notarsi che le numerose lettere scambiate tra Bep e Otto Frank dopo la guerra sono state fatte sparire tutte dopo la morte di Bep, avvenuta nel maggio 1983, probabilmente per nascondere le responsabilità di parte della famiglia Voskuijl nell'arresto e deportazione di otto persone.

Prigionia e destino dei rifugiati. Il 3 settembre 1944 Anna e gli altri clandestini vennero caricati sull'ultimo treno merci in partenza per Auschwitz, dove giunsero tre giorni dopo. Edith, che già durante la clandestinità aveva manifestato segni di depressione, morì di inedia ad Auschwitz-Birkenau il 6 gennaio 1945, secondo alcune testimoni provata dall'essere stata separata dalle figlie. Hermann Van Pels morì in una camera a gas di Auschwitz il giorno stesso dell'arrivo, secondo la Croce Rossa, o poche settimane più tardi, secondo Otto Frank, a causa di una ferita infetta. Auguste Van Pels passò tra Auschwitz, Bergen-Belsen (dove per qualche tempo riuscì a stare vicina ad Anna e Margot e addirittura a far incontrare Anna con la sua amica Hanneli Goslar, anch'ella internata nel lager), e Buchenwald arrivando a Theresienstadt il 9 aprile 1945. Deportata altrove, non si conosce la data del decesso. Peter Van Pels, pur consigliato da Otto Frank di nascondersi con lui nell'infermeria di Auschwitz durante l'evacuazione, non riuscì a seguirlo e fu aggregato a una Marcia della morte il 16 gennaio 1945 che lo portò da Auschwitz a Mauthausen (Austria), dove morì il 5 maggio seguente, appena tre giorni prima della liberazione. Fritz Pfeffer, a quanto sembra fisicamente e psicologicamente provato, dopo essere passato per i campi di concentramento di Sachsenhausen e Buchenwald, morì nel campo di concentramento di Neuengamme il 20 dicembre 1944.

Margot e Anna passarono un mese ad Auschwitz-Birkenau e vennero poi spedite a Bergen-Belsen, dove morirono di tifo esantematico, prima Margot e alcuni giorni dopo Anna. La data della loro morte non è nota con certezza, era solitamente indicata come avvenuta nel mese di marzo, ma nuove ricerche pubblicate nel 2015 l'hanno retrodatata al febbraio 1945. Una giovane infermiera olandese, Janny Brandes-Brilleslijper, che nel lager aveva stretto amicizia con le due ragazze e assistito alla morte di Anna, seppellì personalmente i cadaveri in una delle fosse comuni del campo e, subito dopo la liberazione, scrisse a Otto Frank comunicandogli la tragica notizia. Kleiman fu liberato per intervento della Croce Rossa un mese dopo l'arresto, il 18 settembre 1944, a causa delle gravi ulcere che lo affliggevano da anni. È morto ad Amsterdam nel 1959, mentre lavorava negli uffici di Prinsengracht, dove aveva ripreso le sue funzioni di procuratore della ditta. Kugler venne deportato in più campi di concentramento, sino al termine della guerra. Riuscì a evadere durante un bombardamento e a fare ritorno a Hilversum, dove la moglie, malata terminale, lo nascose nell'ultimo mese di guerra. Nel dopoguerra, Kugler si risposò e si trasferì in Canada; minato dalla malattia di Alzheimer, morì a Toronto nel 1981. Solo il padre di Anna, tra i clandestini, sopravvisse ai campi di concentramento. Rimase sempre ad Auschwitz; il campo venne poi liberato dall'esercito sovietico il 27 gennaio 1945; il 3 giugno tornò ad Amsterdam dopo tre mesi di viaggio, dove si stabilì presso Miep Gies e il marito Jan, assistendo alla nascita del loro figlio, Paul. Una volta appresa la notizia della morte di Anna e Margot, Miep consegnò a Otto il diario della ragazza, che lei stessa aveva conservato nel proprio ufficio con l'intento di restituirlo solo alla legittima proprietaria. Egli, superato l'iniziale sconforto per la perdita della propria famiglia, mostrò gli scritti della figlia a diversi amici che lo convinsero a darlo alle stampe. Otto stesso, in sede di revisione del manoscritto, ne modificò la grammatica e la sintassi, omettendo alcune parti perché considerate troppo private e poco rispettose dei compagni di sventura, in modo da renderlo adatto per la pubblicazione. Il diario venne pubblicato nel 1947 con il titolo di Het Achterhuis ("Il retrocasa" in olandese). Otto, che nel frattempo si era risposato con una superstite di Auschwitz, la viennese Elfriede Markovits, madre di un'amica di scuola di Anna, morì di cancro ai polmoni a Basilea, in Svizzera, dove si era stabilito da tempo, il 19 agosto 1980, all’età di 91 anni.

Il Diario di Anna Frank. Il diario ha inizio come una espressione privata dei pensieri intimi dell'autrice, la quale manifesta l'intenzione di non permettere mai che altri ne prendano visione. Anna racconta della propria vita, della propria famiglia e dei propri amici, del suo innamoramento per Peter nonché della sua precoce vocazione a diventare scrittrice. Il diario manifesta la rapidissima maturazione morale e umana dell'autrice e contiene anche considerazioni di carattere storico e sociale sulla guerra, sulle vicende del popolo ebraico e sulla persecuzione antisemita, sul ruolo della donna nella società. Durante l'inverno del 1944, ad Anna capitò di ascoltare una trasmissione radio di Gerrit Bolkestein — membro del governo olandese in esilio — il quale diceva che, una volta terminato il conflitto, avrebbe creato un registro pubblico delle oppressioni sofferte dalla popolazione del Paese sotto l'occupazione nazista; il ministro menzionò la pubblicazione di lettere e diari, cosa che spinse Anna a riscrivere sotto altra forma, e con diversa prospettiva, il proprio.

Esistono quindi due versioni autografe del diario:

la versione A, la prima redazione originale di Anna, che va dal 12 giugno 1942 al 1 agosto 1944, della quale non è stato ritrovato il quaderno (o i quaderni) che copriva il periodo 6 dicembre 1942 - 21 dicembre 1943;

la versione B, la seconda redazione di Anna, su fogli volanti, in vista della pubblicazione, che copre il periodo 20 giugno 1942 - 29 marzo 1944.

Il testo su cui si basò la prima edizione del 1947 (versione C) fu compilato da Otto Frank basandosi principalmente sulla versione B, apportando modifiche e cancellazioni e aggiungendo quattro episodi tratti da un altro autografo di Anna, i Racconti dell'alloggio segreto. L'edizione critica del diario, pubblicata nel 1986, compara queste tre versioni.

La casa dove Anna e la famiglia si nascondevano è ora un museo. Si trova al 263 di Prinsengracht, nel centro della città, raggiungibile a piedi dalla stazione centrale, dal palazzo reale e dal Dam. Nel 1956 il diario venne adattato in un'opera teatrale che vinse il Premio Pulitzer, nel 1959 ne venne tratto un film, nel 1997 ne fu tratta un'opera di Broadway con materiale aggiunto dal diario originale.

Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto. Annalisa Lo Monaco su vanillamagazine.it. Anna Frank e il suo Diario – commovente racconto della vita di una bambina come tante altre, costretta alla clandestinità dal delirio nazista – devono rimanere come punto fermo nella memoria di tutti per non dimenticare l’orrore dell’olocausto. Rutka Laskier, Renia Spiegel, Eva Heyman, sono i nomi di ragazze meno conosciute, eppure anche a loro, come ad Anna Frank, fu sottratta l’infanzia e l’adolescenza, e ne scrissero in diari personali che sono ugualmente una testimonianza della vita quotidiana di chi continuava, nonostante tutto, a credere in un futuro.

Rutka Laskier. Rutka Laskier inizia a scrivere il suo diario a 14 anni. E’ stata rinchiusa, insieme alla famiglia, nel ghetto della città polacca di Będzin fin dall’inizio della guerra, ma solo nel gennaio del 1943 inizia a tenere un diario. Scrive delle sue giornate, delle amicizie, delle prime cotte da adolescente, e dell’orrore dell’occupazione nazista. E’ breve il suo racconto, perché dopo tre mesi viene deportata ad Auschwitz, dove muore. Il suo diario è stato conservato per oltre sessant’anni da un amico sopravvissuto, che lo ha reso pubblico nel 2005. Bastano poche parole per capire l’angoscia che opprimeva questa bambina: Se solo potessi dire, è finita, muori una volta sola… Ma non posso, perché nonostante tutte queste atrocità, voglio vivere, e aspettare il giorno dopo.

Renia Spiegel. Sette quaderni di scuola cuciti insieme: il diario di Renia. In quasi 700 pagine la ragazza racconta gli ultimi quattro anni della sua vita, tra i 15 e i 18 anni. Parla quindi di argomenti “normali” per un adolescente: la scuola, le amicizie, il primo bacio con il fidanzato, ma anche di cose troppo difficili da sopportare, come vivere da ebrea nella Polonia occupata dai nazisti e del trasferimento nel ghetto di Przemyśl, nel 1942. Ricorda questo giorno; ricordalo bene, un giorno racconterai alle generazioni che verranno. Oggi alle 8 siamo stati chiusi nel ghetto. Vivo qui adesso; il mondo è separato da me e io sono separata dal mondo. Renia e sua sorella Ariana vivono con i nonni per alcune settimane nel ghetto, finché il suo fidanzato, Zygmunt Schwarzer, che può uscire grazie a un permesso di lavoro, nasconde la ragazza e i propri genitori nella soffitta della casa di un suo zio. Il nascondiglio viene scoperto grazie a un informatore dei nazisti, e Renia, insieme ai genitori di Zygmunt, sono fucilati per strada. Il ragazzo scrive le parole conclusive del diario: “Tre colpi! Tre vite perse! E’ successo ieri sera alle 22.30. Il destino ha deciso di portarmi via i miei cari. La mia vita è finita. Tutto ciò che sento sono colpi, colpi… Mia cara Renusia, l’ultimo capitolo del tuo diario è completo.”

Zygmunt, nonostante tutto, sopravvive ad Auschwitz e Bergen-Belsen, e dopo molti anni, quando ormai si è stabilito negli Stati Uniti, consegna il diario alla madre di Renia, scampata allo sterminio insieme alla figlia più piccola. Il diario è stato stampato in polacco nel 2016, e uscito in inglese lo scorso 19 settembre.

Eva Heyman. Era spaventata Eva, molto spaventata e consapevole del terribile destino cui andava incontro: “Mio piccolo Diario, io non voglio morire, voglio vivere anche se di tutto il distretto rimanessi soltanto io. Aspetterei la fine della guerra in una cantina o in una soffitta, o in un buco qualsiasi; mio piccolo Diario io mi lascerei baciare dal gendarme dagli occhi storti che ci ha portato via la farina, basta che non mi uccidano, che mi lascino vivere!” Sono le ultime parole del Diario di una bambina di soli tredici anni, scritte il 30 maggio del 1944. A una settimana di distanza i nazisti prelevano lei e i suoi nonni per deportarli ad Auschwitz, dove moriranno. Eva inizia a scrivere il suo diario nel giorno del suo tredicesimo compleanno, il 13 febbraio del 1944, forse l’ultimo piacevole evento di una vita ancora “normale”, all’interno di una famiglia agiata, anche se divisa: a Nagyvárad (oggi è Oradea, in Romania, ma allora era in territorio ungherese) vive con i nonni perché i genitori si sono separati. Nel giro di poche settimane tutto cambia: i rastrellamenti, il ghetto, e la deportazione della sua migliore amica, Marta, che la mette di fronte a quello che sarà il suo probabile destino, al quale però non vuole rassegnarsi: “Io voglio vivere a tutti i costi”. La madre, Ágnes Zsolt, definita da Eva “più bella di Greta Garbo” vive a Parigi con il secondo marito, ma torna a Budapest quando i nazisti invadono la Polonia, perché in ansia per la sorte della figlia. Viene internata nel campo di Bergen-Belsen, e riesce a salvarsi. Alla fine della guerra qualcuno le racconta che la figlia è stata mandata alla camera a gas da Josef Mengele – il dottor Morte – in persona: Ora guardati rana, i tuoi piedi sono sporchi, puzzolenti di pus! Sali sul camion! Le struggenti memorie della bambina vengono consegnate alla madre da una donna che era a servizio nella casa di Eva. Ágnes fa pubblicare il diario nel 1947, e continua a vivere con chissà quanto dolore dentro, fino al 1951, quando di suicida.

Ma ci sono altre terribili testimonianze, come quella di Tanya Savicheva, incredibilmente breve quanto potente. E si possono citare Hélène Berr, ebrea francese morta a Bergen-Belsen pochi giorni prima della liberazione, che per due anni tiene un diario dove racconta la vita a Parigi durante l’occupazione nazista; e ancora Ruth Maier, Philip Slier, Rywka Lipszyc, Miriam Wattemberg (unica sopravvissuta), Peter Ginz: tutti ragazzi e ragazze che hanno lasciato una struggente testimonianza di come sia comunque possibile vivere anche quando tutto il mondo intorno precipita nella follia. Non sono sopravvissuti, ma hanno lasciato qualcosa d’importante: La memoria, unica arma per non ricadere nuovamente nell’orrore…

“Il diario di Renia” settant’anni dopo l’Olocausto. Usa, l’Anna Frank polacca racconta l’orrore. Il Dubbio il 14 Settembre 2019. “Guardi, vedo sangue, morte, assassinii. Dio onnipotente, aiutaci. A volte penso, domani potremmo non esserci più, una fredda lama d’acciaio potrebbe separarci, ma oggi c’è ancora tempo per vivere. Domani il sole potrebbe eclissarsi». Così scriveva il 7 giugno 1942, un mese prima di essere uccisa dai nazisti, una ragazza di appena 18 anni, Renia Spiegel, nel diario segreto di quella che è già considerata la Anna Frank polacca. Per quasi settant’anni il suo drammatico resoconto giornaliero sull’Olocausto è rimasto custodito nel caveau di una banca di New York. Dopo la sua morte, la madre e la sorella, rifugiate negli Usa, non avevano avuto la forza di leggere il diario e l’avevano depositato in banca. Nel 2012 una nipote l’ha fatto tradurre in inglese. Adesso Penguin Books lo pubblica con il titolo Reniàs Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust. La cronaca, di quasi 700 pagine, va dal gennaio ’ 39, quando la ragazza aveva 15 anni, al luglio ’ 42, quando venne uccisa, e raccoglie episodi, pensieri, anche brevi poesie della giovane autrice.

Renia Spiegel, sarà pubblicato il diario della «Anne Frank polacca». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Ha solo 18 anni Renia Spiegel quando viene uccisa dai nazisti a colpi d’arma da fuoco, il 31 luglio 1942, scoperta da un soldato tedesco nel suo nascondiglio nella cittadina di Przemyśl, sud-est della Polonia. Ora viene pubblicato il diario segreto della giovane ebrea polacca, nascosto per 70 anni nel caveau di una banca di New York per volontà della famiglia superstite all’Olocausto (la madre e la sorella) e rifugiata negli Usa. Qui avevano deciso di conservarlo senza nemmeno leggerlo per non dover affrontare il dolore della Shoah attraverso le parole della ragazza. Finché nel 2012 la nipote Alexandra Renata Bellak (figlia della sorella minore di Renia) traduce in inglese le memorie della giovane già ribattezzata «l’Anne Frank polacca». Il diario (in Polonia pubblicato nel 2016 e anche al centro di un adattamento teatrale), ora esce con il titolo di Reniàs Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust («Il diario di Renia: la vita di una giovane donna all’ombra dell’Olocausto», traduzione di Anna Blasiak e Marta Dziurosz). In Gran Bretagna va in libreria il 19 settembre, edito da Ebury Publishing e distribuito da Penguin Books. In America arriva invece il 24 settembre (St. Martin’s Press edizioni). L’opera è diventata anche un documentario diretto da Tomasz Magierski e intitolato Broken Dreams («Sogni spezzati»). La cronaca del diario (quasi 700 pagine), narra gli episodi che coinvolgono la ragazza tra il gennaio 1939 (quando Renia aveva 15 anni) e il luglio 1942 (fino a poche ore prima della morte), e raccoglie eventi (la quotidianità prima dell’invasione, i bombardamenti, la vita privata, la scomparsa delle famiglie ebree dal ghetto, il primo bacio al ragazzo amato, Zygmunt Schwarzer, poche ore prima di morire), pensieri e brevi poesie («Guardi, vedo sangue, morte, assassinii. Dio onnipotente, aiutaci. A volte penso, domani potremmo non esserci più, una fredda lama d’acciaio potrebbe separarci, ma oggi c’è ancora tempo per vivere. Domani il sole potrebbe eclissarsi», scriveva un mese prima di morire, il 7 giugno 1942). Durante la guerra, la madre viene trasferita a Varsavia per lavorare in un albergo, data la sua conoscenza del tedesco. Renia e la sorella minore restano con i nonni a Przemyśl, cittadina composta quasi solo da famiglie ebree, che con l’arrivo dei tedeschi si trasforma in un grande ghetto. Il diario viene recuperato da Zygmunt (che lo porterà a termine), l’uomo di cui la ragazza era innamorata e che riesce a salvare la sorella minore. Deportato ad Auschwitz, e sopravvissuto, il giovane tiene con sé il volume che consegnerà negli anni Cinquanta alla madre e alla sorella di Renia.

Diario di Renia, la storia di una nuova Anna Frank. Chiara Pizzimenti il 15 settembre 2019 su  Vanity fair. Viene pubblicato integralmente il diario di una ragazza polacca rimasto negli archivi per più di 70 anni. Renia è morta nel 1942, uccisa dagli invasori tedeschi. La sorella non ha mai avuto la forza e il coraggio di leggere il diario di Renia Spiegel. Troppo dolore nella storia della 18enne uccisa in Polonia nel 1942. Ora questo diario rimasto per più di settant’anni lontano dal mondo verrà pubblicato, in inglese, per la prima volta con il titolo Renia’s Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust, Il diario di Renia: la vita di una giovane donna all’ombra dell’Olocausto. La figlia di Elizabeth Ariana Bellak, 88 anni, ha autorizzato la pubblicazione di quanto scritto dalla sorella maggiore negli anni della Seconda Guerra Mondiale.

Negli Stati Uniti, dove la donna vive, e in Inghilterra è stata definita l’«Anna Frank polacca». Come la giovane che ha vissuto nascosta ad Amsterdam, Renia Spiegel era un’adolescente quando ha cominciato a scrivere. Aveva 15 anni e bisogno di condividere i propri pensieri e sentimenti. «È successo qualcosa di importante? No! Voglio solo un amico». La prima pagina è del gennaio 1939, quando la guerra non era ancora cominciata. La famiglia viveva nel Sud della Polonia. Renia appassionata di poesia aveva già vinto premi letterari. Con la guerra il trasferimento a Varsavia della madre che parlava tedesco e lavorava in un albergo. Renia e Ariana restarono con i nonni a Przemysl, città di 70 mila abitanti, quasi la metà ebrei, nella parte di territorio controllata dai russi. Con l’arrivo dei tedeschi il precipitare della situazione e la chiusura nel ghetto. Renia racconta la vita prima dell’invasione, i bombardamenti, la situazione di tutti e la vita privata, il primo bacio con l’uomo che riuscirà a salvare la sorella, ma non lei. Reina Spiegel è morta assassinata il 31 luglio del 1942. Pochi giorni prima aveva scritto: «C’è sangue ovunque io mi giri. Lo sterminio è terribile. Ovunque morte e uccisioni. Dio onnipotente, per l’ennesima volta ci umiliano davanti a te, aiutaci, salvaci! Signore Dio, lasciaci vivere, ti prego, voglio vivere! Ho vissuto così poco della vita. Non voglio morire. Ho paura della morte. È tutto così stupido, così meschino, così poco importante, così piccolo. Domani potrei smettere di pensare per sempre». L’ultima parte del diario è è scritto dal suo amato Zygmunt che lo ha nascosto. Deportato ad Auschwitz è sopravvissuto e ha portato il diario alla madre e alla sorella di Renia negli anni Cinquanta negli Usa. Per loro, a pochi anni dall’Olocausto, era devastante leggerlo e lo hanno messo in una cassetta di sicurezza. La figlia di Elizabeth lo ha fatto tradurre dal polacco e ora lo fa pubblicare.

Il terrore, il ghetto, la guerra: i diari di Reina uccisa dai nazisti. Reina Spiegel abitava a Przemysl, città della Polonia del sud. Nata nel 1924 ha iniziato a scrivere le sue pagine nel '39. E' morta assassinata il 31 luglio del 1942. La Repubblica il 21 marzo 2019.

31 GENNAIO 1939. “Perché ho deciso  di iniziare un diario?  Voglio solo un amico, qualcuno con cui poter parlare delle mie preoccupazioni e delle mie gioie  quotidiane. Qualcuno che proverà ciò che provo io,  che crederà in ciò che dico e non rivelerà mai i miei segreti”.

11 FEBBRAIO 1939. “Oggi piove. Nei giorni di pioggia sto vicino alla finestra e conto le lacrime che scendono dal vetro della finestra. Scivolano tutte, come se volessero cadere sulla strada bagnata e fangosa, come se volessero renderla  ancora più sporca, come se volessero rendere brutta questa giornata, ancora più brutta  di quanto non sia già”. 

6 SETTEMBRE 1939. “È scoppiata la guerra! Gli aerei nemici continuano a sorvolare Przemysl, si sentono le sirene antincendio, ma grazie a Dio, nessuna bomba è caduta finora sulla nostra città”.

10 SETTEMBRE 1939. ​“Oh Dio! Mio Dio! Stiamo scappando da tre giorni, Przemysl è stata attaccata. Abbiamo dovuto fuggire, tutti e tre: io, Ariana e il nonno. Abbiamo lasciato la città in fiamme nel bel mezzo della notte a piedi”.

28 SETTEMBRE 1939. “Dove è la mamma? Cosa le è successo? Dio! Hai ascoltato la mia preghiera e non c’è più nessuna guerra (o almeno non riesco a vederla). Per favore, ascolta anche la prima parte della mia preghiera e proteggi la mamma dal male”.

Ecco i diari inediti di Renia, l'Anna Frank polacca. L'invasione, la fuga, il terrore, il ghetto, la clandestinità. Fino alla morte per mano dei nazisti, nel 1942. In due anni ha scritto centinaia di pagine. Che oggi la sorella ha deciso di pubblicare. Robero Flores D'Arcais il 21 marzo 2019 su La Repubblica. Mia sorella era una persona meravigliosa, si prendeva cura di me, mi fece da piccola mamma quando vivevamo nascoste. Poi ci hanno divise, i nostri destini si sono separati, lei è stata assassinata dai nazisti, io mi sono salvata. No, il suo diario non ho mai avuto la forza e il coraggio di leggerlo». Elizabeth Ariana Bellak ha 88 anni, seduta su un divano del National Arts di Gramercy Park (uno dei più vecchi club di New York), trattiene a stento le lacrime. Si commuove più volte raccontando e ricordando Renia, la sorella morta tragicamente nell’Olocausto, con cui ha vissuto gli anni più duri della guerra e della ferocia nazista. Non l’ha mai dimenticata. E adesso il diario di Renia, nascosto e scomparso nella Polonia del 1942, ricomparso un po’ misteriosamente a New York negli anni Cinquanta, tenuto in soffitta per decenni, vedrà finalmente la pubblicazione. I media americani l’hanno ribattezzata - non a torto - l’“Anna Frank polacca”, il prestigioso Smithsonian Institute le ha dedicato un convegno e ha pubblicato alcuni estratti dei suoi scritti, in primavera verrà ricordata con una cerimonia alle Nazioni Unite. E a metà settembre il diario verrà stampato in edizione integrale da una delle maggiori case editrici Usa (St.Martin’s Press), con i diritti già venduti in molti paesi europei (quelli dell’Est, Gran Bretagna, Germania, Scandinavia, Italia al momento assente) e del resto del mondo. Anna Frajilich, scrittrice e docente di letteratura alla Columbia University lo ha definito «un incredibile documento storico e psicologico, un’autentica conquista letteraria, una grande scoperta». Renia Spiegel aveva 15 anni quando iniziò ad affidare a un quaderno i suoi pensieri. «Perché ho deciso di iniziare un diario? È successo qualcosa di importante? No! Voglio solo un amico». Era il 31 gennaio 1939, la guerra era ancora lontana, lei e la sorella Ariana di sei anni più piccola (che si cambiò solo in seguito il nome in Elizabeth) stavano vivendo una vita felice, in una bella casa ai confini con la Romania. Una famiglia benestante quella degli Spiegel: il padre Bernard proprietario di terreni, la madre Rose un’affascinante donna, colta e poliglotta, Renia appassionata di poesia e già vincitrice, appena adolescente, di premi letterari, la piccola Ariana lanciata nel mondo dello spettacolo, protagonista in teatro e al cinema, nota alle cronache del tempo come la “Shirley Temple della Polonia”. Anni spensierati che ben presto lasciarono il passo alla tragedia. Con l’inizio della guerra, l’avanzata delle truppe naziste e il famigerato patto tra il Reich di Hitler e la Russia di Stalin che spaccò in due la Polonia occupata, la famiglia Spiegel venne travolta dagli eventi. Il padre se ne era già andato («non ne abbiamo più saputo niente, ho capito solo leggendo un passo del diario che i miei erano già separati», ricorda Elizabeth), la madre, grazie alla perfetta padronanza del tedesco e alle sue conoscenze, aveva trovato lavoro all’Hotel Europa di Varsavia (dove alloggiavano 300 ufficiali della Wehrmacht), Renia e Ariana si ritrovarono, senza genitori e affidate ai nonni materni, nella cittadina di Przemysl, circa 70 mila abitanti di cui più di un terzo di religione ebraica. «Io e mia sorella vivevamo nella parte controllata dai russi, a ridosso di quello che chiamavamo il “fiume dei fucili”, tedeschi armati da una parte, russi armati sull’altra riva. Papà non esisteva più, di mamma non sapevamo nulla, chi voleva incontrare i propri familiari nella parte occupata dai tedeschi doveva pagare. Solo una volta - la guerra era iniziata da poco - riuscimmo ad incontrare nostra madre». I ricordi di Elizabeth (Ariana) si intrecciano con le testimonianze di Renia - impresse con bella calligrafia, una notevole scrittura e molti disegni - nelle pagine di quello che è qualcosa di più di un semplice diario scritto da un’adolescente. La scrittura è per lei essenza di vita. Dalle commoventi poesie pubblicate sul giornale scolastico a quelle più lunghe, elaborate ed impegnate che raccoglie in un opuscolo illustrato a mano ed elegantemente rilegato («è l’unico suo ricordo che mia madre ed io abbiamo portato con noi in America») fino al diario. Un lungo racconto (sono quasi settecento pagine manoscritte) della sua terribile solitudine in una Polonia lacerata dalla guerra, della vita di tutti i giorni durante le occupazioni armate (prima sovietica e poi tedesca), le fughe, le paure, il terrore, il ghetto, le violenze naziste, le insopportabili umiliazioni. E del suo primo bacio, il 20 giugno 1941, quando i tedeschi stavano lanciando l’Operazione Barbarossa e l’invasione dell’Urss: «Renia dammi un bacio… e prima ancora di rendermi conto di quanto stava accadendo Zygo mi baciò». Il primo amore ed anche le emozioni di un’adolescente che diventa donna, le infatuazioni, le invidie, i pettegolezzi, le annotazioni di una vita privata in un mondo completamente impazzito.

Zygo è Zygmunt Schwarzer, è più grande di lei, un uomo fatto, uno dei tanti giovani ebrei che nella Przemysl del 1942 sono costretti a lavorare per i nazisti. Questo gli permette però di poter uscire dal ghetto, di avere contatti con l’esterno e con quel poco di resistenza clandestina che ancora sopravvive. È grazie a lui che Ariana sopravvive all’Olocausto. Per salvare le due sorelle Zygo sa che deve dividerle, Ariana viene affidata ad un uomo fidato («aveva una cinquantina d’anni, mi ha fatto passare per sua figlia, è stato un viaggio difficile, ho avuto paura, ho vissuto alcuni momenti di terrore, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, mi ha portato a Varsavia»), ritrova la mamma, vive nascosta prima con una famiglia cattolica («mi battezzarono, da allora presi il nome di Elizabeth, andavo tutti i giorni in chiesa») e poi insieme alla madre nell’Hotel Europa. E fu grazie a un coraggioso ufficiale tedesco («un uomo buono, che ha rischiato la vita per noi») che madre e figlia riusciranno poi a rifugiarsi in Austria fino alla fine della guerra. E di lì ad iniziare la nuova vita che le avrebbe portate nel 1946 in America. Zygmunt fa di tutto per salvare Renia, la ama profondamente come lei ama lui. Si nascondono insieme nel cimitero della città, ma il rifugio non è sicuro. Alla fine ne trova uno migliore, un attico di proprietà di suo zio che fa parte del Judenrat (il consiglio ebraico a cui i nazisti affidano la gestione della comunità) e che per questo può vivere fuori dal ghetto. È in quella casa al numero 10 della via Moniuszki che Renia, tra il giugno e il luglio 1942, affida al diario il suo crescendo di paure e di terrore: «Ovunque guardo vedo solo spargimento di sangue… Ci sono solo assassinii e morti, Dio ti prego salvaci!… Voglio vivere, mio caro Dio, aiutaci… L’intera città è in pericolo, ma ho ancora fede….». L’ultimo scritto di suo pugno è del 25 luglio: «Mamma non hai idea di quanto è terribile… sono orribilmente terrorizzata… mio caro diario, mio buono e amato amico, è arrivato il momento peggiore…». Da quel giorno Renia non scriverà più: anche l’attico di via Moniuszki non è sicuro, i nazisti danno il via alla “Aktion”, la deportazione in massa di tutti gli ebrei che vivono a Przemysl. Una deportazione che diventa ben presto sterminio. I quaderni di Renia restano in mano a Zygmunt ed è lui a scrivere dal 27 al 31 luglio le ultime annotazioni del diario: «È finita! Prima di tutto, caro diario, ti prego perdonami per essere entrato nelle tue pagine e aver cercato di portare avanti il lavoro di qualcuno di cui non sono degno. Lascia che ti dica che Renuska non ha ottenuto il permesso di lavoro di cui aveva bisogno per evitare di essere deportata, quindi deve restare nascosta… I miei genitori sono stati fortunati a entrare in città, si stanno nascondendo al cimitero. Renia ha dovuto lasciare la fabbrica, devo trovarle un nascondiglio ad ogni costo… L’Aktion è stata rimandata a causa di una disputa tra l’esercito e la Gestapo. Sto cercando di salvare tutti quelli che posso, sono riuscito a portare Ariana dall’altra parte. Ho deciso di rischiare il mio documento, pensavo che fosse la mia ultima possibilità di salvare Renuska. Oh mio Dio che orrore! Volevo salvare i miei genitori e Renia ma ho cacciato me stesso in guai ancora peggiori». Poi l’ultimo disperato messaggio affidato al diario: «Tre spari! Tre vite perse! È successo la notte scorsa, erano le 10 e 30. Il destino ha deciso di portarmi via le persone più care. La mia vita è finita. Tutto quello che riesco a sentire sono i colpi, gli spari...Mia carissima Renusia, l’ultimo capitolo del tuo diario è completo». Renia e i genitori di Zygmunt vengono assassinati dai nazisti nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1942. Lui riesce a fuggire, nasconde i quaderni che formano il diario da qualche parte, dove nessuno lo saprà mai con certezza. Sarà catturato, finirà in diversi lager, l’ultimo Auschwitz, ma riuscirà a sopravvivere. All’inizio dell’anno 1950, Ariana ormai diventata Elizabeth, vive con la madre a New York. Ed è lì che un giorno appare Zygmunt con il diario di Renia. «Mia madre era emotivamente sconvolta, noi eravamo le due sopravvissute, io ero giovane e volevo dimenticare». Per questo il diario rimane chiuso in un cassetto per così tanti anni. Sono la figlia di Ariana/Elizabeth, Alexandra Bellak e il regista di documentari polacco-americano Tomasz Magierski a far sì che il diario diventi patrimonio pubblico: «Ho saputo della sua esistenza quando ero adolescente, ma non me ne sono interessata», racconta Alexandra. «Solo quando ero al college ho voluto indagare sul passato della mia famiglia e ho capito l’importanza che poteva avere. Non parlo polacco quindi l’ho fatto tradurre. La prima traduzione non era molto bella ma si capiva comunque che aveva un grande valore non solo storico ma anche letterario, con quelle sue bellissime 60 poesie che ne fanno parte». Tomasz viene coinvolto nel progetto nel 2014: «Al consolato polacco di New York fu proiettato un mio documentario e dopo la proiezione un’elegante signora mi si avvicinò per chiedermi se volevo leggere il diario di sua sorella, scritto durante l’occupazione nazista. Aggiunse anche che lei stessa era un’attrice teatrale prima della guerra ed era chiamata la “Shirley Temple polacca”. Ero curioso, così ho incontrato Ariana e sua figlia Alexandra, che ha creduto molto nel valore storico e letterario del diario di Renia. È un testo commovente, che ha toccato il mio cuore. Insieme abbiamo creato la Fondazione Renia Spiegel e io, come regista, ho iniziato a lavorare su un documentario sulle sorelle Spiegel, una storia straordinaria e completamente sconosciuta. Abbiamo girato in Polonia e New York, il film sarà finito a maggio». 

·         Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra.

Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Fausta Chiesa su Corriere.it. Era il 12 agosto 1949, esattamente 70 anni fa. L’Europa era uscita da quattro anni dalla guerra più terribile, che aveva fatto più di 50 milioni di morti. Quel giorno, in una conferenza diplomatica a Ginevra, fu messo nero su bianco il diritto internazionale umanitario che tuttora vige, un insieme di regole che pone limiti all’uso della forza e stabilisce standard minimi da rispettare in tutte le situazioni di conflitto armato (non soltanto alle guerre tra Stati) allo scopo di proteggere le persone che non prendono (più) parte alle ostilità, come feriti, malati, naufraghi delle forze armate e prigionieri di guerra. Le Convenzioni di Ginevra sono quattro: I Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate in campagna; II Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare; III Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra e IV Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Tante le ong e le associazioni che hanno ricordato l’anniversario. Dalla Croce Rossa Internazionale ad Amnesty. Oggi a Solferino (Mantova) - dove nel 1959 si svolse una battaglia sanguinosissima fra l’esercito austriaco e quello francese che poi portò alla nascita del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) - presso il Memoriale della Croce Rossa, si tiene una cerimonia in ricordo di quello che fu - si legge nel comunicato - «un importantissimo cambiamento per le sorti dell’Umanità. Con questa firma, sono state sancite per diritto maggiori garanzie e tutele in caso di conflitto internazionale». Secondo Amnesty, negli ultimi anni è stato documentato il disprezzo per la protezione dei civili e il rispetto del diritto internazionale umanitario in conflitti in cui erano e sono coinvolti quattro dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza: Russia, Usa, Regno Unito e Francia. Il quinto, la Cina, sta attivamente coprendo i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e forse anche il genocidio che chiamano in causa il vicino Myanmar. Tra gli altri casi citati la Siria, la Somalia, Gaza, il Sud Sudan. «Vent’anni dopo l’impegno del Consiglio di sicurezza a fare il massimo per proteggere i civili nei conflitti armati e 70 anni dopo che le Convenzioni di Ginevra cercarono di tutelare le popolazioni civili dalle atrocità della Seconda guerra mondiale, il quadro complessivo è incredibilmente tetro», ha dichiarato Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International. «Nel 2018 - ha aggiunto - l’Agenzia Onu per i rifugiati ha denunciato la cifra record di 68,5 milioni di persone costrette a vivere fuori dalle loro terre a causa dei conflitti armati e di altre forme di violenza». Il Cicr nel 2016 ha indagato l’opinione della popolazione. Due terzi dei partecipanti pensa che porre limiti alla guerra è ragionevole e che la violenza nei confronti dei servizi sanitari è inaccettabile: un’ampia maggioranza degli intervistati, infatti, disapprova nettamente gli attacchi a ospedali, ambulanze e personale medico. Un’analisi effettuata tra il 2011 e il 2019 ha dimostrato che oggi gli Stati hanno più difficoltà ad accordarsi su nuove leggi per disciplinare i conflitti armati e a verificare il rispetto di quelle in vigore. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: le norme esistenti vanno preservate. Continuiamo quindi a batterci a favore di questa recente conquista dell’umanità: il diritto internazionale umanitario. Anche Papa Francesco nell’Angelus di ieri le ha ricordate e ha colto l’occasione per lanciare un monito sulle guerre, tra le principali cause delle ondate migratorie recenti. Questi «importanti strumenti giuridici internazionali», ha sottolineato Bergoglio, «impongono limiti all’uso della forza e sono volti alla protezione di civili e prigionieri in tempo di guerra. Possa questa ricorrenza rendere gli Stati sempre più consapevoli della necessità imprescindibile di tutelare la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati. Tutti sono tenuti a osservare i limiti imposti dal diritto internazionale umanitario, proteggendo le popolazioni inermi e le strutture civili, specialmente ospedali, scuole, luoghi di culto, campi profughi. Perché la guerra e il terrorismo, è il richiamo, «sono sempre una grave perdita per l’intera umanità. Sono la grande sconfitta umana».

·         Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri.

Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri. L'agguato degli uomini di Salvatore Giuliano costò la vita a 7 uomini dell'Arma. Diede origine al Comando Forze Repressione Banditismo di Ugo Luca e di un giovane Dalla Chiesa. Edoardo Frittoli il 20 agosto 2019 su Panorama. E' la sera del 19 agosto 1949. siamo a poca distanza da Portella della Ginestra, luogo del massacro compiuto dal bandito siciliano Salvatore Giuliano soltanto due anni prima. Sulla strada polverosa che dal Passo di Rigano, una località presso l'aeroporto palermitano di Boccadifalco porta alle alture della Conca d'Oro, un autocarro militare giace rovesciato e sventrato da una violenta esplosione. Sono le 21:30 circa quando una mina controcarro fa saltare il mezzo pesante a 12 metri dalla provinciale, portandosi via la vita di sei Carabinieri. Un settimo morirà poche ore dopo per le gravissime ferite riportate. L'intervento degli uomini del 12° Battaglione Mobileera scattato dopo che un gruppo di banditi aveva assalito con colpi di fucile e bombe a mano la vicina caserma di Bellolampo, un'azione diversiva per attirare rinforzi dal capoluogo siciliano. La strage fu organizzata da Giuliano e dai suoi uomini come atto per ribadire la propria forza nella lotta contro lo Stato Italiano, oltre che per ritorsione a seguito degli arresti dei mesi precedenti, sopra tutti la cattura del braccio destro Salvatore Candela. Nei giorni successivi all'attentato gli inquirenti rinvennero a poca distanza dal luogo dell'esplosione alcune tracce della presenza dei banditi: nascosti dalla macchia, i Carabinieri trovarono bottiglie di birra vuote, resti di cibo e carte da gioco: segno che la banda di Giuliano aveva orchestrato l'attentato con estrema calma, ed aveva azionato il detonatore della mina giusto sotto le ruote dell'ultimo mezzo militare, in tal modo da garantirsi la fuga in quanto tutti gli occupanti degli altri camion si fermarono a prestare soccorso. Da Palermo giunsero i vertici della Forze dell'Ordine, con ulteriori rinforzi. Quando furono nei pressi di Bellolampo furono anch'essi attaccati dagli stessi banditi che si ripresentarono senza timore sulla scena della strage consumata poco prima. Soltanto per un caso non vi furono ulteriori vittime, ma la Fiat 1100 e la Lancia Astura su cui viaggiavano il Maggiore di Polizia Iodice ed il Capitano Giglio tornarono a Palermo su carri attrezzi dopo essere state fatte oggetto del lancio di bombe a mano. La strage di Bellolampo, che si portò via le giovani vite dei Carabinieri Pasquale Marcone, Armando Loddo, Gianbattista Aloe, Gabriele Palandrani, Sergio Mancini, Antonio Pubusa e Ilario Russoscatenò la reazione delle Istituzioni a causa dei continui successi nella guerriglia personale del separatista Giuliano e della sua capacità di presa sulla popolazione rurale dell'entroterra siciliano. Fu dall'azione del 19 agosto 1949 che nacque il primo nucleo della Forze dell'Ordine dedicato esclusivamente alla lotta al fenomeno del banditismo, il cosiddetto "Comando Forze Repressione Banditismo" organizzato e diretto dall'Arma dei Carabinieri. Costituito da una forza di 2.000 uomini tra Carabinieri e Polizia, fu posto agli ordini del Colonnello del Servizio Informazioni militare Ugo Luca, con il quale collaborò il giovane Capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il CFRB scatenò la propria forza nei mesi successivi alla strage di Bellolampo, eseguendo centinaia di azioni e di rastrellamenti. Il 27 gennaio 1950 gli uomini del Colonnello Luca uccidono uno dei più importanti luogotenenti di Giuliano, Salvatore Pecoraro, che aveva preso parte attiva all'assalto alla caserma di Bellolampo e alla successiva strage dei Carabinieri. Salvatore Giuliano, braccato dall'azione delle Forze dell'Ordine, morirà un anno dopo la strage di Bellolampo ucciso dal suo sodale Gaspare Pisciotta che era diventato nel frattempo informatore proprio degli uomini del Colonnello Luca.

·         1979 Lo spartiacque tra due ere storiche.

1979 Lo spartiacque tra due ere storiche. Paolo Delgado il 23 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dalla rivoluzione khomeinista alla vittoria di Margaret Thatcher. In Italia finì l’unità nazionale tra Dc e Pci che si divisero sulla nascita dello Sme, il sistema monetario europeo. Ci sono anni esplosivi, la cui importanza storica si coglie al volo, ancora prima del 31 dicembre. Ce ne sono altri che cambiano le cose più discretamente ma anche più radicalmente. Il 1979, per esempio, è forse l’anno che più di ogni altro ha dato forma al presente in cui viviamo, ha fatto da spartiacque tra due ere storiche senza che sul momento lo si potesse capire a prima vista. Quell’anno cominciò con la vittoria di una rivoluzione. Il 16 gennaio lo Scià Reza Pahlevi lasciò il trono e l’Iran. Dopo due settimane, il primo febbraio, rientrò dopo 15 anni dall’esilio parigino, per insediarsi alla guida della neonata Repubblica islamica, l’ayatollah Khomeini. Quella rivoluzione aveva destato grandissime attese anche nel mondo laico, sia in Iran che all’estero. Speranze del tutto vane. Nel giro di un anno fu chiaro che il regime teocratico era anche peggiore di quello deposto. Ci volle un po’ per capire che quella rivoluzione islamica non era una bizzarria della storia ma l’annuncio di una ventata che avrebbe determinato la storia dei decenni seguenti. Poche settimane dopo, il 13 marzo, entrò in vigore il Sistema monetario europeo, Sme. Era l’anticamera dell’euro e anche l’Europa in cui viviamo oggi, quella della moneta unica e di Maastricht, emise i primi vagiti in quell’anno che cambiò tutto ma senza troppo fragore. Nello stesso anno, non a caso, si tennero per la prima volta le elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, nei nove Paesi che allora formavano la Cee, la Comunità economica europea. In Italia la nascita dello Sme fu accompagnata da un funerale: quello dell’unità nazionale, l’accordo di governo tra Dc e Pci che, prima con la formula dell’astensione, poi con quella dell’appoggio esterno a un governo Dc, aveva retto il paese nei due anni e mezzo precedenti. Quell’esperienza, per il Pci disastrosa si era in realtà già esaurita. La rottura però fu la nascita dello Sme. Il Pci votò contro e in un brillante discorso il responsabile economico del partito, Giorgio Napolitano, spiegò perché, denunciando in anticipo tutti i limiti che avrebbero poi segnato la moneta unica. A quel punto però Giorgio Napolitano aveva evidentemente cambiato idea. Il Pci uscì dall’esperienza della solidarietà nazionale, strategia su cui il segretario Berlinguer aveva scommesso tutto, con le ossa rotte e due milioni di voti in meno alle elezioni del 3 e 4 giugno. Il Pci da quel colpo non si riprese mai. Quelle elezioni misero fine a una lunghissima fase di crisi e instabilità durata tutto il decennio e che aveva toccato il picco quando, dopo le elezioni del 1976, era risultato impossibile dare vita a qualsiasi maggioranza senza un accordo, per l’epoca quasi inimmaginabile tra i due partiti maggiori, la Dc e il Pci. Il 28 marzo per la prima volta si verificò un incidente grave in una centrale nucleare, negli Usa, a Three Mile Island. Fu qualcosa in più di un campanello d’allarme. Sino a quel momento solo i movimenti ambientalisti e dissidenti avevano messo in dubbio il modello energetico futuro disegnato sull’energia nucleare. Three Mile Island iniziò a cambiare il modo di guardare al nucleare. Avvertì del pericolo. Mise in guardia in anticipo di anni su Chernobyl. L’Italia del 1979 era il paese del terrorismo. Con attentati quotidiani e le organizzazioni armate che sembravano invincibili il terrorismo era di gran lunga il primo problema del Paese. Il 7 aprile un mastodontico blitz a Padova pretese di aver quasi risolto il problema. Finirono in galera tutti i principali leader dell’autonomia operaia, con il professor Toni Negri al primo posto. Una seconda e anche più nutrita raffica di arresti sarebbe arrivata in dicembre. Gli arrestati erano accusati di essere la cupola di tutte le organizzazioni armate che si fingevano differenti per colpire meglio ma rispondevano invece ad una sola centrale di comando. Di conseguenze le imputazioni furono vertiginose, inclusa una quantità di omicidi a partire dal caso Moro. Negri fu anche accusato di essere personalmente il "telefonista" del sequestro. Erano accuse del tutto campate per aria e lo si capì presto. Ma gli arresti rispondevano a un’esigenza individuata dal pool di magistrati che si occupavano di terrorismo: quella di "togliere l’acqua intorno al pesce", cioè di prosciugare il bacino di simpatie e complicità o tacite connivenze di cui usufruivano nel Movimento di quegli anni i gruppi armati. Di conseguenza al crollo della montatura le procure reagirono con nuove e differenti accuse e insistettero su questa linea tenendo comunque in galera per anni i leader di autonomia, o costringendoli all’espatrio. Quel processo segnò il passaggio non di un solo confine ma di due limiti: le necessità dell’emergenza di turno fecero per la prima volta clamorosamente premio su quelle delle garanzie e dei diritti degli imputati, ma allo stesso tempo il potere politico delegava a un altro potere, quello togato, la gestione di un’emergenza, come non era mai capitato prima. Entrambi gli elementi, la cancellazione delle garanzie in nome dell’emergenza e il dilagare del potere togato sino a invadere aree di competenza degli altri due poteri dello Stato, il legislativo e l’Esecutivo, si sarebbero ripresentati in seguito più volte e ancora oggi segnano a fondo il presente. Ma forse la trasformazione più profonda e radicale fu quella sul momento meno vistosa. I conservatori vinsero le elezioni del 4 maggio nel Regno unito. Non era certo la prima volta che, nel bipartitismo del Regno unito, il governo toccava ai Tories. Il principale fatto nuovo era per la prima volta nella storia si insediava a Downing Street una donna. Ma quella donna era Margaret Thatcher, “la Lady di ferro”, e il suo governo avrebbe coinciso con una sterzata politica di portata più epocale che semplicemente storica. Dopo anni di politiche sociali influenzate dalla sinistra Meg Thatcher segnò la svolta neoliberismo, tenne a battesimo le politiche economiche che hanno dominato da allora ovunque. Non lo fece da sola. La rivoluzione, o controrivoluzione, neoliberista della lady di ferro non si sarebbe affermata così totalmente e radicalmente se l’anno seguente non fosse stato eletto alla presidenza degli Usa Ronald Reagan, che condivideva per intero l’impianto thatcheriano. Almeno in parte, però, anche quella vittoria fu l’effetto di un episodio verificatosi nel 1979. Il 4 novembre una folla di studenti iraniani invase l’ambasciata degli Usa prendendo in ostaggio 52 cittadini americani. Il sequestro fu lunghissimo, durò 444 giorni. Il culmine della crisi si toccò però quando il 24 aprile 1981 l’amministrazione Carter tentò un blitz in Iran per liberare gli ostaggi. Fu un disastro, con 8 marines morti sul campo. Quel fallimento spalancò le porte della Casa Bianca a Ronald Reagan. Quell’anno vide la nascita della Terza Rete Rai e del Tg3, la vittoria dei sandinisti in Nicaragua, con tutto quel che ne sarebbe conseguito in termini di operazioni dei contras in America centrale, la prima giornata dell’orgoglio omosessuale in Italia, il 30 giugno a Torino. In molti sensi e da molti punti di vista, dunque, il mondo in cui viviamo, la nostra normalità, prese le mosse nel 1979.

·         Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv.

Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv. Trentacinque anni fa si svolsero i primi giochi olimpici invernali in un paese comunista. Oggi rimangono solo rovine. Giulia Merlo il 31 Agosto 2019 su Il Dubbio. La mascotte, il lupacchiotto Vucko, si vede ancora in qualche graffito scrostato nella periferia della città e i venditori di souvenir offrono le spillette originali ai turisti per cinque euro l’una, oppure dieci marchi bosniaci. Trentacinque anni fa, il lupo delle alpi dinariche è stato il simbolo delle Olimpiadi invernali di Sarajevo ‘ 84, le prime organizzate in un paese comunista e pensate da Tito per mostrare lo splendore della Jugoslavia. La candidatura della città si concretizza nel 1978, con la sconfitta della giapponese Sapporo, e il Maresciallo punta a farne l’evento vetrina di un intero paese. Ancora oggi, quelle settimane di festa sono ricordate come il “magico febbraio”: Tito morì quattro anni prima, nel 1980, ma nel 1984 Sarajevo era pronta ad ospitare l’Olimpiade invernale con il massimo numero di partecipanti fino ad allora, offrendo il meglio che la città avesse a disposizione. La neve non era un problema: in inverno si raggiungevano senza difficoltà i meno venti gradi e gli impianti piste da sci, cabinovie di risalita, trampolini e piste di pattinaggio erano il meglio a disposizione sul mercato. Il vero guaio era la nebbia, che poteva impedire l’atterraggio dei voli internazionali dell’aeroporto locale. Per questo, gli ingegneri avevano preparato delle sostanze chimiche da sparare in cielo per dissolvere i banchi di foschia. Oggi, di quel magico febbraio, rimangono macerie sulle montagne ed edifici ormai indistinguibili dagli altri, nella distesa di palazzi in stile socialista lungo la Zmaja od Bosne, che durante l’assedio della città cambiò nome in “viale dei cecchini”. Ad accogliere chi arriva da sud compaiono i palazzi di quello che oggi è il quartiere di Mojmilo e nel 1984 era il villaggio olimpico. Perfettamente mimetizzati nello svettare delle strutture a nido d’ape socialiste, gli appartamenti fatti costruire per gli atleti vennero poi distribuiti gratuitamente, come premio di Stato, a laureati e alti funzionari. «Il giorno in cui si è laureato in giurisprudenza, a mio padre è stato messo in mano un mazzo di chiavi di uno di quegli appartamenti», racconta Alen, trent’anni, che in estate organizza tour turistici e d’inverno fa il maestro di sci sulle stesse montagne delle Olimpiadi. La sua famiglia è stata tra le prime a venire sfollate, durante l’assedio: viveva nella zona ovest di Sarajevo, subito occupata dai serbo- bosniaci, e lui ha vissuto per i quattro anni di assedio in uno scantinato con altre sette famiglie, profugo di guerra nella sua stessa città. «La mattina si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, in cui i cittadini chiedevano se davvero la città sarebbe finita sotto assedio. Quella stessa notte, serbo- bosniache di Ratko Mladic scesero dalle montagne e sfollarono il quartiere dove vivevo. Si presentarono con un altoparlante e ci dissero di uscire di casa, poi formarono due gruppi: uno di serbi, un altro di non serbi». Lui e la sua famiglia – padre avvocato di religione musulmana, lui di quattro anni e la madre che aveva da poco partorito la sorella – erano tra i non serbi. «Ci dissero di portare con noi lo stretto indispensabile e di farci trovare pronti alle sei del mattino, perchè sarebbero arrivati dei pullman per uno scambio: noi in cambio di altrettanti serbi, provenienti dal centro città», racconta Alen, che ricorda quella notte e la fuga che seguì. «Era il 1992 e mio padre reagì come avrebbe fatto chiunque: chiamò la polizia. Loro gli dissero di prendere la sua famiglia e scappare, perchè quei pullman non ci avrebbero portato a Sarajevo centro, ma ad un campo di concentramento già costruito a Sarajevo est». Così, alle tre di notte, la famiglia fuggì, superando il ponte sul fiume Miljacka. «Da quel momento in poi, ovunque si andasse, bisognava farlo correndo», Alen ripete le parole del padre, oggi sessantenne, che durante la guerra entrò a fare parte della guerriglia di difesa della città e, per provvedere alla famiglia, correva sfidando i cecchini per arrivare al tunnel sotterraneo di 800 metri, che passava sotto l’aeroporto controllato dalle Nazioni Unite fino alla zona libera, dove recuperava medicine, armi e provviste. «Era l’unica sottile vena di approvvigionamento della città», in cui per tutti i 1452 giorni di assedio mancarono luce, acqua corrente e gas. Da quel passaggio scavato in segreto dai bosniaci, Sarajevo rimaneva flebilmente attaccata al mondo. Proprio i palazzi olimpici e tutti i condomini di cemento in stile sovietico sono stati la vera protezione dei civili, tra il 1992 e il 1995: erano gli unici con pareti abbastanza spesse da resistere ai colpi di mortaio sparati dalle montagne, molto meglio degli edifici ottocenteschi che sono il cuore della città e degli edifici della città vecchia, vicino al mercato e alla grande moschea. Oggi, quegli stessi palazzi sono ancora in piedi ma le pareti rimangono crivellate di colpi. «I mattoni rossi sulle facciate sono i punti in cui i colpi hanno distrutto le pareti ed è stato necessario ricostruirle», spiega Alen, mentre percorriamo l’arteria centrale della città, che la taglia a metà da est a ovest e corre parallela alle rotaie del tram, fatte posare per le Olimpiadi e ancora oggi mezzo principale di trasporto per i pendolari. Lungo quella stessa strada, sulla destra, sfilano l’ambasciata americana accanto all’università di Sarajevo, presidiata da una statua di Tito, poi l’Holiday Inn di colore giallo brillante che era terreno franco per i giornalisti durante l’assedio e infine la sede della radio- televisione pubblica, che gli abitanti difesero dagli attacchi perchè il mondo continuasse a poter vedere che cosa stava succedendo. A ventitrè anni di distanza dalla fine dei combattimenti, i palazzi sono stati ricostruiti, ma i segni dei bombardamenti rimangono ancora visibili. Cercare oggi quel che resta di Sarajevo ‘ 84, quando la Jugoslavia era ancora una repubblica socialista federale di sei stati e la città non era stata devastata dall’assedio, significa raggiungere due monti, l’Igman e il Trebevic. Uno accanto all’altro, sono però divisi da un confine interno: quello che divide la Bosnia ed Erzegovina dalla repubblica Srpska. Formalmente, entrambi nello stato bosniaco, di fatto due territori divisi: europeista e di etnia mista uno, filorusso e a prevalenza serbo l’altro. Per arrivare sul monte Trebevic si percorre fino in fondo la Zmaja od Bosne, si superano i resti delle fabbriche bombardate e mai rimesse in funzione, poi l’aeroporto internazionale che durante l’assedio venne occupato dalle Nazioni Unite, si attraversa Sarajevo est ( città autonoma a livello amministrativo da Sarajevo, da cui la separa una cinta montuosa e l’aeroporto) e si percorre la strada dissestata che porta fino ai 1600 metri del monte Trebevic, polmone verde che sovrasta la città. Mangiata dalla foresta ma perfettamente visibile nella sua struttura di calcestruzzo e isolante ormai marcio, rimane la pista da bob di Sarajevo ‘ 84. Un serpente lungo più di tre chilometri, dalla vetta a valle. Oggi è diventato un luogo per writers e street artists, oltre che per visite turistiche di giorno e rave party di notte. La si intravede tra gli alberi e nelle radure panoramiche, da cui si osserva tutta la città. La parte vecchia con le chiese e le moschee, quella ottocentesca coi palazzi dell’amministrazione cittadina e quella socialista, punteggiate di cimiteri piccoli e grandi: con steli bianche in quelli musulmani, di marmi neri quelli cattolici e ortodossi. «Sarajevo è crocevia di quattro religioni e tre etnie: i cattolici croati, i bosniaci musulmani, i serbi ortodossi e gli ebrei. Tutti hanno un luogo di culto nella città e la convivenza è sempre stata pacifica», spiega Alen. «Durante l’assedio morirono 12mila persone e il motto era “resistere fino all’ultima pallottola”. Gli ortodossi ricevettero dai serbi l’invito a lasciare la città indenni, ma la maggior parte rifiutarono e rimasero a combattere per difendere Sarajevo». Nel 1995, la pista da bob fu teatro dell’unico vero scontro via terra tra eserciti e della battaglia che mise fine all’assedio di Sarajevo. La montagna, già luogo di scontri durante la seconda guerra mondiale e subito occupata dai serbi nel 1992, era completamente disseminata di mine antiuomo ( nonostante le bonifiche, una bomba inesplosa è stata rinvenuta nel 2018) e la pista da bob era una sorta di sopraelevata dal terreno che permetteva ai militari di muoversi senza rischiare di innescare gli ordigni. Quando la Nato diede il via libera alla missione Deliberate Force in risposta al bombardamento del mercato di Sarajevo del 28 agosto 1995, imponendo la ritirata ai serbi asserragliati sulle montagne intorno alla città, il Trebevic fu liberato con un ultimo sanguinoso scontro. La Nato, infatti, chiese l’intervento via terra da parte dei bosniaci di Sarajevo, i quali risalirono a piedi la montagna: i serbi in ritirata utilizzarono la pista da bob come scudo, sparando dai fori aperti nel cemento. Sul versante opposto, immerso nel verde e nelle cave, si trova l’hotel Igman. Il nome è quello della montagna sulla quale sorge: 162 stanze per 5100 metri quadrati, un perfetto esempio di stile brutalista. Pensato per ospitare i turisti di lusso occidentali, era stato costruito appositamente per le Olimpiadi nei primi anni ottanta. Oggi rimane solo la struttura colossale: un ecomostro in abbandono perso nella boscaglia. Sparito l’intonaco giallo e bianco degli esterni, distrutte le vetrate che davano sulle piste da sci, l’interno è uno scheletro di mattoni e cemento, con la colossale hall dell’hotel disseminata di pneumatici e sacchi di sabbia dietro cui si nascondevano i cecchini: l’edificio è stato tra i primi ad essere distrutto e occupato dai serbi, che controllavano la corona di montagne intorno alla città per interrompere ogni comunicazione tra Sarajevo e il mondo esterno. «Tutto il resto delle strutture spiega Alen – è stato riconvertito: le piste da sci, lo stadio… solo la pista da bob e il trampolino per il salto con gli sci sono rimasti com’erano». In particolare la pista da bob «è un monito di quello che ha rappresentato la guerra per la città: ha molto più valore così». Oggi, sia il monte Igman che il Trebevic sono tornati ad essere luoghi di turismo, frequentati soprattutto dai russi, attratti dai prezzi economici. Attorno all’hotel Igman, invece, le famiglie organizzano pic- nic e camminate. Lungo il tragitto per raggiungere la radura, la segnaletica consumata è ancora visibile, come lo sono i cinque cerchi olimpi- ci che accolgono all’inizio della strada. Di quel febbraio magico, oggi, rimangono i ricordi e le macerie: nel 2018 è stata rimessa in funzione la funivia panoramica che collegava Sarajevo al Trebevic. Nel 1992, mentre preparavano l’assedio della città, le truppe serbo- bosniache la distrussero e uccisero Ramo Biber, il giovane guardiano dell’impianto, passato alla storia come una delle prime vittime del conflitto. Oggi, con quei 12 minuti di risalita, su Sarajevo sta tornando il sereno.

·         9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino.

Sergio Romano per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2019. Sapevamo che trent' anni fa, dopo il crollo del muro di Berlino, alcuni uomini di Stato europei (fra i quali Mitterrand, Thatcher e Andreotti) vedevano con qualche timore e molta diffidenza la prospettiva di una Germania riunificata. Ma un articolo di Philip Stephens apparso sul Financial Times del 25 ottobre ci ricorda che Margaret Thatcher, allora primo ministro del Regno Unito, si spinse più in là. Approfittò del viaggio di ritorno, dopo una visita a Tokyo nel settembre 1989, per una sosta a Mosca dove ebbe una conversazione a quattrocchi, nella sala di Santa Caterina del Cremlino, con Mikhail Gorbaciov, presidente dell' Unione Sovietica e segretario generale del Partito comunista. Parlarono di Germania e la Lady di ferro, secondo le note prese da un consigliere di Gorbaciov (Anatolij Cerniaev), disse al suo interlocutore che la Gran Bretagna non desiderava la riunificazione tedesca «perché temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra». Per le stesse ragioni Thatcher, in quella circostanza, avrebbe garantito a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe adoperata per la dissoluzione del Patto di Varsavia (l' accordo stipulato dall' Urss con i suoi satelliti nel 1955). Contemporaneamente, secondo i ricordi di Philip Stephens, Thatcher avrebbe proposto al presidente francese François Mitterrand la conclusione di una Intesa Cordiale simile a quella che Francia e Gran Bretagna avevano concluso nell' aprile del 1904 per contenere la crescente potenza del Reich tedesco. Trent' anni dopo, le preoccupazioni della signora Thatcher mi sembrano almeno in parte giustificate. Con la sua insistenza per il frettoloso riconoscimento della Slovenia e della Croazia nel gennaio 1991, la Germania unificata ha provocato la disintegrazione dello Stato jugoslavo e la frammentazione del Balcani. Con l' apertura dell' Unione europea agli ex satelliti dell' Urss, fortemente voluta da Berlino, sono stati creati due problemi.  Abbiamo accolto nella Ue Paesi che non hanno alcun desiderio di rinunciare alla propria sovranità per creare una Europa federale; e quei Paesi sono diventati satelliti della Nato pregiudicando gravemente i rapporti con la Russia. La riunificazione tedesca, inoltre, non ha soddisfatto le aspettative dei suoi promotori. Come hanno ricordato Milena Gabanelli e Danilo Taino sul Corriere del 28 ottobre, alcune regioni della Germania orientale continuano a manifestare malumori per le loro condizioni sociali. Sembra esistere ancora, paradossalmente, un patriottismo tedesco-orientale che ha favorito l' ascesa della destra radicale. Forse non avevano torto quei tedeschi, prevalentemente social-democratici, che nel 1989 avrebbero preferito una confederazione tedesca composta di due Germanie piuttosto che una Germania unificata.

Quando Havel portò l'uomo e la libertà al cuore della politica. Il saggio di Stefano Bruno Galli racconta la «rivoluzione esistenziale» del leader ceco. Giordano Bruno Guerri, Giovedì 28/11/2019 su Il Giornale. Václav Havel aveva 32 anni nel 1968, quando fiorì quella «Primavera di Praga» che oggi lo sappiamo avrebbe rappresentato l'inizio del crollo dell'Unione Sovietica, avvenuto più di vent'anni dopo. La ribellione dei cecoslovacchi venne repressa con i carri armati, e il simbolo indelebile di quei giorni sarebbe stato Jan Palach, uno studente di filosofia ventenne che per protesta si dette fuoco in piazza San Venceslao. «Era semplicemente impossibile non partecipare», dirà Havel. Aveva già rappresentato qualche sua opera, ma non era conosciuto al di fuori del suo Paese, e gli fu impedito di lavorare ancora in teatro. Possiamo immaginare, nei nove anni successivi, la sua vita di oppositore a un regime a caccia di nemici. Tuttavia nel 1977 partecipò alla stesura di Charta 77, un testo di denuncia contro il mancato rispetto dei diritti umani, civili e politici. Ne sarebbe nata la cosiddetta «Rivoluzione di velluto», che non si opponeva direttamente al regime comunista, ma ne minava le radici e la sostanza. La reazione del governo cecoslovacco fu dura: i firmatari vennero bollati come «traditori e rinnegati» e «agenti dell'imperialismo», molti persero il lavoro, o la patente, o la possibilità di far proseguire gli studi ai figli. Membro di un «Comitato per la difesa dei perseguitati ingiustamente», nel 1979 Havel venne condannato a quasi cinque anni di carcere, che scontò interamente. Eroe e martire, amato per la sua grazia gentile, dopo la caduta del Muro e del comunismo, il 29 dicembre venne eletto presidente della Repubblica, e divenne immediatamente un mito di fama mondiale. Pochi mesi dopo, mai ci saremmo aspettati, al Premio Malaparte, che accettasse il nostro invito, ma presidente della giuria era Alberto Moravia, con Raffaele La Capria, Giuseppe Merlino e altri amici oggi scomparsi. E Graziella Lonardi era inarrestabile. La grande esperta e collezionista d'arte («Il più bel culo di Capri», amava definirsi, perché non si enfatizzasse troppo la sua intelligenza), aveva fondato il premio nel 1983, e lo avevamo già assegnato anticipando qualche Nobel - a Anthony Burgess, Saul Bellow, Nadine Gordimer, Manuel Puig, John Le Carré, Fazil' Abdulovi Iskander, Zhang Jie. Ci sarebbero state altre premiazioni memorabili, anche dopo la morte di Graziella, per merito di sua nipote Gabriella Buontempo, che ne ha raccolto l'eredità, però quella del 1990 fu indimenticabile. Ero stato cooptato nella giuria, pischello, per la mia biografia di Malaparte, e Graziella aveva saputo creare, attorno al premio e al fascino di Capri, un clima di mondanità colta e divertita. Fu così che una bella mattina (tardi, con comodo) mi trovai su una barchetta a motore con Havel, Moravia, La Capria, Umberto Eco e Gianni De Michelis, all'epoca ministro degli Esteri nel VI governo Andreotti. Per richiesta di Havel e allegria di tutti andavamo a trovare Rudolf Nureyev, ritirato nello scontroso arcipelago Li Galli, sulla scogliera amalfitana. Il danzatore più celebre di tutti i tempi ci accolse con una sua elegante tristezza, era già malato di Aids, e comunque la sua malattia era sentirsi vecchio, a 52 anni. Su una terrazza assolata di mare parlò della Madre Russia, che aveva abbandonato da tanto tempo, del suo rapido ritorno su invito di Gorbacev, e del male che aveva fatto il comunismo, però sembrava non gli importasse di niente. Havel lo consolava, De Michelis lo spronava a un futuro d'ottimismo. Erano tutti famosi, e fu come trovarsi in quelle foto - poi diventate storiche, per esempio quella celebre dei futuristi a Parigi - che il tempo trasforma, da semplice foto, a foto con didascalia: primo da sinistra... L'immagine diventa storica, ma prima e dopo la posa i protagonisti ciarlano del più e del meno, badando a essere brillanti, più che a fondare sistemi e movimenti. E così fu anche quella sera, quando in un night di via Tragara mi ritrovai a ballare duro con Eco, d'improvviso lieve, e De Michelis, lieve anche lui, con i suoi lunghi riccioli e le movenze di frequentatore assiduo di discoteche che pensate all'epoca scandalizzavano, ignari com'eravamo di chi sa quali ministri degli Esteri sarebbero venuti dopo. Havel accennava qualche passo, sorridendo e battendo lievemente le mani. Poco dopo si sarebbe dimesso dalla presidenza della Repubblica Cecoslovacca per non firmare gli atti che sancivano la divisione fra cechi e slovacchi, però nel 1993 sarebbe stato rieletto presidente della Repubblica Ceca, splendido rappresentante di una destra liberale. C'erano anche tante belle donne, e prima o poi forse racconterò meglio quella notte, che per ora ho ricordato soltanto per accompagnare il lettore alla recensione di un libro. Un ottimo libro, né biografia né saggio letterario e politico, piuttosto esplorazione di una mente, di una storia e di un'ipotesi politica: Václav Havel. Una rivoluzione esistenziale, di Stefano Bruno Galli (La Nave di Teseo, pagg. 117, euro 13). Havel teorizzava «Il potere dei senza potere», come si intitola il suo libro più bello, del 1979: cioè una gestione della vita pubblica non basata su una dottrina né sul potere fine a se stesso, ma come impegno civile di tutti. Insomma, preconizzò con la sua «rivoluzione esistenziale» - un populismo che ha avuto sbocchi molto meno esaltanti di quanto sperato. Galli, che è docente di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche e assessore alla Cultura della Regione Lombardia, sottolinea la teorizzazione di Havel, che «Non credeva alla rigenerazione dal di dentro del sistema politico consolidato», perché «l'alternativa al sistema doveva essere costruita attraverso una profonda rivoluzione culturale, educando i cittadini alla libertà»: dunque, il primato della cultura sulla politica, e basti pensare al ruolo - ben spiegato nel libro - di Milan Kundera, autoesiliato in Francia. «La vita stessa nella sua imperscrutabile, misteriosa varietà e incostanza, mai poteva costringersi nella grossolana gabbia marxista», disse Havel. Riguardo ai Paesi satelliti dell'Europa orientale, nota Galli, «è legittimo parlare di un sequestro. Città, popoli e paesi, che per una consolidata tradizione storica usi e costumi, modelli culturali e comportamentali, mentalità collettive e organizzazioni economiche e produttive appartenevano all'Occidente europeo, sono stati rapiti e sottratti allo stesso Occidente per una quarantina d'anni, sino alla caduta del Muro di Berlino». Da qui, oggi, la nostra percezione dell'Europa centrale come «altra» rispetto all'Occidente. Nel saggio denso di notazioni storiche, politiche, sociali - si scoprono perle come il primo discorso di Capodanno del presidente Havel, il 31 dicembre 1990: «Forse vi chiederete quale repubblica stia sognando. Vi risponderò: una repubblica indipendente, libera e democratica; una repubblica economicamente prospera e nello stesso tempo socialmente equa. In breve, una repubblica umana che serve l'uomo nella speranza di esserne ripagata; una repubblica di persone che abbiano una cultura adeguata, perché senza di essa non si può risolvere alcun problema, sia esso umano, economico, ecologico, sociale o politico». Anche da queste parti la stiamo sognando ancora, perché «La politica», aggiunse, «non può essere solo l'arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell'intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici. Che piuttosto sia l'arte dell'impossibile, cioè l'arte di rendere migliori se stessi e il mondo». Discorsi da intellettuale, si dirà con sufficienza, mentre oggi e qui il ruolo dell'intellettuale è stato relegato ai margini della politica, quasi associandola alle ideologie. Ma è evidente che non ne guadagna né la politica, né la qualità delle democrazie, né tantomeno i cittadini.

Claudio Fabretti per “Leggo” il 25 novembre 2019. Vecchi muri crollano, nuovi muri nascono, ma quello dei Pink Floyd resta fisso da 40 anni al centro della storia del rock. Il 30 novembre 1979 si rivelava al mondo The Wall, il concept-album più amato, riprodotto, imitato e frainteso di sempre (oltre che bestseller da oltre 20 milioni di copie vendute). Mai come in questo caso le ossessioni e le paranoie di un singolo musicista sono riuscite a dar vita a un immaginario così universale. A Roger Waters bastò uno spunto banale – il suo sentirsi sempre più alienato dal pubblico del gruppo, culminato nel famigerato sputo a uno spettatore a Montréal nel 1977 – per edificare un gigantesco incubo collettivo. Perché The Wall è in fondo la colonna sonora che ognuno di noi può adattare ai suoi abissi più cupi. E al tempo stesso, i risvolti simbolici, sociali e politici dell’opera hanno finito col travalicarne la chiave psicologica individuale. Ad esempio, nella Germania divisa tra Est e Ovest, The Wall è diventato una bandiera della lotta contro quella frattura simboleggiata dal Muro di Berlino, tanto che nel 1990, con le macerie ancora fumanti di quella barriera, Waters verrà chiamato a riprodurlo dal vivo nella capitale ormai unificata, davanti a una folla immensa. In Sudafrica, Another Brick In The Wall, da canzone di protesta contro i metodi oppressivi di insegnamento che era, si è trasformata in un inno anti-apartheid. E quando in Bring The Boys Back Home - considerato dal bassista il momento-clou dello show – scorrono sul muro le immagini di un bambino che stringe la mano a un soldato, a simboleggiare gli affetti spezzati dalla guerra – è come se Waters si stesse rivolgendo alle vittime di tutti conflitti che insanguinano il pianeta. Eppure, è “solo” la storia di Pink, rockstar plasmata su Waters, che arriva a isolarsi dietro un “muro” mentale a causa di una serie di traumi psicologici (la morte del padre nella seconda guerra mondiale, la madre iperprotettiva, gli insegnanti autoritari, i tradimenti della moglie). Ma non c’è solo il messaggio. Il concept floydiano resta anche una formidabile raccolta di canzoni - da Hey You a Comfortably Numb passando per Mother - in bilico tra rock e funk, psichedelia e ballate intimiste in linea con il futuro Waters solista. Un’opera corale nata in studio di registrazione: ingegneri del suono, arrangiatori, produttori portano a compimento il percorso intrapreso sei anni prima con l’altro kolossal The Dark Side Of The Moon. E se il suono che ne scaturisce è perfetto, altrettanto straordinaria è la potenza evocativa della grafica di Gerald Scarfe, che, assieme ai disegni della copertina, curerà le animazioni dello show e del film. Già, perché The Wall è soprattutto uno dei più riusciti progetti multimediali della storia del rock: quasi impossibile immaginarlo spogliato della componente visuale, che trionferà proprio nei concerti in technicolor - portati in giro per il mondo dalla band prima e dal suo ex-leader poi - e nel film di Alan Parker del 1982, con Bob Geldof nei panni del protagonista Pink. Sarà anche il disco che porterà alle estreme conseguenze il dissidio tra Waters e gli altri. Affidato il suo testamento floydiano al requiem anti-bellico di The Final Cut (1983), il leader supremo toglierà il disturbo. Ma The Wall resterà il sigillo definitivo alla sua straordinaria stagione alla testa della band inglese.

Intervento di Nicola Zingaretti pubblicato da “Leggo” il 25 novembre 2019. Sembra una vita fa, l'uscita di The Wall. In quarant'anni abbiamo fatto in tempo a gioire per muri che crollavano, e a vederne erigere di nuovi. Come milioni di persone, ho amato alla follia questo capolavoro di ingegneria musicale, politica e ribellione. Nel corso degli anni, sono tornato spesso, come a una fonte, al suo messaggio di pacifismo, rifiuto della violenza e dell'ordine costituito, assoluto e senza compromessi, incastonato in quella maestosa architettura musicale. Ma l'emozione più grande legata a The Wall per me è più recente. Sono stato profondamente colpito quando ho letto, nel 2014, che Roger Waters aveva scoperto, dopo una lunga ricerca, che il nucleo sentimentale da cui si generò il corpo di The Wall è un fatto storico accaduto ad Anzio, sulle coste della nostra regione, a pochi chilometri da Roma. È lì che morì nel 1944 il padre di Roger Waters, soldato dell'esercito inglese: combattendo per la nostra libertà. In The Final Cut, il disco che completa The Wall, la voce narrante si chiede a un certo punto: Is for me that daddy died? Ecco, i quarant'anni di The Wall, oggi in questo complicato snodo storico in cui vediamo rivivere tensioni, istinti di guerra, nuovi muri - mi fanno pensare soprattutto al peso di una responsabilità politica ed etica: alla necessità di custodire, con cura e amore, la pace e i valori democratici che ci hanno consegnato i nostri padri e le nostre madri.

Claudio Fabretti per “Leggo” il 25 novembre 2019.

Carlo Massarini, che cosa rappresentava quel muro allora e cosa rappresenta oggi, in un’epoca in cui alcuni muri sono caduti e altri se ne vogliono costruire?

«Lì erano gli incubi personali di Waters che diventavano simbolo, che raggiunge il punto più alto quando nel 1990 è portato in scena ad Alexanderplatz, di fronte al Muro di Berlino demolito appena un anno prima. Oggi i muri vengono eretti (o minacciati) per contenere, separare: è solo l’inizio dell’evoluzione della trama di Waters, chissà se il finale sarà altrettanto liberatorio, o solo una prosecuzione dell’incubo».

Fu anche uno spartiacque nella storia dei Pink Floyd: finì con il dividere le strade del leader e del resto della band...

«Lo spunto è proprio l’ultima tappa del tour precedente, quando Waters, innervosito dalla caciara di alcuni spettatori in prima fila, sputa verso di loro e pensa che vorrebbe costruire un muro fra il palco e il pubblico. Due anni dopo, i rapporti erano ormai usurati, in parte anche per le difficoltà di realizzare un album di tal magnitudo».

La sua peculiarità sta anche nell’essere un disco multimediale, da leggere su più livelli (disco, show, film)?

«Sì, anche se non è stato il primo. Gli Who con Tommy, dieci anni prima, e Quadrophenia, avevano già declinato la storia su più medium: disco, teatro, cinema, colonna sonora (The Wall ha anche una versione operistica)».

Al di là del messaggio di Waters, è un disco in cui ognuno può trovare nuove chiavi di lettura. È anche questo ad averlo reso sempre attuale?

«Sì, rimangono leggendari l’impianto mastodontico dal vivo, che Waters ora porta in tour solista (maggior incasso di sempre di un singolo performer), e la complessità della scrittura. Vi si intrecciano tanti temi diversi: la solitudine, la guerra (da sempre un tema fondamentale di Waters, il cui padre è morto nello sbarco alleato di Anzio), l’alienazione della star, la rigidità del sistema scolastico inglese, i sistemi totalitari. E, infine, la redenzione attraverso la presa di coscienza. È un disco molto visuale, che ripercorre un viaggio interiore paranoico e disperato, dentro e fuor di metafora».

Che tipo di hit fu il singolo “Another Brick In The Wall”?

«È un unicum – per arrangiamenti, ritmo - della loro storia. Molto lontana dagli inizi psichedelici. Non volevano farla uscire a 45 giri, non con quella base simil-disco. Fu il produttore Bob Ezrin a imporsi, ed è stata una delle chiavi del successo dell’album. Il brano – col coro di bambini che incalza - ha un’efficacia pazzesca».

Perché dopo “The Wall” è diventato sempre più difficile realizzare concept-album?

«Quelli erano gli anni dei concept-album, dischi con una trama e un pensiero unificante. Da Sgt. Pepper’s ai Pink Floyd è stata una stagione memorabile. Le rock opera non sono finite lì, ma ormai tutte le band che ne avevano i mezzi si erano già cimentate. È una buona idea, ma ambiziosa, complessa e perennemente a rischio di gigantismo e banalità insieme».

Viaggio a Berlino, quel miracoloso 1989 che cambiò il mondo. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Ezio Mauro ha raccontato su Rai3 «Cronache dal muro di Berlino»; al centro dello speciale di Renato Coen su SkyTg24, materiale d’archivio e testimonianze. Per il 30° anniversario della caduta del muro di Berlino, la programmazione tv ha visto l’alternarsi e il susseguirsi di speciali, approfondimenti, sperimentazioni nella ricostruzione di un evento epocale. Su Rai3, Ezio Mauro ha raccontato «Cronache dal muro di Berlino». Lo stile è quello consueto che ha caratterizzato altri suoi speciali (come quello sui 100 anni della Rivoluzione d’ottobre); il protagonista si muove in una Berlino contemporanea avvolta dal buio, dalla pioggia e dal silenzio, provando a ricostruire, con il rigore dell’approfondimento giornalistico, il filo di una storia complessa e densa di sfumature. Realizzato da Rai Cinema e da Stand by me, lo speciale di Rai3 privilegia un approccio didascalico; Mauro si sofferma sui numeri (i km di muro e filo spinato, i milioni di persone che passarono da Est a Ovest prima del fatidico 1961, anno di costruzione della barriera) e sui luoghi chiave della Berlino di quel periodo, cercando di restituire l’essenza di un «anno dei miracoli che cambierà il mondo». Il viaggio è un quaderno di appunti nel quale si alternano personaggi centrali e laterali, come il pastore luterano-protestante Rainer Eppelmann, l’ex presidente della Repubblica tedesca Joachim Gauck, dissidente ai tempi del regime orientale, o Brigitte Seebacher, vedova di Willy Brandt, leader Spd della RFG. Di tenore diverso, lo speciale in onda su SkyTg24 di Renato Coen. Il cuore del racconto è uno studio dove il conduttore si muove attraverso una ricostruzione del muro e della città di Berlino con la «realtà aumentata». Materiale d’archivio e testimonianze (da Lech Walesa ad Achille Occhetto) fanno il resto, insistendo su un episodio leggendario: il momento in cui, con una domanda a bruciapelo, il corrispondente dell’Ansa Riccardo Ehrman costringe il portavoce della DDR Günter Schabowski a una risposta avventata che forse accelera il corso degli eventi e l’abbattimento del muro.

Ridicolo manifesto del Pd sul Muro di Berlino: noi abbattiamo i muri. Ma non l’hanno costruito i comunisti? Vittoria Belmonte domenica 10 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Ridicolo manifesto del Pd sul trentennale della caduta del Muro di Berlino. L’immagine è quella storica dei giovani che prendono a picconate l’odioso confine di pietra che divideva la Germania Ovest da quella dell’Est. Simbolo di un ‘Europa divisa tra libertà e  tirannia, tra democrazia e dittatura.  Un Muro voluto dal regime comunista dell’Est. Ma gli attuali eredi di quell’ideologia rimossa sembrano non rendersene conto, o meglio fanno finta di non conoscere la storia del Muro. Cosa c’è scritto infatti sul manifesto del Pd? Potete costruire muri, ci troverete ad abbatterli. 

Ridicolo manifesto, la presa in giro di Meloni. Ma come, sono loro quelli che abbattono i muri? Propri gli stessi che li hanno costruiti? Il riferimento del Pd è ai muri anti-immigrati che Trump vuole edificare al confine con il Messico e che Orban invoca in Ungheria. Ma anche su questo occorre fare attenzione. L’unico muro anti-immigrati che l’Italia ha conosciuto, infatti, è stato quello voluto dal sindaco Pd di Padova, Flavio Zanonato,  nel 2006. Ora quel muro, che doveva isolare il ghetto dello spaccio in Via Anelli, non c’è più. Ma fu quella giunta ad edificarlo. E Zanonato ora si trova in Articolo 1. La sinistra a sinistra del Pd. Quella evocata nel manifesto è dunque solo propaganda costruita su una gigantesca rimozione. Il Muro di Berlino fu il frutto della politica del regime comunista della Germania Est. Un non detto che impedisce di fare chiarezza quando se ne celebra la caduta. Si finge, ancora, di ignorare che sola la destra nel dopoguerra in Italia parlava dell’orrore di quel Muro. Gli altri facevano finta di nulla, per non inciampare in imbarazzanti prese di distanza dal comunismo. La ragion di Stato e il clima di compromesso storico tra Dc e Pci impediva infatti di criticare apertamente l’aberrazione di quel Muro che divideva l’Europa, la Germania e Berlino. Il manifesto del Pd è finito anche sulla pagina Fb di Giorgia Meloni che commenta ironica: “Chi glielo spiega che il muro erano loro?”. Ogni spiegazione sarebbe inutile. I dem sono davvero convinti di non essere mai stati comunisti. Sono talmente presi dai luoghi comuni che diffondono da rendere impossibile ogni forma di autocritica. A questo si riferiva Guareschi quando li accusava di essere trinariciuti. Non a caso ai tempi girava questa barzelletta. Un figlio dice al padre: – papà lo sai che gli asini volano? – Non dire sciocchezze! – Ma papà, l’ha scritto la Pravda. – Beh, figliolo, diciamo che svolazzano…

Vittorio Feltri: "Quella banda di comunisti che mi ha disgustato". La vendetta contro i compagni. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. La caduta del muro di Berlino, avvenuta 30 anni fa, è oggetto in questi giorni di commemorazioni retoriche e noiose. I giornalisti cerimonieri ne parlano senza requie quasi si trattasse di un avvenimento gioioso. In realtà quel crollo voluto dalla gente comune della Germania Est segnò la morte del comunismo, non dei comunisti. Che ancora oggi continuano a rompere le balle con le loro utopie, basta vedere quanto succede in Cina che è riuscita a mischiare il collettivismo più rigido con uno sfrenato capitalismo. Un ibrido vomitevole che tuttavia non accenna a trasformarsi in qualcosa di simile a un regime liberale. Il dì in cui la barriera oscena che divideva il popolo tedesco si sbriciolò io ero direttore di un settimanale importante, l'Europeo (Rizzoli). Il quale però non uscì per due mesi a causa di uno sciopero dei redattori (tutti) motivato dal fatto che non ero comunista, quindi sgradito all' assemblea dei colleghi. Peggio: avevo fama di essere addirittura anticomunista in quanto socialista. Il maledetto muro era pertanto cascato a Berlino eppure era rimasto in piedi, ben saldo, a Milano, anzi in Italia, dove i compagni, almeno nell' ambito della editoria, seguitavano a dettare legge, esercitando ostracismo nei confronti di coloro che non avevano simpatia per l' orda rossa. Giorgio Fattori, presidente della casa editrice (proprietaria altresì del Corriere della Sera) mi incitò a resistere e gli diedi retta, finché i vergini di sinistra, stanchi di non ricevere lo stipendio, mi accolsero, sia pur malvolentieri, quale direttore, cosicché cominciammo a lavorare e ad andare in stampa con un prodotto decente che ebbe in edicola un buon successo. Nel giro di un paio di anni, raddoppiammo le vendite mettendo al sicuro la vita del settimanale. Tuttavia quella banda di comunisti mi aveva talmente disgustato che non appena mi fu offerto di prendere in mano l'Indipendente, quotidiano nuovo e già moribondo, accettai di buon grado. Nel frattempo il segretario del Pci, Achille Occhetto, cambiò denominazione al partito, sconfessando la tradizione marxista, compiendo cioè una operazione ai limiti del ridicolo, come se il Papa all'Angelus avesse detto al folto pubblico di piazza San Pietro: cari fedeli devo informarvi che Dio non esiste, concludendo il suo discorso facendo alla folla il gesto dell'ombrello. Paradossale. Ciononostante l'ex Partito comunista è ancora qui con i propri rimasugli a menare il can per l'aia. E finge di festeggiare la caduta di quel muro schifoso sotto le cui macerie esso è idealmente morto. Vittorio Feltri

LA DONNA CHE VISSE L’ORRORE DUE VOLTE – LA STORIA DI CECILIA KOVACHOVA, SOPRAVVISSUTA PRIMA AD AUSCHWITZ E POI A UN GULAG RUSSO. DAGONEWS il 10 novembre 2019. La storia di una sopravvissuta ad Auschwitz e poi a un gulag russo ha ispirato un nuovo romanzo; Cecilia Kovachova fu portata nel campo di sterminio da Hitler da adolescente, e dopo fu spedita e in un campo di prigionia in Siberia dagli invasori sovietici nel 1945. Nel nuovo romanzo "Cilka's Journey", Cilka Klein è una schiava sessuale, alla quale viene data una posizione "privilegiata" da una guardia nazista, portando i russi a considerarla una collaboratrice. La confusione tra verità e finzione ha scatenato la rabbia della famiglia della sopravvissuta. Cecilia Kovachova aveva incontrato suo marito Ivan mentre erano entrambi prigionieri nel gulag russo. Nel libro, Ivan viene sostituito dal personaggio di Alexandr. Come la vera Kovachova, il personaggio è imprigionata nel gulag Vorkuta, un campo di prigionia istituito da Stalin che ospitava decine di migliaia di detenuti. Alla fine fu rilasciata negli anni '50 dal successore di Stalin, Nikita Krusciov, che cercava di smantellare l'eredità dell'ex dittatore. L'autrice australiana Heather Morris ha cercato di ricostruire la vita reale di Kovachova durante le ricerche per il suo libro Cilka's Journey, ma la sopravvissuta è morta nel 2004. «La storia di Cilka è quella di un'ingiustizia. Era solo una ragazza, un'adolescente, che ha vissuto due dei periodi più malvagi della storia ed è diventata un bottino di guerra - ha detto l'autrice - Solo la vergogna ha impedito alle donne come lei di parlare di ciò che era stato loro fatto». Il personaggio del libro, ad Auschwitz ha attirato l'attenzione di un alto ufficiale nazista. Una volta che l'Armata Rossa arrivò nel 1945 nell'invasione che schiacciò la Germania di Hitler, fu vista come una collaboratrice e portata in Siberia su un camion di bestiame. «Cilka ha solo sedici anni quando viene portata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nel 1942, dove il comandante la nota immediatamente per la sua bellezza. Separata forzatamente dalle altre donne prigioniere, Cilka apprende rapidamente che il potere equivale alla sopravvivenza. Quando la guerra è finita e il campo viene liberato, la libertà non viene concessa a Cilka: viene accusata di essere una collaboratrice per aver dormito con il nemico e inviata in un campo di prigionia siberiano». Tuttavia, il figliastro della Kovachova, George Kovach ha recentemente criticato il romanzo e ha detto che la madre sarebbe stata "devastata" da questa ricostruzione in cui finisce per essere rappresentata come una schiava sessuale.

Il dramma del calcio ai tempi del Muro: fughe, vendette e morti misteriose. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. «La fine della Ddr è la cosa peggiore che potesse capitare a un club e la miglior cosa che potesse capitare a un calciatore», disse un giorno Thomas Doll, ex centrocampista della Lazio e nazionale della Germania Est. Ai tempi del Muro, del resto, nessun giocatore tedesco orientale poteva trasferirsi in Occidente, ma come sempre è accaduto – e accade tuttora – sono stati molti gli atleti che hanno approfittato dello sport per provare a sfuggire alle difficili condizioni in cui erano costretti a vivere. Chi lo faceva era ritenuto un traditore, e le fughe erano considerate dei duri colpi da un potere politico che faceva dello sport (soprattutto quello olimpico, ma il calcio era comunque importante per il suo seguito popolare) un fondamentale strumento di propaganda. Lutz Eigendorf, considerato il Beckenbauer dell’Est, il 20 marzo 1979, dopo l’amichevole giocata a Giessen tra Dinamo Berlino (la squadra sotto diretto controllo del capo della Stasi, Erich Mielke) e Kaiserslautern, fuggì in Germania Occidentale lasciando la moglie Gabrielle e la figlia Sandy a Est, controllate dagli agenti: non le avrebbe viste mai più. Squalificato per un anno dalla Uefa, Eigendorf passò poi al Kaiserslautern e nel 1982 all’Eintracht Braunschweig. Il 21 febbraio 1983 accettò di farsi intervistare dalla tv tedesca Ard davanti al Muro, dove criticò apertamente il sistema calcio della Ddr. Alle 23.30 del 5 marzo 1983, Eigendorf, a bordo della sua Alfa Romeo Alfetta Gtv, si schiantò contro un albero in una curva della strada Braunschweig-Querum e morì 34 ore dopo. L’autopsia rivelò che aveva una percentuale minima di alcool nel sangue e la Procura della Repubblica archiviò il caso per guida in stato di ubriachezza. Secondo Heribert Schwan — autore del documentario «Tod der Verrater» (Morte del traditore) basato sui documenti segreti della Stasi emersi dopo la riunificazione tedesca — Eigendorf fu invece ucciso proprio in seguito al suo tradimento: gli agenti della Stasi gli avrebbero iniettato una miscela mortale di veleni e sonniferi per poi costringerlo, sotto minaccia di morte, a guidare verso la sua fine. Jurgen Sparwasser era il centrocampista del Magdeburgo vincitore di tre Oberliga (il campionato della Ddr) e della Coppa delle Coppe nel 1974, ma soprattutto l’autore del famoso gol che al Mondiale del 1974 diede la vittoria per 1-0 alla Ddr sulla Germania Ovest nella storica sfida del 22 giugno ad Amburgo: un eroe nazionale, ma non del tutto allineato. Laureato in ingegneria meccanica, nel 1980 ottenne il patentino da allenatore: il Magdeburgo gli offrì più volte il posto, ma Sparwasser ogni volta rifiutò per evitare l’impegno politico che ne sarebbe derivato e preferì diventare assistente ricercatore alla Scuola Superiore di Pedagogia di Magdeburgo. Quando la figlia fece richiesta di espatrio per abbandonare la Ddr, anche la carriera professionale di Sparwasser cominciò ad essere in pericolo: decise allora di fuggire nella Germania Ovest. Lo fece insieme alla moglie in occasione di una partita tra vecchie glorie con il Magdeburgo a Saarbrücken il 10 gennaio 1988. L’agenzia di stampa della Ddr, la Allgemeiner Deutscher Nachrichtendienst, scrisse: «Le forze antisportive hanno approfittato della presenza di una formazione di vecchie glorie del Magdeburgo a Saarbrücken per sottrarre Jürgen Sparwasser, il quale ha tradito la sua squadra». Pure i tifosi, ovviamente, dovevano essere controllati. Lo stadio della Dinamo a Berlino, per esempio, aveva una capienza limitata perché era molto vicino a una striscia di Muro: per evitare diserzioni, lo spicchio di tribuna più prossimo al Muro era sempre occupato da polizia e militari. C’era poi chi, pur da Est, tifava squadre dell’Ovest. Il caso più famoso è quello di Helmut Klopfeisch, nativo di Berlino Est ma da sempre tifoso dell’Hertha, squadra dell’Ovest. Prima del Muro il giovane Helmut era solito andare regolarmente allo stadio per le partite della sua squadra: in seguito, trascorse alcuni sabati di campionato a seguire le gare con altri tifosi a ridosso del Muro, ascoltando i suoni dello stadio dell’Hertha qualche centinaio di metri più in là, a Ovest. La polizia presto vietò quel rito, ma ciò non impedì a Klopfeisch di continuare a tifare non solo l’Hertha ma tutte le squadre occidentali (non solo tedesche) che giocavano contro club dell’Est. Costantemente sorvegliato dalla Stasi, nel 1989, poco prima della caduta del Muro, venne espulso a Ovest assieme alla moglie e al figlio. Il suo sogno, ma era solo un finto favore. Con la madre molto malata, Klopfeisch chiese infatti una proroga, che gli venne negata: vai ora o mai più, gli dissero. E lui scelse di andarsene. Cinque giorni dopo sua madre morì e il governo della Ddr non gli permise nemmeno di tornare per il funerale. Una vendetta perfetta. Andreas Thom era un grandissimo talento, ed era il pupillo del capo della Stasi, Erik Mielke, sotto il cui controllo dominava il calcio dell’Est la Dinamo Berlino, squadra del potere per eccellenza fondata nel 1966 che vinse (non senza collusioni con gli arbitri e accuse di doping) 10 titoli nazionali tra il 1978 e il 1988. Thom cresce nel club; giovanissimo, segna alla Roma in Coppa dei Campioni nel 1984; esplode definitivamente nel 1988 quando si laurea capocannoniere della Oberliga con 20 gol e viene proclamato giocatore dell’anno. Quando crolla il Muro, è il primo tedesco dell’Est a passare a Ovest firmando con il Bayer Leverkusen che versa 2,5 milioni di marchi alla Federcalcio orientale. Nel 1995 si trasferisce al Celtic, prima di chiudere la carriera con l’Hertha Berlino. È uno dei pochi giocatori ad aver giocato sia con la Ddr (16 gol in 51 partite) che con la Germania unificata. Thom è stato fortunato: per lui l’unificazione della Germanie è stata un affare. Per altri non è stato così, visto che di fatto il movimento calcistico orientale di alto livello è crollato assieme al Muro. Oggi solo due squadre ex Est militano in Bundesliga, l’Union Berlino, neopromossa, e il Red Bull Lipsia, che in realtà è un club totalmente nuovo nato nel 2009 per volontà della multinazionale austriaca (la «vera» squadra della città resta l’antica Lokomotive, in quinta serie). Gli effetti pesanti del processo di transizione li ha raccontati lo stesso Thom in questi giorni al Times: «Ricordo Jorg Stubner: era uno dei più grandi talenti dell’Est ma la fine del calcio di alto livello a Est è stata anche la fine della sua carriera». Povero e con problemi di salute, Stubner raccontò alla Bild nel 2004: «Se la riunificazione della Germania non ci fosse stata, oggi io avrei una famiglia, dei figli e un lavoro come allenatore». Morì invece poco dopo, a 53 anni. «Sapevamo di essere controllati. E più eri bravo e famoso, più ti stavano addosso», ricorda ancora Thom. Questo però non impediva altre fughe, come quella clamorosa di due suoi compagni il 2 novembre 1983. «Eravamo a Belgrado con la Dinamo per quello che sarebbe stato il mio debutto in Europa contro il Partizan – racconta ancora Thom al Times -. La mattina della partita andammo a fare un giro fuori dall’hotel e due miei compagni, Falko Gotz e Dirk Schlegel, si staccarono da noi mentre eravamo in un negozio di dischi e si rifugiarono all’ambasciata della Germania Ovest». Scelte forti, non condivise da tutti. Spesso, più che per ragioni ideologiche, solo per timore delle conseguenze. «Io non ho mai pensato di fuggire – conclude Thom -. A parte l’anno di sospensione della Uefa, avevo una famiglia e sapevo che scappare avrebbe creato enormi problemi ai miei genitori e a mio fratello...». A lui, in fondo, è bastato aspettare. Per molti altri invece il sole non è mai arrivato.

Orgoglio Gorbaciov, eroe tragico che oggi quasi non riconosciamo più. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino da Berlino e Maria Serena Natale. Il suo è un volto segnato dalle ferite della Storia. Nella notte che ricorda la più magica di tutte le notti, un volto emerge dal buio della memoria. È un volto segnato dall’età, deformato dalle malattie, velato di malinconia. Ma soprattutto è un volto solcato dalle ferite della Storia, il volto di un eroe tragico che come Icaro pensò di poter volare vicino al sole, ma finì per distruggere se stesso e l’opera che voleva salvare. Se si potesse ridurre a una sola persona, a un solo carattere il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue «Harte Wendungen», le svolte brusche, questa sarebbe molto probabilmente Michail Gorbaciov. Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che segnò la fine anticipata del secolo breve, la figura drammatica dell’ultimo leader dell’Unione Sovietica ci ricorda il destino rovesciato di un gigante senza pace, il comunista che senza volerlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni scavò la fossa allo Stato fondato da Lenin. «Non si poteva più andare avanti allo stesso modo», dice Gorbaciov nell’intervista a Der Spiegel. Già, la perestrojka come passo obbligato, ultimo, inevitabile tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, in bancarotta politica ed economica. Non fu buon marxista, in fondo, Michail Sergeevich: al contrario di quanto avrebbero fatto i compagni cinesi, che aprirono al capitalismo e strinsero le viti sulla democrazia, cominciò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, le opposizioni, il diritto a manifestare) e si mosse male e poco sulla struttura economica, con mezze riforme e aperture al mercato confuse. E intanto, costretto dalla pressione del riarmo dell’America reaganiana e sperando negli aiuti dell’Occidente cui aveva promesso di togliere il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica, fossero gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali o le aree di influenza. Quando nel 1989 il generale Sergey Akhromeyev incontrò il nuovo capo delegazione americano Richard Burt per la prima seduta negoziale del Trattato Start, gli disse senza mezzi termini che Gorbaciov aveva tradito il comunismo e che lui, che aveva combattuto a Stalingrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Non andò così. Ma l’aneddoto, mai rivelato, conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza umiliata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche lamentarsi a voce alta. Eppure Michail Gorbaciov non si pente. E questo gli fa onore. Al settimanale tedesco dice che non si potevano negare i diritti di libertà e democrazia ai popoli vicini, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, I tedeschi dell’Est. La frase con cui ammonì Erich Honecker, l’eterno leader della Ddr, innescando la sua fine, risuona ancora oggi: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Su una cosa l’ex presidente sovietico ha in ogni caso ragione da vendere. Quando afferma che dopo la fine della Guerra Fredda, i nuovi leader non hanno saputo creare una nuova e moderna architettura di sicurezza in Europa, Gorbaciov dice una verità elementare. Così come quando critica l’affrettato ampliamento a Est della Nato. Ma nella visione di Michail Sergeevich c’è ancora spazio per il futuro. Tra l’Occidente e la Russia la retorica sta cambiando, dice a Der Spiegel. Forse è la speranza di avere ragione con trent’anni di ritardo, forse è l’inguaribile l’ottimismo che tutto non sia stato inutile. Comunque andrà, avremo sempre verso quest’uomo un debito di gratitudine.

Caduto il Muro, camminiamo ancora sulle macerie. Gennaro Malgieri il 10 Novembre 2019 su Il Dubbio. I fantasmi dell’89. Le cortine di ferro ora sono in Cina e Nord Corea. Quando la mattina dell’ 11 novembre, due giorni dopo la caduta del Muro, alcuni berlinesi, ancora euforici per gli avvenimenti che soltanto due giorni prima li avevano proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi ad un cumulo di macerie, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti a quelle rovine, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”, disse con voce flebile, ma ferma. Così Mstislav Rostropovitch, uno dei più grandi musicisti del Novecento, celebrò la sua personale liberazione e quella del suo mondo prigioniero per lunghi anni in attuazione di una vendetta pianificata e consumata dai sovietici contro l’Europa, con la complicità vile di governi europei ossequiosi di quel malsano “ordine” che veniva dal Cremlino. Un mese dopo, Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata dicendo tra l’altro: “Al momento l’Europa è divisa. Ed è divisa anche la Germania. Sono due facce della stessa medaglia: è difficile immaginare un’Europa che non sia divisa in una Germania divisa, ma è anche difficile immaginare la Germania riunificata in un’Europa divisa. I due processi di unificazione dovranno svilupparsi parallelamente, e anche subito se possibile… I tedeschi hanno fatto molto per noi tutti: essi hanno cominciato da soli a demolire il muro che ci separa dal nostro ideale: un’Europa senza muri, senza sbarre di ferro, senza filo spinato”. Difficilmente oggi, trent’anni dopo quei fatti che cambiarono in parte il volto del mondo, riusciamo a percepire l’eco delle ispirate parole del grande drammaturgo ceco diventato leader politico. Ed anche le grida di gioia sono poco più d’un ricordo per noi occidentali un po’ distratti consapevoli tuttavia che l’Europa immaginata da Havel e quella sognata dai berlinesi “liberati” in una notte d’autunno non è ancora sostanzialmente unita. Andare oltre il comunismo non è stato facile, costruire in un sistema di libertà una patria comune è certamente ancora difficile. Perché i postumi di quelle ferite sanguinanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, si avvertivano ancora. Ed i loro effetti si fanno sentire, al punto che l’Europa lungi dall’essere unita, risente di antiche divisioni con le quali l’eredità geopolitica della stagione comunista si propone alla nostra attenzione dal momento che non tutto è andato come Helmut Kolh, Margareth Thatcher, Ronald Reagan immaginavano. L’Unione europea, per quanto possa sembrare paradossale, ha introiettato antiche incomprensioni e nel suo ambito gruppi di nazioni guardano a soluzioni diverse per rinnovare la struttura politica continentale. E di quella tragedia, la schiavitù di buona parte dell’Europa sembra che nessuno voglia può sentir parlare, come non si parla più della liberazione del 1989. Lo studioso francese Stephan Courtois, ideatore e curatore del Libro nero del comunismo, così ha sintetizzato gli effetti della caduta del Muro: “Rimane un’immensa tragedia che continua a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizza l’entrata nel terzo Millennio”. Ma essa sembra essere stata rimossa piuttosto che fornire gli stimoli per una nuova primavera europea. Nessuno di coloro che si compiacevano di aderire al sovietismo e giustificò la costruzione del Muro, ha speso una parola per dire che la cultura europea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere almeno in parte quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto. Sono soprattutto gli eredi di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato, a mostrarsi ancora reticenti nell’affrontare il tema del post- comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato tante aree del Pianeta. Una riflessione sul lascito del comunismo andrebbe fatta dopo tre decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni Paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, Paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro. Xi Jinping, il nuovo satrapo rosso, ha diramato direttive che rimandano alla “rivoluzione culturale”, eppure con lui non soltanto tutti fanno i conti, ma con il suo imperialismo, dispiegato soprattutto in Africa, si tratta alacremente mettendo tra parentesi le persecuzioni contro cristiani e musulmani e plaudendo ad una espansione economica fondata sullo schiavismo. Ed il grottesco e crudele tiranno nordocoreano Kim Jong- un, massacratore seriale, nel nome del comunismo, come suo nonno Kim Il- Sung e suo padre Kim Jong- Il, diventa addirittura interlocutore delle democrazie occidentali per miserabili moralmente affari economici. Per non dire di dittature che al marxismo- leninismo ancora si richiamano con una confusione semantica, culturale e politica ridicola se la stramba dottrina non venisse utilizzata come giustificazione di crimini che passano in secondo piano in larga parte del mondo. L’ultimo Muro che ancora deve cadere, dunque, è quello culturale e mercantile. Rimuovere serve soltanto a relegare i fantasmi dove non possono più nuocere, mentre l’eredità del secolo delle “idee assassine”, secondo la felice espressione di Robert Conquest , evapora lasciando un buco vasto nella memoria collettiva. E’ per questo che il Muro cadde nella notte del 9 novembre 1989? Due anni dopo la costruzione del Muro, il 26 giugno 1963, il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, in visita a Berlino, tenne il discorso più duro contro il simbolo del sovietismo trionfante: “Ci sono molte persone al mondo – disse – che non comprendono, o non sanno quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Barlino! Ci sono annunci che dicono che il comunismo è l’onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che, in Europa e da altre parti, possiamo lavorare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! E ci sono anche quei pochi che dicono che è vero che il comunismo è un sistema maligno, ma ci permette di fare progressi economici. Fateli venire a Berlino! Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. E quindi come uomo libero sono orgoglioso di dire: “Ich bin ein Berliner!”. Oggi Berlino non accende entusiasmi, ma inquietudini. Quando la politica perde l’anima è quel che accade. Mentre nuovi muri sorgono in Europa che, piegata su se stessa, si domanda quale sarà il suo destino.

Feltri: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi». E il web lo applaude. Giorgia Castelli su Il Secolo d'Italia sabato 9 novembre 2019. Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino. Nel giorno della ricorrenza che celebra la fine del comunismo filo-sovietico Vittorio Feltri racconta un fatto personale legato al giornalismo. Il direttore di Libero su Twitter scrive che «Quando cadde il muro di Berlino ero direttore del periodico Europeo, Rizzoli». E spiega che il settimanale «non usciva perché i redattori comunisti scioperarono due mesi contro di me». Per poi concludere: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi».

Feltri, pioggia di commenti sul web. Tantissimi i commenti al post. Alcuni sinistri lo insultano, ma la maggior degli utenti parte lo applaude. Scrive un utente: «Il comunismo è in piedi anche nelle televisioni, specialmente quelle che ci fanno pagare forzatamente. Rosse, propagandistiche, becere e piene di raccomandati che devono prima giurare fedeltà alla Stasi, e poi li assumono». E un’altra osserva: «Non solo nei giornali, direttore, i comunisti hanno eretto un muro contro gli italiani che la pensano diversamente da loro». E un altro ancora amaro commenta: «Pensiamo di aver abbattuto il muro di Berlino e quindi l’ideologia. Ma in realtà, vedo il “pensiero unico” sempre subdolo. Il sostantivo “condivisione” lo esprime bene: ed è vittima di ostracismo chi non si schiera». E infine: «Adesso caro @vfeltri bisogna abbattere un’altro muro in Italia… Quello rosso sinistro pdiota del Pd».

Germania: quanto è costata ai tedeschi, all’Europa e all’Italia la caduta del muro. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Danilo Taino. Un fiume di denaro per allineare la ex Ddr, ma dopo 30 anni le differenze restano e l’estrema destra vola.  All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi.

Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” il 29 ottobre 2019. Quel tardo pomeriggio, mentre il Muro cadeva e Angela Merkel faceva la sauna settimanale, nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Era il 9 novembre 1989, le ombre della sera erano già calate su Berlino, a Ovest e a Est, la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città si sgretolava. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia. Oggi sappiamo però che si apriva la lunga stagione, per la Germania socialista, della rincorsa per imitare e diventare uguale alla Germania dell’Ovest, democratica, capitalista, ricca.

Il prezzo della riunificazione si paga ancora oggi. All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Nel 1991 fu introdotta la Solidaritätszuschlag – Soli –, una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta (ma nel 2018 ha raccolto ancora 18,9 miliardi di euro) e nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per almeno duemila miliardi. Nel giugno 1990, fu fondata la Treuhandstalt, alla quale fu dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Furono privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, partì un grande piano di infrastrutture che ha portato i Länder orientali ad avere strade, ferrovie, ponti, parchi, a rinnovare il 65% del patrimonio abitativo e all’eliminazione del 95% delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo.

Il contributo dei capitali italiani. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi.

Il crollo dello Sme. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

Germania trent’anni dopo. In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.

Le grandi imprese stanno sempre a Ovest. Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.

Terreno fertile per la destra estrema. È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi. Per ragioni economiche e sociali, ma forse anche per qualcosa di più complesso che si accende nella mente di chi deve sempre imitare, in questo caso l’Occidente. «Gli imitatori non sono mai persone felici – ha scritto il presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia Ivan Krastev – Non possiedono mai il loro successo, possiedono solo i loro fallimenti».

"Eravamo bestie allo zoo. La caduta del Muro ci ha liberato di colpo". Il poeta tedesco in visita a Milano racconta come trent'anni fa finì l'incubo della Ddr. Matteo Sacchi, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, è uno dei massimi poeti di lingua tedesca: ha ricevuto il Büchner-Preis a soli 33 anni e nel 2008 ha ricevuto a Berlino l'ordine Pour le mérite per la Scienza e le Arti. Ieri era a Milano, nell'aula magna dell'Università statale, per incontrare gli studenti nel trentennale della caduta del Muro di Berlino (nell'incontro, condotto da Rosalba Maletta, ha anche ricevuto una pergamena al merito da parte dell'amministrazione cittadina). Grünbein, nato e cresciuto nella Deutsche Demokratische Republik, ha vissuto la privazione di libertà di cui il Muro era il simbolo, e ha partecipato alla lotta per abbatterlo. È quindi un testimone d'eccezione non soltanto di quegli eventi ma di come si è evoluta la Germania e l'Europa dopo il 1989. Come ha spiegato ai ragazzi, nonostante quello resti un momento trionfale, non tutto è andato come ci si sarebbe potuto aspettare: «A quel tempo, noi insorti abbiamo salutato la libertà da lontano. Noi, gli illusi del socialismo corrotto, vedevamo in essa qualcosa per cui valeva la pena morire. Oggi tutto ciò è come spazzato via; le celebrazioni per la Caduta del Muro, con la regia dello Stato sono soltanto un risveglio coi postumi della sbornia... Il credo politico nel progresso è andato in frantumi; tutte le visioni del mondo ora corrono nella direzione opposta: retrotopia, reazione, regressione su tutta la linea». Il Giornale si è fatto raccontare cosa resta e cosa no di quell'evento che ha cambiato la Storia.

Grünbein come era vivere nella Germania est, un Paese che spendeva le sue energie per creare un confine non per difendere i cittadini ma per imprigionarli?

«Era paradossale. Ci sentivamo come all'interno di uno zoo. Quando arrivavano dei visitatori dall'estero noi eravamo come le bestie nelle gabbie. Comprendevamo di essere rinchiusi proprio facendo il paragone con la libertà di viaggiare degli occidentali. La famiglia di un mio compagno delle elementari riuscì a fuggire. Lui poi mi mandava cartoline da tutte le capitali d'Europa. E questo aumentava ancora la mia sensazione di essere rinchiuso. Negli anni 80 ho richiesto un permesso per andare all'estero. Non era nemmeno una questione politica ma di claustrofobia. Quando è caduto il Muro è stata una sensazione inspiegabile, irripetibile. L'unica parola adeguata è euforia, un'euforia incontenibile».

Lei si rifiutò di prestare servizio come guardia di confine... E che questo le costò l'iscrizione all'università.

«Sì, e per quanto fossi riuscito a disertare restavo comunque un prigioniero. Continuavo a pensare Tu ci morirai prigioniero in questo Paese...».

Dov'era lei quando il muro è caduto?

«Avevo partecipato alle manifestazioni in Alexanderplatz ed ero stato anche arrestato. Le manifestazioni si erano allargate al resto del Paese, come a Lipsia, e avevamo capito che qualcosa stava cambiando in modo inarrestabile e definitivo. Però non ci aspettavamo capitasse così in fretta. Poi vidi la conferenza in televisione in cui quel corrispondente italiano chiese a Günter Schabowski da quando sarebbero stati aperti i confini. Quando rispose Immediatamente, mi precipitai in strada. Fu uno choc come se l'Impero romano invece di crollare nel corso di secoli fosse crollato nel corso di un mese».

Molti hanno da ridire su come si è svolta l'unificazione tedesca sia a Ovest che a Est. C'è un termine preciso per questo: «Ostalgie»...

«La riunificazione è stata soprattutto un fenomeno politico, il progetto della Cdu di Helmut Kohl era anche un progetto elettorale che per i partiti della Germania Ovest valeva milioni di voti e come tale è stato gestito. Per moltissime persone si è rivelato una chance, per alcuni però è stata una catastrofe. Moltissimi tedeschi dell'Est sono stati catapultati nel mercato di cui non sapevano niente. Uno Stato autoritario è anche uno Stato-mamma. Questo ha creato una delusione della libertà che è stata utilizzata soprattutto dai partiti di estrema destra. Scherzando si può dire che molti non perdonano ad Angela Merkel di essere l'unica tedesca dell'Est che ce l'ha fatta davvero. Ma onestamente per la Germania e per l'Europa l'unificazione è stata la soluzione migliore».

Lei parla spesso di retrotopia. Perché?

«La definizione è di Bauman. Secondo me la mancanza di progetti e di sogni seguita alla caduta del Muro ha innescato un meccanismo che genera utopie proiettate all'indietro. Si fa riferimento a delle Heimat, a delle patrie, che esistono solo nella nostra fantasia, non nella realtà, è una fuga verso un passato che non c'è...».

Nonostante la dittatura e l'essere cresciuto nella Dresda ancora devastata, Lei racconta l'infanzia come un periodo dorato.

«L'infanzia è l'età del potenziale infinito. Della pura gioia bisogna portarla sempre con noi. Ma senza idealizzarla, i bambini sono anche piccoli diavoli...».

30 anni senza Muro, 70 anni di NATO. Davvero l’Alleanza è nata in funzione anti-sovietica? Cristiano Puglisi il 13 novembre 2019 su Il Giornale. Pochi giorni fa, il 9 novembre, si è celebrato il trentennale della caduta del Muro di Berlino. Ma il 2019 è anche l’anno in cui cade il 70esimo anniversario dalla fondazione della NATO. Un’alleanza militare nata, secondo le letture più tradizionali, per contrastare il blocco sovietico ma che, appunto, trent’anni dopo il disfacimento di quest’ultimo, è ancora ben presente e salda in Europa. Chi qui scrive ne ha allora approfittato per scambiare due chiacchiere con Roberto Motta Sosa, saggista, studioso di storia delle relazioni internazionali, membro d el gruppo di analisti di “Geopolitica.info”, portale del Centro studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali. Dunque davvero la NATO, come vuole una vulgata ricorrente, nacque esclusivamente in funzione antisovietica? O le sue origini risalgono a momenti e finalità sancite in precedenza? “A uno sguardo retrospettivo che voglia considerare le origini della NATO – spiega Motta Sosa - sembrano offrirsi due letture, peraltro in parte complementari. La prima, rintracciandone gli antecedenti nel Trattato di Dunkirk siglato tra Regno Unito e Francia il 4 marzo 1947, inscrive gli eventi che tennero a battesimo l’Alleanza Atlantica negli anni immediatamente seguenti la fine del Secondo conflitto mondiale. Richiamandosi al concetto di ‘sicurezza collettiva’, quel trattato era espressamente rivolto contro un ritorno della minaccia tedesca e concepito da francesi ed inglesi come potenzialmente estendibile ad altre potenze. Alcuni Stati europei centro-orientali, inclusi nell’orbita sovietica, mostrarono interesse ad aderirvi ma, come illustrato dal ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin in un discorso ai Comuni il 22 gennaio 1948, furono dissuasi da Mosca. Si può ritenere che Stalin e Molotov avessero fiutato l’ambiguità di un trattato che, fungendo da ‘cavallo di Troia’, avrebbe potuto sottrarre i Paesi dell’Est all’influenza sovietica. Bevin aggiunse sibillino che la Gran Bretagna fosse ancora consapevole di dovere giocare un ruolo chiave nel prevenire un nuovo conflitto in Occidente sia nel caso la minaccia dovesse provenire (nuovamente) dalla Germania o da altrove (‘elsewhere’). È superfluo aggiungere che, con quella formula, Bevin si riferisse, in ultima istanza, proprio all’URSS, la quale dopo il ’45 aveva accelerato il processo di consolidamento della propria sfera d’influenza in Europa centro-orientale. Bevin espresse anche l’auspicio che i contenuti del Tratto di Dunkirk fossero estesi al Benelux. Così fu infatti, con la firma, il 17 marzo ’48, del Patto di Bruxelles. Dal canto suo, il Primo Ministro belga, Paul-Henri Spaak, il 28 settembre ’48 all’ONU tenne il “discorso della paura” con cui difese il Patto di Bruxelles e denunciò apertamente l’imperialismo sovietico, aggiungendo come l’URSS fosse l’unica potenza, tra quelle vincitrici del conflitto mondiale, che avesse accresciuto i propri confini attraverso conquiste territoriali. Era stato proprio Spaak, nel gennaio ’48, ad affermare che, considerata la situazione della Germania, il progetto di un’Unione Occidentale a scopo difensivo proposto da inglesi e francesi non avrebbe avuto senso se, "in pectore", non fosse stato concepito contro l’URSS e non avesse incluso gli Stati Uniti. Preceduti dai colloqui segreti intercorsi al Pentagono dal 22 marzo al 1aprile tra Canada, Stati Uniti e Regno Unito, nel luglio ’48 presero così avvio a Washington gli ‘Exploratory Talks on Security’ per la negoziazione del Trattato Nordatlantico, che venne infine firmato nella capitale statunitense il 4 aprile 1949. Queste circostanze diedero origine ad un famoso adagio attribuito a Lord Ismay (primo Segretario Generale della NATO) secondo cui l’Alleanza sarebbe nata per tenere "fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi". Una seconda tesi, che qui indichiamo brevemente, chiama in causa quella "relazione speciale" esistente tra le due sponde anglosassoni dell’Atlantico che, riscontrabile a livello embrionale negli anni in cui veniva concepita ed enunciata la Dottrina Monroe, fu rinvigorita all’indomani della Prima guerra mondiale attraverso think tank creati ad hoc quali il British Institute of International Affairs (oggi Chatham House) e il Council on Foreign Relations. All’interno di questi ‘inner circles’ sarebbero state discusse le basi su cui fondare il lungo e non sempre consensuale passaggio dall’egemonia britannica a quella statunitense. Secondo questa lettura, la nascita della NATO nel ’49 avrebbe rappresentato il suggello a tale disegno, sancendo l’inizio della ‘pax americana’”. Una lettura, quest’ultima, certamente interessante. Poiché aprirebbe una nuova prospettiva sul significato dell’Alleanza Atlantica. Come sul fatto che, nonostante la celebre frase che il segretario di Stato USA, James Baker, rivolse a Gorbaciov il 9 febbraio 1990 (“La NATO non si espanderà ad est nemmeno di un centimetro“), la sua espansione da allora è proseguita quasi inarrestabile. L’ultima novità è il possibile prossimo ingresso dell’Ucraina. Si pone dunque la questione dello scopo della NATO: difensivo o aggressivo? E quanto questo strumento, che sembra sempre di più avere lo scopo di evitare la saldatura strategica tra alcuni Paesi europei e la Federazione Russa, contrasta con i reali interessi geopolitici dell’Europa? “L’Alleanza (al pari delle installazioni militari dei Paesi membri ad essa correlate) – prosegue l’analista – ha, sin dalle sue origini, finalità dichiaratamente difensive come del resto indicato nel Preambolo e negli articoli 1 e 2 del Trattato Nordatlantico. In quanto struttura di difesa e sicurezza collettiva ovvero regionale, nel trattato che la istituì non viene menzionato alcun nemico specifico. L’unica deroga, peraltro tutt’ora oggetto di dibattito circa i suoi aspetti giuridico-internazionali, fu rappresentata dall’operazione ‘Allied Force’ condotta nel 1999 contro la Repubblica Federale di Yugoslavia senza manifesta copertura dell’ONU e motivata sulla base del principio di ‘intervento umanitario’. Bisogna inoltre ricordare che nel corso degli anni Novanta la NATO procedette ad una sorta di trasformazione, adeguando il proprio concetto strategico e le sue strutture a compiti ‘full range’ concernenti anche missioni ‘non articolo-5′ di ‘peace support’ e ‘other crisis-response operations’. Vi è poi la situazione concernente quelle che l’Alleanza ritiene siano minacce attuali alla sicurezza connesse all’acuirsi della crisi ucraina (2014) con espresso riferimento alla postura della Federazione Russa, identificata come rischiosamente asservita. A tal proposito, nel suo discorso del 7 novembre scorso, il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, parlando da Berlino, ha ribadito che l’occupazione (definita illegale) della Crimea e la violazione (imputata alla Russia) del Trattato INF rappresentino elementi di grave turbamento dell’ordine internazionale. Dal canto suo, Mosca, partner (ma) oramai quiescente della NATO, mediante la questione della cosiddetta ‘broken promise’ continua ad eccepire la violazione di garanzie (che sarebbero state) fornite alla leadership sovietica negli anni Novanta dagli Stati Uniti in merito al non allargamento ad Est dell’Alleanza Atlantica. Sarebbe tuttavia azzardato sostenere se e quanto gli obiettivi della NATO, intesa come comunità Euro-atlantica, siano ovvero appaiano in contrasto con i singoli interessi geoeconomici dei suoi membri europei, poiché se tali impedimenti fossero comprovabili risulterebbero non conformi al principio contenuto nell’articolo 2 del Trattato Nordatlantico secondo cui ciascun Stato membro deve sforzarsi di eliminare ogni ostacolo nell’ambito delle politiche economiche internazionali favorendo la cooperazione. Si può quindi forse ritenere che, almeno rispetto alle tematiche economiche, le problematiche siano riconducibili alla dimensione delle relazioni bilaterali, piuttosto che ad una contrapposizione NATO/Russia”. Recentemente il presidente francese Macron, tra i più ferventi sostenitori di una difesa europea, ha affermato (presto criticato dalla cancelliera tedesca Merkel) che la NATO sarebbe in stato di morte celebrale. La Francia vuole recuperare quel progetto di un’Europa “terza forza” tra USA e URSS (oggi il blocco eurasiatico) che già De Gaulle prospettava? E l’Europa può davvero “liberarsi” della NATO? “Macron – conclude Motta Sosa - si riferiva soprattutto al vecchio e ricorrente tema della difesa comune europea che il 25 giugno 2018, su impulso francese, ha assunto la forma della “Initiative européenne d’intervention” (IEI), a cui sino ad oggi hanno dichiarato di volere aderire, insieme alla Francia, dodici Stati europei membri (ad eccezione della Svezia, che non aderisce dell’Alleanza Atlantica, e della Norvegia, che non è membro UE) sia della NATO che dell’UE. L’Italia ha comunicato la sua adesione il 19 settembre scorso. Il Presidente francese ha posto due questioni in particolare: la necessità, dopo la fine della stagione bipolare, di un adeguamento dello ‘scopo sociale’ della NATO e l’idea che si possa costruire quella che egli ha definito l’’autonomie stratégique européene’, in antitesi alla visione di un’Europa progettata come ‘junior partner des Américains’. A ciò si possono verosimilmente accostare le mai sopite ambizioni francesi ovvero golliste, che Macron ha lasciato trasparire affermando che in caso di Brexit la Francia resterebbe l’unica potenza nucleare nell’UE. Quest’ultimo passaggio rischia tuttavia di entrare in contraddizione con quanto da lui stesso sostenuto circa il fatto che il lungo periodo di stabilità osservato in Europa dopo il ’45 sia stato il frutto di ‘une équation politique sans hégémonie qui [a permis] la paix’. Sembra inoltre di capire che per Macron, la ‘mort cérébral’ della NATO riguarderebbe soprattutto le modalità dell’intervento turco in Siria (definito “agression”) e i rischi connessi all’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica ossia le possibili conseguenze derivanti dall’incapacità dell’Alleanza e dei suoi membri europei di evitare che gli opposti obiettivi di Ankara e Damasco entrino militarmente in contatto nel teatro siriano. Quanto alla ‘liberazione europea dalla NATO’ nessun membro europeo sino ad oggi ha manifestato l’intenzione di uscire dall’Alleanza. Unicamente la Francia, come noto, si distaccò dal solo comando militare integrato nel 1966 rientrandovi però nel 2009. Se nessun alleato europeo ha sino ad oggi palesato ovvero formalizzato una simile istanza è plausibile ipotizzare due cose: o la NATO, a tutt’oggi, continua, tutto sommato, a rispondere alle esigenze dei suoi membri, oppure non si è ancora trovata una valida alternativa ad essa. Si consideri che il Trattato Nordatlantico contiene strumenti che potrebbero fornire una soluzione a tale dilemma. L’articolo 13 prevede infatti che, trascorsi vent’anni dalla firma del trattato, un membro possa cessare di farne parte trascorso un anno dal deposito della sua notifica di denuncia presso il governo degli Stati Uniti. L’articolo 12 contempla altresì l’eventualità che, dopo dieci anni dall’entrata in vigore del trattato, in qualsiasi momento le parti contraenti, su richiesta di una di esse, possano consultarsi per sottoporlo a revisione. Dai contenuti dell’intervista rilasciata da Macron all’’Economist’ il 7 novembre scorso sembra di potere prudentemente dedurre che l’IEI possa affiancarsi, anziché sostituirsi, alla NATO quale braccio operativo dei suoi membri europei nel teatro mediterraneo-mediorientale”. Una questione che balza all’occhio, visto il protagonismo proprio di Macron ma anche della stessa Merkel pone la questione di chi, in ipotesi, potrebbe rappresentare in futuro la potenza egemone di un’Europa “post-NATO”. Ma la questione fondamentale, soprattutto, è se un’Europa simile sia possibile. “Il proficuo perseguimento – conclude Motta Sosa - di una geopolitica coerente con i propri interessi nazionali è soprattutto il frutto di un efficace mix di ‘hard’ e ‘soft power’. La questione è se ciò possa avvenire anche per un agglomerato di Stati eterogenei quale è l’UE. Durante la Guerra Fredda l’Europa, perché stremata da due guerre mondiali combattute nell’arco di trent’anni, aveva delegato giocoforza buona parte del suo ‘hard power’ alla NATO ovvero ai processi decisionali facenti capo al corpo politico e militare dell’Alleanza. Piaccia o no, di fatto, per settant’anni l’’esercito comune europeo’ è stata rappresentato dalla NATO. Nei decenni, questa circostanza ha apportato dei vantaggi: dalla fine della Seconda guerra mondiale all’insorgere delle guerre jugoslave (1991) l’Europa ha vissuto una seconda ‘belle époque’, grazie anche all’ombrello fornitole dall’Alleanza Atlantica. Considerate queste premesse, porsi la questione di una leadership europea incarnata da un singolo Stato appare anacronistica, perché riproporrebbe forse lo scenario di una corsa per l’egemonia che nei primi quattro decenni del Novecento era già stata risolta chiamando in causa e accettando un egemone extraeuropeo, gli Stati Uniti. Macron, nella sua recente intervista, ha affermato di volere la Germania ‘avec nous’. Tuttavia la cancelliera e il ministro degli Esteri tedesco hanno ritenuto di censurare il giudizio del capo dell’Eliseo sulla NATO, sostanzialmente allineandosi alla “difesa d’ufficio” pronunziata da Stoltenberg. Sino ad oggi ogni residua competizione franco-tedesca è stata risolta mediante la sintesi rappresentata dalla, effettiva, ‘due diligence’ di Parigi e Berlino sui principali temi inerenti al funzionamento della comunità europea. Va da sé che mentre la Francia può oggi rivendicare un primato militare sull’antico nemico, dal canto suo, la Germania rappresenta un importante anello di congiunzione tra l’Europa occidentale e la Russia, come, ad esempio, testimoniano le questioni energetiche connesse al gasdotto Nord Stream (sgradito agli Stati Uniti). Peraltro, la storia del Novecento ha già assistito ad una alleanza europea guidata dalla Francia: nel primo dopoguerra Parigi fu patrocinatrice del sistema della Piccola Intesa, che raggruppava Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Nel 1933 tale alleanza divenne un’organizzazione internazionale con un Consiglio permanente, un Segretario e un Consiglio economico. Nata per contenere soprattutto il revisionismo ungherese, nell’agosto del ’38 quell’alleanza finì invece per stringere patti che consentirono a Budapest di riarmarsi (Accordi di Bled) esaurendosi infine nel corso di quello stesso anno a Monaco a causa della condotta delle potenze occidentali intervenute nella gestione della crisi cecoslovacca”.

·         Comunisti 1969. Lobby Continua.

Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 28 ottobre 2019. "Lotta Continua promette anche un inverno più caldo". È il 28 novembre del 1969 quando La Stampa, il quotidiano della Fiat, titola così la nuova puntata dell' inchiesta di Giampaolo Pansa sui "movimenti estremisti di Milano". Scrive il giornalista: "Dice Lotta continua: “L' operaio oggi deve lottare contro due padroni: quello di sempre e quello che si è aggiunto, quello nuovo, il sindacato”. Sì esce dalla lettura del settimanale storditi da un'immagine allucinata della realtà italiana". Qualche riga dopo, Pansa aggiunge: "Nascono così i nuovi slogan: "Lotta dura-senza paura", "Lotta continua è ciò che vale se vuoi combattere il capitale". E all'orizzonte si profila, adagio, "l' inverno caldo"". L' inverno del 1969 è sicuramente caldo, ma per un altro motivo: la bomba di piazza Fontana, a Milano del 12 dicembre. Ovvero il culmine della strategia della tensione, la "Strage di Stato" ideata ed eseguita in un milieu che raccoglie pezzi dello Stato, servizi segreti non solo italiani, gruppi neofascisti, il cui obiettivo è di instaurare un regime di destra sull' esempio di quello dei colonnelli greci. Nel senso indicato da Pansa, invece, l' autunno era stato più scottante con le migliaia di ore di sciopero di tutte le categorie sociali, le battaglie dure dei lavoratori alla Fiat e alla Pirelli, i cortei degli studenti. In questo contesto, un anno dopo il '68, quando la rivoluzione per qualcuno sembrava alle porte, il primo novembre 1969 esce il numero uno di Lotta Continua, in seguito settimanale e quindi quotidiano. Inizia così da Torino la storia della maggiore formazione dell' estrema sinistra italiana, conclusasi con lo scioglimento nel 1976. Una storia che, nel 1988, avrebbe avuto come epilogo drammatico l'arresto (e poi le condanne definitive nel 1997) dell' ex capo di Lotta continua (Lc) Adriano Sofri, di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, per l' omicidio nel 1972 del commissario di polizia Luigi Calabresi. In quel medesimo 1988, in Sicilia, la mafia avrebbe assassinato Mauro Rostagno, che era stato un rappresentante di rilievo del movimento. Intanto, quel primo novembre del '69, su Lotta Continua, in prima pagina, ci sono due soli articoli. Uno è sulle lotte a Pisa; l' altro è intitolato "Operai e sindacati di fronte ai contratti". Guido Viale, uno dei dirigenti degli studenti torinesi e poi del gruppo di Lc, rammenterà che quel numero fu pagato "vendendo un quadro che ci era stato donato da Giovanni Pirelli", l'intellettuale di sinistra fratello di Leopoldo Pirelli, il padrone dell' omonima grande azienda milanese. La sigla che dà il nome al periodico, ha rievocato Luigi Bobbio, uno dei figli di Norberto Bobbio, tra i leader della stessa Lc, era apparsa già "dal 27 maggio 1969 in calce ai volantini distribuiti fuori dai cancelli della Fiat che fino ad allora uscivano con la firma 'a cura di operai e studenti'". Nel presentare il giornale, redatto allora da Bobbio e da Viale, in quel novembre del '69 si sottolinea che l' idea "è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale in una prospettiva rivoluzionaria". Lotta Continua nasce su basi operaiste e movimentiste dalla convergenza di alcuni esponenti del movimento studentesco di Torino, Trento (con Marco Boato e Mauro Rostagno), Pisa e altre città, oltre che del gruppo del "Potere Operaio" pisano, in cui militava Adriano Sofri. Proprio il trasferimento di Sofri a Torino, nella primavera del '69, e l' incontro tra alcuni studenti e operai della Fiat Mirafiori, fu determinante, scrive Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata da Feltrinelli, "nel definire la natura e l' esistenza stessa di Lotta Continua". Il movimento nato nel '69 morì in un altro novembre, quello del '76, dopo l' ultimo congresso, travolto dalla fine dell' antagonismo operaio, dalla crisi della militanza, dagli insuccessi elettorali dell' estrema sinistra, dallo scontro col femminismo. Il quotidiano sopravvisse fino al 1982. Nella Storia di Lotta Continua, Bobbio (morto nel 2018) osserva che "la crisi della militanza è l'espressione di un malessere antico, iniziato molto prima, quando l' adesione alla politica come 'scelta di vita' aveva cominciato a separarsi dalle ragioni e dagli impulsi originari che l' avevano determinata (la ribellione, il movimento) per diventare attivismo e mestiere". Dopo l' arresto di Sofri, su Lc si abbatté una campagna denigratoria. Si sostenne l' esistenza di una sorta di lobby degli ex del movimento, gente che aveva fatto carriera, dalle grandi aziende ai mass media, e che però cercava, nel contempo, di inquinare le prove sul delitto Calabresi. Enrico Deaglio, già direttore di Lotta Continua, in un' intervista del 1988 a Repubblica rispose: "Il giudice teme che gli ex di Lotta Continua possano inquinare le prove e per questo motivo nega persino gli arresti domiciliari ai 3 imputati. Il giudice Lombardi non ha nulla da temere. Aver paura di complotti a dodici anni dallo scioglimento di Lotta Continua è al di fuori della realtà. Non siamo la P2 , né una lobby con affari e potere da rivendicare. Siamo solo un club. Un club a ingresso limitato, di persone di mezza età che ogni tanto si incontrano per giocare a ping pong" .

·         Internet compie 50 anni.

Internet compie 50 anni; storia di un cambiamento continuo. Il 29 ottobre 1969 la prima trasmissione di un pacchetto di dati tra due computer, inizio di una evoluzione che ha modificato le nostre vite. Ma il 5G e l'IoT sono ancora un miraggio per molti. Alessio Caprodossi il 29 ottobre 2019 su Panorama. I suoi primi cinquanta anni hanno cambiato il mondo, i prossimi cinquanta continueranno a migliorarlo. Sembra banale ma non ci sono altre possibilità di sintesi così estreme per quantificare l’impatto che ha avuto Internet sulle nostre vite, accorciando le distanze spazio-temporali e rivoluzionando il modo di comunicare, informarsi e fare acquisti, tanto per citare solo alcune delle potenzialità che all’epoca neppure i pionieri della rete avevano immaginato potessero rivelarsi tali. L’avvio delle operazioni, datate 29 ottobre 1969, con il collegamento tra un computer dell’Università di Los Angeles e un altro presso il Research Institute di Stanford, passò quasi in sordina, non solo perché non ci furono giornalisti e fotografi a raccontare e immortalare l’attimo storico, ma anche e soprattutto perché quello era l’anno dello sbarco sulla Luna, con il sigillo degli Stati Uniti nella corsa allo Spazio contro l’Urss che campeggiava sui giornali e dominava le chiacchiere quotidiane.

I primi vagiti. Per quanto in origine il progetto Arpanet fosse legato al Dipartimento della Difesa Usa e concepito in ambito militare, Internet dovette attendere un ventennio prima di diventare cosa nota oltre la ristretta cerchia di ingegneri, informatici e visionari che hanno costruito le fondamenta. In questi anni, però, si sono susseguiti alcuni dei tratti distintivi della Rete, come l’introduzione della chiocciola @, l’invio della prima email, i collegamenti oltre confine, con Norvegia e Regno Unito che si aggiunsero agli Stati Uniti, e la nascita dei domini .com e .org per identificare i vari nodi della Rete e pensionare le stringhe di numeri difficili da memorizzare (il primo dominio italiano è opera del Centro nazionale di ricerca, cnr.it).  

La grande onda. Il nuovo protocollo HTTP e i collegamenti ipertestuali che permettono di legare due o più documenti tra loro tramite link sono la base su cui nel 1989 il britannico Tim Berners-Lee (nella foto qui sopra) crea il World Wide Web, cui segue il primo browser (Mosaic) che consente di navigare tra le varie pagine web. Nascono i primi fenomeni, come Napster per la condivisione dei file musicali ed eBay che apre il campo alle vendite online, mentre Nokia prima e la Apple con l’iPhone poi portano il web dentro a cellulari e smartphone. Nel 1998 arriva Google a mettere ordine tra gli ormai infiniti indirizzi web, fioriscono i blog personali, la velocità di connessione corre veloce e, a stretto giro, nascono social network (Facebook, nel 2004), piattaforme per la condivisione di video (YouTube, nel 2005) e quelle per microblogging (Twitter, nel 2006).

La sfida del futuro. La rapida successione di novità si accompagna a nuovi modi per la fruizione dei contenuti e alla centralità di oggetti che diventano irrinunciabili (come lo smartphone), anche perché il web apre scenari inediti pure in ambito lavorativo. Essere connessi diventa un’esigenza, per molti un obbligo, ma l’evoluzione non si ferma, incluse le sue derive: in principio erano i virus, ora sono le fake news con sullo sfondo la consueta querelle legata all’uso dei dati e alla protezione della privacy. E mentre si avvicina il momento delle reti di quinta generazione – che, grazie alla maggiore velocità di connessione e alla bassa latenza, consentiranno di connettere milioni di oggetti aprendo la strada all’Internet of Things, favorendo la maturazione dei processi utili per cambiare il volto delle città e completare l’agognata Smart Home - la sfida più grande è un’altra, perché il progresso generato dalla Rete è stato finora goduto da poco più di metà della popolazione mondiale. L’obiettivo del prossimo decennio è perciò consentire l’accesso al web a chi ancora non ha avuto possibilità di conoscerlo.

·         Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia.

Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia. 118 vittime e un solo superstite, quando il volo SAS diretto a Copenaghen impattava con un Jet privato entrato in pista per errore. Edoardo Frittoli il 7 ottobre 2019 su Panorama. Aeroporto di Milano Linate. 8 ottobre 2001. La nebbia è fittissima sulla pista, la visibilità ridotta tra 50 e 100 metri. Poco prima delle 8 il McDonnell-Douglas MD-87 marche SE-DMA della compagnia Scandinavian si avvia al rullaggio pronto al decollo alla volta di Copenhagen. Sul volo SK686 ci sono 104 passeggeri e 6 membri dell'equipaggio. Pochi minuti dopo la torre di Linate autorizza al rullaggio per la pista 36R. Contemporaneamente dalla piazzola dell'aviazione generale si muoveva il jet privato Cessna Citation D-IEVX anch'esso autorizzato dai controllori di volo. Invece di prendere la pista di congiunzione Romeo 5, l'aereo privato prendeva la Romeo 6, mentre gli avvisatori automatici di invasione di pista erano spenti per i numerosi falsi allarmi del sistema. Alle ore 8, 10 minuti e 21 secondi l'MD-87 impattava con il Cessna alla velocità di oltre 270km/h. In pochi attimi, sulla pista grigia di Linate si verifica il più grave incidente della storia dell'aviazione civile italiana: i morti sono 118. Tutti i passeggeri e l'equipaggio del volo SAS, i quattro occupanti del Cessna e quattro dipendenti della Sea, la società di gestione aeroportuale dello scalo milanese dopo che l'MD-87 in fiamme colpì devastandolo il capannone adibito a deposito bagagli. Le cause del gravissimo incidente furono identificabili in una serie di concause: inadeguatezza della segnaletica di pista dell'aeroporto di Linate, condizioni meteorologiche avverse, assenza di strumentazione ausiliaria di sicurezza a terra (radar), negligenza del personale di controllo in tali condizioni. Il processo agli imputati per strage colposa,si è concluso dopo 7 anni con pene assai ridotte ai responsabili dell'Enav. La segnaletica di pista e i sistemi di sicurezza-navigazione dell'aeroporto di Linate sono stati completamente rivisti e aggiornati dopo il disastro dell'8 ottobre. Dal 2002 le vittime di Linate (58 gli italiani) sono ricordate nel Bosco dei Faggi all'interno del Parco Forlanini dove sono stati piantati 118 alberi a perenne ricordo. E' attivo il Comitato 8 ottobre, che riunisce i familiari delle vittime della tragedia e si occupa di sensibilizzazione e divulgazione delle informazioni sulla sicurezza del volo.

·         Willy il Coyote compie 70 anni.

Willy il Coyote compie 70 anni. 10 cose che non sapete di lui. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Corriere.it. Buon compleanno, Willy il Coyote! Il coyote più famoso (e sfigato) della storia, ha appena compiuto 70 anni. Era il 16 settembre del 1949 quando uscì il primo episodio della serie intitolato Fast and Furry-ous (un gioco di parole fra furry - peloso - e furious - furioso). Da allora generazioni di bambini e adulti non hanno mai smesso di tifare per lui. Nessun altro personaggio dei cartoon, neanche Tom e Gatto Silvestro, se la passa tanto male. Quelli, al netto delle lezioni che puntualmente gli rifilano le loro inafferrabili prede (il furbissimo Jerry, l’antipatico Titti), tutto sommato sono dei bei gattoni in salute. Lui no: magro da far paura, quasi macilento, mica si diverte a giocare al gatto col topo (o col canarino). Lui, morso dalla fame, insegue l’unica preda papabile laggiù nel deserto dove vive: l’imprendibile Beep Beep, una specie di struzzo che si fa beffe di lui condannandolo ogni volta a un finale letteralmente apocalittico. Ecco allora, per tutti quelli che continuano inutilmente a fare il tifo per lui, dieci curiosità sul coyote più fantozziano della storia.

Che animale è Beep Beep? Anche se molti pensano che sia uno struzzo, o la sua versione amerinda: il nandù, Beep Beep in realtà è un uccello del deserto americano appartenente alla famiglia dei cuculidi. Nome scientifico: geococcyx californianus, comunemente chiamato roadrunner (corridore).

Chi ha inventato Willy il Coyote? Il papà di Willy il Coyote (Wyle E. Coyote nella versione originale) si chiama Chuck Jones. Oltre a Willy e Beep Beep, ha inventato altri personaggi memorabili della serie dei Looney Tunes come Marvin il Marziano e la puzzola Pepé le Pew.

A chi è ispirato Willy il Coyote? Come ha raccontato lo stesso Chuck Jones, il personaggio è ispirato al racconto semi autobiografico di Mark Twain Roughing it (in italiano «In cerca di guai»), in cui lo scrittore americano descrive il coyote come «una allegoria vivente del bisogno: ha sempre fame, è povero, sfortunato, senza amici». E ancora: «E’ lungo, magro, malato, uno scheletro spelacchiato». Praticamente: Willy.

Da Don Chisciotte a Don Coyote. Ma i riferimenti letterari non si fermano qui. Nei primi episodi Willy Coyote viene chiamato Don Coyote perché nel suo eterno inseguimento di Beep Beep somiglia a Don Chisciotte coi mulini a vento.

Willy parla mai? In genere è muto, al massimo si esprime tramite l’uso di cartelli. Solo in due corti, dove ha per antagonista Bugs Bunny, prende finalmente la parola sfoderando un comicissimo accento inglese. Non prima però di aver mostrato un esilarante biglietto da visita che recita: «Wile E. Coyote. Genius».

Dove vivono Willy e Beep Beep? Nella Monument Valley.

Cosa c’entra la coda di Willy con l’onda di Hokusai? Un’altra fonte di ispirazione per Chuck Jones sono i dipinti classici giapponesi: in particolar modo la celebre onda di Hokusai. «Le onde giapponesi non sono fatte per navigarci ma per affogarci. Il modo normale di disegnare la coda di un animale - ha detto una volta Jones - dallo scoiattolo al cane, è di farla rotonda e morbida come le onde occidentali; rovesciala e avrai la coda del coyote: non una coda da sirena ma una coda di topo».

Ma Willy cattura mai Beep Beep? Sì, succede effettivamente una volta sola in un cartoon del 1980 intitolato «Soup or Sonic». Ma il finale è anche più amaro del solito perché quando finalmente Willy raggiunge Beep Beep, essendo passato attraverso un tubo telescopico, è diventato una specie di lillipuziano e ha di fronte a sé un gigante. L’ultima inquadratura, con immancabile cartello, parla da sola: «Okay, wise guys, you always wanted me to catch him. Now what do I do?». Ok, ragazzi: avete sempre voluto che lo catturassi. E ora che faccio?

·         Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.

Grazie Pippi Calzelunghe, ci hai insegnato la libertà. Cinquant’anni fa andava in onda per la prima volta la serie tv. Angela Azzaro il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. Ognuno di noi deve ringraziare uno scrittore o una scrittrice, un pittore, un poeta o una regista che con una sua opera, un suo personaggio, una sua intuizione non solo ci ha emozionati, ma ci ha cambiato la vita. È quello che è successo per molte donne nel mondo quando hanno letto Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, la scrittrice svedese morta nel 2002 all’età di novantacinque anni. È grazie alla sua fantasia che milioni di bambine nel mondo hanno potuto identificarsi con un personaggio femminile libero, ribelle, felice. Un personaggio rivoluzionario. Invece delle solite principesse, principi azzurri, baci, rane e ranocchi, piomba nell’immaginario collettivo una bambina magica e autonoma, capace e determinata, circondata da strani animali che considera la sua famiglia. Il romanzo viene pubblicato nel 1945. Lindgren si inventa la storia di Pippi Calzelunghe per la sua bambina, e costretta a letto da una caviglia rotta la mette per iscritto. Quasi venti anni dopo, nel 1969, è il momento della serie tv che consacra definitivamente il romanzo, la storia e la scrittrice. Capelli rossi legati in due code laterali, lentiggini, sorriso smagliante, scarpe enormi e calze lunghe, Pippi conquista da subito anche il pubblico italiano. Vive sola in una casetta sull’isola di Gotland con – come recita la bellissima sigla italiana – un cavallo a pois neri e la scimmia, che chiama signor Nilson. Il padre è un pirata dei mari del Sud. Le sue assenze non sono motivo di tristezza, come non crea nessun problema la mancanza della madre. Anzi, è forse proprio questa la scelta vincente. Per essere autonoma, libera e felice Pippi si deve liberare dal modello materno, stare lontana anche dal padre, da prendere a piccole dosi, e costruire da sola una nuova vita. Lindgren è stata pubblicata in oltre cento Paesi e tradotta in circa settanta lingue. Ma nella sua vasta e preziosa produzione non c’è solo la ragazzina ribelle. Ci sono una marea di personaggi e di avventure, alcuni dei quali diventano altrettante serie tv: L’isola dei gabbiani, Karlsson sul tetto, Emily. Sono tutte storie che raccontano un’infanzia in cui bambini e bambine stanno sullo stesso piano, giocano allo stesso modo, amano ugualmente l’avventura. Lindgren smonta gli stereotipi, distrugge i ruoli e con Pippi Calzelunghe compie il miracolo: costruire una storia di libertà da cui non si può tornare indietro. Ben prima che in Italia venisse pubblicato il saggio Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belot- ti, la scrittrice svedese spezza le catene di un immaginario dogmatico e stereotipato e dice alle bambine di tutto il mondo: anche voi potete sognare, anche voi potete fare le magie, anche voi potete salire sugli alberi, anche voi potete vivere da sole, anche voi… Ma non lo dice solo alle bambine. Lo dice anche ai bambini. Anche loro liberati da fardelli e ruoli, possono sprigionare la propria immaginazione. Non è un caso che Stieg Larsson, l’autore della trilogia Millennium, poi proseguita da un altro scrittore, facesse spesso riferimento a Lindgren. Uomini che odiano le donne, primo romanzo della trilogia, non poteva che essere scritto da un uomo che aveva messo in discussione se stesso e la propria identità anche grazie alle sue letture. La protagonista Lisbeth Salander che si vendica dell’uomo che la ha violentata si ispira a Pippi Calzelunghe. La trilogia è piena di riferimenti e lo stesso Larsson ammise la filiazione. Lisbeth è una Pippi dell’era digitale, una ribelle di oggi alle prese con un mondo poco fiabesco e molto violento. Eppure del personaggio di Lindgren conserva la determinazione, l’indipendenza, la voglia di raggiungere i propri obiettivi. Anche lei vive sola, non si arrende mai, neanche quando tutto sembra precipitare. Millennium è una bellissima trilogia, un affresco in alcuni casi addirittura profetico sulle contraddizioni del mondo occidentale. Ma è soprattutto un inno alla libertà femminile. Anche il protagonista maschile della trilogia, Mikael Blomkovist, si ispira al quasi omonimo giovane detective di Lindgren, e per prenderlo in giro lo chiamano come lui, Kalle. Un altro bel libro, un’altra bella storia. Oggi non ci resta che sperare che le nuove generazioni di bambini e bambine leggano il romanzo e vedano la serie tv. Molte cose sono cambiate ma l’immaginario collettivo è forse l’ambito più restio a registrare i mutamenti identitari e sociali. Per quello Pippi Calzelunghe resta ancora oggi il manuale delle ragazzine ribelli, delle ragazzine che vogliono giocare, divertirsi, stare all’aria aperta, sperimentando tutto quello che il mondo offre. L’arte della libertà si impara fin da piccole e il personaggio di Pippi Calzelunghe è il miglior esempio che si possa augurare anche alle bambine di oggi.

·         Felix, che compie proprio oggi 100 anni.

Marco Giusti per Dagospia il 10 novembre 2019. Charles Lindbergh aveva un pupazzo di Felix The Cat quando sorvolò l’Atlantico nel 1927, Paul Hindemith preparò una musica originale dedicata a Felix nel 1928 per il festival di Baden-Baden, nello stesso anno l’immagine del faccione di Felix apparve come monoscopio della futura tv sperimentale, l’artista Mark Leckey ha dedicato a Felix opere e dotti studi. Nessun altro personaggio animato negli anni ’20 era popolare come Felix, che compie proprio oggi 100 anni, visto che il suo primo cartoon, Feline Follies, era uscito nel lontano 9 novembre 1919. Il suo vero ideatore, regista e principale animatore, Otto Messmer, lo aveva modellato sulla figura dei grandi comici del tempo, da Charlie Chaplin a Buster Keaton. Messmer aveva capito che per sfondare, i cartoon dovevano avere un forte protagonista ben riconoscibile e comico. Felix fu in assoluto il primo essere di cartone dotato di una certa personalità, di una stravagante forza surreale. Sia Messmer che il produttore della serie, l’australiano Pat Sullivan, che deteneva i diritti sulla serie e aveva il nome sui titoli di testa, sostenevano che Felix non era una versione maschile della Krazy Kat fumetto di George Herriman, quanto una sorta di trascrizione del “Gatto che cammina da solo” protagonista di un celebre racconto di Rudyard Kipling del 1902. Un gatto che grazie alla sua astuzia teneva testa alla donna che viveva in una caverna e aveva come motto “Io sono il gatto che se ne va da solo e per me tutti i posti sono uguali”. Come il gatto di Kipling anche Felix è totalmente libero di andare dove vuole. Inoltre può aiutarsi col suo proprio corpo fatto di inchiostro e di carta, può servirsi della coda per formare un punto interrogativo. E’ un gatto astratto, folle, ma sempre in movimento perché nasce per il cinema e non per il fumetto. Nato su richiesta di Pat Sullivan per il “Paramount Magazines” deve il nome a John King, che associò tra loro le parole latine “felis” e “felix”. Diventato popolarissimo da subito, nel 1922 diventa mascotte ufficiale dei New York Yankees, ogni cartoon, e ne usciva uno nuovo ogni due settimane, faceva incassare a Sullivan circa 10 000 dollari puliti. Messmer allarga così lo studio, chiama giovani animatori a lavorare con lui, come Al Eugster e William Nolan. “Non c’erano copioni”, raccontava Eugster, “Otto Messmer aveva tutto in testa. Un film cominciava con un’idea e degli schizzi che dava al capo animatore. Se ne parlava tutti assieme e si cominciava a disegnare. Mentre lavorava Otto pensava continuamente, ad alta voce, a nuove idee per questo film o per il successivo. Animava e pensava contemporaneamente. Non so come facesse”. E’ però Nolan a dare a Felix quella rotondità che prima non possedeva, a renderlo anche più facile da disegnare. Dei 150 cartoon di felix, molti sono dei capolavori. Con l’avvento del sonoro, però, tutto si fermò. Sullivan non voleva lasciare il muto. E nei primi anni ’30, quando ormai era arrivato Mickey Mouse, il topastro sonoro, accadde di peggio. Nel 1932 la moglie di Sullivan si uccise cadendo dalla finestra mentre cercava di farsi notare dall’autista del marito. Poi, nel 1933, muore anche Sullivan, alcolizzato e depresso. Non riuscendo a trovare in Australia un parente lontano o vicino di Sullivan che potesse prendere in mano la produzione, lo studio chiuse senza che Messmer, che era il vero artefice del successo del gatto, potesse far niente per impedirlo e vantare qualche pretesa sui cartoon. Lasciò l’animazione, dedicandosi a disegnarlo Felix a fumetti e a dare vita a grandi insegne luminose su Times Square fino agli anni ’70. Negli anni che verranno si tenterà di riportare in vita Felix, ma senza grande successo. Ma andate a rivedervi qualche vecchio cartoon di Felix e vedrete quanto è pazzo e moderno ancora oggi.

·         17 novembre 1869: inaugurato ufficiale del Canale di Suez.

Suez, Cairo e Roma e i 150 anni di storia che hanno cambiato il Mediterraneo. Il 17 novembre 1869 nasceva la nuova «via delle Indie», uno dei gangli vitali dell'economia mondiale, grazie a dei padrini italiani. Il libro di Marco Valle ne affronta il passato e il presente. Eugenio Di Rienzo, docente di Storia alla Sapienza, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. Il Giro del mondo in ottanta giorni, pubblicato da Jules Verne nel 1873, non sarebbe stato mai scritto se l'apertura del Canale di Suez inaugurato ufficialmente il 17 novembre 1869, dopo dieci anni di lavori non avesse tracciato la «via orientale verso l'Oriente» in grado di rendere immensamente più veloce il tragitto verso l'India, la Cina e il Sud-est asiatico. Se la galleria del Moncenisio, ultimata nel 1871, permetteva di compiere il viaggio Londra-Brindisi in treno, arrivati nel porto pugliese, merci e viaggiatori europei potevano, infatti, far rotta verso l'Asia in poco meno di novanta giorni perché il taglio dell'istmo consentiva, ormai, di raggiungere quella destinazione senza circumnavigare l'Africa. Come ci mostra Marco Valle, nel suo importante volume, Suez. Il Canale, l'Egitto e l'Italia, Da Venezia a Cavour, da Mussolini a Mattei (che colma una lacuna della storiografia italiana e che a tutt'oggi costituisce l'unica opera su questo tema presente nel catalogo editoriale del nostro Paese), dopo l'apertura delle rotte atlantiche nel XVI secolo, la nuova «via delle Indie» fece riacquistare al Mediterraneo e di conseguenza anche al nostro Paese una nuova giovinezza economica e strategica, come collegamento privilegiato tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Il Canale costituiva un tragitto alternativo, ambito da tutte le potenze europee, prima fra tutte l'Inghilterra, che si sforzò di favorire il processo unitario italiano con lo scopo di utilizzare il meridione della Penisola come avamposto del suo impero, potendo contare su un Regno d'Italia (amico e cliente), che, impiantato nel cuore del Mediterraneo occidentale, doveva assicurare il libero transito dei navigli britannici. I disegni e le preoccupazioni di Londra risalivano alla fine del XVIII secolo, quando il primo Bonaparte, nel corso della campagna militare in Egitto e Siria, comprese che l'apertura della direttissima di Suez avrebbe potuto emancipare l'Asia meridionale dal dominio di Londra. Né i timori della Gran Bretagna per un'azione contro l'India cessarono dopo il 1815, ma anzi si rafforzarono quando Napoleone III prese l'iniziativa di aprire una nuova «via delle spezie», con il taglio dell'istmo di Suez. Questo progetto era già riemerso con forza quando, su ispirazione del Cancelliere austriaco Klemens von Metternich, fu fondata nel 1846, a Parigi la Société d'Etudes du Canal de Suez. Del gruppo di lavoro facevano parte esperti francesi, inglesi, austriaci e, tra questi ultimi, l'ingegnere capo delle ferrovie del Lombardo-Veneto, il trentino Luigi Negrelli. Fu proprio il progetto di Negrelli a essere selezionato da una Commissione scientifica internazionale, costituitasi, nel 1854, sotto l'egida della Francia e dell'Egitto per iniziativa dell'imprenditore Ferdinand de Lesseps. A nulla valse la resistenza dell'Inghilterra per sabotare l'impresa, che prese avvio il 25 aprile 1859. La sconfitta di Londra si tramutò, però, in un'ampia vittoria diplomatica, perché, terminati i lavori, la gestione amministrativa economica e militare del nuovo percorso marittimo fu attribuita alla «Compagnia del Canale», dove sedevano i soli rappresentanti della Francia e del Regno Unito, quest'ultimi come azionisti di maggioranza dopo il 1875. Inoltre, dopo il conflitto anglo-egiziano del 1882, «Albione perfida e rapace» fortificò ulteriormente la sua posizione di egemonia arrivando, così, al controllo incontrastato dell'autostrada acquatica che collegava la nebbiosa isoletta dell'Atlantico al più prezioso gioiello del suo impero. L'Italia, nonostante la sua posizione geostrategica, fu esclusa da ogni partecipazione alla Compagnia del Canale. E ciò avvenne nonostante i tentativi esperiti nel 1882 dal ministro Pasquale Mancini (respinti da Londra) di «organizzare per la libera navigazione del Canale di Suez un servizio puramente navale di polizia e sorveglianza al quale tutte le potenze sarebbero chiamate a partecipare». Paga del suo ruolo di junior partner della «Dominatrice dei Mari», e rassicurata dalla convenienza del cosiddetto «sistema mediterraneo», la nostra diplomazia non insistette, infine, sulla possibilità di partecipare, insieme alla Spagna, all'amministrazione del Canale. La musica cambiò con Mussolini, che dopo aver conquistato l'Etiopia non fece più mistero delle sue pretese sulla «nuova rotta delle Indie». Dalla fine del conflitto, Palazzo Venezia avanzò, con insistenza crescente, ma senza trovare ascolto, l'istanza di «spezzare la sbarre del Mediterraneo che imprigionavano l'Italia nel suo stesso mare», arrivando all'internazionalizzazione di Gibilterra e a una partecipazione del nostro Paese all'amministrazione della Compagnia. Riproposte ancora nella primavera del 1940, come conditio sine qua non per mantenere l'Italia in uno stato di neutralità, queste richieste non ebbero esito. Infine Londra si dichiarò favorevole all'ingresso di un rappresentante italiano nel Board of Directors of the Suez Canal Company che poteva essere reso possibile una volta che si fossero superate alcune difficoltà procedurali. Il soddisfacimento delle ambizioni italiane arrivò, però, troppo tardi. Il tempo delle trattive era ormai finito e il 10 giugno la parola passò alle armi. Con scarso successo, però. L'unico importante risultato fu colto, infatti, dalla Regia Marina che, con il blocco del Mediterraneo centrale e dell'Egeo, riuscì a paralizzare la rotta Gibilterra-Suez, arrecando un grave danno allo sforzo bellico britannico che, dopo il 7 dicembre 1941, si trasformò in un vulnus importante per il British Empire impegnato contro il Giappone nel teatro asiatico. La rivincita dell'Italia si ebbe nel dopoguerra quando Roma abbandonò «la politica delle armi» per imbracciare «le armi della politica». La crisi mediorientale iniziata nella seconda metà del 1955, sfociata nella nazionalizzazione del Canale, aprì nuovi scenari alla nostra politica e offrì l'opportunità per un'azione ardita e consapevole rivolta a rinnovare la nostra presenza sulle principali direttrici della politica italiana. Il Medio Oriente, l'Africa settentrionale, e con essi il nodo di Suez, furono il banco di prova del cosiddetto «neo-atlantismo». In quel quadrante internazionale, con De Gasperi, Mattei, Fanfani, e poi con Andreotti, Moro, Craxi si misurò la capacità italiana di raggiungere lo status di grande media potenza mediterranea, prima del malinconico e inarrestabile declino della nostra politica estera. Questo e moltissimo altro il lettore potrà trovare nella monografia di Marco Valle, che è opera scientificamente irrimproverabile ma anche studio appassionato, nutrito da una raffinata comprensione dei temi geopolitici che furono anche grandi problemi di nostro prioritario interesse nazionale, e capace, come pochi, di coniugare, virtuosamente, la storia del passato all'analisi del presente. Suez. Il Canale, l'Egitto e l'Italia è, infatti, un saggio «adatto al tempo e all'ora», redatto in vista dell'approssimarsi del momento in cui il varco di Suez, ora raddoppiato nella sua capacità di transito, sarà chiamato a competere con la «nuova via della seta» (Silk Road Economic Belt) e con la sua controparte marittima (Maritime Silk Road) che collegherà i porti della Cina agli approdi dell'Africa e della Penisola Arabica, con conseguenze facilmente intuibili per l'intera area mediterranea, l'Europa e, forse, soprattutto per l'Italia.

·         La Setta di Manson: Storia e segreti.

Roberto Festa per “il Fatto quotidiano” l'1 ottobre 2019. La sera che "mette fine agli anni Sessanta" è quella del 9 agosto 1969. Sharon Tate, starlet in ascesa, moglie di Roman Polanski e incinta di otto mesi, viene uccisa insieme a tre amici e a uno sconosciuto dai membri della "Family" di Charles Manson. Quella notte Polanski è a Londra, al lavoro al suo nuovo film. La strage avviene nella casa della coppia, un cottage in cima a una collina al 10050 di Cielo Drive. Nel 1994, la casa è abbattuta e ricostruita. Cancellano tutto, anche il numero civico. Il crimine più sconvolgente di Hollywood sopravvive da allora soltanto nella memoria. Sharon "era bellissima. Forse la donna più bella del mondo. Ma qualcuno di voi ha mai scritto di quanto era gentile?" Roman Polanski, sconvolto, si rivolge così ai giornalisti che nei giorni successivi alla strage cercano dettagli scabrosi sulla moglie. Lui l'aveva sposata con in mente un matrimonio aperto, "con una hippie, non una casalinga"; lei sperava in qualcosa di più tradizionale. Tate era nata in una famiglia texana, figlia di un colonnello dell'esercito. Parlava un perfetto italiano, avendo seguito il padre di stanza con le truppe USA a Vicenza. Quando aveva conosciuto Polanski, era una delle tante stelline in cerca di fortuna a Hollywood. Cercava di mostrarsi brava, oltre che un viso perfetto. Non sempre ci riusciva. Il suo film più celebre, La valle delle bambole, venne ridicolizzato da molti recensori. "Non riesco a considerarla seriamente, non è altro che un sex-symbol", scrisse cattivissimo il critico del Chicago Sun. Tate voleva essere qualcosa di più di un sex-symbol. In un' intervista disse che "certo, non penso di recitare Shakespeare. Ma mi vedo come una commediante leggera, alla Carole Lombard". La notte in cui i destini di molti si incrociano su una collina di Bel Air, Tate va a cena nel suo ristorante preferito, il Coyote Cafe. Con lei ci sono Jay Sebring, parrucchiere delle star ed ex-fidanzato di Tate; Wojciech Frykowski, uno sceneggiatore amico di Polanski; la donna di Frykowki, Abigail Folger, della dinastia dei magnati del caffè. Tate è triste: mancano due settimane al parto e non sa quando Polanski rientrerà da Londra. Alle dieci e mezzo i quattro tornano a casa. Nessuna ha voglia di far tardi. Le feste dai Polanski/Tate erano diventate leggendarie. Centinaia tra amici e sconosciuti le frequentavano e Sharon aveva detto che non le importava chi capitava a casa; il suo motto era "vivi e lascia vivere", quello in fondo era lo spirito del tempo. La sera del 9 agosto le luci al 10050 di Cielo Drive restano però volutamente basse. I quattro amici pensano di bere qualcosa e andarsene a letto. Qualche minuto dopo le undici l'auto dei quattro membri della "Famiglia" di Charles Manson sale per Cielo Drive. A bordo ci sono Tex Watson, Susan Atkins, Linda Kasabian, Patricia Krenwinkel. Hanno ricevuto da Manson - avventuriero con ambizioni musicali, un po' santone e un po' magnaccia, che ha messo in piedi una comune dedita a sesso libero e allucinogeni in un ranch deserto della San Fernando Valley - un ordine preciso. Distruggere chiunque si trovi nella casa al 10050, "nel modo più macabro possibile". Non sono gli occupanti della casa a tormentare Manson, bensì il luogo, i muri dove aveva vissuto Terry Melcher, un produttore musicale che dopo un iniziale interesse aveva negato a Manson un contratto. Quel villino, in stile da campagna francese, era diventato un monumento al fallimento di Manson e doveva essere distrutto. I discepoli della "Famiglia" sono strafatti di acidi; agiscono veloci, con una precisione efferata e brutale. Per strada ammazzano senza pietà Steven Parent, un ragazzo di 18 anni che li incrocia dopo aver fatto visita al custode della proprietà Polanski/Tate. Steven chiede pietà, giura che terrà la bocca chiusa. Lo accoltellano a una mano, gli scaricano quattro pallottole nell' addome. Si dirigono poi verso l' edificio principale. Entrano da una finestra e, dopo aver svegliato Frykovski che dorme sul divano del soggiorno, gli dicono di "essere il diavolo". Lo sceneggiatore cerca di scappare; viene raggiunto, pugnalato 51 volte, colpito con due proiettili al petto. Anche Abigail Folger cerca una fuga disperata. Viene uccisa con 28 coltellate ai bordi della piscina. Tate e Sebring sono legati insieme tramite una corda che li stringe al collo. Il parrucchiere delle dive è freddato con un colpo di pistola al petto. Sedici pugnalate sferrate da Watson uccidono Tate. Prima di morire, l' attrice implora i suoi assassini di lasciarla in vita per far nascere la creatura che porta in grembo. Prima di andarsene, una degli omicidi intinge un asciugamano nel sangue di Tate e scrive, sulla porta di casa "PIG", maiale. È la cameriera, il mattino seguente, a scoprire le vittime. Inizia la fase convulsa delle indagini, delle false piste, delle polemiche. Polanski viene massacrato dalla stampa per un'intervista alla rivista "Life" in cui si fa fotografare accanto alla scritta "PIG". Paranoia e terrore soffocano Hollywood. Alcuni temono che sia in corso una caccia mortale ai ricchi e famosi: si assumono nuove guardie del corpo e Steve McQueen si presenta al funerale di Sebring armato di un fucile. Solo a dicembre, dopo altri omicidi, una serie di piccoli crimini e lo spostamento della setta nel deserto del Nevada, i colpevoli verranno arrestati. Il processo che segue, nel 1970, è una sarabanda mediatica mai vista che si conclude con la condanna a morte dei colpevoli - poi commutata in ergastolo. Per allora, Sharon Tate ha smesso di essere una stellina in cerca di fortuna ed è diventata - come Martin Luther King, come Bob Kennedy - il simbolo tragico della caduta del Sogno americano. Sul suo corpo sfigurato si infrange il decennio della liberazione sessuale e delle utopie. La promessa di nuova vita precipita, di colpo, in un horror show senza senso.

Barbara Tomasino per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Non solo Woodstock. L'estate del '69 ha anche segnato la fine del sogno hippie facendo piombare un' intera generazione in un incubo atroce, con cui ancora oggi l'America fa i conti. Il 9 agosto di quell'anno, a Los Angeles, l'attrice Sharon Tate e alcuni amici che erano con lei nella villa di Cielo Drive - presa in affitto con il marito Roman Polanski - vengono barbaramente uccisi dai membri della Famiglia Manson, una setta di hippie degenerati e violenti che vivevano come fuggiaschi in un ranch abbandonato sotto la guida del famigerato Charles Manson. La strage scosse profondamente il Paese e soprattutto il pigro mondo di Hollywood che aveva toccato con mano il male assoluto professato da quel folle lucido che si credeva il nuovo messia. Ci sono voluti mesi prima che le autorità riuscissero ad inchiodare Charlie e i suoi seguaci, scoperchiando il vaso apparentemente dorato dei figli dei fiori: Manson era un cantautore mancato, pieno di livore perché rifiutato da quel mondo che tanto desiderava, e il suo innegabile carisma (unito alla straordinaria capacità di procurarsi donne e droghe) gli permise di entrare nelle grazie persino dei Beach Boys che furono convinti ad incidere un suo brano, Never Learn Not To Love. Il voluminoso La famiglia di Ed Sanders (Feltrinelli, pp. 664, euro 25) descrive accuratamente l' ascesa e la caduta di Manson, mettendo in luce gli innumerevoli flirt che la controcultura dell' epoca aveva instaurato con il più feroce assassino che l' America abbia conosciuto (pensiamo a Bobby Beausoleil, altro psicopatico membro della setta, attore feticcio di Kenneth Anger, regista maledetto e autore di Hollywood Babilonia alla cui corte in quegli anni bazzicavano i Rolling Stones, Marianne Faithfull e Jimmy Page). Emma Cline, classe 1989, ha pubblicato Le ragazze, un affresco morboso e affascinante delle giovani donne assoggettate a Manson, tra depravazioni, amore libero e vessazioni d' ogni tipo. Una delle protagoniste di quei giorni, la terribile Susan Atkins - meglio nota come Sexy Sadie in omaggio ai Beatles - ha scritto in carcere nel '77 Child of Satan, Child of God, un' agghiacciante racconto della discesa agli inferi e della "rinascita" tra le braccia di Dio, di una ragazza sbandata e sadica che si era macchiata di un delitto orrendo (fu lei a pugnalare a morte l' attrice incinta di otto mesi). Infine uscirà negli Stati Uniti (da noi in settembre) l' ultima fatica di Quentin Tarantino, presentato a Cannes nei giorni scorsi, C'era una volta a Hollywood. Il film - interpretato da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt - racconta la fine del sogno hollywoodiano attraverso la figura di un attore di western caduto in disgrazia. Nella filigrana del racconto s' intreccia anche la brutta storia di Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie. Anche Tarantino, quindi, vede nella strage di Bel Air il segno della fine di un' epoca naif e ovattata, che considerava la città degli angeli il luogo perfetto dove far proliferare l' idea insensata e terribilmente seducente di pace & amore (e soldi), almeno fino a quando un uomo venuto dall' Ohio, privo di qualsiasi talento (se non quello della persuasione) e con una svastica tatuata in fronte, non ha deciso di far crollare il castello di carta.

Antonello Piroso per “la Verità” il 9 agosto 2019. A partire dal 9 agosto 1969, l'America ha conosciuto una bella galleria di psicopatici serial killer. L' ultimo sarebbe Samuel Little - il «mostro di Reynolds» in Georgia, dove è nato - detenuto a Los Angeles. Viene definito il più prolifico, rivendicando lui 90 omicidi di donne compiuti tra il 1970 e il 2005 (ma gli investigatori gliene accreditano «solo» 34). Prima di lui abbiamo conosciuto «il cannibale di Milwaukee», Jeffrey Dahmer, il «cacciatore della notte» Richard Ramirez, «l' assassino del Green River» Gary Leon Ridgway (vittime accertate: 41; lui ha confessato di aver ucciso 71 donne). E poi Theodor Bundy, prima vittima attribuitagli quando aveva 14 anni (soppresse una bambina di 8), Dean Corll, «l'assassinio di massa di Houston», soprannome: Candy Man, 28 ragazzi uccisi, tra i 13 e i 19 anni, John Wayne Gacy , il «Clown killer» di 32 giovani, teen-ager per lo più. Di tutti costoro è possibile voi abbiate sentito vagamente parlare. Ma c'è da scommettere che invece la figura di Charles Manson e dei suoi seguaci, autori di una manciata di crimini nell' estate del 1969 - soprattutto la cosiddetta «strage di Cielo Drive», zona residenziale sulle colline tra Beverly Hills e Bel Air, compiuta nella notte tra l' 8 e il 9 agosto, dove trovarono la morte la moglie del regista Roman Polanski, Sharon Tate, incinta all' ottavo mese, e quattro suoi amici (pare che quella sera ci dovesse esserci perfino il regista Sergio Leone, che si trovava in America per scegliere i costumi per il suo film Giù la testa!, uscito poi nel 1971, ma il nostro si addormentò in albergo per il caldo) - l' avete più presente, è un nome che ricordate, un' immagine - per dir così- più familiare. E così siamo subito al nocciolo: perchè quella strage - in realtà i crimini efferati furono due: oltre a quello citato, il gruppo si macchiò dell' omicidio di un imprenditore, Leno LaBianca, e di sua moglie Rosemary - è rimasta sedimentata così a lungo, cinquant' anni, nella memoria collettiva non solo dell' opinione pubblica statunitense? Certo, in questi giorni aiuta l' uscita dell' ultimo film di Quentin Tarantino C' era una volta a Hollywood, in cui l' eccidio è uno sfondo e una cornice costante (del resto, l' industria del cinema è sempre pronta a vampirizzare i fatti di sangue: si pensi alla storia di Aileen Wuornos, unico caso accertato di serial killer donna, che da prostituta ha ucciso sette suoi clienti uomini: giustiziata nel 2002, l' anno dopo è uscito il film Monster, che ha fatto vincere a Charlize Theron l' Oscar come miglior attrice protagonista). Ma anche questo è un effetto, che non aiuta a spiegare la causa. Come non basta l' efferatezza degli omicidi: le centinaia di coltellate inferte, tanto da far parlare a sproposito di omicidi «rituali». Più banalmente, da una parte c' è un gruppo di scappati di casa (uomini, ma soprattutto donne) suggestionato da Manson, uno spiantato che voleva diventare una rockstar, e che aveva un' indubbia qualità: saper sfruttare le debolezze altrui, arrivando a esercitare un controllo che non passava attraverso la droga, quanto piuttosto attraverso il sesso ("Fai l' amore con il tuo paparino, baby"). Dall' altra c' è il jet set hollywoodiano, i «ricchi e famosi» che di colpo si sentono vulnerabili fin dentro le loro case. In altri termini, e più grossolanamente: se a morire fossero stati cinque messicani, in quell' afoso inizio di agosto, non sarebbe importato nulla ad alcuno. Tant' è che ci si ricorda dolorosamente di Cielo Drive e di Sharon Tate, ma si fa più fatica a evocare il duplice omicidio a essi collegato, quello dei coniugi LaBianca, e addirittura quello che li ha preceduti tutti, il 31 luglio, ovvero quello del musicista Gary Hinman, assassinato nello stesso identico modo. Il massacro fece da detonatore alla psicosi, tale da spingere alcune star a presenziare alle esequie delle vittime con tanto di guardie del corpo, come Steve McQueen. Amici di Polanski - gli attori Peter Sellers, Yul Brynner, Warren Beatty - offrirono perfino una ricompensa a chi avesse fornito notizie utili, mettendo una taglia sui killer, manco si fosse tornati ai tempi del Far West. Insomma: se a finire fatti a pezzi non fossero stati componenti dell' élite - e di quella più vista: gli appartenenti allo show business - e se al tempo stesso gli autori non fossero stati balordi in cerca di un omicidio «clamoroso» (in grado di scatenare un conflitto etnico tra bianchi e neri, che dovevano essere incolpati dei fatti, vinto dai neri su cui però poi avrebbe governato la «Famiglia» di Manson: e ditemi voi se questa teoria, che era nella zucca del gran capo, non era già sgangherata di suo), non saremmo qui per questo amarcord. Invece grazie a quel plurimocidio, l' establishment regolò anche i conti con la controcultura hippie, i figli dei fiori, i pacifisti che si erano opposti alla guerra nel Vietnam. Non per nulla il 3 agosto 1970, a processo in corso, il presidente americano Richard Nixon, mentre si trova a Denver per una conferenza, bollò Manson come «colpevole». Intendiamoci: Manson e i suoi meritavano il massimo della pena, pertanto furono condannati a finire sulla sedia elettrica (anche se Manson risultò essere presente solo sulla scena del delitto LaBianca), ma poi la California abolì la pena di morte, e quindi si ritrovarono tutti all' ergastolo. Lui ci mise del suo, trasformando il processo in una sua personale performance, in cui si presentava alternativamente come la reincarnazione di Satana o di Gesù Cristo, e guadagnandosi una fama imperitura. Anche perché di lì a poco una sua seguace, Lynette «Squeaky» Fromme, non coinvolta nei processi, fu condannata a 34 anni di carcere per aver tentato di uccidere nel 1975 il presidente Gerald Ford, subentrato al dimissionario (causa Watergate) Nixon. Il resto è frutto della mitologia pop. Manson su tazze e magliette vendute su Amazon, come il divo rock che avrebbe voluto essere. Il suo cognome che viene adottato da un cantante, Brian Hugh Warner, che si ribattezza Marilyn Manson per omaggiare quelle che evidentemente ritiene due icone della storia a stelle e strisce: l' attrice Marilyn Monroe e l' incarnazione del Male Assoluto. Perfino nel film del '94 Natural born killers di Oliver Stone, quando l' assassino chiede se la puntata del programma tv con lui protagonista ha fatto più ascolto di quella con Manson, il giornalista è costretto a rivelargli la verità: «Purtroppo no», e lui: «Be', certo, è difficile battere il Re». Nel novembre scorso, poi, a un' asta l' abito da sposa che Sharon Tate indossava il 20 gennaio 1968, giorno del matrimonio con Polanski, è stato battuto all' asta per 56.250 dollari. L' acquirente è rimasto anonimo. Manson è morto in galera nel novembre 2017. Così come probabilmente succederà a Leslie Van Houten, che aveva 19 anni quando pugnalò per 14 volte la signora LaBianca (non era invece nella villa di Cielo Drive), e che, condannata definitivamente all' ergastolo nel 1978, ha da allora chiesto per 22 volte la libertà vigilata.

Sharon Tate, cinquant’anni fa l’omicidio della setta di Manson: la storia e i segreti. L’8 agosto del 1969 veniva uccisa anella sua villa di Bel Air l’attrice incinta e moglie di Roman Polanski: un omicidio che segnerà la storia del costume americano. Paolo Beltramin il 9 agosto 2019 su Il Corriere della Sera.

«Lasciami vivere ancora due settimane». «Per favore, ti chiedo solo qualche giorno. Ti prego, lasciami vivere ancora due settimane». Sharon Tate, 26 anni, incinta da 8 mesi e mezzo, pensava di passare la serata in casa con gli amici: suo marito, il regista Roman Polanski, a inizio agosto 1969 era a Londra per un sopralluogo. Ma adesso lei è seminuda, in salotto, immobilizzata. «Non ne potevo più di sentirla implorare — racconterà Susan Atkins detta “Sadie”, che di anni ne ha 21, e un figlio di due — così le ho detto: senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido». La pugnala 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale. Prima di quella notte Susan Atkins e gli altri assassini non avevano mai incontrato Sharon Tate, né le altre vittime. Non sapevano nemmeno chi fossero. Era il 9 agosto 1969, sono passati cinquant’anni.

Cinque corpi senza vita. La mattina di quel 9 agosto, quando entrano nella villa al 10050 di Cielo Drive, a Bel Air, gli agenti trovano cinque corpi senza vita. Tate, modella e attrice emergente, era nata a Dallas e da adolescente aveva vissuto in Veneto, seguendo il padre colonnello dell’esercito di stanza alla caserma Ederle di Vicenza; quello tra la bellissima Sharon e il geniale Polanski, nel gennaio del 1968 a Londra, per i cinefili era stato il matrimonio dell’anno. Accanto a lei, distesi sul pavimento, vengono identificati: Jay Sebring, il parrucchiere delle star; Wojciech Frykowski, regista polacco; la sua compagna Abigail Folger, erede di un impero del caffè; fuori dalla porta Steve Parent, 18 anni, ragazzo delle consegne che passava lì per caso, ucciso con un colpo di pistola a bruciapelo. All’una di notte del 10 agosto, Atkins e i suoi amici fanno irruzione in casa di Leno e Rosemary LaBianca, proprietari di una catena di supermercati. Dopo averli torturati e uccisi, imbrattano di nuovo le pareti di insulti scritti con il sangue, e aggiungono due strane parole: «Helter skelter». Poi aprono il frigorifero e si mettono a mangiare del formaggio e una barretta di cioccolato al latte. Ad attenderli in macchina questa volta c’è anche un altro uomo, il loro leader. Si chiama Charles Manson e si è autoproclamato «l’incarnazione di Gesù Cristo e Satana insieme». Per settimane i negozi di armi sono invasi da persone terrorizzate che vogliono proteggersi. Warren Beatty, grande amico di Sebring, mette una taglia di 25 mila dollari sugli autori della doppia strage; perfino Steve McQueen racconta di avere paura e assume una guardia del corpo. Serviranno tre mesi agli inquirenti per arrivare alla pista giusta. Merito della stessa Susan Atkins: arrestata per un altro delitto, in cella racconta a due compagne le idee e le pratiche della Famiglia.

Quella fama mai raggiunta. Nato a Cincinnati, in Ohio, da una madre alcolizzata, cresciuto tra riformatori e carceri, Charles Manson arriva a San Francisco a 33 anni, all’inizio del 1967, in tempo per la Summer of Love. Grande ammiratore dei Beatles, sogna di diventare anche lui una stella della musica. Riesce a incontrare Neil Young; per qualche settimana si installa casa di Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys; ottiene un provino con il potente produttore Terry Melcher, figlio di Doris Day. Ma i suoi tentativi di diventare famoso sono tutti fallimentari. In compenso ha carisma e un grande fascino sulle ragazze, così in poco tempo fonda una comunità hippie installata allo Spahn ranch, un vecchio set di film western abbandonato con la crisi del genere. Della Famiglia, come viene chiamata la comune, fanno parte una cinquantina di persone, per la maggior parte giovani donne in fuga dai mariti o dai genitori. Si pratica il sesso di gruppo, ma soprattutto il culto della personalità del leader. Il ranch è a sole 25 miglia da downtown LA, ma nessuno può raggiungere la città. Non sono ammessi giornali, orologi né calendari. Ogni sera Manson si siede sopra una pietra con la sua chitarra. Canta, prega, filosofeggia partendo dai manuali di Scientology che ha letto in carcere. Nessuno parla senza il suo permesso. I soldi dei piccoli furti che ordina ai membri della Famiglia servono a procurare i viveri e l’Lsd. La comune è rigidamente maschilista: le donne sono subordinate agli uomini; non possono avere soldi, devono cucinare e fare i lavori più umili.

La Famiglia. Nella sua autobiografia Barbara Hoyt, testimone d’accusa al processo, racconta in modo esemplare come è entrata a far parte della Famiglia: «Avevo litigato con mio padre, non ricordo nemmeno più per cosa. Ero scappata di casa e avevo fatto l’autostop. Mi presero due ragazze — una era Deirdre Shaw, figlia di Angela Lansbury — e mi portarono allo Spahn ranch. Mi accompagnarono da Manson la sera stessa. Tirò fuori la chitarra, mi guardò negli occhi e cominciò a cantare una sua canzone, “Cease to exist”. Faceva: “Bella ragazza, smetti di esistere… Vieni qui e dimmi che mi ami. Lascia il tuo mondo, perché io sono come te, io sono il tuo tipo”. Mi sentii subito accettata e compresa, senza condizioni. Ma voi ve lo ricordate cos’è avere 17 anni?».

Helter Skelter. Nelle settimane prima delle stragi, Manson predica una nuova teoria: «Stiamo entrando nell’era dell’Helter Skelter». È il titolo di una canzone del White Album dei Beatles e secondo lui contiene una profezia segreta. Nel mondo sta per esplodere una guerra razziale tra bianchi e neri; alla fine del conflitto toccherà proprio a Manson portare il Nuovo Ordine. Ma prima bisogna accendere lo scontro, con una serie di delitti a caso, apparentemente razziali. Il pomeriggio del 9 agosto 1969 Manson chiama i suoi seguaci più fidati e ordina loro di uccidere. Da bambina Susan Atkins aveva cantato nel coro della parrocchia. Leslie Van Houten era stata la reginetta di bellezza della scuola; Charles «Tex» Watson alle superiori era un atleta e uno studente modello. Patricia Krenwinkel aveva fatto anche l’insegnante di catechismo.

Testimone chiave. Il processo comincia il 24 luglio 1970 e per il vice procuratore Vincent Bugliosi la sfida si annuncia difficile. Contro Manson non c’è nemmeno una prova materiale e gli altri imputati sono disposti a tutto, anche alla sedia elettrica, pur di far assolvere il loro maestro. Fuori dal tribunale i membri superstiti della Famiglia manifestano per mesi in suo favore. Tutti si fanno tatuare una croce sulla fronte (solo più tardi Manson trasformerà la sua in una svastica). Il dibattimento, che risulterà il più costoso della storia della California, produce 28.354 pagine di trascrizione. La svolta arriva dalla testimonianza di Linda Kasabian (nella foto), autista del gruppo nei due raid: in cambio dell’immunità, rivela ogni dettaglio dell’organizzazione. Dopo quasi 43 ore di camera di consiglio, tutti gli imputati vengono condannati a morte. Poco prima dell’esecuzione, il verdetto viene commutato in ergastolo perché la Corte suprema della California abolisce la pena capitale (sarà reintrodotta nel 1978).

Tarantino. Negli Stati Uniti non ci sono leggi che vietano di vendere magliette con la faccia di Charles Manson: su Amazon se ne possono ordinare una trentina di modelli diversi. I sociologi hanno scritto che al 10050 di Cielo Drive è stata uccisa l’utopia degli anni Sessanta; ma è anche nata l’icona pop del male assoluto. La sorella di Sharon, Debra Tate, ha ottenuto che almeno non venga distribuito il 9 agosto, giorno del cinquantesimo anniversario. Il volume scritto da Bugliosi dopo il processo, «Helter Skelter», è entrato nel guinness dei primati come il libro di «True crime» più venduto nella storia, con oltre 7 milioni di copie. I Beatles hanno spiegato più volte che il titolo della loro canzone era ispirato semplicemente allo scivolo di un luna park. La figlia di Angela Lansbury, che non era stata coinvolta in alcun modo negli omicidi, è diventata proprietaria di un ristorante italiano a Los Angeles. Altri ex membri della Famiglia sono spesso ospiti di programmi televisivi. E a breve potremo vedere nelle sale il film di Tarantino ispirato a questa vicenda «C’era una volta a Hollywood» , mentre l’uomo che voleva diventare il padrone del mondo, o almeno una rockstar, è morto per un cancro al colon il 19 novembre 2017. Su Twitter, i baby boomers hanno cercato di spiegare ai millennials che «Rip, Charles Manson», «Riposa in pace, Charles Manson», non era il commento più appropriato; ma in fondo si sa, sui social funziona così. Sharon Tate oggi avrebbe 76 anni; il suo meraviglioso abito da sposa color avorio è andato all’asta lo scorso 17 novembre a Los Angeles. Non ha mai saputo che aspettava un maschio.

Estratto del libro “Sergio Leone - Perché la vita è cinema” di Fabio Santini il 12 agosto 2019. "C’era una volta il West" incassa in Italia 2miliardi 503milioni di lire. Ma nel mondo non si saprà mai con assoluta certezza a quanto ammonta l’imperitura rendita di quel film. Sì perché, non più tardi di qualche anno fa, il film veniva proiettato in prima visione in molti paesi asiatici con i sottotitoli nella lingua locale. Leone ha in testa un chiodo fisso: ‘The Hoods’, da cui vuole sviluppare la trama per un suo film sull’America dai tempi esattamene come la concepisce lui, cioè dai tempi del proibizionismo, gli Anni ’20, ’30, agli Anni ‘60. Le major vorrebbero affidare a Leone un ennesimo western, o un film su una storia di mafia. E in pratica la sensazione che si coglie negli incontri che il regista tiene con i pezzi grossi della cinematografia americana è: noi ti facciamo fare "The Hoods" ma prima ci devi dare un altro film. E’ il 7 agosto del ’69, Leone è in viaggio di lavoro negli Stati Uniti dove ormai è una celebrità. Luciano Vincenzoni riceve un invito per un dopocena da uno scrittore americano suo amico. L’appuntamento è a casa di Sharon Tate la sera dell’8 agosto. La Tate é moglie di Roman Polanski, attrice interessante e non priva di fascino. “Dai Sergio – gli dice Vincenzoni – andiamo a farci un drink a casa Polanski, magari incontriamo gente che ci interessa”. Leone accetta senza eccessivo entusiasmo: “Beh, se proprio dobbiamo, andiamoci”. Il giorno dopo Vincenzoni riceve un altro invito. Un produttore importante di Hollywood gli offre di trascorrere il weekend a casa sua. E lo sceneggiatore accetta. Così a Leone tocca l’ingrato compito di andarci da solo a quel party. La mattina del 9 agosto, Vincenzoni apprende dalla televisione del massacro compiuto dalla Famiglia di Charles Manson a casa della moglie di Polanski. La Tate é incinta di 9 mesi ma i suoi aguzzini non hanno alcuna pietà. E la trucidano con 16 coltellate. Tutti gli invitati vengono letteralmente fatti a pezzi dalla furia omicida di quel gruppo criminale e satanista. Lo sceneggiatore è terrorizzato. Pensa che nell’eccidio abbia trovato la morte anche Leone. Gli telefona. E il regista gli risponde serafico: “Ma te pare che io vada a una festa da solo in mezzo a gente che non conosco con il mio inglese che è quello che é. Così me ne sono stato in albergo a vedermi un film…”. “E pensare che mi sentivo in colpa per avergli dato buca – conclude Vincenzoni – e invece quel bidone gli ha salvato la vita…”.

·         Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna.

Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna. Ecco il calendario. Dalla tragedia del Superga al crollo del Muro. La nascita dell’euro, Castro al potere, l’uomo sulla Luna, il delitto Ambrosoli e il terremoto a L’Aquila. Certe ricorrenze negli anni con il 9 finale, di Giovanni Caprara, Antonio Carioti, Marco Imarisio, Federico Fubini, Aldo Grasso, Giangiacomo Schiavi, Paolo Valentino del 1 gennaio 2018 su Il Corriere della Sera.

1949-Troppo forte per invecchiare. Il Grande Torino entra nel mito. Toccò a Dino Buzzati raccontare per il Corriere la tragedia del Grande Torino: «Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell’apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17.05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. Non c’erano turisti, pellegrini, non una coppia di sposi in viaggio di nozze». La squadra più forte del mondo, «troppo meravigliosa per invecchiare» decise di entrare nella leggenda, e lasciare noi nella disperazione, in un piovoso pomeriggio di settant’anni fa, schiantandosi sulla collina della città che la idolatrava. Per anni ho conservato la copertina della Domenica del Corriere, 15 maggio 1949, che mio padre aveva sfogliato mille volte con amore. L’illustrazione di Walter Molino, da colori tenui e rispettosi, raffigurava un aereo che s’infrange contro un terrapieno; s’intravede appena la cupola dello Juvarra. Il disegno è attraversato da un nembo, un bagliore sinistro che scende dal cielo giusto per illuminare una didascalia: «Il tragico urto contro un muro della Basilica, a Superga, dell’aeroplano che riportava in Patria i calciatori del Torino e i loro accompagnatori». E più sotto, accanto alla data del disastro, 4-5-1949: «Sciagura di inaudite proporzioni; ma, rapito così in piena gloria, senza decadenza né sconfitta, il Torino resta ora invitto per sempre nella memoria». Quella magica squadra (una formazione da ripetere come un mantra: bacigalupo/ballarin/maroso/grezar/rigamonti/castigliano/menti/loik/gabetto/mazzola/ossola), emana ancora una forza prodigiosa perché le figure del mito vivono molte vite e molte morti: è la forza di ciò che ci allontana dal quotidiano e scuote di emozioni il nostro cuore (Aldo Grasso)

1959-Il dittatore Batista in fuga. Cambio di regime all’Avana. Era il 1° gennaio 1959, sessant’anni fa, quando il dittatore cubano Fulgencio Batista, personaggio corrotto e legato al crimine organizzato, fuggì dall’Avana, lasciando campo libero alla guerriglia capeggiata da Fidel Castro. Il leader della rivoluzione aveva guidato il fallito attacco alla caserma Moncada del 26 luglio 1953, era stato imprigionato, poi amnistiato e costretto all’esilio in Messico. Quindi era sbarcato sull’isola nel 1956 a bordo della nave Granma con pochi compagni (tra i quali suo fratello Raul, l’argentino Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos) e aveva avviato sulla Sierra Maestra la lotta armata conclusa con il disfacimento dell’esercito di Batista. Castro divenne primo ministro nel febbraio 1959 e avviò una politica di riforme economiche egualitarie che lo mise in urto con la borghesia e con gli Stati Uniti, abituati a considerare l’Avana un proprio satellite sin da quando avevano cacciato dall’isola i colonizzatori spagnoli nel 1898. Ben presto Cuba si avvicinò a Mosca, ruppe con Washington e divenne una delle frontiere più calde della guerra fredda. Un’azione di esuli anticastristi appoggiati dalla Cia venne sgominata alla baia dei Porci nell’aprile del 1961. E si sfiorò la guerra mondiale quando i sovietici installarono sull’isola missili atomici (poi ritirati) nel 1962. Sul piano interno Castro, capo carismatico quanto autoritario, eliminò tutti gli oppositori (spesso suoi ex compagni) e instaurò una dittatura comunista filosovietica con forti venature nazionaliste e terzomondiste, in contrapposizione all’«imperialismo nordamericano». Proprio il richiamo all’orgoglio patriottico del resto ha permesso al regime cubano di superare la crisi provocata dalla caduta dell’Urss e di sopravvivere tuttora, a oltre due anni dalla morte del suo fondatore. (Antonio Carioti)

1969-Il gigantesco balzo dell’umanità sulla Luna. Che emozione quella notte di cinquant’anni fa. Era il 20 luglio 1969 e un’immagine sbiadita in bianco e nero arrivava sui nostri televisori mostrandoci in diretta il primo passo dell’uomo su un altro corpo celeste. Neil Armstrong, 38 anni e superpilota di jet, scendeva dalla navicella Aquila camminando sulla Luna nel Mare della tranquillità accompagnato da Edwin Aldrin. Milioni di persone erano testimoni nei cinque continenti e papa Paolo VI guardava l’arrivo degli esploratori celesti dell’Apollo 11 da Castel Gandolfo. Molti storici ripetono che del XX secolo solo lo sbarco sulla Luna rimarrà a significare una vera conquista della nostra specie. Le parole pronunciate da Armstrong, stringate come nel suo stile, dicevano tutto: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo dell’umanità». «Noi ci andiamo perché è difficile», diceva il presidente americano John Fitzgerald Kennedy annunciando l’impresa nata per ristabilire una superiorità politica e militare degli Usa perduta dopo che l’Unione Sovietica aveva dimostrato la capacità di lanciare nello spazio lo Sputnik e poi Yuri Gagarin e di portare anche una minaccia senza limiti proprio dal cosmo. La Nasa, sull’onda del successo, proponeva balzi ancora più ardui, come il viaggio su Marte. Ma le vicende della Terra, dalla guerra in Vietnam alle crisi energetiche, affievolirono l’entusiasmo. Si riuscì solo a costruire lo Shuttle e la stazione spaziale, embrione prezioso di future collaborazioni verso altri pianeti. Ma l’anniversario della notte della Luna, con Tito Stagno in tv che trasmetteva l’evento, ora ha un significato diverso. Perché alla Nasa negli Usa e pure in Cina e in Russia ci si prepara a un ritorno sulle sabbie seleniche; per rimanerci questa volta, e imparare lassù come lanciarsi poi nel nuovo grande balzo, verso Marte. (Giovanni Caprara)

1979-Ambrosoli, l’eroe borghese che vive ancora. È la notte dell’11 luglio 1979 quando l’avvocato Giorgio Ambrosoli paga con la vita i suoi no a un certo modo di fare finanza, a un certo modo di fare politica, a un certo modo di fare economia. Nel buio di via Morozzo della Rocca, a Milano, insieme ai bossoli di una 357 Magnum, resta sull’asfalto il coraggio di un uomo solo, di quelli che contraddicono la società in cui vivono, i suoi vizi e le sue paure. Era un avvocato serio, intransigente, il commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona. Da cinque anni lavorava sui conti truccati del finanziere siciliano alleato di mafiosi, massoni, ministri, generali e cardinali. Aveva scoperchiato intrecci occulti, speculazioni, finanziamenti sporchi, benedetti dalle istituzioni finanziarie e coperti dalla politica. Sapeva di essere in pericolo. Ma aveva cancellato dal suo codice le parole compromesso e accomodamento, cosciente di quel che faceva, in nome dell’onestà e della legge, ha scritto Corrado Stajano nel memorabile libro sul delitto Ambrosoli, intitolato L’eroe borghese, quasi un ossimoro in un Paese costretto a definire eroe chi fa il proprio dovere. Assassinato dalla mafia, da un killer venuto dall’America su mandato di Sindona, l’avvocato Ambrosoli è il simbolo di quella resistenza civile che si oppone a ogni malaffare. In un anno tremendo, avvolto da altre tenebre che si chiamano terrorismo, Brigate rosse, piste nere, P2, collusioni infami, il suo nome è una eccezione luminosa che evoca un’altra Italia, più civile, onesta, perbene. Ai funerali di un servitore dello Stato e della legge non ci sono uomini delle istituzioni: Andreotti dirà che un po’ se l’è cercata. Ma quarant’anni dopo quella morte annunciata Ambrosoli vive nelle piazze, nelle strade e nelle scuole: è una bandiera civile da alzare con orgoglio, la bandiera dell’onestà e della democrazia. (Giangiacomo Schiavi)

1989-Il crollo del Muro al via dopo quell’annuncio surreale. Nella sua fenomenologia, fu un plastico esempio di quelli che Stefan Zweig definì «momenti fatali». L’annuncio in apparenza burocratico di Günter Schabowski: «Non c’è più bisogno di visti per passare i posti di confine». La domanda di un giornalista italiano, Riccardo Ehrman: «Da quando è in vigore la misura?». La risposta surreale, dopo uno sguardo distratto a un foglio già gettato via: «Per quanto ne so, da subito». Il Muro di Berlino crollò così, in quella sera del 9 novembre 1989, quando i fratelli separati dell’Est attraversarono il confine della vergogna a piedi o a bordo delle loro Trabant e i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». Nell’autunno prossimo saranno trascorsi trent’anni dalla data che pose fine in anticipo al «secolo breve» e cambiò la storia del mondo. Con il Muro caddero le dittature del socialismo reale, si frantumò l’Unione Sovietica, finì la Guerra Fredda, cessò l’equilibrio del terrore, l’Europa allargò i suoi confini verso Est, nacque la moneta unica, mentre il dividendo della pace ci regalò il world wide web, rampa di lancio della globalizzazione. Finì una Storia. Ne cominciò un’altra per la quale non eravamo affatto preparati, privi di un paradigma per affrontarla, tranne l’illusione non priva di arroganza che il sistema liberal-democratico, rimasto senza nemico, avrebbe finito per imporsi in tutto il pianeta. Ma la fine del mondo bipolare, odioso, ma prevedibile e regolato, ha aperto la scena globale a protagonisti nuovi e antichi, segnando il ritorno prepotente della geopolitica negli affari internazionali. Sono emersi i modelli autoritari, è risorto il nazionalismo, sono tornati di moda gli uomini forti, in una frantumazione che comincia ad assomigliare al caos globale. Il Muro non ci manca. Ma non era questo il mondo che avevamo sognato. (Paolo Valentino)

1999-L’euro, tra successo e entusiasmo superficiale. La fine del viaggio in realtà era l’inizio, ma allora pochi se ne resero conto. Visto vent’anni dopo, l’ingresso dell’Italia nell’euro nel 1999 non sembra essere stato l’errore che alcuni descrivono: non è chiaro che abbia danneggiato l’export o che sia stata quella scelta a erodere il potere d’acquisto degli italiani. Anche se oggi pochi ci pensano, l’euro ha contribuito a estirpare l’inflazione che falcidiava i redditi dei ceti medi dipendenti e dei pensionati: correva al 10 per cento ancora a metà dei «mitici» anni ’80, al 6 per cento all’inizio dei primi anni ’90, ma è rimasta in media dell’1,7 per cento negli ultimi vent’anni. Né si può dire che l’euro abbia frenato l’export: il made in Italy è salito dal 17 per cento del Pil di inizio di quegli anni ’90 oggi avvolti dalla nostalgia, al 23 per cento del ’99, al 29 per cento attuale. Ma se i vent’anni nell’euro per l’Italia restano un anniversario agrodolce, forse è proprio per come iniziarono. Lo sforzo di ridurre il deficit dal 7 per cento al 3 per cento del Pil in un solo anno per entrare fu vissuto come una sfida nazionale: allora l’85 per cento degli italiani voleva l’euro. Quell’impegno consumò talmente tanta energia (chi dimentica l’eurotassa?) che si trasformò in una trappola cognitiva: compiuta la missione, noi italiani ci illudemmo che non restasse che coglierne i frutti. Sottovalutammo che quello era solo l’inizio della trasformazione necessaria a vivere sui mercati globali. Prevalse l’entusiasmo, ma superficiale. Proprio come oggi prevale un cinismo altrettanto superficiale. (Federico Fubini)

2009-Ore 3.32, la scossa più devastante: L’Aquila e le bare. Eravamo tornati a letto tranquilli. Quella notte a Roma la gente scese in strada, poi risalì e accese la televisione. Dicevano che l’epicentro era dalle parti dell’Aquila, la scossa più forte era arrivata alle 3.32, magnitudo 6.3, ma sembrava che non fosse nulla di grave, «al momento non sono rilevati danni a persone o cose». Ci volle poco per sapere che non era così. Ci sarebbero voluti giorni per contare tutti i morti, che alla fine furono 309. Le tre camerate ai lati della caserma Giudice chiudevano la piazza d’armi dove si svolsero i funerali solenni delle vittime, e impedivano così la vista delle macerie che erano ovunque. Le prime due file davanti al cardinal Bertone erano composte solo da bare bianche. Sono passati appena dieci anni, ma sembra un secolo. In quel 2009 il G8 che doveva svolgersi alla Maddalena si tenne invece nella città abruzzese. Le foto di Silvio Berlusconi e Barack Obama a braccetto sono ormai ricordi sbiaditi. Lo sforzo per aiutare i luoghi colpiti dal disastro c’è stato, questo è innegabile. Finora sono stati stanziati ventuno miliardi di euro, quasi una finanziaria. Tutte le abitazioni private sono state ricostruite con denaro pubblico. La riedificazione delle strutture pubbliche procede più lentamente e si concluderà nel 2027, con 107 edifici ancora in fase di progettazione. Per quanto criticate, le cosiddette «New Town» hanno assolto al loro compito, anche se adesso non ne è chiaro il destino, troppo pesanti per essere demolite, troppo fragili per viverci senza disagi. La ricostruzione del centro storico, completamente distrutto, è in gravissimo ritardo. Forse il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila dovrebbe farci soprattutto riflettere su questa nostra eterna propensione a metterci dapprima il cuore, per poi distrarci, passare ad altro. E lasciare la cose a metà, quando va bene. (Marco Imarisio)

Gli anniversari del 2019: sbarco sulla Luna, morte di Leonardo, strage di piazza Fontana. 80 anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, 100 dalla nascita di Salinger e Giulio Andreotti, 90 da quella di Martin Luther King. 20 anni dalla morte di De André e Kubrick, scrive Paolo Fallai il 27 dicembre 2018 su Il Corriere della Sera.

«Ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi». Celebrare le ricorrenze è uno dei modi adottati dall’uomo per esorcizzare il passare del tempo e ridimensionare la morte. Gli anniversari servono soprattutto a fornire un’agenda che ci consente di non dimenticare persone che hanno fatto parte della nostra storia e avvenimenti straordinari che l’hanno condizionata. Nel 2019 sono molte le ricorrenze di grande importanza, a cominciare dai 50 anni dello sbarco del primo uomo sulla Luna, ai 500 dalla morte di Leonardo da Vinci. Questa carrellata non ha alcuna pretesa di essere esaustiva, ognuno può aggiungere una ricorrenza che qui non è menzionata. Abbiamo privilegiato quelle principali, i 50 anni (come quelli trascorsi dalla strage di Piazza Fontana o dal concerto di Woodstock) o i 100 anni (dalla nascita di Salinger e Giulio Andreotti o dalla morte di Theodore Roosevelt e Rosa Luxemburg). Le altre sono scelte soggettive, come gli 80 anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale o i 90 anni dalla nascita di Martin Luther King, i 100 da quella di Primo Levi o i 70 dalla nascita di John Belushi. Fino ai 37 anni trascorsi dall’uscita nelle sale del film «Blade Runner» di Ridley Scott: considerato tra i capolavori della fantascienza era ambientato in un futuro spaventoso...nel 2019. Eccoci, siamo arrivati: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi...»

Leonardo da Vinci, 500 anni dalla morte. Italia e Francia promettono centinaia di appuntamenti per celebrare i 500 anni dalla scomparsa di Leonardo Da Vinci, nato ad Anchiano presso Vinci il 15 aprile 1452 e morto il 2 maggio 1519 nel castello di Amboise in Francia. Fu qui, in questa valle sulle rive della Loira che il genio toscano si trasferì nel 1516, su invito di Francesco I, portando con sé opere come La Gioconda e il San Giovanni Battista oggi conservate al Museo del Louvre. Ed è sempre qui che Leonardo è sepolto nel castello di Clos-Lucè. Artista, ingegnere, scienziato, le definizioni di Leonardo raramente riescono a comprendere tutti gli aspetti del suo genio. Figlio illegittimo del notaio ser Piero, dal 1469 si stabilì a Firenze, dove nel 1472 era già iscritto alla Compagnia dei Pittori. Nel 1476, anno in cui fu prosciolto da un’accusa di sodomia, era con Andrea del Verrocchio di cui era stato scolaro per quattro anni; ma doveva interessarsi anche alla scuola dei Pollaiolo, particolarmente per le ricerche anatomiche che vi si conducevano. Dal 1482 è a Milano alla corte di Ludovico il Moro, inviatovi, secondo alcune fonti, in qualità di musico da Lorenzo il Magnifico; ma in una sua lettera al Moro, Leonardo si dichiarava capace di inventare e costruire congegni bellici, di progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere. E’ uno dei primi curriculum vitae della storia, redatto per ottenere un impiego. A Milano egli svolse intensa attività di pittore, lavorò a un monumento per Francesco Sforza, allestì apparati per feste e fu scenografo, ingegnere militare, consultato per problemi di architettura. Questo periodo fu il più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito. In particolare Leonardo poté approfondire i propri studi scientifici e intraprenderne di nuovi, nel campo sia della fisica sia delle scienze naturali. Tra le prime opere pittoriche di questo periodo «La dama con l’ermellino» e «La Vergine delle rocce». Seconda grande opera pittorica del periodo milanese è il «L’ultima cena» nel refettorio di S. Maria delle Grazie, purtroppo giunto a noi in stato alterato dai molteplici e talora impropri interventi di consolidamento del colore, poiché era stato dipinto da Leonardo a tempera. Un restauro condotto a partire dal 1979 (durato 12 anni) ha cercato di liberare l’opera dalle varie ridipinture e ha posto come condizione primaria per la sopravvivenza del dipinto la climatizzazione dell’ambiente. Nel 1500 Leonardo fu nuovamente a Firenze, dove gli fu commissionato da Pier Soderini il David, poi affidato a Michelangelo, e compose un primo cartone per «S. Anna, la Vergine e il Bambino». Nel 1503, ebbe incarico di dipingere, su una parete della sala del Maggior Consiglio, un episodio della Battaglia d’Anghiari (sulla parete opposta Michelangelo doveva affrescare la Battaglia di Cascina). Anche qui Leonardo tentò di affrontare un problema tecnico, con l’intento di restaurare l’antico procedimento dell’encausto, convinto che la tecnica tradizionale dell’affresco non gli avrebbe concesso gli effetti di profondità delle ombre, di sfumato e di luce che egli si proponeva. Ma il risultato fu disastroso e abbandonò la pittura appena iniziata. Tra gli studi per la Battaglia d’Anghiari, quello conservato nella Biblioteca Reale di Windsor ci mostra come L. intendesse servirsi delle scatenate forze della natura per esprimere la battaglia. Forse L. eseguì in quel tempo il ritratto che va sotto il nome di Gioconda (la scoperta di un documento del 1525 permette di stabilire che si tratta del ritratto di Monna Lisa del Giocondo, come scritto da Vasari). Al celebre vago sorriso (un moto psichico colto al suo primo manifestarsi prima che divenga più determinato) s’accorda il velato paese, che dell’immagine è il commento ed eco nella mutabilità delle ombre, nelle brume che ci sottraggono le linee dei contorni; il paesaggio affonda di grado in grado in un tenebrore azzurrognolo di acque e cielo. L’attività artistica di Leonardo durante il secondo periodo milanese (1507 circa) rimane pressoché oscura. Leonardo partì da Milano il 24 settembre 1513, invitato da Giuliano de’ Medici, fratello di quel Giovanni che era stato appena eletto papa col nome di Leone X. Giunse nella Città Eterna poco prima di Natale. Vi rimase fino alla seconda metà del 1516, quando, sentendosi escluso dalle grandi opere che fervevano all’epoca nell’Urbe, emigrò in Francia al servizio di Francesco I. Risale proprio a questo periodo, tra il 1515 e il 1516, il disegno a sanguigna, che reca in basso la sua firma e la scritta «Ritratto di lui stesso assai vechio». Durante il soggiorno in Francia Leonardo compì il S. Giovanni Battista e terminò la S. Anna (entrambi al Louvre).

L’autore del giovane Holden compie 100 anni. Era nato a New York il 1 gennaio 1919, Jerome David Salinger, il grande «recluso» della letteratura americana, figlio di Sol Salinger, un ebreo di origini polacche che operava nel commercio di carni, e di Marie Jillich, di origini metà scozzesi e metà irlandesi. Quando si sposarono, la madre di Salinger cambiò il proprio nome in Miriam e si convertì all’ ebraismo. E’ morto nella sua casa di Cornish in New Hampshire, il 27 gennaio 2010. L’opera che lo ha consacrato «Il giovane Holden» («The Catcher in the Rye»), manifesto della ribellione giovanile da generazioni, esce nel 1951 e riscuote un immediato successo, anche se le prime reazioni della critica furono negative. Avventuroso anche il suo arrivo in Italia. Nel ‘ 52 la prima traduzione italiana si intitolava «Vita da uomo», con la traduzione di Jacopo Darca, venne pubblicata dal piccolo editore romano Gherardo Casini con un sottotitolo che si chiedeva «Un libro scandaloso o profondamente morale?». Il successo però sarebbe arrivato solo nove anni più tardi, con la traduzione di Adriana Motti nei Supercoralli Einaudi. Dopo la pubblicazione di Nove Racconti nel 1953, J. D. Salinger si ritira a vita privata difendendo la propria privacy con un’ostinazione quasi patologica, sino a raggiungere un isolamento da eremita. Il suo ultimo racconto venne pubblicato sul New Yorker nel 1965. L’ultima intervista è del 1974. Da allora le notizie su di lui si fanno frammentarie e contraddittorie. Di certo si sa che ha collezionato ben tre mogli, che le indiscrezioni sui suoi misteriosi inediti si sono rincorse per decenni e non si sono placate neanche con la sua morte. Ta le infinite notizie pubblicate su di lui, il New York Times rivelò una lettera con una gustosa notazione su un viaggio in Europa che Salinger compì nel 1994, sulle tracce di Kafka: salvo poi confidare all’ amico di essere sollevato all’ idea che lo scrittore non potesse assistere alla trasformazione della sua casa praghese, così scrive Salinger, in «una trappola per turisti».

Fabrizio De André ci manca da 20 anni. Fabrizio De André ha lasciato un’impronta indimenticabile nella musica del nostro tempo, durante quattro decenni di carriera artistica e continuando a collezionare la passione di generazioni dopo che lui se n’era già andato. Nato a Genova nel 1940 è morto a Milano l’11 gennaio 1999, ci ha lasciato 14 album registrati in studio oltre a una serie di singoli. Dall’esordio nel 1961 con brani come La ballata del Michè, alle prime raccolte, Volume I e Volume III, a Non al denaro non all’amore né al cielo, del 1971, che precede dio soli due anni Storia di un impiegato (1973). Nel 1984 pubblica l’album di omaggio alla lingua genovese Crêuza de mä, in collaborazione con Mauro Pagani. Nel 1990 esce «Nuvole». Dopo la sua morte Indro Montanelli scrisse nella pagina delle lettere che curava per il Corriere della Sera: «Consapevolmente o no, De André è stato uno dei migliori interpreti di un mondo e di una società, non soltanto italiana, che hanno perso il senso e la misura dei valori - o almeno di quelli che noi abbiamo sempre considerato tali - e li ha sostituiti col culto dell’Effimero. Non è colpa di De André, ammesso che di colpa si possa parlare, più colpa del momento in cui De André è nato e vissuto, e che oltre il “momento” non va». Molti anni dopo Ivano Fossati, che con De André ha condiviso una lunga amicizia e progetti musicali comuni, tra cui l’ultimo album «Anime salve», ricordava: «Ero stato un suo ammiratore molto prima che un suo amico. A poco più di vent’ anni avevo letteralmente consumato sul piatto del giradischi «Non al denaro, non all’ amore, né al cielo» e «Storia di un impiegato». Tenevo in considerazione quei due album al pari di quelli di Jimi Hendrix o degli Stones. Nessuna differenza. Come se la musica di Fabrizio fosse arrivata anch’essa dall’ America, da Plutone o da un pianeta ancora più lontano, sul quale fosse lecito scrivere canzoni in italiano. L’ eroe che aveva tradotto in musica «Spoon River», allontanandola dalla noia delle antologie scolastiche lo conoscevo già».

Anna Frank quest’anno ne avrebbe 90. Era nata a Francoforte sul Meno il 12 giugno 1929 Annelies Marie Frank, detta Anne una piccola ebrea di quindici anni che disarmò il Führer per l’eternità. Il 4 agosto 1944, alle undici del mattino una macchina scura si fermò a metà del Prinsengracht, il canale più esteso di Amsterdam. Scesero alcuni uomini in divisa e si diressero al civico 263, un edificio stretto che ospitava la ditta alimentare Gies&Co. Fecero irruzione e chiesero al personale di condurli al secondo piano, sede degli uffici. Proseguirono da soli verso un pianerottolo che finiva con uno scaffale stipato di schedari. Uno degli uomini in divisa, il sottufficiale delle SS Karl Josef Silberbauer, domandò al titolare della Gies&Co. cosa ci fosse dietro agli schedari. Non ottenne risposta. Chiese ancora, stavolta gridò, nessuno rispose. Andò lui stesso allo scaffale e lo sradicò dalla parete, rivelando l’entrata che collegava l’edificio a una casa sul retro. Era l’Alloggio Segreto che per due anni aveva nascosto otto ebrei, compresa lei: la quindicenne Anne Marie Frank. Furono tutti arrestati tranne le due segretarie e benefattrici, Miep Gies e Bep Voskuijl, che ebbero il tempo di cambiare la storia. Dopo che gli uomini armati uscirono assieme ai prigionieri, prima del ritorno di altre SS, riuscirono a entrare nell’Alloggio e impossessarsi di un quaderno con la copertina rossa e di altri taccuini che la piccola ebrea aveva scritto in quei mesi di clandestinità. I diari di Anne Frank, lo scacco matto ad Adolf Hitler. Anna Frank è morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen nei primi mesi del 1945.

Woodstock, 50 anni dal concerto del secolo. Il festival di Woodstock si svolse a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto del 1969. Vi si riferisce spesso con l’espressione 3 Days of Peace & Rock Music, «tre giorni di pace e musica rock». Prende il nome dalla vicina città di Woodstock, nella contea di Ulster. Impossibile calcolare il numero dei partecipanti, da un minimo di 400.000 a un milione di persone, per lo più giovani e giovanissimi. Il concerto cominciò venerdì 15 alle 17 con le esibizioni folk (in scaletta Arlo Guthrie e Joan Baez) ma si concluse solo il lunedì, cioè un giorno più del previsto, con l’esibizione di Jimi Hendrix. Nel frattempo erano saliti sul palco, tra gli altri, Santana, Janis Joplin & The Kozmic Blues Band, Greateful Dead, The Who, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Crosby, Still, Nash & Young. I Beatles si stavano sciogliendo, ma gli organizzatori invitarono John Lennon che chiese di estendere l’invito alla band di Yoko Ono, ma non se ne fece nulla. Si tirò indietro anche Bob Dylan, mentre i Doors avevano annullato tutti i concerti dopo le accuse di droga e oscenità rivolte a Jim Morrison. Sul festival esistono molte testimonianze fotografiche e video. Due i film principali: «Motel Woodstock» di Ang Lee (2009) e «Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica» girato nei giorni del festival e uscito nel 1970. Cosi racconta l’ultimo giorno: Sono le 8.30 del mattino del 18 agosto 1969. A Woodstock, dopo un diluvio universale che ha reso l’area del Festival un enorme acquitrino, ci sono ancora poche decine di migliaia di fans. Attendono che quella «tre giorni di pace e amore» venga chiusa da Jimi Hendrix, il più leggendario e talentuoso chitarrista della storia del rock. Con lui, un gruppo formato poche settimane prima. Il presentatore prende una topica storica nell’annunciare il concerto della «Jimi Hendrix Experience», il trio che lo stesso Hendrix aveva già sciolto. In realtà la formazione si chiama Gipsy Sun and Rainbows. Alla batteria c’è Mitch Mitchell, al basso Billy Cox, alla chitarra ritmica Larry Lee, alle congas, Jerry Velez e Juma Sultan. Le cineprese di Michael Wadleigh riprendono tutto.

Seconda guerra mondiale, 80 anni fa la deflagrazione. Con l’attacco della Germania nazista alla Polonia, il 1° settembre 1939 ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. Un conflitto destinato a durare sei anni e che ha visto contrapporsi le forze degli Alleati (Regno Unito, comprese India, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Canada, Francia. Unione Sovietica dal 22giugno 1941, Stati Uniti d’America, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941) e le cosiddette «Potenze dell’Asse» (Germania, Italia, dal 1940 al 1943, e Giappone dal 1941). Il conflitto ha provocato un numero spaventoso di morti, si calcola tra 55 e 60 milioni, e si è concluso con la vittoria degli Alleati, in Europa l’8 maggio 1945 dopo la resa della Germania, e in Asia nel settembre successivo con la resa dell’Impero giapponese dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. La guerra ha visto un coinvolgimento senza precedenti della popolazione civile nel conflitto, con bombardamenti a tappeto sulle città, rappresaglie e sterminio pianificato. La deportazione è stata adottata dal Terza Reich tedesco per annientare gli ebrei (l’Olocausto ha causato la morte di quasi sei milioni di persone) e tutte le persone che i nazisti dichiaravano indesiderabili, come intere popolazioni slave, zingari, oppositori politici e in generale tutti coloro venivano considerati nemici della «razza ariana». Il fascismo si schierò a fianco delle potenze dell’Asse fino al 1943, quando cominciò la liberazione del paese da parte delle forze alleate e si sviluppò una guerra civile di Resistenza contro i nazifascisti. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo depose Benito Mussolini che venne arrestato. Liberato dai nazisti fuggì al Nord, nei territori occupati dai tedeschi dove dette vita alla breve esperienza della Repubblica di Salò. L’8 settembre il Capo del governo italiano Pietro Badoglio annunciò l’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, firmato con gli anglo-americani il giorno 3 dello stesso mese. Il Re Vittorio Emanuele III e il governo fuggirono da Roma alla volta di Bari dove nacque il Regno del Sud. Da quel momento l’Italia era occupata dai nazisti da nord fino a Roma e Napoli, mentre da sud risalivano le truppe alleate, sostenute dalla Resistenza. La Capitale sarebbe stata liberata solo il 4 giugno 1944, Firenze l’11 agosto, mentre la Linea Gotica fu superata solo nell’aprile 1945, quando l’offensiva finale alleata permise di raggiungere la pianura Padana. Il 25 aprile è ufficialmente una delle festività civili della Repubblica italiana, scelta per ricordare la fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista e della Seconda guerra mondiale. La data del 25 aprile venne stabilita ufficialmente nel 1949, e fu scelta convenzionalmente perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, ma la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio. Il 2 maggio 1945 la pressione di alleati e partigiani costrinse alla resa le forze tedesche in Italia.

Musica: 150 anni dalla morte di Hector Berlioz. Hector Berlioz (La Côte-Saint-André, 11 dicembre 1803 – Parigi, 8 marzo 1869) è stato un compositore francese. Figlio di un medico venne inviato dal padre per seguire gli studi di medicina a Parigi, dove però nel 1826 riuscì a farsi ammettere alla Scuola reale di Musica e dove nel 1830, dopo numerosi tentativi, si aggiudica il grande concorso di composizione «Prix de Rome». Berlioz ebbe amici nell’ambiente musicale, ma anche profondi contrasti: Cherubini non lo stimava. Strinse amicizia con Franz Liszt, Fryderyk Chopin e Camille Saint-Saëns; conobbe in tarda età Richard Wagner ma con lui ruppe quasi subito i rapporti. Conobbe anche Johann Strauss e assistette personalmente ad alcuni suoi concerti. Fu un grande ammiratore delle sinfonie di Beethoven.Berlioz. Era, un uomo di profonda cultura, per leggere Shakespeare in originale studiò l’inglese, e un latinista, oltre che un grandissimo scrittore. Tra le sue opere principali la «Messe solennelle», la «Symphonie fantastique», un lavoro che gli regalerà notorietà e fama, la cantata «Sardanapale» che gli permetterà di vincere il «Prix de Rome» e quindi di passare un periodo ospite dell’Accademia di Francia a Roma. Durante il soggiorno italiano Berlioz visita Pompei, Napoli, Milano, Tivoli, Firenze, Torino e Genova; torna a Parigi nel novembre del 1832. Compone in questo periodo la sinfonia Aroldo, poi Romeo e Giulietta e la sinfonia funebre realizzata a seguito dell’inaugurazione della colonna in Piazza della Bastiglia. Nel 1833 si sposa con Harriet Smithson. Malgrado le incomprensioni linguistiche la storia procede e l’anno successivo nasce il loro unico figlio. Nella sua carriera registra solo un grande fallimento, nel 1838, con l’opera Benvenuto Cellini. Nel 1846 Berlioz adatta il libretto della Dannazione del Faust. Nel 1856 iniziò la composizione di Les Troyens. Nel 1861 lavora alla sua ultima opera, «Béatrice et Bénédict», basata su “Molto Rumore per Nulla” di Shakespeare. Muore l’8 Marzo 1869 nella sua casa di Parigi e viene sepolto nel Cimitero di Montmartre.

50 anni dalla morte di Theodore Adorno, sociologo, filosofo, studioso del pensiero e della musica. E’ difficile costringere Theodore Adorno in una particolare categoria di studioso. Nato a Francoforte nel 1903, accademico tedesco, si distinse per una critica radicale alla società e al capitalismo avanzato. Oltre ai testi di carattere sociologico, nella sua opera sono presenti scritti filosofici inerenti alla morale e all’estetica, nonché studi critici su Hegel, Husserl e Heidegger. Alla riflessione filosofica affiancò per tutta la sua esistenza un’imponente attività musicologica, aveva studiato a lungo pianoforte e ha vissuto a Vienna dove conosce Arnold Schönberg e studia composizione con Alban Berg. Tornato a Francoforte all’inizio degli anni Trenta prende contatto con l’Istituto per la ricerca sociale, allora diretto da Carl Grünberg, storico del movimento operaio. A Berlino frequenta circoli marxisti alternativi conoscendo Ernst Bloch, Bertolt Brecht e Kurt Weil. Nel ‘31 consegue l’abilitazione all’insegnamento con un saggio su Kierkegaard. Costretto dal nazismo a lasciare la Germania si trasferisce a New York. Tornerà dopo la fine della seconda guerra mondiale, per assumere la cattedra di sociologia a Francoforte. Tra i suoi testi considerati fondamentali «Minima moralia»: «La libertà - scrive - non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta». Nel ‘66 pubblica Dialettica negativa. Nel 1969, in un semestre in cui le lezioni sono interrotte da occupazioni e disordini, si rivolse alla polizia perché sgombrasse un’occupazione nei locali dell’Istituto per la Ricerca Sociale, di cui all’epoca era direttore. Il 6 agosto, dello stesso anno durante una vacanza in Svizzera, Adorno muore per un attacco di cuore.

90 anni dalla nascita di Martin Luther King. Ci sono personaggi ormai entrati in un pantheon storico che ce li fa sembrare lontanissimi, eppure fanno parte del nostro tempo. Uno dei più importanti è Martin Luther King, Premio Nobel per la pace nel 1964: era nato ad Atlanta, capitale della Georgia nel sud degli Stati Uniti, il 15 gennaio 1929. Pastore protestante, politico e attivista statunitense, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, venne ucciso a Memphis, il 4 aprile 1968. Appassionato studioso di Gandhi, King fu un convinto assertore della protesta non violenta, difensore degli emarginati, “redentore dalla faccia nera”, ha combattuto ogni sorta di pregiudizio etnico. Il 28 agosto 1963 a Washington, aveva tenuto un discorso che non sarebbe più stato dimenticato: «I have a dream...» «Io ho un sogno...». «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Sogno che un giorno, giù nell’ Alabama, i ragazzine e le ragazzine nere potranno tenersi per mano con i ragazzini e le ragazzine bianche, come fratelli e sorelle. Ho un sogno, oggi, che un giorno ogni valle sarà riempita, e ogni collina innalzata, e ogni montagna abbassata, e che i posti scoscesi vengano trasformati in pianure e quelli tortuosi raddrizzati, e che la gloria di Dio possa essere rivelata e che ogni carne umana possa esserne testimone. Questa è la nostra speranza. Questa è la fede con cui io ritorno nel Sud. Con questa fede, noi riusciremo a cavar fuori dalla montagna dalla disperazione un sassolino di speranza». Pochi giorni dopo la morte di Martin Luther King, John Conyers (rappresentante democratico del Michigan della Camera dei Deputati) propose un giorno in suo onore, ma la proposta non venne accolta. Conyers e Shirley Chisholm proposero ad ogni seduta del congresso tale idea, per 15 anni consecutivi, a partire dal 1978 si organizzarono delle marce in favore del festeggiamento del leader dei diritti civili. Alla fine, nel 1983 con 338 voti contro 90 alla camera, e 78 contro 22 al senato, la proposta divenne legge.Il Presidente Ronald Reagan firmò l’istituzione della festa nazionale per commemorare Martin Luther King, da celebrarsi il terzo lunedì di gennaio, un giorno vicino cioè al 15 gennaio, giorno della sua nascita.

Giovanni Falcone avrebbe 80 anni. Oggi è considerato uno dei simboli della lotta alla mafia, ma non ebbe un consenso altrettanto unanime in vita: Giovanni Falcone era nato a Palermo il 18 maggio 1939, ottanta anni fa. Venne ucciso in un attentato di mafia il 23 maggio 1992, quando cinquecento chili di tritolo fanno saltare in aria l’auto su cui viaggiava nei pressi di Capaci, vicino Palermo, insieme alla moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Dopo gli studi di giurisprudenza, vince il concorso in magistratura e nel 1964 diviene pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimane per circa dodici anni. Dopo l’attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare a Palermo presso l’Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro Rosario Spatola, un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che vide il procuratore Gaetano Costa - ucciso nell’agosto successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici, a capo del team di magistrati di cui fanno parte Falcone e Paolo Borsellino, viene ucciso con un’auto-bomba in via Pipitone; lo sostituisce Antonino Caponnetto, il quale riprende l’intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Si rafforza così quello che verrà chiamato «pool antimafia», sul modello delle équipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Oltre lo stesso Falcone e Borsellino, che aveva condotto l’inchiesta sull’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile nel 1980, del gruppo fecero parte i giudici Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Cosa nostra fece terra bruciata attorno ai magistrati italiani: dopo l’omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell’estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e di Paolo Borsellino, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara; per tale periodo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese per il soggiorno trascorso. Qui i due magistrati portarono a termine l’istruttoria che condusse al primo grande processo contro la mafia in Italia, passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo, che iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia. Caponnetto si apprestava a lasciare l’incarico per tornare nella sua Toscana in vista della pensione, e per la sua sostituzione si trovarono a confronto candidati Falcone e Antonino Meli, magistrato più anziano ma con nessuna esperienza in materia di mafia. Il 19 gennaio 1988, dopo una contrastata votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva. I contrasti all’interno della magistratura si fanno più aspri e nel 1991 Giovanni Falcone accoglie l’invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, che aveva assunto l’interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l’onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Viene istituita nel novembre del 1991 la Direzione nazionale antimafia, proprio per agevolare il processo di coordinamento delle indagini. La candidatura di Falcone a questi compiti fu ostacolata in seno al CSM, il cui plenum non aveva ancora assunto una decisione definitiva, prima della tragica morte del magistrato. Poche settimane dopo la morte di Falcone un altro attentato mafioso avrebbe ucciso, il 19 luglio 1992 a Palermo, anche Paolo Borsellino assassinato da Cosa nostra assieme ai cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

100 anni dalla nascita di Giulio Andreotti. Senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, grande e spesso enigmatico tessitore della politica italiana di cui è stato enfant prodige (sottosegretario con Alcide De Gasperi a soli 28 anni), Giulio Andreotti era nato a Roma il 14 gennaio del 1919, ed è scomparso il 6 maggio 2013. Ventisette volte ministro della Repubblica (di cui otto volte alla Difesa, cinque agli Esteri, tre alle Partecipazioni statali, due volte ministro delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno, dei Beni culturali e delle Politiche comunitarie) Andreotti ha fatto parte di tutte le assemblee rappresentative fin dalla Costituente. Nell’ ottobre 2011 non rinunciò a sfoggiare la sua consueta ironia smentendo la falsa notizia della sua morte: «Confido in un’ulteriore proroga da parte del Signore». Si laureò a 22 anni in Giurisprudenza. Alla stessa età divenne presidente della Federazione degli universitari cattolici italiani subentrando ad Aldo Moro, che gli aveva affidato la direzione del periodico «Azione Fucina». Fondamentale per il suo percorso politico fu però l’i n c o n t ro con Alcide De Gasperi, fondatore con Guido Gonella della Democrazia cristiana (Dc). Al termine della seconda guerra mondiale Andreotti divenne delegato nazionale dei gruppi giovanili del partito e nel 1945 fece parte della Consulta nazionale. L’anno seguente fu eletto deputato dell’Assemblea costituente. Da allora fu sempre rieletto in tutte le consultazioni politiche. Per due volte è stato eletto parlamentare europeo. Vasta nel corso della sua vita l’attività pubblicistica ed è autore di numerosi libri. Tra le sue disavventure giudiziarie la più nota è il processo per associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d’appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l’organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione] La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.

Domenico il Ghirlandaio nato 570 anni fa. Si chiamava Domenico Bigordi uno dei più importanti pittori del XV secolo. Figlio di Tommaso, orafo in via dell’Ariento (cioè dell’Argento) conquistò fama però con un soprannome, il Ghirlandaio (secondo la leggenda perché inventò le ghirlande in argento per adornare la fronte delle fanciulle fiorentine). Era nato a Firenze l’11 gennaio 1449, 570 anni fa. Fu allievo del pittore Alessio Baldovinetti ma, nella sua formazione artistica e nel primo periodo dell’attività, risentì dello stile dei grandi maestri del suo tempo: Giotto, Masaccio, Andrea del Castagno e Domenico Veneziano. Fatta eccezione per il periodo trascorso a Roma, dove lavorò per papa Sisto IV nella Cappella Sistina, Domenico visse sempre a Firenze (la chiesa S. Trìnita conserva gli affreschi con Storie di S. Francesco e la pala con l’Adorazione dei pastori, 1483-1486). Attento in seguito alle formule del Verrocchio e a quelle del primo Leonardo, si avvicinò anche alla cultura fiamminga. Nella maturità divenne uno dei protagonisti del Rinascimento fiorentino che aveva il suo protettore in Lorenzo de’ Medici e in particolare divenne di fatto il ritrattista ufficiale dell’alta società fiorentina, grazie al suo stile preciso, piacevole e veloce. Nel 1482 cominciò a lavorare all’affresco della Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio, uno dei suoi capolavori. Capo di una nutrita ed efficiente bottega, con i fratelli Davide e Benedetto, in cui mosse i primi passi nel campo dell’arte anche il giovanissimo Michelangelo Buonarroti. Giorgio Vasari nelle Vite gli attribuisce questo giudizio: «Usava dire Domenico la pittura essere il disegno, e la vera pittura per la eternità essere il musaico». Morì l’11 gennaio 1494 per una febbre pestilenziale mentre stava lavorando ad alcuni mosaici per Siena. E’ sepolto a Firenze nella chiesa di Santa Maria Novella.

I 100 anni del maestro Roman Vlad. Roman Vlad, musicista e intellettuale cosmopolita, è morto il 21 settembre 2013 a Roma, la città che, da ragazzo, appena arrivato in Italia, aveva deciso sarebbe stato la sua. Era nato a Cernovtzy, in Bucovina, nel 1919: oggi, quella cittadina si trova in Ucraina. A diciannove anni ottenne un’audizione da Alfredo Casella e diventa suo allievo al Conservatorio di Santa Cecilia, dimostrando verso il maestro una gratitudine mai venuta meno. Nel 1942 la sua Sinfonietta vince il Premio Enescu a Bucarest. È l’inizio di una duplice carriera di compositore e interprete, che presto si distingue per l’attenzione portata alla musica del proprio tempo. Ha scritto di lui il critico Sandro Cappelletto: «Come autore, non è facile racchiudere in uno stile la sua produzione, sensibile anche alle regole della dodecafonia, preoccupata di trovare sempre una propria ragione espressiva, nella strumentazione come nella vocalità. Mai dogmatico, talvolta eclettico, come risulta anche dai numerosi lavori per la scena teatrale. Per il grande coreografo Aurelio Milloss ha composto la musica di sei balletti, tra cui La dama delle camelie». Tra i suoi libri una significativa biografia critica su Stravinskij (1958), che il compositore russo definì «il miglior volume a me dedicato»; e numerose lettere di Stravinskij fanno parte del prezioso fondo da lui recentemente donato alla Fondazione Cini di Venezia, fino al volume autobiografico «Vivere la musica», pubblicato da Einaudi nel 2011. Vlad diventa presto apprezzato divulgatore, in cicli di conversazioni musicali e introduce, nel 1962 per la Rai, la serie di trasmissioni dedicate all’arte pianistica di Benedetti Michelangeli. Con la Rai il rapporto di collaborazione è rimasto sempre intenso, arrivando alla direzione artistica dell’Orchestra di Torino. Innumerevoli gli incarichi avuto come organizzatore musicale: nel 1964 a Firenze è suo il memorabile Maggio Musicale Espressionista; vennero poi la direzione artistica del Teatro alla Scala, la sovrintendenza all’Opera di Roma, la presidenza della Società Aquilana dei Concerti e della S.I.A.E, la direzione artistica dell’Accademia Filarmonica Romana della quale è rimasto fino all’ultimo presidente onorario.

70 anni dalla nascita della Nato. Il trattato istitutivo della NATO, organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, fu firmato a Washington, D.C. il 4 aprile 1949 ed entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno. Venne fondato da Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Usa. Nei tre anni successivi aderirono la Grecia, la Turchia e la Germania federale. L’organizzazione vedeva al suo interno molti Paesi dell’Europa che, al termine della seconda guerra mondiale erano entrati nella sfera di influenza USA, in contrapposizione con quello che si andava delineando come blocco comunista che faceva riferimento all’Unione Sovietica. La filosofia di base del Patto Atlantico è sintetizzata dall’articolo 5 del Trattato, quello sulla “difesa collettiva”: «Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica». Il 14 maggio 1955 nasce il patto di Varsavia, organizzazione militare speculare rispetto al patto Atlantico promossa da Mosca con tutti i paesi comunisti satelliti. Questi date segnano l’evoluzione del confronto tra i blocchi contrapposti in un periodo scandito dal terrore nucleare e dalla «guerra fredda». Nel dicembre 1957 la Nato dispiega armi nucleari in Europa. In uno dei momenti più duri di questo confronto nell’agosto 1961 cominciò la costruzione del Muro di Berlino, frontiera alzata per impedire l’esodo verso ovest e che si trasformò in una fortificazione che isolava il settore occidentale di Berlino, controllato dalle potenze occidentali in base agli accordi stipulati alla fine della guerra, trasformandolo in un’isola all’interno dei territori orientali controllati dall’unione sovietica. Il patto di Varsavia si è sciolto nel 1991, dopo la disgregazione dell’Unione sovietica. Nel 1966, per decisione del generale de Gaulle la Francia era uscita dalla struttura militare della Nato pur restandone un membro politico. Attualmente i paesi che fanno parte della Nato sono 29, di questi, 22 sono anche membri dell’Unione Europea.

40 anni fa le Br uccisero Guido Rossa. Guido Rossa era un operaio e sindacalista italiano, nato in provincia di Belluno, assassinato dalle Brigate Rosse a Genova il 24 gennaio 1979. Aveva 45 anni. La sua storia è stata raccontata da Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, nel libro, «Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli» (Einaudi Stile libero). Guido Rossa si era trasferito a Genova nel 1961, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider di Cornigliano. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. In quegli anni le Br hanno dei fiancheggiatori nelle fabbriche, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà». Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Rossa nota un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi e decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere e Guido Rossa sarà l’unico a testimoniare in aula. Le Br decidono di punirlo. L’idea è quella di una gambizzazione affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. Ma l’azione uccide Guido Rossa nella sua Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova. Poco prima delle 8 del 24 gennaio di 40 anni fa.

50 anni dalla strage di piazza Fontana. Il 12 Dicembre 1969, alle 16:37, una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 16 persone e ferendone altre 88. È l’attentato che segna l’inizio del terrorismo politico in Italia. Le indagini si orientano inizialmente verso la pista anarchica e portano all’arresto e all’incriminazione di Pietro Valpreda, ma nel corso dell’inchiesta emerge la matrice nera. Al termine di un iter processuale durato circa 35 anni e sette processi in varie città d’Italia, tutti gli accusati dell’eccidio saranno sempre assolti in sede giudiziaria, alcuni verranno condannati per altre stragi, altri invece godranno della prescrizione evitando la pena. Nel 2005 la Corte di Cassazione concluderà sostenendo che la strage di piazza Fontana fu realizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova, nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari» per questo stesso reato. Al termine il processo del 3 maggio 2005 ai parenti delle vittime verranno anche addebitate le spese processuali. In quello stesso 12 dicembre 1969, in appena 53 minuti, altri attentati colpiscono contemporaneamente anche Roma: una bomba esplode alle 16:55 all’entrata della Banca Nazionale del Lavoro, ferendo tredici persone. Altre due bombe esplodono tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, ferendo quattro persone. A Milano una seconda bomba viene rinvenuta inesplosa nella sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala: dopo i primi rilievi sarà fatta brillare, distruggendo in tal modo elementi probatori di possibile importanza. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, tra i sospettati fermati su ordine della questura c’è l’anarchico Giuseppe Pinelli, ferroviere 43enne, staffetta partigiana durante la guerra e animatore del Circolo del Ponte della Ghisolfa. Tre giorni dopo il fermo, in una pausa dell’interrogatorio da parte di Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, precipita dal quarto piano della questura e muore durante il trasporto in ospedale. Le circostanze della morte, il clima di tensione di quei giorni e alcune dichiarazioni, come quella del questore Marcello Guida, secondo cui il «suicidio» di Pinelli era la dimostrazione della sua colpevolezza, contribuiscono ad animare violente polemiche, sospetti e accuse, in particolare verso il commissario Calabresi. Nel provvedimento di archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, depositato il 25 ottobre del 1975, il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio scriverà: «L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli». In un clima di accuse e di odio il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi viene assassinato da militanti di Lotta Continua. Per l’omicidio verranno condannati in via definitiva Ovidio Bompressi e il pentito Leonardo Marino, quali autori materiali, mentre Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri quali mandanti. Nel maggio 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - che aveva definito Pinelli la diciassettesima vittima della strage di piazza Fontana - invitò al Quirinale e fece incontrare la vedova di Luigi Calabresi, Gemma, e la vedova di Pinelli, Licia. «Finalmente, signora, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi - disse Gemma Calabresi a Licia Pinelli - Finalmente le nostre famiglie si ritrovano...».

Quel Muro tra due menzogne. La "barriera protettiva antifascista" fu eretta a Berlino contro un pericolo inesistente. E l'Europa non è nata come risposta ai nazionalismi. Marcello Veneziani l'11 novembre 2019 su Panorama. Il Muro di Berlino sorse su una menzogna e la sua caduta il 9 novembre di trent’anni fa generò un’altra menzogna. La prima, grande menzogna fu come venne presentato dal regime comunista ai tedeschi dell’Est: «barriera protettiva antifascista», come la definì il capo del regime comunista di Pankow, Walter Ulbricht. Ovvero lo scopo per cui era stato innalzato era proteggere la Germania comunista da un ipotetico, minaccioso attacco fascista. I fascismi erano ormai morti e sepolti da tanti anni, nuovi fascismi non s’intravedevano all’orizzonte e mai la Repubblica «democratica» tedesca fu minacciata alle sue frontiere da qualsivoglia pericolo, infiltrazione o invasione. L’unico vero motivo per cui sorse quel Muro e che la storia tragicamente comprovò fu di impedire la libera uscita dei tedeschi orientali dal loro Paese, dalla metà di Berlino, anche solo per riabbracciare famigliari e amici che erano al di là del muro. Centinaia di tentativi, finiti tragicamente, morti sul filo spinato, abbattuti dai Vopos a dimostrare che nessuno voleva introdursi nella Germania comunista ma tanti volevano uscirne. I flussi erano in una sola direzione. Era la prova più evidente del fallimento di un regime poliziesco e repressivo. Ma la mistificazione propagandistica continuava ad agitare il pericolo della reazione in agguato, l’imperialismo fascio-capitalista occidentale...Dopo 28 anni quel Muro si sbriciolò e tante furono le cause generali ma resta un mistero perché sia avvenuto così, senza resistenze e contrasti. Si disse che il mondo era cambiato, il comunismo aveva perso la sfida col capitalismo occidentale, il mondo si faceva globale, i media volatilizzavano le frontiere e portavano nuovi modelli di vita, il consumismo trionfava. Tre figure, in modi diversi, avevano contribuito a smantellare il Muro: il presidente americano Ronald Reagan e il suo scudo stellare, il papa polacco Karol Wojtyla e il movimento di Solidarnosc, il presidente russo Mikhail Gorbaciov con la glasnost e la perestrojka. Ma una seconda grande menzogna è poi cresciuta sulle rovine del Muro e della sua memoria e tuttora si tramanda, anzi è accresciuta da quando sono sorti i nazional-populismi e i sovranismi. Si ripete sempre nei discorsi ufficiali, nelle rievocazioni istituzionali e nelle narrazioni dominanti che l’Europa unita scaturita dopo il crollo del Muro sia nata contro i nazionalismi, in risposta a essi. Un falso storico grande come il Muro. L’Europa fu possibile, coi suoi trattati, da Maastricht a Schengen, e il suo allargamento a Est, solo perché era caduto il comunismo, la cortina di ferro; e perché non c’era più l’alibi del bipolarismo Est-Ovest che costringeva mezz’Europa ad allinearsi all’Urss e l’altra metà agli Stati Uniti. Non era stato l’ostacolo dei nazionalismi a impedire l’unificazione europea. Dopo il 1945 il nazionalismo era stato sconfitto o era ininfluente, marginale coi regimi autoritari di Spagna e Portogallo. L’unico nazionalismo vigente in Europa dopo la guerra era franco-europeista, in funzione anti-egemonia americana: fu il sogno dell’Europa delle patrie, dall’Atlantico agli Urali, del Generale Charles de Gaulle. Dunque è solo una bufala politica e storiografica che l’Europa si sia unita affrancandosi dai nazionalismi. Il paradosso aggiuntivo è che più passano gli anni e più si accentua la fiaba antinazionalista dell’Europa mentre è scomparso nelle nebbie dell’amnesia collettiva e istituzionale l’eredità pesante del comunismo e le cicatrici che lasciò in mezza Europa. Si legge la caduta del Muro come un trionfo della società globale senza confini. Si abusa anzi della retorica sui muri da abbattere per giustificare i massicci flussi migratori e il diritto soggettivo e assoluto di ciascun abitante del pianeta di cambiare paese. Si dimentica un’elementare realtà: i muri più infami non sono quelli che impediscono di entrare, senza passaporto, a chiunque decida di venire, ma quelli che impediscono di uscire, nonostante il passaporto, ai propri cittadini in regola con le leggi, con lo Stato, con il fisco. Cadendo, il Muro di Berlino lasciò aperto il mondo ma in due direzioni opposte: una verso la globalizzazione e la società senza frontiere, l’altra verso le identità locali e nazionali. Del resto il Muro crollato non rese solo più aperto il mondo, ma unificò anche una nazione lacerata, come la Germania. Finì il dramma tedesco, una nazione martoriata da due sconfitte, due totalitarismi e dall’infamia della Shoah. La Germania riunita diventò esempio per le altre aspirazioni nazionali represse, a partire dall’est uscito dal comunismo. Il mondo non si fece unipolare, soggetto al Nuovo Ordine Mondiale; ma la frontiera tra est e ovest traslò in una barriera invisibile tra Nord e Sud del pianeta, tra centro e periferie, tra Occidente e Islam. Insomma la storia non finì tra le braccia dell’Impero americano e della democrazia liberale, come pensarono in quel tempo George Bush e il suo consigliere Francis Fukuyama. Ma riprese con altri scenari e altre linee di confine, altri spartiacque. Il Muro di Berlino lasciò due eredi, non uno solo, e due diverse idee dell’Europa. Una come integrazione delle nazioni in un progetto confederale e l’altra come «dis-integrazione» delle nazioni in un progetto cosmopolitico. Nazionalismo e internazionalismo, anzi sovranismo e globalitarismo ne sono i risultati. Con quel Muro finì una storia, se ne aprì un’altra. La nostra. Il mare è aperto ma tra le sue acque è riemerso l’arcipelago delle identità.

La censura sul Muro: ora è vietato parlare di comunismo a scuola. Sbianchettato il testo di Forza Italia-Lega-Fdi La sinistra: la dizione è "socialismo reale". Sabrina Cottone, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Sono passati trent'anni dal giorno della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre del 1989 che per molti è un ricordo degli occhi e del cuore, ai ragazzi è stato tramandato tra racconti familiari e The Wall dei Pink Floyd, per tutti è una data entrata nei libri di storia e nei testi che si studiano a scuola. Eppure la condanna del comunismo divide ancora, e capita, è capitato ieri che in commissione Cultura alla Camera si dibatta un'intera seduta per censurare l'espressione «dittatura comunista» di stampo sovietico, e proprio in un testo che vuole impegnare il governo a verificare che nelle scuole si celebri realmente il «Giorno della libertà» istituito nel 2015. A opporsi all'espressione «dittatura comunista» è stato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, l'area della maggioranza più radicale che fa riferimento a Leu, sostenuto dal sottosegretario al Miur, Giuseppe De Cristofaro, ex parlamentare di Rifondazione comunista oggi esponente di governo di Si. Non è caduta «la dittatura comunista», ma «la dittatura del socialismo reale», la tesi sostenuta dagli esponenti di Sinistra italiana. È così partita una battaglia da azzeccagarbugli che ha impedito di arrivare a una risoluzione condivisa. Si spera che oggi un ritorno alla realtà di ciò che è stato riporti il comunismo nel testo, così da arrivare a una mozione unitaria. Ma nel frattempo la commissione Cultura della Camera, a trent'anni dalla caduta del Muro, è rimasta travolta per un giorno dalle vecchie macerie, a dibattere se quel 9 novembre a Berlino fosse davvero caduta la dittatura comunista o il socialismo reale. La risoluzione contestata è stata presentata da Fratelli d'Italia, con Paola Frassinetti come prima firmataria, dalla Lega con Daniele Belotti e da Forza Italia con Valentina Aprea. «Il 9 novembre ha rappresentato per milioni di persone il giorno della ritrovata libertà dopo decenni di dittatura comunista» il passaggio che ha fatto inciampare i parlamentari della sinistra radicale. Le risoluzioni presentate per la discussione congiunta, con l'intenzione di fonderle in una sola, sono state tre: una di maggioranza, una seconda a firma di Alessandro Fusacchia di +Europa, confluita nella risoluzione della maggioranza, e la risoluzione del centrodestra, la prima a essere depositata e quindi discussa. Si lavorava agli impegni per stendere una risoluzione unitaria quando si è levata l'opposizione dell'area radicale di Leu alla «dittatura comunista». Uno stop inatteso che ha riportato indietro di decenni l'orologio della storia. «Dopo la risoluzione del Parlamento europeo, il comunismo è equiparato ad altri totalitarismi. Per questo, la censura è da ritenersi odiosa e inaccettabile. Sotto la cortina di ferro del comunismo, sono morte milioni di persone» è la protesta sulle labbra di Federico Mollicone, capogruppo di Fdi in commissione Cultura. «È vergognoso come questo governo non ammetta la parola comunismo, come se nulla fosse accaduto. Quanto avvenuto in commissione Cultura è inaccettabile» commenta il leghista Belotti, capogruppo del suo partito in Commissione. E l'azzurra Valentina Aprea parla di «revisionismo storico» e aggiunge: «È fondamentale insegnare alle giovani generazioni che con la caduta del Muro ci siamo liberati dalla dittatura comunista di stampo sovietico. Noi combattiamo tutti e tre i totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo. E nei Paesi del blocco sovietico la gente è stata privata della libertà a causa del comunismo». 

In Parlamento un giro di parole per salvare l'idea comunista. Sabrina Cottone, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. È caduto il comunismo quando è caduto il Muro? La domanda potrebbe sembrare semplice ma in politica non lo è, come dimostra il parapiglia in commissione Cultura della Camera, dove la sinistra radicale di Leu voleva espungere le espressioni «comunismo» e «dittatura comunista» per parlare di ciò che accadeva a Berlino Est, in Unione sovietica e negli altri Paesi d'oltrecortina. Meglio un più edulcorato «dittatura del socialismo reale» per trasmettere alle giovani generazioni la memoria di ciò che è stato. Il dibattito si è acceso proprio su una risoluzione che impegna il governo a moltiplicare le iniziative di ricordo della caduta del Muro nelle scuole e nelle università. Quasi fuori tempo massimo, all'antivigilia del trentesimo anniversario del 9 novembre 1989 dichiarato con legge del 2005 Giorno della libertà, è arrivato il compromesso storico, con una risoluzione votata da maggioranza e opposizione. In un soprassalto di senso della realtà storica, il «comunismo» è tornato a esistere insieme alla «dittatura». Ma, recita il documento, la «libertà» è stata ritrovata «dopo decenni di dittatura imposta in nome del comunismo». Non una dittatura comunista ma «una dittatura imposta in nome del comunismo». Un giro di parole politicamente corrette che è piaciuto a tutti, forse anche perché ciascuno è libero di interpretarle a proprio modo. «Imposta in nome del comunismo» può significare che il comunismo in sé non fosse un'ideologia perversa, come potranno leggere e supporre senza sussulti tutti coloro che ne sono orfani e anzi continuano a credere che nel Manifesto del Partito comunista, tra le parole di Marx e Engels, nel materialismo dialettico, nella lotta di classe, fossero nascoste giustizia, uguaglianza e fraternità, e se poi mancava la libertà poco male, ma era un bellissimo progetto di vita e società incompreso, realizzato peggio, trasformatosi in orrore e violenza, in un'eterogenesi dei fini che inevitabilmente rimane incomprensibile. Ma «dittatura imposta in nome del comunismo nei paesi del cosiddetto socialismo reale» può significare anche altro, quasi l'opposto, e cioè che quel «comunismo» che sarebbe morto il 9 novembre 1989, sbriciolato insieme al Muro di Berlino, in realtà non è morto, anzi è vivo e vegeto e lotta ancora contro di noi, nei Paesi in cui oggi esiste una dittatura imposta nel suo nome. Il Partito comunista cinese, la seconda formazione politica più grande del mondo, governa la Repubblica popolare cinese. Segretario e presidente sono un'unica persona che può rimanere al potere a vita. Non è l'unico Paese in cui ciò accade. Nella circolare del Miur alle scuole si parla della caduta del Muro come «evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». E allora una delle domande dell'oggi, a trent'anni dalla caduta del Muro, resta una grande muraglia anche a scuola. Esiste ancora o no la «dittatura imposta nel nome del comunismo»?

La storia del Muro diventa radical chic. Roberto Vivaldelli suit.insideover.com l'8 novembre 2019. A 30 anni dalla Caduta del Muro di Berlino lo spauracchio delle forze progressiste che vogliono riscrivere la storia diventa uno solo: il “sovranismo”. L’ex premier Paolo Gentiloni e commissario Ue designato ha spiegato a Porta a Porta che “questa ventata nazionalista, soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri, va fortissimo e mette in discussione la democrazia liberale che quella notte aveva trionfato”. Dopo 30 anni, ha sottolineato Gentiloni, “rallegra avere tutto quello che abbiamo, ma non ci dimentichiamo che quella cosa che a noi sembrava scontata, la democrazia liberale, sarà il tema degli anni 20 del nuovo secolo, la posta in gioco vera sarà se questo sistema è davvero il sistema migliore”, ha spiegato il commissario Ue designato. Che cosa abbia a che fare la “ventata nazionalista” con la Caduta del Muro, che aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica, nessuno lo sa, se non il tentativo di individuare nel “sovranismo” il “male assoluto” che minaccia la democrazia liberale di cui i progressisti, eredi del Partito comunista italiano, sarebbero – a loro dire – i soli portavoce. “Il trentennale dalla caduta del Muro di Berlino è una festa. Ma a metà. Perché mentre celebriamo una data così significativa per l’Europa, assistiamo alla rinascita di tanti piccoli muri nel nostro continente e nel mondo. Alcuni ideologici. Altri, purtroppo, reali. Muri fisici che puntano a dividere. Vendendo l’illusione di una maggiore sicurezza. Quando invece l’unica cosa che accrescono è l’intolleranza”. Spiega invece la senatrice Laura Garavini, vicepresidente del gruppo Italia viva di Matteo Renzi. “In questo momento storico – aggiunge la senatrice – l’unico modo per celebrare il trentennale della caduta del Muro è alzare la voce contro l’imbarbarimento della mentalità comune. Venti di destra soffiano in Italia, nella stessa Germania ed in tutta Europa”.

La Caduta del Muro e le strumentalizzazioni. Anche i vescovi europei, riuniti in assemblea plenaria, commemorano la caduta del muro di Berlino e lanciano un monito rivolto ai cittadini contro i sovranismi. Il Comece si è espresso mediante una dichiarazione: il Muro, spiegano, “ci ha insegnato che costruire muri tra i popoli non è mai la soluzione, ed è un appello a lavorare per un’Europa migliore e più integrata”. Come riporta l’agenzia Sir, il riferimento dei vescovi ai nazionalismo è eloquente: “Le ideologie, un tempo alla base della costruzione del muro, non sono del tutto scomparse in Europa e sono ancora oggi presenti, seppur in forme diverse”, hanno scritto. Si tratta di riletture strumentali, a fini politici e ideologici di un evento storico che andrebbe analizzato in ben altri termini. Innanzitutto sottolineando che una cosa è riflettere sulla fine del socialismo reale, ben altro è disquisire sull’unificazione della Germania e le importanti conseguenze geopolitiche che quell’evento ebbe sulla storia europea e mondiale. Come nota l’ex segretario di Stato Henry Kissinger in Ordine Mondiale, “la caduta del Muro di Berlino rapidamente al collasso dell’orbita dei satelliti dell’Urss, la fascia di Stati dell’Europa orientali assoggettati al sistema di controllo sovietico”. Il collasso dell’Unione sovietica, nota Kissinger, “modificò il carattere dell’azione diplomatica. La natura dell’ordine europeo risultò trasformata in modo sostanziale nel momento in cui non esisteva più una consistente minaccia militare proveniente all’interno dell’Europa. Nell’atmosfera di esultanza che seguì, i tradizionali problemi dell’equilibrio furono liquidati come ‘vecchia’ diplomazia, da sostituire con la diffusione di ideali condivisi”.

La fine della Guerra fredda e il trionfo dell’egemonia liberale. Alla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti si affacciarono sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione sovietica e la conclusione dell’era bipolare, infatti, gli strateghi americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appare come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società. Si faceva inoltre sempre più largo l’idea che le nazioni potessero essere superate e il realismo politico fosse ormai un lontano ricordo. Fu un grave errore. Come ricorda il professor Marco Gervasoni, già all’epoca qualcuno, come il grande Samuel P. Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt’altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Insieme a lui John J. Mearsheimer e tutta la schiera di “realisti”.

L’unificazione incompiuta. L’ultimo aspetto da analizzare riguarda la “mancata unificazione” e il grande divario fra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Come nota il Fatto Quotidiano, “da qui bisognerebbe partire, se si vuol capire come l’ Unione stia perdendo l’ Est: dai modi e dai discorsi pubblici con cui l’ Est – Germania orientale in testa – è stato annesso e privatizzato, più che integrato e rispettato”. In Germania, ricorda Il Fatto Quotidiano, l’autocritica è in pieno corso, e non mancano libri che parlano dell’Est come di un Mezzogiorno ancora più dannato del nostro. Tra i tanti, quello di Daniela Dahn, già dissidente in Ddr, che invariabilmente denuncia le modalità di un’ unificazione cui dà il nome storicamente pesante di Anschluss, annessione. I cittadini dell’est hanno la sensazione di essere cittadini di serie B. Come riporta IlSole24Ore, il reddito di un cittadino dell’Est è comunque all’85% di quello di un cittadino dell’ Ovest, con un gap di produttività del 20% a favore della parte occidentale.

Muro di Berlino, un lungo addio. Quel collasso veniva da lontano. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da  Antonio Carioti, su Il Corriere della Sera. Un libro a cura di Marcello Flores, per i trent’anni dalla caduta della barriera che spaccava in due la città tedesca, rievoca i giorni che segnarono la fine del comunismo. Sotto un profilo storico di durata medio-lunga, si può perfino sostenere che il Muro cominciò a crollare prima di essere costruito. Nel senso che la stessa edificazione di una barriera che tagliava in due Berlino, per impedire il deflusso degli abitanti dalla zona orientale a quella occidentale, segnalava la debolezza della Germania comunista e del blocco sovietico, incapaci di reggersi se non a prezzo di gravi misure coercitive esercitate sulla loro popolazione. Il libro a cura di Marcello Flores, in edicola con il «Corriere» a euro 8,90 Di quella precarietà si erano avvertiti forti sintomi ben prima del 1961, anno in cui il Muro fu edificato, a cominciare dalla rivolta operaia scoppiata proprio a Berlino nel 1953 e repressa dalle truppe sovietiche. Da allora il 17 giugno, giorno in cui la sommossa aveva raggiunto il culmine, venne celebrata nella Germania Ovest come giornata dell’unità nazionale fino al 3 ottobre 1990, data della effettiva ricongiunzione tra i due Stati divisi dalla guerra fredda. Insomma, non venivano certo dal nulla, né erano soltanto frutto della pur decisiva politica di Mikhail Gorbaciov, i fatti di trent’anni fa rievocati attraverso reportage e commenti apparsi all’epoca sul «Corriere della Sera» e raccolti a cura di Marcello Flores (che firma anche un’ampia introduzione) nel libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, in edicola da oggi con il quotidiano. Quegli eventi clamorosi, che colsero il mondo di sorpresa, avevano origini lontane. Mikhail Gorbaciov guidò il Pcus dal 1985 al 1991 e cercò di riformare il sistema sovieticoUno snodo fondamentale, a tal proposito, fu proprio l’insurrezione del 1953, perché veniva non a caso dopo un evento che segnava una svolta epocale: la morte di Iosif Stalin, l’uomo che aveva di fatto plasmato in profondità il sistema sovietico (ancora piuttosto precario alla morte del suo maestro e predecessore Vladimir Lenin), lo aveva dotato di un possente apparato industriale, incentrato sulla produzione bellica, e lo aveva condotto alla vittoria nella guerra spietata contro gli invasori nazisti. Il prestigio derivante all’Urss dal suo contributo essenziale alla sconfitta del Terzo Reich e la personalità di Stalin, capo indiscusso di un movimento mondiale che dominava una parte assai rilevante della superficie terrestre e del genere umano, erano i due elementi di forza del blocco sovietico. La natura dispotica di quel sistema di potere poteva comunque essere giustificata dall’ostilità del mondo capitalista circostante, soprattutto per chi era disposto a credere che i Paesi comunisti stessero marciando, pur con inevitabili difficoltà, verso il progresso civile e l’eguaglianza sociale. La morte di Stalin privò tuttavia l’impero della sua guida, la cui leadership si basava su un misto di carisma personale e terrore diffuso, esercitato sull’intera società e sulla stessa classe dirigente dell’Urss. I suoi successori, liberi finalmente dal timore di cadere in disgrazia, pensarono di poter allentare la presa. E, al XX Congresso del Partito comunista, osarono sconfessare il capo defunto. La sfida era competere con l’Occidente sul piano della convivenza pacifica, garantendo un tenore di vita migliore agli abitanti del blocco comunista. Il calcolo si rivelò ben presto errato. La rivolta di Berlino fu il primo segnale che l’impero non si poteva tenere insieme senza usare la violenza. E la conferma venne nel 1956. Se in Polonia venne raggiunto un compromesso tra le aspirazioni all’autonomia dei comunisti locali e le esigenze del Cremlino, in Ungheria fu necessario usare i carri armati per reprimere una rivoluzione impetuosa. Poi venne la costruzione del Muro, nell’agosto del 1961, per evitare che la cosiddetta Repubblica democratica tedesca venisse dissanguata dall’esodo dei suoi abitanti attirati dal miracolo economico della Germania occidentale. Ancora più grave, nel 1968, fu l’invasione della Cecoslovacchia, perché ad essere schiacciato dall’Armata rossa fu un processo riformatore, la Primavera di Praga, avviato dallo stesso Partito comunista. Di fronte alla successiva nascita di Solidarnosc, sindacato che di fatto univa tutta la nazione polacca contro un regime esausto+, non restò che il golpe militare del dicembre 1981. La realtà ormai innegabile negli anni Ottanta era che il blocco sovietico viveva una sorta di schizofrenia strutturale tra gli ideali proclamati a parole, quelli di eguaglianza e libertà del marxismo rivoluzionario, e la realtà di un sistema oppressivo e inefficiente, retto soprattutto da un apparato spionistico e militare di proporzioni gigantesche. Ciò era palese nei più importanti Paesi satelliti (Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria), dove il consenso dei cittadini ai rispettivi regimi era assai ristretto. Il dato che spesso viene trascurato quando si paragona il Muro di Berlino ad altre barriere (quella costruita da Israele per bloccare le infiltrazioni armate o anche quella al confine tra Messico e Usa) è che spesso nella storia gli Stati hanno costruito fortificazioni per tenere fuori stranieri ansiosi di entrare nel loro territorio (si pensi alla Muraglia cinese o al Vallo di Adriano), ma lo sbarramento eretto dalla Germania orientale serviva invece a evitare la fuga dei suoi abitanti verso l’esterno. Denunciava la bancarotta di un sistema che non attirava nessuno, ma al contrario suscitava nella popolazione un’impellente desiderio di andarsene, anche a costo di rischiare la vita sotto i colpi delle guardie confinarie. Quando Gorbaciov cercò di colmare il divario tra ideali e realtà, come avevano cercato di fare prima di lui l’ungherese Imre Nagy e il cecoslovacco Alexander Dubcek, l’intero edificio cominciò a sfaldarsi. L’economia collettivista burocratizzata non era facilmente riformabile e la concessione di maggiori libertà civili era incompatibile con l’assetto a partito unico. La successiva frana conobbe nel 1989 un’improvvisa accelerazione, tanto da produrre l’unificazione tedesca con una rapidità che — lo sottolinea Flores — preoccupò anche esperti americani come Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente George Bush senior. Certo, come ha dichiarato a «la Lettura» del 16 ottobre l’ultimo premier comunista della Germania orientale Hans Modrow, quello Stato venne «barattato per denaro» da Gorbaciov in cambio degli aiuti concessi dal cancelliere occidentale Helmut Kohl. Ma si può vendere solo ciò che si possiede: la Repubblica democratica tedesca era appunto una creatura di Mosca, che poteva farne ciò che voleva. D’altronde nella stessa Urss la disgregazione del sistema si dimostrò inarrestabile. Il tentativo di bloccarla compiuto dagli aspiranti golpisti dell’agosto 1991, che cercarono di deporre Gorbaciov e di fatto consegnarono a Boris Eltsin l’opportunità per smembrare l’Urss, abortì soprattutto per la scarsa convinzione dei suoi fautori. Al comunismo leninista non credevano più gli stessi membri dell’oligarchia che con quella dottrina aveva giustificato il suo potere. Esce l’8 novembre e rimane in edicola un mese con il «Corriere della Sera» il libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, a cura dello storico Marcello Flores, in vendita al prezzo di 8,90 euro più il costo del quotidiano. Il volume — nel trentennale della svolta che segnò l’inizio della fine della divisione dell’Europa determinata dalla guerra fredda dopo il 1945 — raccoglie corrispondenze, editoriali e interviste che apparvero sul quotidiano di via Solferino tra il 17 gennaio 1989 e il 5 ottobre 1990.

Caduta del muro di Berlino, 30 anni dopo: 10 film da vedere. Il 9 novembre 1989 crollava l'ultima barriera della Guerra Fredda. Celebriamo il trentennale con 10 film su Germania divisa e muri da abbattere. Simona Santoni il 6 novembre 2019. 15 anni dopo la seconda Guerra mondiale, il mondo era percorso dalla Guerra Fredda. Berlino era l'emblema della divisione: da una parte la Berlino Ovest, che comprendeva i tre settori di occupazione alleati americano, britannico e francese, dove l'economia aveva ripreso a fiorire sull'onda della modernizzazione. Dall'altra Berlino Est, filorussa, con i sovietici che assistevano alla fuga di tanti tedeschi verso occidente, alla ricerca di maggiore fortuna. È così che il 13 agosto 1961 i sovietici innalzarono il Muro di Berlino, a dividere in due la città, con la giustificazione di mettere un freno a questa fuga. I berlinesi subirono impotenti la separazione. Negli anni, 136 persone morirono nel tentativo di scavalcare il Muro, uccisi dalle guardie della Repubblica Democratica Tedesca o in seguito alle ferite riportate nell'impresa. Il 9 novembre 1989 è la data che ha cambiato la Storia: furono aperti i posti di blocco e decine di migliaia di berlinesi dell'Est oltrepassarono la frontiera, accolti festososamente dai berlinesi dell'Ovest. A 30 anni da questo evento epocale, consigliamo 10 film belli da vedere, che parlano di Berlino e del Muro, ma anche e semplicemente di muri, da abbattere e superare. Il 9 novembre, non a caso, è la Giornata nazionale contro tutti i muri.

1) Good bye Lenin! (2003) di Wolfgang Becker. In questa lista non può mancare Good bye Lenin!, film cult tedesco che restituisce con leggerezza un'immagine chiara del post Guerra Fredda. Dà luce a una realtà poco nota come quella di Berlino Est e alla "Ostalgie", ovvero la nostalgia della vita nella ex DDR, per noi occidentali tanto difficile da comprendere quanto misteriosa e affascinante. Con Daniel Brühl. Protagonista la famiglia Kerner di Berlino Est: nel 1989, la mamma entra in coma e si sveglia alcuni mesi dopo, con il Muro ormai crollato e la società mutata. Per evitarle lo choc, suo figlio fa di tutto per fingere che nulla sia accaduto. Per il trentennale della caduta del Muro di Berlino Good bye Lenin! torna al cinema, distribuito da Satine Film. 

2) Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck. Made in Germania, Oscar al miglior film straniero, è una storia di spionaggio ma non di azione e inseguimenti, è costruita su pensieri nascosti e segreti desideri sul filo di una tensione silenziosa. È ambientata nella Berlino Est del 1984, controllata dalle spie della Stasi. Ulrich Mühe, che purtroppo morì poco dopo l'Academy Award, interpreta un funzionario della Stasi che spia la vita di una coppia, registra ogni suo passo, fino a diventarne complice. 

3) Uno, due, tre! (1961) di Billy Wilder. Un film che si compone a cavallo della costruzione del Muro di Berlino. Austriaco di famiglia ebraica che poi espatriò negli States, Wilder abitò la città fino fino all'ascesa di Hitler. Con i consueti toni della commedia, fa una satira sulla Guerra Fredda dal ritmo incalzante. Un dirigente della Coca Cola a Berlino Ovest vorrebbe vendere la bevanda anche nei Paesi comunisti, mentre la figlia del boss della multinazionale si innamora di un giovane della Germania Orientale...La realizzazione del film fu turbata proprio dallo storico innalzamento del Muro, il 13 agosto 1961, tanto che le riprese sotto la porta di Brandeburgo, punto di congiunzione tra Est e Ovest, furono ultimate in studio, dove il monumento fu ricostruito.

4) Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg. Thriller di spionaggio dall'impianto classico ambientato durante la Guerra Fredda, plumbeo e solido, Il ponte delle spie va alla riscoperta di un meraviglioso eroe normale, James Donovan, interpretato da Tom Hanks. Avvocato idealista, nel 1962 Donovan negoziò per la Cia il primo scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke in Germania, fra Usa e Urss. Nella Berlino fredda e austera, in cui si erge il Muro e un clima di sgomento, Donovan, chiuso nel suo cappotto e nella sua solidità morale, cercherà di ottenere il massimo. Non per la Cia, ma per il suo senso di giustizia, contro i forcaioli e in nome dei diritti civili. 

5) Il giardino di limoni - Lemon Tree (2008) di Eran Riklis. Non solo Muro di Berlino. Film israeliano vincitore del premio del pubblico al Festival di Berlino, tra dramma e ironia Il giardino di limoni ci porta nel conflitto irrisolto in Medio Oriente tra palestinesi e israeliani, tra barriere fisiche e pregiudizi. Occhi neri e tenaci, Hiam Abbass è una vedova palestinese che vive in un villaggio della Cisgiordania. Il suo nuovo vicino di casa è il ministro della Difesa israeliano. Quando, per ragioni di sicurezza, le viene intimato di abbattere quel giardino di limoni che rappresenta il suo unico sostentamento e le sue radici, lei non si dà per vinta e porta la causa in tribunale. Troverà la solidarietà di un'altra donna, la moglie del ministro. 

6) Torna a casa, Jimi! (2019) di Marios Piperides. Nicosia è l'unica capitale al mondo ancor oggi divisa. Da una parte, a sud, l'area greca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro, parte dell'Unione europea; dall'altra, a nord, l'area turca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro del Nord, non riconosciuta a livello internazionale. A separarle una recinzione militare. Torna a casa, Jimi!, opera prima del regista cipriota, ruota attorno a questa linea di divisione, mettendo a fuoco l'assurdità di certe disposizioni, preconcetti e "muri". Secondo la legge, nessun animale, pianta o prodotto può essere trasferito dal settore turco a quello greco. Così, quando il cane Jimi attraversa la zona cuscinetto dell'Onu, il padrone, il cantante fallito Yiannis (Adam Bousdoukos), deve inventarsi di tutto per riuscire a riportarlo indietro. Ma è più facile per un cane che per un uomo varcare il confine. 

7) Il figlio dell'altra (2012) di Lorraine Lévy. A volte tutto dipende soltanto da quale parte del muro si nasce. Joseph vive a Tel Aviv, ma il suo sangue è palestinese: c'è stato uno scambio di culle alla nascita. Altrimenti sarebbe cresciuto in Palestina, nei territori occupati della Cisgiordania, dove si trova Yacine. Quando si scopre l'errore, con i due ormai ragazzi, le due famiglie (tra cui Emmanuelle Devos come mamma israeliana) provano ad avvicinarsi, ma le divergenze politiche sono troppo forti. Riusciranno invece a superare differenze e diffidenze i due giovani, entrando gradualmente nelle reciproche famiglie. 

8) Tutti pazzi a Tel Aviv (2018) di Sameh Zoabi. La divisione è letta sotto forma di commedia dal regista palestinese Sameh Zoabi, che affronta il conflitto, l'occupazione e l'abuso di potere con leggerezza e soffiando sulla possibilità di dialogo. Kais Nashif, premiato a Venezia 2018 come migliore ottore della sezione Orizzonti, interpreta un giovane sceneggiatore palestinese che vive a Gerusalemme e scrive per la popolare soap-opera Tel Aviv brucia, prodotta a Ramallah. Ogni giorno, per raggiugere gli studi televisivi, deve passare attraverso un posto di blocco israeliano, dove è notato da un comandante la cui moglie è accanita fan della serie...

9) La gabbia dorata (2013) di Diego Quemada-Diez. Film spagnolo d'esordio, racconta la storia di tre adolescenti dei quartieri poveri del Guatemala che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d’America, alla ricerca di una vita migliore. Il viaggio è lungo, a bordo di treni merci o seguendo a piedi i binari delle ferrovie. Intanto, con loro, riflettiamo sui confini che dividono le nazioni e su ciò che ci divide come esseri umani. A ispirare il regista, anche le parole di un messicano di nome Juan Menéndez López, pronunciate pochi istanti prima di salire a bordo di un treno merci in corsa: "Si imparano molte cose lungo il cammino. Qui siamo tutti fratelli, abbiamo tutti le stesse esigenze. L'importante è che impariamo a condividere. Solo così potremo andare avanti, solo così potremo raggiungere la nostra destinazione, solo un popolo unito può sopravvivere. In quanto esseri umani, non siamo clandestini in nessun luogo del mondo".

10) La zona (2007) di Rodrigo Plà. Opera prima del regista uruguaiano-messicano recentemente autore del film Un mostro dalle mille teste, La zona nel 2007 vinse il Leone del futuro come miglior esordio alla Mostra del cinema di Venezia, presentato alle Giornate degli autori. All'interno di Città del Messico "la zona" è un'area privilegiata di ricchi, che si tiene separata dalla miseria del resto del mondo tramite muraglie, reticolati, videosorveglianza. Quando per un guasto tre del mondo di là, di poveri e reietti, riescono ad entrare laddove la vita scorre serena e ovattata, si scatena una terribile caccia all'uomo. 

La Guerra Fredda e i segreti della Stasi: reportage di Purgatori. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto». Il 13 agosto 1961, per tamponare l’esodo di massa verso Berlino Ovest, le unità armate della Germania dell’Est costruirono quello che a Est chiamavano «barriera di protezione antifascista» e a Ovest il «muro della vergogna», un sistema di fortificazioni che simboleggerà per ben 28 anni la Guerra Fredda, fino a diventare un rudere metaforico prima ancora che di cemento armato. Sono passati 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, l’evento che nel 1989 ha segnato la fine dei regimi comunisti in Europa e della divisione del mondo tra Est e Ovest. Andrea Purgatori è andato a Berlino per riproporci non solo le scene di grande e inaspettata festa di quel 9 novembre, giorno in cui la notizia invase festosamente tutti i tg del mondo e le immagini dei picconatori del muro si ersero a simbolo, ma soprattutto per ricostruire le tappe che portarono alla costruzione di quella tetra muraglia, lunga 46 chilometri (più un centinaio di filo spinato lungo i confini occidentali della Ddr) e alta dai tre ai quattro metri, e per ricordarci che nuovi muri continuano a dividere i popoli: Berlino 1989, Mexico 2019 - Breaking The Walls (Atlantide, La7, mercoledì, ore 21,15). Purgatori ha anche intervistato Lilli Gruber, allora inviata del Tg2 nei giorni della caduta del muro, lo scrittore Peter Schneider, leader del ‘68 berlinese, il dissidente Harmunt Richter, che ha vissuto una rocambolesca fuga dalla Germania Est. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto», come ha affermato Gianluca Falanga, autore del libro Il ministero della Paranoia. La Stasi diventa così una macchina perfetta e spietata, un grande occhio per vedere tutto, un affinato orecchio per sentire anche i sospiri (ricorderete di certo il film Le vite degli altri). L’idealismo diventa terrore, non è la prima volta.

Il crollo del muro, quel giorno in cui la Guerra fredda fu archiviata a colpi di piccone. Alessandro De lellis l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. 9 novembre 1989. Bisogna rendere merito anche alle classi dirigenti della Ddr e all’Urss di Gorbaciov di aver capito che il mondo era cambiato rinunciando a intervenire militarmente. Nulla era scontato, nei giorni dell’autunno 1989. La molla che muove il meccanismo del mondo spinse gli eventi a una velocità che nessuno, popoli cancellerie servizi segreti studiosi giornalisti si era mai azzardato a ipotizzare. Il regime comunista della Germania Est, guidato dalla SED, il partito- Stato, aprì i varchi del Muro di Berlino, o meglio subì la loro apertura senza intervenire, al culmine di mesi convulsi, durante i quali aveva tentato senza successo di impedire la partenza di centinaia di migliaia di tedeschi orientali verso l’Ovest. La dirigenza della Deutsche Demokratische Republik, per quattro decenni il gendarme dei sovietici in terra tedesca, era stata spiazzata dall’avvento di Gorbaciov e della sua perestrojka. Gli ultraortodossi, con in testa il vecchio leader Erich Honecker, avevano isolato il loro Paese, 17 milioni di abitanti, chiudendo uno dopo l’altro i confini con il resto del mondo socialista. Avevano represso i manifestanti a Dresda. Quando Gorbaciov dette il benservito a Honecker, dopo una visita a Berlino in occasione dell’anniversario della DDR, il 7 ottobre, si fece avanti un nuovo leader, Egon Krenz, ex capo della gioventù comunista, che tentò di salvare un regime senza più ossigeno. Una "legge sui viaggi" avrebbe dovuto placare i tedeschi orientali, concedendo loro quella libertà di muoversi che non avevano avuto per quarant’anni. Fu un provvedimento preso in fretta e furia. Il funzionario che lo annunciò in pubblico, il portavoce Guenther Schabowski, non era ben informato di quello che stava leggendo e disse che la norma entrava in vigore da subito. I comandanti dei posti di confine non erano stati avvertiti. Alla fine vinsero le masse, la gente di Berlino Est che cominciò a premere sui varchi. Il meccanismo militare, pronto all’intervento, non scattò. Il merito va alla dirigenza della DDR e a quella di Mosca. E fu un miracolo laico, pacifista e democratico nel senso più profondo, perché a decidere fu il demos, il popolo. Il 9 novembre 1989 segna l’inizio della fine del dopoguerra e riporta al centro della scena internazionale la questione tedesca, della quale Berlino è l’emblema. Una città divisa in quattro settori, nella quale la massima autorità era rappresentata dai comandanti militari delle potenze vincitrici contro il nazismo. Dove le compagnie aeree della Repubblica Federale non potevano atterrare. Dove si continuava a morire, nel tentativo di superare i circa 160 chilometri di muraglie di cemento e fili spinati che circondavano i tre settori Ovest, una barriera fatta costruire nel 1961 dai dirigenti della DDR per impedire l’emorragia di tecnici, operai specializzati, giovani, che dal settore orientale raggiungevano i quartieri occidentali per fuggire dal regime della Stasi. Qui il mondo aveva sfiorato due guerre mondiali, nel ‘ 48, all’epoca del blocco sovietico e del ponte aereo americano, e nel ‘ 61. ‘ Die Insel’, l’isola, così nella Bundesrepublik era chiamata Berlino Ovest, una bolla di libertà, consumi, capitalismo, circondata interamente dal territorio della DDR comunista. Col passare dei decenni, l’ex capitale ( o meglio la sua parte occidentale), era diventata un avamposto davanti alla Cortina di Ferro, popolato da anziani, da giovani alternativi che occupavano palazzi fatiscenti e da immigrati turchi. Un luogo per artisti ed eccentrici, alla periferia d’Europa. Oggi si fa fatica a spiegare come si viveva nella Germania divisa in due. Ma nell’ 89, in terra tedesca, sotto la sorveglianza armata dei due blocchi Usa e Urss, convivevano le eredità delle due tragedie del Novecento, le ferite lasciate dal nazionalsocialismo e la realtà del comunismo vincitore ma ormai estenuato. Una convivenza ad alto rischio, che era diventata normalità. A Ovest, nella Bundesrepublik, era cresciuta una generazione abituata al benessere e alla protesta liberamente espressa, soprattutto contro gli Stati Uniti. La riunificazione? Era roba da conservatori, da cripto- fascisti. A sinistra, soltanto il vecchio Willy Brandt afferrò subito quanto stava accadendo e lo sintetizzò con la frase “Adesso cresca insieme ciò che reciprocamente si appartiene”. Brandt, borgomastro di Berlino all’epoca della costruzione del Muro, l’uomo del paziente riavvicinamento a Est, della Ostpolitik. La socialdemocrazia fu colta di sorpresa dall’ 89, il leader Oskar Lafontaine era apertamente contro la riunificazione, vista come atto di espansione imperialista da parte di Bonn. Il miracolo del 9 novembre, un irripetibile equilibrio tra volontà di popolo e saggezza tardiva ma provvidenziale dei responsabili che si astennero dalla violenza, fece fiorire per qualche tempo l’illusione di una DDR realmente democratica. Senza repressione del dissenso, senza Stasi, la feroce polizia politica, con la libertà di viaggiare. Sozialismus UND Freiheit, socialismo e libertà. Ma l’equivoco era tutto in quell’ “Und”. Perché la DDR, creazione della Guerra Fredda, non aveva una ragione di esistere come Stato, se la logica dei blocchi cominciava a squagliarsi. I dissidenti, i difensori dei diritti civili, intellettuali e artisti, con il coraggio dei martiri avevano sfidato il regime e messo in moto la protesta, incoraggiati e protetti da una parte della Chiesa protestante. Avevano mostrato che si poteva vincere la paura. Ma quando le masse lo capirono, agirono a modo loro: con i piedi, con il corpo. Come del resto avevano cominciato a fare dall’apertura della Cortina di ferro, in estate, quando a centinaia di migliaia erano sciamati attraverso l’Ungheria, ufficialmente Paese “fratello” e dunque visitabile per i tedeschi orientali, per fuggire in Occidente. A capire quel “votare con i piedi”, l’essere pronti ad andarsene in cerca del sogno, fu Helmut Kohl. Fischiato la sera del 10 novembre a Berlino, dove era arrivato in tutta fretta interrompendo una visita in Polonia, il cancelliere inizialmente aveva tutti contro, tranne gli Usa di George Bush senior. Il suo piano in dieci punti per la riunificazione suscitò le ire della Thatcher, i sospetti di Mitterrand, le paure dei polacchi e il rifiuto di Gorbaciov. Uno a uno, Kohl e il suo ministro degli Esteri Hans- Dietrich Genscher seppero convincere o rendere neutrali tutti. Il governo cristiano- democratico e liberale agì come una classe dirigente di rango mondiale e riuscì in un altro miracolo: una Germania unita, democratica e pacifica, nel consenso delle due grandi potenze e dei vicini. Né la sinistra occidentale, né i coraggiosi movimenti per i diritti civili dell’Est capirono questo passaggio. I tedesco- orientali a maggioranza seguirono entusiasti Kohl, decidendo di credere anche alle sue bugie, come la promessa di “paesaggi industriali fiorenti” in breve tempo. L’unione monetaria precedette l’unione politica: il I luglio ’ 90 la DDR ( che formalmente cessò di esistere tre mesi dopo, il 3 ottobre) rinunciò alla sua moneta in favore del marco della Bundesrepublik. L’enorme sforzo finanziario che la Germania unita sta tuttora affrontando per le sue regioni dell’Est non ha ancora compensato del tutto la desertificazione industriale, lo spopolamento e lo sradicamento esistenziale seguiti alla riunificazione. Ma chi criticò i tedeschi orientali per aver scelto “le banane”, cioè le sirene del benessere, non capì che il popolo voleva uscire da un Eden carcerario e retrogrado, nel quale avere un telefono era un privilegio da nomenklatura e per comprare un’auto occorrevano 17 anni. Sì, viaggiare e consumare, come gli altri tedeschi, come cittadini del mondo. Anche questa è libertà. Proprio nell’ 89-‘ 90, il biennio dei portenti, mentre il Muro si sbriciolava, cominciarono a diffondersi i primi telefoni cellulari e Internet iniziò a connettere il mondo. Forse è un caso. Forse no.

«Una mamma mi disse: solo ora rivedo mio figlio». 30 anni dopo, Barenboim ricorda la caduta del Muro di Berlino. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino, corrispondente da Berlino. Il direttore e il concerto storico per i ragazzi della La sera del 9 novembre 1989 Daniel Barenboim andò a letto presto. «Ero a Berlino in quei giorni, per registrare con i Berliner Philarmoniker. Avevamo provato tutto il giorno ed ero molto stanco. Sono andato a cena con Patrice Chéreau nel mio albergo, il Kempinski a Charlottenburg. Fu lui a dirmi che stava succedendo qualcosa ai varchi del Muro, ma non ci feci molta attenzione. Così andai a dormire». Il resto è già storia. Al mattino, quando la moglie lo svegliò presto dicendogli che era caduto il Muro, la sua prima reazione fu di pensare a un scherzo. Poi gli tornò in mente Chereau, si alzò di corsa, accese il televisore e si rese conto di aver mancato l’appuntamento del secolo. «Mi precipitai alla Philharmonie e l’orchestra mi fece una proposta: “Maestro, facciamo un concerto gratuito per la popolazione di Berlino”». Barenboim accettò, ma pose la condizione che fosse riservato solo a quelli di Berlino Est. Accadde una domenica mattina, il 12 novembre: «Fu una cosa incredibile — ricorda l’artista argentino — la gente si mise in fila di notte, dovevano presentare la carta d’identità della Ddr per poter entrare. Suonammo Beethoven, il Primo concerto e la Settima Sinfonia. Alla fine feci un piccolo discorso. Quando tornai in camerino, c’era una lunga fila di persone che volevano stringermi la mano. Si era fatto tardi, alle 4 dovevamo riprendere a registrare. Avevo giusto il tempo di mangiare qualcosa. Esco e sulla porta vedo una signora, avrà avuto 60 anni. Aveva un mazzo di fiori ed era insieme a un uomo giovane. Mi ferma. Mi dà i fiori e mi dice: “Mi sono sposata a Berlino Est 30 anni fa e ho avuto un figlio. Ma quando il bambino aveva 6 anni mio marito decise di fuggire all’Ovest, portandolo con sé. Non ho mai più avuto notizie e contatti con loro. Poi ieri sera alle 9 questo giovane ha bussato a casa mia. Sono tuo figlio, mi ha detto. Non ci credevo, sono stata travolta dalla felicità e dalla commozione. Così abbiamo deciso di festeggiare venendo al suo concerto. Siamo stati in fila insieme a parlare per tutta la notte. Grazie”. Non dimenticherò mai quella donna». Stasera, alla Porta di Brandeburgo, Daniel Barenboim chiude il cerchio, dirigendo la Staatskapelle, nel frattempo diventata la sua orchestra, nella cerimonia dedicata alla notte in cui i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». «Faremo ancora Beethoven, la Quinta, la sinfonia del destino. Ed è un rovesciamento interessante: allora ho diretto un’orchestra dell’Ovest per un pubblico dell’Est, questa volta dirigerò un’orchestra dell’Est per un pubblico in maggioranza dell’Ovest».

Lei dopo la caduta del Muro ha scelto di vivere e lavorare a Berlino. Come successe?

«La prima volta che ho diretto la Staatskapelle è stato nel 1991. Era il mio primo contatto musicale con l’orchestra. Avevano fretta dopo il crollo del Muro. Cercavano un nuovo direttore. Abbiamo tentato di organizzare un concerto, ma i due calendari non coincidevano. Così abbiamo deciso di fare solo una prova lunga con il Preludio di Parsifal. Quando sentii le prime note ebbi uno choc. Era il suono col quale ero cresciuto a Tel Aviv con l’Orchestra Filarmonica di Israele negli Anni Cinquanta. Era stata creata nel 1936 da immigrati ebrei del centro Europa: Germania, Polonia, Ungheria e Austria. Nella Ddr, a causa della chiusura dei confini e dell’assenza dei nuovi strumenti giapponesi, quel suono si era conservato nel tempo. Fu la motivazione principale che mi spinse ad accettare l’incarico».

Come ha vissuto nella città senza Muro?

«I primi dieci anni erano interessantissimi. Passeggiavi sull’Unter den Linden e pensavi di essere a Mosca. Andavi sul Kurfürstendamm e ti credevi a Parigi. Diventai molto amico con Heiner Müller, il grande regista. Insieme a lui ho fatto il Tristano al Festival di Bayreuth. Aveva una tesi interessante, che forse oggi rivaluto: la riunificazione della Germania, diceva, è stata un grande peccato. Ci sarebbe stata la possibilità di creare qualcosa di nuovo, tra socialismo e capitalismo, un sistema sperimentale».

Perché rivaluta questa tesi?

«Guardiamo ai Länder dell’Est. Lì un tedesco su 4 vota per l’AfD, un partito non solo di estrema destra ma anche con frange neonaziste. Sono stati sotto due dittature, nessuno ha spiegato loro cos’è la democrazia, non l’hanno vissuta. E poi c’è stato un trionfalismo occidentale non giustificato, molti tedeschi dell’Est hanno percepito l’unificazione come annessione. Ma nella Ddr non era tutto da buttare: l’istruzione, la sanità, le scuole di musica, la parità tra uomo e donna erano più avanzati che nell’Ovest».

Lei è amico di Angela Merkel. Cosa apprezza di più in lei?

«La cancelliera ama e conosce la musica e il suo aspetto culturale, ma il vero esperto in famiglia è il marito, il professor Sauer. Merkel è l’unica personalità politica che conosco che non si lascia mai invitare, insiste sempre per pagare i suoi biglietti. Nel 2007, quando venne alla Scala per il Tristano, nel ricevimento durante l’intervallo disse al sovrintendente Lissner che voleva pagare. Ma lui rispose che il palco reale, dove lei sedeva, non si poteva vendere. Lei volle ugualmente pagare il prezzo di due buoni posti in platea».

Trent’anni dopo questo Paese non è riconciliato sostiene Angela Merkel. È d’accordo?

«La cancelliera ha ragione. Restano molte distanze, a Est due cittadini su tre dicono di sentirsi tedeschi di seconda classe. Quando chiede a un berlinese cos’è tipico della città, vi risponde ancora nell’Est questo, nell’Ovest quest’altro. Il lavoro è ancora lungo».

È preoccupato dall’aumento degli episodi di antisemitismo in Germania?

«Certo che lo sono. Ad Halle, dove solo per caso non c’è stato un massacro. Anch’io ricevo messaggi e lettere spaventose. Qualche giorno fa, in una mail uno mi ha definito porco ebreo, dicendo che a causa mia non viene più alla Staatsoper. Le cause sono complesse. L’Olocausto stinge nella memoria, le autorità tedesche non tengono sempre la guardia alta. Ho deciso di vivere a Berlino quasi 30 anni fa perché sentivo che i tedeschi avevano fatto i loro conti con il passato. Oggi mi accorgo che qualcosa torna. Alcuni, non solo gli estremisti dell’Afd, dicono che 75 anni di colpa collettiva sono sufficienti. Sono segnali sbagliati. L’antisemitismo è una malattia».

Berlino celebra i 30 anni della rivoluzione pacifica che fece cadere il Muro. Presenti i leader di Visegrád. Partecipano anche i Paesi protagonisti della rivolta che mise fine al "Secolo breve": il 9 novembre del 1989 l'ultimo autunno della Ddr. Su La Repubblica dalla nostra corrispondente Tonia Mastrobuoni il 9 novembre 2019. Bernauer Strasse è ancora oggi un luogo pieno di memorie del Muro. Non è un caso che sia stato scelto come teatro principale per le celebrazioni del trentennale della rivoluzione pacifica che mise fine alla Ddr, il 9 novembre del 1989. Nel 1961, quando fu costruito, la Germania Est inglobò un tratto di quella strada nella striscia della morte. Gli abitanti delle case che affacciavano sulla frontiera cominciarono a buttarsi dalle finestre per non rimanere dalla parte sbagliata del Muro. Fuga dalla DDR, chi ce l'ha fatta e chi no: ''Ma in ogni caso è valsa la pena rischiare la vita''. Già nell'anno successivo, sotto la Bernauer Strasse alcuni irriducibili eroi della libertà costruirono i primi tunnel per salvare i tedeschi dell'Est dalla prigionia cui Walter Ulbricht li aveva condannati. E fino al 1985 la Chiesa della Riconciliazione che affacciava su quella strada rimase incastrata nella striscia della morte, prima che il regime la radesse al suolo. È stata ricostruita e restituita alle funzioni religiose, anche il campanile è stato ricostruito e inaugurato di recente: una parte della cerimonia si svolgerà anche qui. Ad oggi, Bernauer Strasse è uno dei rari punti della città dove sopravvivono resti della più orribile ferita che divise la Germania. Le celebrazioni ufficiali per il trentennale della caduta del Muro cominceranno in mattinata alle 9,30 alla sede della presidenza della Repubblica, al castello di Bellevue, con un saluto del capo dello Stato, Frank-Walter Steinmeier e i quattro leader di Visegrád. Presenzieranno il presidente della Polonia, Andrzej Duda, quello della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, l'omologa della Repubblica slovacca, Zuzana Caputová e János Áder, capo dello Stato ungherese. I quattro accompagneranno Steinmeier e la cancelliera Angela Merkel anche nelle cerimonie successive. Alle 10,30 Merkel, Steinmeier e i quattro leader di Visegrad si sposteranno nella Bernauer Strasse, per ricordare la rivoluzione pacifica tedesca, successivamente visiteranno il monumento dedicato alle rivolte che aprirono una breccia nella Cortina di ferro anche nei Paesi dell'Est, dov'è previsto un discorso di Steinmeier. La cerimonia ufficiale si concluderà alle 11,15 con una dichiarazione di Merkel alla Chiesa della Riconciliazione. Nel pomeriggio il testimone dell'anniversario passerà alla città di Berlino, che ha organizzato dalle 17,30 un concerto in un altro luogo simbolico della città divisa, alla Porta di Brandeburgo che per tre decenni rimase inaccessibile, attraversata dalla striscia della morte. Tra gli ospiti, Daniel Barenboim, direttore della Staatsoper, la leggenda techno DJ WestBam, Anna Loos, Banda Internationale, Zugezogen Maskulin, Die Zöllner, Dirk Michaelis e Trettmann. Cinque anni fa, per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro, l'evento principale dei festeggiamenti era stata una passeggiata di Angela Merkel, Lech Walesa e Mikhail Gorbaciov sul ponte di Bornholmer Strasse, il primo varco che si aprì poco prima di mezzanotte del 9 novembre 1989.

L’anno più lungo dell’Europa. Andrea Muratore su it.insideover.com il 7 novembre 2019. La giornata del 9 novembre segna l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989, di cui ricorre quest’anno il trentennale. La caduta del Muro fu uno degli eventi cruciali del decisivo 1989 che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda, di cui la barriera eretta dalle autorità socialiste della Germania Est era divenuta il massimo simbolo. La caduta del Muro aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica di Stalin nell’Est Europa nel secondo dopoguerra. Accelerò, senza esserne né il punto di inizio né quello conclusivo, un processo già in atto, che culminò tra il 1990 e il 1991 con la riunificazione tedesca, la transizione dell’Est Europa a un sistema di democrazia pluralista e economia di mercato (accompagnato molto spesso da gravi squilibri) e, infine, con il collasso della stessa Unione sovietica. La fine di un sistema senescente come quello del comunismo a guida sovietica riguardò tutta l’Europa orientale, secondo un effetto domino che travolse regimi politici caratterizzati da alterne fortune nel secondo dopoguerra, evaporati come neve al sole mentre esplodevano le contraddizioni che ne avevano causato la sclerosi. La stagnazione economica, la persistente influenza dei debiti contratti con le istituzioni finanziarie occidentali, la ripresa di movimenti a lungo repressi e facenti riferimento a orizzonti ideali diversi da quello comunista (Solidarnosc in Polonia), il collasso degli apparati securitari su cui si reggevano le burocrazie comuniste (come in Romania) o una convergenza di questi fattori travolsero, nel decisivo 1989, l’Europa sovietica. Tramontata formalmente due anni dopo, quando l’alleanza militare e strategica del Patto di Varsavia si sciolse ufficialmente. Ma scossa alle fondamenta nell’anno della caduta del Muro, in cui l’Europa vide la rimozione della sua faglia geopolitica e materiale più vistosa. E in cui, per un contrappasso storico, iniziò il processo di marginalizzazione del Vecchio Continente, che dal bipolarismo aveva tratto un’appendice di rilevanza strategica dopo il suicidio delle guerre mondiali, negli ordini mondiali dei decenni a venire.

Tutto parte dalla Polonia. La frammentazione dell’Europa sovietica iniziò dalla Polonia. Paese più importante, assieme alla Germania Est, dell’architettura di Mosca nell’Europa orientale. Interessata, a cavallo tra il 1988 e il 1989, da un’ondata di scioperi operai contro il regime guidato dal generale Wojciech Jaruzelski, salito al potere a inizio decennio per prevenire un’invasione sovietica dopo lo scoppio della protesta del sindacato cattolico Solidarnosc. Lech Walesa, leader di Solidarnosc, forte dell’appoggio del primo pontefice polacco della storia, Giovanni Paolo II, del rafforzamento della Chiesa cattolica polacca come elemento d’influenza nella società, di finanziamenti internazionali consistenti (tra cui quelli del Psi di Bettino Craxi) e della base operaia esaltata dalla propaganda comunista riuscì gradualmente a togliere il terreno dai piedi del regime. L’ondata di scioperi condusse alla convocazione delle prime vere elezioni della Polonia post-bellica nel giugno del 1989. La strategia di Walesa arrivò a compimento mesi prima che la caduta del Muro fosse anche solo lontanamente ipotizzabile: in un sistema ancora particolarmente ingessato, con un gran numero di seggi bloccati per il partito comunista egemone, Solidarnosc ottenne il 35%, segnando che il mutato vento della storia stava soffiando in direzione opposta al governo nazionale. Con realismo, Jaruzelski accettò il risultato, assegnando a Solidarnosc la guida di una coalizione di governo non comunista guidato dall’attivista del sindacato Tadeusz Mazowiecki. L’elezione di Walesa alla presidenza, l’anno dopo, avrebbe completato la transizione.

L’Ungheria abbatte il suo muro. I movimenti che animavano la Polonia si riverberarono ben presto sulla vicina Ungheria, in cui si erano già manifestate spinte autonome. Il futuro dell’Ungheria si aprì con la valorizzazione di un passato ben impresso nella memoria dei magiari: il perdono postumo comminato dalle autorità a Imre Nagy e agli altri eroi della rivolta antisovietica del 1956. Nel mese di giugno 1989 a Budapest, nella centralissima Piazza degli Eroi, Nagy fu solennemente commemorato in un evento che portò, tra le altre cose, alla notorietà un giovane politico liberale da poco rientrato nel Paese dopo la fine di una borsa di studio finanziata da George Soros: Viktor Orban. Poco prima l’esecutivo guidato da Miklos Nemeth aveva aperto a una serie di importanti concessioni: stop al monopartitismo, libere elezioni coi partiti democratici coinvolti e, nel mese di maggio, via libera alla rimozione della barriera elettrificata da quasi 250 chilometri che demarcava il confine con l’Austria. Dopo il primo, intenso semestre la transizione che portò alla trasformazione dell’Ungheria in una repubblica democratica tra il 1990 e il 1991 fu graduale e senza particolari scossoni.

Salta il tappo della Ddr. La mossa del governo ungherese aveva coinvolto direttamente la Germania Est, guidata dall’ultimo segretario-padrone della Sed il partito socialista unificato, Erich Honeker. Nell’estate 1989 decine di migliaia di tedeschi dell’Est iniziarono a viaggiare verso l’Ungheria per approfittare dei varchi aperti all’emigrazione. La marea montante delle manifestazioni portarono il regime a considerare più che plausibile l’ipotesi di schierare l’esercito per reprimere le proteste e le richieste di maggiore apertura e trasparenza nel Paese. La crescita delle tensioni interne al Paese portò il governo della Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) a sperare nel sostegno dell’esercito sovietico stazionante nel Paese in risposta alla sempre più dura e forte contestazione. A nulla valsero i decreti di chiusura dei confini, l’irrigidimento del Politburo della Sed, le minacce di una repressione simile a quella cinese di Piazza Tienanmen: quando nell’ottobre 1989 Mikhail Gorbacev venne in visita per celebrare il quarantesimo anniversario della Ddr, comunicò a Berlino Est che Mosca non aveva la forza politica di supportare il mantenimento dello status quo nel suo “impero” e spronò apertamente una politica di riforme. Le parole di Gorbacev furono forse l’evento più significativo del 1989. Il Segretario del Pcus demoliva così in pochi giorni l’architettura politico-militare che aveva trattenuto nell’orbita sovietica i Paesi del Patto di Varsavia. Il destino politico di Honeker era segnato: il 18 ottobre 1989 fu destituito dal Politburo e sostituito dal suo vice Egon Krenz, che guidò la politica di riforme atta a conseguire l’emigrazione a Ovest dei suoi concittadini. La Ddr riaprì i confini e quando il 9 novembre i portavoce del governo socialista annunciarono il via libera all’emigrazione diretta tra Berlino Est e Berlino Ovest, migliaia di cittadini della capitale divisa si assieparono sul Muro eretto nel 1961, iniziando a demolirlo fisicamente per raggiungere l’Occidente. Il resto è storia. Una storia che parla della riunificazione più simbolica che reale della Germania, in cui tra Est e Ovest continua a persistere un divario economico e sociale non indifferente. Caduto il Muro fisico, trent’anni dopo, la sfida dell’integrazione tra le due Germanie deve ancora essere vinta.

Cecoslovacchia e Bulgaria, transizioni rapide e morbide. Praga e Sofia furono fortemente condizionate da quanto avvenuto in Germania Est. L’effetto domino travolgente della dissoluzione dei regimi comunisti esteuropei coinvolse la Cecoslovacchia nella seconda metà del 1989. Il Forum Civico dello scrittore e dissidente Vaclav Havel intensificò la pressione per la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione e della censura, e il 17 novembre 1989 una manifestazione nella capitale per la Giornata internazionale degli studenti si espanse a macchia d’olio in un vero e proprio moto di rivolta contro il regime. Rivolta oceanica, permanente e incredibilmente disciplinata: le manifestazioni di massa che coinvolsero 800.000 persone e delegittimarono il regime comunista furono definite “rivoluzione di velluto”. In meno di un mese, il comunismo cecoslovacco evaporò, in parallelo a quanto fatto dalla Sed negli stessi giorni tra fine novembre e inizio dicembre il regime rinunciò al ruolo-guida del Partito sancito dalla Costituzione e fu avviata in maniera istantanea la transizione. Havel divenne Presidente, il Forum Civico vinse il voto popolare del 1990 e, nel 1993, la repubblica si scisse, dando origine alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia. La Cecoslovacchia era centro industriale e produttivo di grande importanza. La Bulgaria il piantone del Patto di Varsavia, forse l’unico vero Stato fantoccio privo di reale sovranità nel blocco sovietico. La tenuta del suo regime era vincolata all’esistenza del bipolarismo e della Guerra Fredda, e quando l’evento simbolicamente più significativo, la caduta del Muro, ebbe luogo, facendo capire a Sofia l’importanza del proclama neutralista dei sovietici, il vassallo veterostalinista Todor Zhivkov fu destituito in meno di 24 ore. La rapidità d’azione del Partito Comunista Bulgaro gli consentirono di sopravvivere alla fine della Guerra Fredda. Cambiata la pelle e rinnegato il marxismo-leninismo, la formazione assunse il nome di Partito Socialista Bulgaro e convocò, vincendole, le elezioni del 1990.

Il Natale di sangue rumeno. Anomalo nel contesto del 1989 fu il caso della transizione rumena. Il Paese più autonomo da Mosca, governato da Nicolae Ceaucescu, aveva pagato il suo avventurismo diplomatico e geopolitico e il suo avvicinamento eccessivamente incauto al blocco occidentale con la trappola del debito. La Romania di Ceaucescu aveva dovuto ricorrere a misure di austerità durissimeper ripagare i debiti contratti con le istituzioni internazionali. L’austerità e il razionamento di cibo, gas e altri beni di prima necessità furono, secondo molti analisti, funzionali a contenere dal 1981 in avanti la proliferazione del dissenso al di fuori di alcuni scioperi industriali e minerari. La Romania di Ceaucescu era uno Stato di polizia vigilato strettamente dalla famigerata Securitate, talmente solerte nel compiere il suo lavoro di repressione da prevenire la nascita di ogni possibile forma di dissenso. Mentre la Romania di Ceaucescu diventava il Paese più povero del blocco sovietico e i suoi tassi di mortalità infantile toccavano livelli da Terzo Mondo, il dittatore e la moglie Elena destarono scalpore per lo stile di vita lussuoso e la progressiva estraniazione dal resto del Paese. Il più emblematico esempio della paranoica volontà di autocelebrazione di Ceaucescu è il gigantesco, grigio e freddo Palazzo del Parlamento di Bucarest, cattedrale costruita nel deserto della Romania devastata dalla povertà. Ceaucescu non capì la necessità di compromessi o cambi di direzione. Quando le proteste di piazza iniziarono a moltiplicarsi anche in Romania, la dittatura reagì con brutalità. Centinaia di morti soffocarono le proteste che si estesero dalla Transilvania alla capitale Bucarest a partire dal 17 dicembre. Troppo per molti dei soldati e degli ufficiali delle forze armate, che iniziarono ben presto a ammutinarsi e a rivolgersi ai ranghi del regime desiderosi di svicolare da un confronto che rischiava di causare una devastante guerra civile. Data la struttura del potere rumeno, l’unica alternativa realisticamente possibile a Ceaucescu era una congiura interna al regime. Una resa dei conti interna. Così fu. Il 21 dicembre Ceaucescu infiammò a Bucarest una folla di 100mila persone; poche ore dopo, il ministro della Difesa Vasile Minea fu trovato morto in circostanze sospette. Suicida dopo esser stato destituito per ammutinamento, sostenne il regime. Ucciso per aver disobbedito, sostenne il neocostituito Fronte di Salvezza Nazionale (Fsn), formato da diversi membri di secondo piano dell’apparato e guidato da Ion Iliescu. A decidere l’esito della rivolta fu il sostituto Victor Stanculescu. Terrorizzato dall’idea di dover scegliere tra due plotoni di esecuzione (quello dei rivoltosi o quello del regime), Stanculescu guidò palesemente la rivolta delle forze armate. Sfruttando la situazione di caos per usarle contro il dittatore, assediato tra il 22 e il 23 dicembre dai manifestanti assiepati attorno ai palazzi di potere di Bucarest. Il tentativo di fuga in elicottero di Nicolae e Elena Ceaucescu fallì: tra il 24 e il 25 dicembre 1989 il Fsn guidò un processo-lampo contro il dittatore e la moglie che si concluse con la loro fucilazione. Il Natale di sangue rumeno concluse una decade durissima per il Paese, nella quale tra le 600 e le 1.000 persone persero la loro vita. Il golpe interno all’apparato di potere rumeno chiuse nella maniera più atipica l’anno della caduta del Muro. Il decisivo 1989: un anno al cui termine l’Europa si scoprì meno divisa ma, al tempo stesso, meno centrale nel mondo. Finito il bipolarismo, le vecchie faglie interne al continente avrebbero continuato a palesarsi. Lungi dal far finire la storia europea, la caduta del Muro l’ha rimessa in cammino.

Gloria Remenyi per ilsole24ore.com il 6 novembre 2019. Consultando i record sportivi della ex Germania Est, il nome di Ines Geipel (allora Ines Schmidt) non compare da nessuna parte. Eppure nel 1984 fu lei, insieme alle altre staffettiste della SC Motor Jena, a fermare il cronometro a 42,20 secondi sulla 4×100, stabilendo un incredibile record del mondo di società. Oggi accanto a quel risultato si leggono soltanto tre nomi (Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald e Marlies Göhr) e un asterisco. Quell’asterisco è Ines Geipel. Oggi affermata scrittrice, nonché docente presso la Scuola di Arte Drammatica Ernst Busch di Berlino, Geipel è stata un’atleta di punta della DDR: «Ho iniziato a correre per sopravvivere, per dimenticare e per scappare dal dolore» racconta. Nel 1977 la giovane Ines trovò nello sport una via d’uscita dalla famiglia opprimente in cui era cresciuta, con un padre che lavorava come agente della Stasi, la polizia segreta della Germania Est. Ma la fuga fu soltanto illusoria. Già nel 1974 il regime aveva approvato il Piano di Stato 14.25, che prevedeva la somministrazione forzata di steroidi anabolizzanti, ormoni e anfetamine agli atleti al fine di gonfiarne le prestazioni, incurante dei disastrosi effetti di queste sostanze, eufemisticamente definite “mezzi di supporto”. L’obiettivo ultimo era dimostrare la superiorità del socialismo e per conseguirlo ogni mezzo era considerato lecito. Così iniziò la parabola di una piccola nazione che diventò quasi invincibile in tutte le discipline sportive. Si diceva che gli atleti della DDR fossero «diplomatici in tuta», anche se Geipel preferisce definirli «un esercito di soldati civili». Secondo le stime più recenti le vittime del doping di Stato della DDR furono 15.000, di cui circa 10.000 donne. Tra di loro anche Ines Geipel. Per questo nel 2005, dopo il processo di Berlino e il riconoscimento formale come “vittima del doping di Stato”, la ex velocista pretese che il suo nome accanto al record venisse rimpiazzato da un asterisco. «Si preferiva dopare le donne perché su di loro l’effetto virilizzante degli ormoni maschili è nettamente più forte» racconta Geipel, che oggi a Berlino dirige l’Associazione per le vittime del doping da lei stessa fondata nel 2013. Ci parla di migliaia di atlete, in gran parte minorenni, che nella DDR vennero virilizzate chimicamente e sacrificate alla nazione a loro insaputa, rese invincibili sul campo e annientate nella vita. Le atlete della DDR conquistarono circa il 40% di tutti i titoli europei e mondiali vinti dal piccolo Stato e stabilirono record destinati a durare, di cui alcuni risultano ancora oggi imbattuti, per esempio quello di Marita Koch sui 400 metri piani (47,60 secondi; 1985) e quello di Gabriele Reinsch nel lancio del disco (76,80 metri; 1988). I loro strabilianti risultati non significavano soltanto prestigio politico per il Paese, ma valevano anche come prova lampante dell’emancipazione della donna nella Germania Est. Per tutto questo le atlete hanno pagato un prezzo altissimo. Una su tutte la pesista Heidi Krieger che a fine carriera, dopo anni di depressione e crisi, fu costretta a cambiare sesso per aver assunto lo steroide anabolizzante Oral Turinabol in quantità doppie rispetto a quelle di Ben Johnson a Seul 1988. Oggi si chiama Andreas Krieger. Sebbene la DDR sia oggi storia, non lo sono le esistenze devastate di queste atlete, le #donnedisport che raccontiamo in questo post. Nel 2000 Geipel si costituì parte civile contro i responsabili del doping di Stato della DDR al processo di Berlino, a seguito del quale il medico Manfred Höppner e il ministro dello sport Manfred Ewald furono condannati in quanto ideatori del sistema. Per Geipel e altre venti donne quello fu l’inizio dello svelamento: «Solo allora iniziammo a comprendere quello che ci avevano fatto e fu uno shock. Gli anni ’80 furono il periodo più spietato per lo sport e la violenza andava ben oltre il doping» così Geipel. Lei stessa fu “eliminata strategicamente” quando il regime ritenne che costituisse un pericolo per lo Stato, ovvero quando si innamorò di un atleta messicano e tentò senza successo di fuggire a Ovest. La Stasi intervenne, Geipel fu sottoposta a una presunta appendicectomia con cui le vennero inferte gravi lesioni all’addome; sopravvisse per miracolo, dovette lasciare lo sport e rassegnarsi all’idea di non avere figli. Solo tempo dopo seppe cosa le era accaduto. Nel 1989 riuscì a fuggire dalla Germania orientale attraverso il confine tra Ungheria e Austria. Con il team dell’Associazione, Geipel fornisce oggi assistenza a circa 2.000 ex atleti colpiti: «A distanza di 40 anni le vittime escono ancora allo scoperto. Spesso i corpi dopati necessitano di molto tempo per crollare, abituati come sono alla logica della prestazione. In più il timore e la vergogna scoraggiano molte vittime dal ricercare aiuto, specialmente quando si tratta di atleti che non si sono emancipati dal contesto in cui vivevano allora, caratterizzato ancora oggi da un’omertà diffusa che riguarda la stampa locale, i medici e i cittadini stessi» spiega la direttrice. Su 2.000 ex atleti assistiti, ben 1.500 sono donne. Dalle loro testimonianze emerge un complesso quadro di violenza strutturale: «Era un sistema patriarcale: in politica dominavano gli uomini, in ambito sportivo le allenatrici erano rare e molte donne medico si ritirarono strada facendo per ragioni etiche. L’ambiente divenne sempre più maschile e quello delle atlete invincibili si consolidò come un mito perverso. Lo sport era retto da dinamiche di pressione, sadismo e abuso. Migliaia di ragazze, in molti casi bambine sotto i 10 anni, vennero ingannate e depredate del loro sesso. Le atlete si fidavano di allenatori e medici che spacciavano pillole variopinte per vitamine e integratori. Oggi vengono al consultorio e scoppiano in lacrime. Soffrono di problemi psichici come depressione, psicosi e bulimia. La loro ossatura è distrutta per il sovraccarico degli allenamenti. In molti casi hanno subito un’interruzione dello sviluppo, il che significa ovaie atrofizzate e sterilità. Se rimangono incinte, sono soggette ad aborti spontanei. Quando partoriscono c’è la possibilità che i figli siano disabili. Per via degli ormoni alcune presentano irsutismo, altre invece perdono completamente peli e capelli. C’è chi non ha sviluppato il seno. In queste condizioni la vita diventa per le vittime un inverosimile atto di forza». Finora l’Associazione diretta da Geipel è riuscita a ottenere due leggi che riconoscono un’indennità alle vittime del doping di Stato della DDR. La prima legge riguardava 200 atleti, la seconda 1.000. Il prossimo obiettivo è ottenere una pensione politica anche per i bambini colpiti nella seconda generazione, ad oggi già 300: «L’indennità significa molto perché è una forma di riconoscimento di cui le vittime hanno estremamente bisogno» commenta Geipel. All’Associazione gli ex atleti ricevono molteplice assistenza (psichiatrica, giuridica, burocratica ecc.). Presto verranno attivati dei gruppi di autoaiuto e si potrà contare su una rete di medici specializzati. Geipel è inoltre impegnata nella ricerca di un finanziamento stabile: «La politica fa soltanto lo stretto necessario. Lo sport non ne vuole sapere: molti dei tecnici attivi durante la DDR sono stati integrati nel nuovo sistema. Negli uffici pubblici c’è chi ancora disconosce il doping di Stato». Oggi Ines Geipel va a correre ogni volta che può: «Questa passione non se n’è mai andata» dice sorridendo, «ma non provo più gioia né entusiasmo per le manifestazioni sportive internazionali. Nei corpi degli atleti e nelle loro prestazioni intravedo la lunga catena di interessi che regola la chimicizzazione dello sport. Tutti ne sono responsabili, dal medico all’allenatore passando per la politica e i fan, invece è quasi sempre l’atleta il capro espiatorio, anche quando il doping è il risultato di una cospirazione. Temo che oggi in Russia molti atleti ignorino di cosa sono vittime. Per una medaglia d’oro della DDR sono stati “bruciati” 80 bambini. La lista dei morti conta circa 500 persone, più di quanti ne abbia causati il Muro di Berlino. Lo sport esisterà sempre, ma dobbiamo porre fine a questo massacro». 

Silvia Ronchey per “Robinson - la Repubblica” il 6 novembre 2019. Si dice che l' impero romano sia caduto nel 476, sotto l' onda d' urto delle cosiddette invasioni barbariche. Ma se osserviamo la storia nelle sue onde lunghe anziché nelle increspature di superficie, come ci ha insegnato lo storico novecentesco Fernand Braudel, e guardiamo ai millenni piuttosto che ai secoli o tanto meno ai decenni, vediamo che in realtà l' impero romano è caduto nel 1989, insieme al Muro di Berlino. Nel quinto secolo l' impero romano non cadde, perché aveva già cambiato indirizzo. Costantinopoli, la nuova capitale che l' imperatore Costantino aveva fondato nel 330, in quell' est del mondo che ciclicamente si impone alla gravitazione della storia, non era una Seconda Roma solo di nome. Lo era e lo sarebbe stata di fatto. In quello che fu chiamato impero bizantino, ma che i suoi cittadini continuavano a chiamare "romano", si trasferirono senza soluzione di continuità non solo la tradizione statale e l' eredità giuridica dello stato romano tardoantico, ma anche la sua più importante eredità civile: la capacità di amalgamare e integrare sempre diverse etnie. Nel quinto secolo l' ondata di genti straniere o "barbariche" che travolse la pars Occidentis investì anche la pars Orientis, ma fu inglobata all' interno delle sue strutture di potere, cosicché non solo non ne provocò la fine ma mescolandosi alle sue élite e rinnovandole inaugurò a Bisanzio un meccanismo di ricambio e ibridazione sociale e etnica che resistette per undici secoli, fino al 1453, data della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi osmani. Ma neanche a questo punto l' impero romano cadde. La sopravvivenza della cultura statale romano-bizantina fu apertamente assicurata da un lato nell' impero multietnico ottomano, suo diretto conquistatore, dove il sultano assunse il titolo di imperatore di Roma (Rûm), d' altro lato in quello russo, suo immediato continuatore, dove la Terza Roma, Mosca, nacque sotto l' egida dell' ortodossia. Nelle due propaggini nord- e sud-orientale, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie continuò. I sultani mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative, fiscali e giuridiche dell' impero bizantino, a loro volta eredi di quelle romane. Nel mondo russo Ivan IV Groznij, detto il Terribile, fece programmaticamente discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione ininterrotta di imperatori romani e bizantini. Alla sua visione si adegueranno i successivi czar ("cesari") della Russia zarista, ma anche gli autocrati dell' impero sovietico. Quando Sergej Ejzenstejn intraprese la sua trilogia sull' antico autocrate russo, Stalin, il moderno autocrate sovietico che in filigrana vi era raffigurato, lo convocò al Cremlino e gli contestò di « non avere studiato abbastanza Bisanzio». Solo con la caduta dell' impero ottomano all' inizio del Novecento e soprattutto con quella dell' impero sovietico alla sua fine, nel 1989, alla caduta del Muro, o meglio nel 1991, alla dissoluzione formale dell' Urss, l' eredità di Costantino rivendicata ininterrottamente da Ivan il Terribile a Stalin si è resa vacante, producendo, nell' implosione, un unico macroscopico sussulto tellurico in tutte le aree di irradiazione della civiltà multietnica romana, poi bizantina, poi ottomana e russo-zarista o russo-sovietica. Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno difficile comprendere il turbolento esordio del Ventunesimo secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso in quelle aree geografiche in cui gli imperi romani epigoni avevano tenuto a freno gli scontri fra etnie: dall' Illiria, oggi Balcani, al Chersoneso, oggi Crimea, nel caso del blocco sovietico, e per il quadrante ottomano - nel veloce dissolversi delle temporanee custodie coloniali e dei fragili mosaici di successive alleanze - dalle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Pakistan, Afghanistan, Iran e Iraq, fino alla Siria e al Kurdistan. Il fantasma di Bisanzio ha preso ad aleggiare vendicativo subito dopo il disgregarsi, all' inizio e alla fine del Novecento, degli ultimi due eredi di un' idea imperiale trasversale alla divisione stereotipa tra Oriente e Occidente, e tanto più a quella tra religioni. Si è allora insinuata nella nostra fantasia collettiva occidentale l' idea di uno "scontro di civiltà" tra Oriente islamico e Occidente cristiano. Un altro muro si è alzato, a dividere due entità astratte - un preteso Oriente da un preteso Occidente - che a Bisanzio avevano programmaticamente e concretamente costituito, invece, un' unica civiltà. Categorie dimenticate dal medioevo gotico - crociate, infedeli, guerra santa - hanno pervaso il linguaggio della propaganda politica postmoderna. L' evoluzione integralista ha accomunato storicamente Asia e Europa, islam e cristianesimo - ed ebraismo, fra l' altro - tra la fine del Novecento e l' inizio del nuovo millennio. E, poiché nella storia come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, il fantasma del vecchio impero, ucciso ma non morto, ha tentato, come i vampiri, di produrne di nuovi, più assetati e meno esperti. Due autocrati si sono insediati alla guida dell' ex impero zarista e dell' ex impero ottomano, in un tripudio di mezzelune e di croci. Il nuovo zar e il nuovo sultano hanno sostituito alle ideologie laiche nuove ideologie religiose, fondandovi il loro potere. Se quello romano era uno stato laico e se Costantino, il primo imperatore bizantino, aveva reso il cristianesimo religione di stato imponendo tuttavia l' estromissione del clero dal potere temporale, dopo la caduta del Muro novecentesco i potentati ecclesiastici e in generale gli estremismi religiosi hanno ripreso forza, creando, più o meno opinatamente, altri muri. Altri "barbari" si sono materializzati agli occhi di ampie fasce di opinione occidentali nelle colonne di migranti che il terremoto dell' inizio del terzo millennio ha sbalzato sulle sponde e tra le onde del Mediterraneo. Creando così altre divisioni, moltiplicando barriere e fili spinati esterni e interiori, in una quinta infinita di muri.

Vittorio Feltri, la vecchia profezia di Andreotti per sbugiardare la Merkel: "Sulla Germania aveva ragione". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Giulio Andreotti ci aveva visto bene nel lontano 13 settembre del 1984 quando pronunciò la celebre frase: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due". A distanza di parecchi anni è Vittorio Feltri a elogiare il fu ministro degli Esteri ai tempi del governo Craxi: "Aveva ragione Andreotti" cinguetta sul suo profilo Twitter in un chiaro riferimento a quella Germania che, guidata da Angela Merkel, detta legge con due pesi e due misure ai paesi dell'Unione Europea. Tra questi c'è anche l'Italia rappresentata - riportando le parole di Feltri - da quel "Giuseppino Conte" volato più volte a Berlino "a baciare la pantofola" della Merkel, in nome di "una sudditanza di cui non si capiscono le ragioni".

Andreotti, le frasi celebri - Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due. Da My24 st.ilsole24ore.com. Frase attribuita ad Andreotti in occasione dell'unificazione tedesca. Frase erroneamente attribuita ad Andreotti, il vero ideatore fu Francois Mauriac: J’aime tellement l’Allemagne que je suis ravi qu’il y en ait deux.

MURO DI BERLINO. Dalle due Germanie di Andreotti alla “guerra” di Kohl. Alberto Indelicato il 10.11.2014 su Il Sussiadiario. “Il muro di Berlino? Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo”. ALBERTO INDELICATO, ultimo ambasciatore nell’ex DDR. La caduta del Muro? “Il muro di Berlino non è mai caduto, è stato distrutto dal popolo. Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo. E’ stato distrutto da chi voleva la libertà”. Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica Tedesca, rievoca la fine della Germania comunista».

Lei ha scritto un libro, Memorie di uno stato fantasma. Perché chiama così la ex DDR?

«E’ una considerazione di ordine storico-politico. La Germania orientale era un paese comunista come lo erano la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, l’Ungheria. Il comunismo era come una vernice che copriva tutti questi paesi, o se vogliamo un grande lenzuolo dietro il quale si nascondevano i veri paesi, la loro gente, le loro storie. Nel caso della DDR invece, sotto al lenzuolo non c’era nulla».

Uno stato artificiale, un albero senza radici.

«In Germania orientale il socialismo non era l’ideologia dello stato, ma lo stato stesso. Una volta tolto il socialismo l’Ungheria sarebbe rimasta Ungheria, non c’era dubbio, come in effetti fu dopo il crollo del comunismo. Ma dietro il comunismo della DDR non c’era dietro una Germania, non c’era niente».

Cosa voleva dire rappresentare l’Italia?

«Fino al 1972 nessuno degli stati occidentali riconosceva la Germania orientale, anche se riconosceva tutti gli altri paesi comunisti. La Germania Federale (Bundesreplublik Deutschland, BRD) aveva creato la dottrina Hallstein: chi avesse riconosciuto la DDR avrebbe automaticamente rotto i rapporti diplomatici con la BRD. Poi, con le discussioni che portarono all’atto finale di Helsinki firmato il 1° agosto 1975, cominciarono dei negoziati con tutti gli stati, compresa la DDR. Arrivati a quel punto non si poteva più rifiutare il riconoscimento, che arrivò da tutti gli stati della Nato, ma con alcune limitazioni. Poi c’era Berlino, con il suo statuto speciale… Vi arrivai il 1° dicembre 1987».

Come giudica la celebre frase di Andreotti che disse di preferire due Germanie a che ce ne fosse una sola?

«Andreotti era un gran plagiario (sorride, ndr), me ne accorsi varie volte quando era ministro degli Esteri. Quando sentiva qualcosa che gli sembrava interessante o spiritosa se la annotava in un librettino che portava sempre con sé, e al momento buono la tirava fuori. Quella frase non è di Andreotti, ma di François Mauriac, che la usò negli anni 50 scrivendo sul Figaro».

E perché Andreotti la fece propria?

«Accadde ad un festival de l’Unità, che frequentava specialmente in quel periodo in cui sperava di diventare presidente della Repubblica; ma per diventarlo c’era bisogno dei voti comunisti… e quella frase suscitò l’entusiasmo in tutti i membri del Pci. Fu grave, perché non solo legittimava la DDR, di più, riconosceva, per dir così, l'”eternità” della Repubblica democratica. Chiamarono l’ambasciatore a Bonn e lo rimbrottarono. Il fatto provocò un po’ di freddo. Poi ricordo anche un altro episodio…»

Prego.

«La senatrice Carettoni (Tullia Carettoni Romagnoli, prima socialista poi indipendente con il Pci, ndr), presidentessa dell’associazione Italia-DDR, era mia amica, veniva spesso in Germania e io ero lieto di ospitarla. Le cose ormai andavano male, mi disse di aver parlato col presidente della commissione Esteri della camera, Manfred Feist, che era il cognato di Honecker, il quale le aveva detto: “sono momenti neri per noi, per fortuna in Italia abbiamo un amico…”. Era Andreotti! Non era comunista, Andreotti, ma opportunista sì».

Cosa ricorda del periodo che precedette il 9 novembre 1989?

«Un episodio che chiamo la cena degli addii. Noi ambasciatori fummo invitati a celebrare il 40esimo anniversario della nascita della DDR. C’erano tutti i capi comunisti, da Gorbaciov a Ceausescu, a Jaruzelski, a Straub, e tanti altri. C’erano anche i rappresentanti di tutti i partiti comunisti, ma non gli italiani. Honecker aveva fatto un discorso chiuso e conservatore, era stato molto più aperto quello di Gorbaciov… ad un certo punto mi accorsi che Gorbaciov era sparito, il suo posto era vuoto. Poi sparì Jaruzelski, e via via, uno ad uno, tutti gli altri. Mi venne in mente, all’improvviso, la “Sinfonia degli addii” di Haydn, nella quale ogni musicista, finita la sua partitura, prende il suo strumento e se ne va, lfino a che rimane solo il direttore. Anche la “partitura” della DDR, dopo 40 anni, stava finendo. Ci dissero che la cerimonia era finita e ci accompagnarono verso una uscita secondaria. Quando raggiunsi il mio autista capii il perché: davanti all’ingresso principale c’era una violenta manifestazione di 10mila persone che urlavano contro Honecker e il comunismo,e chiedevano libertà. Ci furono molti feriti, centinaia di arresti».

E’ ormai riconosciuto che la riunificazione tedesca è stata il capolavoro politico di Helmut Kohl. In che senso secondo lei?

«Anch’io penso che si sia trattato di un capolavoro. Kohl non fece nulla a caso, nemmeno subì gli avvenimenti, e ogni sua decisione fu attentamente calcolata, programmata. Intanto, aveva dato un sacco di soldi all’Ungheria che si ritrovava in pessime condizioni economiche. A patto, però, che questa aprisse la frontiera. Aveva immaginato bene che cosa poteva succedere. L’Ungheria aprì la frontiera, e quando i tedeschi videro in tv cosa stava accadendo, chiesero subito il permesso di andare in Ungheria… il governo, stupidamente, non capì che cosa si preparava e concesse i passaporti. La gente si precipitò in Ungheria ma non per restarci, bensì per passare in Austria. In pochi giorni se ne andarono 300mila persone».

E verso la DDR?

«In politica interna Kohl propose alla DDR una confederazione. La DDR sognava una confederazione paritaria, con elezione di pari rappresentanti nel parlamento federale; un’utopia, dato il peso demografico della BRD, ma questa prima proposta cominciò a lavorare sotto traccia nella mente non solo del governo di Honecker, ma anche della popolazione. La quale già era abbastanza agitata per tre affari: il primo, la decisione di Berlino est di concedere i passaporti a chi voleva andarsene….»

E gli altri?

«Il secondo, l’imprudenza di Egon Krenz (il braccio destro di Honecker, ndr) che era stato in visita in Cina nei giorni di Tien an men, e aveva dichiarato che se qualcosa di simile fosse successo in Germania, avrebbero saputo dove prendere esempio… Il terzo, ci furono le elezioni amministrative e per la prima volta gli oppositori, ricorrendo allo stratagemma delle schede bianche, misero allo scoperto il fatto che le elezioni erano truccate. Tutti questi elementi avevano creato uno stato di grande agitazione. Senza dimenticare, ovviamente, l’episodio dei rifugiati nell’ambasciata tedesca occidentale di Praga. La DDR fu felice di etichettarli come traditori, i “traditori” non vedevano l’ora di imbarcarsi sui treni che li portavano all’ovest. Fu uno schiaffo per il governo perché dimostrò che si voleva essere espulsi dal proprio paese».

Come spiega il fenomeno della Ostalgie, e il fatto che oggi un partito come Die Linke (erede della SED, il partito comunista di allora) prenda il 20 per cento nei vecchi Laender?

«Ognuno dei poliziotti che stavano alla frontiera per ammazzare che cercava di scappare era pagato più un professore universitario, ed erano migliaia. Nella DDR c’era un detto, secondo il quale in un gruppo di tre persone una era certamente una spia… tutti vedevano, riferivano, archiviavano, catalogavano, a volte perfino i figli contro i padri, le mogli contro i mariti. La Stasi era una polizia segreta più numerosa e perfino più efficiente di quella sovietica. Tutto questo gigantesco apparato è rimasto disoccupato, con conseguenze di lungo periodo come quelle che lei ha citato. A mio modo di vedere la Ostalgie ha una base economica; anagrafica ed economica».

Il Muro e la riunificazione fanno ancora parte della memoria storica tedesca attuale?

«Me lo auguro. La Germania, culturalmente e spiritualmente, è stata sempre una. Kohl è stato il Bismarck del XX secolo, con una piccola differenza, che Bismarck ha fatto tre guerre per unificare politicamente la Germania, mentre Kohl la guerra l’ha fatta coi soldi. Ma neanche i soldi sarebbero bastati, se non fossero stati al servizio di un profondo desiderio di unità e libertà». (Federico Ferraù)

30 anni fa la caduta del Muro di Berlino. Il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino e la conseguente apertura delle frontiere da parte della Germania orientale, cadeva uno dei simboli della «guerra fredda» e una linea di confine che divideva l’Europa tra le zone di influenza statunitense e quelle sotto il controllo sovietico. Il muro che circondava Berlino ovest e divideva in due la città era stato costruito nell’agosto 1961, per impedire ai cittadini che risiedevano nelle aree orientali di poter fuggire verso l’Ovest. Era lungo 155 chilometri e alto in media 3,6 metri. Dopo la fine della seconda guerra mondiale ai cittadini di Berlino era permesso di circolare liberamente in tutti i settori, ma con lo sviluppo della Guerra Fredda i movimenti vennero limitati; il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso nel 1952 e l’attrazione dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Est aumentò. Circa 2,5 milioni di tedeschi dell’est passarono ad ovest tra il 1949 e il 1961. Da quel momento la frontiera tra Berlino ovest e Berlino est venne fortificata e controllata militarmente mentre di fatto erano due i muri che correvano paralleli a distanza di alcune decine di metri. Non si conosce il numero esatto delle persone uccise mentre cercavano di superare il muro verso Berlino ovest. Alcune fonti ufficiali parlano di almeno 133 vittime, altre si spingono a più di duecento. Nel 1989, molti paesi che avevano fatto parte dell’area di influenza dell’unione sovietica, aprirono le loro frontiere. A novembre, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usato equipaggiamento industriale per abbattere quasi tutto quello che era rimasto. Ancora oggi c’è un grande commercio di piccoli frammenti, molti dei quali falsi. La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tra le due Germanie che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990. Il 20 giugno 1991 Berlino tornò ad essere la capitale della Germania e sede unica del parlamento e del governo federale.

40 anni fa l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini. La mattina del 29 gennaio 1979 Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica di Milano, venne ucciso da un commando di cinque militanti di Prima Linea, tra i quali Sergio Segio e Marco Donat Cattin, il figlio di Carlo, un ex sindacalista che era stato uno dei leader della Dc e più volte ministro. Quella mattina il magistrato, che aveva 37 anni, aveva appena accompagnato a scuola il figlio di 8 anni. Alessandrini era venuto a Milano da Pescara a 26 anni, avendo vinto subito il concorso da magistrato. In quegli anni violenti aveva bruciato le tappe, partecipando alle inchieste su piazza Fontana (sarebbe stato lui a firmare la requisitoria sul giornalista spia Guido Giannettini). Indagò sulle Squadre di Azione Mussolini, le cosiddette SAM, e per questo il 20 febbraio 1972 una bomba era esplosa nel suo cortile di casa. Pochi mesi prima dell’agguato mortale, nel covo di Prima Linea in via Negroli, abitato da Corrado Alunni, era stata trovata una sua foto. Era chiaro che Alessandrini era uno degli obiettivi del terrorismo a Milano. Non piaceva quel suo attivismo che lo avrebbe portato a essere il segretario dell’Associazione magistrati milanesi oltre che il primo coordinatore di un pool di giudici antiterrorismo nell’Italia del Nord. Aveva istruito i processi contro alcuni brigatisti e portava la sua esperienza sul campo anche in ambito internazionale, per esempio partecipando allo storico seminario di Cadenabbia, con esperti di mezza Europa. Nella rivendicazione dell’omicidio dei terroristi di Prima Linea Alessandrini viene dipinto come: «uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della repubblica di Milano» e come «...una delle figure centrali che il comando capitalistico usa...come macchina militare e giudiziaria efficiente e come controllo dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire». In quei giorni nel mirino, come avrebbe spiegato nel luglio 1984 Marco Donat Cattin durante il megaprocesso torinese contro Prima Linea, c’erano anche altri magistrati come Armando Spataro, Guido Galli, che poi sarebbe caduto il 19 marzo 1980, e Ferdinando Pomarici. «Abbiamo fatto varie ricognizioni e indagini – confessò Donat Cattin, che intanto si era dissociato dalla lotta armata e per questo usufruì di una pena mite -. Lui era quello che nella giornata aveva più punti deboli».

20 anni fa la morte di Stanley Kubrick. Sceneggiatore, regista, produttore cinematografico, Stanley Kubrick, (New York, 26 luglio 1928 – St Albans, 7 marzo 1999) è uno dei protagonisti della storia del cinema. La scandiscono i titoli dei suoi film, da Orizzonti di gloria (1957), Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964) , 2001: Odissea nello spazio (1968); Arancia meccanica (1971), Barry Lyndon (1975) Shining (1980), Full Metal Jacket (1987) Eyes Wide Shut (1999). Tantel e opere geniali ma neppure un Oscar Fedele fino all’ ultimo al credo dell’invisibilità come motore d’immortalità, Stanley Kubrick non ci farà mai sapere neppure come, quando e perché è morto. . Mai che andasse a una prima, mai che ritirasse un premio. «Credo nel cinema come forma espressiva primaria della nostra epoca». Fino al 1960 in America (nato a New York il 26 luglio 1928 in una famiglia borghese ebraica di origine austroungarica), indi naturalizzato inglese, prese fissa dimora nei pressi di Londra e negli studi Pinewood ha ricostruito - come Fellini, uno dei pochi a sentirlo ogni tanto al telefono e di cui si era innamorato vedendo «La strada» - perfino le giungle del Vietnam. Ha diretto in quarantacinque anni una dozzina di film di cui due poco noti, nel ‘ 55 - ‘ 56 («Il bacio dell’assassino» e «Rapina a mano armata»); gli altri dieci titoli hanno fatto moda ed epoca, basti pensare allo «scandalo» così preveggente sulla violenza di «Arancia meccanica»: «Ma non ci sono prove - diceva - che la violenza nei film o alla televisione provochi violenza sociale. L’ arte rimodella la vita ma non la crea, non la produce». Lunghe incubazioni e un maniacale perfezionismo, in nome del quale era capace, davvero, di spedire in giro per il mondo suoi emissari a controllare lo stato delle copie e delle sale nelle quali i suoi film venivano proiettati, con la possibilità di suscitare furibonde irritazioni. Kubrick, controllava tutte le fasi dell’opera, anche la pubblicità, se ne impadroniva in modo totale, compresi i diritti. Spazia dall’ antica Roma del 73 a. C. del gladiatore «Spartacus», con la sceneggiatura di Dalton Trumbo, epurato dalla caccia alle streghe , all’ infinito tecnologico esistenziale con valzer di Strauss di «2001 odissea nello spazio», il film che, previde il dominio del computer HAL 9000: arriverà agli obiettivi speciali di «2001», al lume di candela di «Barry Lyndon», nel ‘700 inglese di Hogarth e Gainsborough, alla steadycam come «protesi» dell’ occhio del regista in «Shining», il film che mescola all’ horror una sorta di autobiografico compiacimento sulla figura dello scrittore. Kubrick è morto a Harpenden, località di campagna dell’Hertfordshire, 100 km a nord di Londra. Abitava in Inghilterra con la terza moglie, Christiane, e le figlie Katharine, Anya, Vivian. Aveva 70 anni. Ignote le cause del decesso.

230 anni dalla nascita di Silvio Pellico. Nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, Silvio Pellico (25 giugno 1789 – Torino, 31 gennaio 1854) si affiliò giovanissimo alla Carboneria ed ebbe un ruolo di primo piano nella redazione del Conciliatore. Deve molto della sua formazione agli anni trascorsi a Lione presso uno zio. Torna in Piemonte nel 1809 e matura una passione letteraria che lo porterà a conoscere e frequentare Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi, Giovanni Berchet, Madame De Stael, Stendhal, George Gordon Byron. La sua prima tragedia «Francesca da Rimini» viene rappresentata con grande successo nel 1815. Aderisce alla carboneria milanese di Pietro Maroncelli e per questo motivo, scoperti dagli austriaci, viene arrestato il 13 ottobre 1820. Fu condannato alla pena di morte, poi mutata in venti anni di carcere, che trascorse all’ inizio ai «Piombi» di Venezia e poi nel carcere duro dello Spielberg. Graziato nel 1830, tornò a Torino dove pubblicò due anni dopo «Le mie prigioni». Scritte per raccontare la propria vicenda interiore e il suo ritorno alla fede, furono lette dai contemporanei come una requisitoria contro il regime austriaco e un incitamento alla ribellione popolare. Trova lavoro come bibliotecario in casa dei marchesi di Barolo, ritrovando la tranquillità e la giusta disposizione d’animo per riprendere l’interrotta attività letteraria. Sono di questi anni le tragedie «Ester d’Engaddi», «Gismonda da Mendrisio», «Leoniero da Dertona», «Erodiade», «Tommaso Moro», «Corradino», ed il trattato morale «I doveri degli uomini». Muore il 31 gennaio del 1854, a Torino, a 65 anni.

100 anni dalla morte di Theodore Roosevelt. È stato il 26º presidente degli Stati Uniti e ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1906. Theodore Roosevelt (nato a New York il 27 ottobre 1858, morto 100 anni fa a Sagamore Hill, il 6 gennaio 1919). Il suo volto è uno dei quattro scolpiti sul monte Rushmore, assieme a quelli di George Washington, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln. Divenne Presidente, in seguito all’assassinio di William McKinley, all’età di 42 anni. Eredita dal padre, «repubblicano progressista» la passione politica. Nel 1882 ottiene la sua prima carica politica come membro del parlamento dello Stato di New York. Per questa ragione deve lasciare definitivamente il corso di specializzazione alla Columbia. Nel 1884 la moglie Alice muore di parto e poco dopo muore anche la figlia. Torna in politica solo nel 1897 quando entra nell’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti William McKinley, come aiuto segretario della marina, corpo nel quale si distingue nel conflitto-lampo tra Stati Uniti e Spagna del 1898, con Cuba come teatro degli avvenimenti. Nel 1899, grazie all’ottima impressione suscitata in guerra, è eletto governatore dello Stato di New York, esponente di spicco del partito repubblicano. Tuttavia nel 1901 deve lasciare l’incarico, per ricoprire, in qualità di vicepresidente, quello ben più importante di ventiseiesimo Presidente degli Stati Uniti d’America dopo l’uccisione del presidente uscente McKinley. Quando assume il massimo incarico, Theodore Roosevelt ha appena 42 anni ed è il più giovane presidente della storia d’America. Nel 1904 viene confermato alla Presidenza ed è sua la firma del trattato che permette la costruzione del Canale di Panama e la creazione del sistema dei parchi nazionali. Nel 1905 è il mediatore della pace nella sanguinosa guerra tra russi e giapponesi la quale, l’anno dopo, gli vale il Nobel per la pace. Nel 1909 non si ricandida lasciando la scena al suo successore repubblicano William Howard Taft. Ma negli anni seguenti ne contesta duramente l’operato, tanto da staccarsi dai repubblicani, fondando un suo partito progressista, il «Bull Moose Party» che ottenne il 27,4% dei consensi (vincendo in 6 Stati), sopravanzando i Repubblicani (fermi al 23,2%) ma non i Democratici, che videro il proprio candidato, Woodrow Wilson, nominato 28º presidente degli Stati Uniti. Morì a Sagamore Hill, nello stato di New York il 6 gennaio 1919.

220 anni fa la nascita di Honoré de Balzac. Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850) è stato uno scrittore, drammaturgo, critico letterario, saggista, giornalista francese, fra i maggiori della sua epoca, ed anche il principale maestro del romanzo realista francese del XIX secolo. Scrittore prolifico, ha elaborato un’opera monumentale: La Commedia umana, ciclo di numerosi romanzi e racconti che hanno l’obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese contemporanea all’autore o, come disse più volte l’autore stesso, di «fare concorrenza allo stato civile». «Voi, il più poetico fra i personaggi che avete inventato» scriverà Baudelaire che lo amò, tirandone questo ritratto: «Il cervello poetico tappezzato di cifre come lo studio di un finanziere. L’uomo dai fallimenti mitologici, dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche». Le sue prime prove artistiche non furono molto apprezzate dalla critica, tanto che Balzac si diede ad altre attività: divenne editore, stampatore e infine comprò una fonderia di caratteri da stampa, ma tutte queste imprese si rivelarono fallimentari, indebitandolo pesantemente. Dal 1830 la sua attività letteraria divenne frenetica, tanto che in sedici anni scrisse circa novanta romanzi (sulla «Revue de Paris», sulla «Revue des Deux Mondes», ma anche in volumi e in tirature sempre più numerose, per non contare i continui racconti, aneddoti, caricature e articoli di critica letteraria). I suoi primi successi di pubblico furono «La peau de chagrin » (La pelle di zigrino, 1831) e, tre anni più tardi, «Le Père Goriot »(Papà Goriot, 1834). Balzac è considerato l’inventore del romanzo del mondo moderno. Durante tutto il XIX secolo, e durante una buona parte del XX, i romanzieri francesi e stranieri si sono pronunciati per o contro ciò che è rapidamente diventato il «modello balzacchiano». Balzac rcrede che il corpo sociale sia identico alla fauna naturale. Ritiene anche che il lavoro dello scrittore, simile in ciò a quello stesso dello scienziato, sia di descrivere e spiegare: «Dovrà essere cercata all’interno della stessa società la ragione delle sue dinamiche», afferma nella prefazione della «Comédie humaine». Il 18 agosto 1850 Honoré de Balzac morì per una peritonite e venne sepolto nel cimitero Père Lachais. L’orazione funebre fu tenuta da Victor Hugo.

100 anni fa l’assassinio di Rosa Luxemburg. Cento anni fa Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, gli storici fondatori del Partito comunista tedesco, vennero assassinati da estremisti di destra. Rosa Luxemburg era nata il 5 marzo 1871 a Zamość, in Polonia, allora parte dell’Impero russo. I Luxemburg erano ebrei come un terzo degli abitanti della città ma non avevano particolari contatti con la comunità ebraica. In casa parlavano il polacco e conoscevano bene il tedesco e il russo. Prima ancora di compiere vent’anni, in Rosa maturò l’interesse per i problemi del mondo che la portò a impegnarsi in prima persona: divenne una militante del movimento di sinistra «Proletariat». Ma questo movimento venne perseguitato e represso e nel 1895 Rosa fu costretta a lasciare la Polonia emigrando prima in Svizzera e poi in Germania. Qui sposò un tedesco: non c’era amore tra i due ma ciò le permise di ottenere nel 1989 la cittadinanza tedesca. Trasferitasi a Berlino, aderì al partito socialdemocratico, prendendo posizione contro il revisionismo teorico di E. Bernstein Nel 1902-04 lavorò alla Gazeta ludowa («Giornale del popolo») di Poznań; dopo aver criticato aspramente i tentativi di J. Piłsudski per creare difficoltà alla Russia in conflitto col Giappone, passò a Varsavia, ma fu presto arrestata (1906). Dal 1907 al 1914 insegnò economia politica alla scuola di partito di Berlino. Trovandosi sempre più a sinistra in seno alla socialdemocrazia tedesca, finì per polemizzare con K. Kautsky sulla funzione dello sciopero generale e sull’atteggiamento da prendersi verso la riforma elettorale allora proposta da Bethmann-Hollweg. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti, promuovendo manifestazioni pacifiste. L’accumulazione del capitale (1913) è considerata l’opera più importante di Rosa Luxemburg, dedicata all’analisi economica dell’imperialismo. Partendo dalla critica degli «schemi della riproduzione allargata» che si trovano nel II libro de Il Capitale di Karl Marx, Rosa Luxemburg intende dimostrare che, in un ambiente puramente capitalistico (cioè in una società composta esclusivamente da capitalisti e da proletari), l’accumulazione del capitale sarebbe impossibile, in quanto in tale ipotesi non potrebbe mai verificarsi la realizzazione del plusvalore, cioè mancherebbe la domanda per la porzione delle merci prodotte il cui valore corrisponde al plusvalore accumulato. Da qui, secondo Rosa Luxemburg, deriva la necessità per l’economia capitalista di cercare al di fuori di se stessa sempre nuovi acquirenti per le proprie merci. Nel 1916 fu tra i fondatori dello Spartakusbund; nel 1918 diresse Die Rote Fahne, quindi promosse l’insurrezione spartachista di Berlino del gennaio 1919, durante la quale venne assassinata.

270 anni dalla nascita di Vittorio Alfieri. Poeta (Asti 16 gennaio 1749 - Firenze 8 0ttobre 1803) Vittorio Alfieri ha precorso le istanze politiche e morali del Risorgimento. Autore di numerose raccolte di versi (Rime, 1804) e di un’autobiografia (Vita), dal 1776 al 1786 compose diciannove tragedie in endecasillabi sciolti, tra le quali il Saul e la Mirra sono considerate i suoi capolavori. Ai temi della libertà e della lotta contro la tirannia dedicò due trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-86). Nelle tragedie (oltre alle due citate si ricordano l’Antigone, La congiura de’ Pazzi, la Virginia, il Timoleone) l’indole eroica e appassionata di Alfieri si manifesta più intensamente. Visitò non solo le principali città italiane sino a Napoli, ma quasi tutta l’Europa. In Olanda e in Inghilterra ebbe due incontri amorosi; un terzo, a Torino, con la marchesa Gabriella Turinetti, fu indiretta cagione della sua definitiva conversione alla letteratura, alla quale già l’aveva indirizzato la lettura delle Vite di Plutarco. Assistendo la Turinetti durante una sua malattia, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, che poi, condotta a termine, fu rappresentata con lieto successo (1775): Alfieri giudicò immeritati gli applausi e decise di far qualcosa di veramente degno. Cominciò allora a studiare furiosamente e si recò due volte in Toscana per meglio apprendere la lingua: a Siena conobbe un ricco e colto mercante, Francesco Gori-Gandellini, col quale strinse l’unica forte amicizia della sua vita e che, morto, esaltò come uomo perfetto in un dialogo, La virtù sconosciuta (1786); e, a Firenze, conobbe Luisa Stolberg, moglie di Carlo Eduardo Stuart, conte di Albany, con la quale visse maritalmente fino alla morte. L’anno dopo, donò tutta la sua proprietà piemontese alla sorella Giulia, contro il corrispettivo di una rendita vitalizia. Firenze, Roma, Siena, Pisa, furono i suoi soggiorni più importanti fra il ‘78 e l’85. Tra l’85 e l’87 alternò principalmente le dimore di Martinsburg presso Colmar, in Alsazia, e di Parigi, dove nell’87 si stabilì con l’Albany e restò sino al ‘92; dove anche assistette, ammirato, ai primordî della rivoluzione, che placarono per un momento la sua radicata avversione alla Francia, patria dell’illuminismo. Presto gli eccessi rivoluzionarî lo disgustarono. Fuggito da Parigi, si stabilì definitivamente con la sua donna a Firenze. Ne ragionò sistematicamente in due trattati: Della tirannide (1777), e Del principe e delle lettere (cominciato nel ‘78, ma scritto per la maggior parte nell’85-86). Nel primo giudica il dispotismo immorale anche quando è illuminato; nel secondo dimostra come non sia affatto vero che esso giovi alle lettere. L’ultima sua fatica letteraria sono quattro commedie politiche: «L’uno», condanna della monarchia assoluta; «I pochí,» dell’oligarchia; «I troppi», della democrazia; «Tre veleni rimesta, avrai l’antidoto», in cui addita il rimedio in una fusione delle tre forme di governo. Di argomento morale e sociale altre due commedie: La finestrina e il Divorzio. La Vita (la prima parte fu scritta nel ‘90 e giunge fino a quell’anno; la seconda è del 1803, l’anno stesso della morte) «sostanzialmente e coraggiosamente veritiera - scrive il dizionario Treccani - , è, per consenso di tutti, un capolavoro, tanto è perfetta l’aderenza dello stile a quel misto di alta idealità entusiastica e d’ironia, di violenza appassionata e intima bontà, di furori e di malinconia, ch’era nel suo temperamento».

90 anni dalla stipula dei Patti Lateranensi. L’11 febbraio 1929, furono firmati i Patti Lateranensi con i quali per la prima volta dall’Unità d’Italia furono stabilite regolari relazioni bilaterali tra Italia e Santa Sede. Presero il nome del Palazzo di San Giovanni in Laterano in cui avvenne la firma degli accordi, che furono negoziati tra il Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per conto della Santa Sede e il Capo del governo primo ministro segretario di Stato Benito Mussolini per conto del Regno d’Italia. Quel Trattato stabilisce la nascita dello Stato della Città del Vaticano, di cui il Pontefice è il sovrano. Prima del 1929 era in vigore la Legge delle Guarentigie, cioè «delle garanzie», a approvata dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871. Con questa legge, il Regno d’Italia s’impegnava unilateralmente a garantire al Papa le condizioni per lo svolgimento del suo magistero spirituale. Ma Pio IX aveva sempre respinto la legge vietando ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno, con il famoso «non expedit». I Patti Lateranensi si compongono di due parti. La prima è un Trattato internazionale: la Santa Sede riconosce lo Stato italiano con Roma capitale e si vede riconosciuta la sovranità sullo «Stato della Città del Vaticano». E’ prevista una convenzione finanziaria, con cui l’Italia si impegna a pagare al Pontefice una indennità, come riparazione per aver perso lo Stato pontificio. La seconda parte è costituita dal Concordato, che regola i rapporti tra Chiesa e Regno d’Italia. Il Concordato stabilisce che la religione cattolica è la sola religione di Stato. E prevede una serie di misure, come gli effetti civili del matrimonio religioso e l’esenzione del servizio militare per i sacerdoti. Permette inoltre alle organizzazioni dell’Azione cattolica di continuare a operare e stabilisce l’insegnamento della religione cattolica come «fondamento e coronamento» dell’istruzione pubblica. I Patti Lateranensi sono riconosciuti dalla Costituzione della Repubblica italiana che all’articolo 7 recita: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Sono stati rivisti nel 1984: il 18 febbraio è stato firmato un nuovo Concordato dal presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi, e dal cardinale Agostino Casaroli, in rappresentanza della Santa Sede. In questo nuovo testo la religione cattolica non è più definita sola religione di Stato. L’ora di religione nelle scuole, fino a quel momento obbligatoria, diventa invece facoltativa. Vengono stabilite delle condizioni da rispettare perché un matrimonio celebrato col rito religioso possa essere riconosciuto come unione civile, dallo stato italiano. Viene inoltre introdotto un nuovo metodo di sostentamento della Chiesa, l’8 per mille, che entra in vigore il 1° gennaio 1990: il meccanismo attraverso il quale si può devolvere quella percentuale di gettito Irpef alla Chiesa cattolica.

100 anni dalla nascita di Primo Levi. Primo Levi è stato uno scrittore, partigiano e chimico italiano (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987). Laureato in chimica trova lavoro a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ‘43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove venivano raccolti i prigionieri ebrei. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz. È il 22 febbraio del ‘44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un «prima» e un «dopo». Viene deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. I prigionieri vengono rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, obbedire. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè «pezzo». Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via. Levi è l’häftling 174517. Funzionante. Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est. Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinché tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ‘47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto di «Se questo è un uomo» è pubblicato dalla De Silva editrice. Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel 1956 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: «Se questo è un uomo» è tradotto in diverse lingue, «La Tregua» vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ‘67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato «Storie naturali» adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ‘71 esce «Vizio di forma,» nuova serie di racconti e nel ‘78 con «La chiave a stella» vince il Premio Strega. Nel ‘81 viene edita un’antologia personale dal titolo «La ricerca delle radici» nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo «Se non ora quando?» che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ‘84 pubblica «Ad ora incerta» e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel 1986 pubblica «I sommersi e i salvati». Primo Levi si tolse la vita l’11 aprile del 1987.

100 anni dalla sua nascita di Valentino Mazzola. Uno dei più grandi numeri 10 nella storia del calcio, Valentino Mazzola nacque a Cassano d’Adda il 26 gennaio 1919. Papà operaio, famiglia povera, i primi calci in una squadra minore di Cassano d’Adda, il Tresoldi. Poi, dopo una stagione a Milano nella formazione dell’Alfa Romeo, dal 1939 al 1942 giocò al Venezia. Fu Ferruccio Novo, il presidente del Torino, a prelevarlo nel 1942 con Ezio Loik dopo un match contro il Venezia, per un milione e 250.000 lire, più contropartita tecnica di due giocatori. Si calcolò che Mazzola era costato di suo un milione. L’Inter gliene offrì dieci di stipendio all’anno nel 1947, Mazzola era assai tentato dal trasferimento a Milano, ma Novo gli offrì premi doppi rispetto ai compagni. Al Torino, in Serie A, ha disputato 195 partite con 118 gol (contando anche le coppe: 200 partite con 123 gol) e un bottino di cinque scudetti più una Coppa Italia. In azzurro 12 partite e 4 gol. L’ambientamento nei primi mesi in granata, sia per lui che per Loik, fu piuttosto difficile. Il suo primo gol granata in Serie A il 18 ottobre, Torino-Juventus 5 a 2. Un suo record singolare: ha segnato tre gol in 3 minuti (29’, 30’ e 31’) in Torino-Vicenza 6-0, il 20 novembre 1942. A Torino aprì un negozio di palloni. Faceva vita riservata, era uomo piuttosto chiuso. Valentino Mazzola morì sull’aereo che il 4 maggio 1949 si schiantò contro la Basilica di Superga, di rientro con il Grande Torino da un’amichevole contro il Benfica, organizzata dallo stesso Mazzola per l’addio al calcio dell’amico Francisco Ferreira, capitano della Nazionale portoghese. Dopo la sua morte, i figli Sandro e Ferruccio andarono con la mamma a Milano e furono tesserati per l’Inter. Sandro in nerazzurro divenne un grandissimo campione, Ferruccio fece una carriera discreta: dopo l’Inter, il Venezia di papà, la Fiorentina e la Lazio.

Valentino Mazzola, leader visionario di un grande sogno collettivo. Cento anni fa, il 26 gennaio, nasceva il giocatore-squadra del Grande Torino. Per Boniperti è stato il più grande di tutti. Morì a Superga con i suoi compagni, scrive Aldo Grasso il 24 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Il 26 gennaio non è una data come le altre per i tifosi del Toro. Cent’anni fa, 1919, nasceva a Cassano d’Adda Valentino Mazzola. Un nome entrato per meriti nell’Olimpo del calcio e poi divenuto leggenda in seguito alla tragedia di Superga, che il 4 maggio 1949 strappò al mondo intero il Grande Torino. Un avversario come Giampiero Boniperti ha sempre detto che tutte le volte che gli è capitato di immaginare il giocatore più utile a una squadra, il giocatore-squadra, non ha mai pensato a Pelé, a Di Stefano, a Cruijff, a Platini, a Maradona. Ha pensato anche a loro, ma dopo Valentino Mazzola. Era un calciatore dotato di una incredibile completezza a livello di tecnica individuale, stacco di testa poderoso, vero e proprio direttore d’orchestra in campo. Giocava interno sinistro, il numero 10, esempio della mezzala perfetta, interprete ideale dell’allora schema di gioco del Torino, il sistema, inventato da Borel e Roberto Copernico dirigenti dell’area tecnica. Valentino era un vero e proprio leader, un punto di riferimento per i compagni in campo e fuori dal rettangolo verde. Quando Oreste Bolmida, il mitico trombettiere del Filadelfia, suonava la carica, lui si rimboccava le maniche e non ce n’era più per nessuno. Partiva il mitico «quarto d’ora granata» durante il quale il Grande Torino annientava gli avversari. Come ha scritto Franco Ossola, il figlio dell’ala sinistra degli Invincibili, «Temprato da una fanciullezza e da una adolescenza severe, Valentino era cresciuto a latte e gallette, a zoccoli di legno, a scarpinate infinite o, quando andava bene, a lunghe, estenuanti galoppate in bicicletta... Valentino era per tutti il “tulèn”, ossia tolla, latta, per quel suo innato istinto a prendere a calci tutto quello che capitava a tiro dei suoi piedi». È stato il leader visionario di un grande sogno collettivo.

70 anni dalla tragedia di Superga. Nel pomeriggio del 4 maggio 1949, durante il viaggio di ritorno da Lisbona, in condizioni di scarsa visibilità per una nebbia fitta, l’aereo Fiat G.212 che trasportava la squadra del Grande Torino, i dirigenti e i giornalisti si schiantò alle ore 17:05 contro il muro della Basilica di Superga, provocando la morte istantanea di tutte le trentuno persone a bordo. Con il nome Grande Torino, benché si identifichi comunemente la squadra che perì nella sciagura, si usa definire l’intero ciclo sportivo, durato otto anni, che ha portato alla conquista di cinque scudetti consecutivi e di una Coppa Italia. L’aereo stava riportando a casa la squadra da Lisbona, dove aveva disputato un incontro amichevole contro il Benfica, organizzata per aiutare, con l’incasso, il capitano della squadra lusitana Francisco Ferreira, in difficoltà economiche. Nell’incidente morirono oltre ai giocatori tra i quali Valentino Mazzola, il portiere Valerio Bacigalupo, Guglielmo Gabetto, Romeo Menti, Ezio Loik, anche i dirigenti della squadra e gli accompagnatori, l’equipaggio e tre noti giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport); Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo, padre di Giorgio Tosatti) e Luigi Cavallero (La Nuova Stampa). Il compito di identificare le salme fu affidato all’ex commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, che aveva trapiantato quasi tutto il Torino in Nazionale. I funerali, a cui parteciparono oltre mezzo milione di persone, si tennero il 6 maggio; le salme furono portate a Palazzo Madama, da dove partì il corteo, proseguito fino al Duomo.Lo stesso giorno la FIGC proclamò il Torino campione d’Italia, a quattro giornate dal termine, approvando la proposta di Inter, Milan e Juventus.

120 anni dalla nascita di Ernest Hemingway. Scrittore statunitense (nato a Oak Park, Illinois, 21 luglio 1899 – morto a Sun Valley, Idaho, 2 luglio 1961) Ernest Hemingway tra i più celebri del Novecento, tema ricorrente di tutta la sua opera è la sfida alla morte, carattere distintivo anche di un percorso di vita singolare, conclusosi con il suicidio. Hemingway inaugurò quella narrativa sconcertante (hard-boiled) che ha avuto tanti seguaci e imitatori. Autore del più importante romanzo sulla prima guerra mondiale, «Addio alle armi» (1929), tra le sue opere principali occorre citare anche «Per chi suona la campana» (1940) e «Il vecchio e il mare» (1952) che lo porterà a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1954. A soli 30 anni venne travolto da un successo inatteso e d’improvviso si trovò al centro della scena culturale del primo dopoguerra, schiacciato tra chi lo vedeva come il più grande romanziere del ‘900 e chi non attendeva altro che un suo passo falso. Alla fama, alla ricchezza, agli encomi come alle critiche, ai trionfi come alle cadute, Hemingway opporrà la sua inarrestabile vitalità, tra fiumi di alcol, quattro matrimoni, leggendarie battute di pesca e caccia, corride, safari, un’altra guerra — quella civile spagnola — altri libri, racconti, articoli giornalistici e infine un premio Nobel. Ma il giovane leone di un tempo, perennemente pronto a sfidare la morte, non sarà neppure in grado di ritirare il prestigioso premio, complici le gravi ferite riportate in un incidente aereo, gli effetti dell’epatite e di uno stile di vita senza controllo. Sarà l’ambasciatore statunitense a Stoccolma John Cabot a ritirare il premio per lui e a leggere il discorso che Hemingway ha preparato: «Scrivere - leggerà Cabot - è un mestiere difficile, da compiersi in solitudine, una ricerca di sé da compiersi al cospetto dell’eternità. Quando uno scrittore diventa famoso, la sua presenza è richiesta in ogni luogo, e spesso, proprio per questo, il suo lavoro si deteriora». Il consiglio, quindi, è uno solo: «La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria». Ernest Hemingway, il 2 luglio 1961, prese il suo fucile e si tolse la vita.

70 anni dalla nascita di John Belushi. John Belushi (Chicago, 24 gennaio 1949 – Los Angeles, 5 marzo 1982) è stato un attore, cantante e comico statunitense di origine albanese. Considerato all’epoca del suo debutto al Saturday Night Live come uno dei maggiori talenti comici statunitensi, è rimasto celebre soprattutto per i due film (ne girò in totale solamente otto prima della prematura scomparsa) diretti da John Landis, Animal House (1978) e soprattutto The Blues Brothers (1980), nel quale recita accanto al grande amico Dan Aykroyd. Belushi morì il 5 marzo 1982 a Hollywood, California, dopo un’intossicazione dovuta a una miscela di cocaina ed eroina (speedball) all’età di 33 anni. Era il fratello maggiore di Jim Belushi. La sua biografia più nota l’ha scritta il giornalista Bob Woodward - lo stesso che insieme a Carl Bernstein rivelò lo scandalo Watergate -, si intitola «Chi tocca muore» ed è stata pubblicata in Italia da Sperling&Kupfer.

110 anni dalla nascita di Rita Levi Montalcini. Rita Levi Montalcini è stata una delle più grandi scienziate italiane del XX secolo: nasce il 22 aprile 1909 a Torino, insieme a sua sorella gemella Paola. Si laurea in medicina all’Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Torino con il Prof. Giuseppe Levi. Sin dai primi anni dell’università si dedica allo studio del sistema nervoso. Nel 1938 la proclamazione delle leggi razziali le vieta di continuare i propri studi all’università. Questo non le impedisce di continuare i propri studi sui meccanismi della differenziazione del sistema nervoso prima in Belgio e poi di nuovo a Torino nel 1940, in un piccolo laboratorio privato. Durante l’occupazione tedesca, lei e la sua famiglia trascorrono un periodo a Firenze per nascondersi dai nazisti, ma rimanendo in costante contatto con i dirigenti del Partito d’Azione. Su invito del Prof. Viktor Hamburger nel 1947 si trasferisce negli Stati Uniti alla Washington University di St Louis nel Missouri, per continuare le ricerche iniziate a Torino e per insegnare neurobiologia. Nel 1952 si reca in Brasile per continuare i propri esperimenti di cultura in vitro, presso l’Istituto di Biofisica dell’Università di Rio de Janeiro, ospite del direttore Prof. Carlo Chagas. Gli esperimenti effettuati in Brasile nel dicembre 1952 portano all’identificazione del fattore di crescita delle cellule nervose (Nerve Growth Factor, acronimo NGF). In seguito al suo ritorno a St. Louis nell’inverno 1953, viene affiancata nella ricerca dal giovane biochimico Stanley Cohen. Insieme, usando il sistema in vitro ideato da Rita Levi Montalcini, effettuano la prima caratterizzazione biochimica del fattore di crescita. Questo lavoro viene premiato con il premio Nobel per la Medicina nel 1986. Nel 1969 si stabilisce definitivamente in Italia per assumere la direzione dell’Istituto di Biologia Cellulare del CNR a Roma. Dal 1983 al 1998 ha diretto l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, inoltre è stata membro delle più prestigiose accademie scientifiche, come l´Accademia Nazionale dei Lincei, l´Accademia Pontificia, l´Accademia delle Scienze, the National Academy of Sciences negli USA e la Royal Society. La Fondazione Rita Levi-Montalcini Onlus, finanzia borse di studio a sostegno dell’istruzione di donne africane. Nel 2001 è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel 2002 ha fondato l’EBRI, un istituto di ricerca scientifica sulle funzionalità del cervello, con sede a Roma, di cui è stata Presidente fino alla sua scomparsa, avvenuta il 30 dicembre 2012, all’età di 103 anni.

30 anni dalla morte di Bruce Chatwin. Scrittore britannico autore di racconti di viaggio e romanzi, Bruce Chatwin nacque a Sheffield il 13 maggio 1940 e morì a Nizza, 18 gennaio 1989. Lavorò per la casa d’aste Sotheby (1959-66); abbandonato il lavoro in seguito a una malattia agli occhi, intraprese gli studi di archeologia all’Università di Edimburgo. Divenuto corrispondente del Sunday Times Magazine (1973-76), viaggiò in tutto il mondo, rivelando una facilità e felicità di scrittura in virtù delle quali restituì vitalità a un genere apparentemente consunto come la letteratura di viaggio. Da un viaggio in Patagonia (1974) nacque il primo dei suoi libri, In Patagonia (1977; trad. it. 1982), romanzo, saggio filosofico e resoconto di viaggio insieme, che gli dette enorme popolarità. Seguirono due libri d’impianto più romanzesco: Il viceré di Ouidah, sorta di biografia romanzata di un mercante di schiavi brasiliano, da cui W. Herzog trasse il film Cobra verde (1987), e On the black hill (1982; trad.it. 1986), storia di due gemelli che vivono completamente avulsi dal mondo esterno in una fattoria del Galles. Postumi sono apparsi il suo libro a carattere più autobiografico, Che ci faccio qui? e il volume in cui sono stati pubblicati i materiali (fotografie, schizzi, appunti) relativi al suo viaggio in Afghānistān: Bruce Chatwin: viaggio in Afghanistan.

60 anni fa il Premio Strega al Gattopardo. Nel 1959, 60 anni fa, gli Amici della Domenica assegnarono il Premio Strega a Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al suo romanzo «Il gattopardo». Un riconoscimento postumo, il primo nella storia del Premio, visto che l’autore era morto due anni prima. M anche la pubblicazione del romanzo era avvenuta dopo la sua scomparsa: era stato Giorgio Bassani a convincere Feltrinelli a pubblicare quello che sarebbe diventato un clamoroso successo editoriale, dopo che Einaudi e soprattutto Mondadori col parere decisivo di Elio Vittorini, avevano rifiutato il manoscritto. Fu un edizione molto dibattuta del Premio Strega, col romanzo che si impose con 135 voti su «La casa della vita» di Mario Praz (Mondadori) che ne raccolse 98 e soprattutto «Una vita violenta» di Pier Paolo Pasolini (Garzanti) che si fermò a 70. Il Premio venne ritirato da Giangiacomo Feltrinelli e il libro divenne il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Per il suo romanzo l’autore aveva tratto ispirazione da vicende storiche della sua famiglia, i Tomasi di Lampedusa, e in particolare dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi (nell’opera il principe Fabrizio Salina), vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Nel 1963, sei anni dopo la morte di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e quattro dopo il Premio Strega a Il Gattopardo, uscirà il celebre e omonimo film di Luchino Visconti, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Serge Reggiani, Romolo Valli, Rina Morelli, Mario Girotti e da una giovanissima Ottavia Piccolo, pellicola destinata a dare risonanza mondiale al libro. Dopo la vittoria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il Premio Strega è stato assegnato postumo solo altre due volte: nel 1986 quando fu conferito a Maria Bellonci, ideatrice col marito dello stesso premio e che era scomparsa da poche settimane, per il libro «Rinascimento privato» (Mondadori), biografia romanzata di Isabella d’Este. L’ultima volta è successo nel 1995, quando è stato assegnato a Maria Teresa Di Lascia, scomparsa l’anno precedente, per il romanzo «Passaggio in ombra» (Feltrinelli). Quell’anno vennero battuti scrittori come Luigi Malerba e Luca Canali. Andrea Camilleri, candidato con «Il birraio di Preston» non entrò neanche nella cinquina finale.

I 37 anni di Blade Runner, ambientato oggi. Blade Runner è un film di fantascienza del 1982, diretto da Ridley Scott e interpretato da Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Edward James Olmos e Daryl Hannah. La sceneggiatura, scritta da Hampton Fancher e David Webb Peoples, è liberamente ispirata al romanzo del 1968 Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick. Il film è ambientato proprio nel 2019 in una Los Angeles spaventosa dove androidi replicanti del tutto simili agli umani vengono costruiti e usati come forza lavoro nelle colonie extraterrestri. I replicanti che cercano di fuggire vengono inseguiti e distrutti da agenti speciali chiamati “blade runner”. Nel film un gruppo di replicanti sono evasi e si nascondono a Los Angeles dove vengono cercati dal poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford). Il film è considerato uno dei capolavori della fantascienza e ha il merito di aver fatto conoscere Philip K. Dick al grande pubblico. L’opera è stata molto tormentata e ne sono state distribuite ben sette versioni, l’ultima nel 2007 col titolo «The final cut». La battuta finale del replicante Roy Batty (Rutger Hauer) prima di morire è probabilmente una delle più famose della storia del cinema: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».

50 anni dallo sbarco del primo uomo sulla Luna. Il 20 luglio 1969 una navicella spaziale con equipaggio a bordo arrivò sulla Luna. Fu l’astronauta statunitense Neil Armstrong il primo uomo a mettere piede sul suolo lunare. Armstrong faceva parte dell’equipaggio della missione Apollo 11, insieme a Buzz Aldrin che lo accompagnò nell’esplorazione del terreno lunare, mentre Michael Collins rimase in orbita lunare, pilotando il modulo di Comando a bordo del quale i tre astronauti ritornarono sulla terra. L’allunaggio del Lem, il modulo su cui si trovavano Armstrong e Aldrin, toccò il suolo alle 20.18 (UTC, tempo universale su cui vengono calcolati i fusi orari, in Italia erano le 22.18). Neil Armstrong scese sei ore dopo, toccando il suolo il 21 luglio alle 02.57 (le 4.57 in Italia), pronunciando una delle frasi più famose della storia: «Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per tutta l’umanità». Aldrin lo seguì subito dopo. Armstrong trascorse due ore e mezza al di fuori della navicella, Aldrin poco meno. Insieme raccolsero 21,5 kg di rocce e materiale lunare che riportarono a Terra.  La prima passeggiata lunare fu trasmessa in diretta tv e fu il primo evento televisivo mondiale. Tra il 20 e il 21 luglio 1969 la Rai realizzò 25 ore di diretta dallo studio 3 di via Teulada, condotta da Tito Stagno, Andrea Barbato, Piero Forcella e, in collegamento da Houston, Ruggero Orlando. Aldo Falivena coordinava la regia. L’Apollo 11, quinta missione con equipaggio del programma Apollo della NASA, era partito dal Kennedy Space Center, il 16 luglio e la missione si sarebbe conclusa il 24 luglio con l’ammaraggio del modulo di Comando nell’Oceano Pacifico. Il programma spaziale statunitense, articolato in 17 missioni più alcuni lanci preparatori e realizzato dalla NASA tra il 1961 e il 1972, ha portato alla circumnavigazione della Luna e per sei volte alla discesa dell’uomo sul suolo lunare. La fase culminante del programma, il cui costo complessivo è stato di circa 25 miliardi di dollari, è consistita nell’invio sulla Luna di alcuni veicoli spaziali essi stessi denominati Apollo con equipaggio costituito da 3 astronauti. Nel 1966 si svolsero i primi 3 lanci ufficiali del programma, effettuati senza equipaggio. Il 27 gennaio 1967, durante una prova di addestramento a terra, morirono i 3 astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee per un improvviso incendio scoppiato a bordo della capsula spaziale. Durante le 3 successive missioni (1967-68) furono effettuate ulteriori prove di funzionalità, volte principalmente alla verifica dei sistemi di sicurezza. Nell’ottobre 1968 fu lanciato Apollo 7, il primo con equipaggio. Nel dicembre 1968 l’Apollo 8 compì dieci giri intorno al satellite; l’Apollo 9 (marzo 1969) tentò per la prima volta, nel corso di 151 orbite terrestri, lo sganciamento, l’avvicinamento e il riaggancio del modulo lunare LEM; l’Apollo 10 (maggio 1969) effettuò una prova generale di allunaggio, durante la quale gli astronauti Thomas Stafford e Eugene Cernan scesero, sul modulo LEM, fino a 16 km dalla superficie lunare. Con quest’ultima missione il progetto Apollo era pronto per portare l’uomo sulla Luna. Il 16 luglio 1969 l’Apollo 11, con a bordo gli astronauti Edwin Aldrin, Neil Armstrong e Michael Collins, iniziò il suo volo. Dopo l’entrata nell’orbita lunare, Aldrin e Armstrong si trasferirono nel LEM, mentre Collins rimase a bordo della navicella come pilota; il 20 luglio il LEM toccò la superficie lunare, nei pressi del Mare della Tranquillità. Nel novembre 1969 fu lanciato l’Apollo 12 che portò sulla Luna gli astronauti Charles Conrad e Alan Bean. L’Apollo 13, partito nell’aprile 1970, fallì la sua missione per una grave avaria durante il volo, che costrinse gli astronauti a cancellare il piano di allunaggio. La missione fallita di Apollo 13 fu portata a termine, dopo alcune modifiche, da Apollo 14, lanciato nel gennaio 1971 con a bordo Alan Shepard ed Edgar Mitchell che allunarono nell’irregolare regione di Fra Mauro, esplorandola per oltre nove ore e raccogliendo circa 43 kg di campioni. L’Apollo 15 fu lanciato nel luglio 1971 e David Scott e James Irwin rimasero sulla Luna per 2 giorni e 18 ore, percorrendo più di 28 km nella zona del Monte Hadley con l’aiuto di un rover elettrico a quattro ruote. Prima di lasciare l’orbita lunare, l’equipaggio lanciò un subsatellite progettato per trasmettere dati sui campi gravitazionale, magnetico e di alta energia dell’ambiente lunare. Nell’aprile 1972 gli astronauti John Young e Charles Duke, portati da Apollo 16, esplorarono la pianura di Cartesio. Il programma si concluse con il volo dell’Apollo 17, compiuto nel dicembre 1972, nel corso del quale allunarono nella regione della valle di Taurus-Littrow l’astronauta Eugene Cernan e il geologo Harrison Schmitt.

Dodici dicembre 1969. Quando la lotta politica si faceva anche usando la dinamite…, scrive Piero Sansonetti il 13 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Il dodici dicembre di 49 anni fa, nel pomeriggio, alle quattro e mezza, scoppiò una bomba potentissima alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, cioè nel centro di Milano. Morirono sul colpo 13 persone, a sera morì un’altra persona, nei giorni successivi altre tre. Un anarchico innocente, Pino Pinelli, fu fermato, interrogato e poi, probabilmente, buttato dalla finestra del quarto piano della questura: fu la diciottesima vittima. Altri tre o quattro anarchici, altrettanto innocenti, furono sbattuti in galera e tenuti lì per tre anni. Poi scarcerati. Poi assolti. Uno di loro ha un nome abbastanza famoso: Pietro Valpreda. Per mesi fu indicato come il mostro. Molti giornali lo chiamavano proprio così: mostro. Era un ballerino del gruppo di Don Lurio, aveva 36 anni, fu intrappolato. Chi aveva messo davvero la bomba? Una verità giudiziaria non c’è. Si sa che i servizi segreti ebbero un ruolo decisivo e che agirono con l’appoggio di alcuni gruppi dell’estrema destra fascista. Quando si capì che gli anarchici non c’entravano nulla, la strage prese il nome, anche sui giornali, di “strage di Stato”. Vari servizi giornalistici dimostrano che gli studenti universitari di oggi, in grande maggioranza, non sanno nulla di quella strage. Molti la ignorano del tutto, qualcuno la attribuisce alle Brigate Rosse (che all’epoca ancora non esistevano). Eppure il 12 dicembre del 1969 fu un tornante della vita politica della repubblica italiana. La strage di piazza Fontana ebbe un peso politico, e un significato politico, assai superiore a quello di altre stragi, molto famose e con moltissimi morti. Per esempio la strage siciliana di Portella della Ginestra (1947) o quella della stazione di Bologna (1980, con oltre ottanta morti). Perché Piazza Fontana è così importante? Per una ragione molto semplice: è l’esempio più limpido di uso del terrorismo nella lotta politica. La bomba scoppia nel cuore dell’autunno caldo. Il 1968 aveva impresso una formidabile spinta alla politica italiana. Verso la modernità, e anche verso sinistra. Nell’autunno del 1969 in tutte le fabbriche italiane la conflittualità era giunta all’apice, e la giovane classe operaia del nord (in gran parte di origini meridionali) stava mutando radicalmente i rapporti di forza tra lavoratori e impresa. Nello stesso periodo il Parlamento stava varando riforme che cambiarono molte cose nel funzionamento della società. Una riforma della scuola che apriva l’accesso all’Università a tutti, imprimendo un colpo mortale alla scuola di classe, una legge che aboliva il reato di adulterio (esisteva ancora), una legge che permetteva il divorzio, e – proprio il giorno prima della strage – lo Statuto dei lavoratori, che limitava moltissimo il potere di quello che allora si chiamava “padronato”. Tra novembre e dicembre in Italia c’erano state manifestazioni oceaniche. Tra le quali quella del 19 novembre, quando a Milano fu ucciso, durante gli scontri, un agente di polizia, Antonio Annarumma. E poi dieci giorni dopo la gigantesca marcia, a Roma, dei metalmeccanici, che durò ore e ore e che fu conclusa dal comizio unitario dei tre capi dei sindacati metallurgici: Trentin, Benvenuto e Macario. Anche nelle università la tensione era alta. Le classi dirigenti erano indecise tra la linea della mediazione, della concessione, e quella dell’intransigenza e della reazione. Il capo del governo era un democristiano pacioso e di non grande carisma: Mariano Rumor, un veneto. Dietro di lui incrociavano le armi una Dc che guardava a sinistra, guidata in parte da Moro e in parte dal ministro del lavoro, Donat Cattin, e una Dc che voleva tornare a destra, guidata soprattutto da Fanfani, che pure dieci anni prima era stato il padre della svolta a sinistra. In questo clima, una parte dell’establishment decise che occorreva un segnale forte. E il segnale furono le bombe. Non sapremo mai chi ispirò quella strategia che fu chiamata la strategia della tensione – chi la realizzò, chi la assecondò, chi fu complice. Ma è assolutamente certo che fu una strategia. E’ impensabile che sia stato soltanto un atto di ribellione di estrema destra. La bomba di piazza Fontana, e poi le altre bombe che ci accompagnarono fino al 1984 (quindici anni) erano espressione pura e semplice di lotta politica. Ed ebbero l’effetto politico di fermare la spinta riformista del 68- 69. Ed ebbero l’effetto politico di rovesciare i rapporti di forza tra sinistra e destra all’interno della Dc. Così come era espressione di lotta politica la lotta armata (Br e Prima Linea) che coinvolse una parte della sinistra radicale a partire dal 1972, e così come era lotta politica quella combattuta in Sicilia, e anche in Calabria, dalla mafia. Con gli attentati, le uccisioni: Mattarella, La Torre, Costa, Chinnici, Terranova eccetera eccetera, fino a Falcone e Borsellino Dico per questo che il 12 dicembre del 1969 è una data da scolpire. Oggi per noi è molto difficile immaginare che la lotta politica possa essere fatta con la dinamite. Allora era così. Tutti i partiti politici avevano nel loro Dna una riserva di violenza. Tutti. Dall’estrema destra, che per una lunga fase si appoggiò anche ai servizi segreti, all’estrema sinistra, passando per la Dc e per il Pci. Lo dico da giovane testimone di quell’epoca. Quando per noi che in qualche modo eravamo coinvolti nella politica, o anche semplicemente nel giornalismo, era una abitudine usare molta prudenza, la sera, rientrando a casa, per accertarci che nessuno stesse lì ad aspettarti sotto il portone. E l’omicidio, la morte, la violenza selvaggia dell’aggressione, erano variabili impossibili da cancellare.

Ma lo dico soprattutto per osservare come le cose siano cambiate. Io non sopporto, per esempio, la volgarità e la carica di odio che accompagna, oggi, la lotta politica. Però poi ogni tanto penso a ieri: non era odio, quello, era dinamite. Allora mi consolo: meglio oggi.

·         11 settembre 2001: voci  e storie del giorno più lungo.

11 settembre. Per non dimenticare...Il Corriere del Giorno l'11 Settembre 2019. L’America omaggia i vigili del fuoco, i poliziotti, i soccorritori e i comuni cittadini morti a causa degli attacchi al World Trade Center. I nomi delle 2.974 persone, esclusi quelli dei dirottatori, sono scolpiti sulle fontane a Ground Zero. ROMA – Le Twin Towers, diciotto anni dopo. Oggi New York ancora una volta ricorda l’11 settembre 2001 con  la commemorazione dei quasi tremila caduti negli attacchi alle Torri Gemelle. L’America omaggia i vigili del fuoco, i poliziotti, i soccorritori e i comuni cittadini morti a causa degli attacchi al World Trade Center. I nomi delle 2.974 persone, esclusi quelli dei dirottatori, sono scolpiti sulle fontane a Ground Zero. Quest’anno nella cerimonia di commemorazione dell’11 settembre, che inizierà alle 8.25 ora di New York (le 14. 25 in Italia), durante la lettura dei nomi , sei monoliti verranno dedicati a tutti coloro che sono morti a causa dell’esposizione alle sostanze tossiche delle macerie di Ground Zero. I monoliti non hanno i loro nomi incisi ma solo una scritta: “A coloro le cui azioni nei tempi di bisogno portarono a malattie, ferite e morti”. La lettura dei loro nomi verrà interrotta da quattro momenti di silenzio. Due per i momenti in cui gli aerei hanno colpito le Torri Gemelle e due per quelli in cui gli edifici sono crollati. Anche quest’anno è previsto il Tribute in Light: due fasci di luce saranno proiettati verso il cielo dalla forma delle Twin Towers. Le luci si accenderanno al tramonto dell’11 settembre e si spegneranno all’alba del 12.  Oltre 51mila persone hanno fatto sinora richiesta al fondo di indennizzo per le vittime (Vcf), che ha l’obiettivo di risarcire per le malattie e le morti legate all’11 settembre. In totale sono stati distribuiti circa cinque miliardi e mezzo di dollari. Il fondo è stato creato nel 2001 ed ha operato fino al 2004. Dopo diversi tentativi di introdurre leggi a favore dei soccorritori dell’attentato, nel 2011 l’allora presidente Barack Obama firmò il James Zadroga 9/11 Health and Compensation Act per riattivare il Vcf. Successivamente nel  2015 è sempre Obama a firmare un provvedimento per assicurare i fondi fino al 2020. Quest’estate il fondo ha rischiato di estinguersi con l’esaurirsi delle risorse. Ma, dopo la battaglia da parte del comico Jon Stewart, lo scorso 29 luglio il presidente Donald Trump ha firmato la legge “The Never Forget the Heroes” che estende i fondi a disposizione del Vcf fino al 2090, stanziando oltre dieci miliardi di dollari. In buona sostanza, viene assicurata assistenza ai soccorritori ancora in vita.

Torri Gemelle: bimba nasce il 9/11 alle 9.11 e pesa 9,11 libbre. Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 da Corriere.it. Quando le è stato comunicato, Cametrione Malone-Brown è rimasta sbalordita. Non riusciva a credere all’incredibile coincidenza. Che la sua piccola Christina sarebbe nata l’11 settembre - l’anniversario delle Torri Gemelle -, lo sapeva da giorni: il parto cesareo era fissato per le 8.55 di mercoledì sera all’ospedale metodista di Germantown, in Tennessee. Non poteva immaginare, invece, è che la nuova arrivata sarebbe venuta alla luce esattamente alle 9.11 e che il suo peso sarebbe stato di 9,11 libbre (poco più di 4 chili). Così, essendo nelle date anglosassoni il giorno preceduto dal mese, il quadro si è completato: la bimba è nata il 9/11 alle 9.11 di sera e pesava 9,11 libbre. «Lavoro in questo settore da trentacinque anni - ha detto la capo reparto che ha seguito l’operazione - e mai mi era capitato che le cifre della data, dell’ora e del peso del nascituro coincidessero perfettamente». Trattandosi per giunta dell’11 settembre, era inevitabile che la notizia facesse presto il giro degli States. «Il dottore ha annunciato la nascita di mia figlia alle 9.11 - ha raccontato il padre Justin -. Poi, quando l’hanno pesata, abbiamo sentito dei sussulti di stupore: tutti avevano realizzato quel che era successo». Così invece la madre: «Diciotto anni dopo quell’11 settembre, trovi il trionfo; un pezzo di gioia in un giorno che fu così drammatico, e fa soffrire ancora. È una nuova vita tra la devastazione e la distruzione».

C’erano una volta le Torri gemelle. Orlando Sacchelli l'11 Settembre 2019 su Il Giornale. Nel giorno in cui si celebra il diciottesimo anniversario della strage dell’11 Settembre, mi piace ricordare un’altra data, il 4 aprile 1973, quando le due Torri Gemelle furono inaugurate.  Quattrocentoquindici metri di altezza, superarono l’Empire State Building (381 metri), svettando sui cieli di Manhattan dall’alto dei loro centodieci piani. La prima pietra del cantiere del World Trade Center fu posta il 5 agosto 1966, anche se la costruzione vera e propria della prima torre (la Nord) partì nel 1968, e un anno dopo fu iniziata anche la Torre Sud. L’idea di tirare su questi due imponenti grattacieli l’aveva avuta il miliardario David Rockfeller nel 1960, con un progetto il cui costo ammontava, all’epoca, a oltre 330 milioni di dollari, coperti quasi tutti dall’ autorità portuale di New York e del New Jersey, ente pubblico che gestiva ponti, gallerie e aeroporti di New York e del New Jersey settentrionale. Centro degli affari finanziari e commerciali, il World Trade Center era il simbolo del potere economico degli Stati Uniti e, al contempo, del capitalismo americano. In un normale giorno feriale il Wtc (che comprendeva in tutto sette palazzi, comprese le due torri) ospitava circa 50mila lavoratori, a cui si devono sommare i visitatori giornalieri (ogni settimana circa 200mila persone). Ciascuna torre disponeva di 72 ascensori. A progettare le due torri fu il famoso architetto statunitense di origine giapponese Minoru Yamasaki (1912-1986), considerato un maestro del “nuovo formalismo”, coadiuvato da circa ottanta collaboratori e dagli studi dell’ingegnere Leslie E. Robertson. L’architetto prese in esame decine e decine di modelli, scartando l’idea di realizzare un’unica torre, considerata troppo ingombrante, ma anche quella di fare diverse torri, per non correre il rischio di progettare un complesso simile a quelli di edilizia residenziale. Prevalse l’idea di due torri, una accanto all’altra, della stessa altezza. “Il World Trade Center sarà la rappresentazione vivente della fede dell’uomo nell’umanità – disse Yamasaki – del suo bisogno di dignità individuale, della sua fede nella cooperazione di uomini e, tramite questa cooperazione, della sua abilità a trovare la grandezza”. Presto le Torri Gemelle entrarono a far parte dello skyline di New York, conosciute in tutto il mondo grazie a decine di film che le immortalarono sullo sfondo. Dominarono il cielo di Manhattan per 28 anni, fino a quel maledetto 11 Settembre del 2001. Il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si schiantò alle 8.46, il secondo alle 9.03. La Torre Sud crollò alle 9.59, la Nord alle 10.28.

Lo speciale 11 settembre: voci  e storie del giorno più lungo. Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Corriere.it. Sono passati 18 anni dal giorno più lungo della storia degli Stati Uniti: l’11 settembre 2001. Della data che ha cambiato l’Occidente sono rimaste soprattutto le immagini. Gli aerei che entrano nelle Torri, i corpi che si lanciano nel vuoto, il Pentagono in fiamme. Sul numero di 7 in edicola domani con il Corriere si ricorda l’attentato alle Torri Gemelle attraverso le voci di chi lo ha vissuto. Gli impiegati del World Trade Center, i soccorritori, i controllori di volo e i consiglieri dell’allora presidente George W. Bush. Le ha raccolte il giornalista Garret M. Graff nel libro The Only Plane in the Sky. Sul magazine ne sono pubblicati alcuni stralci. Il Capitano Jay Jonas, vigile del fuoco, ripercorre gli inizi di quella che sembrava una mattinata perfetta «come se l’aria fosse stata tirata a lucido». Poi gli schianti dei voli American Airlines 11 e United Airlines 175 dentro i grattacieli, il silenzio improvviso e la sensazione «che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno, ma affrontammo il nostro dovere». Juana Lomi, paramedico del New York Beekam Downtown Hospital si trovò a dire ai collaboratori: «Tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, fratture vanno caricati in ambulanza. Gli altri dovranno correre, usare le gambe o quel che vogliono». Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del Volo United Airlines 93, precipitato a Shanksville, rievoca l’ultima telefonata con il marito: «Dissi che avrei pregato per lui, che lo amavo. Tom ripetè di non preoccuparmi. Non mi ha mai richiamato». Graff, intervistato da Marilisa Palumbo, spiega di aver trovato oltre 5mila testimonianze e di averne messe su carta 480. «Il mio scopo — dice — non era raccontare i fatti, perché in tanti lo hanno già fatto. Il mio obiettivo era scrivere un libro che facesse riaffiorare le emozioni di quel giorno, di chi c’era. Perché tutti, non solo negli Stati Uniti, ricordiamo esattamente dove eravamo quando è successo, ma quello che non sappiamo è cosa ha significato vivere al centro della tragedia». La memoria e il presente, la ricostruzione dopo il dramma. Il nuovo Ground Zero è firmato Daniel Libeskind, il grande architetto polacco che oggi terrà una lectio magistralis a Pescara per l’ Ethic Award, assegnatogli dall’ Oscar Pomilio Blumm Forum. Nell’incontro con Alessandro Cannavò, l’autore della Freedom Tower dice di aver «sconfitto il male con la luce». Un reportage fotografico dalla Groenlandia di Fernando Moleres chiude la sezione rossa, dedicata all’attualità. Michela Mantovan spiega perché l’isola più grande del mondo è al centro di una disputa tra Danimarca e Stati Uniti. Nella parte blu, un’intervista di Raphael Abraham ad Antonio Banderas. L'attore spagnolo racconta la sua vita e il suo ritorno al cinema con Almodóvar dopo l’infarto: «Mi ha lasciato qualcosa che prima non c'era».

L'11 settembre raccontato da chi c'era: gli ultimi «Ti amo» e i corpi infuocati. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. Centodue minuti è durato il giorno più lungo del nostro secolo. Sono le 8 e 46 dell’11 settembre 2001 a Manhattan quando il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si abbatte contro la torre Nord del World Trade Center; alle 9 e 03 il secondo aereo entra nella torre Sud; alle 9 e 37 un terzo aereo colpisce il Pentagono; la torre Sud collassa su se stessa alle 9 e 59; alle 10 e 03 il volo United 93 si schianta a Shanksville, Pennsylvania, mentre i passeggeri cercano di riprenderne il controllo; alle 10 e 28 crolla in una nuvola che avvolge tutta Manhattan anche la torre Nord. Duemilaseicentosei persone muoiono dentro quello che verrà ribattezzato Ground Zero; centoventicinque al Pentagono; duecentosei sugli aerei American Airlines Flight 77, United Airlines Flight 175, American Airlines Flight 11, le cui sigle verranno per sempre ritirate dai cieli; quaranta a Shanksville. Seimila persone restano ferite. Tremila bambini perdono un genitore; cento, nati nei mesi successivi, non conosceranno mai il loro papà. Di quella giornata portiamo dentro decine di immagini: gli aerei che spariscono nelle torri, i newyorchesi ricoperti di una spessa coltre di polvere bianca, i pompieri, le macerie, le bandiere. Diciotto anni dopo, vogliamo dare spazio invece alle voci, alle parole senza filtro di chi era lì, minuto per minuto: i soccorritori, i controllori di volo, i militari, gli impiegati delle torri, i consiglieri del presidente George W. Bush sull’Air Force One, gli uomini e le donne le cui speranze si sono infrante davanti alle ultime frasi della persona amata giunte da un aereo o dai grattacieli in fiamme. I testi che seguono, sono tratti dal libro «The Only Plane in The Sky» dello scrittore Garrett M. Graff (in uscita negli Usa il 10 settembre). La traduzione è dello studio Brindani. A New York, Marilisa Palumbo ha incontrato Graff: potete leggere l’intervista completa su 7 in edicola. «In tutto il mondo, l'11 settembre iniziò come qualsiasi altro giorno. Il Congresso si stava rianimando dopo la pausa estiva. (...). A Washington, D.C., il neodirettore dell’FBI Robert Mueller aveva assunto l’incarico solo una settimana prima, il 4 settembre, e si apprestava a tenere la sua prima riunione, prevista per le 8, dedicata alle indagini in corso su un gruppo terroristico noto con il nome di al-Qaeda e il bombardamento della USS Cole nell’autunno del 2000. (...) A New York era giorno di primarie, con i cittadini chiamati a decidere quali candidati si sarebbero fronteggiati per raccogliere il testimone dell’uomo che aveva governato la città per otto anni, Rudy Giuliani. Milioni di persone, lavoratori, studenti e pendolari, si erano svegliate e iniziavano a prepararsi per affrontare la giornata, affollando treni, traghetti, metropolitane e autobus per dirigersi verso Lower Manhattan».

Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47°piano: «Il cielo era così limpido. L’aria così frizzante. Era tutto perfetto».

Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, Dipartimento dei Vigili del Fuoco (FDNY): «Era come se l’aria fosse stata tirata a lucido».

Luogotenente Jim Daly, Dipartimento di Polizia della Contea di Arlington (Virginia): «Un blu meraviglioso».

Joyce Dunn, insegnante, Distretto scolastico di Shanksville-Stonycreek (Pennsylvania): «Un blu puro».

Brian Gunderson, capo di gabinetto di Richard Armey, leader di maggioranza alla Camera (R-Texas): «Un blu profondo» «Alle 8:46 del mattino, il volo American Airlines 11 romba in direzione sud nel cielo sopra Manhattan, attraversando l’isola in tutta la sua lunghezza e sorprendendo chi camminava per la strada, prima di schiantarsi contro la Torre Nord, conosciuta come World Trade Center 1, a circa 465 miglia orarie»

Anthony R. Whitaker, comandante in servizio al World Trade Center, Dipartimenti di Polizia Portuale (PAPD), Torre Nord, atrio a piano terra: «Con la coda dell’occhio ho visto due persone alla mia sinistra. Stavano andando a fuoco. Correvano verso di me e poi mi sono passati a fianco. Non emettevano alcun suono. Tutti i vestiti erano bruciati, e loro erano divorati dalle fiamme».

Harry Waizer, consulente fiscale della Cantor Fitzgerald, Torre Nord: «L’ascensore cominciò a cadere, incendiandosi. Sono stato colpito al volto da una palla di fuoco che era entrata dallo spazio tra le porte e la cabina dell’ascensore. Ho visto questa palla arancione arrivarmi in faccia e poi ho avuto la sensazione - non posso chiamarlo bruciore - che mi toccasse e poi è sparita».

Michael Lomonaco, executive chef presso Windows on the World nel complesso commerciale delle Torri: «Pensai, Dio mio, stiamo tutti lavorando. Cosa sta succedendo al 106? Poi mi dissi di stare calmo, che sarebbero scesi dalle scale antincendio. Avevo piena fiducia che tutti sarebbero riusciti a scendere».

David Kravette, broker di borsa della Cantor Fitzgerald, atrio a piano terra, Torre Nord: «Il fatto che io sia vivo è un puro caso del destino. Quel giorno tutti i miei colleghi su in ufficio hanno perso la vita. Erano intrappolati, non c'era modo di uscire».

«Alle 9:03, il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud, WTC 2, a circa 590 miglia orarie».

Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, FDNY, in attesa di ordini nel posto di comando dell’atrio al piano terra della Torre Nord: «Ero lì in piedi. Come si può immaginare c’era un gran chiasso, l’acustica nell’atrio del World Trade Center non era delle migliori, c’era molta eco. Poi, tutto d’un tratto, calò il silenzio. Uno dei vigili del fuoco della squadra speciale Rescue 1 guardò verso l’alto e sentenziò: “Potremmo non arrivare a domani”. Lo guardammo e poi, scambiandoci un’occhiata, ammettemmo che aveva ragione. Ci stringemmo la mano augurandoci buona fortuna e ripetendoci a vicenda “Spero di rivederti, dopo”. Per me è molto commovente perché eravamo tutti coscienti che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno ma affrontammo comunque il nostro dovere».

Juana Lomi, paramedico del New York Beekman Downtown Hospital: «In quel momento le cose si volsero al peggio. Dissi ai miei ragazzi: “Ascoltatemi bene, le persone per cui non potete fare un triage immediato, tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, gambe fratturate, qualsiasi problema alle gambe che non permetta di correre, vanno caricati in ambulanza. Tutti gli altri dovranno correre, dovranno usare le gambe o quel che vogliono».

Andy Card, capo di gabinetto della Casa Bianca: «Stavo recapitando un messaggio che nessun Presidente vorrebbe mai ricevere, lo sapevo. Avevo deciso di riportare due dati concreti e un commento. Non volevo intavolare una conversazione dato che il Presidente era davanti alla classe. L’insegnante chiese agli studenti di tirare fuori i libri, così colsi l’attimo e gli dissi all’orecchio: “Un secondo aereo ha colpito un’altra torre. L’America è sotto attacco.” Ho fatto qualche passo indietro in modo che non potesse farmi domande».

Gordon Johndroe, vice addetto stampa, Casa Bianca: «Io ero presente in aula e mi rendo conto che sarebbe stato strano se all’improvviso fosse uscito di corsa, cosa che prima del documentario di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, non aveva mai suscitato clamore. Non è affatto parsa un’eternità, ha terminato il libro e poi si è ritirato in un’altra stanza».

Andy Card: «Ha rilasciato una dichiarazione molto concisa e si è incamminato, ma io ero dubbioso. “Torno a Washington D.C.”, aveva detto, ma io pensavo che non lo sapeva, come noi non lo sapevamo. Non sapevamo dove saremmo andati a finire».

«Alle 9:37, il volo American Airlines 77 si schianta contro l’Ala 1, la parte occidentale del Pentagono, a 530 miglia orarie».

Ted Olson, procuratore generale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: «Uno dei segretari è entrato di corsa e ha detto: “Barbara al telefono.” Ho preso subito la cornetta, felice di sentire la sua voce, ma mi ha detto che il suo volo era stato dirottato, e i passeggeri erano stati radunati in coda all’aereo. I dirottatori erano armati di coltelli e cutter. Poi ci siamo rassicurati a vicenda, perché dopotutto l’aereo era ancora in quota, stava ancora volando. Si sarebbe risolto tutto. Mi ha detto “Ok, ti amo.” Sembrava molto, molto tranquilla».

Victoria “Torie” Clarke, vicesegretario della Difesa per gli affari pubblici: «Davo per scontato che fosse stata un’autobomba. Quello che mi sembra assurdo è che sapevamo che due voli di linea avevano colpito il World Trade Center, che era un attacco terroristico, e quelli più svegli già ipotizzavano che si trattasse di al-Qaeda. Ma poi quando è successo qui, non ci è venuto in mente che potesse essere un altro aereo, tanto l’evento andava oltre la nostra comprensione. Non ci è mai passato per la testa che potesse essere un altro aereo...».

Deena Burnett, di San Ramon (California), moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Vidi sullo schermo il numero di Tom. Ero sollevata, pensavo che se mi stava chiamando dal cellulare doveva essere al sicuro in un aeroporto. Gli chiesi se stava bene ma rispose “No, sono su un volo dirottato. È lo United Airlines 93”. Mi raccontò cosa stava succedendo. “Hanno già accoltellato un tipo. Credo che uno di loro abbia una pistola”. Iniziai a tempestarlo di domande ma mi fermò: “Deena, ascoltami”. Ripeté tutto di nuovo, pregandomi di contattare le autorità prima di riagganciare. Un’ondata di terrore mi invase, come se fossi stata colpita da un fulmine (...). Gli dissi del World Trade Center. Non lo sapeva ancora, e informò anche gli altri passeggeri. “Oh mio Dio, è un attacco kamikaze”».

Lyzbeth Glick, moglie di Jeremy Glick, passeggero del volo United Airlines 93: «Ha percepito il panico nella mia voce, e abbiamo iniziato a dirci “Ti amo”. Saremo andati avanti per 10 minuti, fino a che non ci siamo tranquillizzati. Poi mi ha spiegato cosa era successo...»

Deena Burnett: «Il telefono suonò ancora: era sempre Tom, che disse soltanto “Deena”. Pensai che fosse sopravvissuto allo schianto sul Pentagono, e gli chiesi se stesse bene, ma mi rispose di no. “Hanno appena colpito il Pentagono” lo informai, e in sottofondo mi giunsero le voci dei passeggeri che riportavano la notizia. Ne percepivo la preoccupazione e li sentivo annaspare di stupore e sgomento. Poi Tom si rivolse di nuovo a me: “Sto architettando un piano”, mi disse, “Ci riprendiamo l’aereo”. Gli chiesi chi lo stesse aiutando, e mi rassicurò dicendo che erano coinvolte alcune persone, un gruppo, e di non preoccuparmi. Mi salutò con un “Faremo qualcosa, ti richiamo”, e riagganciò.

Bill Spade, vigile del fuoco della squadra speciale Rescue 5, FDNY: «Nella Torre Nord c’erano delle porte automatiche, che continuavano ad aprirsi e chiudersi per i corpi che cadevano giù».

William Jimeno, agente della PAPD: «Una persona mi ha colpito più di tutti, era come se potessi concentrare lo sguardo solo su di lui: era un signore biondo con i pantaloni color cachi e la camicia rosa tenue. Si gettò da lassù, e quando lo fece ricordava quasi Gesù sulla croce, dalla posizione, perché mentre precipitava era rivolto verso l’alto».

Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Sean mi ha chiamato verso le 9:30 di mattina. Ha detto che era al piano 105, e capii subito che non sarebbe tornato a casa. Sotto i suoi piedi c’era un intero edificio in fiamme, e lui non batté ciglio. Mi parlava senza mai perdere la sua compostezza, come in un giorno qualsiasi, e per questo suo modo di affrontare la morte avrà per sempre la mia ammirazione. Non c’era in lui ombra alcuna di paura, nemmeno quando le vetrate tutto intorno si erano surriscaldate ed era impossibile toccarle, e il fumo aggrediva i polmoni. (...) A un certo punto, quando sentii che faceva più fatica a respirare, gli chiesi se sentiva dolore. Dopo un attimo di pausa rispose di no. Mi amava tanto da mentirmi. Alla fine, quando la nube di fumo divenne troppo densa, continuò semplicemente a sussurrarmi “Ti amo” all’infinito».

«Alle 9:59, dopo nemmeno un’ora dall’attacco la Torre Sud, il secondo obiettivo colpito, collassa soccombendo alle fiamme alimentate dalle migliaia di litri di carburante contenute nel velivolo».

Donna Jensen, residente nel quartiere di Battery Park City: «Si sentiva il rat-tat-tat-tat-tat-tattat-tat degli scoppi che si susseguivano perfettamente ritmati, un rumore potente, secco e crepitante».

Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Ho sentito un rumore che ora non riesco a ricordare: è stato così forte, un frastuono talmente assordante che la mia mente l’ha bloccato. Mi ha spaventato a morte, e l’ho rimosso, non riesco a riportarlo alla coscienza».

Detective Steven Stefanakos, mezzo mobile 10 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Come lo schianto di mille treni merci».

Kenneth Escoffery, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 20, FDNY: «Come se ci avesse colpiti un missile».

Catherine Leuthold, fotoreporter indipendente: «Come trentamila jet che decollano in contemporanea».

Tracy Donahoo, agente del reparto trasporti, NYPD: «Il colpo fu talmente violento che sono stata sbalzata lontano. Non so a quale distanza, ma mi staccai letteralmente da terra, sentivo di essere sospesa in volo. Atterrai sulle ginocchia e su una mano. Non c’era più luce, era tutto buio pesto, non vedevo nulla e non riuscivo a respirare. Era soffocante».

Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord: «Credo nel giro di cinque secondi, su di noi calò l’oscurità con una violenza incredibile. Ma, cosa ancora più singolare, non c’era alcun rumore. I suoni non riuscivano più a propagarsi perché l’aria era troppo densa».

Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti: «Nonostante gli avvenimenti dell’11 settembre fossero davvero terribili, alcuni di noi avevano svolto esercitazioni per affrontare circostanze molto più pericolose e difficili, come un attacco nucleare sovietico diretto contro la Nazione. È stato utile, quella mattina l’addestramento ha dato i suoi frutti».

Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Nel silenzio sentivo il cuore battere all’impazzata. Tom disse che stavano aspettando di sorvolare una zona di campagna, e che avrebbero ripreso il controllo dell’aereo. La cosa mi spaventò enormemente e iniziai a supplicarlo: “No Tom, no. Stattene seduto tranquillo e non attirare l’attenzione”. Ma non volle saperne, disse “Se vogliono far schiantare l’aereo, dobbiamo fare qualcosa”. Allora proposi di lasciar fare alle forze dell’ordine, ma rispose: “Non possiamo aspettare l’intervento delle autorità, e in ogni caso non so cosa riuscirebbero a fare, dobbiamo pensarci noi. Penso che possiamo farcela”. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi fui io a riprendere: “Cosa vuoi che faccia? Cosa posso fare?” gli domandai. “Prega, Deena, prega e basta”. Dissi che l’avrei fatto e che l’amavo, e prima di riagganciare Tom ripeté di non preoccuparmi, che non sarebbero rimasti con le mani in mano. Non ha mai richiamato».

Steven Bienkowski, unità aeree, NYPD: «Lower Manhattan era completamente avvolta da un’immensa coltre di polvere bianca. Quando ci siamo riavvicinati in elicottero alla Torre Nord si vedevano ancora le persone buttarsi e precipitare giù, ma stavolta la scena era meno cruenta perché non li si vedeva rovinare al suolo, anzi c’era quasi un’aura di pace perché sparivano in questa nuvola bianca». «Il crollo sorprende anche i vigili del fuoco che stanno scendendo dalla Scala B con un civile ferito, Josephine Harris, e un agente PAPD evacuato con loro, David Lim».

Billy Butler, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 6, FDNY: «Ti controlli subito per vedere se hai ancora tutte le dita delle mani e dei piedi, le muovi per assicurarti che non ci sia niente di rotto. Ero malandato ma stavo bene. Stavo cercando di liberarmi spostando quegli enormi pezzi di cartongesso che mi erano caduti addosso quando a un tratto Josephine apparve tra la polvere, come il Blob che esce dalla palude. Mi sono spaventato a morte».

Norbert Rosenbaum, vigile del fuoco della Stoystown Volunteer Fire Company: «Ci avvisarono che dovevamo uscire per una missione di recupero e soccorso. Quando vidi i pezzi e tutto quanto, confidai agli altri: “Dubito che salveremo qualcuno. Quel cratere è enorme”. Tante delle cose che vidi non mi erano nuove, ero stato in Vietnam. C’erano solo parti di corpi. Tutto lì, pezzi».

James Broderick, agente della Polizia della Pennsylvania: «Ricordo l’odore. Una volta che respiri l’odore di carburante che si mescola a quello della carne umana, non te lo dimentichi più».

La drammatica e desolata espressione di un pompiere newyorkese mentre lascia il luogo della tragedia (Anthony Correia/Getty Images)

Monsignor John Delendick, cappellano, FDNY: «Un poliziotto mi si avvicinò e mentre correva al mio fianco mi disse: “Padre, può confessarmi?”. Gli risposi: “Questo è un atto di guerra, darò assoluzione generale a tutti”, e così feci».

Rudy Giuliani, sindaco di New York: «Sentii che qualcuno mi afferrava e mi trascinava via, obbligandomi a correre come si fa con gli animali o i cavalli, “ANDIAMO VIA!”. Avremo corso per circa un terzo di isolato, e io non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo. Mentre mi trascinava via gli dissi di fermarsi. Ci girammo e vidi un’immensa nube salire dal cratere. Sembrava davvero un attacco nucleare».

Sharon Miller, ufficiale della PAPD: «C’era un grande silenzio, come se tutto fosse coperto di ovatta, o di marshmallow».

Alan Reiss, direttore dell’Autorità portuale al World Trade Center: «Solo un rumore rompeva il silenzio: gli allarmi PASS».

Detective David Brink, mezzo mobile 3 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Questi allarmi, che i pompieri usano quando non riescono a muoversi e si trovano bloccati in situazioni di emergenza, hanno un suono molto penetrante. Non si sentiva altro, gli allarmi si succedevano senza tregua, e non si riusciva a distinguere da dove provenissero».

Rick Schoenlank, presidente dell’associazione di beneficenza United New Jersey Sandy Hook Pilots Benevolent Association: «C’erano imbarcazioni commerciali, rimorchiatori, traghetti, pescherecci, lance, navi ristorante che confluivano a Lower Manhattan per procedere all’evacuazione».

Capitano James Parese, Staten Island Ferry: «Non ho mai visto così tanti rimorchiatori tutti insieme».

Ian Oldaker, membro del personale di Ellis Island: «Era ora di mettersi in cammino verso casa. Insieme a una fiumana di gente, iniziammo a risalire la rampa verso il Ponte di Brooklyn. La cosa più spaventosa fu vedere le persone mettersi a urlare improvvisamente. C’erano momenti di silenzio, silenzio, silenzio, poi a un tratto le urla di chi veniva a sapere di avere perso un amico. L’uomo che camminava al mio fianco mi chiese dove si trovasse, e gli dissi che eravamo sul Ponte di Brooklyn. Indossava un completo e mi chiese cosa fosse successo. Gli risposi: “È crollato il World Trade Center” ».

Denise McFadden, moglie di Paul McFadden, vigile del fuoco, FDNY: «Quando mi telefonò, Paul era nel bel mezzo del caos. Non capivo cosa mi diceva, stava facendo un elenco di nomi di conoscenti seguiti dall’aggettivo “morto”. Sbottai: “Smettila. Cos’è, uno scherzo di pessimo gusto?”. Ma non si fermò. Continuava a pronunciare sequenze di nomi intervallati dalla parola “morto”, non riusciva a dire altro».

Tenente Michael Day, Guardia costiera degli Stati Uniti: «Entrai a Ground Zero e ricordo che c’erano resti umani ovunque. Ricordo di aver pensato di essere in guerra. Abbassai lo sguardo e vidi un piede in una scarpa. Rimasi a guardarlo per qualche minuto. Sembrava un assedio: sulle strade di Manhattan si incontravano i militari della Guardia Nazionale con i fucili d’assalto, era saltata la corrente in tutta la zona, in molti altri edifici erano divampati incendi e ovunque pioveva un’inquietante polvere grigiastra».

Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Ci siamo incontrati a soli sedici anni, al ballo della scuola; quando è morto ne avevamo cinquanta. Per quanto terribile fosse quella giornata, ricordo che non volevo che finisse, non volevo andare a dormire: finché fossi rimasta sveglia, quel giorno condiviso con Sean non sarebbe finito. Mi aveva salutato con un bacio prima di andare al lavoro, e potevo ancora dire che era successo poco tempo prima, la mattina di quello stesso giorno».

L’elicottero che portò la Cia in Afghanistan dopo l’11 settembre. Davide Bartoccini su it.insideover.com il 3 ottobre 2019. Lo chiamavano il valoroso cavallo dei “Jawbreaker”, ed è stato l’elicottero che ha infiltrato la Cia in Afghanistan all’indomani degli attentati dell’ 11 settembre. Il compito non era semplice: “Andate a trovare chi comanda Al Qaeda e uccidetelo. Li elimineremo. Prendi Bin Laden, trovalo. Voglio la sua testa in una scatola per mostrarla al presidente”. Era questo l’ordine che il capo dell’agenzia di spionaggio aveva dato ai membri del cosiddetto Nalt – “Northern Afghanistan Liaison Team” – il gruppo di operativi che doveva muovere la guerra in Afghanistan per vendicare l’attentato che aveva colpito il cuore dell’America. Oggi quell’elicottero panciuto e scuro come la notte, un Mi-17 Hip di fabbricazione russa che portava come codice identificativo il numero “91101” per evitare il fuoco amico e ricordare quella data infausta, è tornato casa, esposto nel memoriale della Central intelligence agency a Langley come simbolo della sua incredibile storia. Otto giorni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’ordine era di schierare una piccola squadra di operatori nella valle afghana del Panjshir (via Uzbekistan) per trovare e accordarsi con i mujahideen del Nord che avrebbero dovuto appoggiare una guerra contro Al Qaeda. Gli “spacca mascelle” della Cia atterrarono per la prima volta con tre milioni di dollari in contanti, suddivisi in tre semplici scatole di cartone, da consegnare ai signori della guerra dell’Alleanza del Nord come Fahim Khan (e altri con i quali la Cia forse aveva mantenuto i rapporti dopo averli foraggiati per combattere i sovietici) per permettergli di pagare le loro truppe e di convincere altre tribù a radunarsi e combattere il nuovo nemico numero uno degli Stati Uniti: Osama Bin Laden e i suoi talebani. Dopo un mese di minuzioso lavoro di intelligence e trattative svolto sotto copertura, il team speciale della Cia gettò le basi per far mettere gli “scarponi a terra” ad un piccolo contingente d’élite dei Berretti Verdi, noto come Oda 595, Operational Detachment Alpha 595, unità che avrebbe raggiunto l’Afghanistan sugli elicotteri del 160th Soar, e che avrebbe proseguito la propria missione a cavallo, con abiti locali e turbanti in testa per mimetizzarsi tra i mujahideen: come dei moderni Lawrence d’Arabia. Il grosso elicottero russo, posato su un apposito piedistallo che simula le rocce impervie del suolo afgano, è un simbolo degli sforzi eroici che gli Stati Uniti hanno condotto per rimediare all’imperdonabile errore di valutazione che ha condotto a un attentato di una tale portata da cambiare per sempre la vita in tutto l’Occidente. Gli operatori della Cia atterrarono in Afghanistan su questo “robusto e affidabile” elicottero russo per “correggere un terribile errore”, hanno dichiarato durante l’inaugurazione del memoriale Gina Haspel, attuale direttore dell’agenzia, e Gary Schroen, veterano della Cia che su quel Mi-17 volò proprio nella prima missione sulla valle del Panjshir, a meno di 5mila metri in quello che poteva essere considerato un territorio più che ostile. Durante la cerimonia Schroen ha raccontato: “Eravamo molto pesanti, tra i passeggeri, le armi, il carburante, le munizioni e tutte le altre attrezzature, la squadra stava spingendo il carico utile dell’elicottero al limite”. “Non erano affari come al solito”, ha ricordato Schroen, “guardandoti intorno nello scompartimento, avresti pensato potessero esserlo”, ma “nessuno si soffermava sul pericolo in cui ci trovavamo”, perché quella volta gli agenti della Cia erano partiti per vendicare la morte di 2.974 vittime innocenti. Ci vorranno dieci anni per raggiungere l’obiettivo e vendicare quelle vite spezzate. La testa di Osama Bin Laden finirà nelle mani dei Navy Seal del Team Six solo nel 2011. Mentre l’invasione dell’Afghanistan si rivelerà un mastodontico fallimento di strategia militare. Ma il compito affidato agli “spacca mascelle” della Cia e agli “horseman” dei Berretti Verdi poteva essere considerato portato a termine con il massimo successo. Per questo dopo 18 anni, e centinaia di voli avanti e indietro sul territorio nemico, il vecchio 91101 è tornato a casa con tutti i 10mila pezzi che lo compongono; e Schroen, davanti a quell’elicottero che conosce così bene, ha affermato che lì, immobile nel memoriale di Langley, resterà per sempre un simbolo dello sforzo compiuto dalla Cia, e un’ispirazione per chiunque lo guardi, ricordando a ogni uomo e donna dall’agenzia che ciò che apparentemente sembra impossibile in realtà è “realizzabile”.

·         Il Chewing Gum dal 1869.

Il chewing gum compie oggi 150 anni: fu brevettato come metodo per pulire i denti. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. Il 2019 è quasi alla fine. In questo anno sono stati celebrati molti anniversari importanti: dalla caduta del muro di Berlino (30 anni), al primo uomo sulla Luna (50 anni) fino alla celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci. C’è anche un’invenzione che, più che celebrata, forse è curioso ricordare. Quella della gomma da masticare. Centocinquanta anni fa (sabato 28 dicembre 1869), un dentista statunitense, William Semple, brevettava, appunto, la gomma da masticare con l’obiettivo di pulire i denti e “rafforzare” la mascella.

IL PRIMO BREVETTO DEL CHEWING GUM RISALE AL 1869. Matteo Persivale per il “Corriere della sera” il 22 agosto 2019. All'homo sapiens mancano alcune caratteristiche specifiche dei ruminanti - non siamo erbivori, non abbiamo lo stomaco diviso in quattro cavità - eppure da molti millenni tende a masticare compulsivamente tutto quel che trova: gli antichi greci masticavano il mastice, i Maya la linfa coagulata dell'albero della Sapotiglia, certe tribù di Nativi Americani la linfa degli abeti. Un'attività irrefrenabile culminata nel 1869 con il primo brevetto che, grazie a un dentista dell' Ohio, ha fatto nascere ufficialmente la gomma da masticare della quale in questi giorni i ciancicatori di tutto il mondo festeggiano il centocinquantenario. Dobbiamo insomma al dottor William Finley Semple l'introduzione di una ricetta scientifica per la fabbricazione di gomme da masticare, liberate da millenni di fai da te e finalmente codificate. Certo, come succede a volte, l' antenato di un prodotto oggi molto popolare non aveva la stessa formula di oggi (vedi la Coca-Cola originale ottocentesca del dottor Pemberton, fatta con 37 grammi di foglie di coca per litro): gli ingredienti principali presenti nella formula delle gomme Semple erano, peraltro, carbone e gesso. Quello che si presentò da subito, 150 anni fa, fu il problema al quale tuttora lavorano le aziende che producono chewing gum: la tenuta del sapore. Le gomme ottocentesche infatti perdevano quasi subito il sapore (può capitare anche oggi, è una questione chimica complessa): uno dei motivi per i quali la menta si affermò rapidamente come uno dei gusti più popolari fu esattamente quello della praticità - resta «attaccata» alla gomma più a lungo. È una delle scoperte, quella della resistenza della menta, che dobbiamo a un imprenditore atipico. Nel 1880 il primo passo avanti sulla qualità della gomma lo fece William White, canadese trapiantato in Ohio. Fondò quella che oggi definiremmo una startup partì dalla cucina di casa e combinò zucchero e sciroppo di mais con la gomma naturale di chicle (un albero centramericano: da decenni ormai la gomma da masticare è sintetica). Si deve a White l'idea della forma a strisce della gomma da masticare, il primo design pubblicitario sulla confezione, e l' idea di aggiungere una sorpresa - delle piccole buffe «profezie» per ragazzi stampate sulla stagnola, all' interno. Ecco poi nel 1888 la gomma da masticare di Thomas Adams, la «Tutti-Frutti», venduta da un distributore automatico (altra idea che si rivelò geniale) che si trovava in una delle stazioni della metropolitana di New York. Poco dopo, la gomma da masticare diventa un business molto simile a quello che vediamo oggi: nel 1891 William Wrigley Jr fonda Wrigley Chewing Gum, azienda tuttora presente sul mercato in 180 Paesi (con fabbriche in 14 nazioni) e di fatto modernizza il business della gomma da masticare. Business che nel secondo dopoguerra diventa globale, coinvolgendo anche l' Italia (la Perfetti di Lainate, nei pressi di Milano, dal 2001 Perfetti Van Melle, è la casa produttrice, tra le altre, della mitica «gomma del ponte»). Ma perché, da millenni, mastichiamo con insistenza qualunque cosa ci capiti a tiro, non essendo per l' appunto animali ruminanti? La scienza, in questi decenni, ha provato a rispondere. Uno studio australiano, una decina d' anni fa, ha concluso che masticare la gomma riduce in modo significativo i livelli di cortisolo (ormone dello stress) nella saliva. I ricercatori guidati da Andrew Scholey della Swinburne University di Melbourne avevano sottoposto quaranta ragazzi a una serie di test valutandone poi prestazioni e livello di ansia, con e senza il chewing gum. Hanno così osservato che masticare gomme riduce l'ansia, aumenta il livello di attenzione. La ragione di questo effetto antistress? Non sta ovviamente nella presenza dello zucchero (poco, ma secondo i dentisti facilita carie e aumento della placca) o del dolcificante (alcuni sono peraltro lassativi: attenzione ai dosaggi), ma nel movimento ripetuto meccanicamente delle mandibole.

·         Gli “space dogs”.

Marco Giusti per Dagospia il 16 agosto 2019. Bau! Pochi cani sono stati così amati dai bambini di tutto il mondo come gli eroici cani spaziali russi. Laika, il primo essere vivente che viaggiò nello spazio il 3 novembre del 1957 sulla navicella Sputnik 2 e mai più ritornò, le cagnette Belka e Strelka, che a bordo dello Sputnik il 19 agosto del 1960 percorsero 18 volte l'orbita della terra e ritornarono sane e salve accolte come eroi russi. Al punto che Brelka fece poi sei cuccioli con certo Pushok e uno di loro, Pushinska, venne regalato nel 1961 dal presidente russo Kruschev alla figlia del presidente americano John F. Kennedy. Un documentario a loro dedicato, Space Dogs, diretto da una coppia di registi austriaci, Elsa Kremser e Levin Peter, è stato da poco presentato al festival di Locarno con successo. Ma non è il solo omaggio che gli space dogs sovietici abbiano avuto in tempi più o meno recenti. È appena uscito un video dei The Chemichal Brothers, "We've got to Try", dedicato a Laika, ma ci sono canzoni dei Gorillaz, "Laika Come Home", del 2002, di Max Richter; "Laika's Journey", degli Arcade Fire, una graphic novel, un film ungherese del 2018. A Belka e Strelka è stato dedicato un film animato in 3D russo nel 2014 e una serie tv, ma dai primi anni 60 si sono in realtà sprecati gli omaggi di ogni tipo dedicati a Laika e ai suoi più fortunati compagni. Pensiamo solo a Franco e Ciccio che in 002 operazione luna di Lucio Fulci vedono lo scheletro di Laika nello spazio. Ma non ci fu un bambino allora che non si commosse di fronte alla tragedia della cagnetta sperduta nello spazio. Non sapevamo che per Laika, che si chiamava in realtà Kudrjavka (ricciolina)  non era previsto nessun ritorno. Nei piani degli scienziati russi c'era solo il progetto di farla girare attorno alla terra per 8 giorni. Durò invece solo 67 minuti dopo il lancio, morendo per surriscaldamento della navicella. Cose che i russi non vollero dirci facendoci credere che stava ancora nello spazio a girare attorno alla terra per una settimana. "Le chiesi di perdonarci e ho pianto mentre l'accarezzavo per l'ultima volta" ha detto recentemente la biologa Adilya Kotovskaya ricordando il dramma di Laika. Era stata scelta una femmina perché faceva la pipì in maniera più comoda rispetto a un cane maschio e era stata scelta Laika perché era una cagnetta simpatica, allegra. Il 14 aprile del 1958 la navicella precipitò esplodendo sopra le Antille. Il sacrificio di Laika non era servito a nulla. Ci vollero tre anni per ritentare l'esperimento con due cagnette, la randagia Belka (scoiattolino) e il cane da circo Strelka (freccia). Con loro, a bordo della Soyuz 5, c'era una specie di Arca di Noè, un coniglio grigio, 42 topi, due ratti e un bel po' di mosche.  Tutti gli animali ritornarono sulla terra sani e salvi e questo convinse gli scienziati russi a mandare il primo uomo in orbita  nello spazio Yurij Gagarin. Ma, devo confessare, non mi sono mai davvero ripreso dalla scomparsa di Laika, che come rutti i bambini del tempo immagino chiusa dietro l'oblò della Soyuz 2, ma sveglia, con la lingua in fuori e gli occhi attenti. Ecco. Per me e rimasta lassù.

Stefano Giani per “il Giornale” il 16 agosto 2019. I martiri innocenti non hanno nome. Talvolta nemmeno cittadinanza. Non sanno di essere angeli. E l' unica strada che conoscono è quella del randagio che vaga solitario. Hanno per casa tutto e nulla. Il loro tetto è un cielo minaccioso anche quando è sereno. Ignari vagabondi del mistero. Da quaranta centimetri lo sguardo non abbraccia l' universo ma il raggio ristretto della quotidianità. Della fame. Alla luna, il lupo è abituato a ululare. Non sogna di raggiungerla. E, in fondo, non lo immaginavano neppure i meticci di Mosca. Figli di mille razze e un solo Dio, quello che vide Adamo sbarcare nel mare della Tranquillità il 20 luglio di cinquant' anni fa. First man. Ma prima. First dog. Si dice che Laika sia una stella cometa e il paradiso dei cagnolini non l' abbia accolta, per rispedirla come spirito guida di tutti i suoi simili sulla terra. Quella che lasciò il 3 novembre del '57 sullo Sputnik. La sua tomba. Dopo 67 minuti spirò nell' abbraccio perpetuo dell' universo. Un passo indietro al piccolo passo per l' uomo e al grande passo per l' umanità. Anche Laika ebbe predecessori. Una storia ignorata fino a oggi, sulla quale fa luce Space dogs - a metà strada tra docufilm e inchiesta - presentato al «Locarno Film Festival» dai due registi poco più che trentenni, l' austriaca Elsa Kremser e il tedesco Levin Peter. Il set è sulle strade desolate e angoscianti di Mosca. Intervallato da sequenze di archivio e repertorio sui tanti randagi senza tetto e senza pappa, reclutati all' improvviso dalle mani ciniche dello scienziato. Fotogrammi in bianco e nero. Sgranati. Come le coscienze sporche di chi compie esperimenti. Narrano di meticci setacciati in quelle vie oscure. Della fiducia che li convince ad affidarsi al cuore gelido dello spregiudicato. Quello che alla luna non ulula ma gioca a combattere la guerra dei mondi su una scacchiera di fantascienza. Volarono nel cosmo intubati. Collegati. Spiati nell' attimo estremo in cui cielo, luna e terra diventano tutt' uno. Per sempre. E gli occhi si chiudono sulla galassia infinita, che non è più l' orizzonte ristretto del chiostro di spuntini notturni, al quale elemosinare una briciola di wurstel. Alcuni rientrarono vivi. Forse non seppero mai di essere partiti. E neppure ritornati. Forse pensarono che si trattò di un sogno, perfino quando l' uomo (?) con il camice bianco li scollegò dai tubicini e ne medicò la tracheotomia. Vietato ululare alla luna. A pochi importò se il mantello del pelo mostrava lacerazioni. Se non era più lo stesso. Nessuno in terra si chiese come avvenne il miracolo. Perché mai il Dio dei cani avesse rispedito quaggiù quegli angeli a quattro zampe che avevano visto la luna. Con loro hanno portato un segreto che nessuno potrà mai svelare. Che cosa abbiano provato. Sognato. Pensato. Non c' è computer che registri l' intimità. Nemmeno a quattro zampe. In «premio» ebbero l' accoppiamento. Prospettiva umana di sfruttamento d' immagine. I cani non lo fanno per piacer loro ma per dare figli a Dio. O meglio, per conservare la specie. Allo scienziato la cucciolata servì per dimostrare che le funzioni genetiche non erano state alterate. E i piccoli figli del cosmo avevano radici terrene. Forse chi aveva viaggiato nello spazio, in fondo poteva ritenersi addirittura fortunato. Le selezioni erano severissime. Solo i più tenaci, resistenti, sani ed educati avrebbero potuto andare in missione. Beffa dell' immoralità. Il buono perde. Rischia la morte nell' universo. Gli altri - perché non esistono cani cattivi - vincono un vagabondaggio nei bassifondi di Mosca che non è propriamente una vita da sogno ma è meglio di un razzo dove il movimento è impedito. Il muscolo anchilosato. E ne esce uno scheletro che cammina. Insieme a loro ci furono tartarughe ma nessuna riuscì a farcela. E perfino una scimmia. Al rientro finì in discoteca. E allo zoo. Poi morì per complicazioni al fegato. Si chiamava Buh. L'unica. I martiri innocenti non hanno nome. Il piccolo passo per l'uomo era stato un grande passo di disumanità. Mai più esperimenti con gli animali, please. L' appello di Space dogs. E non solo. Nemmeno se un giorno si puntasse Marte. L' unica verità è che il cane è il miglior amico dell' uomo. Ma quest' ultimo non può dire lo stesso. La relazione inversa... Inammissibile. Purtroppo. Almeno per ora.

·         Il Primo Cosmonauta della storia: Jurij Gagarin.

Jurij Gagarin. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jurij Alekseevič Gagarin (in russo: Юрий Алексеевич Гагарин?; Klušino, 9 marzo 1934 – Kiržač, 27 marzo 1968) è stato un cosmonauta, aviatore e politico sovietico, primo uomo a volare nello spazio, portando a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 a bordo della Vostok 1. In seguito a questo storico volo, che segnò una pietra miliare nella corsa allo spazio, Gagarin divenne una celebrità internazionale a cui seguirono numerosi riconoscimenti e medaglie, tra cui quella di Eroe dell'Unione Sovietica, la più alta onorificenza del suo paese. La missione sulla Vostok 1 fu il suo unico volo spaziale, anche se in seguito venne nominato come cosmonauta di riserva della Sojuz 1 conclusasi in tragedia al momento del rientro con la morte del suo amico Vladimir Komarov. Successivamente Gagarin servì come vice direttore del centro per l'addestramento cosmonauti che in seguito prenderà il suo nome. Nel 1962 venne eletto membro del Soviet dell'Unione e poi nel Soviet delle Nazionalità, rispettivamente la camera bassae la camera alta del Soviet Supremo dell'Unione Sovietica. Gagarin morì nel 1968 a seguito dello schianto, avvenuto nei pressi della città di Kirzhach, del MiG-15 su cui si trovava a bordo con l'istruttore di volo Vladimir Seryogin in occasione di un volo di addestramento. Nato a Klušino (un villaggio nell'Oblast' di Smolensk, nell'allora Unione Sovietica) il 9 marzo 1934, da padre falegname e madre contadina, crebbe in una di quelle collettività aziendali che erano sorte in Russia sul finire della rivoluzione del 1917 e si distinse a scuola per spiccate capacità nelle materie scientifiche. Tuttavia, fu costretto a interrompere gli studi a causa dell'invasione tedesca (iniziata il 22 giugno 1941), per riprenderli dopo la Guerra: frequentò l'istituto tecnico industriale di Saratov e conseguì il diploma di metalmeccanico. Fu durante i suoi studi che Gagarin cominciò a interessarsi al volo. Nel 1955 si iscrisse a un aeroclub, dove sperimentò il primo volo della sua vita su uno Yak-18. Questa passione lo portò a iscriversi a una scuola di aeronautica, dove si distinse per il suo talento. Nello stesso anno entrò a far parte dell'aviazione sovietica; si diplomò con grande profitto nel 1957 presso l'Accademia aeronautica sovietica di Orenburg. Fu proprio nel 1957 che l'URSS lanciò nello spazio lo Sputnik 1 e si gettarono le basi per i primi voli spaziali con esseri umani a bordo. Nello stesso 1957 Gagarin scelse di frequentare scuole specializzate in aviazione in Ucraina. Anche qui le sue doti apparvero subito fuori dal comune, tanto da guadagnarsi la stima e la fiducia dei suoi superiori, che gli consentirono di collaudare sofisticate apparecchiature di volo e di approntare test altamente specializzati. La sua passione per il volo lo portò a essere scelto nel 1959, insieme ad alcuni colleghi, per l'addestramento con l'obiettivo di diventare cosmonauta.

Gagarin nello spazio. «Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.» (Jurij Gagarin)

Selezionato per la missione. Dopo il soggiorno ucraino, Gagarin si trasferì a Zvëzdnyj Gorodok insieme ad altri venti candidati, per superare nuovi test attitudinali, al termine dei quali venne scelto per affrontare il primo volo orbitale con un essere umano a bordo. Come suo eventuale sostituto fu scelto il cosmonauta German Titov.

Orbita storica. Il volo dell'allora maggiore Jurij Gagarin cominciò il 12 aprile 1961, alle ore 9:07 di Mosca, all'interno della navicella Vostok 1 (Oriente 1), del peso di 4,7 tonnellate: egli pronunciò la celebre espressione - поехали! (poechali - "andiamo!") al decollo per il volo spaziale. Compì un'intera orbita ellittica attorno alla Terra, raggiungendo un'altitudine massima (apogeo) di 302 km e una minima (perigeo) di 175 km, viaggiando a una velocità di 27.400 km/h. Per tale missione Gagarin aveva scelto il nominativo кедр ("kedr", cedro), usato durante il collegamento via radio.

Quel pianeta blu. Durante il volo, guardando dalla navicella ciò che nessuno aveva mai visto prima, comunicò alla base che "la Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile". Dopo 88 minuti di volo intorno al nostro pianeta, che Gagarin trascorse essenzialmente da passeggero (il controllo della navicella spaziale era infatti gestito da un computer a terra: i comandi di bordo erano bloccati, ma attivabili in caso di necessità agendo su un’apposita chiave), la capsula frenò la sua corsa accendendo i retrorazzi in modo da consentire il rientro nell'atmosfera terrestre. Il volo terminò alle 10:55 ora di Mosca, in un campo a sud della città di Engels (Oblast' di Saratov), più a ovest rispetto al sito pianificato di rientro. Gagarin venne espulso dall'abitacolo e paracadutato a terra. Nei resoconti ufficiali si affermò che era invece atterrato all'interno della capsula, per conformarsi alle regole internazionali sui primati di quota raggiunta in volo.

Dopo il volo del Vostok 1. Migliaia di russi lo attendevano al suo ritorno e la sua impresa ebbe una grande eco in tutto il mondo. Gagarin dimostrò che l'uomo era in grado di volare oltre le previsioni, diventando a soli 27 anni il primo uomo della storia a orbitare intorno alla Terrae a osservarla dallo spazio. Venne decorato da Nikita Chruščёv con l'Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica, e fu altresì nominato Eroe dell'Unione Sovietica. In seguito collaborò alla preparazione di altre missioni spaziali, come quella della Vostok 6, che nel 1963 portò Valentina Tereškova a diventare la prima donna della storia a volare nello spazio. Inoltre, partecipò allo sviluppo della nuova navicella spaziale Sojuz. Nel 1967 riuscì a farsi nominare sostituto cosmonauta della discussa navicella spaziale Sojuz 1, che venne ribattezzata "tomba volante" ed era stata criticata dai più a causa degli evidenti errori commessi nella costruzione della stessa. In quella missione morì poi in circostanze drammatiche Vladimir Komarov. Da lì in poi Gagarin ritornò a pilotare gli aerei che aveva usato prima di entrare a fare parte del progetto spaziale, i MiG. Grande appassionato di rugby, Gagarin fu tra coloro che contribuirono alla risorgenza del gioco in Unione Sovietica dopo un periodo d'abbandono. La nuova federazione fu fondata e presieduta, fino al crollo dell'URSS, dal suo amico e collega collaudatore Vladimir Il'jušin.

Morte. Gagarin morì il 27 marzo 1968 a soli 34 anni, sette anni dopo la sua grande impresa, a bordo di un piccolo caccia MiG-15UTI, schiantatosi al suolo nelle vicinanze della città di Kiržač. Probabilmente l'aereo di Gagarin entrò nella scia di una formazione di tre Sukhoi Su-15. L'improvvisa turbolenza causata dai tre grossi caccia, ben più grandi e potenti del MiG-15 da lui pilotato, potrebbe aver fatto perdere a Gagarin il controllo del velivolo. Altre ipotesi teorizzano la collisione al suolo avvenuta a seguito della manovra fatta per evitare un altro caccia che non doveva trovarsi in quella zona. Sposato e padre di due bambine, al momento della morte Gagarin era in procinto di partire per una nuova missione nello spazio; lo storico volo del 1961 sarebbe invece rimasto il suo unico viaggio in orbita. Le sue ceneri sono state poste presso le mura del Cremlino a Mosca.

Vita privata. Credenze religiose. La figura di Gagarin venne ampiamente utilizzata dalla propaganda sovietica non solo per affermare la supremazia dell'URSS nella corsa allo spazio ma anche in favore dell'ateismo di Stato. A Gagarin è stata infatti attribuita da alcune fonti la celebre frase "Non vedo nessun Dio quassù". L'attribuzione della frase in realtà è controversa; non esiste alcuna registrazione delle comunicazioni che la riporti e potrebbe essere stata frutto della propaganda antireligiosa sovietica. In un'intervista rilasciata all'agenzia Interfax nel 2006, l'amico e collega di Gagarin, il colonnello Valentin Vasil'evič Petrov, docente presso l'accademia aeronautica militare intitolata allo stesso Gagarin, ha affermato che Jurij era battezzato nella chiesa ortodossa e credente e che ebbe varie testimonianze dirette di questa sua sensibilità verso il divino. Il colonnello è convinto che fu in realtà Nikita Chruščëv a coniare la famosa frase sull'assenza di Dio nello spazio; Petrov ricorda che il Primo segretario del PCUS dichiarò: "Perché state aggrappati a Dio? Gagarin ha volato nello spazio e non ha visto Dio". Il cosmonauta Aleksej Archipovič Leonov (il primo uomo a lasciare la sua capsula spaziale per rimanere sospeso nello spazio), compagno e amico di Gagarin, intervistato dalla rivista Foma (n. 4 del 2006) ha riferito che, poco prima del suo volo, Gagarin volle battezzare la figlia Elena e ha descritto come la famiglia Gagarin celebrasse ogni anno il Natale e la Pasqua, oltre a possedere in casa icone e immagini religiose.

Intitolazioni. A Jurij Gagarin sono stati dedicati in Russia il centro di addestramento alla Città delle Stelle dove si preparano i cosmonauti prescelti per le varie missioni spaziali e l'Accademia dell'aeronautica militare dell'URSS (poi della Federazione Russa). In suo onore è stato eretto in piazza Gagarin a Mosca nel 1980 un monumento alto 12 metri scolpito nel titanio e appoggiato su un piedistallo di granito di 27 metri e mezzo, progettato dallo scultore Pavel Bondarenko e dall'architetto Jakov Belopol'skij. Lo stadio della città ucraina di Chernihiv è a lui intitolato. Il trofeo della Kontinental Hockey League di hockey su ghiaccio si chiama Coppa Gagarin. In suo onore un asteroide è stato battezzato 1772 Gagarin e gli è stato intitolato anche un vasto cratere lunare sulla faccia nascosta della Luna. Le montagne di Gagarin, una catena montuosa della Terra della Regina Maud, in Antartide, facente parte della più grande catena delle montagne di Orvin, sono state così battezzate in suo onore.

Così morì Gagarin. La Repubblica il 24 marzo 1987. Il primo cosmonauta della storia, Yuri Gagarin, è morto il 27 marzo 1968 in un incidente aereo quando, nel tentativo di evitare un ostacolo improvviso, ha compiuto una brusca manovra, superando l' angolo di incidenza critica e provocando quindi una caduta a vite dell' apparecchio. Le cause della sciagura La Pravda a quasi venti anni di distanza, ha rivelato ieri per la prima volta le cause della sciagura aerea che è costata la vita anche all' istruttore di volo Vladimir Seryoghin. L' organo ufficiale del partito comunista dell' Unione Sovietica ricorda che per indagare sulle cause del disastro fu creata un' autorevole commissione governativa che studiò nel modo più accurato tutte le circostanze di quel volo. Purtroppo si rammarica il quotidiano comunista nessun comunicato ufficiale sui risultati dell' inchiesta fu allora reso noto. Nulla venne fuori non solo sulle cause, anche se ipotetiche, della morte di Yuri Gagarin e dell' istruttore di volo, Vladimir Seryoghin che era con lui, ma anche per quanto riguardava i fatti accertati. Il professor Serghiei Belotserkovski e il primo pedone dello spazio, l' astronauta Aleksei Leonov, rompono adesso il silenzio e ricostruiscono, in base ai materiali raccolti diciannove anni fa dalla commissione governativa, le drammatiche fasi dell' incidente. Minuto per minuto, la Pravda descrive il tragico volo, durato in tutto dieci minuti, a bordo di un Uti-Mig-15 da addestramento. Dopo aver vagliato tutte le ipotesi sui possibili guasti dell' aeroplano (che non sono emersi) e sullo stato fisico dei due piloti, compreso quella inverosimile e sacrilega che fossero ubriachi (questa ipotesi è stata scartata dopo aver compiuto un' analisi del sangue prelevato dai resti mortali di Gagarin e Seryoghin), la commissione è giunta alla seguente conclusione: in condizioni di bassa nuvolosità e di scarsa visibilità, Gagarin, di fronte ad un improvviso ostacolo (uno stormo di uccelli, un pallone-sonda o qualcosa di simile) deve aver compiuto una brusca manovra superando l' angolo di incidenza critica e provocando quindi una caduta a vite dell' apparecchio. Gagarin e Seryoghin non pensarono neppure a catapultarsi e con assoluto sangue freddo e con perizia eccezionale, cercarono fino all' ultimo di raddrizzare l' apparecchio. Ce l' avrebbero fatta se avessero avuto almeno altri 200-300 metri di quota o altri due secondi di tempo, sostengono lo studioso ed il cosmonauta. Due secondi soltanto, ma quanto è alto il loro prezzo nell' aviazone e nei voli spaziali!, conclude l' articolo rivelando, in mancanza di prove scientifiche, solo l' ipotesi della morte di Gagarin avanzata dalla commissione governativa. Il nome di Gagarin divenne noto in tutto il mondo quando il 12 aprile del 1961 alle 9,30 la voce di Yuri Levitan, lo speaker dei grandi momenti sovietici, annunciò che un russo aveva volato, per primo nella storia umana, nello spazio cosmico. Prima di lui a tentare erano stati soltanto animali. Famoso il caso della cagnetta Laika, che morì in un' astronave lanciata a perdere, ma che fornì le preziose informazioni per preparare il primo viaggio dell' uomo. Per l' Unione Sovietica di Nikita Krusciov in un mondo che stava uscendo dalla guerra fredda per sperimentare la coesistenza pacifica Gagarin divenne ben presto uno strumento di propaganda, mandato in giro per il mondo e soprattutto in occidente per esaltare il primato spaziale dell' Urss. Un lavoro in fonderia La biografia di Gagarin non aveva nulla a che fare con quella di un superman. Nato a Gjatsk, presso Smolensk, figlio di un falegname e di una mungitrice, approdò a Mosca per trovare un posto di tornitore. Non rassegnatosi a lavorare in una fonderia Gagarin segue dei corsi serali e arriva a prendere il brevetto di pilota nell' aviazione militare. Basso di statura ha bisogno di un cuscino per arrivare ai comandi del primo Mig che pilota. Quando scese dall' astronave disse: Vi prego di comunicare al partito, al governo, al compagno Nikita Krusciov, che l' atterraggio è stato normale, che sto bene e che non ho riportato nessuna ferita. Poi con tono meno ufficiale aggiunse: Il cielo è nero, la terra è azzurra, non ho incontrato angeli.

Per ricordare Jurij Gagarin, il primo uomo nello Spazio. Luigi Bignami l'1 gennaio 2019 su Focus. Il 27 marzo 1968 moriva Jurij Gagarin, il primo uomo ad andare nello Spazio dimostrando al mondo che si poteva fare - andare, e anche tornare. Il primo uomo nello Spazio, il russo Yuri Gagarin, è morto in un misterioso incidente aereo: sono trascorsi solo 7 anni dalla sua storica impresa... Più o meno così i mezzi di informazione del pianeta annunciava la morte di Jurij Alekseevič Gagarin il 27 marzo 1968. La storica impresa era stata un’incursione nello Spazio di appena 108 minuti: poco meno di due ore che ebbero però un significato politico (in piena Guerra Fredda) e tecnologico di grandissima importanza. Fatti alla mano, l'Unione Sovietica dimostrava agli Stati Uniti di padroneggiare la tecnologia che permetteva all’uomo di esplorare lo Spazio oltre la Terra. Per quel volo Gagarin divenne, e ancora oggi è, un eroe per i russi e per il mondo intero. Nulla potrà mai equiparare l'impresa di quest'uomo nell'immaginario sovietico: Jurij Gagarin è di gran lunga uno dei personaggi più amati nel firmamento delle stelle socialiste. Il 12 aprile 1961, lo stesso giorno del suo volo nello spazio, la radio e i giornali sovietici diedero notizia della storica impresa: una notizia totalmente inaspettata, perché nulla era mai trapelato, fino a quel momento. Vedi anche: numeri, retroscena e curiosità: l'impresa di Gagarin in pillole.

UNA VITA DIFFICILE. Nato il 9 marzo 1934 nel villaggio rurale di Klushino, a circa 200 chilometri a ovest di Mosca, in una fattoria collettiva, la sua istruzione fu bruscamente interrotta dalla guerra, nel 1941, quando la famiglia fu costretta a fuggire. Gagarin mostrò una passione per gli aerei fin dall'infanzia e a 20 anni si iscrisse a una scuola di volo: il brevetto gli permise poi di accedere all’aeronautica sovietica per diventare un pilota militare. Come membro dell'aeronautica Gagarin si offrì volontario nel 1959, con altri 19 piloti, per addestrarsi a pilotare un non meglio specificato "nuovo tipo di apparato", che si rivelò poi essere una navicella spaziale. Il gruppo fu ridotto a sei e infine, nell'aprile del 1961, fu scelto per la prima missione con equipaggio nello Spazio, cosa che gli fu comunicata solo pochi giorni prima del lancio. A quel punto Gagarin aveva 27 anni, era sposato con un'infermiera e aveva due figlie. IL PRIMO UOMO. Il 12 aprile 1961 alle 9:07 ora di Mosca, Gagarin pronunciò il suo famoso "poyekhali!" (andiamo!) e il vettore Semyorka partì per lanciare in orbita bassa la minuscola e claustrofobica Vostok 1 e Gagarin stesso. Pochi minuti dopo, alle 9:12, quasi al limite dell'atmosfera le prime parole pronunciate così lontano dalla superficie, le parole di un pioniere: «Vedo la Terra... è magnifica!» Dopo un volo di 108 minuti che prevedeva una singola orbita del pianeta Gagarin rientrò a Terra, ma non all’interno della navicella: con un paracadute, dopo essere stato espulso a circa 7.000 metri di quota. Questo particolare venne tenuto segreto per diversi anni, per timore che il volo non venisse omologato perché incompleto. Due giorni dopo era accolto da eroe a Mosca. Il regime sovietico organizzò per lui diversi tour per il mondo, in “missioni di pace” e propaganda, e fu ricevuto dai leader del mondo di allora, dalla regina Elisabetta II a Fidel Castro. Non gli fu mai più permesso di tornare nello Spazio, nonostante questo fosse il suo desiderio: per i sovietici era diventato un simbolo troppo prezioso per fargli rischiare la vita in missioni pericolose e la sua carriera di cosmonauta e di pilota si interruppe. Dopo qualche anno di celebrazioni e festeggiamenti pubblici, e di molte sregolatezze, Gagarin si rimise in forma e tornò a chiedere insistentemente alle autorità di poter riprendere almeno a pilotare aerei. Nel 1968 gli venne revocato il divieto di volo e fu riqualificato come pilota di jet. 

L'ULTIMO VOLO. Il 27 marzo 1968, durante una missione di addestramento, il suo MiG entrò in avvitamento ad alta velocità e si schiantò al suolo. Le circostanze dell'incidente vennero messe a tacere e l'indagine divenne un segreto di Stato, alimentando così anche varie teorie complottiste antisovietiche. Dai documenti declassificati cinquant'anni dopo emerge una sorta di banalità dell'evento (anche se non le cause precise): forse una brusca manovra per evitare un pallone meteorologico, forse l'effetto di turbolenza provocato dalla scia un altro aereo molto più grande. Tra i tanti "si dice" c'è anche quello che vuole che a Gagarin fosse stata concessa una seconda missione nello Spazio. Tre giorni dopo l’incidente, i funerali di Stato con decine di migliaia di persone ad accompagnare il feretro e probabilmente altre centinaia di migliaia nel mondo, attaccate alla radio e alle televisioni. Di Gagarin oggi restano la memoria dell'impresa, il sorriso, la meraviglia che ha riportato sulla Terra, le statue, i francobolli, il centro di addestramento dei cosmonauti alla Città delle Stelle... E il nome al cratere sulla Luna dove Gagarin sognava di mettere piede di lì a qualche anno.

L'impresa di Jurij Gagarin in pillole. Elisabetta Intini l'1 gennaio 2019 su Focus. Il 12 aprile 1961, alle 9:07 ora di Mosca, dalla base spaziale di Bajkonur in Kazakistan decollava la Vostok 1, prima navicella spaziale con equipaggio umano. I 108 minuti che seguirono la videro compiere un'orbita completa intorno alla Terra per poi atterrare con successo, inaugurando trionfalmente l'era delle missioni celesti. All'interno della capsula, guidato da Terra, c'era l'uomo che in seguito sarebbe stato ribattezzato il "Cristoforo Colombo dei cieli": il pilota sovietico appena 27enne Jurij Gagarin. Tra inediti dietro le quinte e pericolosi imprevisti, la cronaca di una mattinata che fece la storia.

3461. I candidati piloti selezionati per la missione Vostok. Di questi, solo 20 affrontarono un anno di duro addestramento psicofisico basato su prove di resistenza alle vibrazioni e alle alte temperature, permanenza in camera di isolamento e risposta alle accelerazioni improvvise. Il 25 gennaio 1961 ne furono selezionati 6: Gagarin era tra questi.

COLAZIONE. La mattina del lancio Gagarin e German Titov, il cosmonauta di riserva, furono svegliati alle 5:30. Jurij eseguì i consueti esercizi, si lavò e fece colazione con un menù "spaziale": carne trita, marmellata di more e caffè. Poi i due cosmonauti indossarono una sottotuta blu, calda e leggera, e sopra una tuta protettiva arancione dotata di un sistema di pressurizzazione, ventilazione e alimentazione. In testa un paio di cuffie e un casco bianco con la scritta CCCP (URSS).

SANGUE FREDDO. Secondo lo storico spaziale Asif Azam Siddiqi, l'ingegnere sovietico Sergej Pavlovi? Korolëv, supervisore della missione Vostok 1, era talmente agitato la mattina del 12 aprile 1961 che dovette prendere una pillola per il cuore. Gagarin invece sembrava calmo, e a mezz'ora dal lancio il suo polso registrava 64 battiti cardiaci al minuto.

PIPÌ. Durante il tragitto verso la rampa di lancio, Gagarin si fermò a far pipì sulla ruota posteriore dell'autobus che lo trasportava. Da allora questo è diventato un rito obbligato e propiziatorio per tutti gli astronauti del Soyuz. Altre tradizioni perpetuate in memoria di Gagarin sono: tagliarsi i capelli due giorni prima del lancio, non assistere al trasporto e al posizionamento dei razzi e della navicella, bere un bicchiere di Champagne la mattina della partenza e firmare la porta della camera dell'hotel prima di uscire per raggiungere la rampa.

«SI VA!». La frase pronunciata da Gagarin alle 9:07 del 12 aprile 1961 quando, chiuso il portellone, cominciò il decollo.

43. I giorni di vita di Galya, secondogenita di Gagarin e della moglie Valya, quando il padre fu lanciato nello spazio. All'epoca Gagarin era già padre di una bambina di due anni, Yelena.

LA NAVICELLA. Del peso totale di 4,7 tonnellate e alta 4,4 metri, la Vostok 1 ("Oriente 1" in russo) era costituita da due parti: un modulo abitabile di forma sferica, che ospitava l'astronauta, e un modulo di servizio provvisto della strumentazione di bordo, dei retrorazzi necessari a frenare e far ricadere la sonda a Terra e di 16 serbatoi contenenti ossigeno e azoto. La capsula abitata era dotata di tre oblò, un visore ottico da orientare a mano, una telecamera, la strumentazione per rilevare pressione, temperatura e parametri orbitali, un portellone e un sedile eiettabile lungo più o meno quanto l'abitacolo di una Fiat 500 (all'epoca il cosmonauta non atterrava insieme alla navicella, ma veniva espulso all'esterno e paracadutato a Terra in fase di rientro).

IL VOLO. Partita da Bajkonur (Kazakistan), la Vostok 1 compì un'orbita completa intorno alla Terra per atterrare, dopo 108 minuti, a Smielkova (Russia occidentale). Inizialmente la capsula fu diretta verso la Siberia; quindi sorvolò l'oceano Pacifico e, già quando si trovava sopra l'Africa, si accesero i retrorazzi per frenare la navicella e consentirne il rientro. L'altitudine massima raggiunta fu di 302 chilometri e la minima di 175. La Vostok viaggiava a una velocità di 27400 chilometri orari.

DATA. Quella del 12 aprile 1961 era probabilmente la prima data utile per battere sul tempo - in piena Guerra Fredda - l'Agenzia Spaziale Statunitense nella corsa alla conquista dello spazio. Alan Shepard, il primo americano nello spazio, avrebbe tentato l'impresa il 5 maggio dello stesso anno. Quello di Shepard a bordo della capsula Freedom 7, però, fu un volo balistico che non raggiunse l'orbita terrestre (la missione non lo prevedeva) e durò poco più di 15 minuti.

MUSICA. Per permettere a Gagarin di scegliere la frequenza migliore con cui comunicare, quattro stazioni radio terrestri trasmisero musica intervallata ogni 30 secondi da un messaggio di chiamata in codice morse, per tutta la durata della missione.

PROVA TV. In piena Guerra Fredda, per gli Americani era prioritario avere la prova che i Sovietici avrebbero effettivamente mandato il primo uomo nello spazio, come da tempo si vociferava, e che non si trattasse di pura propaganda. Per questo già prima del lancio, l'Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana progettò e fece realizzare speciali stazioni in grado di intercettare le comunicazioni dei Russi. Una di queste, posizionata a Shemya, nell'arcipelago delle Aleutine (Alaska), riuscì a captare le comunicazioni tra il cosmonauta e la base terrestre demodulando la trasmissione video e permettendo pertanto di vedere le immagini di Gagarin all'interno della Vostok (cosa già avvenuta nei due lanci precedenti della navicella che avevano però ciascuno, come passeggeri, un cane e un manichino). Così a soli 58 minuti dal lancio, i vertici militari statunitensi ebbero la conferma che l'Unione Sovietica stava facendo sul serio.

SCORTE. A bordo della Vostok 1 c'erano viveri e acqua sufficienti per dieci giorni: in caso di avaria dei retrorazzi, infatti, la capsula avrebbe impiegato questo lasso di tempo a ricadere sulla Terra, per effetto della forza d'attrito presente sulla traiettoria di arrivo studiata. L'eventualità di un rientro "naturale" sulla Terra non venne mai trascurata in fase di progettazione e fu tenuta come possibilità di emergenza.

LUNA. Quella secondo cui Gagarin avrebbe desiderato vedere la Luna durante il suo viaggio è probabilmente soltanto una leggenda. La fase lunare di quel 12 aprile 1961 (Luna quasi nuova) e la distanza angolare dal Sole (20 gradi) rendevano impossibile vedere il nostro satellite, e pare improbabile che l'astronauta non fosse a conoscenza di queste condizioni.

PIANETA AZZURRO. «La Terra è blu… che meraviglia. È bellissima» le parole che Gagarin pronunciò sbirciando fuori dall'oblò.

PILOTA AUTOMATICO. Poiché agli albori dell'era spaziale non si conoscevano i dettagli sugli effetti della permanenza del corpo umano in assenza di gravità, i medici sostenevano che durante la missione il cosmonauta avrebbe sofferto di disorientamento, e che fosse pertanto consigliabile fargli fare la parte del passeggero. Ma gli astronauti erano di diverso avviso e fu raggiunto un compromesso: mentre i controlli di volo erano affidati a un autopilota, i comandi manuali potevano essere sbloccati in caso di necessità attraverso una combinazione numerica di tre cifre custodita in una busta sigillata. Nel caso di Gagarin, non fu necessario aprirla perché la capsula rientrò nell'atmosfera guidata da Terra.

DOPPIO IMPREVISTO. Alle 10:25 il modulo di servizio con gli la strumentazione e i motori per sulla Terra accese i retrorazzi per 42 secondi, ma poi fallì il distacco dalla capsula in cui si trovava il pilota. L'inconveniente modificò l'assetto della navicella che iniziò a roteare su se stessa fino a quando il calore dovuto all'entrata in atmosfera non sciolse i lacci che legavano i due moduli. A 7 mila metri di quota la capsula espulse il sedile con a bordo Gagarin: oltre al primo paracadute, però, si aprì anche quello di emergenza, e per qualche momento il cosmonauta, che nel frattempo si era separato dal sedile, temette che i lacci dei suoi due salvavita si potessero aggrovigliare.

IVAN IVANOVICH. È il nome del manichino che veniva utilizzato per testare le navicelle Vostok durante la fase di preparazione ai voli con cosmonauti in carne e ossa. Munito di una tuta spaziale e di un viso dai lineamenti umani, aveva sotto al visore la scritta MAKET ("fantoccio" in russo) in modo tale che vedendolo, nessuno potesse scambiarlo per un vero astronauta. Ciò nonostante, quando il pupazzo atterrava al suolo dopo essere stato espulso dalla capsula spaziale, ai contadini sovietici ignari della sua vera natura faceva sempre una certa impressione vedere i militari affannarsi attorno ai resti del velivolo piuttosto che precipitarsi a soccorrere il pilota.

TERRA! Alle 10.55 del 12 aprile 1961, dopo 108 minuti dal lancio, Gagarin toccò il suolo di una fattoria collettiva nella provincia di Saratov, Russia occidentale. Le prime persone che incontrò una volta atterrato furono la terrorizzata contadina Anna Taktatova e sua figlia, accompagnate da un vitellino.

PRIMA E ULTIMA. Quella a bordo del Vostok fu l'unica missione di Gagarin nello spazio. Nella prima fase successiva all'impresa è probabile che i vertici sovietici non volessero offuscare la sua immagine con un nuovo, rischioso incarico. In seguito il cosmonauta fu inserito tra le riserve del Soyuz 1 (la cui missione fallì tragicamente nell'aprile del 1967 con la morte del colonnello Vladimir Komarov, prima vittima ufficiale nella storia del volo spaziale) ma morì prima di avere una nuova opportunità.

L'ULTIMO VOLO. Il 27 marzo 1968 Gagarin decollò dalla base sovietica di Chkalovskij a bordo di un aereo supersonico, un MiG-15 UTI: con lui c'era l'esperto istruttore e collaudatore Vladimir Sergeyevich Seryogin. Alle 10:31 si interruppero le comunicazioni con la torre di controllo. I relitti del velivolo, insieme a quel che resta dei corpi dei piloti, erano avvolti da una fitta nube di fumo. Le cause dell'incidente non sono del tutto note, ma c'è chi dice di aver sentito due forti esplosioni. Le ceneri di Gagarin si trovano all'interno delle mura del Cremlino, nella Piazza Rossa a Mosca.

Si ringrazia per la collaborazione Paolo Amoroso, collaboratore del Civico Planetario "Ulrico Hoepli" di Milano e del Museo Astronomico di Brera, esperto di astronautica e volo spaziale

Ecco la verità sulla morte di Juri Gagarin. Claudia Migliore per gialli.it su storiainrete.com il 13 gennaio 2013. Avreste mai pensato che Jurij Alekseevič Gagarin cosmonauta e aviatore sovietico, il primo uomo a volare nello spazio,  colui che aveva dedicato la sua vita al volo, potesse morire per un attacco di panico? E’ quello che sostiene una commissione indipendente dal governo russo dopo 9 anni di attente indagini e valutazioni e che svela il mistero della morte di Gagarin precipitato a Kiržač in Russia a bordo di un MiG15UTI il 27 marzo del 1968 a soli 34 anni. E’ il 27 marzo del 1968. Sono passati sette anni dall’impresa che lo ha reso un eroe. Compiere un’intera orbita ellittica attorno alla Terra. Gagarin sta volando a bordo di un piccolo caccia MiG-15UTI e improvvisamente si schianta al suolo nelle vicinanze della città di Kiržač in Russia. Un incidente anomalo, misterioso. Un’improvvisa picchiata e poi lo schianto. Cosa poteva aver causato la morte di un esperto aviatore, prima ancora che cosmonauta, in un volo che avrebbe dovuto essere una passeggiata diviene subito oggetto di mille ipotesi. Soprattutto dopo le frettolose conclusioni dei militari sovietici che attribuiscono l’incidente al probabile avvistamento di una sonda atmosferica o di un manto di nubi. Per loro il caso è chiuso. Il mistero risolto. Ma per molti altri non è così.

Tutte le ipotesi e le recenti scoperte. Alcool, complotto, abduzione da parte degli ufo, falsa morte per rinascere a nuova vita, omicidio. In questi quarant’anni si è sentito di tutto con una ricorrenza drammaticamente simile alla morte di molti altri personaggi famosi. In questo caso è stato scomodato persino il leader sovietico Leonid Brezhnev che invidioso del successo di Jurij Gagarin avrebbe fatto sabotare l’aereo. Le mille ipotesi negli anni hanno favorito la nascita della leggenda. L’ennesimo mistero nascosto negli archivi dell’Unione Sovietica. Fino ad oggi. L’ex colonnello dell’aviazione Igor Kuznetsov, dopo aver preso parte alle prime indagini e aver lavorato negli ultimi nove anni per risolvere questo mistero, ha dichiarato al quotidiano britannico «Daily Telegraph» quella che secondo il gruppo di studio è la possibile causa di quella “picchiata” improvvisa. Quel 27 marzo 1968 Gagarin e il suo copilota Vladimir Seryogin stanno conducendo un volo di routine ad oltre 3000 metri di altezza. Il cosmonauta si accorge improvvisamente che una presa d’aria nel suo abitacolo è stata lasciata aperta. La cabina non è adeguatamente pressurizzata e l’aereo è a 3000 metri d’altezza. Gagarin si spaventa. Si fa prendere dal panico o forse deve aver pensato all’unica cosa possibile per salvarsi la vita, scendere in picchiata ad un’altezza più sicura. Scendere, velocemente, ad oltre 145 metri al secondo. Per non morire. A quei tempi i piloti non sapevano che una discesa così improvvisa e veloce poteva provocare danni enormi. I due perdono conoscenza e si schiantano nel vicino bosco di Kiržač. Il colonnello Kuznetsov assieme ai suoi collaboratori ha usato le più moderne tecniche investigative e consultato centinaia di documenti per riuscire a scoprire le circostanze che causarono quel fatale schianto. Kuznetsov aveva anticipato queste conclusioni già alcuni anni fa. Oggi ne è fermamente convinto e chiede la riapertura del caso che gli era stata già negata nel 2007 dell’allora presidente russo Vladimir Putin. Chi sa come mai. Al momento della morte Jurij Gagarin aveva 34 anni, una moglie e due bambine ed era in procinto di partire per una nuova missione nello spazio. Lo storico volo del 1961 rimarrà invece il suo unico viaggio in orbita. Forse la sua famiglia dopo oltre quaranta anni avrà il diritto di sapere come è morto uno dei più famosi eroi nazionali russi.

Yuri Gagarin su biografieonline.it. L'astronauta russo Jurij Alekseevič Gagarin nasce il 9 marzo 1934. Cresciuto in un'azienda collettiva di quelle create in Russia dopo la Rivoluzione, in cui il padre faceva il falegname, vive la tremenda esperienza dell'invasione del suo Paese da parte della Germania. Il padre di Yuri, per contrastare l'avanzata dei nazisti, si arruola nell'esercito, mentre la madre cerca di portare lui e suo fratello maggiore, con l'intento di proteggerli, il più lontano possibile dai conflitti e dalle battaglie. In seguito, nel suo percorso scolastico, attirato dalle materie scientifiche, decide di specializzarsi in qualche settore tecnico, inscrivendosi ad una scuola di stampo professionale in Mosca. Gli anni di studio sono segnati da difficoltà economiche di vario tipo, tanto che più volte è costretto ad abbandonare la scuola per intraprendere qualche lavoro di tipo manuale e poco qualificato. Mentre è ancora studente inizia ad interessarsi agli aerei e a tutto ciò che è in grado si solcare il cielo, iscrivendosi presto alla locale scuola di volo. Si accorge, e per primi i suoi insegnanti, che è dotato di un vero e proprio talento in questo campo e una volta diplomato nel 1955 entra nell'aviazione sovietica. Anche in mezzo a provetti piloti, appare chiaro che le doti del giovane asso sono sopra la media, tanto che viene sottoposto a test che esulano dai normali standard o a prove altamente specializzate. Non solo: l'aviazione lo sceglie anche per testare nuovi sistemi e apparecchiature di volo. Il passo da lì a desiderare di volare "più in alto" è breve. Si offre infatti volontario per diventare astronauta. Non molto tempo dopo un volo intorno alla Terra di 108 minuti consegnava alla storia come primo uomo nello spazio uno sconosciuto ufficiale di 27 anni dell'aviazione sovietica. Era il 12 aprile 1961. La sua missione, come la maggior parte delle imprese spaziali sovietiche, non viene preannunciata. Gagarin viene lanciato alle 9:07 - ora di Mosca - dal cosmodromo di Baikonur all'interno dell'astronave "Vostok 1", del peso di 4,7 t. Entrato regolarmente in orbita, compie un giro attorno alla Terra, raggiungendo una distanza massima di 344km (apogeo) e minima di 190 km (perigeo). Gagarin è stato il primo uomo a sperimentare lo stato di imponderabilità e ad effettuare osservazioni del nostro pianeta dallo spazio esterno. Dopo 78 minuti di volo accese i retrorazzi che frenarono la corsa della "Vostok" e la portarono sulla traiettoria del rientro. I sovietici sostennero che l'astronauta rimase all'interno della capsula, la quale scese dolcemente per mezzo di paracadute sulla terra ferma; secondo fonti americane, invece, l'astronauta fu catapultato a sette mila metri di altezza e discese con un proprio paracadute. L'atterraggio avvenne alle ore 10:55. L'impresa di Gagarin è considerata fondamentale perché dimostra che l'uomo può resistere alle tremende sollecitazioni della partenza e del rientro all'ambiente ostile dello spazio extraterrestre. Dopo Gagarin, primo astronauta della storia e primo uomo che ha portato a compimento un volo spaziale attorno alla Terra, bisognerà attendere vent'anni esatti per vedere lanciato da Cape Canaveral il primo shuttle statunitense. L'exploit di Gagarin è un trionfo per l'Urss. L'America avrebbe recuperato il terreno che la separava dai sovietici, arrivando sulla Luna solo otto anni più tardi. Il volo nello spazio è stato segnato indelebilmente dalla guerra fredda, e ogni lancio era l'occasione - per una superpotenza o per l'altra - di piantare la propria bandiera. Oggi i giorni del confronto spaziale tra superpotenze sono finiti, e Russia e Stati Uniti lavorano insieme per costruire la stazione spaziale Alpha. Gagarin muore prematuramente a soli trentaquattro anni. Passano solo sette anni dalla sua conquista dello spazio quando il 27 marzo 1968 muore a bordo di un caccia da addestramento. Il caccia, un Mig 15, aveva a bordo anche un pilota collaudatore molto esperto: per ordine del Cremlino, Gagarin non poteva volare da solo (per questioni di sicurezza). Sempre il Cremlino gli aveva impedito anche di ritornare nello spazio: un eroe non doveva morire per qualche incidente. Invece nella più banale delle situazioni Gagarin cadde. Ma il mistero sulla sua fine è fitto. Varie sono le spiegazioni avanzate ufficiali e ufficiose. Ecco le principali:

1) Dopo l'incidente vennero avviate diverse inchieste le quali spiegarono che il Mig-15 di Gagarin era entrato nella scia di una altro caccia in volo. Il Mig perse il controllo è precipitò. Nella zona, non lontano da Mosca, c'era un fitta nebbia e i due jet non si erano visti.

2) Il controllo del traffico aereo militare era molto carente e autorizzò il volo del caccia nella zona dove volava Gagarin quando doveva invece impedirlo. Tenendo conto che i due jet non potevano volare a vista i controllori dovevano esercitare un controllo che invece non c'è stato.

3) Il servizio meteorologico nella zona di volo di Gagarin non aveva segnalato la presenza di dense nubi basse nelle quali invece si venne a trovare il Mig. Per un'avaria all'altimetro il caccia fece delle manovre troppo basse finendo al suolo.

4) C'è infine un'ipotesi fantasiosa. Quella dell'omicidio che sarebbe stato ordinato dal Cremlino dove allora comandava Breznev, per togliere di mezzo un personaggio che stava diventando ingombrante e poco gestibile. Il mistero rimane.

A Juri Gagarin è stato dedicato in Russia il centro di addestramento dove si preparano i cosmonauti prescelti per le varie missioni spaziali e a suo onore è stato eretto a Mosca nel 1980 un monumento alto 40 metri, costruito in Titanio.

Yuri Gagarin, la storia del primo uomo nello spazio. Silvia Artana il 12/04/2018 su Mondofox. Il 12 aprile 1961, Yuri Gagarin compiva un'orbita completa intorno alla Terra a bordo della Vostok 1 ed entrava nella leggenda. Ecco la storia del primo uomo nello spazio. Il 12 aprile 1961, Yuri Gagarin è stato il primo uomo ad andare nello spazio. Con la sua impresa, il cosmonauta sovietico ha aperto la strada verso nuovi, incredibili orizzonti ed è diventato leggenda. In occasione dell'anniversario del volo della navicella Vostok 1, noi di MondoFox vi proponiamo un viaggio alla scoperta della storia di un eroe normale, che da uno sperduto villaggio di campagna è arrivato a conquistare le stelle.

La biografia. Yuri Gagarin (Jurij Alekseevič Gagarin) nasce il 9 marzo 1934 a Klušino, un piccolo villaggio rurale nella regione (oblast') di Smolensk, nell'allora Unione Sovietica. La sua famiglia è composta dai genitori Alexey Ivanovich Gagarin, falegname e muratore, e Anna Timofeyevna Gagarina, mungitrice, dai fratelli maggiori Valentin e Zoya e dal minore Boris. Il giovane cresce in una delle collettività aziendali sorte in Unione Sovietica alla fine del 1917 e nel 1941 si ritrova a fare i conti con l'occupazione tedesca. Un ufficiale nazista si stabilisce nell'abitazione dei Gagarin e Yuri, il padre, la madre e Boris sono costretti a vivere per quasi due anni in una minuscola capanna di fango nel loro cortile, mentre Valentin e Zoya vengono deportati in Polonia ai lavori forzati. I due fanno ritorno nel 1945 e nel 1946 la famiglia si trasferisce a Gzhatsk, che dopo la morte del cosmonauta è stata ribattezzata Gagarin, dando il nome al distretto di Gagarinsky. Qui Yuri riprende gli studi interrotti a causa della guerra e si specializza come fonditore. Le sue qualità non passano inosservate e il giovane viene selezionato per un programma speciale nella vicina Saratov, acquisendo le ulteriori qualifiche di stampatore e tecnico trattorista. Proprio mentre si trova a Saratov, Yuri inizia ad appassionarsi al volo e si offre volontario per l'addestramento presso un club locale, imparando a pilotare i biplano e i monomotore d'addestramento Yakovlev Yak-18. Il suo eccezionale talento gli apre le porte dell'esercito. Il futuro cosmonauta viene inviato dietro raccomandazione presso la Prima scuola piloti dell'aeronautica Chkalov a Orenburg e nel 1957 diventa pilota di MiG-15. Completato l'addestramento, il giovane viene mandato di stanza in una base al confine con la Norvegia, dove impara a pilotare in condizioni climatiche estreme e scala rapidamente le gerarchie, acquisendo il grado di tenente dell'Aeronautica sovietica nel 1957 e di tenente anziano nel 1959. Nello stesso anno, Yuri è selezionato per il Programma spaziale portato avanti in gran segreto dall'Unione Sovietica. Il giovane ufficiale supera brillantemente le durissime selezioni e alla fine viene scelto come pilota della navicella Vostok 1. Il 12 aprile 1961, entra nella storia diventando il primo uomo a volare nello spazio e a compiere un'orbita completa intorno alla Terra. Il successo della missione fa di Yuri un eroe nazionale e un prezioso simbolo della potenza dell'Unione Sovietica. Per questa ragione, il cosmonauta viene escluso dalle successive missioni, per timore che possa rimanere vittima di un incidente. L'impresa di Yuri Gagarin finisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dopo avere viaggiato a lungo per il mondo per pubblicizzare il programma spaziale sovietico, nel 1962 Yuri torna in patria e inizia a servire come deputato il Soviet dell'Unione. Intanto, continua la carriera nell'esercito. A novembre 1963 viene promosso colonnello e a dicembre dello stesso anno diventa vice direttore dell'addestramento presso la base Star City, che si occupa della formazione dei futuri cosmonauti. La vita di Yuri finisce tragicamente il 27 marzo 1968. Mentre è in volo su un MiG-15UTI, si schianta al suolo nei pressi della città di Kiržač. Il primo uomo nello spazio muore ad appena 34 anni, lasciando la giovane moglie Valentina e le figlie Yelena e Galina.

Le missioni Sputnik e il Programma Vostok. L'epoca della esplorazione spaziale inizia ufficialmente il 4 ottobre 1957 con il lancio dello Sputnik 1. La missione è il coronamento del programma portato avanti dall'Unione Sovietica per mettere in orbita satelliti artificiali.

Lo Sputnik 1 (che in cirillico significa compagno di viaggio e per estensione satellite in astronomia) compie 1.400 orbite e 70mila km, mentre  la strumentazione al suo interno rimane funzionante per 57 giorni. Il satellite brucia andando completamente distrutto durante il rientro il 4 gennaio 1957. Il successo e la enorme eco mediatica della missione spingono i sovietici a lanciare un secondo satellite, lo Sputnik 2, stavolta con a bordo un essere vivente, la cagnolina Laika. Dopo avere orbitato intorno alla Terra dal 3 novembre 1957 al 14 aprile 1958, il satellite fa rientro senza problemi come previsto vicino a Mosca. Invece, la povera Laika muore poche ore dopo il lancio a causa degli sbalzi di temperatura. Il 15 maggio 1958 (al secondo tentativo), l'Unione Sovietica manda in orbita lo Sputnik 3, che pone ufficialmente fine al Programma Sputnik. Tuttavia, in Occidente vengono identificati come Sputnik anche i 6 satelliti artificiali lanciati successivamente, che invece rappresentano i prototipi delle navicelle Vostok. Facendo riferimento a tale (erronea) denominazione, lo Sputnik 9 e lo Sputnik 10 (lanciati a pochi giorni di distanza uno dall'altro, a marzo 1961), rivestono particolare importanza, perché rappresentano le prove generali per mandare in orbita un uomo. Infatti, a bordo di entrambi ci sono un cane e un manichino. Dal 1961, la corsa allo spazio dell'Unione Sovietica intraprende due strade diverse. Da un parte, viene promosso il Programma Cosmos per la messa in orbita di generici satelliti. Dall'altra, viene varato il cosiddetto Programma Vostok per lanciare nello spazio un essere umano. Per individuare il cosmonauta da fare viaggiare all'interno della navicella, l'Unione Sovietica dà il via già nel 1959 a una eccezionale ricerca di candidati, che prevede non solo parametri stringenti in termini di conoscenze tecniche e doti fisiche, ma anche di qualità morali. In particolare, gli uomini e le donne selezionati devono avere una vita a prova di scandalo e conforme agli ideali del regime. Alla fine, da un gruppo monster di 3mila aspiranti cosmonauti, la lista si riduce a 400 e poi a 20. Tra loro c'è anche Yuri Gagarin. Il giovane ufficiale inizia con i compagni un duro periodo di addestramento, che il 31 maggio 1960 porta all'ufficializzazione dei nomi dei 6 potenziali piloti della navicella Vostok 1. Yuri viene selezionato insieme ad Andrijan Grigor'evič Nikolaev, Pavlo Romanovyč Popovyč, German Stepanovič Titov, Anatoli Kartaschov e Valentin Varlamov. Dopo varie traversie e un tragico incidente che costa la vita a uno dei candidati, Yuri Gagarin diventa il primo pilota della Vostok 1, insieme al secondo German Stepanovič Titov (al quale sarà affidato il lancio della Vostok 2). Il momento tanto desiderato, atteso e temuto arriva all 9:07 ora di Mosca del 12 aprile 1961. La navicella Vostok 1 viene lanciata dal cosmodromo di Baikonur, dopo che Yuri dà l'ok alla partenza con la celebre esclamazione "poechali!", ovvero "andiamo!". Il cosmonauta compie un'intera orbita intorno alla Terra e rimane in volo per 108 minuti, viaggiando lungo una traiettoria ellittica con perigeo di 169 km e apogeo di 315 km. Benché Yuri sia una eccellente pilota, la navicella è comandata da Terra, con la possibilità di sbloccare i comandi manuali in caso di necessità. Fortunatamente, la missione si svolge senza intoppi (a parte un problema con l'apertura dei paracaduti frenanti, che tuttavia non ha conseguenze) e Yuri atterra nella steppa, nelle vicinanze del villaggio di Smelovka. Quando esce dalla Vostok 1, il cosmonauta si trova davanti Anna Takhtarova e sua nipote Rita, che stavano raccogliendo patate in un campo vicino. La donna è atterrita, invece la ragazzina è incuriosita e chiede a Yuri se arriva dallo spazio. A quel punto, il cosmonauta risponde: "Proprio così". Il Programma Vostok procede con altri 5 lanci e il 16 giugno 1963 segna un altro eccezionale primato storico, quando Valentina Vladimirovna Tereškova diventa la prima donna a volare nello spazioa bordo della Vostok 6.

La morte di Gagarin. Yuri Gagarin muore il 27 marzo 1968. Il cosmonauta si schianta al suolo con il suo MiG-15UTI mentre sta effettuando una esercitazione con l'istruttore di volo Vladimir Seryogin. Le cause dell'incidente non sono mai state del tutto chiarite e l'indeterminatezza ha fatto fiorire diverse fantasiose teorie complottiste. Ma seppure offrano risposte diverse, le varie indagini concordano sull'assenza di eventi e fatti "misteriosi". Secondo l'inchiesta condotta dal KGB e declassificata nel 2003, un controllore di volo avrebbe fornito a Yuri delle informazioni obsolete sulle condizioni climatiche, mentre nella preparazione del suo aereo sarebbero stati lasciati dei serbatoi all'esterno. Questi due fattori avrebbero impedito al cosmonauta di riprendere il controllo del suo MiG-15UTI, perso per evitare la collisione con uno stormo di uccelli o un altro aereo. Un'altra teoria suggerisce che a causare l'incidente sia stata una perdita di pressione all'interno dell'abitacolo, causata da uno sfiato lasciato aperto per errore. Invece, l'indagine realizzata dal Comitato Centrale del Partito Comunista offre una conclusione analoga a quella del KGB. Yuri avrebbe compiuto una manovra improvvisa in condizioni meteorologiche molto difficili per evitare un pallone sonda o un banco di nubi e avrebbe perso il controllo del MiG. Infine, il responsabile dell'inchiesta promossa da una Commissione statale, Alexey Leonov, ritiene probabile che a causare l'incidente sia stato un jet Sukhoi, che volava a bassa altitudine senza rendersene conto a causa del maltempo. Il velivolo, molto più grosso e potente del caccia di Yuri, avrebbe abbattuto la barriera del suono, generando una turbolenza che avrebbe mandato in rotazione il MiG-15UTI, facendolo precipitare.

Le citazioni più famose. Al di là della facciata di eroe nazionale, Yuri Gagarin è un uomo di grande fascino e carisma, che non ha dimenticato le sue origini umili e che in più occasioni mostra una eccezionale sensibilità e gentilezza d'animo.

Una delle sue più celebri frasi è quella che pronuncia quando vede il mondo dallo spazio: La Terra è blu [...] Che meraviglia. È bellissima.

In un'altra dichiarazione, parla della sua visione privilegiata per inviare un messaggio di pace: Girando intorno alla Terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro pianeta. Il mondo dovrebbe permetterci di preservare ed aumentare questa bellezza, non di distruggerla! 

Il pragmatismo dell'"eroe normale" emerge nel ricordo dell'atterraggio: Quando mi videro con la mia tuta spaziale, trascinando il paracadute mentre camminavo, iniziarono ad indietreggiare impauriti. Dissi loro di non spaventarsi, che ero un sovietico come loro, che era tornato dallo spazio e doveva trovare un telefono per chiamare Mosca.

E l'"uomo come tutti" parla in occasione di un viaggio ufficiale a Manchester, in Gran Bretagna, dopo la missione con la Vostok 1. Nella città inglese piove a dirotto, ma Yuri insiste perché la capote dell'auto su cui viaggia rimanga abbassata: Se tutte queste persone si sono dimostrate disponibili ad accogliermi e possono stare sotto la pioggia, anch'io posso.

Invece, ci sono molti dubbi sul fatto che mentre era nello spazio il cosmonauta si sia dedicato a riflessioni di carattere teologico: Non vedo nessun Dio quassù.

Secondo un collega e amico di Yuri, il colonnello Valentin Vasil'evich Petrov, la frase sarebbe da attribuire al leader dell'Unione Sovietica e Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS), Nikita Sergeevič Chruščëv.

I film ispirati a Yuri Gagarin. Per quanto quella di Yuri Gagarin sia una figura leggendaria, il mondo del cinema sembra avere poco interesse a portarla sul grande schermo. Tuttavia, qualche film c'è. Il più celebre è Gagarin. Primo nello spazio (2013), che racconta la vita del cosmonauta e celebra l'impresa compiuta a bordo della navicella Vostok 1. Il lungometraggio porta la firma del russo Pavel Parkhomenko. Un'altra pellicola dedicata al lancio avvenuto il 12 aprile 1961 è il documentario sperimentale First Orbit (2011), realizzato e prodotto dal regista britannico Christopher Riley in collaborazione con l'astronauta italiano Paolo Nespoli e l'Agenzia Spaziale Europea. Pensato per la diffusione digitale, il lungometraggio ripercorre passo passo (letteralmente) il viaggio intorno alla Terra compiuto dalla Vostok 1 e permette di vedere quello che ha visto Yuri nel suo pionieristico volo. Invece, Il tempo dei primi (2017) di Dmitrij Kisseliov è una rappresentazione di fantasia della corsa allo spazio dell'Unione Sovietica (in competizione con gli USA) e del Programma Vostok.

Yuri's Night: l'evento che celebra le esplorazioni spaziali. Il 12 aprile è un giorno di enorme importanza nella corsa allo spazio. Nel 1961, Yuri Gagarin è il primo uomo a entrare in orbita intorno alla Terra. Nel 1981, avviene la prima missione dello Space Shuttle Columbia. Per celebrare questi importanti avvenimenti (il secondo dei quali è già un omaggio al primo), dal 2001 ogni anno in questa data in tutto il mondo si festeggia la Yuri's Night. Ideata da Loretta Hidalgo Whitesides, George T. Whitesides e Trish Garner during durante lo Space Generation Forum in occasione della UNISPACE III Conference del 1999, la manifestazione ha come obiettivo di "educare e fare emergere la nuova generazione di esploratori", attraverso un mix di incontri, dibattiti, iniziative e festeorganizzati da molteplici soggetti e rivolti ad altrettanti partecipanti (dalla NASA, a scrittori e ricercatori di fama mondiale, fino a gruppi di amici). Per conoscere gli eventi in programma nella propria città o in qualunque parte del Pianeta, basta collegarsi al sito ufficiale della Yuri's Night. Invece, per proporre un'attività è necessario registrarsi. Siete pronti a volare nello spazio?

Gagàrin, il primo uomo nello spazio. Ora che resta a noi “terrestri”? Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 di Indro Montanelli su Corriere.it. Non credo che ci sia stato nulla d’ipocrita e di convenzionale nell’esultanza del mondo intero per la prima avventura dell’uomo nel cosmo, così felicemente conclusasi. Forse qualcuno avrebbe preferito che il protagonista fosse stato americano, invece che russo. Ma questa è una considerazione secondaria e, in fondo, cosi miserella che nessuno ha osato formularla. Non abbiamo fatto in tempo a sentirci solidali con Yuri Gagàrin mentre volava a trecento chilometri dalla Terra semplicemente perché in quel momento non sapevamo che stesse volando. Ma la notizia del suo avvenuto ritorno nel pianeta di partenza (eh già, d’ora in poi bisognerà abituarsi, a parlare e a ragionare in questi termini) ci ha riempito di orgoglio. L’uomo è uscito dal suo “habitat”, ha messo una ipoteca sugli spazi, ha affermato i suoi diritti sull’intero cosmo. E qui mi fermo per non naufragare nella retorica: non ce n’è nessuna peggiore di quella ispirata dalle grandi conquiste della scienza. Eppure, a volerci proprio parlare col cuore in mano, l’esultanza e l’orgoglio non escludono, nell’animo della gente, un certo sbigottimento e una vaga paura, non si sa bene di che, ma di qualcosa. Non ce lo diciamo, forse per vergogna; ma ce lo leggiamo negli occhi l’uno dell’altro, e ciò crea fra noi, fra noi “terrestri”, una specie di oscura omertà. È un sentimento impreciso e mescolato, non facilmente analizzabile. Prendo il mio caso, non perché lo consideri di eccezione, ma anzi appunto perché non lo è, e quindi molti lettori potranno riconoscervi il proprio. Cosa rappresenta, per me l’avventura astronautica di Yuri Gagàrin, oltre all’uscita dell’uomo dal suo “habitat”, l’ipoteca sugli spazi, eccetera eccetera? Rappresenta l’annientamento di tutte quelle personali esperienze dalle quali derivavo qualche motivo di soddisfazione. A sedici anni passai per un ragazzo audace perché andai in bicicletta da Fucecchio a Firenze. Fra i venti e i ventidue mi feci una fama di avventuroso perché me ne andai a studiare a Parigi, di lì emigrai in Norvegia e in Canada e tornai in Patria circonfuso di un alone salgariano. Pensavo con orgoglio: «Chissà quante cose avrò da raccontare ai miei nipoti, quando sarò vecchio!». I nipoti non li avrò mai, perché non ho avuto figli, almeno legittimi. Ma quante altre imprese ho affrontato nella mia vita, quasi unicamente per il gusto di raccontarle un giorno a questi ipotetici nipoti che non avrò? E da questo lato è una grossa fortuna che non li abbia perché, dopo Yuri Gagàrin, essi non mi avrebbero mai ascoltato. L’astronauta ha reso insignificanti il mio forsennato turismo di giornalista viaggiante, i miei giri del mondo a ripetizione e tutte le esperienze che ne ho ricavato. Esse non sono che “terrestri”, Dio mio. E cosa può trovarvi da imparare, o anche soltanto da incuriosirsi, una generazione che già vive con lo sguardo rivolto alla Luna e a Marte? Yuri Gagàrin ha fatto di me il nonno di me stesso. Da quando egli è tornato dal suo volo in orbita, tutte le volte che apro bocca mi sembra di udire il padre di mio padre, che per tutta la vita seguitò a raccontare un suo famoso viaggio da Fucecchio a Roma, che di famoso ebbe soltanto questo: il treno arrivò a Roma proprio in diciotto ore, come prometteva l’orario delle ferrovie. Il progresso, si capisce, rende sempre le esperienze di un uomo superate agli occhi di suo figlio. Ma l’impresa di Gagàrin non supera soltanto quelle nostre, le svuota addirittura e le annulla. È come se, d’improvviso, ci mutilassero del nostro passato, togliendogli ogni senso e significato. Il sospetto ci coglie di aver vissuto invano, noi che abbiamo vissuto soltanto in questa terra, di questa terra e per questa terra. Ripeto: è un sentimento confuso e vago, che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. Ma c’è. Ce lo leggiamo negli occhi l’uno dell’altro. È la nostra terrestre complicità. Ma ce n’è anche un altro, anch’esso inconfessato e difficilmente confessabile: la paura. Il mistero dell’universo, di paura non ce ne faceva più, perché ad esso ormai eravamo abituati. Noi siamo nati sapendo di non sapere e con la convinzione che non si sarebbe mai potuto sapere. Per quanto grandi e rapidi fossero i progressi che la scienza realizzava sotto i nostri occhi, rimaneva in noi la convinzione oscura e profonda, forse superstiziosa, che oltre i limiti del nostro “habitat” non si sarebbe potuti andare. Eravamo convinti che avremmo potuto inventare degli aggeggi per vedere, palpare, auscultare gli altri mondi; ma varcare - noi di persona - i confini di quello nostro, no. A questo punto la scienza, credevamo, doveva fermarsi per cedere il passo all’intuizione poetica, alla speculazione filosofica e, soprattutto, alla rivelazione religiosa che le comprende tutt’e due. Quel gran buio che ci circondava ci teneva caldo come una coltre d’ovatta in cui era piacevole dormire e sognare. Ed ecco, invece, Yuri Gagàrin andare ad accendervi la prima lampadina. Indro Montanelli, toscano, nato nel 1909, scrisse sul Corriere dal 1938. Il 3 luglio 2001 uscì l’ultima Stanza di risposta ai lettori. Morì il 22 luglio a 92 anni. Da parecchio tempo sapevamo che c’erano, in Russia e in America, dei Gagàrin che si allenavano per farlo. Ma non eravamo convinti che ci sarebbero riusciti, eppoi non ci hanno dato il tempo di prepararci al fatto compiuto. Oramai non c’è più da avere dubbi (stavo per dire: non c’è più da farsi illusioni): l’uomo ci va, negli spazi, ne vedremo avventurarvisi a schiere e sempre più addentro, fino a rispondere alla domanda cui, in fondo, speravamo di non poter mai rispondere: siamo soli, nel creato, oppure no? Lasciamo stare la fantascienza e le congetture. Restiamo ai nostri sentimenti terrestri. Noi siamo così impreparati a risolvere questo dubbio, che non sappiamo nemmeno cosa augurarci. Quando m’interrogo - e ormai non posso farne più a meno - mi rendo conto che ambedue le ipotesi mi fanno ugualmente paura. L’idea che noi siamo gli unici esseri viventi in questo immenso cosmo, in questa infinità di mondi cui non si riesce ad assegnare né una fine né un principio, mi sgomenta non meno del sospetto che ce ne siano altri, chissà come fatti e dove alloggiati con cui, prima o poi, dovremmo entrare in contatto. Sì, d’accordo, le prospettive che tutto ciò dischiude alla nostra iniziativa sono meravigliose. Ma io non riesco ad esaltarmene che con parecchie riserve suggerite dallo sbigottimento e, se volete, dalla viltà. Sì, ho paura. Ho francamente paura di questa avventura a cui Gagàrin ha dato l’avvio col suo portentoso volo. Forse è lo stesso sentimento irrazionale e assurdo che provarono i nostri padri alla notizia che alcune caravelle avevano violato le Colonne d’Ercole e scoperto l’altro emisfero. Però non è soltanto mio. Esso non infirma l’esultanza per l’ipoteca messa dall’uomo sugli spazi, eccetera eccetera, che rimane vera e sincera. Ma ci convive. Saranno i pregiudizi, saranno le abitudini, saranno le superstizioni; ma sulle Colonne d’Ercole che Gagàrin ha violato, noi abbiamo sempre letto, o creduto di leggere, nell’ immaginazione, la scritta off limits, e almeno per il momento non riusciamo a liberarci da un vago e indefinito “complesso” di sacrilegio. Noi scriviamo per un giornale, dove le parole vivono ventiquattr’ore soltanto. Quindi non c’è pericolo che le mie passino alla posterità e che la posterità ne rida. Ma è proprio questo che ci consente di essere sinceri fino in fondo. Così mi sento di poter dire ciò che, probabilmente, molti altri avranno pensato e cioè che la impresa di Gagàrin, oltre alla solidarietà dell’uomo per l’uomo e all’orgoglio per il suo ardire e il suo sapere, in me ha suscitato, per reazione, una specie di disperato amore alla Terra, a questa nostra buona Terra, che mai mi era apparsa cosi bella, così ricca, così completa, come da quando il primo uomo l’ha abbandonata, sia pure per un’ora soltanto. Come mi accorgo di volerle bene, Dio mio, come la calpesto volentieri, come sarò contento, d’ora in poi, anche d’inciamparci, ogni tanto, e di picchiarci il muso, o magari di rompermici il femore, come mi riempie di gioia la certezza di non essere in tempo, per quanto rapida possa essere la conquista degli spazi, a venire seppellito altrove che nella terra della Terra. Non sapevo di nutrire questi sentimenti. È Gagàrin che me li ha rivelati. In fondo, gliene sono grato. Il cosmonauta eroe urss morì in aereo a 34 anni. Solo una volta nello spazio, ma per primo. Tanto è bastato a renderlo un mito. Yuri Gagàrin nacque in Russia nel 1934. Durante gli studi, interrotti a causa della Seconda guerra mondiale, si appassionò al volo e si iscrisse a una Scuola di Aeronautica. Il 12 aprile 1961 volò nello spazio sulla navicella «Vostok 1». L’impresa lo rese una celebrità nell’Urss. Morì 7 anni dopo, appena 34enne. Beffa del destino: in un incidente aereo.

·         La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna.

La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna. Il Saturno V, con la navetta Apollo e il suo equipaggio, vennero lanciati in perfetto orario mercoledì 16 luglio 1969 e arrivarono nell'orbita lunare sabato 19 luglio. Domenica 20, mentre Collins restava sul modulo di comando, chiamato Columbia, Armstrong e Aldrin entravano nel modulo lunare, chiamato Aquila. Alla 13/ma orbita lunare i due moduli si separarono e Aquila accese i motori per cominciare la discesa. La Repubblica il 16 luglio 2019. In tutto il mondo oltre 500 milioni di persone seguivano dalle tv ogni fase della missione col fiato sospeso. Nelle poche ore trascorse sulla Luna i due astronauti lavorarono per raccogliere 22 chilogrammi di rocce lunari. Poi alzarono la bandiera americana e lasciarono sul suolo lunare la targa con le tre firme dell'equipaggio e quella dell'allora presidente Richard Nixon: "Qui nel luglio 1969 misero per la prima volta piede sulla Luna uomini venuti dal pianeta Terra, siamo venuti in pace per l'intera umanità". Le tappe della missione:

Il lancio. In 2 minuti e 42 secondi, il razzo raggiunge una velocità di 9.800Km/h ed entra nell'orbita terrestre.

Inserimento translunare. Dopo un'orbita terrestre si riaccende il terzo stadio per sei minuti, dopodichè inizia il viaggio verso la luna.

Trasposizione e attracco. Il modulo di comando ruota di 180°, aggancia il modulo lunare e lo estrae dal terzo stadio. Così si connettono agli alloggi dell'equipaggio. Il terzo stadio si stacca per raggiungere il suolo lunare.

Inserimento in orbita lunare. Tre giorni dopo la partenza, il motore principale del modulo di comando si accende per rallentare l'astronave e raggiungere l'orbita lunare.

l modulo lunare (LEM). E' composto da due stadi: lo stadio di discesa, per far atterrare verticalmente il modulo lunare, e uno stadio di ascesa con gli alloggi degli astronauti. Il primo resterà sul suolo lunare.

Allunaggio. Due astronauti entrano nel modulo lunare, che si separa e scende sulla Luna, mentre il modulo di comando, pilotato dal terzo astronauta, resta in orbita.

Lo sbarco. Il 20 luglio avvenne lo sbarco: il primo a scendere fu Neil Armstrong, seguito da Buzz Aldrin. Durata della missione: 8 giorni.

Riaggancio in orbita. Lo stadio di ascesa entra in orbita e aggancia il modulo di comando, poi, il modulo lunare viene sganciato per impattare sulla Luna.

Inserimento transterrestre. Si accende il potentissimo motore del modulo di comando, che fa uscire l'astronave dall'orbita lunare e la riporta in quella terrestre.

Il rientro. Il modulo di comando si separa dal modulo di servizio. Il primo rientra nell'atmosfera protetto dallo scudo termico, il secondo brucerà completamente.

Il rientro. Il modulo di comando si separa dal modulo di servizio. Il primo rientra nell'atmosfera protetto dallo scudo termico, il secondo brucerà completamente.

L'uomo sulla Luna, lo sbarco impossibile che oggi fa sognare Marte. Matteo Marini il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Sono passati cinquant'anni, ma l'orma sulla superficie lunare e la bandiera a stelle e strisce restano il simbolo del viaggio verso altri mondi. Che oggi potrà contare su nuove tecnologie e alleanze allora impensabili. Gli americani dovevano raggiungere la Luna, a tutti i costi, per surclassare i sovietici nella corsa allo spazio. Era una sfida tecnologica e politica ma portava in grembo anche un sogno, assecondava una predisposizione naturale, la curiosità di spingersi oltre, la voglia di conoscenza. Le colonne d’Ercole ormai sono l'atmosfera e la gravità della Terra. Il nuovo mondo, la superficie di un altro pianeta. Quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin posarono lo scarpone sulla soffice polvere del Mare della Tranquillità, era il 20 luglio 1969, sei ore dopo aver toccato il suolo con il modulo Eagle, l'Aquila, il buon esito della missione era ancora tutt’altro che scontato. Il presidente Nixon aveva già pronto in tasca il discorso da tenere nel caso in cui i due astronauti scesi sulla Luna non fossero stati in grado tornare indietro. Iniziava con queste parole: "Il fato ha decretato che gli uomini che sono andati sulla Luna per esplorarla in pace, resteranno sulla Luna per riposare in pace". Ma non andò così. Sei missioni hanno portato in tutto 12 uomini a sbarcare sul nostro satellite naturale in poco meno di tre anni e mezzo, dal 1969 al 1972. Tutti maschi, tutti americani. Oggi li potremmo chiamare “daredevil”, temerari scavezzacollo, se vogliamo anche loro malgrado, per i rischi che si trovarono a correre. La lista di inconvenienti durante le varie missioni Apollo è lunga. A cominciare dalla prima discesa con l'Apollo 11, quella di Armstrong e Aldrin, quando il computer si mise a fare le bizze. Saltò fuori che Aldrin aveva tenuto operativo il radar per tornare in emergenza verso il modulo in orbita se ci fossero stati problemi. Troppe cose da gestire per un computer super affidabile ma dalla potenza paragonabile a un Commodore 64. La disavventura dell’Apollo 13 la conosciamo tutti, il serbatoio di ossigeno che esplose durante la fase di crociera. Jim Lovell che disse la celebre frase “Houston, abbiamo avuto un problema”, un’orbita sola attorno alla Luna senza scendere e il rientro in emergenza. Lo stesso Armstrong aveva rischiato la vita durante un test con il modulo Lem. E d’altronde quelli che sarebbero dovuti essere i primi astronauti delle missioni Apollo, Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee, persero la vita nell’inferno scoppiato dentro alla capsula sigillata dell’Apollo 1. Era il 27 gennaio 1967, due anni e mezzo prima dello sbarco di Armstrong e Aldrin. Un dramma che scosse come un terremoto l’America, plumbeo auspicio per un’avventura che si rivelò poi un successo. Sulla Luna gli uomini hanno camminato, saltellato, guidato auto e giocato a golf. Per la prima volta un piede umano calcava la superficie di un altro mondo. Pur nell’impaccio della tuta i loro muscoli sollevavano un peso diverso, un corpo sei volte meno gravoso. Grazie ai campioni raccolti, ora sappiamo che la Luna è una ‘gemella diversa’ della Terra, con una composizione simile a quella del nostro Pianeta. Nel 1971 David Scott, astronauta dell’Apollo 15, portò con sé una piuma per dimostrare la teoria dei gravi in diretta tv. La lasciò cadere assieme a uno dei martelli che usava per raccogliere pietre. Essendo nel vuoto pressoché assoluto, toccarono il suolo nello stesso momento, come accadrebbe sulla Terra se non ci fosse atmosfera. “Galileo aveva ragione”, disse Scott. Insomma era un altro mondo, ma con le stesse leggi. Sembra banale, ma non lo è, perché nessuno fino ad allora lo aveva mai vissuto. Un anno e due missioni dopo la Luna era diventata sì, quasi banale. Più che altro superflua. L’avventura era cominciata nell’estate di Woodstock ma anche della “escalation” del Vietnam (mentre i Creedence Clearwater Revival cantavano l’Apocalisse in Bad Moon rising). Nel 1972 Nixon chiuse anticipatamente il programma Apollo, annullando le ultime tre missioni. Dopo le umiliazioni dello Sputnik e Gagarin, la sfida con l’Unione Sovietica era vinta, l’America ormai correva solo contro se stessa, nello spazio, mentre all’orizzonte si profilava la sconfitta in una guerra che aveva logorato il Paese. La corsa allo spazio e la conquista della Luna hanno dipinto immagini nitide nell’immaginario collettivo, scavato solchi profondi nell’evoluzione tecnologica e plasmato la cultura pop. Nel 1968 usciva 2001 Odissea nello spazio. Girato tra il ‘65 e il ‘66, proprio al culmine delle operazioni del programma Gemini statunitense. Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke raccontarono il conflitto con la macchina, la sfida e la solitudine dello spazio. Più ci si allontana dalla Terra e più si fa i conti col proprio intimo, mentre si è circondati dal vuoto e dal silenzio: dove un essere umano non potrebbe mai sopravvivere. Come un copione che ripete la fiction, Neil Armstrong fu costretto a escludere il computer di bordo dell’Eagle e scendere con una manovra manuale. Anche se l’Agc (Apollo guidance computer) non era così “cattivo” e nemmeno così intelligente come Hal 9000. Proprio Kubrick fu al centro della tesi complottistica più celebre di tutte, secondo la quale sarebbe stato lui il regista del “finto allunaggio”. Teoria che è diventata, come la conoscenza, globale e soprattutto ora trova migliaia di adepti in giro per il mondo. Nell’estate del 1969, a pochi giorni dall’approdo sulla Luna, David Bowiecantava Space Oddity, di Major Tom che fluttua oltre la Luna, “e non c’è nulla che possa fare”. E poi divenne Ziggy Stardust. Abbandonato al silenzio con se stesso. Lo spazio ha plasmato così anche la concezione che abbiamo di noi come specie umana. Capace di arrivare sempre più lontano con i razzi progettati da un ex ufficiale delle SS naziste. Eppure sempre più fragile, alla deriva su un pianeta perso nel buio. È un labirinto di contraddizioni che si amplia a ogni passo. C’è una foto che rende bene l’idea. È stata scattata da Michael Collins al modulo Lem che sta risalendo con a bordo Armstrong e Aldrin di ritorno dalla superficie della Luna. Sullo sfondo c’è la Terra. Bene, in quello scatto compare tutta l’umanità: passata presente e futura. Eccetto lui. C’è la Terra con tutti noi, ci sono i due astronauti che si avvicinano. È l’unico dietro la linea dell’obiettivo, un diaframma tra lui e tutto il resto. Per più di un giorno Collins era rimasto nel Columbia a orbitare in attesa del rendez-vous con i colleghi. In quelle ore, quando vedeva la Terra scomparire all’orizzonte e lui si affacciava sul lato nascosto senza possibilità di comunicazioni radio, era l’essere umano più lontano e solo mai nato. Una specie di icona che, assieme alle altre, ci rimette al nostro posto nell’Universo, un’altra, piccola, rivoluzione copernicana, come l’immagine divenuta nota col titolo di Earthrise, scattata dagli astronauti dell’Apollo 8 nel dicembre del 1968, che mostra l’alba della Terra dalla Luna vista per la prima volta da un essere umano. E il Blue marble, altro scatto iconico della Terra “piena”, la “biglia blu” immortalata dall’oblò dell’Apollo 17 nel dicembre del 1972. E infine il Pale blue dot, quel puntino azzurro appena percettibile nell’infinito. Siamo noi ripresi dalla sonda Voyager 1 che si girò per volere dello scienziato, visionario, umanista e divulgatore Carl Sagan, da sei miliardi di chilometri di distanza. Dagli anni ‘60 a oggi le avventure spaziali hanno rivoluzionato la nostra conoscenza fisica, chimica, matematica e tecnologica. Allo stesso tempo hanno fissato uno specchio così lontano da noi da poterci mostrare tutto il vuoto che abbiamo attorno. Ora che sulla Luna stiamo per tornarci, vale la pena guardarsi indietro e capire quanto le cose siano cambiate. La corsa allo spazio aiutò l’uomo a implementare le tecnologie che usiamo ancora oggi, non ultimo i circuiti integrati, gli antenati dei primi computer grazie alla miniaturizzazione dei componenti. Ma quello fu uno sforzo solitario, quasi velleitario fatto con dispositivi affidabili sì ma ai limiti della sufficienza per un’impresa così grande. Mezzo secolo dopo siamo diventati una civiltà spaziale. Senza le tecnologie legate allo spazio non potremmo vivere e arrivare in orbita: è diventata quasi routine. Grazie soprattutto alla collaborazione internazionale. La Nasa non ne ebbe bisogno negli anni ‘60, tutto il programma Apollo è costato più di 25 miliardi di dollari negli anni ‘60 e primi ‘70 (150 al giorno d’oggi). Ora è indispensabile. Raggiungere la Luna 50 anni fa era un lancio di dadi. Nessuna agenzia spaziale oggi e nessun astronauta sarebbero disposti a correre questi rischi. Ora possiamo farlo in tutta sicurezza, forse già nel 2024 gli americani porteranno la prima donna a calpestare quel suolo. La Luna questa volta non dovrà essere più la meta. Ma una tappa. Cinquant’anni fa sembrava che il sogno di costruire colonie e vivere su un altro pianeta fosse alla portata. E invece per i successivi 47 anni gli uomini (e anche donne, finalmente) non sono mai andati oltre i 400 chilometri di altezza, più o meno la quota alla quale orbita la Stazione spaziale internazionale. Ed è proprio dal laboratorio scientifico in orbita, nel quale si sono incontrati americani, russi, europei, giapponesi e canadesi, insomma (quasi) tutto lo spazio che conta eccetto i cinesi, che servirà ripartire per costruirne un altro molto più lontano. In orbita attorno alla Luna. Non sogniamo più, lo stanno progettando gli ingegneri e gli astronauti di Nasa, Esa e Roscosmos. Dalla Luna, dove un giorno forse fonderemo colonie, estrarremo acqua, elio-3 per la fusione fredda e carburante, e faremo il vero grande salto, verso Marte. Von Braun ci voleva andare già negli anni ‘80. Subito dopo il successo dell’Apollo 11, il padre del razzo Saturno V, il più grande e potente mai costruito che ha spedito i primi pionieri sulla Luna, aveva un piano per arrivare a toccare anche il Pianeta rosso. Lo stop fu granitico, lo spazio era il grande sogno di Kennedy, non quello di Nixon. E per fortuna, verrebbe da dire. Se andare sulla Luna era un stato un grande azzardo, fare rotta verso Marte sarebbe stato un suicidio. Paragonato alla potenza di calcolo del ‘cervello’ che guida una qualsiasi sonda spaziale, il computer di bordo dell’Apollo è una pascalina. Ma i problemi da risolvere restano ancora tanti. Nonostante le sfuriate del presidente Trump che vorrebbe vedere una bandiera americana sventolare (questa volta con più gagliardia, Marte a differenza della Luna un’atmosfera e del vento li ha), gli uomini della Nasa abituati ad aver a che fare con le pretese dei politici sanno che il Pianeta rosso è ancora irraggiungibile. Fare tappa sulla Luna è necessario per sviluppare le tecnologie indispensabili per portare uomini fino a Marte. Dove gli equipaggi saranno così distanti da escludere qualsiasi ritorno rapido in caso emergenza (a dispetto di quanto si vede in Star Trek e Star Wars, non si può girare l’astronave e dare gas). In un’interessante analisi pubblicata dalla rivista del Mit di Boston, Konstantin Kakaes spiega come “il programma Apollo abbia fallito nel fare il ‘salto gigante’. Il suo successo fu portare la tecnologia del tempo il più lontano possibile, così come i faraoni avevano costruito le piramidi più grandi possibili. Era un monumento all’ingenuità e alla determinazione. Ma i monumenti sono, per progetto e definizione, dei punti di arrivo, non degli inizi”. Forse è questo ciò che abbiamo imparato dalla corsa alla Luna: “Dobbiamo andarci, non tornarci”. Sono le parole del direttore generale dell’Esa Jan Woerner in un’intervista su Le Scienze di questo mese. Andarci ora, non come ci si è andati allora. Sarà una sfida comune. E allora troverebbero davvero un altro senso le parole con cui si chiudeva il discorso di Nixon, quello mai pronunciato, in onore degli astronauti caduti: “Ogni essere umano che solleverà lo sguardo alla Luna nelle notti che verranno saprà che c’è un angolo in un altro mondo che è per sempre dell’umanità”.

Allunaggio, Tito Stagno e quella telecronaca che cambiò la storia della televisione. Antonio Dipollina  il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Il battibecco con Ruggero Orlando e negli Usa Piero Angela che mandò gli operatori a riprendere solo i volti delle persone comuni che seguivano l'impresa. Quel giorno intero di una diretta memorabile. Lo sanno tutti, anche chi non era nato allora: Tito Stagno urlò che il modulo aveva toccato, Ruggero Orlando dall’America disse che non era vero, partì il battibecco live per dieci milioni di telespettatori italiani notturni (gli altri 990 milioni in giro per il mondo se ne disinteressarono parecchio). E mentre battibeccavano Orlando a un certo punto disse: ha toccato adesso. Nel senso che era successo alcuni secondi prima ma loro stavano litigando e la frase storica – come rievoca ancora oggi il novantenne Stagno – ovvero “Eagle has landed” lanciata a quelli di sotto col naso in su da Neil Armstrong semplicemente ce la perdemmo. È un po’ la metafora del paese (o di molte vite personali) magari. Stagno equivocò la messa in azione dal modulo di una sorta di antenna che doveva saggiare il terreno con richiami sonori (vagamente, par di capire, tipo il beep dal paraurti posteriore quando parcheggi a rischio) e la frittata andò in scena. Questa è ovviamente la parte spassosa e che ci piace ricordare di più – e proprio tutti, se pensano a Tito Stagno, pensano a quello. Ma la faccenda dello sbarco in tv fu una storia pazzesca, meravigliosa per tutto il mondo: con una tv giovanissima, soprattutto da noi, un solo canale e per la prima volta in assoluto la sensazione di una comunità felice e curiosa assiepata per un singolo evento (uno dei rari precedenti, per dire, fu la Corea di Pak-Doo-Ik e non fu la stessa cosa). E valeva per il mondo intero, con l’Unione Sovietica che si rassegnò a dare vaghe notizie (mentre la Cina ignorò del tutto la cosa) e l’Occidente in festa. Margherita Hack disse un giorno che a occhio la missione di Colombo in America doveva essere stata assai più pericolosa e appassionante ma, come dire, l’assenza della tv ne condizionò assai la percezione nonché il ricordo, oggi. Da noi, fu quasi un giorno intero di diretta – una maratona come si dice, oggi, la prima – il meglio del meglio a raccontare, nomi da commuovere, da Stagno a Orlando, a Enzo Forcella a Gianni Bisiach, di qua e di là dell’oceano. Negli Usa un Piero Angela (ospite del figlio Alberto nello speciale di Raiuno in onda sabato prossimo) che ha una grande intuizione e manda gli operatori in giro ordinando di ignorare le immagini della tv e riprendere solo i volti delle persone comuni che guardavano: ne venne fuori un servizio memorabile. E un sacco di altre storie così. Magari non ha la rilevanza del valore assoluto della missione in sé e dei suoi contorni scientifici d’avanguardia, ma davvero, per la televisione, e per quello che avrebbe rappresentato in futuro per l’intera umanità, quel giorno dello sbarco fu una svolta epocale. Anche la tv aveva toccato, eccome: i cuori del mondo, e la vita di tutti che non sarebbe mai stata più la stessa.

Tito Stagno e l’allunaggio in diretta: «Che notte calda in tv, ci calammo i pantaloni». Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Gian Antonio Stella e Paolo Virtuani su Corriere.it. A un certo punto, arrivò il trionfo planetario del mezzobusto: «A Roma era una giornata torrida, noi resistevamo da ore ma ormai in studio non c’era aria condizionata che tenesse… Diecimila fari accesi, un caldo terribile. Ci levammo la giacca. E continuammo la chiacchierata in maniche di camicia. Il Direttore, che era la buonanima (brava persona) di Villy De Luca, ci fece: «Cortesemente, vi dispiace rimettervi la giacca?» Andrea Barbato, che coordinava l’edizione straordinaria del Telegiornale, disse: «Obbediamo». Però si rimise la giacca e si calò i pantaloni. E tutti, fino al ginocchio, abbassammo i pantaloni. Tanto c’erano le scrivanie, coprivano tutto…» Mezzo secolo dopo, Tito Stagno, il conduttore di quella serata e quella notte indimenticabili, ricorda tutto come fosse ieri. Certo, lui non era un mezzobusto vero e proprio, di quelli in onda solo per leggere i testi altrui sul «gobbo». Aveva sì l’abbronzatura perenne e la zazzera bionda da tirabaci («Giuro: biondo naturale. Edda, digli che alla prima botta di sole ero biondo!») ma erano sopiti da un paio di occhialoni che gli davano l’aria del secchione. E può vantare una carriera ricca di interviste, inchieste, reportage (fu lui a seguire Paolo VI nello storico viaggio in Terrasanta), eventi speciali di ogni genere, compresa la direzione della Domenica Sportiva. Il cuore della sua vita, però, nell’immaginario collettivo degli italiani, resta quella notte. Che lo fece battezzare da Mariano Rumor come «astronauta ad honorem» ed era stata preparata anni prima, quando era passato davanti a una telescrivente proprio mentre ne usciva una notizia... «L’Unione Sovietica ha messo in orbita il primo satellite artificiale. Si chiama Sputnik. Era l’ottobre del ’57» 

E voi non ne sapevate nulla… 

«No. Però io non fui preso del tutto alla sprovvista perché non so dove, non so quando, avevo letto un articolo in cui si parlava dei satelliti artificiali e delle conseguenze della messa in orbita di un satellite artificiale. Mi ci ero appassionato…».

E quello fu il tuo primo piccolo passo verso la Luna...

«Sì. Da allora seguii i voli della cagnetta Laika, del primo astronauta Jurij Gagarin, della prima passeggiata nello spazio di Aleksej Leonov… Gli Stati Uniti erano indietro, allora. Finché arrivò John Kennedy che davanti al Congresso disse: «We choose to go on the Moon (noi abbiamo scelto di andare sulla Luna) not because it is easy (non perché è facile) but because it is hard (ma perché è difficile). Manderemo due americani sulla Luna e li faremo tornare sulla terra sani e salvi».

Tirava un’aria d’ottimismo: pochi anni prima Oggi aveva titolato «Andremo nella Luna in tre ore e 27 minuti».

«Si, buonanotte. Fu un’impresa strepitosa. Conquistare la Luna, ragazzi, con quei mezzi di allora! Se penso a com’era il computer di bordo! Quello dell’Apollo 8 aveva la potenza di un telefonino di oggi. L’intero sistema di computer di Houston, cuore della missione, aveva quella di un personal computer. Con questi mezzi siamo andati».

Tutto pareva possibile, allora… 

«Lo spirito di “Apollo” dall’America aveva diffuso voglia di creare, di fare… Uno spirito di solidarietà, di pensare all’altro, preoccuparsi dell’altro. Così nacque l’impresa della Luna, mettendo insieme un esercito di scienziati, medici, informatici, militari…».

Eri ottimista?

«Io sì. Soprattutto dopo il volo della navicella Apollo 8, comandante Frank Borman, partita a Natale 1968 e rientrata dopo aver lasciato per la prima volta l’orbita terrestre e aver girato intorno alla Luna dieci volte: un viaggio di 800.000 chilometri andata e ritorno. L’avevamo vista anche noi, da vicino. La superficie grigia, desolata, inaccessibile, ancora inviolata e in primo piano i crateri lunari, queste immagini terribili…».

Perché terribili?

«Beh, i crateri lunari, ragazzi.. Grigi, bui, minacciosi… Immaginavi “pensa se mi buttassero lì dentro...”».

E nel buio si sentì la voce dei tre astronauti…

«Che recitavano un brano della Genesi: “In principio Dio creò il Cielo e la Terra… Anche i tecnici in studio erano emozionatissimi…».

Tifare per l’America era anche stare contro i russi, no? Dall’altra parte c’era Satana... 

«Non mi pare. Anzi, i russi si comportarono benissimo. Avvertirono gli americani che avrebbero mandato un satellite per assistere allo sbarco e diedero perfino alla Nasa le coordinate di Lunik 15».

Afa a parte, quella notte come andò? Si parla di 8.000 sigarette fumate, 6.000 caffè, 250 persone al lavoro, 150 a darsi il turno tra gli invitati in studio…

«Esagerazioni! Però la Rai, di solito sparagnina, quel giorno offrì un buffet incredibile…».

Ma per stare sveglio non «mangiasti» solo aspirine?

«Diciamo vitamina C».

Perché solo vitamina C? 

«Provoca quel fenomeno che si chiama eretismo...Mi fermo qui».

Per 28 ore e 20 minuti consecutivi sveglio… 

«Ho un fisico che obbedisce. Obbediva, almeno. Per preparare tutto arrivai molto presto. Anche per fiondarci dentro l’aria condizionata della Rai. Ma non fu tutta una diretta. Nell’attesa mandavamo in onda telefilm di fantascienza e altri inserti. C’era pure una sfilata di moda. Una modella si chiamava Luna. Era nera. E un sacco di ospiti».

Finché, sul più bello, arrivò il panico.

«Panico no, però… Insomma, sparirono le immagini. Tutto nero. Mario Conti, il regista, bravissimo, capì che l’unica cosa che poteva far “vedere” era la mia emozione…“Che faccio”, mi chiedevo? Avevo assistito a Houston alla simulazione di alcune manovre. Pensai: facciamogliele immaginare, alla gente, quello che non può vedere... E allora descrivevo: “I due uomini sono in piedi, uno accanto all’altro, davanti a loro il quadro di comando, decine di leve, pulsanti…”».

E di colpo, riecco la diretta: e tu bisticci con Ruggero Orlando che era a Houston…

«Ma no, ma no, non fu un bisticcio. Erano arrivati a venti metri, dieci metri, due metri... Poi, pausa. Suoni confusi. Disturbati. Mi parve di sentire: “We.. We got land”, o roba del genere. Dissi: “Ha toccato!” Attento: non dissi “è atterrato”. Ma “ha toccato, toccato il suolo lunare”. E Ruggero: “No, non ha toccato”».

Chi aveva ragione?

«Dal suo punto di vista lui, perché la navicella aveva solo toccato il suolo lunare con antenne per saggiare la pendenza del terreno e non rischiare un ribaltamento. C’era carburante, nella navicella, per soli 8 secondi. Otto secondi! Immagina la tensione. La cosa buffa è che nella “ciacolada” fra me e Ruggero a un certo punto ci siamo persi Armstrong che diceva: “Eagle has landed! Aquila è atterrata”. Che casotto, ragazzi! Il mondo intero, in quel momento, uscì alla finestra a vedere il cielo. Da Singapore a Cagliari: “Siamo andati sulla Luna”! Meglio:“Seus arribbaus a sa luna!”».

E finalmente, dopo altre ore di diretta…

«Uscii da Via Teulada che era l’una di notte. Mi ricordo che mi salutò un giovanotto. Era Herbert Pagani. Arrivai a casa, piombai sul letto. Il giorno dopo apro gli occhi, vedo il sole, decido d’andare con mia moglie a Fregene. Mi stendo sul lenzuolo e mi addormento. Un sonno vigile, sentivo i passi della gente, gli schizzi, qualcuno che giocava a palla, pah pah pah… A un certo punto una voce: “Anvedi Tito Stagno! Pare morto!” Hai capito i romani? Poteva dire pure: “È stato bravo però!”».

Sic transit gloria mundi…

«Ma il più bravo, quella sera, fu il mio amico Alfonso Gatto. Disse: “Ho visto una barchetta sulla Luna, con mia mamma, Papa Giovanni, Marilyn Monroe, Martin Luther King…” Poesia. Purissima poesia».

Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 19 giugno 2019. Avremo modo nei prossimi giorni di occuparci dei programmi dedicati al 50° anniversario del primo passo dell' uomo sulla Luna, «un' impresa che cambiò il mondo per sempre». Intanto, ci piace riproporre un brano di Giorgio Manganelli (tratto da «Lunario dell' orfano sannita») per pensare anche all' altro lato della Luna. «Il capolavoro della programmazione dell' evento storico si ebbe quando il primo uomo, toccando la Luna, disse una qualche frase da libro di testo: "Questo piccolo passo inaugura" e non ricordo più bene cosa inaugurasse; certamente c'entrava il futuro, l'umanità, il progresso, la scienza, il benessere, la moralità. Il tutto spiegato da un militare in carriera. Era una frasaccia banale e scolastica, che aveva l' aria di essere compilata da un professore di liceo autore di libri di testo ampiamente adottati, e che era stata pensata in funzione televisiva; giacché come una volta la storia assumeva la policroma grazia delle vetrate chiesastiche, oggi si racchiude e minimizza nello schermo grigiastro del televisore». Non contento, ecco un' altra osservazione di Manganelli (tratta da «Ufo e altri oggetti non identificati»): «In questi giorni si fa un gran parlare di quella notte magata in cui, vent' anni fa, l' uomo, più esattamente il signor Armstrong, mise un piede sulla luna, e recitò il suo temino che si era preparato a casa. Ricordo quella notte perché io andai a dormire come al solito e non assistei allo spettacolo straordinario. Stupido vero? Assolutamente». I grandi scrittori servono a farci vedere quello che non vediamo.

Neil Armstrong, lo scout che divenne il primo uomo sulla Luna. Giacomo Talignani  il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Sua la celebre frase pronunciata durante l'allunaggio: "Un piccolo passo per l'uomo, un gigantesco balzo per l'umanità". In un giorno qualsiasi del 1936 il piccolo Neil di appena sei anni ottenne da suo padre il permesso di saltare la lezione di catechismo. Entrambi, passando per la pista di Warren (Ohio), notarono un aereo Ford Trimotor che apparteneva a un pilota atterrato da poco. Decisero di andare a scoprirlo: alla fine fecero un giro su quell'aeroplano e in Neil esplose un amore che durò per tutta la vita, quello per il volo. Questo "fuoco", la passione per gli aerei e l'esplorazione dello spazio, 33 anni dopo lo portarono sulla Luna: per tutti Neil Armstrong rimarrà sempre il "primo uomo sulla Luna", il celebre astronauta della frase "un piccolo passo per l'uomo, un gigantesco balzo per l'umanità", ma la sua storia non inizia in maniera così semplice. Nacque a Wapakoneta (Ohio) il 5 agosto del 1930, figlio di Stephen Koenig, un contabile e Viola Louise Engel, casalinga, e presto ebbe due fratelli più giovani, June e Dean. La vita del piccolo Neil ruotava tutta intorno alla famiglia: a causa del lavoro del padre, revisore per lo Stato dell'Ohio, dovevano spostarsi in continuazione da una città all'altra, tanto che questo - sosterranno in seguito alcuni biografi - sviluppò nel carattere di Armstrong una certa ritrosia nel fare nuove amicizie e aprirsi completamente con gli altri. Era un po' schivo, - confermeranno in futuro i colleghi - ma fra i più bravi nel suo lavoro. Quando Neil aveva 14 anni, la sua famiglia tornò a stabilirsi a Wapakoneta dove il giovane iniziò - mentre frequentava la Blume High School - a prendere lezioni di volo: a 15 anni aveva già il suo brevetto da pilota, ancor prima di prendere la patente dell'auto. In questo periodo il futuro astronauta fu anche scout, un'esperienza che lo segnerà a tal punto da portare con sé anche nel viaggio verso la Luna il distintivo da lupetto. Crescendo iniziò gli studi in ingegneria alla Purdue University, ma dovette interromperli per partire per la Guerra di Corea dove fu aviatore. In guerra partecipò a 78 missioni, fu autore di bombardamenti e riuscì a salvarsi miracolosamente dopo essersi lanciato con il seggiolino eiettabile. Rientrato in America decise di finire gli esami e fra i corridoi dell'università conobbe Janet Elizabeth Shearon. Si sposarono il 28 gennaio 1956 ed ebbero tre figli, Eric, Karen e Mark. Karen morì di polmonite all'età di due anni. Conseguito un master, Neil iniziò a lavorare in un gruppo che studiava velivoli che successivamente fu aggregato alla Nasa. Con l'agenzia spaziale continuò a volare, collaudare, progettare aerei e stabilire record, fino a iniziare il percorso di addestramento: nel 1962 divenne astronauta. Quattro anni dopo, gli fu affidato il comando di Gemini 8: in quella prima missione, insieme a David Scott, fu il primo astronauta a collegare due veicoli in orbita. Pochi mesi dopo il tragico incidente dell'Apollo 1, Armstrong si ritrovò insieme ad altri 17 astronauti, - molti veterani del programma Gemini - ad un incontro diretto da Deke Slayton, che esordì dicendo: "I ragazzi che voleranno nelle prime missioni lunari sono quelli in questa stanza". Così Neil scoprì di essere stato inserito nell'equipaggio di riserva della nona missione Apollo. Ma tra missioni annullate a causa di ritardi, rotazione degli astronauti e cambi di programma, nel 1968 - a due giorni dal Natale - Armstrong si ritrovò comandante della spedizione che avrebbe tentato l'allunaggio. Due le date che cambiarono per sempre la sua vita: il 20 luglio 1969 e il giorno dopo. Nel giro di 48 ore Neil avrebbe raggiunto la Luna e posato la prima orma pronunciando quelle parole indimenticabili. Soltanto diversi anni dopo, in alcune interviste e biografie, Armstrong confessò tutti i timori di fallire la missione: "Ero sollevato, estasiato ed estremamente sorpreso del successo che avevamo ottenuto". Rientrati sulla Terra, iniziò un altro capitolo della sua vita, il post luna di Armstrong: era diventato una celebrità. Ospite in tv, richiestissimo per spettacoli e spot, convegni internazionali sulla ricerca spaziale, incontri con presidenti, autografi. Per Neil iniziò così una carriera da stella, lui che per primo aveva messo piede sulla Luna. In Italia nel 1970, presente a Fiumicino, gli dedicarono perfino un Boeing Alitalia a suo nome. Fu poi insegnate e uomo d'affari, si risposò nel 1994 e si trovò al centro di diverse battaglie legate alla sua immagine e al suo nome: in molti tentarono di sfruttarla e l'ex astronauta, oltre a cause e denunce, smise perfino di firmare autografi che venivano rivenduti a prezzi folli. Quando il 25 agosto 2012 morì, a 82 anni, dopo le complicanze per un intervento chirurgico alle coronarie, la sua famiglia gli dedicò un lungo addio destinato ad essere ricordato: "Era un eroe schivo che servì con onore la sua patria Piangiamo la morte di un uomo davvero buono, celebriamo anche la sua straordinaria vita, nella speranza che serva come esempio a tutti i giovani del mondo che possano lavorare duro affinché i loro sogni diventino realtà. Onorate il suo esempio di servizio, il traguardo e la modestia, e la prossima volta che doveste camminare all'aperto in una notte chiara e vedere la Luna sorridervi, pensate a Neil Armstrong e fategli un occhiolino".

Eleonora Barbieri per “il Giornale” del 21 ottobre 2018. Il Primo Uomo è nato di domenica. Il 20 luglio 1969, Viola Armstrong si è alzata alle cinque e mezza del mattino, per andare a messa. Qualche ora dopo, suo figlio Neil è sbarcato sulla Luna. Dopo qualche ora ancora, sempre suo figlio Neil è il Primo Uomo, quello che mette piede, per primo, sulla Luna. Quello che compie «un piccolo passo per un uomo», ma «un grande passo per l'umanità». Neil Armstrong, il Primo Uomo, era nato in realtà il 5 agosto del 1930 (compie 39 anni mentre è ancora in quarantena, dopo il ritorno sul pianeta Terra) a Wapakoneta, una cittadina dell' Ohio. Diceva: «Camminare sulla superficie lunare, su una scala di difficoltà da uno a dieci, per me valeva uno. La discesa lunare, sulla stessa scala, probabilmente valeva tredici». A tre anni impara a leggere, spronato dalla madre Viola che, oltre a essere molto religiosa, è anche una grande lettrice. In prima elementare, Neil legge cento libri. Nei suoi primi quattordici anni di vita, la famiglia si trasferisce sedici volte, su e giù per l' Ohio: eppure, in ogni nuova cittadina o nuova scuola, Neil si ambienta perfettamente. Neil è, fin da bambino, un ingegnere: a suggellare questo suo stato dell' anima serve solo la laurea che arriva, puntuale, dalla Purdue University, dove segue il programma di ingegneria aeronautica. Sarà lui stesso a dire, molti anni dopo: «Sono e sarò sempre un ingegnere un po' nerd, con i calzini bianchi e il portapenne da taschino, nato grazie al secondo principio della termodinamica, imbevuto di tabelle al vapore, innamorato dei diagrammi di corpo libero, trasformato da Laplace e alimentato da un flusso comprimibile». In quella missione erano in tre: Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Mike Collins. Per autodefinizione di Collins, dei «cordiali estranei». Non c'era feeling particolare, e Buzz Aldrin patì tremendamente, prima, durante e dopo la missione, che non fosse toccato a lui l'onore del «primo passo». Neil era il comandante e, in teoria, sarebbe dovuto scendere per primo Aldrin dalla scaletta. Ma la Nasa decise diversamente: «Sapevamo che sarebbe stato un nuovo Lindbergh e che la sua fama sarebbe stata eterna. E che tipo di persona volevamo per quel ruolo? Una leggenda, un eroe americano... Quell' uomo era Neil Armstrong. Neil era Neil. Calmo, tranquillo e profondamente sicuro. Non aveva un ego spropositato, non era il tipo pronto a pavoneggiarsi: Ehi, sarò il primo uomo sulla Luna!». Non lo era. Era un ingegnere, aveva deciso di sposare sua moglie Janet dopo averla vista una volta (e, come precisò lei, «non era uno che prendeva in fretta le sue decisioni»), aveva perso una figlia di due anni per un tumore al cervello (e forse fu anche questo dolore immenso, mai esibito, a spingerlo a candidarsi per il programma spaziale della Nasa, proprio pochi mesi dopo la morte della piccola Karen), era stato pilota in Corea del Nord (dove aveva rischiato di morire), aveva fatto il collaudatore di aerei pericolosi e sperimentali, aveva volato su razzi potentissimi e superveloci, aveva sperimentato la «centrifuga» a un numero di giri quasi disumano, fino a perdere il senno, aveva sfiorato la morte nella missione Gemini 8, nel 1965; e quando, nella preparazione per il programma Apollo, un veicolo di addestramento per l' allunaggio era impazzito e saltato per aria all' improvviso, e lui era riuscito a buttarsi fuori e a salvarsi per un istante, dopo pochi minuti si era seduto in ufficio e aveva ripreso a lavorare sulle sue equazioni. Non parlava della famiglia e, dopo la missione, accolto da eroe, preferì nascondersi sul lato oscuro della Luna. Tornò in Ohio. Trovò un posto da accademico, all' università di Cincinnati. Ricevette medaglie, onori, proposte politiche (tutte rifiutate). Soffriva di mal di mare, e di mal d' aereo. Al ritorno dalla Luna, la navicella fu recuperata in mare; mentre lui e Aldrin aspettavano i sommozzatori, erano terrorizzati all' idea di vomitare davanti alle telecamere. Ma, del resto, la mentalità delle missioni era di un certo tipo, come spiegò proprio uno di quei sommozzatori: «Ci dissero: prima salvate le rocce lunari. Di quelle ne abbiamo solo una borsa, di astronauti ne abbiamo tanti»... Il più famoso, il Primo Uomo, è morto il 25 agosto del 2012, in un letto di ospedale, per le complicazioni di un intervento chirurgico.

Neil Armstrong ha rilasciato poche interviste, anche dopo la sua impresa storica. L'ultima in ordine di tempo è quella alla televisione australiana «Cpa», pubblicata da La Stampa lo scorso 26 maggio 2012. Un racconto distaccato, da cronista, a 43 anni dall'allunaggio con il modulo Eagle. Che dà anche la misura dell'uomo Armstrong, del suo rispetto per i grandi avversari nella conquista dello spazio in quegli anni, i sovietici. L'uomo dal «sangue di ghiaccio», abituato a correre rischi enormi, non nasconde gli azzardi che caratterizzarono il programma della Nasa, nella corsa contro il tempo per rispettare la promessa di Kennedy del 1961: «Sulla Luna entro il decennio». Poche settimane dopo l'intervista, il 6 agosto, l'astronauta avrà una crisi cardiaca, seguita da un intervento chirurgico per impiantare quattro by-pass. Operazione che purtroppo si è rivelata inutile.

Alex Malley - da La Stampa. "La gente ama le teorie di cospirazione, ed è vero che ne vennero fuori anche a proposito del nostro atterraggio sulla Luna. Ma io ero sereno, sapevo che prima o poi qualcun altro sarebbe andato lassù, e avrebbe trovato l'attrezzatura e la macchina fotografica, che avevamo lasciato noi». Neil Armstrong racconta la sua avventura con modestia, acume, e prospettiva da grande pioniere del viaggio umano nella conoscenza. «Con 800 mila persone che lavoravano per la Nasa, come si sarebbe potuto tenere il segreto?» scherza all'idea di una messa in scena. Armstrong ha 81 anni, e 43 ne sono passati da quando è stato il primo essere umano a mettere piede sulla superficie lunare, assieme al collega Buzz Aldrin. Ricorda i dettagli minuti sulle traversie tecniche che l'emozione e l'estrema tensione del momento hanno impresso nella sua memoria. E anche l'enorme soddisfazione per il risultato raggiunto, tecnico e ideale.

Ci racconta gli ultimi 12 minuti prima dell'allunaggio?

«Ci avvicinavamo e il computer di bordo ci stava mostrando dove la navicella sarebbe atterrata. Ma era un posto accidentato, brutto. Proprio al fianco di un cratere di circa 100-150 metri, con delle discese molto ripide coperte da pietre tonde enormi. Un luogo dove non era bello scendere».

Che cosa avete deciso allora?

«Arrivati a tre minuti dalla meta, sono passato alla guida manuale del mezzo, come fosse un elicottero. Dovevamo trovare un punto più agevole stando al di fuori del cratere. Siamo a 70 metri, vedo un'area più soffice (Armstrong parla mentre sullo schermo corrono due immagini parallele: a sinistra il filmato reale girato dal velivolo, con la Luna che è sempre più vicina, a destra la mappa della stessa area, anch'essa in avvicinamento, come è riprodotta oggi da GoogleSpace). Sulla sinistra vedete la polvere che si sta sollevando... Sappiamo a questo punto che ci sono restati 20 secondi di carburante per finire il volo d'andata.... Ecco, questa è l'ombra della mia gamba che sta per toccare il terreno. Eagle è atterrata».

C'era tempo per emozionarsi?

«Per una stretta di mano... ma in quel momento sapevamo di essere a rischio per l'altissima temperatura. Il nostro pensiero era per i problemi termici che potevano venire fuori. Dovevamo essere pronti a risalire in tempo per ripartire, dopo quello che dovevamo fare lì».

Come piantare la bandiera americana sul suolo lunare...

«Avevamo raggiunto in quel momento l'obiettivo che il presidente John Fitzgerald Kennedy aveva indicato. A quello pensai, mentre il presidente (Nixon, ndr) chiamò dalla Casa Bianca per complimentarsi. Dobbiamo riconoscere che questo traguardo non sarebbe stato raggiunto senza la concorrenza dei sovietici. Bisogna mettere quell'impresa nel contesto storico: un russo era già andato in orbita, noi avevamo mandato solo Alan Shepard, ma per 20 minuti. Fissare, come fece JFK, l'obiettivo della Luna con alle spalle solo 20 minuti di volo era al di là del credibile, su un piano tecnologico».

Ma andò bene...

«Non era solo una corsa tecnica allo spazio. Allora c'erano due concezioni ideologiche sul futuro del mondo che si scontravano. E fu una gara che permise ad entrambi i nostri programmi di compiere ciò che è stato possibile. Mettemmo dai due lati della bandiera i medaglioni con i nomi dei nostri compagni della Nasa e degli astronauti russi morti nel corso della sfida cosmica fino a quel punto. Fu un momento di estrema tenerezza».

«Un piccolo passo per l'uomo ma un balzo gigantesco per l'umanità ». Quando pensò a questa frase che disse, e che è poi rimasta il simbolo del successo di Apollo 11?

«Soltanto dopo che l'atterraggio era riuscito bene».

Nel viaggio non tutto era andato perfettamente però...

«Beh, il computer aveva lanciato a un certo punto un allarme, mentre eravamo in fase di discesa. Sono momenti complessi, molte cose devono succedere contemporaneamente. Io non aveva capito di che cosa volesse avvisarci il computer, e chiesi aiuto alla torre di controllo sulla Terra. Non ci misero molto a risolvere il giallo, c'erano problemi di sovraccarico per il software, ma tutto era ok per ciò che riguardava la manovra di atterraggio».

Aveva avuto paura quando le fu chiesto se la sua squadra era pronta per partire?

«Sarebbe meglio aspettare un mese, dissi ai miei capi, ma siamo in una gara e bisogna prendere le opportunità quando ci sono. Siamo pronti. Sapevo che avevamo il 90% di chance di tornare vivi sulla Terra, ma solo il 50% di possibilità di atterrare con successo al primo tentativo».

Sul futuro delle conquiste spaziali cosa prova oggi, con il budget della Nasa per il 2013 tagliato del 38%?

«La Nasa è stato uno degli investimenti pubblici di maggior successo nel motivare gli studenti a far bene e a raggiungere ciò che possono raggiungere, ed è triste che stiamo oggi indirizzando il programma spaziale in una direzione che ridurrà l'entusiasmo per i giovani».

Usa, l'accordo segreto sulla morte di Neil Armstrong: sotto accusa, l'ospedale pagò alla famiglia 6 milioni di dollari. Secondo quanto rivela il New York Times, il Mercy Health-Fairfile Hospital di Cincinnati avrebbe preferito transare con i due figli dell'astronauta che contestavano una cura sbagliata, per evitare la pubblicità negativa che aver causato la morte dell'eroe americano avrebbe comportato. La Repubblica il 24 luglio 2019. Ci fu un accordo segreto da sei milioni di dollari per chiudere e mantenere segreta la controversia sulla morte di Neil Armstrong, il primo uomo sulla luna, deceduto nel 2012 a 82 anni dopo una operazione al cuore eseguito il 7 agosto di quell'anno dopo un blocco alle arterie coronarie e conseguente applicazione di un bypass: lo rivela il New York Times, proprio il giorno in cui si concludono le celebrazioni per il 50ennale della missione Apollo 11. Secondo il quotidiano, i due figli di Armstrong contestarono il trattamento post chirurgico prescritto al padre al Mercy Health-Fairfile Hospital di Cincinnati. Le infermiere rimossero i fili per un pacemaker temporaneo cosa che avrebbe causato un'emorragia nella membrana intorno al cuore. L'ospedale si difese dalle accuse ma alla fine decise di pagare 6 milioni di dollari per sistemare la questione ed evitare una pubblicità devastante, con l'associazione alla morte di un eroe americano. Nonostante il Nyt sia entrato in possesso di 93 pagine di documenti legati alla vicenda, incluse le opposte perizie mediche di parte, inviate da una fonte che ha preferito restare anonima (il mittente ha incluso una nota in cui auspica che le informazioni possano salvare altre vite), alcuni documenti sono già pubblici e consultabili sul sito del tribunale e confermano la storia. La famiglia di Armstrong inizialmente aveva chiesto 7 milioni di dollari, dei 6 ottenuti circa 5,2 miloni sono stati divisi equamente tra i due figli dell'astronauta, Mark e Rick. Il fratello e la sorella, Dean A. Armstrong e June L. Hoffman, hanno ricevuto 250 mila dollari a testa e sei nipoti 24 mila dollari ciascuno. La vedova del cosmonauta, Carol, sua seconda moglie, nulla perché non ha voluto partecipare all'accordo.

Buzz Aldrin, dallo sbarco sulla Luna verso l'infinito (e oltre). Giacomo Talignani  il 16 luglio 2019 su La Repubblica. E' stato il secondo a mettere piede sul satellite nel 1969, assieme a Neil Armstrong. Sua la gran parte delle foto scattate lassù. Oggi, a 89 anni, chiede a Trump e al modo di continuare a sognare, per arrivare su Marte. Ancora prima di mettere piede sulla luna Edwin Eugene "Buzz" Aldrin sembrava prepararsi a una vita da eterno secondo. Per fortuna il tempo e un lungo percorso per uscire dalla depressione oggi raccontano un Aldrin diverso, un eroe iper celebrato nonché un eccentrico nonno di famiglia che ha finalmente superato quel "secondo posto" difficile da digerire. A 89 anni, oggi Aldrin ha diversi nipoti, e sogna per i suoi Stati Uniti un nuovo allunaggio. La storia dei tempi di "ingresso" sulla Luna è nota: Armstrong, comandante della missione, fu il primo a scendere dagli scalini e a mettere piede sul suolo mentre Aldrin entrò in scena 19 minuti dopo e a lui si devono la maggior parte delle fotografie scattate lassù. Questo episodio marcò la vita di Aldrin sia durante la preparazione della missione - quando si rese conto che sarebbe stato il "secondo" e cercò di far cambiare idea ai suoi superiori - che una volta tornato a Terra. Ci vollero anni per metabolizzare l'esperienza. Nato nel 1930 come il collega Armstrong, Aldrin venne al mondo a Montclair nel New Jersey (Stati Uniti) il 20 gennaio. Suo padre era un aviatore dell'esercito durante la prima guerra mondiale e poi fu dirigente d'azienda. Aveva due sorelle e una di queste, Fay Ann, lo soprannominò "Buzz" (dalla parola brother pronunciata buzzer). Boy scout e sportivo, era destinato a una carriera militare in marina per voler del padre ma, soffrendo di mal di mare, virò poi sull'aeronautica. Appassionato di aerei e di spazio si laureò alla United States Military Academy nel 1951 in ingegneria meccanica. A differenza del suo futuro comandante, che ebbe un percorso da civile, Aldrin venne arruolato nell'aeronautica militare statunitense prestando servizio come pilota di jet da combattimento e partecipò a 66 missioni (abbattendo due MiG-15) nella guerra in Corea. Sposato, ha avuto tre figli:  Michael, Janice e Andrew e diversi nipoti (nel tempo si è poi risposato altre due volte). Rientrato a casa dalla guerra riuscì a conseguire un dottorato in astronautica al Mit e venne selezionato, dopo aver fallito una prima prova, dalla Nasa. I colleghi, a causa della sua tesi di dottorato (fu il primo con questo titolo fra gli astronauti) intitolata "Line-of-Sight Guidance Techniques for Manned Orbital Rendezvous" cominciarono a chiamarlo anche "dottor Rendezvous". Nel 1963 il suo nome era già nella lista dei possibili astronauti per la missione Gemini 9. Tre anni dopo, trascorse più di cinque ore in attività extraveicolare nella missione Gemini 12 stabilendo un nuovo record. Il 20 luglio 1969 il grande sogno, atterrò sulla luna. Come da protocollo scese per primo il comandante e, quasi venti minuti dopo, "Buzz" passeggiò per circa due ore e quindici minuti scattando foto e raccogliendo campioni per le rivelazioni scientifiche. Fu la prima e unica persona - in quanto credente - a tenere una piccola cerimonia religiosa sulla Luna. Le sue prime parole appena messo piede lassù furono "Beautiful view".  E' lui, Aldrin, l'uomo immortalato (da Arstrong) mentre saluta la bandiera: la maggior parte delle immagini scattate il 21 luglio ritraggono infatti proprio Buzz.  Tornato sulla Terra, come per i colleghi della missione, anche per lui ci fu un momento di celebrità. Poi, dopo il suicidi della madre, Aldrin scivolò in un lungo periodo di depressione e isolamento. Ufficialmente lasciò la Nasa nel 1971 con una carriera fantastica alle spalle: in totale quasi 290 ore nello spazio e quasi 8 di queste spese in attività fuori dal veicolo. Un anno dopo si dimise anche dal servizio attivo dell'Air Force e iniziò a scrivere libri, fra i quali un'autobiografia. Nei suo testi c'è anche il racconto della sua malattia e dell'alcolismo, degli anni bui dopo aver lasciato la Nasa. In quel tempo fu perfino arrestato e protagonista di alcuni spiacevoli episodi, finché nel 1978 smise di bere. Negli anni, fra numerose onorificenze, lauree ad honorem e premi, è stato autore di nuovi studi sulle traiettorie spaziali, giochi strategici per il computer (Buzz Aldrin's Race into Space), ha creato società e fondazioni benefiche, avviato collaborazioni con scrittori per romanzi fantascientifici e a lui sono dedicati diversi personaggi dei cartoni animati. Le cronache lo annotano anche fra i massoni (è stato membro di diverse logge), per un breve periodo presidente della Commissione sul futuro dell'industria aerospaziale Usa e, fra le curiosità, come una delle persone più anziane ad aver raggiunto il Polo Nord (a 86 anni). Anche di recente, in una intervista a Repubblica, ha ribadito il suo interesse per un futuro sviluppo di attività su Marte e la speranza che si arrivi a un nuovo allunaggio con la luna che funga "non da destinazione ma da punto di partenza (verso Marte, ndr)". Alla morte di Neil Armstrong, Buzz si è detto rattristato per la scomparsa di "un vero americano e il miglior pilota che abbia mai conosciuto. Avevo davvero sperato che il 20 luglio 2019, Neil, Mike e io saremmo stati insieme per commemorare il 50° anniversario del nostro sbarco".

DAGONEWS il 19 giugno 2019. Il tempo stava per scadere. Il modulo dell'Apollo 11 stava facendo la sua discesa verso la superficie lunare il 20 luglio 1969 quando la luce di carburante si accese. A 100 piedi (30 metri) dal suolo, non era quello di cui gli astronauti avevano bisogno. Il serbatoio dell’Eagle era quasi all’asciutto. In una nuova video intervista sul primo sbarco sulla Luna, Buzz Aldrin, pilota del modulo lunare della missione, descrive come ha tenuto la lingua a bada quando è apparsa la spia e la voce di Charlie Duke, comunicatore della Nasa, ha informato Aldrin e Neil Armstrong che avevano solo 60 secondi. «Ok. Cento piedi. Sessanta secondi. Faremo meglio a scendere» ricorda Aldrin che pensò di non mettere in agitazione Armstrong che aveva già abbastanza pensieri per la testa. Da un'altitudine di circa 500 piedi aveva preso il controllo del modulo lunare e si stava muovendo con cautela. Nessuno sapeva come avrebbe funzionato il modulo e proprio mentre scendevano apparve un grande cratere che voleva dire un enorme disastro per gli uomini e la missione. Gli astronauti avevano già dovuto fare i conti con diverse spie d’allarme nel modulo, ma la storia del carburante era l’ennesimo problema che avrebbe potuto portare gli astronauti alla decisione di abortire la missione. Eagle scese per altri 90 piedi nei successivi 30 secondi, lasciando all'equipaggio mezzo minuto di carburante per percorrere gli ultimi 10 piedi fino alla superficie lunare. Nell'intervista registrata al Science Museum di Londra nel 2016, ma rilasciata giovedì per la prima volta, Aldrin afferma che è stato solo in quella fase avanzata che si è sentito più fiducioso sull'atterraggio. «Ho pensato, ah, ce l'abbiamo fatta».

Aldrin: "Ciao Luna, ora voglio Marte". Buzz Aldrin nell'epica impresa dell'Apollo 11 sul suolo lunare. L'ex astronauta dell'Apollo 11: costruiremo una colonia ma l’America rischia di perdere la sfida. Francesco Semprini il 15/7/2009 su La Stampa. La Lollo e la Luna, la celebrità e il buio della depressione, le sfide del passato e quelle del futuro. Buzz Aldrin, il secondo uomo ad aver messo piede sulla Luna, celebra i 40 anni dalla missione dell’Apollo 11 con «Magnificent Desolation», un libro scritto in collaborazione con Ken Abraham, in cui racconta la desolazione vissuta tra i paesaggi lunari e le amarezze terrene. Lo incontro alla presentazione al pubblico di New York, in un’affollata sala di Barnes & Noble. L’eroe della Luna, 79 anni e 6 mesi il 20 luglio, ostenta lo smalto del pilota e scommette su Marte per riaccendere la passione per lo spazio.

E’ ancora in contatto con Gina Lollobrigida?

«Ci può scommettere. La stimo tantissimo: è una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, è una gioia ogni volta che ci vediamo».

La conosce da 40 anni, ma da ragazzo quali erano i suoi eroi?

«Flash Gordon e Buck Rogers. Mi piaceva che, nonostante fossero personaggi della fiction, vivessero in una versione dello spazio alla quale noi terrestri potevamo identificarci. Davano un senso di sicurezza».

Non ha avuto paura di perdere questa sicurezza sulla Luna?

«La missione dell’Apollo 11 è stata preparata per molti anni, da quando per primo ne parlò Kennedy nel 1961. Ci fu affidato un compito importante e l’unico obiettivo era andare fino in fondo. Il nostro addestramento è stato tecnico, fisico e mentale: oltre il 68% del training era sulle emergenze e dovevamo abituarci a far fronte agli imprevisti. Era un modo per tenere a freno le emozioni».

Del resto lei, la Luna, ce l’ha nel sangue: giusto?

«Se si riferisce al nome da nubile di mia madre, Moon, è vero, ma non mi ha condizionato affatto. E soprattutto non ho avuto trattamenti di favore dalla Nasa, come qualcuno ancora insinua».

Qual è stata la sensazione più intensa lassù?

«La mancanza di gravità, la leggerezza dei movimenti, la lentezza nel fare le cose, anche le più semplici. Lo scenario di straordinaria desolazione dove ci siamo ritrovati con Neil Armstrong era maledettamente affascinante».

Ha un bel ricordo, quindi?

«Non è il posto migliore per mettere su casa. E’ stato duro vivere in un luogo simile con tanti sbalzi di temperatura. Insomma, un ambiente ostile. E’ stato un grande traguardo per l’uomo, ma il posto in sé è desolato. Parlo però di una desolazione magnifica».

Per questo ha sentito il bisogno di raccontarlo in un libro?

«Il libro è stato una sfida, vivere di nuovo quelle sensazioni assieme alle persone che fanno parte della mia vita di oggi».

La desolazione l’ha trovata anche sulla Terra?

«Si ha un’idea falsata degli astronauti e si pensa che siano persone fredde e determinate, quasi fatte in serie. In realtà siamo diversi: c’è l’introverso, l’estroverso, chi è sicuro di sé e chi è più apprensivo. Io, poi, ho probabilmente ereditato un’inclinazione depressiva da mia madre. Si tolse la vita un anno prima della missione e allora tirai dritto. Pensavo che tutto andasse avanti, ma poi...».

Poi le emozioni trattenute sono esplose al ritorno sulla Terra?

«Dopo la celebrità, è cresciuta in me una repulsione per quella vita così ordinata e carica di responsabilità: West Point, la Corea, il Mit, la missione spaziale, la minaccia atomica. Sono fuggito cercando di crearmi una nuova vita, ma è stato più difficile del previsto ed è stato facile perdersi. L’alcol è diventato una sicurezza».

Come ne è uscito?

«Con l’aiuto di specialisti, amici e soprattutto di Lois, la mia terza moglie. Col tempo sono tornato a vivere e oggi vado in giro a raccontare la mia esperienza: incontro tanti bambini, ho lavorato con Homer Simpson e sono diventato un rapper con Snoop Dogg. Ma è con questo libro che ritengo di aver completato la mia riabilitazione e ora guardo al futuro».

Qual è il prossimo traguardo nella corsa spaziale?

«Ritengo che gli Usa debbano smettere di utilizzare le loro risorse per le missioni sulla Luna. Sono cose che dovrebbero fare altri Paesi che lì non sono ancora andati. Noi dovremmo puntare su un programma per creare un insediamento permanente su Marte, un posto decisamente migliore. E’ una sfida necessaria anche per riaccendere la passione per lo spazio».

E’ un suggerimento al suo collega Charles Bolden, il nuovo direttore della Nasa?

«Sono convinto che i russi vogliano arrivare prima di noi su Marte e l’America rischia di trovarsi indietro nella sfida».

Quanto dovremo aspettare?

«Forse il 2036. Ci sono voluti 66 anni per passare dai fratelli Wright all’Apollo 11 e ne serviranno altrettanti per passare dalla Luna a Marte».

Paolo Ricci Bitti per Il Messaggero il 22 luglio 2019. Quando ci vuole ci vuole, tanto è vero che Buzz Aldrin, il secondo uomo a camminare sulla Luna, non ha riportato alcuna conseguenza penale per quel pugno sferrato al volto di un tipo che crede che le missioni Apollo siano un inganno ordito dal governo americano con la complicità della Nasa e degli studios di Hollywood. Opinione più che legittima, per quanto non sostenuta da prove, ma comunque da non impugnare come una clava aggredendo l'anziano astronauta in pubblico accusandolo di essere  «un codardo, un bugiardo e un ladro». Pesanti calunnie che hanno innescato il destro dell'eroe dell'Apollo 11, come registrato in un video diffuso in questi giorni durante i quali si ricorda il 50° anniversario della conquista della Luna. Un video visto e twittato da oltre due milioni di persone in poche ore. In realtà l'episodio è del 2002 e riguarda, come riporta Usa Today, Bart Sibrel, del Tennesee, che all'epoca aveva 38 anni, così come Buzz Aldrin di anni ne aveva allora 72 quando reagì con le maniere forti a quelle assurde accuse espresse con tanta e immotivata veemenza nei confronti per di più di una persona di quell'età. La polizia lasciò poi perdere ritenendo, con coerenza, che il pluridecorato Aldrin fosse stato provocato.  In questi giorni dedicati all'epopea lunare la vicenda è stata rievocata andando a ricercare lo stesso Sibrel che non ha cambiato idea sulla cospirazione che avrebbe coinvolto 400mila persone per fingere di mandare l'uomo sulla Luna persino con la complicità indiretta anche dei russi che seguirono in diretta lo sbarco con le loro sonde senza poter fare altro che ammettere la sconfitta.

Michael Collins, dall'Italia all'Apollo 11: il segreto del terzo uomo sulla Luna. Giacomo Talignani  il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Ricordato come l'astronauta che non mise mai piede sul suolo lunare, raccontò di non essersi mai sentito solo laggiù, mentre aspettava i suoi compagni. Per noi sarà per sempre il figlio della Lupa che sfiorò la luna. C'è anche una targa al numero 16 di via Trastevere a Roma che lo ricorda: "In questa casa nacque il 31 ottobre 1930 - recita l'iscrizione sul marmo - Michael Collins, intrepido astronauta della Missione Apollo 11, primo uomo sulla Luna. Roma fiera di questo suo figlio posa a ricordo perenne". In realtà Collins, uno dei tre astronauti della celebre missione, sulla Luna non ci mise mai piede, motivo per cui per tutta la vita questo eccezionale astronauta è rimasto decisamente nell'ombra rispetto alla fama dei colleghi Neil Armstong e Buzz Aldrin che eseguirono la camminata lunare. Eppure il suo ruolo fu determinate per la riuscita dell'operazione e il ritorno a casa. Collins, che oggi ha 89 anni, nacque nella capitale italiana dato che il padre allora era di stanza come Generale Maggiore dell'esercito presso l'ambasciata statunitense. Dopo un breve periodo romano tornò in America, dove continuò a spostarsi insieme alla famiglia (aveva un fratello maggiore e due sorelle) passando dall'Oklahoma a New York, fino a Porto Rico, Texas e Virginia. Proprio in un volo a Porto Rico rimase stregato dall'amore per gli aeroplani. Dopo la Seconda guerra mondiale si trasferì a Washington dove si laureò nel 1948 e seguendo le orme del padre iniziò un percorso con le forze armate unendosi all'Aeronautica degli Stati Uniti. Pilota di combattimento, durante la sua scalata per diventare ufficiale conobbe la moglie Patricia Mary Finnegan, con cui ebbe tre figli: Kate (poi nota attrice), Ann e Michael. Accumulò quasi 5mila ore di volo e la sua carriera da astronauta non fu subito felicissima: "scartato" come pilota Air Force, riuscì però a entrare in una seconda selezione nel terzo gruppo dei prescelti, specializzandosi poi in attività Eva (extra veicolari). Collins partecipò alle missioni Gemini 7 e Gemini 10, passeggiando nello spazio). Era considerato un pilota appassionato, un buon pescatore e un uomo dotato di creatività (ideò lui il logo "Eagle") e sensibilità. A lui fu affidato per esempio anche il delicato compito di incontrare le mogli e le famiglie di alcuni astronauti deceduti in missione. Nel 1968, a causa di un'ernia al disco che gli impedì di pilotare l'Apollo 8, la sua carriera spaziale sembrava essere messa in dubbio: invece, dopo mesi di addestramento e una graduale ripresa, in qualità di esperto gli fu assegnato il compito di pilota del Modulo di Comando e di Servizio (CSM) dell'Apollo 11. La sua missione era rimanere in orbita intorno alla Luna mentre Armstrong e Aldrin avrebbero effettuato la famosa camminata. Per paradosso pur non mettendo piede sulla Luna, in quella orbita rimasta storica Collins fu l'essere umano più lontano dalla Terra e anche il più isolato a livello di comunicazioni. Eppure nei lunghi minuti di attesa dei compagni, come si legge nel libro scritto una volta tornato (Carrying the Fire), Collins confessò in realtà di non essersi mai sentito solo. Anzi, era pieno di "consapevolezza, soddisfazione, fiducia, quasi gioia". Ha sempre descritto l'allunaggio come una missione "pensata e fatta da tre uomini" e anche se non lasciò le sue orme sul suolo lunare, il suo ruolo è stato decisivo nell'impresa. Pochi anni fa, in una intervista a The Guardian, Collins ha raccontato di essere stato invece molto preoccupato per la sicurezza di Armstrong e Aldrin: allora fu messo in conto anche il fatto che potesse essere lui l'unico sopravvissuto, considerate le scarse probabilità di successo. Tornato a Terra, dopo un incarico sotto la presidenza Nixon e un periodo da direttore del National Air and Space Museum, nel tempo raggiunse il grado di Generale maggiore prima di ritirarsi dall'esercito nel 1982. Oltre a essere stato sottosegretario dello Smithsonian Institution, ha poi avviato alcune iniziative private, fra cui una propria società di consulenza. Collins ha scritto numerosi libri, ricevuto un innumerevole quantità di medaglie e premi ed è stato inserito in diverse "Space Hall of Fame". Oltre a varie apparizioni televisive e cinematografiche, a lui i Jethro Tull e diversi altri gruppi hanno dedicato versi e canzoni. Famoso per il suo sangue freddo e la sua capacità di guidare il Modulo di Comando fino al punto favorevole al riaggancio col Modulo Lunare, oltre che primo uomo a vedere di persona la faccia nascosta della Luna, a chi gli chiedeva se avesse mai sofferto di solitudine ha sempre risposto "ho volato da solo su aeroplani per diciassette anni, l'idea di essere da solo su un veicolo non mi allarma. Nel Columbia avevo una casa felice. Quella costruzione è come una cattedrale in miniatura".

Oriana Fallaci, ostinata guastafeste al servizio dei lettori. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Francesco Cevasco su Corriere.it. È come quell’onda che torna e ritorna. Sempre con la stessa forza. E così sono i libri di Oriana Fallaci. Eccoli che tornano. E raccontano, tutti, una storia: quella, soprattutto, di chi li ha scritti. Una specie di autobiografia per titoli. Non c’è libro della Fallaci che non sia un tassello della sua autobiografia. Raccontava le dive di Hollywood e le donne-Penelope, il colore della Luna e l’odore del napalm in Vietnam, i padroni del mondo e le ciliegie dei ricordi domestici. E c’era sempre di mezzo lei e il suo «dico e scrivo quello che penso; fine». Era fatta così. Si pensi a Solo io posso scrivere la mia storia: dice già tutto. Non l’ha mai nascosto: ho fiducia solo nei miei lettori, degli altri non m’importa (tempo perso dire che è stata ripagata). Gli altri sono i giornalisti e i critici. I giornalisti: «Mi dispiace non poter leggere gli articoli sulla mia morte. Descriveranno come io non ero». I critici: «Parassiti che lavorano sul lavoro degli altri, cioè anche il mio. Da loro non mi aspetto nulla di buono. Sono guidati dall’arroganza e dal livore. Dalla gelosia per chi scrive nonché dalla pigrizia. Perché di rado si scomodano a leggere ciò che giudicano: i libri; li sfogliano e basta. Con me non sono mai giusti e mai gentili». 

Oriana Fallaci era severa anche con se stessa: «Sono alta un metro e 56 centimetri scarsi e peso 43 chili: la gente, quando mi conosce, è sorpresa da tanta pochezza. Io allargo le braccia e dico: Tutto qui!». Ovviamente, di sincero in questa frase ci sono solamente i numeri: l’Oriana, come la chiamavano quando lei non sentiva, aveva una sofferta ma grandiosa autostima. «Sono una rompiballe, lo so. Sai cosa dicevano gli astronauti americani? Un modo sicuro di tornare dalla Luna è quello di portare con noi l’Oriana». E il pensiero va, ovviamente, a Quel giorno sulla Luna. 

Ecco un altro titolo: Intervista con la Storia. «Uno dei miei libri che ho amato di più». Amava ricordare quando davanti a Khomeini si tolse l’obbligatorio chador e gli rivolse la blasfema invettiva: «Vada al diavolo!». E quando rimproverò a un tizio di nome Kissinger: «Questa è una stupida frase da cowboy». Delle interviste aveva un’opinione precisa: «Le detesto, le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevano ai cosiddetti Potenti-della-Terra». Erano quelle che lei definiva «da leccaculi»; che davano voce soltanto all’intervistato. Lei no. Lei la sua voce la voleva far sentire, eccome. A costo di soffocare quella dell’interlocutore («Ma era giusto, perbacco! Il giornalismo fatto attraverso le interviste l’ho inventato io!»). L’Oriana non si è mai sentita una giornalista e basta; ha sempre avuto dentro il furore dello scrittore prestato al giornalismo giusto il tempo per covare e far sbocciare il demone della letteratura. «Quando sto scrivendo un libro dico: sono incinta di un libro. Quando l’ho finito dico: ho partorito un libro». 

Un figlio mai nato che avrebbe amato più di un libro c’è stato nella vita di Oriana : Lettera a un bambino mai nato. Ci sono due parole, ne bastano due, che parlano d’amore. Sono «Forse» e «Ora». Facciamo raccontare a lei: «Nelle prime trentasei edizioni Lettera a un bambino mai nato si concludeva così: “Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non conta perché la vita non muore”. Dalla trentasettesima edizione ho cambiato così: “Tu sei morto. Ora muoio anch’io…”. Quel “forse” è diventato “ora” non per un ripensamento ma alla fine di una bella e tormentata storia d’amore». La storia d’amore è quella con Alekos Panagulis. Sarebbe stato anche suo quel figlio. Alekos, nella casa di Atene in cui allora viveva con Oriana, intercettò le bozze del libro. Le trovò nascoste in una pentola. La Fallaci non accettava intrusioni nel suo lavoro nemmeno da lui. Cambiò, Panagulis, il finale cancellando la frase che rivelava la morte della donna («questo è un assassinio, non si uccide così una povera donna che già soffre tanto», tentò di spiegare a Oriana). Ma Oriana, fatta com’era, nonostante il gesto d’amore di Alekos, si adirò. E se ne andò a Firenze. Tre giorni dopo Panagulis la raggiunse e le propose un compromesso: non «ora» muoio ma «forse» muoio. E (per amore!) Oriana accettò. Almeno fino alla trentasettesima edizione. 

Ecco che piano piano la Fallaci diventa sempre più umana. La immaginate che parla, si commuove, quasi intona — in una sera di pensieri e ricordi — un discorso sulla musica? Ecco il fedele ricordo. Diceva Oriana Fallaci: «Grieg, Sibelius, Smetana, Dvorak. E poi sinfonie nordiche. Mi riconosco nella musica non mediterranea. Chiedo scusa a chi ne resterà ferito, ma io non ho mai amato le canzoni napoletane. Né le nenie arabe né il flamenco. Quei suoni sono sempre stati per me un rumore molesto. Io ho un motivo musicale in testa che più di chiunque altro mi tocca il cuore e il cervello. E questo motivo è Greensleeves. La sua dolcezza e la sua malinconia mi struggono talmente che dico: Quando sarò morta, non sprecate tempo ai funerali. Anche se mi buttate sotto un ulivo, per me va bene. Ma se buttandomi suonate Greensleeves, mi fate una cortesia». (Greensleeves è un inno all’amore dedicato a una donna dalle maniche verdi simbolo di giovinezza e sensualità, citato anche da Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor).

UOMO SULLA LUNA. Il mistero di quell’ignoto che Paolo VI capì meglio di Armstrong. Mario Gargantini il 19.07.2019 su Il Sussidiario. Cinquant’anni fa i primi due uomini scesero sulla Luna: ecco come vissero quel momento due testimoni d’eccezione, Oriana Fallaci e Paolo VI. Tanti in questi giorni celebrano, con più o meno retorica, lo storico evento di cinquant’anni fa dello sbarco dell’uomo sulla luna, quando due uomini hanno per la prima volta toccato il suolo lunare lasciandovi quelle impronte fotogeniche che sono molto più che un simbolo perché parlano di noi, raccontano dell’uomo, del suo inestinguibile desiderio di conoscere, di esplorare, di investigare, di incontrare. Si ricordano le prime passeggiare di Niels Armstrong e Buzz Aldrin su quella che quest’ultimo ha chiamato “magnifica desolazione”, dalla quale hanno rischiato di non ripartire data la non prevista inclinazione con la quale il modulo lunare è atterrato (pardon, allunato). Sono tanti i personaggi che, insieme ai tre astronauti dell’Apollo 11, si possono associare al ricordo di quell’impresa e ne abbiamo selezionati due, molto diversi tra loro ma altrettanto colpiti da quegli avvenimenti; due testimoni le cui considerazioni conservano un tenore di grande attualità e possono aiutare noi uomini di un altro secolo, proiettati verso altri traguardi spaziali (Marte, asteroidi, comete…) a convivere con gli entusiasmi e con i timori che imprese del genere comportano. Parliamo di Oriana Fallaci, inviata speciale del settimanale L’Europeo a Houston e a Cape Kennedy, e di Paolo VI, assiduo frequentatore in quei giorni della Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Santa Sede a Castel Gandolfo. Ma prima ancora dobbiamo citare un altro testimone che, in anticipo di un secolo, ha narrato, meglio di Tito Stagno e di Ruggero Orlando, la prima missione sul nostro satellite: è Jules Verne, autore dei romanzi Dalla Terra alla Luna (1865) e Intorno alla Luna (1870). Verne è il padre della fantascienza ma qui si è superato, descrivendo alcuni aspetti e alcune situazioni straordinariamente simili a quelle dell’Apollo 11: come la scelta della Florida come base di lancio; o la forma e le dimensioni della capsula-proiettile progettata dai soci del Gun Club di Baltimora, non molto diverse da quelle del modulo di servizio spinto verso la Luna dal potente razzo Saturn V; o ancora i retro-razzi propulsori necessari, sia nella fiction che nella realtà del luglio 1969, a portare la navicella fuori dall’orbita lunare per il ritorno a casa degli astronauti; e questi, in entrambe i casi, sono tre. Certo, per farli entrare nella capsula alla partenza Verne non è riuscito a immaginare l’ascensore e li ha fatti salire con una scala a pioli; come pure non ha pensato a una tuta a più strati e allo scafandro. Però ha descritto con vivace realismo il momento in cui si avverte l’assenza della gravità, il passaggio della “linea neutra”, il “punto d’eguale attrazione”; ed è arrivato a immaginare la possibilità di una passeggiata nello spazio, quella che oggi siamo abituati ad ammirare come “EVA, Extra-Vehicular Activity”; infine è spettacolare la scena del recupero in mare della capsula, riconosciuta da un piroscafo in mezzo al Pacifico, esattamente come accadrà all’Apollo 11. Ma veniamo ai due testimoni prescelti. La Fallaci è stata ben più che una cronista di quelle epiche giornate; col suo tipico approccio, di chi vuole partecipare a ciò che descrive, ha pensato di trasferirsi negli States per lunghi periodi negli anni 60, vivendo a Houston e diventando un’ospite fissa del centro di addestramento della Nasa. La giornalista-scrittrice ha voluto capire dall’interno come si stava preparando la storica missione promossa dagli appassionati discorsi del presidente John Kennedy: quello del maggio 1961 al Congresso e quello del settembre 1962 in Texas, con quell’epica conclusione “Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio, e di fare altre cose, non perché siano facili ma perché sono difficili”. Oriana ha voluto rendersi conto direttamente di queste difficoltà, ha studiato i dettagli del programma di volo, ha visto i diversi progetti alternativi ideati per effettuare l’allunaggio, ha provato il simulatore di volo e l’assenza di gravità. Ma soprattutto ha incontrato i protagonisti: gli astronauti, i tecnici, gli scienziati, a cominciare da Werner von Braun; ha voluto conoscere gli astronauti nella loro normalità quotidiana, fino a diventare amica di alcune delle loro mogli, cercando di capire cosa vivevano davvero quando affermavano di non avere paura per il mestiere del marito. E quel 20 luglio del ’69 era lì a Cape Kennedy, ha visto da una ventina di metri Armstrong, Aldrin e Collins “proprio mentre – racconterà su L’Europeo – si avviavano verso quel camioncino che li porta al razzo, una specie di camioncino del lattaio. Erano molto sorridenti, molto contenti, io ero un po’ sorpresa, perché gli altri che ho visto, anche quelli dell’Apollo 10, erano sempre un po’ aggrondati, pensierosi. Invece questi ridevano proprio con allegria. Dietro il vetro del casco spaziale ho visto bene i denti bianchi che sorridevano. Erano molto belli”. Nei reportage della Fallaci – come nel libro che li raccoglie, Quel giorno sulla Luna – c’è tutta l’emozione che accompagna un’impresa unica; c’è tutta l’ammirazione per la bravura, la genialità, l’audacia di chi vi ha partecipato nei diversi ruoli; c’è la riflessione di chi ha vissuto quei momenti senza lasciarsi dominare esclusivamente dall’emozione, senza nascondere dietro al trionfo tutti gli aspetti problematici e anche negativi, senza rinunciare a interrogarsi sul perché. Oriana è preoccupata per la possibile assuefazione anche a un fatto così clamoroso, teme che il tempo possa consumare anche un evento di queste proporzioni: “Ci si abitua a tutto, anche al miracolo di essere usciti dalla nostra prigione per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare sulla terra e diventare un uomo”. In quella notte straordinaria tutti i 500 milioni di telespettatori che hanno seguito le dirette delle tv in bianco e nero, si sono rispecchiati negli sguardi dei tre astronauti, si sono sentiti un po’ artefici di quel grandioso risultato. La Fallaci però avverte una inadeguatezza: “Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per essere giudicato da noi”. E con un profondo senso di realismo commenta: “A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio alla Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità”. Sull’umanità che si rivela in simili occasioni rifletteva anche Paolo VI, dopo aver seguito con attenzione e apprensione fino a tarda notte i servizi televisivi della Rai. Ne aveva già accennato all’Angelus di domenica 20 quando, dopo aver augurato un felice esito per la missione lunare, aveva invitato tutti a “meditare sull’uomo, sul suo ingegno prodigioso, sul suo coraggio temerario, sul suo progresso fantastico. Dominato dal cosmo come un punto impercettibile, l’uomo col pensiero lo domina. E chi è l’uomo? Chi siamo noi, capaci di tanto?”. La mattina di lunedì 21 aveva poi inviato ai tre astronauti un messaggio che si apriva con un solenne Gloria a Dio! ripetuto “come inno di festa da parte di tutto il nostro globo terrestre, non più invalicabile confine dell’umana esistenza, ma soglia aperta all’ampiezza di spazi sconfinati e di nuovi destini”. Il messaggio proseguiva con un “onore a voi, uomini artefici della grande impresa spaziale! Onore agli uomini responsabili, agli studiosi, agli ideatori, agli organizzatori, agli operatori! Onore a tutti coloro che hanno reso possibile l’audacissimo volo … che allarga alle profondità celesti il dominio sapiente e audace dell’uomo”. Infine il 23 luglio, un giorno prima del rientro dell’Apollo sulla Terra, era tornato sull’esigenza di meditare su quanto era accaduto: “Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi!”. Si era rivolto soprattutto al mondo giovanile, attraversato dai fermenti della contestazione, invitandoli a “sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale”, nella convinzione che “il campo scientifico merita ogni interesse” contro ogni tentazione di disfattismo e di “spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo”.  Aveva proseguito indicando una tendenza insita nella natura umana, tanto più avvertita quanto più l’uomo progredisce; l’ha chiamata tendenza cosmica: “chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio… Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale… Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza”. Infine aveva esortato i fedeli a non temere “che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta”. All’epoca queste parole non hanno avuto la risonanza mediatica che avrebbero oggi; forse avrebbero favorito una migliore comprensione della storica frase di Armstrong (“That’s one small step for a man, but one giant leap for mankind”), indicando la natura del “grande balzo” e dando un degno significato alla parola “umanità”. 

La Luna di Oriana Fallaci di Michele Magno su startmag.it. Tra giugno e luglio di cinquant’anni fa Oriana Fallaci (1929-2006) raccontò da Cape Kennedy e da Houston il viaggio sulla Luna. Incontrò i protagonisti e, sulle pagine dell’’Europeo, commentò la preparazione della missione, il lancio dell’Apollo 11, l’allunaggio del 20 luglio 1969. E poi il rientro degli astronauti e lo studio dei materiali riportati a terra. Quegli scritti vennero poi raccolti in un volume, ripubblicato da Rizzoli (2018) e intitolato “La Luna di Oriana”. Da questo libro sono tratti i brani che seguono.[A cura di Michele Magno]

Un uomo, messo acconto a quel razzo, sembra meno di una formica. È un razzo così ciclopico che la sua altezza equivale a quella di un grattacielo con trentasei piani, la sua ampiezza è quella di una stanza di sette metri per sette. Pieno di carburante, pesa trentaseimila tonnellate. Per alzarsi, ha bisogno di una spinta pari a quattromila tonnellate. Se ne raggiungi con un ascensore la cima, io l’ho fatto, ti coglie il terrore. E di ciò non ti rendi conto alla televisione o quando lo guardi dal recinto della stampa che è il più vicino alla pista di lancio: un chilometro e mezzo. La torre che lo sostiene è altrettanto grossa, tutto intorno la pianura è deserta: ti mancano i termini di paragone, e solo il boato che segue la fiammata da apocalisse ti riconduce alla realtà. Poi lo spostamento d’aria che ti investe come un mastodontico schiaffo. Ma è una realtà irreale: mentre lui sale dentro l’azzurro sputando come una cometa di fuoco arancione, tuonando l’esplodere di mille bombe, non credi ai tuoi occhi e ti senti quasi offeso nelle tue dimensioni umane. Offeso, ricordi che in fondo è una bomba, nacque da una bomba che si chiamava V2 e non serviva a volare nel cosmo, serviva a distruggere la città, a massacrare gli inermi. Pensaci al momento in cui è partita per la Luna, il 16 luglio. La data è il 16 luglio. L’ora le nove e trentadue del mattino. Il luogo, Cape Kennedy in Florida. […] Non illudiamoci. Gli uomini continueranno come prima a soffrire, a uccidersi nelle guerre, a offendersi nelle ingiustizie, e con la Luna allargheranno i confini della loro perfidia e del loro dolore. Ma allargheranno anche quelli della loro intelligenza, della loro curiosità, del loro coraggio e, se le insidie non si materializzeranno, può anche darsi che il Grande Spettacolo diventi una buona avventura […][…] Il razzo, da qui, si vede benissimo, ce l’ho proprio davanti, Dio com’è bello! Uno degli spettacoli più belli che abbia mai visto perché l’hanno illuminato con una trentina di riflettori, sai, allo stesso modo in cui noi in Europa illuminiamo i monumenti… E’ anche lui un monumento. Un monumento alto come un grattacielo di trentasei piani, tutto in metallo, ma il metallo non si vede: si vede solo la luce. È come un unico fascio di luce, un immenso gioiello che brilla nel buio, lanciando bagliori, e… guarda, è commovente. Sì, credo che commovente sia la parola giusta. Commovente come una stella. Sai, verso le due del mattino, quando sono arrivata, m’ha preso come un nodo alla gola. Visto da lontano sembrava proprio una stella caduta sulla Terra: è difficile restare freddi dinanzi a cose del genere. Come sarà difficile restare freddi al momento in cui il razzo partirà. […] È da quando l’uomo apparve sulla Terra e alzò gli occhi al cielo e vide il pianeta che chiamiamo Luna, è da allora che l’uomo sogna di andarci… E fra poche ore ci va. Con tutti i suoi difetti, le sue colpe. […] L’uomo, dice Pascal, non è né angelo né bestia ma angelo e bestia: e questo viaggio sta per essere compiuto dagli uomini, non dagli angeli. Gli uomini sono quello che sono: vogliono far soldi anche su Lourdes e sulla Luna. Non sono buoni, o non spesso. Ma se aspettassimo di diventare buoni per fare le cose, non faremmo mai nulla: sì o no? Tu parli di volgarità, io parlerei piuttosto di bene e di male: lo sai che anniversario è oggi? Lo scoppio della prima bomba atomica ad Alamogordo. Quando Fermi ed Oppenheimer e gli altri provarono l’ordigno terribile che fu usato poi a Hiroshima. Gli uomini sono così: inventano la bomba atomica, uccidono con essa centinaia di migliaia di creature, e poi vanno sulla Luna. Nè angeli né bestie ma angeli e bestie. Io non me ne dimentico neppure quando mi lascio commuovere dall’immensa stella che chiamiamo razzo Saturno. E penso che in questo momento centinaia di creature stanno morendo in Vietnam, e che, nel momento in cui il razzo si staccherà dalla Terra e tutti grideranno al miracolo, almeno una creatura o dieci creature moriranno uccise da una pallottola, da un colpo di mortaio… Meno quattro, meno tre, meno due, meno uno, e il razzo si prepara a partire, un uomo si prepara a morire… E’ atroce. Eppure sulla Luna bisogna andarci lo stesso. E chissà che non serva a migliorare un poco gli uomini, a farli essere un poco più angeli e un po’ meno bestie. […] Eccolo, eccoci…meno otto, nove, sei, cinque, sette, quattro, tre, due, uno, fuoco! Dio, Dio, Dio! (Alla televisione si vede un gran fumo bianco uscire dal razzo poi il fumo si scurisce e si allarga in corolla). Lo vedete? Non s’è ancora alzato, ecco, si alza, sale, guarda come sale, bello dritto, che lancio! Mai visto un lancio così! Perfetto! Lo senti il rumore? Qui c’è stato uno spostamento d’aria che ci ha quasi buttato per terra… Guarda come sale… come sale! Dio, ci vorrebbe Omero per descrivervi quello che vedo! Dio, a volte gli uomini sono così belli! Sentilo, il rombo! Sembra un bombardamento, ma non ammazza nessuno, mioddio! Oh, che cosa stupenda… si alza così lentamente, sai, lentamente…va sulla Luna…la Luna… Vorrei che oggi nessuno morisse.” […] All’improvviso ci accorgemmo che l’ora era giunta e tutto cambiò. E non ci importò più che la Luna rappresentasse un volgare scopo politico, non ci importò più che i due uomini scelti dal caso fossero antipatici. La Luna divenne qualcosa di religioso e i due uomini divennero qualcosa di santo: un simbolo di tutti noi, vivi o morti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, noi pesci che cerchiamo sempre altre spiagge senza sapere perché. […] […] Erano due uomini che nessuno aveva scelto perché migliori degli altri e il loro unico merito consisteva nell’essere bravi piloti, ma non migliori di altri. Umanamente non valevano granché. Privi di fantasia e di umiltà, prima della partenza si erano mostrati arroganti, durante il volo non si erano resi simpatici: mai una frase dettata dal cuore, un motto scherzoso, un’osservazione geniale. Avevano visto la Terra che si allontanava centinaia di migliaia di miglia e tal privilegio s’era risolto in un’arida lezione di geografia: «Vedo a destra la penisola dello Yucatán, a sinistra la Florida…». Qualcuno li aveva definiti “unmanned crew”, equipaggio senz’uomo, il termine che si usa per le astronavi che non hanno persone a bordo, insomma dei piloti automatici. Amareggiato e deluso dal loro silenzio, li perdonavi solo sapendo che avevano paura, ma neanche ciò bastava ad amarli mentre l’ora si avvicinava. Nel distintivo della Nasa fatto disegnare dai tre astronauti si vedeva un’aquila che scende con le ali spiegate e gli artigli spalancati fra i crateri della Luna. Osservandolo, alcuni avevano ricordato che l’impegno di sbarcare sulla Luna entro il 1970 era stato assunto da John Fitzgerald Kennedy dopo la crisi di Cuba, anzi dopo la Baia dei Porci, per scopi strettamente politici. C’era bisogno di una grossa impresa che restituisse prestigio e rispetto agli Stati Uniti e la Luna era apparsa la soluzione più facile e più clamorosa. Lo stesso Lyndon Johnson aveva confermato ciò in una trasmissione televisiva […] […] Armstrong dovette aprirlo, allungando la mano sinistra, proprio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del LM (modulo lunare – ndr), la parte inferiore del LM, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro Controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo una immagine sulla TV! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce McCandless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripetevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man!». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio, Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esitazione, perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del LM bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder… i piedi del LM sono affondati nella superficie per circa uno, due pollici… la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del LM».

L’UOMO CHE ANDÒ SULLA LUNA DOPO AVER MESSO INCINTA ORIANA FALLACI. Barbara Costa per Pangea News dell'11 marzo 2019.  “Ho detto al dottore che non posso permettermi il lusso di stare a casa, a riposo, né quello di rivelare che sono incinta”. E non può permetterselo perché è una donna orgogliosa, che lavora duro, fa l’inviata, e si chiama Oriana Fallaci. Il padre del suo bambino non c’è perché Oriana non glielo dice che è incinta, vuole crescere quel figlio da sola, e poi con quest’uomo non ha una storia, non ce l’ha mai avuta, ma non è tutto, la verità è che lui è sposato, e per il suo lavoro è famoso in tutto il mondo. Perché questo ‘lui’… mi sa che ha camminato sulla Luna. È stato un colpo di testa, la passione di una notte, forse qualcuna in più, e la Fallaci ci ha fatto l’amore senza precauzioni perché convinta di non poter avere bambini. Ne è convinta da quando ha perso quel primo figlio il cui padre non voleva né lui, né la madre. Il figlio mai nato di Alfredo Pieroni, nome che oggi non vi dice niente, ma è stato un giornalista del Corriere della Sera, e autore di libri. Alfredo era figo e dongiovanni, non voleva Oriana né altri legami, e quando lei rimane incinta, lui le dà i soldi per abortire. Sono soldi mai spesi, Oriana perde il bambino per un aborto spontaneo, si sente male per strada, a Parigi, ed è sola. Superata una lunga depressione, dimenticato Pieroni, Oriana mette su i mattoni per diventare la Fallaci, ed è una donna che vive da sola per scelta, ama gli uomini che vuole, senza dare né aspettarsi impegni.

Negli anni ’60 Oriana è spesso in Texas, alla NASA, con gli astronauti che si stanno preparando a conquistare la Luna, e che fuori e dentro l’America sono i nuovi eroi, le star che rubano attenzione ai divi del cinema e dello sport. Sono i protagonisti de Il sole muore, e di Quel giorno sulla Luna, i due libri che Oriana Fallaci dedica al viaggio lunare, ma pure del postumo La Luna di Oriana, uscito da poco, che raccoglie suoi inediti scritti per L’Europeo: articoli che si avvicinano, vivono quegli allunaggi, per poi allontanarsene maledicendoli. Il richiamo di quella notte, 20 luglio 1969: chi c’era stava con gli occhi fissi alla tv, ma a Houston c’era anche lei, la Fallaci. Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Mike Collins, i primi ad aprire le porte del cielo, Oriana li ha conosciuti, ma questi dell’Apollo 11 sono i tre astronauti a lei più antipatici, Armstrong soprattutto, un robot freddo, incapace di emozioni, e forse proprio per questo scelto dalla NASA come comandante di un viaggio in rotta verso l’ignoto. Ma a Oriana sta antipatico per un motivo personale, Armstrong ha rubato il posto e la gloria a chi le sta a cuore, quel Pete Conrad che sulla Luna ci va nella missione successiva, l’Apollo 12, e sotto la tuta ha una foto e un ciondolo di Oriana.

È Conrad il padre del bambino? L’ho creduto a lungo, dopo aver letto La Luna di Oriana non so più, vi è una Oriana così amica della moglie di lui, sembra impossibile che le abbia fatto un torto simile. Eppure…l’intesa con Pete è massima, palpita tra le righe, nelle parole della Fallaci si sente che Conrad non è come gli altri: la loro è un’amicizia che supera l’affetto, va oltre la stima, è forte come è forte la loro rottura: litigano per la politica, Conrad è un repubblicano, Oriana un’apolitica innamorata della politica, e lui si arrabbia così tanto da cacciarla di casa, e quando Oriana gli telefona e gli chiede se davvero pensava quanto urlatole la sera prima, litigano ancora, e lei gli scrive una lettera che lui fa a pezzi. Non si vedranno mai più. Nel 1999 Conrad muore in un incidente stradale: Oriana non va al suo funerale, né scrive, parla alla vedova. Forse il padre del bambino di Oriana non è Conrad, la verità non lo sa nessuno, si procede per ipotesi come fa Cristina De Stefano, bravissima nel suo Oriana. Una donna, la biografia della Fallaci più completa, e va detto che De Stefano ha avuto libero e ghiotto accesso ai diari, le lettere, le foto più intime della Fallaci. E tra queste foto ce n’è una che a Oriana fa male al cuore, è nel libro postumo, è quella di Jim Lovell con lei, in Toscana, a Greve in Chianti. Non mi dite che non sapete chi è Jim Lovell, non avete mai visto il film Apollo 13? È lui, cioè Tom Hanks, quello di “Houston, abbiamo un problema”, l’astronauta che è riuscito a rientrare sulla Terra dopo che i comandi della sua astronave erano andati a farsi benedire.

Anche quello tra Lovell e Oriana è un rapporto speciale, lui porta nello Spazio, sotto la tuta, 13 amuleti comprati in Italia, in vacanza con lei, 13 talismani contro la malasorte, contro quel 13 della sua missione che teme infausta. Anche Lovell è sposato e padre, tutte le mogli degli astronauti sono gelose di Oriana, e temono la sua vicinanza ai mariti: il suo fascino, la sua esoticità non sta nel fatto che sia una straniera, ma che sia una donna non sposata che vive a New York, vista dal Sud degli Stati Uniti come la città del vizio e della perdizione. Oriana parla agli astronauti di argomenti che quelle mogli – quasi tutte casalinghe – non sanno capire, né discutere. Quegli uomini che dalla personalità di Oriana sono attratti e intimoriti. Il secondo bambino di Oriana vive nel suo grembo cinque mesi: lo perde la sera di Natale 1965. Questo bambino mai nato sarà il protagonista della Lettera, scritta in prima versione, di getto, nel gennaio 1966, e rimasta chiusa a chiave in un cassetto fino al 1974. L’amicizia tra Oriana e gli astronauti finisce molto male. Ottenuta la Luna, essi tornano sulla Terra insuperbiti, ubriachi di gloria. Oriana non li riconosce più, e per la delusione guarderà alla Luna con rabbia, e rimpianto. La sua passione per lo Spazio rimarrà in sonno per quasi 15 anni, fino a che arriverà un altro astronauta a tentarla, a farla innamorare. Ma questa è tutt’altra storia, di un’altra Oriana, racchiusa in altri libri.

Luna Italiana, Rocco Petrone e il viaggio dell'Apollo 11. A 50 anni dall’allunaggio un documentario prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana in collaborazione con NASA e diretto da Marco Spagnoli. Corriere Tv il 18 luglio 2019. “Nessuno potrà mai dire abbastanza bene di Rocco Petrone. Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco". Con queste poche parole Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center e addetto alle operazioni di lancio, restituisce tutto il peso di una figura rimasta a lungo in ombra, ma che ha avuto un ruolo centrale nel lungo e difficile percorso che ha portato, il 20 luglio del 1969, alla discesa dell'uomo sulla Luna: Rocco Petrone (1926-2006), un uomo timido e ombroso, inflessibile, infaticabile, che si è guadagnato il soprannome di "tigre di Cape Canaveral". Il documentario LUNA ITALIANA, diretto da Marco Spagnoli e prodotto dall'Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana e in collaborazione con la Nasa, ricostruisce la vita e la personalità di Rocco Petrone, direttore delle operazioni di lancio dell'Apollo, collaboratore chiave di Wernher Von Braun, che ha svolto un ruolo chiave nella conquista del cosmo. Ispirato dal libro di Renato Cantore, Dalla Terra alla Luna, Rocco Petrone, l’Italiano dell’Apollo 11, edito in Italia da Rubbettino, questo documentario ricostruisce la vita di questo figlio di emigranti della Basilicata: nato negli USA e, grazie allo Ius Soli, cittadino americano, poté frequentare l’Accademia di West Point, laureandosi poi in ingegneria al MIT. Entrato nel leggendario gruppo di ingegneri che ad Hunstville in Alabama fondarono il nucleo di quella che nel 1958 sarebbe diventata la NASA, realizzò con loro la promessa di John Fitzgerald Kennedy di portare l’uomo sulla Luna prima della fine degli anni Sessanta. Il documentario, presentato in anteprima nel corso dell’evento Matera 2019 Capitale Europea della cultura, proprio in quella Basilicata che diede le origini al protagonista di questa storia, andrà in onda in esclusiva su History (canale 407 Sky) il 20 luglio alle 22.40. Grazie a rare immagini di repertorio provenienti dagli archivi dell’Istituto Luce, Teche Rai, Associated Press, BBC e NASA, Luna Italiana racconta la storia della corsa allo spazio, ovvero il duello tra America e Unione Sovietica, in un viaggio attraverso la scienza, la cultura pop e la vita politica di quegli anni. Una storia emozionante che, oltre alla viva voce di Petrone e di altri protagonisti di quell’epoca straordinaria e irripetibile, si avvale della testimonianza di scienziati, studiosi e giornalisti per ricostruire non soltanto la sfida tecnologica per la conquista dello spazio, ma anche il contesto culturale in cui questo avvenne. Tra gli intervistati: Tito Stagno, Piero Angela, Oscar Cosulich, l'astrofisico Amedeo Balbi, l'ingegnere aerospaziale Roberto Somma, ed altri. A dare la voce a Rocco Petrone è Francesco Montanari, mentre Laura Morante è la voce narrante del documentario.

Luna italiana - Rocco Petrone e il viaggio dell'Apollo 11. Repubblica Tv il 16 luglio 2019. "Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco Petrone". Con queste poche parole Isom "Ike" Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center e addetto alle operazioni di lancio, restituisce tutto il peso di una figura rimasta a lungo in ombra, ma che ha avuto un ruolo centrale nel lungo e difficile percorso che ha portato, il 20 luglio del 1969, alla discesa dell'uomo sulla Luna. Il documentario 'Luna italiana', diretto da Marco Spagnoli e prodotto da Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana e in collaborazione con la Nasa, ricostruisce la vita e la personalità di Rocco Petrone (1926-2006), direttore delle operazioni di lancio dell'Apollo, collaboratore di Wernher Von Braun, che ha svolto un ruolo chiave nella conquista del cosmo. Ispirato dal libro di Renato Cantore, "Dalla Terra alla Luna, Rocco Petrone, l’Italiano dell’Apollo 11", edito in Italia da Rubbettino, il doc ricostruisce la vita di questo figlio di emigranti della Basilicata e sarà presentato in anteprima mondiale a Matera il 17 luglio nella "Settimana della Luna" e andrà in onda su History (canale 407 Sky) il 18 luglio alle 22.40.

Dalla terra alla Luna: l'epopea dell'italiano che guidò la missione. Rocco Petrone, l'italiano dell'Apollo 11, raccontato nel libro del giornalista lucano Renato Cantore. Giuditta Casale il 12 luglio 2019 su Tiscali notizie. La sera del 30 novembre 1609 Galileo Galilei puntò il cannocchiale per la prima volta verso la Luna, e quello che vide e che descrisse nel Sidereus Nuncius cambiò per sempre la percezione di essa, e fu l’inizio di quella rivoluzione scientifica, che ha mutato il nostro essere nel mondo. La genialità dello scienziato consisté nel perfezionare il cannocchiale inventato dagli olandesi, per trasformarlo in un telescopio, come lui stesso lo definì, e puntarlo non sulla terra per scopi militari e difensivi, ma verso il cielo, rendendolo uno strumento scientifico capace di rivoluzionare l’astronomia. Un piccolo ed efficiente telescopio è il regalo che all’età di dieci anni ricevette il baronetto Wernher von Braun dalla madre, che come una “fata ignorante” segnò inesorabilmente il destino del figlio, al quale da quel momento non sarebbe più mancata la voglia di guardare il cielo, come ricorda Renato Cantore, giornalista e scrittore lucano, in “Dalla terra alla luna”,  l’entusiasmante e sobrio racconto per la casa editrice calabrese Rubbettino, della missione spaziale per eccellenza, che portò cinquant’anni fa, dopo tre secoli e mezzo dalla prima “visione” galileiana, il 20 luglio 1969, l’uomo sulla Luna, segnando il predominio culturale e scientifico degli Stati Uniti nei confronti dell'Unione Sovietica, che pure solo qualche anno prima con l'impresa di Yuri Gagarin aveva mostrato quanto fosse più avanti nella tecnologia spaziale. Il volume è introdotto dalla prefazione di Tito Stagno, il giornalista Rai che andò in onda per 25 ore per raccontare la missione spaziale agli Italiani, con una professionalità giornalistica che è rimasta nel cuore di chi l'ascoltò e nelle pagine del giornalismo televisivo italiano. Con Marco Spagnoli Renato Cantore ha firmato anche il documentario "Luna Italiana Rocco Petrone e il viaggio dell’Apollo 11” prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana e in collaborazione con NASA, che andrà in onda il 18 luglio alle 22.40 su History, canale 407 di Sky. Non è il barone tedesco, inventore del razzo A4, padre naturale dei missili V2, la temutissima arma segreta di Hitler, con cui i nazisti nell’autunno del 1944 cercarono di mettere in ginocchio la Gran Bretagna, senza riuscirci, e che quando le sorti della Germania e del nazismo sembrarono ormai scontate, decise di consegnarsi in maniera rocambolesca con i più stretti collaboratori agli americani, gli unici secondo il suo sentore che avrebbero potuto proteggere il suo lavoro, ad essere il protagonista dell’epopea raccontata da Renato Cantore in “Dalla terra alla luna” con piglio competente e sicuro di giornalista e il passo ampiamente documentato del saggista, ma Rocco Petrone, ufficiale americano di origini lucane, essendo i genitori nati e cresciuti a Sasso di Castalda, paesino arroccato e sconosciuto, che lui rese celebre in tutto il mondo. Alla visita che Rocco Petrone riservò ai suoi parenti italiani a Sasso di Castalda, durante una missione in Europa come giovane ufficiale all'indomani della seconda guerra mondiale, Renato Cantore affida un intero capitolo, "La scoperta delle radici", che serve a mettere in risalto sia il carattere e l'indole del personaggio sia a renderlo icona di quel sogno americano che ha visitato i sonni di molti italiani durante la seconda metà del Novecento, soprattutto nel Meridione. Quando nel 1960 Wernher von Braun accettò, dopo un’iniziale forte resistenza, di passare alla Nasa come direttore del nuovo Marshall Space Flight Center, per provare a battere i sovietici nella corsa alla conquista dello spazio, una delle condizioni che pose fu di avere nel suo team Rocco Petrone, conosciuto al Redstone Arsenal, centro di progettazione e sperimentazione, affidatogli dal 1950 dove il capitano Rocco Petrone, ventiseienne, fresco di master al Mit, era stato inviato nel 1952. Come già con il cannocchiale olandese, l’interesse per i missili di von Braun era stato soprattutto di carattere militare anche negli Stati Uniti, portando alla creazione del missile Redstone, con il quale i generali americani erano convinti di poter affermare la propria supremazia nella Guerra Fredda. Solo in un secondo momento si lasciarono convincere che la sfida tra i due blocchi si giocava non più sulla Terra ma negli spazi infiniti dell'Universo, dando così avvio a quel percorso, fomentato e fortemente voluto da Kennedy, che porterà l'uomo a toccare il suolo lunare. L’incontro tra von Brauen e Petrone, il barone e il contadino come li definisce Renato Cantore a titolo di un capitolo, avrebbe non solo cambiato le vite di entrambi, ma segnato la storia dell’umanità con lo sbarco dell’uomo sulla Luna, che non si sarebbe realizzato senza l’impegno e la tenacia di Rocco Petrone, la competenza estrema quasi maniacale, la robusta genialità e la capacità di perseguire un sogno così grande da sembrare impossibile. “Cape Canaveral. Al solo pronunciare questa parola viene da evocare un mondo fatto verso il cielo, sofisticate sale controllo con centinaia di monitor e legioni di tecnici in camice bianco. «Ma quando arrivammo noi, nel 1953 – ricordava Rocco- Cape Canaveral era solo una landa desolata in cui gli unici esseri viventi erano una piccola carovana di zingari e tante, tante zanzare». Dopo un momento iniziale di diffidenza nacque un rapporto di grande sintonia tra il gruppo di scienziati e tecnici tedeschi e i giovani ingegneri dell’esercito americano. «Eravamo tutti amici – ricordava Rocco – e tutti convinti che mai e poi mai un missile avrebbe potuto portare l’uomo sulla Luna, io per primo».” Dalla prime rampe di lancio, destinate a sostituire quelle utilizzate per missili più piccoli e leggeri, al lancio dei vari Saturno fino al grandioso Saturno V che avrebbe trasportato la navicella Apollo, passando per il programma Gemini alla tragedia della missione Apollo 1, alle successive missioni Apollo, fino al fatidico “go” pronunciato da Rocco Petrone, dopo il giro di ricognizione “nella firing room per accertarsi che il livello di attenzione fosse al massimo e ciascuno stesse seguendo esattamente le procedure assegnate”. Renato Cantore presenta in “Dalla terra alla luna” una ricostruzione narrativa, puntuale dettagliata e avvincente, che ha il pregio della sobrietà e della lucidità, senza ammiccamenti al romanzesco a cui pure la vicenda si presterebbe, o all’agiografia del protagonista, per il quale pur dimostrando piena e dovuta ammirazione, Cantore conserva uno sguardo lucido e fermo. Al giornalista Renato Cantore sta la capacità di raccontare senza sbavature un momento esaltante della storia dell’umanità, raccogliendo e selezionando le informazioni, accurate e precise anche dal punto di vista scientifico e di innovazione tecnologica, senza perdere in immediatezza e nel coinvolgimento del lettore; al saggista che Renato Cantore dimostra di essere nello sviluppare la vicenda nell’ampio respiro di un libro, sta la visione generale in cui la missione della conquista della Luna si inserisce, con l’abilità di far scorrere in parallelo alla missione spaziale lunga un decennio dalla valenza scientifica e tecnologica incommensurabile, anche le implicazioni economiche e politiche che ne sono connesse, l’impianto storico su cui la vicenda si innesta con l’accenno sempre ficcante ai grandi eventi, dalla Guerra Fredda alla presidenza Kennedy  fino al suo assassinio, alla guerra del Vietnam e alle manifestazione pacifiste e antirazziali del ‘68, a cui si aggiunge l’acribia con cui vengono raccontati aneddoti e retroscena, motivazioni e comportamenti, vicende biografiche e valutazioni critiche. Una lettura da cui si esce più ricchi ed esperti nel cinquantesimo anniversario di quella notte estiva in cui sembrò di toccare la luna con un dito.

ROCCO PETRONE, L'ANIMA TRICOLORE DELL'APOLLO 11. Di origini italiane, intelligente e rigoroso fino alla durezza, era chiamato la “tigre” di Cape Canaveral. Figlio di migranti della Basilicata, orfano del padre a pochi mesi, entrò all’accademia militare per meriti di studio. Fu uno degli ingegneri a capo della spedizione. Giusi Galimberti il 18/07/2019 su famigliacristiana.it. «Quando eravamo bambini non ci rendevamo conto di quale lavoro straordinario facesse papà. Nel villaggio dove abitavamo, a Cape Canaveral, tutti erano impegnati per lo sbarco sulla Luna: tecnici, scienziati, astronauti. Noi vivevamo in mezzo alle loro famiglie, era la quotidianità. Normale sentir parlare di navicelle e uomini nello spazio. Per noi, papà era sì un grande ingegnere, ma perché metteva luci magiche all’albero di Natale, intagliava zucche a Halloween o dipingeva le uova di Pasqua...». Chi racconta è Teresa Petrone, 63 anni, prima dei quattro figli di Rocco Anthony Petrone (1926-2006), figura carismatica e fondamentale per la riuscita di una delle più grandi imprese dell’umanità: il progetto Apollo 11. Fu lui, modesto figlio di emigranti della Basilicata, diventato direttore delle operazioni di lancio, a dare il de­finitivo “go” per il via alla missione. Insomma, a lui toccò realizzare in maniera clamorosa il sogno americano di generazioni di emigranti. «Nessuno potrà mai dire abbastanza bene di Rocco Petrone. Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco». Con queste parole Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center, restituisce il peso a una figura rimasta nell’ombra ma che ha avuto un ruolo centrale nel lungo e complesso percorso che ha portato l’uomo a mettere il piede sulla Luna. Timido e ombroso, inflessibile e infaticabile, fu il principale collaboratore di Wernher von Braun, il tedesco che dallo sviluppo della missilistica della Germania nazista venne chiamato negli Stati Uniti, con un manipolo di suoi connazionali, a dirigere il programma spaziale americano. Occhi penetranti e glaciali, un fisico imponente da ex giocatore di football, un metro e 90 di altezza per un quintale di peso, Rocco era temuto e ammirato, al punto di guadagnarsi il soprannome di “tigre di Cape Canaveral”. La sua storia è straordinaria. Nato da genitori italiani il 31 marzo 1926 ad Amsterdam, cittadina dello Stato di New York, per lo Ius soli era di fatto americano. Mamma Teresa e papà Antonio erano giunti in America cinque anni prima, da Sasso di Castalda, nelle montagne della Lucania. Venne battezzato Rocco, come il santo protettore di quel paesino in provincia di Potenza, e Anthony, come papà Antonio, secondo l’uso americano. «Il padre di Rocco morì che lui aveva sei mesi, travolto da un treno. Era casellante e come tanti nostri meridionali aveva un orticello sulla massicciata, vicino alle rotaie. Troppo vicino», racconta Renato Cantore, 67 anni, giornalista, per passione biografo dell’ingegnere italoamericano. «Teresa, rimasta sola, avrebbe voluto tornare al paese, ma si fece forza e riuscì a crescere quel ragazzino robusto e intelligentissimo. Rocco fu il migliore allievo all’high school e per meriti scolastici poté frequentare l’Accademia di West Point e laurearsi poi al Mit, Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università del mondo». Petrone entrò quindi nel leggendario gruppo di ingegneri che fondarono in Alabama quella che, nel 1958, sarebbe diventata la Nasa, per realizzare la promessa fatta da John Kennedy di portare l’uomo sulla Luna. «Rocco incontrò il presidente Kennedy due volte», continua Cantore. «La seconda sei giorni prima della sua uccisione. Grazie alle sue doti espositive, era proprio Petrone che sovrintendeva alle riunioni, fatte anche in presenza di uomini del Governo, per presentare lo sviluppo dei progetti e quindi anche dell’Apollo 11». Un documentario che racconta la storia di Rocco Petrone, dal titolo Luna italiana, viene presentato in anteprima il 17 luglio nella sua regione di origine, la Basilicata, a Matera, Capitale europea della cultura 2019. Andrà in onda anche su History (Sky) il giorno seguente. Rare e preziose le immagini, provenienti dagli archivi di Istituto Luce, Teche Rai, AP, Bbc e Nasa. Vi si racconta anche di quel soldato che, forgiato da West Point, fu mandato nella patria di mamma e papà a combattere gli italiani. Nei successivi anni dell’occupazione, decise di andare a cercare la nonna. Così l’anziana signora aprì un giorno la porta della sua casa in Lucania a uno sconosciuto ragazzone americano in uniforme. Alle sue spalle, il postino consegnava una lettera spedita mesi prima. C’era scritto: «Cara nonna, vengo a conoscerti...» .

Vittorio Feltri: "La Luna è roba terrona. A dirigere la missione nello spazio è stato Rocco Anthony Petrone". Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Come immagino abbiano fatto tutti, anche io ho visto in tv e letto sui giornali mille rievocazioni epiche della conquista della Luna, alla quale peraltro assistetti mezzo secolo fa grazie alla Rai. Avevo 26 anni e mi emozionai all' impresa che sembrava un sogno di mezza estate. Però devo ammettere che i ricordi dell' evento, per quanto ben riproposti, sono stati tutti privi di suggestioni. Frasi fatte e ripetute mille volte, solite facce, condite con la retorica giornalistica sfoggiata dai professionisti del memorialismo, non mi hanno affascinato. Replicare all' infinito gli stessi concetti alimenta la noia e non aggiunge nulla al risaputo. Eppure, rovistando tra le mie sudate carte ho rinvenuto un elemento che, per quanto trascurato o citato di striscio, mi ha impressionato, cosicché desidero rendervene partecipi. Il nostro pallido satellite parla italiano, sissignori. L'uomo fantastico che diresse la missione nello spazio non era tedesco come Von Braun, genio assoluto, ma un oscuro benché fenomenale studioso figlio di lucani emigrati negli Stati Uniti, cioè l'ingegner Rocco Anthony Petrone, nato nello Stato di New York il 31 marzo 1926. I suoi genitori erano povera gente, talmente in miseria da essere costretti a lasciare il paesello, Sasso di Castalda, provincia di Potenza, per recarsi in America nella speranza di sopravvivere all'atavica fame della Basilicata. Il babbo fu subito assunto quale operaio ferroviere e la mamma nel ruolo di guantaia in una fabbrichetta locale. Poiché la sfiga non perde mai di vista gli indigenti, il papà muore in un incidente e lascia soli la moglie e il bimbo, Rocco, lo stesso nome del patrono di Sasso. Una tragedia infernale. L'orfano - so cosa vuol dire esserlo da piccoli - per aiutare la madre disperata si adatta a portare di casa in casa il ghiaccio, dato che i frigoriferi erano di là da venire. Raccatta qualche dollaro utile ad arrotondare la modesta paga della genitrice. Il carattere del ragazzo si rivela già in questo commovente episodio. Poi diciamo che i terroni non hanno voglia di sgobbare.

L' ACCADEMIA MILITARE. Rocco cresce secondo l' educazione rigorosa della mini-famiglia e non appena raggiunge la maggiore età entra trionfalmente, per meriti di studio, nell' Accademia militare dove senza intoppi si laurea. Non gli basta. Frequenta un corso difficile e ottiene un master prestigioso in ingegneria meccanica. Votazione mostruosa. Accede immediatamente alla Nasa, accolto con ogni guadagnato onore. E ci dà dentro con il lavoro. Non gli serve molto tempo per scalare i vertici della organizzazione spaziale e distinguersi per abilità e profondità scientifica. Il nostro lucano non fatica a prendere in mano l'intera Nasa che si affida a lui per crescere e predisporsi al grande salto. L' ingegnerone non sbaglia un colpo, mette a punto il piano di lancio e i tognini che lo assistono stanno ai suoi ordini quali scolaretti. Trascorrono alcuni anni e Rocco si impadronisce degli ambiziosi programmi statunitensi e predispone ogni cosa affinché vengano eseguiti alla lettera. Vietato sbagliare: lassù nel vuoto ogni errore può costare non solo il fallimento dell' impresa ma anche la vita di tanti esseri umani fiduciosi nella tecnica spaziale marcata Lucania. Viene quasi da ridere pensando che un individuo così grigio eppure dotato di ingegno e temperamento abbia mandato in cielo, con successo, una spedizione ancora oggi considerata miracolosa. Un aneddoto, dato che il capintesta era lui, Petrone, e non altri: questi un bel giorno si accorse che uno dei fornitori di materiale delicato tendeva a prenderlo in giro, ed egli lo ripagò afferrandolo per la giacchetta e buttandolo fuori, in puro stile montanaro, direi bergamasco, dal suo ufficio nonché dall' azienda.

AMMIRAZIONE E STIMA. La sua attività professionale, apprezzata da chiunque, inclusa la presidenza degli USA, proseguì per lustri, e l' allunaggio fu la sua consacrazione. Tuttavia, trattandosi di un tipo schivo e scontroso, egli preferì rimanere nell' ombra, senza mai darsi delle arie, e a forza di nascondersi fu quasi dimenticato malgrado i suoi risultati. La Luna comunque è roba sua, roba terrona. Egli ha riscattato l' Italia e specialmente la Basilicata dove l' olio di gomito si spreca e l' intelligenza spesso si sottovaluta. Rocco è stato ed è un mito e io, polentone, mi inchino davanti a lui, invitando i miei colleghi a fare altrettanto. È vissuto fino a 80 anni nonostante fosse piagato da diabete mellito, quello che colpisce i giovani. Ha combattuto eroicamente persino la malattia. Impossibile non ammirarlo. Viva la Lucania. Ancora oggi, e siamo nel 2019, i metodi di lancio in uso nelle basi da cui decollano le missioni sono i medesimi, quelli approntati dal nostro connazionale. Non mi sembra poco. Vittorio Feltri

Allunaggio, Filippo Pagano il siciliano che insegnò a volare ad Armstrong. Lucio Luca il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Emigrato negli Usa da Terrasini, vicino Palermo, fu proprio lui a costruire la strumentazione di bordo del mitico Apollo 11: “In California  - raccontava - ho anche un frammento di roccia lunare che mi hanno regalato gli astronauti”. Sulla Luna c’è una targa con tutti i nomi dei protagonisti dell’Apollo 11. Non solo gli astronauti, ma proprio tutti quelli che, in un modo o nell’altro, per quella impresa hanno dato un contributo. C’è anche il nome di un italiano e non uno qualsiasi, anche se dalle nostre parti in pochi lo conoscevano. Eppure l’ingegnere Filippo Pagano, emigrato negli States da Terrasini, provincia di Palermo, e morto qualche anno fa a 88 anni a Los Angeles, era l’uomo che aveva insegnato a volare nientemeno che a Neal Armstrong. Ma ogni volta che qualcuno glielo ricordava, continuava a schernirsi e diceva che in fondo lui non aveva fatto niente di eccezionale. Schivo, quasi stupito del fatto che la sua storia potesse davvero interessare a qualcuno. Anche se fu proprio lui a costruire la strumentazione di bordo del mitico Apollo 11, proprio lui a spiegare ad Armstrong come divincolarsi tra quei mille e mille pulsanti che avrebbero dovuto portare l'astronauta americano a fare "quel piccolo passo per l'uomo, ma un balzo gigante per l'umanità". Quella mattina Filippo si svegliò prestissimo, si fece la barba e indossò l'abito buono. Non era un giorno qualsiasi. Si stava per fare la storia, anche se il cuore batteva a mille e la paura che all'ultimo momento qualcosa andasse storto era sempre molto forte. Filippo, però, era sereno: la navicella spaziale la conosceva come le sue tasche, l'aveva costruita lui dopo anni di studi. Quando Armstrong, “il mio amico Neil”, mise piede sulla Luna, dagli occhi di Filippo scesero due lacrime, appena accennate. Perché un siciliano d'altri tempi non piange mai, nemmeno se ha partecipato alla prima missione dell'uomo sulla Luna e se è stato presente a tutte le imprese della Nasa fino al 1994, dalla grande festa al Kennedy Space Center ai giorni di angoscia dell'Apollo 13 e del disastro dello Shuttle nel 1986. Per Pagano era quasi una cosa normale. Come se chiunque avesse appese alle pareti del salotto di casa le medaglie con le firme dei presidenti degli Stati Uniti realizzate con il metallo delle navicelle spaziali: “In California ho anche un frammento di roccia lunare che mi hanno regalato gli astronauti”, raccontava. L'ingegnere Pagano era un pezzo di storia del suo Paese, gli Stati Uniti, anche se il cuore era rimasto a Terrasini dove aveva vissuto la sua giovinezza, si era sposato per poi decidere di costruirsi una vita dall'altra parte del mondo. Era il 1954, insieme alla moglie Rosalia l'ingegnere Pagano, all'epoca soltanto ragioniere, si mise a fare l'operaio di assemblaggio alla Chrysler. Poi passò alla Rockwel International, l’attuale Boeing, e decise di riprendere gli studi. Riuscì a laurearsi in ingegneria elettronica e poi in ingegneria spaziale, la Nasa si accorse di lui ed entrò nel programma voluto da Jfk per battere sul tempo i sovietici nella corsa alla Luna. L'ingegnere Pagano, a Downey, disegna i moduli lunari, cioè il lander della navicella spaziale, il "cuore" dell'Apollo 11. Ripara i guasti riscontrati durante le simulazioni di volo, prepara tabelle piene di numeri per fronteggiare le emergenze. E spiega agli astronauti scelti dalla Nasa come si guida quel "trabiccolo". Poi, il 20 luglio del 1969, si mette davanti al video in attesa del "giant leap for mankind", il grande passo per l'umanità: “Quando Neil toccò con il piede non abbiamo capito più niente: baci, abbracci, champagne. Poi ha chiamato il presidente Nixon per farci i complimenti, subito dopo il capo della Nasa. E' stato il giorno più bello della mia vita. Anzi no, il giorno più bello della mia vita dopo quelli in cui sono nati i miei figli...”.

Allunaggio, Dario Antonucci l'uomo che progettò il sistema che misurava i parametri di bordo. Andrea Gualtieri il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Dalla fattoria di San Marco Argentano all'impresa del 1969: "Staccavamo alle due o alle tre di notte. Io vivevo poco distante dal laboratorio, mi chiamavano a tutte le ore e mi precipitavo lì. Sapevamo di far parte di una missione straordinaria". Il 25 febbraio 1937 la motonave Rex affrontava la penultima notte di viaggio prima di approdare in America. La Luna era piena, quella notte. Gli emigranti italiani che la ammiravano in cielo non immaginavano che tra loro c'era un ragazzino destinato a spedire proprio lassù sulla Luna, per la prima volta, una navetta spaziale. Dario Antonucci arrivava da una fattoria di San Marco Argentano, in provincia di Cosenza. Oggi ha 95 anni, vive a Knoxville, in Tennessee, e tra i suoi oggetti preziosi conserva una foto autografata dai piloti della missione Apollo 11. Nella sua memoria risuonano ancora nitide le parole con cui Neil Armstrong, il 20 luglio 1969, annunciava al mondo che “l'Aquila” si era posata: Antonucci di quella “aquila” conosceva ogni dettaglio, perché era stato lui a progettare il sistema che misurava e controllava tutti i parametri di bordo. All'epoca lavorava per la Grumman Aerospace Corporation, il colosso industriale che aveva prodotto i caccia impiegati in Europa durante il secondo conflitto mondiale e poi aveva esteso i suoi orizzonti verso lo spazio, realizzando gli Orbiting Astronomical Observer, gli antenati del telescopio Hubble. Nel 1962 Grumman aveva firmato con la Nasa un contratto per realizzare la strumentazione del Lem, il modulo lunare. “All'inizio fu coinvolto in quel progetto un gran numero di persone, ma i risultati non arrivavano e così scelsero di puntare su un team ridotto”, ricorda Antonucci. Selezionarono tredici tecnici e quattro ingegneri. E lui era il responsabile della squadra. “Eravamo impegnati tutto il giorno - racconta -. Staccavamo alle due o alle tre di notte. Io vivevo poco distante dal laboratorio, mi chiamavano a tutte le ore e mi precipitavo lì. È stato un grande lavoro, eravamo concentrati sull'obiettivo perché sapevamo di far parte di una missione straordinaria”. Cinquant'anni dopo quell'impresa, l'adrenalina sembra ancora riaffiorare: “Con il programma lunare è stata ideata e sviluppata una mole impressionante di tecnologia che ha aiutato il mondo a progredire: le missioni Apollo sono ancora oggi la base che permette di guardare a future esplorazioni spaziali, verso Marte e magari oltre”. Anche per Dario Antonucci la conquista della Luna non fu un punto di arrivo. Dopo il 1969 lavorò a tutte le spedizioni lunari, compresa la drammatica Apollo 13: in quell'occasione fu proprio a bordo del Lem che l'equipaggio riuscì a salvarsi e a ritornare sulla Terra. Antonucci snocciola quei ricordi uno dietro l'altro. Cita anche il progetto dell'aereo da guerra F-14 Tomcat, quello pilotato da Tom Cruise nel film Top Gun. E poi il bimotore turboelica C-2. Ma il suo racconto torna sempre all'Italia, a quella casa della campagna calabrese dove è cresciuto. Suo padre era già emigrato quando lui è nato, il 10 marzo 1924. Undici anni dopo, sua madre è morta e lui è stato affidato a una famiglia del posto, mentre Giulia, la sorella più grande, è stata accolta in un collegio di suore. In quel periodo per la prima volta Dario scoprì il fascino dello spazio: “Fu un professore ebreo a parlarmene - ricorda -. Erano gli anni del fascismo e a scuola tutti lo emarginavano per le sue origini. Io invece volevo imparare e lui mi mostrò una piccola simulazione del cielo. All'inizio non ci capivo nulla, ma lui mi spiegò che c'era la Terra, il Sole, Marte”. E la Luna. Quella che, nel 1936, lo accompagnava mentre navigava verso l'America insieme a suo padre che era tornato a riprendersi i figli. La famiglia Antonucci all'epoca non aveva in tasca più di trenta dollari, ma poteva contare sulla cittadinanza che Angelo aveva già conquistato grazie agli anni di lavoro negli Stati Uniti. Dario iniziò facendo il giardiniere insieme al padre, ma intanto studiava: “Mi impegnai molto per imparare la lingua e recuperare tempo per arrivare al diploma”. Poi ci fu la guerra e fu arruolato come radio operatore: lo spedirono su una nave prima al largo dell'Europa, poi in Asia e in Australia. “Tornai nel febbraio del 1946, avrei voluto entrare al college per iniziare una nuova vita, ma in quella fase c'erano cinque milioni di giovani reduci dal conflitto che volevano iscriversi e così mi dissero che avrei dovuto aspettare”. L'unica soluzione erano i corsi serali. E Dario non si tirò indietro: di giorno lavorava, poi seguiva le lezioni di ingegneria. Ottenne la specializzazione in elettricità e meccanica perché non riuscì a frequentare quella aerospaziale che era il suo sogno. Ma il destino era scritto: qualche anno dopo, l'azienda per la quale lavorava fu rilevata dal colosso Gt&E e trasferì i laboratori da NewYork alla California. “Non me la sentii di lasciare mio padre e i miei suoceri”, dice Antonucci. Così si licenziò e poi accettò l'offerta della Grumman. Era il 1960, vigilia dell'epopea spaziale. Il calabrese al quale la Luna piena sorrideva sulla motonave Rex non mancò l'appuntamento. Adesso una delle sue figlie sarà al Kennedy Center per rappresentarlo alle cerimonie commemorative della missione Apollo 11. Dario, intanto, nella sua casa in Tennessee si emoziona ancora al ricordo di quell'impresa. Quando gli si chiede se ha mai ricevuto un riconoscimento in Italia o negli Usa, lui risponde: “Il mio premio più grande è stato riuscire a realizzare quel progetto, che è stato un grande successo per tutta l'umanità”.

Max Valier, l'altoatesino padre dei razzi spaziali (1895-1930). Nato a Bolzano, sarà uno dei massimi pionieri della propulsione a razzo negli anni '20. Fu anche la prima vittima della corsa allo spazio. A lui si ispirerà Von Braun.  Edoardo Frittoli il 3 luglio 2019 su Panorama. Non era un militare, e neppure un ingegnere aeronautico. Max Valier era figlio di un semplice panettiere ed era nato a Bolzano nell'allora Sudtirolo austriaco, il 9 febbraio 1895. Fu pura passione quella che lo condurrà agli studi di astronomia a Innsbruck dopo un'infanzia e un'adolescenza passate ad osservare gli astri con il suo telescopio sopra le cime delle Dolomiti altoatesine. Appena compiuti gli studi, Valier è richiamato alle armi per lo scoppio della Grande Guerra. Dopo un periodo sul fronte orientale, viene trasferito nel servizio aeronautico Imperial-regio dove l'astrofisico ha la possibilità come osservatore di sperimentare il volo ad alta quota. Terminata la guerra, Max Valier perfeziona gli studi astrofisica a Vienna, dove si specializza in cosmogonia e scrive una novella che anticiperà di 25 anni l'avvento della bomba atomica. Il periodo dello studio degli astri culminerà dopo il trasferimento nella Monaco di Baviera degli anni di Weimar e del primo putsch di Adolf Hitler con il capolavoro "Orbita e natura delle stelle". E' il 1924quando l'incontro con il fisico Hermann Oberth stimolerà l'interesse di Valier verso la progettazione di un razzo sperimentale a combustibile liquido, archetipo dei razzi "Saturn" che porteranno l'uomo sulla Luna nel luglio del 1969. I due si vedranno all'inizio degli anni '20 nel capoluogo bavarese. Oberth aveva appena pubblicato privatamente una tesi sulle tecniche costruttive di razzi interplanetari, definita dagli accademici una "follia utopistica". Tra i due scienziati iniziava una fitta corrispondenza ed uno scambio di nozioni sullo sviluppo sia della struttura del razzo che sull'uso inedito delle misture di propellente liquido in grado di garantire una spinta sufficiente a vincere la forza di gravità della Terra. Oberth aveva partecipato anche alla realizzazione degli effetti speciali di un film del maestro del cinema espressionista Fritz Lang "Una donna nella Luna", per il quale progettò il modello apparso nel film e organizzò una serie di dimostrazioni pubbliche in occasione della presentazione della pellicola del 1929. Max Valier trovò per caso nel 1924 il libro di Oberth "Il Razzo nello spazio interplanetario" (Die Rakete zu den Planetenräumen) e ne rimase letteralmente folgorato. L'astrofisico bolzanino vide nell'opera sperimentale di Oberth la possibilità di poter toccare dal vivo quanto aveva osservato, studiato e teorizzato in una vita. Preso contatto con l'autore del libro, Valier propose il proprio contributo inizialmente per allargarne la divulgazione e per raccogliere fondi dalla grande industria tedesca in un momento estremamente difficile per l'economia nazionale stremata dagli effetti economici della guerra da poco perduta. Inizialmente Valier individuò un possibile finanziatore nel produttore di ghiaccio e ossigeno liquido Linde, che avrebbe potuto facilmente fornire il combustibile necessario agli esperimenti sul razzo di Oberth. Lo stesso Valier pensò di redigere una riduzione dei progetti del fisico tedesco in un pamphlet divulgativo, nel quale il primo e più grande ostacolo da superare era la forza di gravità della Terra. Citando l'esperienza del pioniere americano Robert Goddard, l'altoatesino indica il traguardo da raggiungere in termini di velocità per poter lasciare l'atmosfera: 11.182 m/s, pari a 40.255 km/h. La rimanente parte del capitolo è focalizzata da Valier sull'unicità della propulsione a razzo rispetto alle antiche teorie del cannone propulsore (quelle dei racconti di Jules Verne per intendersi) che avrebbero generato una sollecitazione insostenibile per vettore ed equipaggio. Il razzo, proprio come nel caso di quelli moderni, avrebbe dovuto essere multistadio, con due reattori separati, uno funzionante con una miscela alcool-ossigeno e l'altro con idrogeno e ossigeno. La diffidenza delle istituzioni accademiche nei confronti suoi e di Oberth e le grandissime difficoltà nel reperire i finanziamenti necessari ad una lunghissima e costosa fase sperimentale non bastarono a scoraggiare Valier, il quale ebbe opportunità di testare la propulsione a razzo non in cielo, ma sulle piste in asfalto della vecchia Terra. Nei tardi anni '20 Max Valier lavorò con Fritz Von Opel, il nipote del fondatore della casa automobilistica, su prototipi di automobili con propulsore a razzo a combustibile solido (pirotecnico). Il magnate, grande sportivo e pioniere della propulsione a reazione, offrì i fondi e la possibilità a Max Valier di sperimentare la propulsione a razzo su ruote, che l'altoatesino portò avanti pur essendo consapevole delle limitazioni insite nei propulsori a carburante solido. All'inizio del 1928 Valier e il suo team realizzarono l'auto a razzo utilizzando la base di una comune Opel 4hp trovata presso gli stabilimenti di Russelsheim. Il 12 marzo avvenne il primo viaggio di una macchina con propulsore a razzo, anche se il tragitto fu brevissimo (circa 150 metri) e la velocità irrisoria (circa 6 km/h) a causa della cautela usata nell'uso di razzi (con potenza di soli 18 Kg/m di spinta contro il peso del veicolo di circa 600 Kg). La seconda prova, avvenuta soltanto alcuni giorni più tardi, darà soddisfazioni molto maggiori, dato che il razzo da 220 Kg/m di spinta fu in grado di far accelerare il prototipo da 30 a 75 km/h in 1 secondo e 1/2. Il terzo esperimento migliorò ulteriormente le prestazioni, anche perché lo chassis della Opel chiamata "Rak 1" fu ricoperto da una apposita carrozzeria aerodinamica. Munita di 16 razzi in serie e di accensione non più a miccia ma a comando elettrico, la vettura partita da ferma raggiungerà i 100 Km/h in soli 8 secondi, aumentando la velocità sino a toccare i 120 Km/h. Il 13 aprile 1928 tutti i giornali parlavano dell'impresa della Rak 1 di Opel, offrendo a Valier la possibilità di avere molto credito e pubblicità per poter riprendere il sogno del razzo spaziale. Il sodalizio con Opel proseguirà per i mesi successivi, quando Valier prenderà parte agli esperimenti di veicoli a razzo su rotaia (Rak 3 e Rak 4) prima di tornare a dedicarsi nuovamente al sogno del volo a razzo. Per potere raccogliere nuovamente i fondi necessari, Max Valier decise di sviluppare il progetto del razzo a propellente liquido per gradi, iniziando a studiare la realizzazione di un aereo a fusoliera lunga con propulsione a gas compresso e portando avanti i primi test all'aeroporto di Dusseldorf. Durante la fase preliminare tuttavia, la Germania di Weimar entrava nella spirale di una crisi economica profondissima, che ne avrebbe eroso le basi entro pochi mesi. Gli industriali tedeschi, a fronte delle migliaia di licenziamenti che la crisi aveva generato, non furono più disposti a concedere finanziamenti a progetti scientifici come quello di Max Valier. L'astrofisico-inventore riuscirà tuttavia ad ingegnarsi per proseguire i test su ciò che riteneva fondamentale per aprire le porte alla futura realizzazione di un razzo spaziale, ossia la costruzione di un reattore a propellente liquido. Parallelamente proseguirà gli studi sulla costruzione e soprattutto sui materiali (più leggeri e resistenti rispetto al pressofuso e al rame utilizzati dai suoi predecessori) e gli involucri dei razzi e dei bocchettoni di uscita. In questo periodo Max Valier affronterà problemi economici non indifferenti pur di perseguire e realizzare le sue idee di fronte al mondo. La propulsione liquida, ancora praticamente inesplorata, aveva vantaggi in termini di potenza di spinta e durata che l'altoatesino riteneva ineguagliabili rispetto agli altri motori a propulsione solida precedentemente sperimentati sui veicoli a razzo. Nell'ultimo periodo di attività, Max Valier si era trasferito a Berlino dopo il nuovo sodalizio con Paul Heylandt, uno dei massimi esperti di propellenti liquidi in forza alla Linde, l'azienda alla quale Valier si rivolgeva da anni per il finanziamento dei suoi progetti. All'inizio del 1930 iniziò a lavorare su una nuova camera di combustione per i propellenti liquidi. Questa era costituita da un tubo in acciaio alla cui estremità superiore era collegato l'iniettoredel combustibile, mentre a quella inferiore l'ugello di scarico dei gas combusti, intercambiabile e regolabile. Questo modello pesava soltanto 3 Kg e grazie al lavoro di Valier sulla miscelazione dei gas comburenti fu in grado alla fine di gennaio di ricevere una spinta superiore al proprio peso. In questo periodo l'altoatesino, sempre in cerca di appoggio finanziario, riuscì ad incontrare (dopo una lunga attesa) a St.Moritz Sir Henry Deterding, il potentissimo Direttore Generale della Shell, al quale presentò un progetto per la realizzazione di un motore a razzo a combustibile liquido per l'applicazione nell'aeronautica. Deterding fece intendere a Valier che le porte della Shell avrebbero potuto aprirsi al sogno del "rocket man" di Bolzano, che nel frattempo tornò a Berlino per mettere a punto il progetto della camera di combustione iniziata qualche mese prima. La nuova camera di combustione fu montata su un veicolo-test e il 22 marzo Valier scorrazzò per ben 22 minuti attorno all'area del laboratorio di Berlino-Britz grazie alla spinta fornita dal serbatoio a miscela di gas liquidi. Durante l'ultima fase della sperimentazione, si era ormai accesa la rivalità tra Valier e il suo vecchio mentore Oberth dopo una serie di divergenze ed incomprensioni sul metodo sperimentale: mentre Oberth tendeva alla realizzazione diretta di un razzo spaziale, Valier era dell'idea che il risultato finale dovesse passare dai veicoli e dagli aeroplani prima di puntare allo spazio. Quest'ultimo, a metà del 1930, era preoccupato che il suo ex maestro potesse presentare il razzo alla imminente fiera aeronautica di Berlino. Fu così che decise di stringere i tempi cominciando a provare la miscela che prevedeva Idrogeno, ossigeno e alcool. Per poter realizzare i test, Valier scelse l'aviosuperficie del vicino aeroporto di Berlino-Tempelhof, dove il veicolo Rak-7 fu in grado di compiere diversi giri anche sotto gli occhi dei tecnici della Shell inviati da Deterding. Gli accordi con il colosso Anglo-olandese prevedevano una condizione imposta dall'azienda, ossia che al posto dell'alcool nella miscela venisse usato il cherosene Shell. Valier si ingegno subito per ovviare ai problemi legati alla viscosità del combustibile inserendo una camera di emulsione al piccolo reattore che pesava circa 4 Kg. Nei giorni seguenti Valier, assieme al suo assistente Riedel compì una serie di esperimenti con il nuovo propellente nell'area di Berlino-Britz. Il 17 maggio 1930 dopo un test positivo fu notato che a causa delle forti sollecitazioni sul motore durante le prove, si erano danneggiati parte degli strumenti di misura. Riedel suggerì a Valier di interrompere le prove per quel giorno, ma l'inventore altoatesino era preso dal sacro fuoco per un traguardo che riteneva ormai vicino. Alle 21 circa decise di riempire nuovamente il serbatoio con l'idrogeno liquido e avviare nuovamente la combustione. Improvvisamente, mentre la camera andava in pressione oltre le 7 atmosfere, una violentissima esplosione riecheggiò nell'area aeroportuale berlinese. Riedel, che fu il primo a soccorrere il suo capo, lo vide spirare prima che arrivassero i primi soccorsi: una scheggia di acciaio gli aveva reciso di netto l'aorta. Dopo la sua tragica morte Valier, prima vittima della corsa allo spazio, fu rapidamente dimenticato. Esattamente un anno dopo, sulla stessa superficie dove ebbe luogo l'incidente fatale si tenne una dimostrazione con un veicolo a razzo alimentato a combustibile liquido ma neppure una postilla fu dedicata al lavoro dell'altoatesino. Tuttavia, al di fuori della cronaca, la sua opera e quella del socio-rivale Oberth saranno raccolte da un giovane entusiasta, Wehrner Von Braun,  padre della missilistica moderna e dei razzi vettori che porteranno l'uomo sulla Luna quasi quarant'anni dopo la scomparsa di Max Valier. Oggi un cratere sul lato oscuro della Luna porta il nome del pioniere altoatesino, mentre nella natìa Bolzano gli è stato dedicato un importante istituto superiore. Sempre nel capoluogo altoatesino un gruppo di appassionati astronomi porta orgogliosamente il nome di Max Valier, concittadino illustre che per primo sacrificò la vita per il sogno di viaggiare nello spazio.

Don Eyles: “Con quel computer potevamo andare anche su Marte”. Jaime D'Alessandro il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Parla l’ingegnere che 50 anni fa scrisse il software che guidava il modulo dell’Apollo 11. Il sistema di bordo aveva una potenza 1300 volte inferiore rispetto ad uno smartphone. “Eppure è ancora oggi una macchina avanzata”. SU EBAY la riproduzione funzionate dell’Apollo Guidance Computer costa tremila dollari. Progettato e realizzato al Mit di Boston era mille e trecento volte meno potente di uno smartphone: oggi perfino una lavatrice ha più capacità di calcolo. Eppure ha gestito il sistema di guida delle navicelle Nasa portando l’uomo sulla Luna per ben nove volte iniziando dall’atterraggio nel Mare della Tranquillità il 20 giugno del 1969. Aveva una memoria di 72k, un processore da 1MHz e pesava 32 chili. Fantascienza per quei tempi, tanta potenza fu eguagliata dieci anni dopo da home computer come il Commodore 64 e lo Zx Spectrum. La Nasa aveva affidato il progetto a Charles Stark Draper del Mit, scomparso nel 1987, e con lui lavorava fra gli altri un giovane ingegnere, Don Eyles, responsabile del computer del modulo lunare. Nel 1969 aveva appena 25 anni. “Certo, era un computer semplice rispetto agli standard di oggi”, commenta dalla sua casa di New York lo stesso Eyles, che recentemente ha pubblicato un libro intitolato Sunburst and Luminary: An Apollo Memoir. Un solo chip di oggi può contenere una potenza di calcolo enormemente superiore. Il computer al quale avevo lavorato era il sistema chiamato Guidance, navigation and control, che gestiva i propulsori per l’atterraggio e il controllo del modulo lunare. Lo usammo su tutti gli Apollo con qualche modifica nel software”. Una vera impresa atterrare sulla Luna con una potenza di calcolo tanto limitata. “Io considero quelle macchine ancora oggi molto avanzate. Del resto siamo andati e tornati dalla Luna nove volte grazie a loro”. Compresa la missione Apollo 14, quella del rilancio dopo il fallimento dell’Apollo 13 e che a sua volta stava per trasformarsi in tragedia. “C’era un pulsante che non funzionava”, ricorda Eyles. “Non poteva essere usato ed era centrale nelle sequenze di atterraggio. Dovetti scrivere un software nuovo che permettesse di fare tutto escludendo quell’interruttore. E’ stata una delle notti più adrenaliniche della mia carriera. Risolsi il problema in due ore perché era quello il tempo che avevo a disposizione. Ma in generale tutti quegli anni passati a lavorare con la Nasa sono stati emozionanti e difficili”.

Cosa ricorda dell’Apollo 11?

“Che il software per gestire l’atterraggio doveva essere infallibile. E all’epoca si tratta di programmi pioneristici”.

Come sarà il computer del modulo che nel 2024 dovrebbe tornare sulla Luna?

“Completamente diverso ovviamente. Avrà ad esempio un sistema di riconoscimento delle immagine capace di capire e di stabilire con esattezza dove bisogna atterrare per evitare pericoli. Poter fare una cosa del genere serve una potenza di calcolo molto elevata”.  

Dopo 32 anni passati a progettare computer per lo spazio, l’ultimo contributo è ancora in funzione nei sistemi della Stazione Spaziale Internazionale (Iss), Eyles è convinto che su Marte saremmo potuti andare fin dagli anni Settanta. Secondo lui "avevamo tutto il necessario già allora", iniziando dal computer di bordo e fu colpa della politica se poi decidemmo di non farlo.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 18 luglio 2019. «Il destino ha voluto che gli uomini andati sulla Luna per esplorarla in pace rimarranno sulla Luna per riposare in pace». Se cinquant' anni fa l' avventura lunare dell' Apollo 11 fosse fallita, il presidente americano Richard Nixon avrebbe detto proprio così. La Nasa, d' altronde, aveva già deciso. Se dopo aver pronunciato la storica frase «un piccolo passo per l' uomo, un grande passo per l' umanità» Neil Armstrong e il suo compagno Buzz Aldrin non fossero riusciti ad abbandonare la superficie lunare per ricongiungersi con Michael Collins, all' interno del modulo di comando - ovvero a superare la fase più delicata della missione - sarebbero stati abbandonati lì. A morire di fame. Non era prevista nessuna missione di soccorso. Ma in quel tragico caso, il protocollo da seguire era già pronto. L' allora presidente Nixon avrebbe letto alla nazione un discorso, subito dopo aver telefonato alle mogli per comunicargli che i loro eroici compagni non sarebbero tornati più. Joan Archer Aldrin e Janet Shearon Armstrong, "widow to be" - tecnicamente non ancora vedove - sarebbero state le prime a sapere. E dopo un ultimo tentativo di Houston di comunicare in diretta tv con gli esploratori spaziali, le telecamere si sarebbero accese sullo Studio Ovale. «Questi uomini impavidi, Neil Armstrong ed Edwin Aldrin, sanno di non avere speranza. Ma sanno che c' è speranza per l' umanità nel loro sacrificio» avrebbe esordito Nixon a quel punto. Era stato Frank Borman a suggerire alla Casa Bianca di prepararsi al peggio. L' ex comandante di Gemini 7 e Apollo 8, nel 1965 primo uomo a orbitare intorno alla Terra e, nel 1968, il primo a volare verso la Luna, conosceva bene i rischi che la missione Apollo 11 implicava. E fu dunque proprio lui a chiamare l' allora ghostwriter del presidente, William Safire, suggerendogli: «Ti conviene preparare qualcosa nel caso quest' avventura vada male». Lo ha raccontato, nel 1999, proprio Safire. Dopo aver lasciato la Casa Bianca, in rotta con Nixon che lo aveva fatto intercettare, nel 1973 entrò al New York Times . Diventandone uno dei più brillanti editorialisti e vincendo anche il Pulitzer nel 1978. Il discorso venne ritrovato fra i faldoni della Richard Nixon Presidential Library proprio dopo il suo racconto a Nbc nel 1999. Due fogli di carta dattiloscritti, con un titolo: In Event of Moon Disaster , da tenere "nel caso di disastro lunare". Safire buttò giù la bozza esattamente cinquant' anni fa, il 18 Luglio del 1969, mentre il mondo era incollato agli schermi in bianco e nero dei televisori, per seguire il viaggio degli astronauti. E infatti, scriveva il ghostwriter: «Durante la loro esplorazione questi due uomini hanno portato la gente di tutto il mondo a sentirsi una cosa sola. Nel loro sacrificio hanno consolidato la fratellanza». Il testo venne consegnato a Bob Haldeman, capo dello staff di Nixon, con una serie di note a margine dove si suggeriva, fra l' altro, di far seguire alle dichiarazioni del presidente una sorta di rito funebre: un sacerdote - sempre in diretta tv - avrebbe pronunciato la preghiera della sepoltura in mare, affidando le anime degli astronauti alle «profondità degli abissi». Spaziali, s' intende. Fortunatamente Nixon non pronunciò mai il discorso dove elogiava «uomini che furono i primi, e primi resteranno nei nostri cuori». Ma ancora oggi, quello speech mai entrato nella Storia è un documento eloquentissimo, testimonianza dell' ansia americana di raggiungere la Luna a tutti i costi e vincere la sfida tecnologica e politica coi russi. «Nell' antichità gli uomini guardavano alle stelle e vedevano i loro eroi nelle costellazioni. Nei tempi moderni facciamo lo stesso, ma i nostri eroi sono uomini epici in carne ed ossa. Altri seguiranno, e sicuramente riusciranno a tornare a casa.La ricerca dell' uomo non sarà negata ». I sovietici erano avvisati. Anche in caso di fallimento la corsa allo spazio era tutt' altro che finita.

"Chi scattò la prima foto alla Luna"? Così l'uomo ha visto lo spazio. La Repubblica il 21 luglio 2019. La corsa allo spazio non si può ridurre alla rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e a quella prima bandiera a stelle e strisce piantata sulla Luna da Armstrong nel 1969, il 20 luglio di 50 anni fa. Prima degli Sputnik, di Yuri Gagarin - il primo essere umano, sovietico, in orbita nel 1961 - e della storica missione Apollo 11, in molti si sono impegnati per raggiungere la Luna, almeno dal punto di vista fotografico. La prima foto del nostro satellite è un dagherrotipo del 1840 ottenuto dal chimico inglese John Draper, appena un anno dopo l'invenzione rivoluzionaria di Luois Daguerre. Quella di Draper è un'immagine confusa, simile a una pellicola deformata dal calore, in cui la forma della Luna si intuisce appena. Il dagherrotipo in questione è una delle tante immagini raccolte dal volume Phaidon dal titolo Sun and Moon (376 pagine e 280 foto, testi in inglese, in vendita a circa 70 euro). Il libro è uno spettacolare riassunto della storia dell'astronomia, raccontata attraverso fotografie ma anche opere d'arte e cartografie di chi ha scrutato il cielo con l'intenzione di carpirne i segreti più grandi. Il volume è curato da Mark Holborn, che ha spiegato come negli anni 60 le tecniche più avanzate della fotografia contribuirono al primo sbarco sulla Luna: "Circa 100mila immagini furono scattate per stabilire quale fosse il punto migliore per l'allunaggio. Molte di queste provenivano dalla prima sonda lunare, Ranger 7, che le inviò prima di schiantarsi nel 1964. Altre sonde completarono il lavoro nel 1966. Quelle foto non erano pensate per il grande pubblico". Oggi invece le foto in alta qualità della Luna sono facilmente reperibili. Un utente di Flickr, nel 2017, ha addirittura creato a partire dai file Raw della Nasa un'immagine da 100 megapixel che permette di ammirare da (relativamente) vicino i crateri del satellite. Se siamo arrivati a questo punto, insomma, lo si deve a un progresso tecnologico che Sun and Moon racconta con storie e aneddoti. Come quello che riguarda una delle prime immagini di un cratere della Luna, realizzata dall'inglese John Herschel nel 1842 e incredibilmente dettagliata per l'epoca. Una foto così nitida da non sembrare vera: in effetti Herschel la ottenne puntando l'obiettivo sulla superficie di un modellino della Luna alto almeno 5 metri. Lo stesso 'trucco' fu utilizzato, attraverso un modellino realizzato in legno, da James Nasmyth and James Carpenter nel 1874 per le immagini a corredo del loro libro intitolato The Moon.

Programma Apollo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il programma Apollo fu un programma spaziale statunitense che portò allo sbarco dei primi uomini sulla Luna. Concepito durante la presidenza di Dwight Eisenhower e condotto dalla NASA, Apollo iniziò veramente dopo che il presidente John Kennedy dichiarò, durante una sessione congiunta al Congresso avvenuta il 25 maggio 1961, obiettivo nazionale il far "atterrare un uomo sulla Luna" entro la fine del decennio. Questo obiettivo fu raggiunto durante la missione Apollo 11 quando, il 20 luglio 1969, gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcarono sulla Luna, mentre Michael Collins rimase in orbita lunare. Apollo 11 fu seguita da ulteriori sei missioni, l'ultima nel dicembre 1972, che portarono un totale di dodici uomini a camminare sul nostro "satellite naturale". Tutt'oggi, questi sono stati gli unici uomini a mettere piede su un altro corpo celeste. Il programma Apollo si svolse tra il 1961 e il 1975 e fu il terzo programma spaziale di voli umani (dopo Mercury e Gemini) sviluppato dall'agenzia spaziale civile degli Stati Uniti. Il programma utilizzò la navicella spaziale Apollo e il razzo vettore Saturn, successivamente utilizzati anche per il programma Skylab e per la missione congiunta americana-sovietica Apollo-Soyuz Test Project. Questi programmi successivi sono spesso considerati facenti parte delle missioni Apollo. Il corso del programma subì due lunghe sospensioni: la prima dopo che un incendio sulla rampa di lancio di Apollo 1, durante una simulazione, causò la morte degli astronauti Gus Grissom, Edward White e Roger Chaffee; la seconda dopo il viaggio verso la Luna di Apollo 13 durante il quale si verificò un'esplosione sul modulo di servizio che impedì agli astronauti la discesa sul nostro satellite e li costrinse ad un rischioso rientro sulla Terra, avvenuto grazie alle loro competenze e agli sforzi di controllori di volo, tecnici e membri degli equipaggi di riserva. L'Apollo segnò alcune pietre miliari nella storia del volo spaziale umano che fino ad allora si era limitato a missioni in orbita terrestre bassa. Il programma stimolò progressi in molti settori delle scienze e delle tecnologie, tra cui avionica, informatica e telecomunicazioni. Molti oggetti e manufatti del programma sono esposti in luoghi e musei di tutto il mondo ed in particolare presso il National Air and Space Museum di Washington.

Motivazioni e lancio del programma. Contesto storico. Nel corso degli anni cinquanta del Novecento, tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica era in pieno svolgimento la cosiddetta guerra fredda, che si concretizzò in interventi militari indiretti (guerra di Corea) e in una corsa ad armamenti sempre più efficienti e in particolar modo allo sviluppo di missili intercontinentali capaci di trasportare testate nucleari sul territorio nazionale avversario. Il primo successo in questo campo lo ebbero i sovietici che lanciarono nel 1956 il razzo R-7 Semyorka. Gli Stati Uniti si adoperarono allora per cercare di colmare il divario, impiegando grandi risorse umane ed economiche. I primi successi americani arrivarono con i razzi Redstone e Atlas. Parallelamente agli sviluppi militari, l'Unione Sovietica colse anche i primi grandi successi nell'esplorazione dello spazio. Fu sovietico il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik 1, lanciato il 4 ottobre 1957 con gran sorpresa per gli americani, che però risposero il 1º febbraio 1958 con l'Explorer 1. Per colmare lo svantaggio accumulato, il 29 luglio 1958 il presidente Eisenhower fondò la NASA, che nello stesso anno avviò il programma Mercury. La corsa allo spazio ebbe così inizio. Il 12 aprile 1961 l'Unione Sovietica sorprese nuovamente il mondo con il primo uomo nello spazio: il cosmonauta Jurij Gagarin che volò a bordo della Vostok 1. I russi continuano a mietere successi: nel 1964 mandarono in orbita tre cosmonauti (a bordo della Voschod 1) e nel 1965 realizzarono la prima attività extraveicolare (Voschod 2). Il programma Apollo fu il terzo progetto di lanci spaziali umani intrapreso dagli Stati Uniti, benché i relativi voli seguissero sia il primo programma (Mercury) che il secondo (Gemini). L'Apollo originalmente fu concepito dalla amministrazione Eisenhower come un seguito al programma Mercury per le missioni avanzate Terra-orbitali, ma fu completamente riconvertito verso l'obiettivo risoluto di allunaggio "entro la fine decennio" dal presidente John F. Kennedy con il suo annuncio a una sessione speciale del Congresso il 25 maggio del 1961: «…credo che questo paese debba impegnarsi a realizzare l'obiettivo, prima che finisca questo decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non ci sarà in questo periodo nessun progetto spaziale più impressionante per l'umanità, o più importante nell'esplorazione a lungo raggio dello spazio; e nessuno sarà così difficile e costoso da realizzare…» (John F. Kennedy). Nel discorso che diede inizio all'Apollo, Kennedy dichiarò che nessun altro programma avrebbe avuto un effetto così grande sulle mire a lungo raggio del programma spaziale americano. L'obiettivo fu poi ribadito in un ulteriore celebre discorso ("We choose to go to the Moon...") il 12 settembre 1962. All'inizio del suo mandato, nemmeno Kennedy aveva intenzione di investire molte risorse sull'esplorazione spaziale, ma i successi sovietici e il bisogno di recuperare il prestigio dopo il fallimentare sbarco nella Baia dei Porci, gli fecero cambiare velocemente idea. La proposta del presidente ricevette un immediato ed entusiastico sostegno sia da ogni forza politica sia dall'opinione pubblica, spaventata dai successi dell'astronautica sovietica. Il primo bilancio del nuovo programma spaziale denominato Apollo (il nome fu scelto da Abe Silverstein allora direttore dei voli umani fu votato all'unanimità dal Senato. I fondi disponibili per la NASA passarono da 500 milioni di dollari nel 1960 a 5,2 miliardi nel 1965. La capacità di mantenere pressoché costanti i finanziamenti per tutta la durata del programma fu anche merito del direttore della NASA James Webb, veterano della politica, che riuscì a fornire un sostegno particolarmente forte al presidente Lyndon Johnson, succeduto a Kennedy assassinato nel 1963, e forte sostenitore del programma spaziale. Essendosi posti come obiettivo la Luna, i pianificatori della missione Apollo dovettero affrontare il difficile compito imposto da Kennedy, cercando di minimizzare il rischio per la vita umana considerando il livello tecnologico dell'epoca e le abilità dell'astronauta.

Vennero considerati tre diversi scenari possibili per la missione:

Ascesa diretta: Prevedeva un lancio diretto verso la Luna. Ciò avrebbe richiesto lo sviluppo di razzi molto più potenti di quelli dell'epoca, denominati Nova in sede di progetto. Questa soluzione prevedeva che l'intera navicella atterrasse sulla Luna e poi ripartisse verso la Terra.

Rendezvous in orbita terrestre: La seconda, nota come EOR (Earth orbit rendezvous), prevedeva il lancio di due razzi Saturn V, uno contenente la navicella, l'altro destinato interamente al propellente. La navicella sarebbe entrata in orbita terrestre e lì rifornita del propellente necessario a raggiungere la Luna e tornare indietro. Anche in questo caso sarebbe atterrata l'intera navicella.

Rendezvous in orbita lunare (LOR): Fu lo scenario che venne effettivamente realizzato. Fu ideato da John Houbolt ed è chiamato tecnicamente LOR (Lunar orbit rendezvous). La navicella era composta da due moduli: il CSM (modulo di comando-servizio) e LM (modulo lunare) o anche LEM (Lunar Excursion Module, il suo nome iniziale). Il CSM era costituito da una capsula per la sopravvivenza dei tre astronauti munita di scudo termico per il rientro nell'atmosfera terrestre (modulo di comando) e dalla parte elettronica e di sostentamento energetico per il modulo di comando, cosiddetta modulo di servizio. Il modulo lunare, una volta separato dal CSM, doveva garantire la sopravvivenza ai due astronauti che sarebbero scesi sulla superficie lunare.

Il modulo lunare doveva svolgere una funzione di ascesa e di discesa sul suolo lunare. Terminata questa fase avrebbe dovuto riagganciarsi al modulo di comando-servizio, in orbita lunare, per il ritorno sulla Terra. Il vantaggio offerto da questa soluzione era che il LEM, dopo essersi staccato dal modulo di comando-servizio, era molto leggero e quindi più manovrabile. Inoltre sarebbe stato possibile utilizzare un solo razzo Saturn V per il lancio della missione. Ciononostante, non tutti i tecnici furono concordi sull'adozione del rendezvous in orbita lunare, specialmente per le difficoltà che presentavano i numerosi agganci e sganci che avrebbero dovuto affrontare i moduli. Anche Wernher von Braun, che dirigeva il team del Marshall Space Flight Center, incaricato di sviluppare il lanciatore ed era un sostenitore della tecnica del rendezvous in orbita terrestre, finì per convincersi che il LOR fosse l'unico scenario che avrebbe potuto far rispettare la scadenza fissata dal presidente Kennedy. All'inizio dell'estate 1962, i principali funzionari della NASA si erano ormai tutti convinti della necessità dell'adozione del rendezvous in orbita lunare, tuttavia sorse il veto di Jerome B. Wiesner, consigliere scientifico del presidente Kennedy, che fu però superato nei mesi seguenti. L'architettura della missione fu approvata definitivamente il 7 novembre 1962. Entro luglio, 11 aziende aerospaziali statunitensi furono invitate alla progettazione del modulo lunare sulla base di queste specifiche.

Il 5 maggio 1961, pochi giorni prima dell'avvio del programma Apollo, Alan Shepard diventò il primo astronauta statunitense a volare nello spazio (missione Mercury-Redstone 3). In realtà, si trattò solo di un volo suborbitale ed il razzo utilizzato non era in grado di mandare in orbita una capsula spaziale di peso maggiore di una tonnellata. Per realizzare il programma lunare risultava invece necessario portare in orbita bassa terrestre almeno 120 tonnellate. Già questo dato può far capire quale sia stato il cambiamento di scala richiesto ai progettisti della NASA che dovettero sviluppare un razzo vettore dalle potenze mai raggiunte fino ad allora. Per centrare l'obiettivo fu necessario sviluppare pertanto nuove e complesse tecnologie, tra cui l'utilizzo dell'idrogeno liquido come combustibile. Il personale impiegato nel programma spaziale civile crebbe in proporzione. Tra il 1960 e il 1963, il numero dei dipendenti della NASA passò da 10.000 a 36.000 addetti. Per accogliere il nuovo personale e per sviluppare le adeguate attrezzature dedicate al programma Apollo, la NASA istituì tre nuovi centri:

Il Manned Spacecraft Center (MSC), costruito nel 1962 nei pressi di Houston, in Texas. Esso fu dedicato alla progettazione e alla verifica del veicolo spaziale (modulo di comando-servizio e modulo lunare), alla formazione degli astronauti e al monitoraggio e gestione del volo. Tra i servizi presenti: il centro di controllo missione, simulatori di volo e svariate attrezzature destinate a simulare le condizioni nello spazio. Il centro era diretto da Robert Gilruth, un ex ingegnere presso la NACA, che svolse un ruolo di primo piano riguardo alla gestione delle attività correlate al volo spaziale. Questa struttura era già stata allestita per il programma Gemini. Nel 1964 erano qui impiegate 15.000 persone, compresi 10.000 dipendenti di varie società aerospaziali.

Il Marshall Space Flight Center (MSFC) situato in un vecchio impianto dell'esercito (un arsenale di razzi Redstone) vicino a Huntsville in Alabama. Esso fu assegnato alla NASA a partire dal 1960 insieme alla maggior parte degli specialisti che qui vi lavoravano. In particolare vi era presente la squadra tedesca diretta da Wernher von Braun specializzata in missili balistici. Von Braun rimarrà in carica fino al 1970. Il centro era dedicato alla progettazione e alla validazione della famiglia di veicoli di lancio Saturn. Erano presenti banchi di prova, uffici di progettazione e impianti di assemblaggio. Qui vennero impiegate fino a 20.000 persone.

Il Kennedy Space Center (KSC), situato presso Merritt Island in Florida, da cui verranno lanciati i giganteschi razzi del programma Apollo. La NASA costruì la sua base di lancio a Cape Canaveral, vicino a quella utilizzata dall'aeronautica militare. Il centro si occupava dell'assemblaggio e controllo finale del razzo vettore nonché delle operazioni relative al suo lancio. Qui, nel 1956, vi erano impiegate 20.000 persone. Il cuore del centro spaziale era costituito dal Launch Complex 39dotato di due rampe di lancio e di un enorme edificio di assemblaggio: il Vehicle Assembly Building (altezza 140 metri), in cui potevano essere assemblati più razzi Saturn V contemporaneamente. Il primo lancio da questo centro è avvenuto per l'Apollo 4 nel 1967.

Altri centri della NASA ebbero un ruolo marginale o temporaneo sul lavoro svolto per il programma Apollo. Nel Centro Spaziale John C. Stennis, allestito nel 1961 nello stato del Mississippi, furono predisposti nuovi banchi di prova utilizzati per testare motori a razzo sviluppati per il programma. Il Centro di ricerca Ames, risalente al 1939 e situato in California, era dotato di gallerie del vento utilizzate per studiare il rientro nell'atmosfera della navicella Apollo e perfezionarne la forma. Il Langley Research Center (1914), con sede a Hampton (Virginia), disponeva anch'esso di ulteriori gallerie del vento. Presso il Jet Propulsion Laboratory (1936), a Pasadena, vicino Los Angeles, specializzato nello sviluppo di sonde spaziali, furono progettate le famiglie di veicoli spaziali automatici che produssero le mappe lunari ed acquisirono le conoscenze sull'ambiente lunare indispensabili per rendere possibile il programma Apollo.

La realizzazione di un programma così ambizioso rese necessaria una decisiva crescita del settore dell'industria aeronautica, sia per quanto riguarda il personale addetto (la NASA passò da 36.500 addetti a 376.500) sia nella realizzazione d'impianti di grandi dimensioni. La società californiana North American Aviation, produttrice del famoso B-25 Mitchell protagonista dei combattimenti aerei della seconda guerra mondiale, distintisi già nel programma X-15, assunse un ruolo di primaria importanza. Dopo aver visto fallire i suoi progetti per il trasporto aereo civile, dedicò tutte le sue risorse al programma Apollo fornendo in pratica tutti i componenti principali del progetto, ad eccezione del modulo lunare che venne progettato e realizzato dalla Grumman. La North American realizzò, tramite la sua divisione Rocketdyne, i motori principali del razzo principale J-2 e F-1 presso l'impianto a Canoga Park, mentre il Saturn V era prodotto a Seal Beach e il modulo di comando e di servizio a Downey. In seguito all'incendio di Apollo 1 e ad alcuni problemi incontrati nello sviluppo, si fonderà con la Rockwell International nel 1967. Il nuovo gruppo svilupperà poi, negli anni 1970-1980 lo Space Shuttle. L'azienda McDonnell Douglas si occupò invece di produrre il terzo stadio del Saturn V presso i suoi stabilimenti di Huntington Beach in California, mentre il primo stadio era costruito nello stabilimento Michoud (Louisiana) dalla Chrysler Corporation. Tra i principali fornitori di strumenti di laboratorio e di bordo si deve annoverare il Massachusetts Institute of Technology (MIT) che progettò i sistemi di navigazione. Il programma Apollo rappresentò una sfida senza precedenti in termini di tecnologia e capacità organizzative. Una delle parti del progetto che richiese più impegno fu quella relativa allo sviluppo del razzo vettore. Le specifiche della missione richiesero infatti lo sviluppo di motori in grado di fornire una grande potenza per il primo stadio (motori F-1) e di garantire più accensioni (motori J-2) per il secondo e terzo stadio, caratteristica mai implementata fino ad allora. Ad aumentare le difficoltà nella progettazione va aggiunta la richiesta di un alto livello di affidabilità (fu imposta una probabilità di perdita dell'equipaggio di meno dello 0,1%) e il relativo poco tempo a disposizione (8 anni, tra l'avvio del programma e la scadenza fissata dal presidente Kennedy per il primo allunaggio di una missione con equipaggio). Nonostante alcune battute di arresto durante le fasi dello sviluppo, grazie anche alle ingenti risorse finanziarie messe a disposizione (con un picco nel 1966, con il 5,5% del budget federale assegnato alla NASA), si riuscì a far fronte alle numerose problematiche insorte e mai affrontate precedentemente. Lo sviluppo di tecniche organizzative per la gestione del progetto (pianificazione, gestione delle crisi, project management) hanno fatto più tardi scuola nel mondo del business.

Lo sviluppo del motore F-1, dotato di un'architettura convenzionale ma di un potere eccezionale (2,5 tonnellate di propellente bruciato al secondo), richiese molto tempo a causa di problemi di instabilità nella camera di combustione, che furono corretti mediante la combinazione di studi empirici (ad esempio l'utilizzo di piccole cariche esplosive in camera di combustione) e la pura ricerca. Le sfide più significative, tuttavia, coinvolsero i due moduli principali del programma: il modulo di comando/servizio e il modulo lunare. Lo sviluppo del modulo lunare avvenne con un anno di ritardo sui tempi previsti a causa di modifiche nello scenario di atterraggio. Il suo motore fu concettualmente nuovo e richiese grandi sforzi progettuali. La massa complessiva, superiore alla previsioni, la difficoltà nello sviluppo del software e la mancanza di esperienza nella realizzazione di motori adatti allo scopo, comportarono ritardi così importanti da mettere, ad un certo punto, in pericolo la realizzazione dell'intero programma. I test costituirono una parte importante nel programma, rappresentando quasi il 50% del carico di lavoro totale. Il progresso della tecnologia dell'informatica permise, per la prima volta in un programma astronautico, di inserire automaticamente una sequenza di test e di salvare le misure di centinaia di parametri (fino a 1000 per ogni prova del Saturn V). Ciò consentì agli ingegneri di concentrarsi sulla interpretazione dei risultati, riducendo la durata delle fasi di verifica. Ogni stadio del razzo Saturn V subì quattro fasi di prova: un test sul sito del produttore, due in loco presso il MSFC ed infine un test di integrazione al Kennedy Space Center, una volta che il razzo era stato assemblato.

La scelta e il ruolo degli astronauti. Il primo gruppo di sette astronauti selezionati per il programma Mercury (chiamati Mercury Seven) era stato scelto tra piloti collaudatori militari, aventi un discreto livello di conoscenza nei settori connessi alla progettazione, con un'età inferiore ai 40 anni e aventi delle caratteristiche che soddisfacevano restrittivi requisiti psicologici e fisici. Le successive assunzioni, effettuate nel 1962 (nove astronauti del gruppo 2), 1963 (quattordici astronauti del gruppo 3) e 1966(quindici astronauti del gruppo 4) usarono dei criteri di selezione simili, abbassando l'età a 35 e 34 anni, diminuendo le ore minime di volo richieste e estendendo il numero di titoli accettati. Parallelamente furono selezionati due astronauti scienziati possedenti un dottorato di ricerca: uno nel gruppo 4 e uno nel gruppo 6. Durante la loro preparazione, gli astronauti passarono molto tempo nei simulatori del modulo di comando e del modulo lunare, ma si sottoposero anche a delle lezioni di astronomia per la navigazione celeste, di geologia per prepararli alla identificazione delle rocce lunari e di fotografia. Inoltre trascorsero molte ore sul velivolo jet da addestramento T-38 (tre astronauti del gruppo 3 morirono durante questi voli sul T-38. Gli astronauti furono coinvolti anche nelle primissime fasi della progettazione e sviluppo dei veicoli spaziali. Ad essi fu inoltre richiesto di dedicare parte del loro tempo alle pubbliche relazioni e alla visita delle società coinvolte nel progetto. L'astronauta Deke Slayton (selezionato per il programma Mercury ma successivamente non ritenuto idoneo al volo a causa di un problema cardiaco) assunse il ruolo di leader informale ma efficace del corpo astronauti, occupandosi della selezione degli equipaggi per ogni missione e facendo da portavoce negli interessi degli stessi durante lo sviluppo del progetto. La navicella Apollo fu originariamente progettata per dare una piena autonomia di azione all'equipaggio in caso che si fosse verificata una perdita delle comunicazioni con il centro di controllo. Questa autonomia, prevista dai software del sistema di navigazione e controllo, sarebbe tuttavia stata significativamente ridotta, nel caso si fosse reso necessario una modifica sostanziale delle procedure di una missione. Infatti era il centro di controllo di Houston che forniva i parametri essenziali, quali la posizione della navetta nello spazio e i valori corretti della spinta necessaria per ogni accensione del motore principale. Nel momento in cui si realizzarono i primi voli sulla Luna, solamente il centro di controllo a terra possedeva la potenza di calcolo necessaria per poter elaborare i dati telemetrici e stabilire la posizione della navetta. Tuttavia, durante il volo, era il computer di bordo ad applicare le dovute correzioni in base ai suoi sensori. Inoltre, il computer, fu essenziale nel controllo del motore (grazie alla funzione di pilota automatico) e nel gestire numerosi sottosistemi[40]. Senza il computer, gli astronauti non avrebbero potuto far scendere il modulo lunare sulla Luna, perché solo con esso era possibile ottimizzare il consumo di carburante al fine di soddisfare i bassi margini disponibili.

La ricerca dell'affidabilità. Fin dall'avvio del programma, la NASA dovette dimostrare molta attenzione al problema relativo dell'affidabilità dei complessi sistemi che si apprestava a progettare. Inviare degli astronauti sul suolo lunare è infatti un'operazione assai più rischiosa di un volo in orbita terrestre dove, in caso di problemi, il rientro verso la Terra può essere attuato in tempi brevi grazie all'accensione dei retrorazzi. Diversamente, una volta che la navetta spaziale ha lasciato l'orbita, la possibilità di far ritorno a Terra è strettamente vincolata al corretto funzionamento di tutti i principali sottosistemi. In maniera empirica, la NASA, stabilì che le missioni avrebbero dovuto avere una probabilità di successo del 99% e che la possibile perdita dell'equipaggio dovesse essere inferiore allo 0,1%. Questi valori non tennero però conto dei possibili impatti con micrometeoriti e degli effetti dei raggi cosmici (in particolare nell'attraversamento delle fasce di van Allen), allora poco conosciuti. La progettazione dei sottosistemi e dei componenti di base dei vari veicoli utilizzati per il programma necessitava, pertanto, di raggiungere tali obbiettivi. Apollo 15 poco prima dell'ammaraggio, si noti che un paracadute non si è dispiegato completamente tuttavia il corretto funzionamento degli altri due non ha compromesso la sicurezza. Tali requisiti furono raggiunti grazie alle diverse opzioni tecniche che vennero scelte. Ad esempio, uno dei sistemi più critici fu quello relativo ai sistemi di propulsione primari. Se il motore principale (sia del modulo lunare che del modulo di comando) si fosse reso inutilizzabile, la nave spaziale non avrebbe potuto lasciare la Luna o correggere la rotta verso la Terra, con la conseguente perdita certa dell'equipaggio. Per rendere i motori affidabili, fu scelto di utilizzare propellenti ipergolici in cui la combustione avveniva in maniera spontanea quando messi a contatto e non grazie ad un sistema di accensione che poteva non funzionare. Inoltre, la pressurizzazione dei combustibili avveniva grazie a dei serbatoi di elio e questo permetteva di eliminare l'uso di fragili e complesse turbopompe. Inizialmente la NASA previde inoltre di dare agli astronauti la possibilità di effettuare riparazioni durante la missione. Questa scelta fu però abbandonata nel 1964 in quanto comportava sia la formazione degli astronauti in sistemi particolarmente complessi sia il dover rendere facilmente accessibili i sistemi esponendoli di fatto a possibili contaminazioni. Una strategia che fu adottata per rendere la navetta il più affidabile possibile fu quella di fare largo uso della cosiddetta ridondanza. Infatti furono previsti numerosi sottosistemi di backup in grado di sostituire eventuali componenti danneggiati. Ad esempio, il sistema di navigazione (computer e sistema inerziale) del modulo lunare fu raddoppiato da un altro sviluppato da un altro produttore per garantire che non ci fosse lo stesso difetto che potesse rendere entrambi i sistemi inoperativi. I motori di controllo di assetto (RCS, reaction control system) erano indipendenti e realizzati a coppie, ognuna delle quali in grado di funzionare indipendentemente. Il sistema di controllo termico e i circuiti di potenza furono a loro volta doppi mentre l'antenna di telecomunicazione in banda S poteva essere sostituita da due antenne più piccole in caso di guasto. Non fu, tuttavia, prevista alcuna possibile soluzione nello sfortunato caso di un guasto ai motori principali (sia del modulo lunare che del modulo di servizio/comando): solo dei test approfonditi e realizzati con un massimo di realismo poterono permettere il raggiungimento del livello di affidabilità richiesto.

I componenti del programma. Il razzo vettore Saturn. Uno dei punti centrali nella fase di sviluppo fu quello relativo al razzo vettore. Furono realizzati tre razzi appartenenti alla famiglia Saturn: Saturn I che permise di testare il sistema di controllo e la miscela dei due propellenti, ossigeno ed idrogeno liquidi; Saturn IB con cui furono svolti i primi test della navicella Apollo in orbita terrestre e, infine, l'imponente Saturn V capace di fornire la spinta necessaria per raggiungere la Luna e il cui rendimento eccezionale non è mai stato superato. Lo sviluppo dei Saturn iniziò prima ancora del programma e della creazione della NASA. A partire dal 1957, infatti, il Dipartimento della Difesa (DoD) statunitense individuò la necessità di un lanciatore pesante in grado di mandare in orbita satelliti per ricognizioni e telecomunicazioni pesanti fino a 18 tonnellate. Commissionò quindi a Wernher von Braun ed alla sua squadra di ingegneri, un lanciatore che arrivasse a tali prestazioni. Nel 1958 la NASA, appena creata, individuò nello sviluppo dei lanciatori un fattore chiave dell'impresa spaziale e l'anno seguente ottenne il trasferimento di Von Braun e dei suoi collaboratori presso il Marshall Space Flight Center, la cui direzione fu affidata a Von Braun stesso. Quando Kennedy fu eletto alla Casa Bianca all'inizio del 1961, le configurazioni del veicolo di lancio Saturn erano ancora in definizione. Tuttavia, nel luglio dell'anno successivo, l'azienda Rocketdyne avviò gli studi per il motore ad idrogeno e ossigeno J-2 capace di una spinta di 89 tonnellate, mentre, contemporaneamente, continuò lo sviluppo del motore F-1, che avrebbe fornito ben 677 tonnellate di spinta e che sarebbe stato utilizzato nel primo stadio del razzo. Alla fine del 1961, il progetto per il Saturn V era ormai definito: il primo stadio del vettore sarebbe stato equipaggiato con cinque F-1 (alimentati a ossigeno liquido e cherosene super raffinato RP1), il secondo con altrettanti motori J-2 e il terzo con un ulteriore J-2, per il quale fu prevista la possibilità di essere riacceso, caratteristica unica per gli endoreattori dell'epoca. Il lanciatore, nel suo complesso, era in grado di inserire 113 tonnellate in orbita bassa e inviarne 41 in direzione della Luna. Oltre al Saturn V furono sviluppati due modelli più piccoli, necessari per i primi test del progetto:

C-1 (o Saturn I) usato per testare i modelli della navicella Apollo, che fu composto da un primo stadio equipaggiato da otto motori H-1 e da un secondo con sei RL-10;

C-1B (o Saturn IB), utilizzato per i test della navicella Apollo in orbita terrestre, fu costituito dal primo stadio del C-1 coronato dal terzo stadio del C-5.

Alla fine del 1962 fu scelto lo scenario del rendezvous in orbita lunare (LOR) e fu approvato definitivamente il Saturn V terminando così gli studi di programmi alternativi (come quelli sul razzo Nova).

La Navicella spaziale Apollo. La navicella spaziale Apollo (o Modulo di Comando e Servizio, abbreviato CSM) ebbe il compito di trasportare l'equipaggio sia all'andata che al ritorno garantendogli tutto il necessario per il supporto vitale e per il controllo del volo. Di peso poco superiore a 30 tonnellate fu quasi dieci volte più pesante del veicolo spaziale Gemini. La massa extra (21,5 tonnellate) fu in gran parte costituita dal motore e dal propellente, necessari per fornire un delta-v di 2 800 m/s e consentire alla navicella il completamento della missione. Alla navicella Apollo era data un'architettura simile a quella già utilizzata per le Gemini: un modulo di comando (CM) ospitava l'equipaggio ed era dotato dello scudo termico necessario al rientro nell'atmosfera; un modulo di servizio (SM) conteneva il motore principale, il propellente, le fonti di energia e le attrezzature necessarie per la sopravvivenza degli astronauti. Il modulo di servizio veniva sganciato poco prima del rientro nell'atmosfera terrestre. Al modulo di comando veniva poi agganciato in orbita il modulo lunare (LEM), che permetteva a due astronauti di scendere sulla Luna. Anche il LEM era composto da due stadi: il primo, contenente i motori per la discesa, era abbandonato sulla superficie lunare al momento della partenza; il secondo, nel quale erano ospitati gli astronauti, disponeva di un secondo motore che permetteva di abbandonare la superficie lunare e di raggiungere, a conclusione della missione, il modulo di comando in orbita intorno alla Luna. Il modulo di comando era la sezione della navicella Apollo dove i tre astronauti trovavano alloggio durante la missione, fatta eccezione per il periodo in cui due di loro scendevano sulla Luna con il modulo lunare. Esso aveva un peso di 6,5 tonnellate e una forma conica. Le pareti del modulo di comando erano costituite da due pannelli sandwich. quello interno era realizzato con pelli in alluminio e core in materiale isolate e delimitava la cabina pressurizzata; quello esterno era realizzato con pelli in acciaio inossidabile e core a nido d'ape nello stesso materiale. La sua parete esterna era ricoperta dallo scudo termico che presentava un diverso spessore in base all'esposizione a cui sarebbe stata sottoposta la parte durante il rientro in atmosfera terrestre. Lo scudo termico, di tipo ablativo, era realizzato con un materiale composito costituito da fibre di silice in una matrice di resina epossidica. Lo spazio pressurizzato rappresenta un volume di 6,5 m³. Gli astronauti erano posizionati su tre lati su seggiolini paralleli con il fondo del cono. Di fronte a loro era posto un pannello di 2 metri di larghezza e 1 di altezza con i comandi e gli interruttori principali. Le strumentazioni erano distribuite a seconda del ruolo che l'astronauta aveva nella missione. Sulle pareti erano posti gli strumenti per la navigazione, pannelli di controllo più specifici e le aree per lo stoccaggio degli alimenti e dei rifiuti. Per la navigazione gli astronauti utilizzavano un telescopio e un computer che analizzava i dati provenienti da una piattaforma inerziale.

La navetta disponeva di due portelli, uno situato sulla punta del cono e raggiungibile con un tunnel ed utilizzato per trasferire gli astronauti nel modulo lunare quando questo era agganciato e l'altro posto di fianco e utilizzato per entrare e uscire dalla navetta sulla Terra nonché per permettere le attività extraveicolari nello spazio (per farlo era necessario creare il vuoto in tutta la cabina). Gli astronauti avevano inoltre a disposizione 5 finestrini utilizzati per le osservazioni e per le manovre di rendezvouscon il modulo lunare. Nonostante il modulo di comando dipendesse da quello di servizio sia per l'energia che per le manovre importanti, esso possedeva comunque un sistema di controllo RCS autonomo (comprendente 4 gruppi di piccoli motori ipergolici) e di un proprio sistema di supporto vitali, entrambi utilizzati quando il modulo di servizio era abbandonato poco prima del rientro. Il Modulo di Servizio (SM o "Service module" in inglese) era un cilindro di 5 metri di lunghezza per 3,9 metri di diametro, del peso di 24 tonnellate, non pressurizzato e realizzato in alluminio. Alla base era presente il motore principale in grado di fornire oltre 9 milioni di libbre di spinta. Accoppiato dal lato opposto con il modulo di comando, all'interno conteneva i serbatoi di elio(utilizzato per pressurizzare i serbatoi dei propellenti), tre celle a combustibile, serbatoi di ossigeno e di propellente. Disponeva inoltre di apparecchiature per le comunicazioni, strumenti scientifici (a seconda della missione), un piccolo satellite, macchine fotografiche, un serbatoio di ossigeno supplementare e di radiatori utilizzati per disperdere il calore in eccesso scaturito dalle apparecchiature elettriche e regolare la temperatura della cabina. Tra le apparecchiature per le comunicazioni, un'antenna in banda S che garantiva le trasmissioni anche quando la navetta era molto lontana dalla Terra. Sopra il complesso modulo di servizio/comando era posto, durante il lancio, il Launch Escape System (LES o torre di salvataggio) che permetteva di separare la cabina (dove vi erano gli astronauti) dal razzo vettore, nella eventualità di problemi durante il lancio. Una volta in orbita, terminata la sua utilità, il LES veniva espulso.

Il modulo lunare. Il modulo lunare Apollo era suddiviso su due stadi: quello inferiore serviva per far atterrare il complesso sulla Luna e come piattaforma di lancio per il secondo stadio che aveva il compito di ospitare i due astronauti e che poi li avrebbe accompagnati nella fase di ascesa verso il modulo di comando al termine della loro permanenza sulla Luna. La sua struttura era realizzata sostanzialmente in una lega di alluminio, realizzata in due strati separati da materiale isolante, scelta per la sua leggerezza. I pezzi erano per lo più saldati ma in certi casi anche uniti per mezzo di rivetti.

Stadio di discesa. Lo stadio di discesa del modulo lunare pesava oltre 10 tonnellate ed era di forma ottagonale con un diametro di 4,12 metri e un'altezza di 1,65 metri. La sua funzione principale era quella di portare il modulo sulla Luna. Per fare questo, nel pavimento è presente un motore a razzo pilotabile e dalla spinta variabile. La modulazione della spinta era necessaria per ottimizzare il percorso di discesa, risparmiare propellente e principalmente permettere un atterraggio dolce. L'ossidante era costituito da tetraossido di diazoto (5 tonnellate) e il combustibile da idrazina (3 tonnellate), stoccati in quattro serbatoi collocati in scomparti quadrati situati intorno alla struttura. Il vano motore si trovava in posizione centrale.

Stadio di ascesa. Lo stadio di ascesa pesava circa 4,5 tonnellate. La sua forma era complessa e inusuale per un velivolo, ma essa era studiata per l'ottimizzazione dello spazio occupato e non richiedeva alcuna caratteristica aerodinamica in quanto era progettato per volare solamente nel vuoto dello spazio. Era composto principalmente da una cabina pressurizzata che ospitava, in un volume di 4,5 m³, i due astronauti e da un motore, utilizzato durante l'ascensione, con i suoi serbatoi di propellente. Gli astronauti, con il pilota a sinistra verso la parte anteriore, lo pilotavano in piedi, tenuti in posizione da bretelle. Sulla paratia anteriore ogni astronauta aveva davanti a sé una piccola finestra triangolare inclinata verso il basso che permetteva di osservare il suolo lunare con una buona angolazione. Davanti a sé e al centro gli astronauti avevano gli strumenti di controllo e navigazione, alcuni raddoppiati per entrambe le postazioni, mentre altri erano suddivisi a seconda del ruolo e dei compiti assegnati. Altri pannelli di controllo e i pannelli dei fusibili si trovavano su entrambe le pareti laterali. Il pilota aveva, inoltre, sulla propria testa un piccolo oblò che gli consentiva di controllare la manovra di aggancio con il modulo di comando. La parte posteriore della cabina pressurizzata era molto più piccola (1,37 x 1,42 m per 1,52 m di altezza) con le pareti laterali occupate da armadi e con a sinistra il sistema di controllo ambientale. La botola posta sul soffitto era utilizzata per passare nel modulo di comando mediante un breve tunnel (80 cm di diametro, 46 cm di lunghezza). Le forze che si sviluppavano al momento dell'aggancio e che potevano distorcere il tunnel erano smorzate da travi che interessavano l'intera struttura. Quando gli astronauti dovevano lasciare il LEM per scendere sulla superficie lunare depressurizzavano la cabina creando il vuoto e una volta rientrati la ripressurizzavano mediante le riserve di ossigeno. Questo perché implementare un airlock avrebbe aggiunto un peso eccessivo. Per scendere sulla Luna si doveva scivolare in una botola che si affacciava su una piccola piattaforma orizzontale che portava alla scaletta.

Strumenti scientifici, veicoli e equipaggiamenti. Per il programma spaziale Apollo, la NASA aveva sviluppato alcuni strumenti scientifici, attrezzature e veicoli da utilizzare sulla superficie lunare. Alcuni dei principali sono:

Il Rover lunare, utilizzato a partire dalla missione Apollo 15 era un veicolo a propulsione elettrica, alimentato a batterie, in grado di raggiungere la velocità di 14 chilometri all'ora. La sua autonomia gli permetteva di percorrere circa dieci chilometri ed aveva un carico utile di 490 kg.

L'ALSEP era un insieme di strumenti scientifici installati dagli astronauti intorno ad ogni sito di allunaggio dall'Apollo 12 in poi. Era alimentato da un generatore termoelettrico a radioisotopi e comprendeva un sismometro attivo ed uno passivo, uno spettrometro di massa, un riflettore laser, dei termometri, un gravimetro, un magnetometro ed altri strumenti utilizzati per caratterizzare l'ambiente lunare e la sua interazione con il vento solare. Gli ALSEP hanno continuato a fornire informazioni fino al loro arresto nel 1977.

La tuta spaziale (modello Apollo A7L) indossata dagli astronauti aveva un peso di 111 kg compreso il sistema di supporto vitale. Essa era stata appositamente progettata per le lunghe escursioni sul suolo lunare (più di sette ore per gli equipaggi di Apollo 15, 16 e 17) durante le quali gli astronauti si muovevano in un ambiente ostile, con temperature estreme, possibili micrometeoriti, presenza di polvere lunare, ecc. e nonostante ciò dovevano compiere molti lavori che richiedevano anche una certa flessibilità.

Svolgimento di una missione lunare. Finestra di lancio e sito di allunaggio. Le sei missioni lunari Apollo furono pianificate in modo tale che gli astronauti tentassero l'allunaggio nelle prime fasi del giorno lunare (che ha una durata di 28 giorni terrestri). Avrebbero così beneficiato di una luce ottimale per individuare il campo di atterraggio (tra 10 e 15 gradi di elevazione sopra l'orizzonte, a seconda della missione) e di temperature relativamente moderate. Per rispettare queste condizioni, la finestra di lancio dalla Terra risultava essere ridotta ad un unico giorno al mese per ogni sito di allunaggio. I siti prescelti si trovarono sempre sulla faccia rivolta verso la Terra, in modo che non si verificasse l'interruzione delle comunicazioni con il centro di controllo, ma mai troppo lontani dalla fascia equatoriale della Luna al fine di ridurre il consumo di carburante.

Lancio e inserimento in orbita terrestre. Il razzo decollava dal complesso di lancio 39 del Kennedy Space Center. Il lancio del razzo di 3000 tonnellate era uno spettacolo particolarmente impressionante: i cinque motori del primo stadio venivano accesi quasi contemporaneamente e consumavano circa 15 tonnellate di carburante al secondo. Dopo che il computer aveva verificato che il motore aveva raggiunto la potenza nominale, il razzo veniva rilasciato dalla rampa di lancio, grazie a dei bulloni esplosivi. La prima fase di ascesa era molto lenta, si pensi che per lasciare completamente la rampa si impiegavano quasi dieci secondi. La separazione del primo stadio S1-C avveniva dopo 2 minuti e mezzo dal lancio, ad un'altitudine di 56 km e ad una velocità di Mach 8 (10.000 km/h). Poco dopo venivano accesi i motori del secondo stadio S-II e successivamente veniva espulsa la torre di salvataggio (LES) in quanto non serviva più, poiché il veicolo spaziale si trovava sufficientemente in alto per poter abbandonare il razzo vettore senza il suo utilizzo. Il secondo stadio era a sua volta rilasciato ad una quota di 185 km e quando aveva raggiunto una velocità di 24.000 km/h. Il terzo stadio, S-IVB, veniva quindi messo in funzione per 10 secondi al fine di raggiungere un'orbita circolare. L'orbita di parcheggio era dunque raggiunta undici minuti e mezzo dopo il decollo.

Viaggio verso la Luna. Raggiunta l'orbita bassa, la navicella Apollo (CSM e LEM) compiva un giro e mezzo intorno alla Terra, ancora agganciata al terzo stadio del razzo; quindi, una nuova accensione del motore inseriva il complesso in un'orbita di trasferimento verso la Luna. All'accensione corrispondeva un incremento della velocità di 3,040 m/s (10.000 km/h). Poco dopo la fine della accensione, il Modulo di Comando e Servizio (CSM) si staccava dal resto del complesso, compiva una rotazione di 180° ed agganciava il modulo lunare (LEM), ancora situato nel suo alloggiamento ricavato nel razzo. Controllato l'allineamento e pressurizzato il LEM, lo si estraeva, ad una velocità di 30 cm/s, grazie a delle molle pirotecniche situate sulla sua carenatura. Il terzo stadio, ormai vuoto, iniziava una traiettoria differente andando, a seconda della missione, in orbita solare o a schiantarsi contro la Luna. Durante il viaggio di 70 ore verso la Luna, potevano essere effettuate delle modifiche alla traiettoria al fine di ottimizzare il consumo finale di propellente. Sul veicolo era immagazzinata una quantità relativamente elevata di combustibile, superiore a quanto fosse necessario per compiere tali manovre. Soltanto il 5% del quantitativo presente a bordo, infatti, era effettivamente impiegato per le correzioni di rotta. La navetta, inoltre, era posta in lenta rotazione intorno al proprio asse longitudinale, in modo da limitare il riscaldamento, riducendo il periodo di esposizione diretta verso il Sole. In prossimità della Luna, veniva acceso il motore del modulo di servizio per frenare la navetta e metterla in orbita lunare. Nel caso che l'accensione non fosse riuscita, la navetta, dopo aver compiuto un'orbita intorno alla Luna, avrebbe ripreso autonomamente la via della Terra, senza dover utilizzare i motori. La scelta di questa traiettoria di sicurezza contribuì alla salvezza della missione Apollo 13. Poco dopo il motore del modulo di comando-servizio veniva azionato ulteriormente per posizionare il complesso su un'orbita circolare a 110 km di altezza.

Discesa e atterraggio sulla Luna. La discesa verso la Luna avveniva in gran parte grazie al sistema di guida, navigazione e controllo (PGNCS) controllato dal computer di bordo (LGC). Questo dispositivo era in grado sia di determinare posizione e traiettoria della navetta grazie ad un sistema inerziale e ad un sistema radar (funzione navigazione) e, calcolando il percorso da seguire mediante i suoi programmi pilota, dirigere la spinta e la potenza del motore (funzione guida). Il pilota del modulo lunare, tuttavia, avrebbe potuto agire in qualsiasi momento correggendo la rotta e al limite anche prendere pieno controllo della navetta. Tuttavia solo il sistema di navigazione era in grado di ottimizzare il consumo di propellente, che altrimenti sarebbe finito prima di aver toccato il suolo lunare.

L'abbassamento dell'orbita. In una prima fase la quota del LEM si riduceva da 110 a 15 km dalla superficie lunare, attraverso la trasformazione dell'orbita da circolare ad ellittica, con perilunio di 15 km ed apolunio di 110 km. Si aveva così il vantaggio di riuscire a ridurre la distanza dalla superficie lunare attraverso un solo breve impulso del motore, con un basso consumo del propellente. Il limite dei 15 km era stato scelto per evitare che la traiettoria finale si avvicinasse troppo al suolo. La fase aveva inizio quando due dei tre astronauti dell'equipaggio prendevano posto nel modulo lunare per scendere sulla Luna. Per prima cosa inizializzavano il sistema di navigazione e, una volta fatto, il modulo lunare e il modulo di comando-servizio si separavano. Quando la distanza tra i due avesse raggiunto alcune centinaia di metri, venivano azionati i motori del controllo di assetto del modulo lunare per orientare nella direzione del moto l'ugello del motore principale, che quando acceso, imprimeva una decelerazione che portava il LEM ad una velocità di circa 25 m/s. Dalla missione dell'Apollo 14, al fine di preservare ulteriore propellente del modulo lunare, il modulo di comando accompagnò il LEM nella sua orbita ellittica e lo sganciò appena prima dell'inizio della fase di discesa frenata.

La discesa frenata. Raggiunta la quota di 15 km, aveva inizio la fase di discesa frenata, caratterizzata dalla continua azione del motore di discesa del modulo lunare. Essa era ulteriormente decomposta in 3 fasi: la fase di frenata, la fase di approccio e la fase di atterraggio sulla superficie lunare.

La fase di frenata. La fase di frenata era il momento in cui si cercava di ridurre la velocità della nave spaziale nella maniera più efficace possibile: si passava infatti da 1.695 m/s a 150 m/s. Il motore veniva acceso al 10% della potenza per 26 secondi, per favorire l'allineamento della sospensione cardanica del sistema di propulsione con il centro di gravità del modulo lunare; dopodiché veniva spinto alla massima potenza. La traiettoria del modulo lunare, all'inizio della spinta, era quasi parallela al terreno, per poi gradualmente aumentare la velocità verticale di discesa da zero fino ai 45 m/s raggiunti al termine della fase. Ad una quota inferiore ai 12–13 km dalla superficie lunare, veniva attivato il radar di terra al fine di ricevere alcune informazioni (altitudine, velocità) che consentivano di verificare che il percorso fosse corretto. Fino a quel momento, infatti, la traiettoria era estrapolata utilizzando soltanto l'accelerazione misurata dal sistema inerziale. Un'eccessiva differenza tra le misure indicate dal radar e il percorso pianificato o il non funzionamento del radar stesso, sarebbero stati motivi per l'annullamento dell'allunaggio.

Fase di avvicinamento. La fase di avvicinamento iniziava a 7 km dal sito preventivato di allunaggio, mentre il modulo lunare si trovava ad un'altitudine di 700 metri dal suolo. Questa fase doveva permettere al pilota di individuare con precisione la zona dove atterrare e di scegliere il percorso più adatto, evitando i terreni più pericolosi (ad esempio cercando di evitare crateri). Il punto di partenza di questa fase era designato come "high gate", un termine in uso comune in aeronautica. Il modulo lunare veniva, quindi, gradualmente portato in posizione verticale, dando modo al pilota di avere una migliore visione del terreno. Era possibile individuare il punto di atterraggio a seconda del percorso intrapreso, grazie ad una scala graduata (Landing Point Designator, LPD) incisa su un finestrino. Se il pilota avesse ritenuto che il terreno non era favorevole per l'atterraggio o non era corrispondente al punto previsto, avrebbe potuto correggere l'angolo di approccio, agendo sui comandi di assetto con incrementi di 0,5° in verticale o 2° in laterale.

Atterraggio sul suolo lunare. Quando il modulo lunare era sceso ad un'altitudine di 150 metri, che lo posizionava teoricamente ad una distanza di 700 metri all'esatto punto scelto, iniziava la fase di atterraggio. Se la traiettoria era stata seguita correttamente, la velocità orizzontale e verticale sarebbero state rispettivamente di 55 km/h e 18 km/h. Era previsto che il pilota potesse pilotare il LEM in manuale oppure che ne lasciasse il controllo al computer di bordo, che disponeva di un programma relativo proprio a quest'ultima fase del volo. In funzione del propellente rimasto, il pilota poteva avere circa 32 secondi aggiuntivi per far eseguire al LEM ulteriori manovre, come cambiare il punto di allunaggio. Durante quest'ultima fase del volo, il modulo lunare poteva volare a punto fisso come un elicottero allo scopo di identificare meglio il sito. A 1,3 metri dal suolo, le sonde sotto le "zampe" di atterraggio del LEM toccavano il terreno e trasmettevano l'informazione al pilota, che doveva portare al minimo il motore per evitare che il LEM potesse rimbalzare o ribaltarsi (l'ugello quasi toccava il terreno).

La permanenza sulla Luna. La permanenza sulla Luna era caratterizzata dallo svolgimento di alcune attività extraveicolari: una sola per la missione Apollo 11 ma fino a tre per le ultime missioni. Prima di ogni uscita dal modulo lunare, i due astronauti presenti a bordo rifornivano d'acqua e ossigeno il loro sistema di supporto vitale portatile (il Primary Life Support System) che veniva poi inserito nella loro tuta spaziale. Dopo aver creato il vuotoall'interno del modulo lunare, veniva aperto il portellone che dava accesso alla scala esterna. Gli attrezzi e gli esperimenti scientifici che venivano utilizzati dagli astronauti durante la loro attività extraveicolare erano stivati nel modulo di discesa del LEM e da qui venivano estratti per essere piazzati attorno alla zona di allunaggio. A partire da Apollo 15, gli astronauti disponevano anche di un rover lunare, un veicolo che permise di allontanarsi fino ad una dozzina di miglia dal LEM e di trasportare carichi pesanti. Il rover fu anch'esso stivato nella base del modulo lunare di discesa, ripiegato su di un pallet. Grazie ad un sistema di molle e pulegge veniva dispiegato e reso pronto all'uso.
Prima di lasciare la Luna, i campioni geologici, collocati in contenitori, venivano issati, grazie all'utilizzo di un paranco, sul modulo di salita del LEM. Apparecchiature che non erano più necessarie (sistema portatile di sopravvivenza, telecamere, strumenti geologici, ecc.) venivano abbandonate per alleggerire la navetta durante la fase di risalita.

L'ascesa e il rendezvous in orbita lunare. Nella fase di ascesa il LEM raggiungeva il modulo di comando che era rimasto ad attenderlo in orbita lunare con a bordo un astronauta. L'obbiettivo veniva realizzato in due sottofasi: la prima consisteva nel decollo dal suolo lunare e nell'immissione in orbita lunare bassa; da qui iniziava la seconda che, utilizzando accensioni ripetute del motore a razzo e il sistema di controllo di assetto, portava il LEM ad allinearsi e agganciarsi al modulo di comando. Prima del decollo, al fine di determinare la traiettoria migliore era inserita nel computer di bordo la posizione precisa del LEM sulla superficie lunare. La base del LEM, ovvero il modulo di discesa, rimaneva sulla Luna e fungeva da rampa di lancio per il modulo superiore che, con a bordo gli astronauti, decollava. La separazione avveniva grazie a delle piccole cariche pirotecniche che tagliavano i quattro punti in cui i due moduli erano collegati, tranciando anche i cavi e i tubi. Dopo essere decollato, il modulo di ascesa compiva prima una traiettoria verticale per poi gradualmente inclinarsi al fine di raggiungere un'orbita ellittica di 15×67 km. Dopo l'aggancio tra le due navette, iniziava il trasferimento delle rocce lunari e degli astronauti dal LEM al modulo di comando-servizio. Dopo che ciò era stato concluso, il LEM, veniva sganciato e immesso in una traiettoria che lo avrebbe portato a schiantarsi sulla Luna. La navicella composta da modulo di comando e di servizio, con a bordo i tre astronauti, iniziava quindi il suo viaggio di ritorno verso la Terra. Apollo 16 e Apollo 17 rimasero in orbita lunare un giorno in più al fine di compiere alcuni esperimenti scientifici e di rilasciare un piccolo satellite, anch'esso per esperimenti, di 36 kg.

Ritorno sulla Terra. Per lasciare l'orbita lunare e immettere il veicolo spaziale su una traiettoria di ritorno verso la Terra, il motore principale del modulo di servizio doveva essere acceso per due minuti e mezzo e fornire un delta-v di circa 1.000 m/s. Questa era considerata una delle fasi più critiche, in quanto un malfunzionamento del motore o uno scorretto orientamento della spinta avrebbero condannato gli astronauti a morte certa. L'accensione del motore avveniva quando la navetta si trovava sul lato della Luna opposto alla Terra. Poco dopo essersi immessi nella corretta traiettoria di rientro, veniva eseguita un'attività extraveicolare per recuperare le pellicole fotografiche dalle fotocamere poste sull'esterno del modulo di servizio. Il viaggio di ritorno durava circa tre giorni, durante i quali venivano eseguite alcune correzioni di rotta per ottimizzare l'angolo di ingresso in atmosfera e il punto di ammaraggio. Il modulo di servizio veniva sganciato ed abbandonato poco prima dell'ingresso in atmosfera, portando con sé il motore principale e la maggior parte delle forniture residue di ossigeno e energia elettrica. Il rientro avveniva con un angolo ben preciso, fissato a 6,5° con una tolleranza massima di 1°. Se l'angolo di ingresso fosse risultato troppo grande, lo scudo termico, che era progettato per resistere a temperature di 3.000 °C, avrebbe subito un riscaldamento eccessivo e ciò avrebbe condotto al suo cedimento ed alla distruzione del veicolo. Se, viceversa, l'angolo fosse stato troppo basso, la navetta sarebbe rimbalzata sull'atmosfera portandosi in una lunga orbita ellittica che avrebbe condannato l'equipaggio a non poter fare più ritorno a Terra. Entrato in atmosfera, il modulo di comando subiva una decelerazione di 4 g, perdendo tutta la sua velocità orizzontale e scendendo con una traiettoria quasi verticale. A 7000 metri di altitudine, la protezione finale conica della navetta veniva espulsa e due piccoli paracadute venivano dispiegati per stabilizzarla e ridurre la sua velocità da 480 a 280 km/h. A 3000 metri, tre piccoli paracadute pilota venivano espulsi lateralmente per permettere di estrarre i tre principali che permettevano di completare dolcemente la discesa. La navetta ammarava nell'oceano ad una velocità di 35 km/h. Subito i paracadute venivano rilasciati e venivano gonfiati tre palloni per impedire che la nave si girasse a portare la punta sotto l'acqua. Nei pressi del punto di ammaraggio stazionavano delle navi da recupero che provviste di elicotteri raggiungevano l'equipaggio e lo trasportavano a bordo. Successivamente veniva recuperato anche il modulo di comando e issato sul ponte di una portaerei.

Le missioni. Il programma Apollo incluse undici voli con esseri umani a bordo, quelli tra la missione Apollo 7 e l'Apollo 17, tutti lanciati dalla rampa (PAD) 39A del John F. Kennedy Space Center, in Florida, ad eccezione di Apollo 10 che partì dalla rampa 39B.

La preparazione. Gli americani iniziarono il loro programma spaziale umano con il programma Mercury. Il suo obiettivo era però limitato a portare in orbita un uomo e senza aver la possibilità di compiere manovre. Il 12 giugno 1963 il programma era stato dichiarato terminato a favore di uno nuovo che sarebbe servito per mettere a punto alcune tecniche necessarie per poter raggiungere l'obbiettivo della discesa sulla Luna: il programma Gemini che, nonostante fosse stato annunciato dopo il programma Apollo, è considerato come "propedeutico" ad esso. Gemini prevedeva infatti di raggiungere tre obbiettivi da realizzarsi in orbita terrestre:

Mettere a punto i sistemi di manovra, localizzazione e rendezvous nello spazio;

Realizzare delle attività extraveicolari;

Studiare le conseguenze sulla fisiologia umana della lunga permanenza nello spazio.

Grazie ai successi del programma, la NASA poté quindi dotarsi delle conoscenze necessarie per poter effettuare missioni spaziali sempre più complesse. Tutto questo mentre la progettazione e i primi test dei mezzi del programma Apollo avevano già avuto inizio. Parallelamente allo sviluppo delle tecniche di volo spaziale umano, si procedette allo studio della Luna grazie a programmi di sonde automatiche. Il primo programma in tal senso fu il programma Ranger. Esso consistette nel lancio, tra il 1961 e il 1965, di nove sonde senza equipaggio, dotate di strumenti per la ricognizione fotografica della superficie lunare ad alta risoluzione. Successivamente fu intrapreso il programma Surveyor, che consistette nel lancio di sette lander lunari allo scopo di dimostrare la fattibilità di un allunaggio morbido. Il primo allunaggio fu realizzato il 2 giugno 1966 e fornì delle informazioni essenziali e precise sul suolo lunare. Tra il 1966 e il 1967 la mappatura della superficie lunare fu completata per il 99% grazie al programma Lunar Orbiter. Oltre a ciò, il programma permise di ricavare alcuni dati essenziali per una futura missione lunare, come ad esempio lo studio della frequenza ed entità d'impatti di micro meteoriti, e del campo gravitazionale lunare.

I primi test. I primi test realizzati all'interno del programma Apollo vertevano sul collaudo del Saturn I e in particolare del suo primo stadio. La prima missione in assoluto è stata la SA-1. Il 7 novembre 1963 fu effettuata la prima missione di collaudo del Launch Escape System (missione Pad Abort Test-1), sistema che permetteva di separare, durante il lancio, la navetta contenente l'equipaggio dal resto del razzo se si fosse presentata una situazione di pericolo. Durante la missione AS-201 fu utilizzato per la prima volta il Saturn IB, versione migliorata del Saturn I e capace di portare in orbita terrestre la navetta Apollo.

La tragedia dell'Apollo 1. Il programma subì un brusco rallentamento durante i preparativi della missione AS-204, che sarebbe dovuta essere la prima, in orbita terrestre, con equipaggio ad utilizzare un razzo Saturn IB. Il 27 gennaio 1967, gli astronauti erano entrati nella navetta posta in cima al razzo, sulla rampa di lancio 34 del KSC, al fine di compiere un'esercitazione. Probabilmente a causa di una scintilla originata da un cavo elettrico scoperto, la navetta prese velocemente fuoco, facilitato dall'atmosfera densa di ossigeno. Per l'equipaggio, composto dal pilota comandante Virgil Grissom, dal pilota maggiore Edward White e dal pilota Roger Chaffee, non ci fu scampo. A seguito di questo incidente la NASA e la North American Aviation (responsabile della fabbricazione del modulo di comando) intrapresero una serie di modifiche al progetto. La NASA decise in seguito di rinominare la missione in Apollo 1, in memoria del volo che gli astronauti avrebbero dovuto svolgere e non fecero mai. Dopo i tragici fatti di Apollo 1, la NASA decise di intraprendere alcune missioni prive di equipaggio. Si iniziò il 9 novembre 1967con Apollo 4 (ufficialmente non esistono missioni Apollo 2 e Apollo 3) in cui per la prima volta fu utilizzato il razzo Saturn V. Successivamente venne la volta di Apollo 5 (razzo Saturn IB) lanciato il 2 gennaio 1968 e di Apollo 6 (di nuovo Saturn V) il 4 aprile dello stesso anno, sempre prive di equipaggio. Queste missioni si conclusero con grande successo dimostrando la potenza e l'affidabilità del nuovo vettore Saturn V, il primo in grado di avere una potenza sufficiente per portare la navetta spaziale sulla Luna.

Voli di preparazione allo sbarco. La prima missione del programma Apollo a portare in orbita terrestre un equipaggio di astronauti fu l'Apollo 7, lanciato l'11 ottobre 1968. Gli astronauti Walter Schirra (comandante), Donn Eisele e Walter Cunningham rimasero per più di undici giorni in orbita, dove testarono il modulo di comando e di servizio. Nonostante alcuni problemi, la missione fu considerata un pieno successo. Gli ultimi incoraggianti risultati e la necessità di raggiungere il traguardo della Luna entro la fine del decennio, spinsero la NASA a pianificare il raggiungimento dell'orbita lunare nella missione successiva. Il 21 dicembre 1968 fu lanciata la missione Apollo 8 che per la prima volta raggiunse l'orbita lunare. Svolta dagli astronauti Frank Borman (comandante), James Lovell e William Anders, inizialmente avrebbe dovuto essere soltanto un test del modulo lunare in orbita terrestre. Essendo la realizzazione di quest'ultimo in ritardo, i vertici della NASA decisero di cambiare i piani. Il 1968, per gli Stati Uniti d'America, era stato un anno molto difficile: la guerra del Vietnam e la protesta studentesca, gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy avevano minato l'opinione pubblica ed il successo della missione permise alla popolazione americana di concludere l'anno con un'esperienza positiva. Il programma originario di Apollo 8 fu svolto da Apollo 9 (lanciata il 3 marzo 1969) che per la prima volta trasportò il modulo lunare e lo testò in condizioni reali, cioè nell'orbita terrestre. Durante la missione vennero eseguite la manovra rendezvous nonché di aggancio tra modulo di comando e modulo lunare. La missione fu un pieno successo e permise di testare ulteriori sottosistemi necessari per l'allunaggio, come ad esempio la tuta spaziale. Il modulo lunare Spider venne poi abbandonato in orbita terrestre, dove rimase fino al 1981 quando si disintegrò al rientro nell'atmosfera. La missione successiva, Apollo 10, fu nuovamente una missione che portò l'equipaggio vicino alla Luna. Lanciata il 18 maggio 1969 ebbe lo scopo di ripetere i test di Apollo 9, ma questa volta in orbita lunare. Vennero eseguite manovre di discesa, di risalita, di rendezvous e d'aggancio. Il modulo arrivò fino a 15,6 km dalla superficie lunare. Tutte le manovre previste furono correttamente compiute, anche se si rilevarono alcuni problemi giudicati facilmente risolvibili e che non avrebbero precluso l'allunaggio previsto con la missione successiva.

Le missioni lunari. Il 16 luglio 1969, decollò la missione che passerà alla storia: Apollo 11. Quattro giorni dopo il lancio, il modulo lunare, con a bordo il comandante Neil Armstrong e il pilota Buzz Aldrin (Michael Collins rimase per tutto il tempo nel modulo di comando) atterrò sul suolo lunare. Quasi sette ore più tardi, il 21 luglio, Armstrong uscì dal LEM e divenne il primo essere umano a camminare sulla Luna. Toccò il suolo lunare alle ore 2:56 UTC con lo scarpone sinistro. Prima del contatto pronunciò la celebre frase ascolta: «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l'umanità» (Neil Armstrong). Oltre che essere la concretizzazione del sogno di Kennedy di vedere un uomo sulla Luna prima della fine degli anni sessanta, l'Apollo 11 fu un test per tutte le successive missioni lunari. Armstrong scattò le foto che sarebbero servite ai tecnici sulla Terra a verificare le condizioni del modulo lunare dopo l'allunaggio. Successivamente raccolse il primo campione di terreno lunare e lo pose in una busta che mise nell'apposita tasca della sua tuta. Apollo 11 si concluse senza problemi, con il rientro avvenuto il 24 luglio 1969.

Apollo 12, lanciata il 14 novembre 1969, fu la seconda missione del programma ad allunare. Poco dopo il lancio, il razzo Saturn V, fu colpito per due volte da un fulmine. Gli strumenti andarono off-line ma ripresero a funzionare poco dopo e i danni furono limitati al guasto di 9 sensori di minore importanza e ciò non influenzò la missione in quanto tutto il resto era a posto e funzionava alla perfezione. A differenza di Apollo 11, questa missione allunò con altissima precisione, vicino alla sonda Surveyor 3 che gli astronauti riuscirono a raggiungere.

La missione Apollo 13 fu funestata da un'esplosione che compromise l'obiettivo dell'allunaggio. Decollata l'11 aprile 1970, dopo 55 ore di volo, il comandante Jim Lovell comunicò con il centro di controllo con la frase "Houston, we've had a problem" ("Houston, abbiamo avuto un problema"). In seguito a un rimescolamento programmato di uno dei quattro serbatoi dell'ossigeno presenti nel modulo di servizio, si verificò un'esplosione del medesimo con la conseguente perdita del prezioso gas. Il risultato fu che gli astronauti dovettero rinunciare a scendere sulla Luna ed iniziare un difficile e imprevedibile rientro sulla Terra, utilizzando i sistemi di sopravvivenza che equipaggiavano il modulo lunare. La Luna fu comunque raggiunta per poter utilizzare il suo campo gravitazionale per far invertire la rotta alla navetta (in quanto l'unico motore in grado di farlo, quello del modulo di servizio, era considerato danneggiato). Grazie alla bravura degli astronauti e dei tecnici del centro di controllo, Apollo 13 riuscì, non senza ulteriori problemi, a fare ritorno sulla Terra il 17 aprile. La missione fu considerata un "fallimento di grande successo"[86] in quanto l'obbiettivo della missione non fu raggiunto, ma la NASA si mise in luce per le capacità dimostrate nell'affrontare una situazione tanto critica. A seguito della missione di Apollo 13 ci fu una lunga indagine sulle cause dell'incidente che portò a una revisione completa della navicella Apollo.

Fu l'Apollo 14 a riprendere il programma di esplorazione lunare. La missione iniziò non troppo bene quando la delicata manovra di aggancio tra modulo di comando e modulo lunare dovette essere ripetuta sei volte. Il resto della missione si svolse senza particolari problemi e fu possibile effettuare l'allunaggio nei pressi del cratere di Fra-Mauro, meta originaria di Apollo 13. Qui l'equipaggio svolse numerosi esperimenti scientifici. Per la prima volta fu portato sulla Luna il Modular Equipment Transporter che però si dimostrò un vero e proprio fallimento in quanto non fu quasi possibile muovere il veicolo che sprofondava continuamente nella polvere lunare. Questo compromise la seconda passeggiata lunare che dovette essere interrotta prematuramente.

Il 26 luglio 1971 fu lanciata la missione Apollo 15 che introdusse un nuovo traguardo nell'esplorazione lunare, grazie ad un modulo lunare più duraturo e all'introduzione di un rover lunare. Sulla Luna David Scott e James Irwin realizzarono ben tre uscite, con la seconda lunga 7 ore e 12 minuti. Questa portò gli astronauti fino al Mount Hadley che si trova a circa 5 km di distanza dal punto di allunaggio. Un trapano decisamente migliorato in confronto a quelli delle precedenti missioni, consentì di prelevare dei campioni di roccia da oltre due metri di profondità. Durante la terza attività extraveicolare ci fu una breve commemorazione in onore degli astronauti deceduti e venne lasciata sul suolo lunare una statuetta di metallo denominata Fallen Astronaut.

Apollo 16 fu la prima missione ad atterrare negli altopiani lunari. Durante le tre attività extraveicolari effettuate furono percorsi rispettivamente 4,2 km, 11 km e 11,4 km con il rover lunare che fu portato a una velocità di punta di 17,7 km/h. Vennero raccolti diversi campioni di rocce lunari, di cui uno da 11,3 kg, che rappresenta il più pesante campione mai raccolto dagli astronauti dell'Apollo.

Apollo 17, lanciato il 17 dicembre 1972, fu la missione con cui si chiuse il programma. Fu caratterizzata dall'inedita presenza di uno scienziato-astronauta: il geologo Harrison Schmitt.

Conclusione del programma e costi. Originariamente erano state pianificate altre 3 missioni, le Apollo 18, 19 e 20. Ma a fronte dei tagli al budget della NASA, e della decisione di non produrre una seconda serie di missili Saturn V, queste missioni vennero cancellate e i loro fondi ridistribuiti per lo sviluppo dello Space Shuttle e per rendere disponibili i Saturn V al programma Skylab anziché a quello Apollo. Già nel 1968 vennero previste una serie di missioni, denominate in seguito Apollo Applications Program, che avrebbero dovuto utilizzare, per almeno 10 voli, il surplus di materiali e componenti prodotti per i voli cancellati. Le missioni sarebbero state prevalentemente a carattere scientifico. Nulla di tutto ciò fu effettivamente fatto e dei tre razzi Saturn V rimasti dopo Apollo 17, solo uno venne parzialmente riutilizzato, gli altri sono in mostra in musei. Il progetto del Apollo Telescope Mount, basato sul LEM e destinato a voli con il modulo di comando-servizio su razzi Saturn IB, fu successivamente utilizzato come componente dello Skylab, che risultò essere l'unico sviluppo del programma di applicazioni dell'Apollo. Alla conclusione del programma, inoltre, le apparecchiature dell'Apollo non vennero più riutilizzate, a differenza della navicella sovietica Sojuz, originariamente progettata per entrare in orbita lunare, i cui derivati servono ancora la Stazione Spaziale Internazionale. Tra i principali motivi che portarono alla decisione di chiudere il programma Apollo, ci fu sicuramente il calo di interesse da parte dell'opinione pubblica e l'elevato costo del suo mantenimento. Quando il presidente Kennedy annunciò l'intenzione di intraprendere un programma per scendere sulla Luna venne fatto un preliminare di costo di 7 miliardi di dollari ma si trattava di una stima difficilmente determinabile e James Webb, amministratore della NASA, cambiò le previsioni in 20 miliardi. La stima di Webb destò molto scalpore all'epoca ma a posteriori risultò la più accurata. Il costo finale del programma Apollo fu annunciato durante un congresso nel 1973 ed è stato calcolato in 25,4 miliardi di dollari. Questo include tutti i costi di ricerca e sviluppo, la costruzione di 15 razzi Saturn V, 16 moduli di comando e servizio, 12 moduli lunari, oltre lo sviluppo dei programmi di supporto e amministrazione.

Significato del programma Apollo. Ritorni tecnologici. Il programma Apollo ha stimolato molti settori tecnologici. Il progetto dei computer di bordo usati negli Apollo fu infatti la forza trainante dietro le prime ricerche sui circuiti integrati, la cella a combustibile utilizzata nel programma fu di fatto la prima in assoluto. Uno dei settori industriali che più ha beneficiato delle ricadute tecnologiche del programma spaziale Apollo è stato quello dell'industria del metallo. Essa ha dovuto, infatti, soddisfare requisiti sempre più stringenti (leggerezza, resistenza alla sublimazione, alle vibrazioni, al calore) raggiunti con l'adozione di nuove tecniche di saldatura al fine di ottenere parti senza difetti. L'uso della fresatura chimica, che in seguito diventerà un processo essenziale per la fabbricazione di componenti elettronici, è stato ampiamente utilizzato. Si sono, inoltre, dovute realizzare nuovi tipi di leghe e materiali compositi. Nuovi strumenti di misura sempre più precisi, affidabili e veloci furono installati nelle navette spaziali; inoltre la necessità di monitorare la salute degli astronauti fece sì che si realizzassero nuove strumentazioni biomediche. Infine, la realizzazione stessa del complesso programma permise di affinare le tecniche per lo studio di fattibilità e di svilupparne di nuove per la gestione dei progetti: CPM, WBS, gestione metriche di progetto, revisione, controllo della qualità. Il programma Apollo ha contribuito notevolmente anche allo sviluppo dell'informatica: i vari gruppi di lavoro, fra i quali la divisione di ingegneria del software del MIT guidata da Margaret Hamilton, dovettero sviluppare linguaggi di programmazione e algoritmi dal forte impatto sugli sviluppi successivi dell'informatica. Inoltre, nell'ambito del progetto fu avviato l'uso di circuiti integrati: durante lo sviluppo dell'Apollo Guidance Computer il MIT ne ha utilizzato circa il 60% della disponibilità mondiale. Il programma è costato agli Stati Uniti d'America miliardi di dollari ma si stima che le ricadute tecnologiche abbiano prodotto almeno 30.000 oggetti e che per ogni dollaro speso dalla NASA ne siano stati prodotti almeno tre. Inoltre la quasi totalità degli appalti venne vinta da imprese statunitensi e quindi il denaro speso dal governo rimase all'interno dell'economia statunitense. Anche dal punto di vista economico, quindi, il programma fu un successo.

Impatto sulla società. Il programma Apollo è stato motivato, almeno parzialmente, da considerazioni psicopolitiche, in risposta alle percezioni persistenti di inferiorità americana nella corsa allo spazio nei confronti dei sovietici, nel contesto della guerra fredda. Da questo punto di vista il programma, è stato un brillante successo, in quanto gli Stati Uniti superarono i rivali nei voli spaziali con equipaggio umano già con il programma Gemini. Molti astronauti e cosmonauti hanno commentato come il vedere la Terra dallo spazio abbia avuto su di loro un effetto molto profondo. Una delle eredità più importanti del programma Apollo è stata quella di dare della Terra una visione (ora comune) di pianeta fragile e piccolo, impresso nelle fotografie fatte dagli astronauti durante le missioni lunari. La più famosa di queste fotografie è stata scattata dagli astronauti dell'Apollo 17, la cosiddetta Blue Marble (biglia blu).

Il programma Apollo nei media. Il 20 luglio 1969, circa 600 milioni di persone, un quinto della popolazione mondiale dell'epoca, assistettero in diretta televisiva ai primi passi sulla Luna di Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Mentre quasi tutti i commentatori sono d'accordo sul fatto che questa è stata una pietra miliare nella storia dell'umanità, da alcuni sono state sollevate obiezioni sulla sua utilità e sul conseguente sperpero di denaro pubblico, in particolare da parte di alcuni rappresentanti della comunità afro-americana come Ralph Abernathy. La frase di Neil Armstrong, "È un piccolo passo... ", è diventata immediatamente famosa e ripresa da numerose testate giornalistiche. L'interesse sul programma spaziale svanì però rapidamente dopo Apollo 11, tanto che la missione successiva ebbe un riscontro mediatico notevolmente al di sotto delle aspettative. Diversamente andò per la missione Apollo 13 che, partita anch'essa con poca attenzione da parte del pubblico, successivamente catalizzò l'attenzione dei media a causa dell'incertezza sul destino dell'equipaggio. Anche il cinema ha celebrato il programma Apollo. Uno dei film di maggior successo è stato Apollo 13, del 1995 e diretto da Ron Howard, che ricostruisce le peripezie dell'omonima missione. Nel 2000 invece è stato prodotto il film The Dish che racconta la storia del radiotelescopio australiano situato nella cittadina di Parkesche mandò in televisione le immagini del primo sbarco dell'Apollo 11. Fotografie, video e altro materiale relativo al programma sono disponibili in pubblico dominio sul sito web ufficiale della NASA.

Campioni lunari riportati. Il programma Apollo ha riportato a terra 381,7 kg di campioni lunari (pietre e altro materiale dalla Luna), molti di questi sono conservati al Lunar Sample Laboratory Facility di Houston. Grazie alla datazione radiometrica, si è appreso che le rocce raccolte sulla Luna sono molto più vecchie rispetto alle rocce trovate sulla Terra. Si va dall'età di circa 3,2 miliardi di anni per i campioni basaltici prelevati nei mari lunari ai circa 4,6 miliardi per i campioni provenienti dagli altopiani. Esse rappresentano campioni provenienti da un periodo molto precoce dello sviluppo del Sistema solare e che sono in gran parte mancanti sulla Terra. Un'interessante roccia raccolta durante la missione Apollo 15 è una anortosite (chiamata Genesis Rock) composta quasi esclusivamente da calcio e si crede che sia rappresentativo della superficie degli altopiani. Quasi tutte le rocce mostrano segni d'impatto. Ad esempio molti campioni sembrano essere stati sbriciolati da micrometeoriti, una cosa mai notata sulla Terra a causa della sua atmosfera spessa. L'analisi della composizione dei campioni lunari ha sostenuto l'ipotesi che la Luna si sia formata in seguito ad un impatto tra la Terra e un corpo astronomico molto grande.

Missione: Apollo 11 Quantità: 22 kg

Missione: Apollo 12 Quantità: 34 kg

Missione: Apollo 14 Quantità: 43 kg

Missione: Apollo 15 Quantità: 77 kg

Missione: Apollo 16 Quantità: 95 kg

Missione: Apollo 17 Quantità: 111 kg

Dopo il successo del programma Apollo, sia la NASA che le grandi imprese appaltatrici, studiarono diverse applicazioni per utilizzare i vari componenti dell'Apollo. Questi studi presero il nome di Apollo Applications Program. Di tutti i piani preventivati, solo due furono effettivamente realizzati: la stazione spaziale Skylab e l'Apollo-Soyuz Test Project.

Teorie del complotto. In seguito alla conclusione del programma Apollo, nacquero alcune teorie (dette anche Moon Hoax in inglese) la cui tesi è che l'uomo non avrebbe mai raggiunto il suolo lunare e che la NASA avrebbe falsificato le prove degli allunaggi, in una cospirazione organizzata assieme al governo degli Stati Uniti, riuscendo a convincere tutto il mondo scientifico, tecnico e giornalistico, nonché il mondo sovietico, all'epoca diretto rivale nella corsa sulla Luna. La teoria del complotto, che gode di una certa popolarità negli Stati Uniti a partire dal 1976, sostiene che i vari allunaggi presentati all'opinione pubblica mondiale sarebbero stati messi in scena in uno studio televisivo con l'aiuto degli effetti speciali. Coloro che guardano con incredulità alle missioni lunari dell'Apollo hanno analizzato un'enorme mole di dati scientifici e tecnici, materiale video, audio e fotografico riportato sulla Terra, ma non sono mai riusciti a dimostrare la veridicità delle proprie teorie, ad ulteriore confutazione delle quali esistono inoltre delle prove indipendenti sull'allunaggio dell'Apollo, oltre al fatto che nessun autorevole scienziato o tecnico abbia mai aderito ad essa. A ulteriore prova a favore del programma, nel 2008, la sonda SELENE della Agenzia Spaziale Giapponese ha eseguito delle osservazioni sulla zona di allunaggio di Apollo 15, trovando delle prove della sua presenza. Nel 2009 la sonda robotica della NASA Lunar Reconnaissance Orbiter, da un'orbita a 50 km dalla superficie, ha raccolto immagini dei resti di tutte le missioni lunari Apollo. Nel settembre 2011 la sonda Lunar Reconnaissance Orbiter è scesa fino ad una distanza di soli 25 km dalla superficie, inviando nuove immagini ad alta definizione dei siti degli allunaggi.

I tentativi di ritorno sulla Luna. Il 20 luglio 1989, per il 20º anniversario dello sbarco di Apollo 11, il presidente statunitense George H. W. Bush ha lanciato un ambizioso programma denominato Space Exploration Initiative (SEI), che avrebbe portato all'installazione di una base permanente sulla Luna. Il suo costo stimato, la mancanza di sostegno nell'opinione pubblica e le forti riserve del Congressohanno però fatto fallire il progetto. Nel 2004, suo figlio George W. Bush ha reso pubblici gli obiettivi a lungo termine per il programma spaziale, nel momento che il disastro del Columbia e il prossimo completamento della Stazione Spaziale Internazionale imponevano scelte per il futuro. Il progetto, denominato Vision for Space Exploration metteva l'esplorazione umana dello spazio come obiettivo principale e preventivava un ritorno sulla Luna nel 2020 per la preparazione di una successiva missione umana su Marte. Questa volta il parere del Congresso fu favorevole e questo programma prese il nome di Constellation. La mancanza di adeguati finanziamenti e il parere degli esperti tecnici riuniti in una commissione appositamente creata, hanno però portato il presidente Barack Obama, nel febbraio 2010, a cancellare il programma.

Gli uomini che sono stati sulla luna.

Missione: Apollo 11.

1. Neil Armstrong alle ore 02:56 UTC del 21 luglio 1969;

2. Buzz Aldrin alle ore 03:15 UTC dello stesso giorno;

Missione: Apollo 12.

3. Pete Conrad alle ore 11:44 UTC del 19 novembre 1969;

4. Alan Bean alle ore 12:13 UTC dello stesso giorno;

Entrambi svolsero una seconda EVA (Extra-vehicular activity, Attività Extra Veicolare):

Conrad a partire dalle ore 03:59 UTC del 20 novembre 1969 e

Bean a partire dalle ore 04:06 UTC dello stesso giorno;

Missione: Apollo 14.

5. Alan Shepard alle ore 14:53 UTC del 5 febbraio 1971;

6. Edgar Mitchell alle ore 14:58 UTC dello stesso giorno;

La seconda EVA iniziò per:

Shepard alle ore 08:16 UTC del 6 febbraio 1971 e

Mitchell alle ore 08:23 dello stesso giorno;

Missione: Apollo 15.

7. David Scott alle ore 13:12 UTC del 31 luglio 1971;

8. James Irwin immediatamente dopo.

Per la prima volta fu prevista l'esecuzione di tre EVA's:

Seconda EVA iniziata alle ore 11:48 UTC del 1º agosto 1971 e

Terza EVA iniziata alle ore 08:52 del 2 agosto 1971.

Missione: Apollo 16.

9. John W. Young alle ore 16:47 UTC del 21 aprile 1972;

10. Charles Duke immediatamente dopo.

Anche durante questa missione vennero eseguite ulteriori due EVA's:

Seconda EVA iniziata alle ore 16:33 del 22 aprile 1972 e

Terza EVA iniziata alle ore 15:25 del 23 aprile 1972.

Missione: Apollo 17.

11. Eugene "Gene" Cernan alle ore 23:54 UTC dell'11 dicembre 1972;

12. Harrison "Jack" Schmitt immediatamente dopo.

Vennero eseguite ulteriori due EVA's:

La seconda con inizio alle ore 23:28 UTC del 12 dicembre 1972 e

la terza con inizio alle ore 22:25 UTC del 13 dicembre.

Schmitt fu il dodicesimo ed ultimo nuovo astronauta a porre il suo piede sulla Luna. L'ultimo a lasciarla invece fu il comandante della missione Cernan, rientrato a bordo del modulo lunare poco dopo il collega. Erano le 05:40 UTC del 14 dicembre 1972. Fino alla data odierna nessun essere umano ha più camminato sulla Luna.

50 cose sui 50 anni dell’uomo sulla Luna. Una lista per raccontare, capire e celebrare un'impresa che sembra incredibile ancora oggi. Emanuele MeniettiSabato 20 luglio 2019 su Il Post. Il 20 luglio di 50 anni fa, accadde una cosa mai successa prima nella storia dell’umanità: tre esseri umani raggiunsero la Luna e per la prima volta due di loro camminarono su un corpo celeste diverso dalla Terra. A mezzo secolo di distanza, la storia dell’equipaggio dell’Apollo 11 sembra ancora incredibile come in quell’estate del 1969, quando tutto il mondo osservò un razzo gigantesco lasciare la Terra per un viaggio di 400mila chilometri verso un luogo visto da sempre ma mai visitato. E ci sono ancora oggi almeno 50 buoni motivi per meravigliarsi, come fu allora.

1. Il Saturn V, il gigantesco razzo che consentì di raggiungere la Luna, era alto come un palazzo di 35 piani (110 metri) e aveva un diametro di 10 metri. Fu il razzo più potente mai costruito, rese possibili tutte le missioni del programma Apollo e non ebbe mai un insuccesso.

2. Il programma Apollo fu chiamato così su proposta di Abe Silverstein, un ingegnere della NASA. Il nome lo scelse nel 1960, una sera mentre era a casa, pensando che l’idea del dio Apollo che traina il carro del Sole fosse appropriata per le dimensioni e le ambizioni dell’iniziativa spaziale.

3. Fu il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, a impegnare nel 1961 gli Stati Uniti a raggiungere la Luna “entro la fine di questo decennio”. In un altro famoso discorso pronunciato l’anno seguente, Kennedy disse: “Abbiamo scelto di andare sulla Luna entro questo decennio, e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili”. Kennedy sarebbe stato ucciso l’anno seguente: non avrebbe mai assistito al successo dell’Apollo 11 e delle altre missioni lunari.

4. La Luna è il nostro unico satellite naturale, si trova a una distanza media di circa 380mila chilometri dalla Terra, ed è uno dei corpi celesti più semplici da osservare a occhio nudo. Gli astronomi pensano che si sia formata 4,5 miliardi di anni fa, non molto dopo la Terra, mentre non ci sono ancora spiegazioni definitive sulle ragioni della sua origine. La più condivisa è che la Luna si sia formata grazie all’accumularsi di detriti in seguito all’impatto della Terra con un corpo celeste grande quanto Marte, chiamato Theia. Il diametro della Luna è di circa 3.474 chilometri, quello della Terra è di 12.742 chilometri.

5. Prima dell’Apollo 11 furono organizzate diverse altre missioni per sperimentare tutte le strumentazioni per raggiungere la Luna. Apollo 10 nel maggio del 1969 arrivò a pochissimo dal raggiungere il suolo lunare, ma le consegne della NASA erano chiare: solo dopo avere valutato tutti i dati della missione si sarebbe potuto procedere a una nuova spedizione, questa volta per l’allunaggio vero e proprio.

6. Per la missione dell’Apollo 11 furono scelti gli astronauti Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. Erano nati tutti e tre nel 1930: Armstrong aveva partecipato in precedenza alla missione Gemini 8, Aldrin alla Gemini 12, Collins alla Gemini 10. Nessuno dei tre avrebbe partecipato ad altre missioni spaziali dopo il ritorno dalla Luna: gli Stati Uniti non volevano rischiare in alcun modo l’incolumità dei loro astronauti entrati nella storia delle esplorazioni spaziali.

7. La missione dell’Apollo 11 durò 8 giorni, 3 ore, 18 minuti e 35 secondi. Partì il 16 luglio 1969 alle 9:32 del mattino (le 15:32 in Italia) da Cape Canaveral, con oltre un milione di persone assiepate lungo le coste e le strade nei dintorni per assistere al lancio. Raggiunse la Luna dopo circa 3 giorni di viaggio e il 20 luglio toccò il suolo lunare alle 22:17 (ora italiana). Sei ore e mezza dopo Armstrong mise piede sulla Luna, il primo essere umano a camminare su un corpo celeste diverso dalla Terra.

8. Lasciata la scaletta del modulo lunare, Armstrong pronunciò una delle frasi più famose della storia, quella che sanno praticamente tutti: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”. Quella frase è stata al centro di una disputa fonetica per capire se Armstrong avesse detto effettivamente “per un uomo” o “per l’uomo”: sembra proprio che abbia usato la prima versione. Le prime parole di Armstrong all’esterno del modulo lunare furono comunque altre, più pratiche e forse meno affascinanti: “Ora sto per lasciare la scaletta”.

9. Si stima che oltre 650 milioni di persone seguirono l’allunaggio in tutto il mondo. In Italia la RAI seguì l’evento con una lunga diretta di quasi 27 ore, che coprì le fasi salienti dell’allunaggio e della prima escursione lunare di Armstrong e Aldrin. Il giornalista Tito Stagno, che conduceva la diretta, fece confusione con le informazioni che riceveva dalla NASA e annunciò l’allunaggio con circa 56 secondi di anticipo.

10. Michael Collins faceva parte dell’Apollo 11, ma non mise mai piede sulla Luna. Rimase in orbita intorno al satellite, in attesa che i suoi due compagni raggiungessero il suolo lunare e tornassero indietro sani e salvi, per riprendere poi il viaggio verso la Terra. Collins rimase in orbita lunare in solitaria per circa 24 ore, diventando in un certo senso l’essere umano più solo nell’universo nella storia dell’umanità. In seguito avrebbe detto di non essersi sentito così solo, nemmeno quando la sua capsula spaziale passava nella parte nascosta della Luna perdendo il segnale radio con la Terra.

11. Il Saturn V aveva il compito di spingere in orbita terrestre e poi verso la Luna tre moduli spaziali: il Modulo di Comando dove l’equipaggio trascorreva la maggior parte del tempo, il Modulo di Servizio e il Modulo Lunare, usato poi da Armstrong e Aldrin per l’allunaggio. Il Modulo Lunare era a sua volta diviso in due parti, con quella inferiore che si trasformava in una sorta di piccola piattaforma di lancio per permettere alla parte superiore di staccarsi dalla Luna e di raggiungere nuovamente il Modulo di Comando (sul quale era rimasto Collins).

12. L’emblema dell’Apollo 11 era stato ideato da Collins, che voleva trasmettere il senso di un allunaggio pacifico da parte degli Stati Uniti: un’aquila con un ramo di ulivo nel becco che raggiunge il suolo lunare, con la Terra in lontananza. Alla NASA pensarono che gli artigli dell’aquila potessero risultare troppo minacciosi, quindi decisero di spostare il ramo d’ulivo dal becco agli artigli. Sull’emblema non c’erano i nomi dei tre astronauti, che vollero in questo modo riconoscere il lavoro di squadra delle migliaia di persone che resero possibile la missione.

13. L’allunaggio avvenne nel Mare della Tranquillità, un’area sostanzialmente pianeggiante e che aveva le giuste caratteristiche per permettere le manovre di avvicinamento del Modulo Lunare. In generale, i mari lunari sono pianori basaltici formati da antiche eruzioni vulcaniche sulla Luna: si chiamano così perché i primi astronomi, dotati di strumentazioni poco potenti per le osservazioni, pensavano che il loro colore più scuro fosse dovuto alla presenza di mari veri e propri.

14. L’Apollo Guidance Computer, il computer di bordo utilizzato nel programma Apollo, era molto meno potente del dispositivo su cui state leggendo ora questo articolo. Aveva una capacità di calcolo comparabile a uno dei primi personal computer messi in vendita negli anni Settanta, come il Commodore PET e l’Apple II. Svolse comunque egregiamente il suo lavoro, aiutando gli astronauti nelle fasi più critiche delle missioni Apollo: non era solamente questione di potenza.

15. Neil Armstrong assunse il controllo del Modulo Lunare in modalità semi-automatica quando si rese conto che il punto dell’atterraggio era pieno di massi. Dovette cambiare un paio di volte i piani, man mano che si avvicinava al suolo lunare, nella nuvola di polveri sollevate dai motori e sfruttando le indicazioni con i dati di navigazione che gli forniva Aldrin. Poco dopo, ad allunaggio effettuato con successo, fu Armstrong a dare la buona notizia: “Houston, qui Base della Tranquillità. L’Eagle è atterrato”.

16. L’idea che qualcuno avesse potuto davvero raggiungere la Luna e camminarci sopra fu talmente inaudita da portare, rapidamente, alla diffusione di numerose teorie del complotto secondo le quali l’allunaggio dell’Apollo 11, e delle missioni seguenti, non sarebbe mai avvenuto. La NASA negli anni ha dimostrato con dati, ricerche e immagini del suolo lunare che i complottisti hanno totalmente torto, ma le teorie dei negazionisti sono ancora piuttosto diffuse.

17. Se dici con insistenza a Buzz Aldrin che non ci andò mai sulla Luna, lui ti dà un cazzotto.

18. Il programma Apollo ha portato in tutto 12 astronauti sulla Luna, in 6 missioni  diverse tra il 1969 e il 1972. Molto del materiale trasportato è rimasto tra i crateri lunari. Oltre a pezzi dei moduli lunari, ci sono 12 paia di stivali, 96 sacche contenenti urine, feci e vomito, coperte termiche, un rametto di ulivo, diverse macchine fotografiche e bandiere degli Stati Uniti.

19. La prima bandiera fu quella piantata da Armstrong e Aldrin. Era di nylon, larga un metro e mezzo e alta 90 centimetri, aveva un’asticella orizzontale per mantenerla tesa anche sulla Luna, dove non ci sono atmosfera e vento. L’asticella non funzionò al meglio, dando però così l’idea che la bandiera fosse effettivamente mossa dall’aria. Gli astronauti ebbero inoltre qualche problema nel conficcare l’asta della bandiera, riuscendo a farla penetrare nel suolo lunare per meno di 20 centimetri: anche per questo motivo la bandiera cadde alla ripartenza del Modulo Lunare, con l’onda d’urto provocata dall’accensione dei motori.

20. Da 50 anni sulla Luna ci sono anche le macchine fotografiche che furono utilizzate per scattare alcune delle immagini più famose e riconoscibili della storia umana. Hasselblad modificò una sua macchina fotografica per renderla più resistente e compatibile con le condizioni estreme di temperatura sulla Luna. La Hasselblad 500 EL Data Camera fu manovrata per lo più da Armstrong, e questo spiega perché ci siano più foto che mostrano Aldrin sulla superficie lunare.
21. Armstrong e Aldrin lasciarono sulla Luna anche il simbolo della missione Apollo 1 con i nomi degli astronauti Virgil I. “Gus” Grissom, Ed White e Roger B. Chafee, morti in un test a terra il 27 gennaio 1967. Quell’incidente, il più grave nella storia del programma Apollo, fermò i lanci per più di un anno, ma fu importante per comprendere alcuni problemi di sicurezza nel Modulo di Controllo e risolverli per le missioni seguenti.

22. Una targa applicata su una gamba di atterraggio del Modulo Lunare, e quindi rimasta sulla Luna, mostra la Terra e ha le firme dei tre astronauti dell’Apollo 11 e di Richard Nixon, all’epoca presidente degli Stati Uniti. Nixon fu anche il primo presidente a rispondere a una telefonata dalla Luna, quando il centro di controllo di Houston mise in comunicazione Armstrong e Aldrin con la Casa Bianca per un saluto.

23. Nel caso in cui qualcosa fosse andato storto sulla Luna, era previsto che la NASA avrebbe chiuso i canali radio con Armstrong e Aldrin, destinati a morire sulla superficie lunare. L’autore dei discorsi di Nixon, William Safire, aveva inoltre preparato un breve testo intitolato “In Event of Moon Disaster”.

24. Il ritorno di Armstrong e Aldrin dalla superficie lunare fu messo a rischio quando Aldrin ruppe accidentalmente un interruttore (disgiuntore) necessario per attivare il motore per il lancio del Modulo Lunare verso l’orbita della Luna. I due astronauti se la cavarono utilizzando un pennarello per attivare l’interruttore, altrimenti avrebbero dovuto riconfigurare parte dei collegamenti elettrici per attivare il motore.

25. Armstrong e Aldrin furono inoltre i primi due esseri umani a riposare sulla Luna. La NASA diede loro 7 ore di tempo all’interno del Modulo Lunare prima di ricongiungersi con Collins nell’orbita lunare.

26. Durante la loro permanenza sulla Luna, i due astronauti raccolsero circa 21,6 chilogrammi di rocce e polvere lunare, da riportare sulla Terra per essere analizzati. Grazie a quei campioni furono scoperti tre nuovi minerali, che furono chiamati tranquillitite, pirossiferroite e armalcolite, quest’ultimo in onore di Armstrong, Aldrin e Collins. Tutti e tre i minerali furono trovati in seguito anche sulla Terra.

27. Le rocce lunari sono conservate presso il Lyndon B. Johnson Space Center di Houston, in Texas (altre nel New Mexico per motivi di sicurezza, nel caso succedesse qualcosa a uno dei due siti). Sono mantenute sotto azoto per evitare che l’umidità normalmente presente nell’aria le degradi. Ogni anno ne vengono ricavati piccoli frammenti, inviati in centinaia di centri di ricerca in giro per il mondo. In totale il programma Apollo ha permesso di portare sulla Terra circa 382 chilogrammi di rocce lunari.

28. Il suolo lunare si rivelò più soffice di quanto immaginato dai ricercatori della NASA, e ciò rese possibile la formazione delle impronte nella polvere lunare degli scarponi degli astronauti, rese famose da alcune foto dell’Apollo 11. L’assenza di atmosfera e intemperie fa sì che quelle impronte siano ancora sulla Luna, tali e quali a come furono lasciate 50 anni fa.

29. Armstrong, Aldrin e Collins rientrarono sulla Terra nel loro Modulo di Comando il 24 luglio 1969. Si tuffò nelle acque dell’oceano Pacifico, circa 380 chilometri a est dell’Isola di Wake, un atollo corallino che fa parte dei territori non incorporati degli Stati Uniti.

30. Prima di poter riabbracciare fisicamente parenti e amici, i tre astronauti furono sottoposti a 18 giorni di quarantena (su 21 previsti), in isolamento per verificare le loro condizioni di salute ed escludere il rischio di contaminazioni di qualche tipo. Dopo Apollo 14, la NASA concluse che la pratica non fosse necessaria, perché la Luna si era rivelata sostanzialmente sterile.

31. Il successo dell’Apollo 11 e delle seguenti missioni dimostrò la superiorità nelle tecnologie spaziali degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica, che dopo i primati raggiunti alla fine degli anni Cinquanta, non era più riuscita a mantenere il passo con gli statunitensi, soprattutto nella costruzione di razzi potenti e affidabili a sufficienza per le missioni nello Spazio profondo.

32. Figlio di emigrati italiani, l’ingegnere Rocco Anthony Petrone ebbe una velocissima carriera alla NASA tra il 1966 e il 1969. Divenne il direttore delle operazioni di lancio al John F. Kennedy Space Center in Florida e dal 1969 divenne il direttore dell’intero programma Apollo dopo il successo del primo allunaggio. Era molto esigente, soprattutto nel far rispettare i tempi di consegna alle numerose aziende private che collaboravano con la NASA.

33. Neil Armstrong portò con sé sulla Luna un frammento di legno e un pezzo di stoffa dell’ala del Wright Flyer, il primo aeroplano motorizzato ad avere eseguito un volo controllato nel 1903 a Kitty Hawk. In un certo senso, senza quel primo volo non ci sarebbe stato l’allunaggio.

34. Buzz Aldrin, che era presbiteriano, si portò un piccolo kit per fare la comunione sulla Luna. Il calice usato all’epoca fu riportato sulla Terra e viene impiegato per una cerimonia commemorativa ogni anno, nella domenica più vicina al 20 luglio, il giorno dell’allunaggio.

35. La discesa dalla scaletta compiuta da Neil Armstrong fu ripresa da una telecamera collocata all’esterno del Modulo Lunare, e trasmessa in diretta sulla Terra. Le immagini non erano molto nitide, ma furono uno dei momenti più spettacolari della missione, nonché la prima diretta televisiva da un corpo celeste diverso dal nostro.

36. A fine estate del 1969, i tre astronauti dell’Apollo 11 iniziarono un tour mondiale di 38 giorni, visitando oltre 20 paesi. In Italia incontrarono il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, e il presidente del Consiglio Mariano Rumor.

37. Anche il Modulo di Comando fece un tour degli Stati Uniti, per poi essere trasferito al National Air and Space Museum di Washington DC. Saltuariamente, la capsula spaziale dell’Apollo 11 viene però trasferita in altri musei, per mostre ed esposizioni temporanee negli Stati Uniti. Fino all’inizio di settembre, per esempio, sarà conservata presso il Seattle Museum of Flight.

38. La parte inferiore del Modulo Lunare è rimasta sulla Luna, come mostrato dieci anni fa dalla sonda Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA, che ha fotografato i principali siti del programma Apollo con una definizione sufficiente per vedere i vari veicoli spaziali utilizzati dagli astronauti. Sulla Luna, in una posizione ignota, c’è anche la parte superiore del Modulo Lunare, quello su cui viaggiarono Armstrong e Aldrin per raggiungere Collins in orbita sul Modulo di Comando. Fu lasciato in orbita prima della ripartenza verso la Terra, e si schiantò in seguito sul suolo lunare.

39. Tra i primi a pensare ai viaggi sulla Luna ci fu Luciano di Samosata, un retore greco nato un po’ più di un secolo dopo Cristo in quella che oggi è la Turchia. Nel suo Icaromenippo, il filosofo Menippo di Gadara finisce sulla Luna e ci si ferma un poco, prima di andare in cielo con gli Dei.

40. Il romanzo più conosciuto sui viaggi lunari è probabilmente Dalla Terra alla Lunadel 1865 scritto dal francese Jules Verne, anche se non parla esplicitamente di un allunaggio. Nel 1902 il film Viaggio nella Luna di Georges Méliès trasse ispirazione da Verne, per raccontare una storia con effetti speciali rivoluzionari per l’epoca: è considerato il primo film di fantascienza della storia.

41. Se Armstrong fu il primo uomo sulla Luna, Eugene Cernan fu l’ultimo ad avere camminato sul suolo lunare con la missione Apollo 17 nel 1972. Prima di percorrere per l’ultima volta la scaletta del Modulo Lunare che lo avrebbe portato via disse: “Ce ne andiamo come siamo venuti e, se Dio vuole, come ritorneremo, con pace e speranza per tutto il genere umano. Buona fortuna all’equipaggio dell’Apollo 17”.

42. Tra le tante immagini che ci ha lasciato il programma Apollo, quella scattata dall’equipaggio dell’Apollo 8 nel 1968 è forse una delle più conosciute insieme a quelle scattate sul suolo lunare l’estate successiva. Il “Sorgere della Terra” mostra il nostro pianeta parzialmente in ombra, con in primo piano la superficie lunare. È ritenuta tra le fotografie più influenti mai scattate.

43. Nel marzo del 2012 un gruppo di ricercatori finanziato da Jeff Bezos, il CEO di Amazon, trovò i motori del primo stadio (S-IC) del Saturn V – che aveva portato Apollo 11 nell’orbita terrestre – nell’oceano Atlantico. Esaurita la sua spinta, infatti, il primo stadio del grande razzo si staccava dal resto del lanciatore per un rientro non controllato nell’atmosfera terrestre. I motori, la parte più massiccia, avevano maggiori probabilità di restare integri (almeno parzialmente) e di inabissarsi poi nell’oceano.

44. Il sito Apollo 11 in Real Time consente di rivivere in tempo reale l’intera missione lunare, dal lancio all’allunaggio al ritorno sulla Terra.

45. I parametri vitali degli astronauti dell’Apollo 11 erano regolarmente tenuti sotto controllo dalla NASA, durante la loro impresa spaziale. Il battito cardiaco di Armstrong arrivò a 150 pulsazioni al minuto quando iniziò a percorrere la scaletta del Modulo Lunare che conduceva sulla superficie della Luna, fece il primo passo quando il battito era sceso a 125. Quando mancavano due giorni al ritorno sulla Terra, il rilevatore del battito cardiaco di Buzz Aldrin schizzò a 247 battiti al minuto, ma a causa di un malfunzionamento. Dal centro di controllo arrivò all’equipaggio una battuta sull’ansia generata dall’anomalia nei dati: “Il medico di missione sta per morire”.

46. Space Oddity, una delle canzoni più famose di David Bowie, fu pubblicata cinque giorni prima della partenza dell’Apollo 11. Qualche mese prima, a gennaio, Bowie aveva compiuto 22 anni. La canzone era stata registrata a giugno, con qualche perplessità sul pubblicare alla vigilia del viaggio verso la Luna una canzone in cui l’astronauta “Major Tom” viene perso nello Spazio immediatamente dopo l’emozionante e ammirato successo della sua uscita dall’astronave.

47. Il programma Artemis (Artemide è la dea della caccia, poi personificata come la Luna crescente) è l’attuale iniziativa della NASA che intende riportare gli astronauti sulla Luna nel 2024. Il programma prevede che nella prima missione ci sia almeno una donna, la prima a mettere piede sul suolo lunare, ma il progetto è ancora da definire nei suoi dettagli e ci sono molti dubbi circa la possibilità di mantenere la scadenza, voluta dal governo di Donald Trump.
48. Un viaggio intorno alla Luna, ma senza camminarci sopra, è nei programmi del miliardario Elon Musk, CEO dell’azienda spaziale SpaceX. Ha già venduto i biglietti a un imprenditore giapponese, anche se l’astronave che dovrebbe compiere il viaggio non esiste ancora.

49. Il programma Apollo costò 153 miliardi di dollari attuali e, nella sua fase di massima espansione, diede lavoro a oltre 400mila persone, con enormi finanziamenti per università, centri di ricerca e aziende appaltatrici. Nel 1970 il direttore scientifico della NASA, Ernst Stuhlinger, scrisse una lettera considerata la migliore e più onesta spiegazione al perché si debbano spendere così tanti soldi per lo Spazio: è ancora attuale.

50. Neil Armstrong è morto il 25 agosto del 2012, rendendo Buzz Aldrin il primo astronauta oggi vivente ad avere camminato sulla Luna. Dei 12 astronauti che parteciparono ai 6 allunaggi, 8 sono morti. Aldrin ha 89 anni.

Le verità (scomode) che forse non sapete sull’Apollo 11. Emilio Cozzi, Giornalista e autore, su Wired il 6 luglio 2019. Il prossimo 20 luglio si celebrerà il cinquantennale del viaggio più straordinaro dell'uomo; qualche curiosità aggiuntiva per festeggiarlo più consapevolmente. Ci siamo quasi. Il 20 luglio saranno trascorsi 50 anni esatti dal primo allunaggio, quel celebre piccolo passo per un uomo sul suolo extraterrestre reso eterno da colui che lo fece, Neil Armstrong, come “un balzo gigantesco dell’Umanità”. E a ragione. In molti, in ogni angolo della Terra, celebreranno l’anniversario della missione Apollo 11 della Nasa. Legittimo: il 20 luglio 1969 è considerata una delle date più significative della nostra storia, la dimostrazione che l’infinito cosmico da lì in poi sarebbe stato di un’orma più breve. Via dalla glorificazione – cui certo Wired contribuirà anche seguendo la missione Beyond, che riporterà Luca Parmitano sulla Stazione spaziale internazionale la mattina del 20 luglio – sembra opportuno rivedere l’evento senza idealizzarlo. E non certo per chissà quale vezzo iconoclasta: il più grande viaggio mai intrapreso dalla nostra specie fu l’apice delle nostre virtù scientifiche, tecnologiche ed esplorative, ma per diversi motivi rivelò (e fu il frutto) anche dei nostri vizi. Per dare la misura corretta di quel balzo sembra dunque necessario soppesare anche la piccolezza di chi lo spiccò: l’Uomo.

1. Un’eredità esplosiva. Il luglio del 1969 è il mese cruciale della space race inaugurata più di 10 anni prima fra Usa e Unione sovietica. Dall’ultima tappa, quella coincidente con il suolo lunare, i russi si sono però detti fuori (sebbene, proprio negli stessi giorni dell’Apollo 11, spediranno il mezzo automatico, Luna 15, attorno al nostro satellite naturale). Gli americani, insomma, corrono contro se stessi, eventualità talvolta anche più complessa. Ma nulla può più spaventare la Nasa: il padre del programma spaziale, il geniale barone Wernher von Braun – l’ex ufficiale nazista cui si devono le V2, consegnatosi con 500 dei suoi tecnici migliori all’esercito degli Stati Uniti alla vigilia della sconfitta tedesca nella seconda guerra mondiale –, sta lavorando a un grande razzo da prima che il programma Apollo venisse approvato. Il risultato di 11 anni di migliorie progressive si chiama Saturn V, il lanciatore più potente mai realizzato: progettato dal Marshall Space Flight Center sotto la direzione di von Braun e Arthur Rudolph e realizzato da appaltatori di prim’ordine, rispondenti ai nomi di Boeing, North American Aviation, Douglas Aircraft e Ibm, è un gioiello di tecnologia largo più di 10 metri per 110,6 di altezza (18 in più della Statua della libertà), con una capacità di carico di 140 tonnellate in orbita terrestre e 48,6 in orbita lunare. Con i suoi 3 stadi, ha una massa complessiva al decollo di 2970 tonnellate, sollevata da 5 motori Rocketdyne F-1, quelli del primo stadio, capaci di sviluppare una spinta di 35100 kN al livello del mare. Detta in parole più semplici, dei suoi 13 lanci effettuati fra il 9 novembre 1967 e il 14 maggio 1973, 13 furono i successi (la tragedia dell’Apollo 1, in cui tutto l’equipaggio morì in un incendio nella capsula di comando, si verificò durante un test a terra; e anche l’Apollo 6 è considerato un test). “Abbiamo fatto il massimo”, commenterà von Braun poco prima del lancio di Armstrong, Aldrin e Collins, “ma a parte tutto, ho bisogno di fortuna. Tutti ne abbiamo bisogno, ma io in modo particolare”. Impossibile capire la frase del progettista. Come impossibile escludere che si riferisse ai predecessori del suo ipertrofico capolavoro volante, costato la bellezza di 6.147 miliardi di dollari (al 1973): von Braun ebbe il via libera alla realizzazione dei suoi progetti all’indomani del primo beep emesso dallo Sputnik e dopo l’iniziale fallimento della risposta americana, quando il razzo Vanguard sviluppato dalla Marina militare si schiantò subito dopo il decollo. Il genio tedesco rispose con il suo Redstone, il nonno del Saturn V, un razzo usato in ambito militare dal 31 gennaio 1958, quando aveva portato in orbita il primo satellite americano, l’Explorer 1, al 30 novembre del ‘65, per un totale di 56 lanci effettuati. Di cui 28 falliti. Nel frattempo, il team di von Braun aveva creato la variante Jupiter-C, un lanciatore a tre stadi per voli suborbitali: tre lanci, solo l’ultimo senza problemi. Il Juno 1, la stessa modifica del Redstone capace di portare l’Explorer 1 fra le stelle, fallì tre dei successivi cinque voli. Stesso destino per il debutto del Mercury-Redstone, progettato per portare le prime capsule con equipaggio umano in traiettoria suborbitale: il 21 novembre 1960 il razzo si staccò da terra senza riuscire a raggiungere i dieci centimetri di quota, prima di rivelare un problema al motore ignorato nei 60 voli precedenti. Quando Alan Shepard, il 5 maggio 1961, divenne il primo americano a uscire dall’atmosfera terrestre, il lanciatore che lo accompagnò aveva una media di 6 esplosioni su 10 lanci. Dura escludere che anche di fronte al colossale nipote, il Saturn V, e ai successi ottenuti nel frattempo, von Braun non abbia pensato alle statistiche almeno una volta.

2. Primo essere umano… per caso. Come e perché toccò a Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins? “Assolutamente per caso. Come in un gioco di dadi. Chiunque crede che tale scelta sia dipesa da qualche merito particolare o da un calcolo politico o da una decisione del presidente degli Stati Uniti, si sbaglia. Essa è dipesa, né più né meno, dal modo in cui si sono susseguiti i voli Apollo e dal fatto che a Neil Armstrong sia capitato di comandare l’Apollo 11, cioè un volo che non prevedeva lo sbarco sulla Luna”. A scriverlo già nel 1970 è Oriana Fallaci in Quel giorno sulla Luna, reportage fatto libro sui protagonisti del programma spaziale statunitense. La giornalista fiorentina fu convinta da due fatti: il primo sono le modifiche in corsa del programma Apollo. I piani di lancio originali comportavano la sperimentazione del Lem (Lunar Excursion Module) in orbita terrestre con l’Apollo 8, poi in orbita lunare (Apollo 9) e quindi lo sbarco sul suolo selenico, con l’Apollo 10 comandato da Tom Stafford. A Natale del 1968, però, i ritardi nell’ultimazione della capsula Lem decretarono fosse l’equipaggio dell’Apollo 11 il primo ad allunare. Ciò dimostra, continua Fallaci, che “il merito di Armstrong consista solo nell’essere entrato nella rosa finale dei tre voli prossimi alla Luna: Apollo 10, 11 e 12. Ha vinto lui come poteva vincere Stafford, o poteva vincere [Peter] Conrad”. Per quanto non sia da escludere l’antipatia nei confronti del first man che la giornalista dichiara apertamente fra le pagine, a dar man forte alle sue conclusioni è un secondo fatto, meglio, sono le parole di Donald Slayton, detto Deke, uno dei sette astronauti originari del programma spaziale americano (i leggendari Mercury Seven) e colui al quale spettava decidere chi volasse e quando: “Nessuno è così sciocco da credere che tutti i 52 astronauti siano allo stesso livello professionale – dichiarò Slayton interpellato a riguardo –, ma coloro che ho scelto per i voli Apollo sono in sostanza uguali: una banda di ragazzi identicamente allenati e identicamente competenti e identicamente in grado di sbarcare sulla Luna e tornare indietro”. Anche in questo caso, però, è dura credere che le parole di Slayton non fossero almeno in parte dettate dalle circostanze. E comunque gli andò bene: già protagonista di un superbo salvataggio con la sua Gemini 8, che il 16 marzo 1966 era riuscito a riportare a terra dopo un’imprevista fase di rotazione in volo da un giro al secondo – al limite della perdita dei sensi – proprio sulla Luna Armstrong dovette affrontare l’overlflow dell’Apollo Guidance Computer, un sovraccarico dovuto all’erronea attivazione del radar di rendez-vous, e passare al controllo semi-automatico per correggere la traiettoria di allunaggio, visto che la zona scelta si era rivelata troppo sassosa. “Qui base della Tranquillità, l’Aquila è atterrata”, disse il comandante dell’Apollo 11 una volta posate le zampe del Lem sulla superficie lunare. A Houston erano passati 17 minuti e 40 secondi dalle tre del pomeriggio (in Italia erano le 22:17); 30 secondi dopo il modulo Eagle non avrebbe avuto sufficiente propellente per ripartire. Il polso di Armstrong, mai oltre i 70, 90 battiti al minuto, aveva toccato i 156. Solo per un attimo.

3. Il lato oscuro degli eroi. Simbolo di pace anche sancita dal dischetto di silicio con i messaggi di 73 leader politici internazionali lasciato sulla Luna da Armstrong e Aldrin – se ne trova un resoconto dettagliato nel meraviglioso We Came in Peace for All Mankind – il programma Apollo fu incontestabilmente frutto della rivalità ideologica, politica e militare di Usa e Unione sovietica. Non fu un caso che la maggior parte dei primi cosmonauti sovietici o degli astronauti americani, anche i civili come Armstrong, avesse un passato o un presente nell’esercito. Profilo notato da molti, in un’epoca in cui le guerre in Corea e Vietnam erano ferite fresche o ancora spalancate. Iscrittosi a ingegneria aeronautica, Armstrong divenne pilota della Marina non ancora terminati gli studi e nel 1950 finì in Corea, dove accumulò 78 combattimenti in volo. Compreso quello in cui, colpito, riuscì chissà come a tornare sulla sua portaerei. “È il miglior pilota di X-15 che sia mai esistito” disse di lui il famoso collaudatore Joseph Walker. Aldrin, colonello dell’aviazione addestrato a West Point, fu un aperto sostenitore dell’intervento americano in Vietnam e, anche lui combattente in Corea, fu protagonista di 66 missioni a bordo del suo F-86 Sabre, un aviogetto da caccia. Quando in un’intervista gli venne chiesto se non pensasse alle vittime dei suoi bombardamenti, rispose “Certo. Erano miei nemici”. “Anche i bambini, i vecchi e le donne?” lo incalzarono. “Certo”, confermò. “Quando fra cento anni o duecento o mille o duemila celebreremo lo sbarco sulla Luna – chiosò Fallaci amplificando quello che all’esterno del Kennedy Space Center molti manifestanti urlavano mentre il Saturn V si staccava dalla rampa di lancio – faremo bene a ricordarci che i primi due uomini sopra la Luna furono due uomini che avevano ucciso un mucchio di uomini in guerra”.

4. Il topo e la Cosa da un altro mondo. “Ti prego topo, non ammalarti quando ti porto i sassi, non diventare un dinosauro”. Pare che rompendo il suo tipico rigore fossero queste le parole abitualmente dedicate da Armstrong a uno dei topolini bianchi della cosiddetta Arca di Noè. Ricavata attorno alle camere a vuoto adibite alla conservazione e allo studio dei 25 chilogrammi di rocce lunari riportate dall’Apollo 11, l’Arca raccoglieva le cavie su cui studiare se eventuali germi selenici fossero dannosi alla vita terrestre: topi, ostriche, scarafaggi, quaglie, gamberi, pesci, mosche, semi di granturco, grano e funghi sarebbero stati immersi in soluzioni acquose venute a contatto con le rocce riportate da Armstrong ed equipaggio per studiarne reazioni o eventuali trasformazioni.  Insieme con la possibilità di inquinare l’ambiente lunare – la cosiddetta forward contamination – la back contamination costituì un problema serio una volta concretizzatasi l’ipotesi di andare in un ambiente extraterrestre. Per prevenire qualsiasi contagio che teoricamente avrebbe potuto – e potrebbe – rivelarsi catastrofico per l’intero ecosistema terrestre, la Nasa costruì il Lunar Receiving Laboratory, o Lrl, un edificio di quarantena dove Armstrong, Aldrin e Collins avrebbero trascorso in isolamento i 21 giorni successivi al loro rientro. A pochi passi dagli uffici degli astronauti alla Nasa, l’Lrl fu pensato come un grande complesso costituito da laboratori, camere a vuoto e quartieri abitabili isolati ermeticamente, dove oltre all’equipaggio dell’Apollo 11, 18 scienziati sarebbero rimasti chiusi per settimane nella speranza di garantire la sicurezza del pianeta. Dalle mura spessissime, con porte a tenuta stagna e una pressione più bassa dell’esterno in modo da far entrare l’aria impedendole di uscire, l’Lrl era costantemente monitorato da registrazioni audio e video, per impedire che qualcuno violasse i rigorosi protocolli di sicurezza. Non che gli scettici mancassero e non solo perché l’ammaraggio e il trasporto degli astronauti fino all’Lrl erano tutto fuorché privi di falle che avrebbero potuto causare una contaminazione dalla cosiddetta Cosa; “la possibilità [di un contagio lunare] è remotissima – dichiarò ai tempi Persa Bell, geologo, biologo, matematico, fisico e manager della struttura di quarantena – “tutto ciò che mi aspetto di trovare è una quantità di germi terrestri portati dagli astronauti e dall’Lm […] Il primo viaggio mi eccita e basta, giacché non presenta rischi per l’umanità. Come il secondo e il terzo. I rischi incominceranno dopo, semmai, quando frugheremo a fondo”. Non proprio incoraggiante alla luce delle prossime intenzioni delle agenzie spaziali.

5. Il primo complottista. Chi era costui? La data del 20 luglio 1969 è anche nota per essere quella della più grande messa in scena della storia. Certo, sempre ignoriate le tonnellate di prove e testimonianze a garanzia dell’allunaggio. I dubbi cominciarono a diffondersi cinque anni dopo, quando William Charles Kaysing pubblicò We Never Went to the Moon, un libro in cui lo sbarco “manned”, cioè con equipaggio, si sosteneva impossibile per i limiti tecnologici dell’epoca. Vale la pena chiedersi chi fosse l’autore, scomparso nel 2005, del testo che originò ogni luna-complottismo successivo. Origini tedesche, laurea breve in Letteratura inglese, Kaysing ha sempre dichiarato di aver scritto il suo testo sacro grazie “all’esperienza lavorativa maturata alla Rocketdyne“, la società californiana che costruì i motori del Saturn V. Lungi dall’essere un ingegnere, all’azienda Kaysing collaborava alla stesura dei manuali tecnici, in sostanza trascrivendo correttamente le indicazioni dei progettisti, “sebbene la mia conoscenza di razzi e scrittura tecnica – ammetterà lui stesso – fosse pari a zero”. Dalla Rocketdyne, per di più, Kaysing uscì nel 1963, sei anni prima del lancio dell’Apollo 11. Sei anni in cui la tecnologia e la scienza, soprattutto in ambito spaziale, fecero balzi come quelli dell’umanità evocati da Armstrong una sera di qualche estate dopo. Non solo: il parere del letterato Kaysing su questioni tecniche per sua stessa ammissione a lui ignote fu peraltro basato, citazione testuale, su “una premonizione, un’intuizione; informazione da un poco compreso e misterioso canale di comunicazione… un messaggio metafisico”. È probabile fosse lo stesso tipo di messaggio recapitatogli per sostenere un’altra celebre tesi complottistica, sempre riportata nel libro: per mettere in scena l’allunaggio, la Nasa assoldò Stanley Kubrick, minacciandolo, in caso di rifiuto, di ritorsioni contro il fratello, Raul, sospettato di legami con il partito comunista. Peccato che dell’esistenza di Raul, fratello del celebre regista di 2001: Odissea nello spazio, non sia mai esistiva prova alcuna e in nessuna anagrafe del pianeta.

Il giorno di Parmitano, primo italiano a capo della Stazione spaziale internazionale Tappe. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Davide Urietti su Corriere.it. Oggi, mercoledì 2 ottobre, è un giorno importante per l’astronauta Luca Parmitano: diventerà, infatti, il primo comandante italiano sulla Iss, la Stazione spaziale internazionale. Prima di lui, solo altri due europei hanno avuto questo incarico. Nel 2009 fu la volta del belga Frank De Winne, mentre nel 2018 c’era il tedesco Alexander Gerst a ricoprire questo ruolo prestigioso. Parmitano riceverà così il testimone dall’attuale comandante, il russo Alexei Ovchinin, e a quel punto partirà ufficialmente la Expedition 61.

Luca Parmitano primo italiano a comandare la Stazione Spaziale Internazionale. Prende il posto del russo Alexei Ovchinin, segnando l'inizio di Expedition 61: Parmitano sarà impegnato in numerosi esperimenti e lavorerà personalmente alla riparazione dello spettrometro alfa-magnetico (AMS).

Luca Parmitano: primo comandante italiano della ISS. Oggi, mercoledì 2 ottobre, è un giorno importante per l'astronauta Luca Parmitano, dato che è destinato a diventare il primo comandante italiano della Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Solo altri due europei hanno precedentemente ricoperto questa posizione. Nel 2009 è stata la volta del belga Frank De Winne, mentre nel 2018 il tedesco Alexander Gerst ha assunto questo prestigioso ruolo. Parmitano prenderà il posto dell'attuale comandante, il russo Alexei Ovchinin, e inizierà ufficialmente la spedizione 61.

La carriera. Non è certo un caso che Luca Parmitano, nato nel 1976, abbia ricevuto questa responsabilità. La sua carriera parla per lui: prima di essere reclutato nel 2009 dall'ESA, l'Agenzia spaziale europea, aveva un background militare di successo nell'aeronautica italiana, raggiungendo il grado di colonnello. Ha oltre 2000 ore di volo al suo attivo e ha esperienza di pilotaggio su oltre 40 diversi velivoli, oltre ad essersi qualificato su 20 tipi di aerei militari ed elicotteri. Nel corso della sua carriera ha frequentato numerosi corsi preparatori e durante uno di questi, il Tactical Leadership Program in Belgio nel 2005, è stato coinvolto in un incidente in volo. Mentre sorvolava la Manica in un AMX, si scontrò con un grosso uccello, che danneggiò la sua cabina di pilotaggio e riuscì a riportare l'aereo a terra in sicurezza senza l'ausilio di comunicazioni radio. Questo episodio ha ricevuto riconoscimenti da tutta la comunità aeronautica e nel 2007 gli è valso la medaglia d'argento per il valore aeronautico. Come astronauta, nel 2013 è stato anche il primo italiano a svolgere una missione di attività extraveicolare (EVA), impegnandosi in una passeggiata nello spazio della durata di 6 ore e 7 minuti il ​​9 luglio. Una settimana dopo, il 16 luglio, Parmitano stava di nuovo camminando nello spazio, ma fu costretto a interrompere la missione a causa di un problema al suo elmetto, che si era riempito d'acqua. Complessivamente, nel 2013, è rimasto in orbita per 166 giorni, mentre questa seconda spedizione, iniziata a luglio, durerà fino a febbraio 2020.

La missione "Beyond". Parmitano avrà un fitto programma durante la sua seconda missione spaziale, chiamata "Beyond". Per quanto riguarda le attività extraveicolari, insieme al suo collega Andrew Morgan, sarà impegnato a riparare l'Alpha Magnetic Spectrometer (AMS), un rivelatore di particelle attaccato all'ISS. È necessario lavorare sul sistema di raffreddamento, ma ciò che rende complessa l'operazione è che non è stato progettato per essere riparato nello spazio. Parmitano avrà anche un ruolo personale nell'esperimento Analog-1, in cui è impostato per "guidare" un rover robotico in una zona desertica di Lanzarote nelle Isole Canarie, controllandolo dalla Stazione Spaziale Internazionale. L'obiettivo è dimostrare la capacità di utilizzare tecnologie remote, per spianare la strada alla futura esplorazione di habitat ostili, come la superficie della luna. Non solo, l'astronauta italiano sarà impegnato in almeno 250 altri esperimenti, in campi che vanno dalla biologia e neurofisiologia alla scienza dei materiali e alla fisica dei fluidi. Questa ricerca ha un valore particolare perché viene svolta nello spazio, le cui condizioni sono impossibili da riprodurre sulla Terra. Parmitano ovviamente sarà anche al comando della ISS e nel 2018 ha assicurato: “Mi vedo come un facilitatore; il mio obiettivo sarà quello di consentire a tutti di lavorare al meglio delle loro capacità."

Nespoli e Cristoforetti: gli italiani recentemente a bordo della ISS. Se aggiungiamo il suo soggiorno programmato fino a febbraio 2020 al tempo trascorso nello spazio nella missione del 2013, Parmitano supererà Paolo Nespoli (313 giorni), l'ultimo italiano a prendere parte alle missioni ISS, come l'astronauta italiano più esperto. Nespoli, che è stato in orbita tre volte (2007; 2010/2011; 2017), ha approfittato dell'accordo tra NASA e ASI, l'agenzia spaziale italiana. In cambio di opportunità per gli astronauti italiani di volare verso la Stazione Spaziale Internazionale, l'ASI si è impegnata con la NASA a fornire moduli logistici multiuso (MPLM). Creati da Alenia Space, i moduli vengono utilizzati per trasportare materiali di consumo e attrezzature alla Stazione. Tra gli astronauti più recenti selezionati per le missioni sulla ISS c'era anche Samantha Cristoforetti, che ha partecipato alle spedizioni 42 e 43, tra il 2014 e il 2015. Cristoforetti è diventata così la prima donna astronauta italiana, e la terza in Europa, a unirsi alla Stazione Spaziale Internazionale. Prima di essere raggiunta dall'americana Peggy Whitson, ha anche detenuto il record per il tempo più lungo trascorso nello spazio da una donna in una sola missione: 199 giorni, che è ancora il record europeo.

In futuro, l'ISS farà spazio a Lunar Gateway. La Stazione Spaziale Internazionale, lanciata nel 1988, è una delle più grandi strutture costruite nello spazio negli ultimi 20 anni. Nonostante gli ingenti investimenti effettuati dalle cinque agenzie spaziali coinvolte, NASA (Stati Uniti), ESA (Unione Europea), Roscosmos (Russia), Jaxa (Giappone) e CSA (Canada), anche l'ISS dovrà arrendersi all'avanzata di tempo. Non è un caso che a marzo 2019 sia stato presentato il progetto Lunar Gateway (LOP-G), per una stazione orbitante attorno alla Luna. Gli Stati Uniti e il Canada hanno già formalizzato l'accordo, mentre la decisione dell'ESA è prevista per novembre. I costi di costruzione saranno enormi, quindi è fondamentale che un gruppo di agenzie partecipi e l'amministrazione Trump, ad esempio, ha aumentato il budget della NASA a $ 1,6 miliardi. Inoltre, questa nuova stazione, essendo più vicina alla Luna e all'orbita terrestre, faciliterebbe le future missioni. Da un lato sarebbe più facile programmare spedizioni con o senza equipaggio sul satellite, e dall'altro consentirebbe un allenamento fisico mirato per future missioni su Marte.

Luca Parmitano: primo comandante italiano della Iss. «Sono veramente grato al mio Paese, al sistema che ho il permesso di essere qui: l'istruzione, la scuola, l'Accademia Aeronautica, l'Aeronautica militare e tutte le persone che hanno partecipato alla mia formazione e alle quali oggi va tutto il mio ringraziamento ». Lo ha detto l'astronauta italiano Luca Parmitano al termine del passaggio di consegne del comando della Stazione spaziale internazionale ereditato dal collega russo Alexei Ovchinin. Parmitano è il primo italiano in assoluto e assumere questo incarico, il terzo cittadino europeo ( «Lassù mi mancherà solo il mare». Leggi l'intervista rilasciata al Corriere prima della partenza ). Nel 2009 fu la volta del belga Frank De Winne, mentre nel 2018 c'era il tedesco Alexander Gerst a ricoprire questo ruolo prestigioso. Giovedì 3 ottobre Ovchinin e altri due astronauti lasceranno la Stazione Spaziale per rientrare sulla Terra e quel punto partirà ufficialmente la Spedizione 61 . «Oggi spenderò poche parole per raccontare questa giornata - ha detto Luca Parmitano dopo il passaggio di testimonianza sancito dal suono della campana a bodo - una di queste è senz'altro“ gratitudine ”. Non solo nei confronti di tutti voi - ha detto rivolgendosi agli altri membri dell'equipaggio - ma anche nei confronti di tutti coloro che hanno lavorato e mi hanno permesso di raggiungere questo obiettivo ».

Lorenzo Guerini : «Le mie congratulazioni ei miei auguri a @astro_luca che oggi assumono il comando #Iss», ha scritto Guerini in un tweet. «La missione Oltre l'Esa si sta confermando, così, come una missione dai grandi risultati anche grazie al forte contributo italiano», ha esultato invece Giorgio Saccoccia , presidente dell'Agenzia spaziale italiana, augurando buon lavoro a Parmitano. «Luca è stato già protagonista di una prima presenza in orbita con la missione Volare dell'Asi, grazie alla quale sono stati raggiunti importanti obiettivi scientifici e di comunicazione».

La carriera. Luca Parmitano, classe '76, non si ritroverà certamente per caso in questa posizione. È la sua carriera a parlare per lui: prima di essere reclutato nel 2009 dall'Esa, l'agenzia spaziale europea, ha conseguito con successo la strada militare nell'aeronautica italiana, arrivando a ottenere il grado di colonnello. Ha all'attivo oltre 2000 ore di volo , che hanno permesso di manovrare più di 40 velivoli diversi, oltre a essersi qualificato su 20 tipi di aerei ed elicotteri militari. Nel corso della sua carriera ha seguito numerosi corsi di preparazione, durante uno di questi, il Programma per la Leadership Tattica in Belgio, fu coinvolto in un incidente aereo nel 2005 . Mentre volava sulla Manica con un AMX, si controllava con un grosso volatile, che causava la rottura del suo abitacolo, e senza l'ausilio delle comunicazioni via radio riuscì ugualmente a riportare il velivolo a terra in sicurezza. Per questa sua azione, colpì positivamente l'area comunità aerea e questo gli valse, nel 2007, anche il conferimento della Medaglia d'Argento al Valore Aeronautico . Come astronauta, invece, nel 2013 è stato effettuato anche il primo italiano a effettuare una missione Eva , extraveicolare: il 9 luglio la sua passeggiata spaziale si è conclusa dopo 6 ore e 7 minuti. Una settimana dopo, il 16 luglio, Parmitano stava passeggiando nuovamente nello spazio, ma fu costretto a interrompere la missione a causa di un malfunzionamento del casco che si era riempito d'acqua. Complessivamente, nel 2013, rimase in orbita per 166 giorni, mentre questa sua seconda spedizione, iniziata a luglio, durerà fino a febbraio 2020 .

La missione «Beyond». Durante la sua seconda missione nello spazio, chiamata « Beyond » («Oltre»), Parmitano riceverà un'agenda fitta di impegni. Per quanto riguarda le attività extraveicolari, insieme al collega Andrew Morgan, sarà occupato nella riparazione dell ' Alpha Magnetic Spectrometer (Ams) , un rilevatore di particelle agganciato alla Iss. Necessita, infatti, di interventi al sistema di raffreddamento, ma la complessità sta nel fatto che non è stato realizzato per essere aggiustato nello spazio. Parmitano, inoltre, interverrà in prima persona nel corso dell'esperimento Analog-1 : dalla Stazione spaziale internazionale, dovrà guidare un rover robotico nell'area desertica di Lanzarote, isola della Canarie. In questo caso, si vuole dimostrare la capacità di utilizzare tecnologie da remoto, così da farsi trovare pronti quando l'uomo esplorerà l'habitat ostile, come il suolo lunare. Non solo, l'astronauta italiano sarà impegnato in almeno altri 250 esperimenti che svariano dalla biologia alla neurofisiologia, dalla scienza dei materiali alla fisica dei fluidi. In tutti i casi si tratta di ricerche e studi che hanno una particolare valenza perché fatti nello spazio, le cui condizioni sono impossibili da replicare sulla Terra. Ci sarà anche tempo per l'arte del comando e Parmitano nel 2018 , a tal proposito, ha assicurato: «Mi vedo come un facilitatore, il mio scopo sarà di mettere tutti nella condizione di lavorare al meglio delle proprie capacità».

Nespoli e Cristoforetti: gli italiani recentemente a bordo della Iss. Se si sommano i giorni di permanenza fino a febbraio 2020, con quelli della missione del 2013, Parmitano supererà Paolo Nespoli (313 giorni), ultimo astronauta in italiano una parte lontana delle missioni sulla Iss, e diventerà quindi l'esponente italiano di maggior esperienza. Nespoli, che è stato in orbita 3 volte (2007; 2010/2011; 2017), ha sfruttato l'accordo stretto tra Nasa, agenzia spaziale statunitense, e Asi, agenzia spaziale italiana. In cambio di opportunità di volo, verso la Stazione spaziale internazionale, per gli astronauti italiani, l'Asi infatti è impegnata con la Nasa a fornire i moduli Modulo logistico multiuso (Mplm). Realizzati da Alenia Space, sono moduli logistici per il trasporto di rifornimento e attrezzatura verso la Stazione. Restando ai nomi più recenti, tra gli astronauti selezionati per le missioni sulla Iss, c'è stata anche Samantha Cristoforetti che ha partecipato alle spedizioni 42/43, a cavallo tra il 2014 e il 2015. Cristoforetti è quindi diventato la prima astronauta italiana, Peggy Whitson, detenuto il record di permanenza femminile nello spazio in un singolo volo: 199 giorni, che comunque considera il primato a livello europeo.

In futuro la Iss cederà il passo al Lunar Gateway. La Stazione spaziale internazionale, lanciata nel 1988, descritta in uno degli ultimi 20 anni. Nonostante gli ingenti investimenti da parte delle 5 agenzie spaziali coinvolte, Nasa (Stati Uniti), Esa (Unione europea), Roscosmos (Russia), Jaxa (Giappone) Csa (Canada), anche la Iss deve arrendersi all'avanzare del tempo. Non è un caso se a marzo 2019 è stato presentato il progetto Lunar Gateway (LOP-G) , una stazione orbitante attorno alla Luna : Stati Uniti e Canada hanno già formalizzato l'accordo, mentre a novembre è attesa la decisione dell'Esa. I costi di realizzazione saranno enormi , per questo è importante che partecipino più agenzie: l'amministrazione Trump, ad esempio, ha effettuato il bilancio della Nasa, portandolo a 1,6 miliardi di dollari. Questa nuova stazione, inoltre, essendo più vicina alla Luna, oltre all'orbita terrestre, favorisce le future missioni: da una parte sarebbe più semplice spedizioni con o senza equipaggiamento sul satellite, dall'altra manutenzione una preparazione fisica mirata per gli sviluppi futuri legati a Marte.

Luca Parmitano comandante della Iss, è il primo italiano: "Grazie al mio paese". E' il terzo europeo a ricoprire questo ruolo. Sarà il responsabile del lavoro e della sicurezza a bordo. Al comando fino alla vigilia del rientro, previsto per febbraio. Il passaggio di consegne in diretta streaming dalla Stazione spaziale internazionale. Matteo Marini il 02 ottobre 2019 su La Repubblica. Luca Parmitano è diventato il primo comandante italiano della Stazione spaziale internazionale. E la prima parola, il primo ringraziamento dell’astronauta siciliano è stata gratitudine verso l’Italia e l’educazione che ha ricevuto. Il passaggio di consegne è avvenuto alle 15.20 ora italiana, quando il russo Aleksey Ovchinin gli ha consegnato lo “scettro”, il simbolo del comando della stazione orbitante.

"Grazie al mio Paese". “Userò poche parole perché non ho ancora fatto niente - ha detto Parmitano in collegamento con la Terra durante la cerimonia di passaggio di consegne – ma la prima che voglio usare è gratitudine per te (riferito al comandante Ovchinin ndr) se la missione fino a qui è stata un successo è merito della tua leadeship e ti userò come esempio. Sono grato per essere stato scelto come comandante e grato al mio Paese, perché se sono qui è grazie all’educazione che ho avuto, all’Accademia e a tutti quelli che hanno partecipato alla mia educazione. La seconda parola è “umiltà, perché non vedo l’ora di mettermi al lavoro. La terza è fiducia, grazie a tutti gli anni di addestramento e preparazione, mi sento sicuro che nonostante tutti i compiti che abbiamo davanti nei prossimi mesi alla fine ripenseremo a questa cerimonia e ci diremo che la fiducia in noi stessi era dovuta. Farò del mio meglio per essere al vostro servizio e meritarmi questo onore”. L’astronauta italiano è il terzo europeo a vedersi assegnato questo ruolo. Il primo, nel 2009, è stato il belga Frank De Winne, seguito, il 3 ottobre 2018, dal tedesco Alexander Gerst. In meno di un anno, dunque, saranno due i comandanti europei. Parmitano manterrà il ruolo di responsabile per la parte restante della sua permanenza a bordo che si concluderà a febbraio, quando farà ritorno sulla Terra dopo circa sette mesi. Nella notte Ovchinin, assieme allo statunitense Nick Hague e al primo astronauta degli Emirati Arabi, Hazzaa Ali Almansoori, saluteranno il resto dell’equipaggio e si imbarcheranno sulla Soyuz per tornare verso Terra.

Le responsabilità del capo. Il comandante della Stazione spaziale internazionale lo è già prima di partire. Secondo il Codice di condotta dell’equipaggio della Iss, è colui che deve sovrintendere anche all’addestramento e verificare che tutti i requisiti e la preparazione dei colleghi soddisfino le caratteristiche richieste. Nello spazio ha il compito di mantenere unito il gruppo, sovrintendere le operazioni di bordo e comunicare con i direttori di volo a Houston, mantenere l’armonia e l’equilibrio nella collaborazione tra i membri dell’equipaggio per far sì che la missione venga completata con successo. È un ruolo importante e delicato, perché si tratta di sei persone chiuse per mesi in uno spazio ristretto che viaggia nello spazio a 400 chilometri di quota. È inoltre il responsabile della loro sicurezza e incolumità. È lui, quindi, a coordinare le operazioni in caso di emergenza. Anche dopo la fine della missione in orbita, una volta tornati a terra, il comandante deve assicurarsi che gli altri astronauti portino a termine tutte le attività richieste.

Il secondo volo nello spazio. Per Parmitano, nato a Paternò nel 1976, si tratta della seconda esperienza in orbita. Anche e soprattutto nello spazio ha sempre manifestato un grande attaccamento e passione per la sua terra natale, la Sicilia, immortalandola in scatti mozzafiato dal balcone più suggestivo, la cupola della Stazione spaziale. Ma prima ha consolidato un curriculum militare di grande spessore. Diplomato al liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania nel 1995, si è laureato nel 1999 all’Università di Napoli in Scienze politiche e l’anno successivo si è diplomato all'Accademia Aeronautica Italiana di Pozzuoli. Poi l’addestramento alla Sheppard Air Force Base in Texas, base Euro-Nato. Nel 2003 si è diplomato come ufficiale di Guerra elettronica alla ReSTOGE di Pratica di Mare e ha conseguito un master di Ingegneria del volo sperimentale all’Istituto superiore dell'Aeronautica e dello Spazio di Tolosa. Nel 2009 è stato selezionato come astronauta Esa e nel 2011 assegnato alla prima missione di lunga durata dell’Asi a bordo della Stazione spaziale internazionale. La sua prima volta nello spazio (la missione denominata Volare) è del 2013: trascorse 166 giorni in orbita, svolgendo anche due Eva (Extra vehicular activity, impropriamente “passeggiata spaziale”) la seconda delle quali terminò molto presto per un guasto al sistema di raccolta di condensa della tuta. Le perdite di liquido finirono nel casco e rischiò quasi di affogare. Il 20 luglio 2019, il giorno del cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, è decollato di nuovo dalla base spaziale di Baikonur, in Kazakhistan. Durante la sua missione (denominata Betyond) sono previste diverse uscite extra veicolari: dieci in tutto. Sono forse i mesi più intensi da quando la Iss è stata costruita, sicuramente da quando è stata terminata, nel 2011. Si tratta di attività di manutenzione anche dell’esperimento scientifico Alpha magnetic spectometer, che da solo ne richiede cinque. Il rientro di Parmitano è previsto per febbraio.

"Per la prima volta un nostro connazionale assume il ruolo di Comandante della Stazione Spaziale Internazione. Complimenti e buon lavoro a Astroluca, orgoglio italiano nel mondo", scrive su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo la cerimonia nello spazio. E a Parmitano vanno anche gli auguri dell'Asi, inviati dal presidente Saccoccia: "Auguri di buon lavoro a Luca Parmitano che permette all’Italia spaziale di raggiungere un grande traguardo. Diventare comandante della Stazione Spaziale Internazionale è un grande privilegio, il primo per un astronauta italiano. È il riconoscimento della sua grande professionalità e delle sue competenze dimostrate sul campo e in volo. La missione Beyond dell’Esa si sta confermando, così, come una missione dai grandi risultati anche grazie al forte contributo italiano. Luca è stato già protagonista di una prima presenza in orbita con la missione Volare dell’Asi, grazie alla quale sono stati raggiunti importanti obiettivi scientifici e di comunicazione. Siamo orgogliosi, quindi, della sua assegnazione al comando della Iss. Un passaggio che segna la conferma per il sistema Italia, anche grazie all’Aeronautica Militare, delle capacità a tutto tondo nel formare e preparare a livelli eccelsi tutta la pattuglia dei sette astronauti tricolori che si sono alternati in orbita in questi anni".

Cosa succede quando nello spazio scappano cacca e pipì: imprevedibile e imbarazzante dettaglio intimo. Giordano Tedoldi su Libero Quotidiano il 30 Novembre 2019. Nello spazio, tutto prende più tempo ed è più complicato, anche l' igiene personale: una doccia, ad esempio, può richiedere due ore. Dunque non è proprio una cosa da nulla se il comandante della Stazione spaziale internazionale (ISS), l' italiano Luca Parmitano, ha riferito al Centro spaziale che entrambi i bagni dell' ISS sono fuori uso. La stazione possiede un bagno nel modulo russo e un bagno nel modulo statunitense; entrambi sono di fabbricazione russa, sono costati circa 20mila dollari. Gli astronauti a bordo (attualmente, oltre a Parmitano, ci sono i russi Alexander Skvortsov e Oleg Skrypochka e gli americani Christina Cook, Andrew Morgan e Jessica Meir, tutti impegnati nella missione Beyond che terminerà a gennaio) espletano le loro funzioni fisiologiche in modo particolare. Per quanto riguarda l'urina gli astronauti si liberano in una specie di imbuto dove il liquido viene risucchiato da un aspiratore e, nell' arco di circa otto giorni, riciclato: l' 80-85 per cento diventerà acqua potabile. come sulla Terra Per defecare, seduti e assicurati a un apparato in tutto somigliante alla tazza dei wc terrestri, gli astronauti adempiono il bisogno dentro una busta di plastica bucherellata che consente l' aspirazione anche delle deiezioni intestinali; la busta poi viene richiusa e spinta in un sistema di smaltimento di rifiuti solidi. Purtroppo per i nostri eroi, come ha spiegato l' astronauta Peggy Whitson, quando il serbatoio si comincia a riempire, bisogna indossare i guanti e spingere il contenuto che, infine, viene sparato sulla Terra dove, provvidenzialmente, prende fuoco al contatto con l' atmosfera. Si può capire da tutto ciò che razza di problema debbano affrontare i valorosi uomini sulla stazione spaziale, con i cessi fuori uso. Naturalmente a Houston non si sono mica persi d'animo; figurarsi. Subito hanno fornito la soluzione a Parmitano e compagni: «mettete i pannoloni spaziali». massima assorbenza E che sono? Sono i MAG, che sta per Maximum Absorbency Garment, che vuol dire Indumento di Massimo Assorbimento. Proprio come dice il nome, sono composti di un materiale superassorbente che consente agli astronauti che lo indossano di farsela addosso senza alcun imbarazzo. Inoltre, sono perfettamente ermetici, cioè non c'è possibilità di perdite, una caratteristica che, in condizioni di assenza di gravità, è estremamente importante. A quanto riferisce Parmitano, il problema ai due bagni spaziali è diverso: quello nel modulo statunitense, come molte toilette nei treni, semplicemente indica costantemente che è fuori servizio, quello russo invece risulta pieno al massimo della sua capacità. Più tardi, un ingegnere dal Centro spaziale di Houston ha rassicurato il nostro comandante e i suoi compagni di viaggio: il cesso americano dovrebbe essere nuovamente operativo. Un sospiro di sollievo si leva anche dalla Terra. utilità della missione Ora, qualche lettore di queste righe si potrà domandare perché un certo tono ironico, e anche canzonatorio, da parte nostra, per il fatto che sulla stazione spaziale internazionale si sono rotti tutti i bagni, e un ingegnere a Houston raccomandi, quindi, l' uso dei pannoloni. Rispondiamo che, sinceramente, da molto tempo a questa parte, la rottura dei bagni sulla ISS ci sembra essere la notizia più degna di nota che provenga da lassù. Il motivo della enorme attenzione per le attività degli astronauti sulla stazione, del grande interesse per AstroSamantha (la bravissima astronauta italiana Samantha Cristoforetti), detto francamente, ci sfugge. Ma a che serve, esattamente, la stazione spaziale internazionale, a parte tenere degli uomini in orbita a 408 km dalla Terra? Secondo il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg, la ISS è «un fallimento orbitante nessun risultato scientifico importante ne è venuto. E, potrei dire, nessun risultato scientifico in assoluto». Weinberg ha ragione, ha torto? Serve o no questo costosissimo laboratorio orbitante, e servono i suoi costosissimi bagni, e i suoi costosissimi pannoloni? Non abbiamo le competenze per giudicare. Parmitano, Cristoforetti e gli altri astronauti che sono o sono stati lassù, postano sui loro social bellissime foto della Terra. Ma a parte ciò? A volte ci sembra davvero che la stazione spaziale sia soltanto un dispendioso congegno per rendere difficile e pieno di suspense ciò che sulla Terra è invece abituale. Come, in questo caso, andare al gabinetto. Giordano Tedoldi

Quelli che non ci credono. Da dove arrivano le teorie del complotto sull'allunaggio, e perché non possono essere combattute con i fatti. Beatrice Anfossi domenica 14 luglio 2019 su Il Posta. Il 21 luglio 1969 un uomo per la prima volta scese sulla Luna (due, per la precisione). Ma a cinquant’anni di distanza c’è ancora chi non ci crede, nonostante le molte testimonianze, fotografie e prove. La teoria del complotto lunare è una delle più famose e longeve nel vasto contesto del complottismo: la sua diffusione coinvolge ormai tutto il mondo, e da tempo trova molti sostenitori anche in Italia. I teorici del falso allunaggio sostengono che l’arrivo sulla Luna della missione spaziale Apollo 11 non sia mai avvenuto e sia frutto di una messa in scena organizzata dalla NASA all’interno di uno studio cinematografico: come un film. Alcuni sostengono che a girarlo sia stato Stanley Kubrick, il regista di 2001: Odissea nello Spazio. Saremmo quindi tutti vittime di un enorme inganno. Secondo i complottisti, la NASA avrebbe messo in atto questo piano per diversi motivi: da un lato per non perdere il budget di trenta miliardi di dollari che le era stato destinato dal governo statunitense, dall’altro per la volontà del governo stesso di distogliere l’attenzione pubblica dalla guerra del Vietnam, in cui gli Stati Uniti erano coinvolti dal 1964 e che stava provocando enormi contestazioni da buona parte della società civile statunitense. Erano inoltre gli anni della Guerra fredda, e da diverso tempo gli Stati Uniti erano in competizione con l’Unione Sovietica nell’esplorazione dello Spazio: per il governo americano dire di essere arrivato per primo sulla Luna, sostenevano diverse teorie del complotto, sarebbe stata certamente una importante prova di forza nei confronti dei sovietici (come peraltro fu anche nella realtà). Dopo i primi dubbi immediatamente successivi all’allunaggio, un dibattito più concreto iniziò a metà degli anni Settanta, quando Bill Kaysing pubblicò il suo libro We Never Went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle! (“Non siamo mai stati sulla Luna. Una truffa da 30 miliardi di dollari!”). Laureato in letteratura inglese, impiegato dal 1956 al 1963 alla Rocketdyne, azienda fornitrice della NASA, Kaysing sosteneva che la NASA non avesse le competenze tecniche per raggiungere la Luna, oltre a contestare alcune anomalie nelle fotografie, come l’assenza delle stelle sullo sfondo. La NASA rispose alle diverse obiezioni di Kaysing: in particolare spiegò che le stelle non erano visibili poiché il tempo di esposizione della fotocamera non permetteva di riprodurre la loro luce piuttosto debole, considerando anche l’interferenza della luce del Sole. Gli scetticismi divennero ancora più conosciuti e diffusi dopo che furono ripresi dai media, e in particolare dopo che finirono in alcuni film e documentari. Un riferimento, interpretato però dai più come ironico, era già presente nel film del 1971 Agente 007 – Una cascata di diamanti. Il protagonista James Bond, durante un inseguimento, si ritrovava al centro di un set, simile a quello che la NASA avrebbe creato secondo i complottisti, dal quale scappava a bordo di un “Moon Buggy”, veicolo utilizzato dagli astronauti per spostarsi sulla Luna. Un impatto più serio e rilevante lo ebbe il film del 1978 Capricorn One, che raccontava un falso arrivo su Marte simulato dalla NASA. L’idea che il governo statunitense potesse ingannare i propri cittadini, mentendo anche su questioni importanti, in quegli anni era piuttosto diffusa: nel 1972, non molto tempo dopo la missione Apollo 11, la politica statunitense era stata travolta dallo scandalo Watergate, che aveva portato alle dimissioni del presidente Nixon rivelando un’attitudine a mentire e nascondere le cose da parte del governo. La NASA si impegnò per smentire le tesi dei complottisti presentando principalmente tre prove: l’esistenza di circa 382 chili di resti di rocce lunari che gli astronauti avevano portato sulla Terra, dove non si sarebbero potute formare con le stesse caratteristiche; le immagini, riprese dalla sonda Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO), delle tracce che gli astronauti avevano lasciato esplorando la superficie lunare; ma soprattutto il fatto che altri paesi del mondo, anche avversari degli Stati Uniti come l’Unione Sovietica, avessero seguito da vicino e con i propri mezzi l’intera spedizione, per poi congratularsi del successo raggiunto dagli americani. Se tutto fosse stato inventato, disse la NASA, i sovietici ne avrebbe sicuramente approfittato per screditare gli Stati Uniti. Nonostante le risposte della NASA nel 2001 il canale statunitense Fox, tradizionalmente conservatore, mandò in onda un documentario intitolato Conspiracy Theory: Did We Land on the Moon? (“Teoria del complotto: siamo sbarcati sulla Luna?”) , che negava tutti i sei viaggi sulla Luna avvenuti tra il 1969 e il 1972, dando di nuovo spazio alle teorie di Kaysing. Kaysing sottolineava alcune stranezze nei fotogrammi delle missioni, come già aveva fatto nel suo libro: l’assenza delle stelle, il fatto che la bandiera si muovesse pur in assenza di aria o che l’atterraggio del razzo non avesse prodotto nessun cratere sulla superficie lunare. La trasmissione ebbe una grande risonanza tra il pubblico e costrinse la NASA a intervenire di nuovo per garantire la propria credibilità. Più di recente Roger Launius, l’allora principale storico della NASA, ha spiegato di essersi trovato in quel periodo a dover rispondere a domande sul presunto falso allunaggio che genitori e insegnanti ricevevano sempre più spesso dai giovani. Si diffusero poi posizioni che non negavano l’intero sbarco ma contestavano le prove e le immagini dell’evento. Nel 2003 il fotografo francese Philippe Lheureux pubblicò una traduzione inglese del suo libro Lumières sur la Lune (“Luci sulla Luna”), nel quale sosteneva che gli Stati Uniti, pur avendo mandato realmente degli uomini sulla Luna, avessero scelto di non diffondere le vere fotografie per proteggere le informazioni scientifiche che contenevano, sostituendole con dei falsi. Altri fotografi professionisti sono poi intervenuti sostenendo questa tesi all’interno del documentario American Moon dell’italiano Massimo Mazzucco, realizzato nel 2017: commentando alcune presunte stranezze di luci e ombre nelle fotografie delle missioni Apollo, il fotografo tedesco Peter Lindbergh sosteneva che fossero immagini false. Le prove con cui la NASA ha risposto, pur nella loro evidenza, hanno sempre avuto un limite naturale: i complottisti credono che siano state costruite apposta per ingannare il pubblico, convincendo a prendere parte al piano le centinaia di persone che lavorarono al programma spaziale statunitense. Le tesi complottiste non possono essere combattute con i fatti perché si fondano su un’idea precisa: che vi sia qualcuno, in questo caso il governo degli Stati Uniti, talmente potente da poter ingannare tutti costruendo da zero i fatti stessi. È tipico delle teorie del complotto attribuire allo stesso complotto le smentite della teoria. Nelle sue varie forme la teoria del complotto sul falso allunaggio è arrivata ai nostri giorni, senza perdere vitalità. In Italia, un recente sondaggio ha stimato che il 20 per cento degli italiani creda nel complotto del falso allunaggio. Negli Stati Uniti, riporta Roger Launius, circa il 5 per cento della popolazione è convinto che l’uomo non abbia mai raggiunto la Luna: una percentuale minima ma agguerrita nel difendere le proprie idee. L’ipotesi del complotto è stata di recente promossa e diffusa da alcuni personaggi pubblici: tra questi il giocatore di basket statunitense Stephen Curry, che dopo averla condivisa l’ha poi ritrattata. Questo e gli altri articoli della sezione Come andammo sulla Luna sono un progetto del workshop di giornalismo 2019 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.

Antonio Atte per Adnkronos il 21 luglio 2019. "La avverto che questa chiamata è registrata". Albino Galuppini è il leader dei terrapiattisti italiani e oggi, 20 luglio 2019, cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, ritiene non ci sia da festeggiare alcunché, perché a suo dire (e secondo migliaia di altri seguaci della teoria del complotto) su quel satellite l'essere umano non ha mai messo piede. Interpellato telefonicamente dall'Adnkronos, Galuppini nega che l'impresa di Neil Armstrong e del resto dell'equipaggio dell'Apollo 11 sia davvero avvenuta, sostenendo la tesi secondo la quale sarebbe stato il regista Stanley Kubrick a girare il finto sbarco in studi top secret: "Non c'è nessuna prova che siamo andati sulla Luna. Le prove le ha fornite la Nasa e non c'è nessuna 'parte terza' che abbia verificato il materiale fornito dall'Agenzia spaziale americana. Dal punto di vista tecnico sono innumerevoli i problemi che un'impresa del genere comporterebbe oggi, figuriamoci negli anni '60. E mi riferisco soprattutto all'affidabilità dei razzi...". Fotografie, filmati, scritti e testimonianze di luminari della scienza che smentiscono senza appello la più celebre e fortunata delle teorie complottiste, per Galuppini non sono da prendere in considerazione: "Armstrong &Co? Chiaramente gente pagata, militari. E' come se qualcuno fotografasse la torre degli Asinelli di Bologna e la spacciasse per la torre di Pisa: uno che non può andare a Pisa deve per forza fidarsi. Lo stesso vale per le foto della Nasa...". Ma se la Terra è piatta, come sostiene il re dei terrapiattisti italiani, cos'è la Luna? "E' una luminaria - risponde Galuppini, autore, tra l'altro, di alcuni libri sull'argomento - ed è molto colorata: ci sono foto, non smentite, in cui si vede chiaramente il colore blu. Basta osservarla con un telescopio. Da lontano sembra giallastra, ma è colorata. Perché la Nasa ci mostra sempre le foto della Luna in bianco e nero?". Quesiti che riportano indietro le lancette della storia in barba a secoli di scoperte scientifiche. La conversazione torna sulla questione dell'allunaggio, che secondo l'americano Bill Kaysing - autore del libro "Non siamo mai andati sulla luna" e nume tutelare dei complottisti - fu una messinscena filmata in segretissimi studi cinematografici. "Secondo Kaysing, è stato Kubrick a girare il finto allunaggio nell'Area 51, zona off limits situata nel deserto del Nevada. Lì - spiega il terrapiattista - hanno costruito la finta narrazione degli alieni, ma in realtà ci sono gli studi dove sono stati costruiti i paesaggi lunari. Kaysing sostiene che quei set siano ancora lì, conservati come una specie di museo. Probabilmente pensavano di utilizzarli per nuove missioni, ma questa è una mia idea...". Il viaggio ai confini del complotto non finisce qui. Lo stesso Kubrick - sostiene Galuppini, citando un'altra celebre teoria cara ai negazionisti - avrebbe disseminato il film "Shining" di indizi sul presunto finto allunaggio. "Basti pensare al maglione indossato nel film dal bambino, con il disegno del razzo e la scritta "Apollo 11", e alla stanza 237 dell'Hotel, dove il numero rimanda alla distanza della Luna dalla Terra (237mila miglia). Lo stesso film "2001 odissea nello spazio", del 1968, sarebbe stato girato per mettere a punto la tecnologia necessaria a simulare l'allunaggio", osserva Galuppini. Ma quale motivo si celerebbe dietro una così dispendiosa operazione? Galuppini tira un lungo sospiro: "E' una bella domanda. Quello che posso dire, è che lo sbarco sulla Luna non poteva avvenire, è stata una colossale messinscena. Una costruzione che è servita a controllare la gente, a far crescere la sua fiducia nella scienza in sostituzione della religione. E' tutto organizzato dalla massoneria per negare la veridicità della Bibbia e di Gesù". La telefonata finisce qui, ma la teoria del complotto, c'è da scommetterci, continuerà a far proseliti chissà per quanto tempo ancora.

Kubrick, Shining e l'Apollo 11. Piccole Note de Il Giornale il 20 luglio 2019. Dato che è l’anniversario dello sbarco dell’Apollo 11 sulla Luna, nel ricordare l’incredibile, fantastico, evento, un piccolo divertissement, nato da una sollecitazione di uno dei nostri lettori. In altro articolo (Piccolenote) abbiamo accennato a come Donald Rumsfeld avesse suggerito a Nixon, in caso di difficoltà della missione Apollo 11, di preparare un piano B. Si doveva cioè realizzare un filmato che inscenasse un finto allunaggio, del quale si sarebbe dovuto incaricare il celebre regista Stanley Kubrick, il quale un anno prima aveva realizzato il realistico 2001 Odissea nello spazio. Non si sa nulla di questo piano B, se cioè il suggerimento sia stata lasciato cadere o se invece il noto regista abbia realizzato il filmato e l’abbia poi distrutto perché tutto era andato bene. Ci è stato fatto notare da un lettore che Kubrick, nel suo film successivo, il thriller Shining, avrebbe lasciato alcuni indizi in proposito alla missione dell’Apollo 11. Shining nasceva da un libro di Stephen King, con una trama però rielaborata, tanto che il noto giallista ne fu, eufemisticamente, contrariato. Kubrick vi ha inserito, ad esempio, il tema del labirinto, che nel romanzo non c’è. Sia l’albergo sia il giardino finale sono labirinto, e labirinto ossessivo l’albergo, dove finzione e realtà s’intrecciano. Il film narra l’impazzimento di Jack, scrittore che accetta un lavoro di custode in un albergo isolato, dove si ritira con moglie e figlio per scrivere un romanzo. E la storia del figlio, che ha il dono di vedere oltre la realtà, vittima, insieme alla madre, della follia di Jack (anche se il bambino alla fine si salva… ci sia concesso e derubricato lo spoiler per un film che dovrebbero ormai aver visto tutti). Nel film, Kubrick avrebbe inserito cose, appunto. Rimandiamo a un filmato in proposito, che ovviamente non ci ha convinti sulla finzione dell’allunaggio dell’Apollo 11. Ma incuriositi sì. Un divertissement, appunto, che proponiamo ai lettori. In particolare, incuriosisce la scena del bambino col maglione con disegnato sopra il missile Apollo, che poi si alza – e qualcuno vi ha voluto vedere la scena come un rimando al decollo del razzo – e va alla stanza 237, la stanza dei misteri, quella abitata da orrende finzioni. Per inciso, il numero della stanza non è quello originale del libro, Kubrick lo ha cambiato. E c’è chi ha voluto vedervi un rimando alla distanza luna-terra, che allora si stimava in 237 miglia. Sulla serratura della porta, la chiave con la targhetta: “Room n° 237”, facile anagramma di Moon 237. Insomma, il bambino che è in Kubrick avrebbe voluto dire al mondo la verità che Jack non può dire. Infatti, nel filmato che proponiamo, che è di Sky Arte – quindi roba di qualità -, il narratore spiega che Shining rappresenterebbe il rovello del regista, costretto a un segreto che non può rivelare (quando Jack dice ossessivamente alla moglie: “Lo sai che vuol dire un contratto”?). Un segreto che rischia di farlo impazzire, come poi accadrà a Jack, il protagonista del film. Da qui la scena più bella del film, quando la moglie scopre con orrore che il romanzo al quale Jack sta lavorando è finto. Quel che scrive è tutta finzione, un ripetersi all’infinito della stessa frase: “Il mattino ha l’oro in bocca”. In realtà, nell’originale americano, la frase era un’altra: “All work and no play makes Jack a dull boy” (proverbio inglese che recita: “Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo annoiato”). Qualcuno ha voluto vedere nelle prime tre lettere della frase, “All”, un riferimento all’Apollo 11. All’epoca del film le dicerie su un coinvolgimento di Kubrick a un film sull’allunaggio dell’Apollo 11 non erano di larga diffusione nel mondo complottista, né tantomeno si sapeva del piano B, non complottista, di Rumsfeld. Se le dicerie fossero state di dominio pubblico è più che probabile che Kubrick avrebbe evitato scene che avrebbero potuto destare equivoci. Tant’è. Di seguito il simpatico, e breve, filmato di Sky Arte.

Luna, i rifiuti lasciati dagli astronauti. L’uomo è sbarcato sulla Luna ormai 50 anni fa, lasciando sul nostro satellite un cumulo di rifiuti e deiezioni che ora la Nasa vuole riportare sulla Terra e studiare. Francesca Rossi, Lunedì 08/07/2019, su Il Giornale. L’uomo inquina. Ebbene sì, c’è poco da fare. Dovunque andiamo creiamo scarti e rifiuti di vario tipo. Siamo stati “disegnati” così. Ovviamente ciò non è un buon motivo per riempire il nostro Pianeta e l’universo di immondizia, tema peraltro molto caldo in questi giorni. Abbandoniamo per un attimo i problemi terreni relativi a cassonetti e raccolta differenziata e spostiamoci sul nostro satellite, la Luna. I primi uomini vi hanno messo piede ormai 50 anni fa, il 20 luglio 1969, in una missione entrata nella storia. La spedizione, però, ha anche un lato oscuro e maleodorante. Armstrong e Aldrin e gli altri astronauti delle missioni Apollo, esseri umani come tutti noi, si sono lasciati alle spalle cumuli di rifiuti, come ci racconta il sito Business Insider. Insomma non siamo riusciti a tener pulito neanche il suolo lunare, ma non è un caso isolato: di solito capita che i viaggiatori, durante le missioni estreme (sulla Terra o nello spazio), si trovino a dover abbandonare i loro scarti. Così sulla Luna abbiamo lasciato 70 veicoli, 5 bandiere americane, 2 palline da tennis, 12 paia di scarpe, attrezzatura fotografica, zaini, giornali, medaglie, statuette, ma anche altre cose meno edificanti (ma del tutto naturali), come 96 sacche di feci, urine e vomito. Tutto questo è stato prodotto dall’uomo nel corso delle 6 visite sul satellite, per un totale di 16 giorni. L’abbandono di questi resti è dovuto al bisogno di rendere il più leggeri possibile i mezzi di trasporto che avrebbero consentito il rientro sulla Terra. Forse quei rifiuti sarebbero rimasti sulla Luna, dimenticati per sempre, se la Nasa non avesse ricevuto la direttiva di Donald Trump del 2017, nella quale il presidente americano chiede la ripresa dei programmi di espansione umana nel Sistema Solare. L’uomo vuole tornare sulla Luna e colonizzare Marte, ma per far questo ha bisogno di studiare strategie di sopravvivenza inattaccabili. Il modo migliore per farlo è raccogliere dati scientifici e quale migliore possibilità dei rifiuti lunari? Business Insider spiega che il 50% della massa fecale è fatta di batteri, gli stessi che “vivono” nel nostro intestino (ce ne sono di specie diverse). In teoria questi resti non dovrebbero aver inquinato la Luna, dove le condizioni di vita sono impossibili: non c’è atmosfera, né ozono, le temperature si collocano tra i 223 e i 150 gradi e l’esposizione ai campi magnetici è ampia. Nonostante questo, però, molti studi hanno dimostrato che i microrganismi possono sopravvivere in situazioni proibitive. Forse anche i batteri del nostro intestino. Se così fosse avremmo un tassello in più per capire fin dove può spingersi il limite umano di sopravvivenza. Per questo motivo, nel 2020, una nuova spedizione sulla Luna si occuperà anche di riprendere le famose sacche maleodoranti e riportarle a Terra, in modo che gli scienziati possano studiarle. I microrganismi potrebbero essersi evoluti e adattati alle condizioni estreme, oppure essersi “addormentati” in attesa di una situazione favorevole alla sopravvivenza. Già l’Apollo 16 tentò con successo di far vivere un campione di batteri fuori dalla navicella, seppur per pochi giorni. Cosa accadrebbe se l’uomo lasciasse i suoi rifiuti anche su Marte? Le ricerche ci faranno anche capire qualcosa in più sulla nascita della vita sulla Terra. Business Insider giunge a una possibile conclusione in proposito: forse non è del tutto fantasioso pensare che questi organismi invisibili a occhio nudo e così resistenti abbiano viaggiato nello spazio su un asteroide e siano arrivati fin sul nostro pianeta. A quel punto non saremmo solo figli delle stelle, ma anche di qualche altra cosa molto meno romantica.

Rover, borse lunari, joystick e memorabilia: tutto quello che la Nasa si è perso. Simone Cosimi il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Un rapporto dell’ispettorato generale dell’agenzia alza il velo sulle pessime procedure di custodia degli oggetti appartenuti agli astronauti, dei pezzi dei veicoli e di altri strumenti. Troppo spesso finiti all’asta, nelle case di ex dipendenti come souvenir o parcheggiati in giardino. Farebbero la gioia di qualsiasi nerd appassionato di esplorazione spaziale. In mezzo c’è per esempio una sacca usata per raccogliere suolo lunare, delle console di comando per il controllo dei mezzi spaziali e un prototipo di rover sempre per il nostro satellite. Sono solo alcune delle memorabilia che la Nasa ha perso nel corso degli anni, di cui ha ritrovato le tracce dopo molto tempo ma che non è riuscita a recuperare. Lo ha svelato un nuovo rapporto dell’ufficio dell’ispettorato generale della mitica agenzia spaziale statunitense che ha messo sotto la lente il modo assai superficiale in cui il management ha gestito oggetti e beni non più utilizzati. Nonostante siano stati dei passi avanti nella conservazione, pare che alcuni pezzi di una certa importanza siano stati smarriti. Il più delle volte, pare di capire, sottratti da ex dipendenti della National Aeronautics and Space Administration guidata oggi dal (contestato) repubblicano James Bridenstine. Occorre ovviamente fare un passo indietro. Alla Nasa, ha spiegato anche il sito The Verge, sono due le tipologie di beni storici da custodire. Da una parte gli edifici e i siti di test e sperimentazioni, alcuni ovviamente ancora utilizzati e concessi in affitto. Dall’altra – e qui entrano in gioco gli amanti dei labirinti e degli intrecci storici – gli oggetti personali come le tute spaziali e altri tipi di strumenti ormai inutilizzati ma che, appunto, mantengono un fascino e una retroterra da difendere. In fondo, gli oggetti parlano e spesso, specialmente nel racconto delle epopee spaziale nei molti musei sparsi per gli Stati Uniti e non solo, costituiscono un elemento essenziale di arricchimento e comprensione delle diverse missioni. Mentre la gran parte dei beni e delle proprietà della Nasa ha più di quarant’anni, ciò che esce dal documento è la profonda mancanza di controllo nella conservazione degli oggetti appartenuti e usati dagli equipaggi o degli hardware sfruttati nel corso dei programmi di esplorazione. Un esempio lampante è il prototipo di un rover lunare, individuato da Motherboard nel giardino di un tale dell’Alabama. Morto l’uomo, i figli hanno venduto la “macchina” – tecnicamente nota come Brown Engineering Local Scientific Survey Module – a uno sfasciacarrozze del Tennesse che già anni prima se ne era interessato il quale, a sua volta, lo ha ceduto a un’asta dopo essersi reso conto del valore e aver rifiutato le offerte degli emissari Washington. D’altronde non c’erano elementi né documenti, a parte la testimonianza di uno dei progettisti che lo costruirono alla metà degli anni Sessanta. Il filo rosso con quel mezzo sembra essersi di nuovo perso. Ma il rapporto contiene altre vicende al limite del paradosso e spesso ne sono protagonisti oggetti individuati nel corso delle aste. Una borsa utilizzata per il trasporto di rocce lunari nella missione Apollo 11, persa dalla Nasa, sfoggia una storia incredibile: prima sequestrata nel 2003 dall’Fbi nell’abitazione di un ex manager del Kansas Cosmosphere and Space Center di Hutchinson e poi ceduta sempre nel corso di una vendita al pubblico autorizzata da un giudice nel 2015. Di più: l’anno dopo la Nasa ha dovuto certificarne l’autenticità, come richiesto dall’acquirente (che aveva sborsato meno di mille dollari per assicurarsela) ma ha tentato di trattenerla. Secondo il tribunale si trattava ormai di una legittima proprietà dell’acquirente che a quel punto, forte della certificazione, l’ha rapidamente rivenduta nel luglio dello scorso anno per 1,8 milioni di dollari. Ancora, un vecchio dipendente si sarebbe portato a casa tre joystick conservati al Johnson Space Center, a circa 40 km a sudest di Houston, Texas, usati sempre nel corso della missione Apollo 11: quella più importante, la prima che portò l’uomo sulla Luna il 20 luglio 1969 e durata dal 16 al 24 dello stesso mese con i passi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sul satellite terrestre. Nel 1985, quasi al momento della pensione, all’impiegato venne detto di sbarazzarsene. Invece di obbedire, l’uomo conservò quei pezzi. Più avanti li avrebbe venduti (di nuovo, a un’asta) e fu in quel passaggio che la Nasa tornò a occuparsene. Ma dopo una battaglia legale durata tre anni, non riuscì a sottrarli all’acquirente. Sarebbero serviti per completare un allestimento in mostra allo Smithsonian National Air and Space Museum di Washington. Sempre lo stesso dipendente si appropriò di un modulo dell’Apollo 9, stavolta restituito e messo in mostra in un museo. Un altro caso è quello di un orologio Omega Speedmaster Professional usato dagli astronauti degli shuttle. Venne individuato nel corso della solita asta (stavolta da Bonhams a Londra) nel dicembre 2014. A causa della scarsa documentazione, non fu subito chiaro se avesse effettivamente volato anche se era proprietà dell’astronauta tedesco Reinhard Furrer al momento della morte, nel 1995. Furrer aveva partecipato alla missione STS-61-A dello Space Shuttle Challenger. Una volta stabilita la proprietà, l’agenzia ha provato a riottenerlo incassando un rifiuto da parte del legittimo proprietario olandese. Alla fine, grazie alla mediazione di un ufficio statunitense preposto a questo tipo di controversie, è riuscita a mediare pagando 2.300 dollari. Non solo memorabilia. Fra le preoccupazioni dell’ispettorato generale ci sono anche i prestiti. Sì, come fosse un museo che manda in giro le proprie opere, anche la Nasa spesso concede pezzi e frammenti degli shuttle Columbia e Challenger, i due casi drammatici del 2003 e del 1986 nel quale sono morti nel complesso 15 membri degli equipaggi nel primo caso rientrando nell’atmosfera e nel secondo a 73 secondi dal decollo. Per fortuna nulla è andato ancora perso, di quei pezzi, ma l’organo di indagine interno ha scoperto che queste concessioni vengono fatte troppo alla leggera, senza accordi formali di prestito che potrebbero comportare ulteriori perdite di materiali. A quanto pare, qualche decennio fa le cose andavano anche peggio. Durante i programmi Merury, Apollo e Gemini, per esempio, la Nasa distribuiva pezzi e altri oggetti agli astronauti, come fossero souvenir spaziali, ma anche agli impiegati e ai consulenti esterni: “Nel corso del tempo questi oggetti regalati sono spuntati nelle aste e negli annunci su internet e la Nasa ha tentato occasionalmente di recuperarli creando anche tensioni con gli astronauti – si legge nel documento – tanto che è servita uno statuto, approvato nel 2012, che certificasse la proprietà degli oggetti degli equipaggi che avevano partecipato alle missioni di quegli anni”. La sentenza, tuttavia, è estremamente severa: “I processi di prestito e diffusione delle proprietà storiche sono migliorati nel corso degli ultimi sessant’anni – sintetizza il rapporto – ma una significativa quantità di oggetti è stata persa, spostata o sottratta da ex dipendenti e consulenti a causa della mancanza di adeguate procedure. Recuperare quei beni si è rivelato particolarmente difficile sia nella fase dell’individuazione che per la riluttanza dell’agenzia nel certificare l’origine ai proprietari attuali. In più, i precedenti tentativi sono stati compromessi dalla scarsa documentazione e del poco coordinamento”. Houston, abbiamo un sacco di problemi.

Luigi Bignami per "it.businessinsider.com" il 21 luglio 2019. Dove si addestravano gli astronauti che circa 50 anni fa si preparavano ai primi viaggi verso la Luna? Uno dei luoghi sacri era il noto Meteor Crater dell’Arizona che si formò milioni di anni fa in seguito alla caduta di un asteroide sulla Terra. Il cratere ricorda da vicino quelli che caratterizzano la superficie lunare e che rispetto alla maggior parte dei crateri che si sono formati anche sulla Terra non è stato ancora cancellato grazie al fatto che si trova in un deserto quindi i fenomeni meteorologici non sono così intensi come in altre parti del pianeta. Ma un grande cratere non è sufficiente addestrare degli uomini non solo alle caratteristiche geologiche del nostro satellite naturale, ma anche alle insidie che le caratteristiche morfologiche lunari avrebbero potuto causare agli astronauti stessi, visto che, tra l’altro, poco dopo le passeggiate lunari di Apollo 11, 12 e 14 sarebbero arrivate le prime automobili. E così si è pensato di costruire artificialmente dei “campi lunari” che permettessero da un lato di provare gli strumenti che avrebbero dato modo agli astronauti di raccogliere campioni di suolo e di rocce (come trapani, pinze, sacchetti…) dall’altro che avrebbero permesso di sperimentare le automobili che da Apollo 15 in poi avrebbero accompagnato gli astronauti durante le loro escursioni sulla superficie della Luna. Con decine di cariche esplosive e quintali di dinamite vennero creati decine di crateri, attorno e all’interno dei quali si addestrarono da Neil Armstrong a Buzz Aldrin, ma anche gli equipaggi di Apollo 14, 15, 16 e 17. Ora lo Stato dell’Arizona vuol trasformare alcuni di quei campi lunari in monumenti da preservare per il futuro, aree oggi considerate archeologiche, che hanno permesso all’uomo di addestrarsi alla più grande avventura degli ultimi secoli: l’esplorazione della Luna.

Allunaggio, tra lunapiattisti e migranti: un'impresa al tempo dei social. Benedetta Perilli il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Il racconto di un'avventura immaginata ai nostri giorni tra cellulari, tweet senza controllo ma con le stesse emozioni di cinquant''anni fa. L’avrebbero seguita tutti dal vivo, chi su Instagram, chi su Twitter – i più anziani in diretta Facebook – stavolta però non ci sarebbe stato nessun WhatsAppDown, i server di mister Zuckerberg erano stati rinforzati fino all’impossibile. Più potente di qualsiasi finale di mondiale, più forte dell’elezione di Trump. Un evento globale come l’allunaggio del 20 luglio 2019 non c’era mai stato nella storia dell’Internet e l’Internet si era preparato alla grande. Con l’hashtag #moonlanding2019 spuntava nel messaggio una piccola luna con un omino che ci camminava sopra. Anche le Instagram stories erano state aggiornate e ognuno poteva immortalarsi in versione astronauta utilizzando il filtro moon. Il pacchetto allunaggio si completava con la versione emoji di Viaggio sulla Luna di Melies, stavolta però con una sorta di Tesla Roadster nell’occhio. Tutto era pronto per la notte più fotografata del mondo e i maggiori siti di informazione invitavano i lettori a inviare il loro autoscatti davanti alla Luna. I più belli avrebbero vinto un audiolibro con la voce di Piero Angela a raccontare i segreti del satellite. Le compagnie di consegna di cibo a domicilio avevano attivato lo sconto “Lunissima”, a ogni ordine veniva scalato il 15% se chi lo chiedeva dimostrava con una foto di essere in casa con almeno cinque amici a vedere in diretta streaming la discesa dell’uomo sulla Luna. Solo quattro persone in tutta Italia avevano decisa di non seguirla. Erano Carlo, Romola e la coppia composta da Biagio e Sandra. Quando Carlo aveva invitato Livia sulla spiaggia la diciassettenne era convinta che avrebbero visto l’allunaggio sull’Apple Watch del ragazzo. Era la loro estate, era il primo amore, uscivano insieme da qualche settimana e certe cose non c’era bisogno di dirsele. Ma Carlo era un romantico e Livia ancora non lo sapeva. Stretti in un abbraccio fatto di baci e granelli il giovane le aveva indicato la Luna, Livia aveva notato che al suo polso mancava l’orologio e, avendo lasciato il cellulare a casa, fu presa da un brutto attacco di Fomo, fear of missing out, ovvero paura di essere tagliati fuori. Il termine lo avevano coniato gli americani ma non era molto diverso da quello che stava provando lei proprio in quel momento. “Guarda la Luna, Livia”, le disse Carlo accarezzandole i capelli. “Se ti concentri riesci a vedere So-yon Choi scendere dalla navetta”. La coreana era la prima persona a mettere piede sulla Luna e Carlo, che era un romantico, era sicuro che a occhio nudo sarebbe riuscito a mostrarla alla sua amata. La realtà fu più spietata della tenerezza. Livia si alzò di scatto e corse via sperando di riuscire a trovare subito su Instagram il video del momento dell’allunaggio. Carlo, che a quel punto aveva il cuore spezzato, le gridò: “Dall’altro lato Livia, dall’altro lato. Non li abbiamo visti solamente perché sono scesi dall’altro lato della Luna”. Intanto qualche chilometro più su, sulla terra ferma, Romola aveva appena finito di cucinare. Da  quando aveva deciso di campare libera da ogni schermo viveva senza telefoni, internet, televisore e, colpa degli studi lacaniani, pure senza specchio. Quella notte però aveva fatto un’eccezione perché al mercato aveva sentito parlare dell’allunaggio. Aprì la cassapanca di noce scuro, tirò fuori il cubo Brionvega arancione e lo collegò alla presa. Spense le luci, chiuse gli occhi e quando la voce alla radio iniziò a raccontare il primo passo di So-yon Choi sulla Luna la spense. Romola voleva continuare a pensare la Luna così come l’aveva sempre immaginata, ricoperta di macchia, felci e ginestre. Da quella sera non parlò mai più con nessuno e continuò a vivere senza schermi, ma con la sua Luna, fino alla fine dei suoi giorni. Quando alle 4 e 56 l’astronauta stava per imprimere la sua orma sulla superficie della Luna, Biagio e Sandra erano già in viaggio da Pistoia verso Roma. La mattina successiva, dopo essersi rifiutati di seguire la diretta dello sbarco perché convinti che fosse solo una messa in scena recitata da tre attori professionisti, si sarebbero presentati nella sede dell’Agenzia Spaziale Italiana per consegnare le loro mappe. Solo grazie a loro e ai loro studi l’umanità avrebbe potuto conoscere il lato oscuro del satellite, quello che loro sapevano e nessuno altro aveva sospettato: la Luna era un cerchio piatto appeso al cielo e loro erano lunapiattisti. Nel 2016 avevano istituito l’Ali, Associazione lunapiattisti italiani, della quale erano gli unici due iscritti e finalmente, all’alba dell’allunaggio, si preparavano a vivere la loro gloria. Quello che tutti gli altri videro è passato tristemente alla storia. I server avevano retto e non c’era stato nessun FacebookDown così che quando la coreana scese sulla Luna e tutto il mondo si unì in unico like, che in altri tempi commentavano i nonni sarebbe stato un semplice applauso, nessuno poteva immaginare quello che le si fece incontro. Schierati, come nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, camminavano verso di lei tre persone. Alle loro spalle ne seguivano centinaia. Erano i migranti scomparsi nel più grande naufragio della storia del Mediterraneo. I loro corpi non erano mai stati trovati. Li si pensava inghiottiti dal mare e invece erano stati portati lì, sulla Luna, nel tentativo più audace e inaudito di chiusura dei porti. A finanziare l’operazione Moon Watch per qualcuno era stata la Russia. Altri puntarono il dito contro l’asse Berlino-Parigi. Per tutti era la dimostrazione che la Convenzione di Dublino era, senza dubbio, da rivedere.  

Cospirazioni, alieni, film e Ufo: 50 anni di leggende lunari. Tiziano Toniutti il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Una delle cospirazioni lunari più famose: ecco la "Mona Lisa", corpo femminile che sarebbe stata rinvenuto all'interno dell'astronave sulla Luna nella missione (mai avvenuta) Apollo 20. Falsi allunaggi, missioni mai avvenute, comunicazioni oltre il top secret tra moduli spaziali e controlli di missione: mezzo secolo di miti lunari tra scienza e (soprattutto) fantascienza. La battuta è sempre bella. "L'allunaggio del 1969 è un falso, e la diretta tv del tempo era in realtà un film girato da Stanley Kubrick. Solo che, essendo un perfezionista, Kubrick pretese di girare il film sulla Luna". Ed è sostanzialmente dal 20 luglio 1969, giorno in cui l'Apollo 11 e i suoi astronauti toccarono il suolo lunare -  almeno attenendoci alle cronache ufficiali - che  le cospirazioni sulla Luna e le conquiste tecniche e scientifiche si susseguono senza sosta. Alternando tematiche varie e sempre curiose, dal presunto falso allunaggio alla presenza di strutture non naturali e addirittura navi spaziali con i suoi occupanti ancora interi. E così la favolosa storia dell'umanità che dalle caverne è arrivata a toccare il satellite argentato si arricchisce di innumerevoli narrazioni che si intrecciano in una grande storia parallela a quella ufficiale, con un finale prevedibile ma sempre affascinante: non ci stanno dicendo tutto, non ci stanno raccontando la verità, la storia dell'uomo che ci insegnano è una grande menzogna. E in effetti quella palla grigia nonostante le tante cose che abbiamo potuto scoprire rimane un celeste mistero fatto di misteri. Perché è lì? Com'è c'è arrivata? C'è qualcuno lassù? Ultimo interrogativo quello dell'enorme massa metallica rinvenuta nella zona sud della parte nascosta, grande come le Hawaii.  Che cos'è? Ma nel corso degli anni altre grandi domande non sono mancate. E il fatto che la Nasa abbia candidamente ammesso che molti dei nastri video delle riprese lunari siano andati persi proprio non aiuta a dissipare i dubbi, così come non mancano gli interrogativi sulle luci nelle immagini, sul comportamento della bandiera americana piantata nel suolo, e dei depositi della polvere sotto il motore e sui piedi del modulo lunare. Folklore, si potrà dire. Eppure ci sono domande per cui ottenere una risposta sembra ancora difficile, e il gombloddo su internet se ne alimenta volentieri.

Non siamo mai allunati (o forse sì e abbiamo trovato gli alieni). Le teorie cospirazioniste sull'allunaggio o sul falso allunaggio sono ormai una branca della letteratura contemporanea, dal volume esponenzialmente aumentato da quando esiste il web. Si dividono in due filoni: secondo il primo non saremmo mai andati sulla Luna e quello che si è visto in tv nel 1969 sarebbe stato un sofisticato lavoro cinematografico. Nel secondo, ci siamo andati e abbiamo visto cose che noi umani non possiamo immaginare, come in Blade Runner. Per quanto riguarda la prima variante, la missione interessata è l'Apollo 11, quella del '69. Gli elementi portati come prova sono tanti, dalle luci e le ombre sul suolo lunare, alla mancanza di stelle nel cielo, tutti facilmente confutabili con nozioni scientifiche di base, fisica e ottica sono sufficienti a spiegare le "anomalie" delle sorgenti di luce  e delle fotografie nello spazio. La più elaborata delle teorie è quella appunto di Kubrick regista di uno sbarco mai avvenuto, che sarebbe stato filmato proprio mentre lavorava ad uno dei suoi massimi capolavori, 2001 Odissea nello spazio. C'è anche chi vede possibile una versione a metà: sulla Luna ci siamo andati ma le riprese sono false. E su questa scia oltre a 2001 di Kubrick consigliamo la visione del film Capricon One, dove al posto della Luna c'è Marte ma la storia è quella, con tutte le implicazioni possibili tra geopolitica, scienza, guerre fredde e tradimento a vari gradi. La seconda branca è altrettanto intrigante e si estende per tutte le missioni, dall'Apollo 11 fino alla (segretissima? Inesistente? Chi lo sa) Apollo 20. Nei loro viaggi spaziali e nelle esplorazioni lunari, praticamente ogni astronauta avrebbe avuto incontri più o meno ravvicinati con oggetti o per lo meno con dei fenomeni incomprensibili. Nella missione Apollo 11 le comunicazioni tra l'equipaggio e il Mission Control sulla Terra avrebbero diverse volte fatto riferimenti a fenomeni Ufo (con dei "Bogey", in gergo aereonautico velivoli altrui individuati in prossimità) e delle astronavi "parcheggiate" sul bordo dei crateri che avrebbero osservato le attività terrestri in corso e avrebbero fatto capire, in qualche modo, che la presenza umana fosse sgradita. Ma ci sarebbero anche alieni meno ostili che anzi ci avrebbero aiutato ad arrivare sulla Luna: una missione particolarmente interessante in questo senso è quella dell'Apollo 12, colpito da due fulmini in fase di lancio anche se non c'erano perturbazioni in corso, mentre gli osservatori terrestri riportavano la presenza di due oggetti intorno al Saturn V, il modulo di lancio, presenza che sarebbe stata confermata anche dagli astronauti. Due oggetti che avrebbero "protetto" il modulo dagli strani fenomeni atmosferici consentendo la prosecuzione della missione, che era lì lì per essere annullata. Quella dell'Apollo 20, missione ufficialmente mai esistita, è una storia a parte. Le missioni Apollo furono cancellate dopo la 17 per i costi molto alti del programma lunare e i tagli al budget Nasa, ma c'è una corrente cospirazionista che ritiene che le cose non siano andate esattamente così. E che anzi, ci sia stata una missione Apollo 20, coordinata da Usa e Russia insieme e appositamente lanciata per indagare su un enorme oggetto cilindrico rinvenuto sul lato nascosto della Luna. Oggetto che si sarebbe rivelato un enorme velivolo spaziale con all'interno conservato ancora intatto il corpo di un essere umano di sesso femminile, dai tratti somatici simili a quelli dei nativi americani e battezzato "Mona Lisa". Secondo la teoria complottista, sarebbe stata portata e lasciata sulla Luna migliaia di anni fa. La medesima missione avrebbe individuato una fantomatica città lunare, e del tutto esiste un video fatto uscire su internet da un presunto astronauta della missione, salvo poi l'arrivo sulla scena di uno scultore francese che si è dichiarato autore del falso.

La Luna vuota e la luna piena (d'acqua). Ma al netto delle invenzioni e delle improbabilità, la storia dell'uomo sulla Luna è piena di aneddoti ancora indecifrabili. La missione Apollo 12 per esempio vide gli astronauti piazzare dei sismografi sulla superficie del satellite, e poi manovrare appositamente il modulo in maniera da atterrare violentemente per registrare la reazione. Il risultato lasciò sbalorditi tutti, sulla Terra e nello Spazio: il satellite si comportò come una gigantesca campana, risuonando per ore e ore secondo le rilevazioni degli apparecchi. Come se fosse, appunto, un enorme sfera di metallo vuota. E da qui, nuove linee teorico-complottiste su ogni possibile fronte, dall'ipotesi del planetoide vuoto alla quella della costruzione artificiale, secondo cui la Luna sarebbe un artefatto realizzato da una civiltà aliena per obiettivi ancora da comprendere, forse proprio per regolare la vita sulla Terra attraverso le maree. E proprio l'acqua è la componente chiave delle nuove scoperte: Recentemente l'elemento è stato rinvenuto sulla Luna allo stato liquido anche in superficie, e si stima che in passato ce ne fosse molta, molta di più. Forse ci sono alieni che se la bevono, un'ipotesi meno ostica  per la scienza è che quest'acqua possa aver preservato i batteri che potrebbero aver dato origine anche alla vita sulla Terra. E certamente se un giorno dovessimo accertare che la Luna non fosse un pezzo del nostro pianeta, questi sarebbero davvero delle creature aliene.

La scheggia, la torre, il castello, il senso della vita e tutto il resto. Se si tratti di artefatti, oggetti reali, illusioni ottiche, manipolazioni, giochi di luce per ora non si sa. Quello che si sa è che attorno ad almeno un paio di "manufatti" lunari la mente degli esseri umani ha prodotto migliaia di discussioni tra libri, siti e dibattiti sul web. Uno è "the shard", una sorta di grattacielo che si chiama proprio come l'edificio di Renzo Piano a Londra, solo che quello sicuramente c'è e questo chissà, l'altro è "the tower", la torre, e poi ancora il castello. Sono particolari nelle immagini JPL/Nasa che il lo studioso Richard Hoagland aveva identificato come anomale strutture verticali alte decine di metri. Il dibattito anche qui si divide in due fazioni: sono costruzioni realmente esistenti, data la consistenza delle ombre che proiettano con le fonti di luce, oppure sono emulsioni della pellicola, artefatti insomma che creano l'illusione che in quel punto della foto ci sia un oggetto. E da qui non si esce, nonostante altri passaggi fotografici operati negli anni dai satelliti e dalle altre missioni. Tra le magie della Luna c'è anche quella che, una volta smontata una cospirazione, se ne crea subito una nuova. Ognuno insomma si senta libero di credere quello che gli piace di più e godersi un complotto al meglio. In questo senso, il "castello" è particolarmente impressionante, con la sua architettura (immaginaria?) ultragotica, che porta la mente all'arte aliena di H.R. Giger. Certo finché non potremo essere tutti turisti spaziali e andare a vedere di persona, il libro delle cospirazioni lunari continuerà ad accumulare pagine tra alieni, ufo, luci e ombre. Il falso e la verità in questa storia sono distinte come le due facce della luna, ma distinguere l'uno dall'altra tra scienza, parascienza e fantascienza diventa una questione di fede: si sceglie se credere ad una cosa o crederne un'altra, tutto qui. Anche se come sempre il punto di vista privilegiato rimane a metà. Forse la nostra inventiva supera la realtà, o forse non siamo ancora capaci di comprendere. Ma per quanto possa essere lungo, in fondo rimarrà solo un bel capitolo del libro più grande, quello del mistero della nostra esistenza.

Da Georges Méliès a Ryan Gosling, il cinema sbarcato sulla Luna. Chiara Ugolini il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Dal 1902 con "Viaggio nella luna" al 2018 con 'First man' su Neil Armstrong il cinema si è lasciato affascinare da uno degli eventi più simbolici e emozionanti della storia dell'umanità. Che, come dice il regista Damien Chazelle, oggi ancora non comprendiamo appieno. Era il 1902, mancavano ancora 67 anni al momento in cui l'uomo avrebbe realmente messo piede sulla luna, eppure il cinema ci era già arrivato. L'allunaggio, sognato, immaginato, raccontato, sul grande schermo ha una vita lunga, il primo a portarcelo è stato l'inventore del cinema fantastico, quel prestigiatore diventato genio dell'immaginario che fu Georges Méliès. Voyage dans la lune è considerato il primo film di fantascienza della storia del cinema, ispirato a due grandi opere letterarie Dalla Terra alla Luna di Jules Verne e I primi uomini sulla Luna di H. G. Wells racconta di un congresso di astronomi che decide di inviare una navicella, a forma di proiettile, sulla Luna. Racconto in forma di parodia, il primo allunaggio della storia del cinema è un gioco: il proiettile atterra nell'occhio della luna con sua grande irritazione, poi gli astronomi incontrano i seleniti e il loro re, vengono catturati e poi riescono a fuggire.

Sulla Luna con una lattina: è First Man. Centosedici anni dopo, il più giovane regista a vincere l'Oscar dopo i successi di La La Land decide di realizzare un racconto antiepico, antiretorico perché se il grande pubblico ricorda soltanto l'arrivo, quel "piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l'umanità" prima di quel momento, vissuto in mondovisione, ci erano stati anni di dolori, lutti, sofferenza, insuccessi. Nel suoFirst manDamien Chazelle decide di raccontare questa grande avventura dal punto di vista, personalissimo, di Neil Armstrong e della sua famiglia, sprofondando lo spettatore nel suo mondo, chiuso in quel claustrofobico abitacolo, con quel senso di angoscia provocato dalla sensazione di precarietà di quelle "lattine" pensate per mandare l'uomo nello spazio. È lo stesso Chazelle a spiegare perché, secondo lui, ancora oggi quella pagina ha un significato così sfuggente. "Ci facciamo ancora le stesse domande, ancora oggi non c'è una risposta chiara sul significato che ha avuto l'allunaggio. C'è gente che è convinta che non sia mai accaduto, la teoria del complotto lunare è un modo facile per rispondere a queste domande difficili. L'uomo sulla Luna è stato un successo così singolare e diverso da ogni altra cosa l’umanità abbia raggiunto che ci lascia ancora stupiti 50 anni dopo. Non mi interessava raccontare il dopo o come si era arrivati lì, mi interessava soltanto quel momento, in modo che il pubblico potesse trovare la risposta al senso dentro di sé. Credo che neppure lo stesso Neil avesse capito fino in fondo cosa la luna avesse significato per lui. È la cosa più assurda che ti può capitare: raggiungi un obiettivo che hai rincorso per sette o otto anni, può essere costruire un ponte o realizzare un’opera d’arte o arrivare sulla luna e poi ti senti come un alieno nel tuo stesso corpo".

"Houston, abbiamo un problema". Inizia proprio con l'allunaggio, quello di Neil Armstrong, Michael Collins e Buzz Aldrin, Apollo 13 il film di Ron Howard che in realtà sulla luna non ci arriverà. Ma è lì che aspira, è lì che la navicella decollata l'11 aprile 1970 con dentro Jim Lovell, Jack Swigert e Fred Haise avrebbe dovuto arrivare. Interpretati da Tom Hanks, Kevin Bacon e Bill Paxton, i tre astronauti dovranno affrontare una delle situazioni più rischiose della storia dell'uomo nello spazio; tre giorni dopo il lancio un'esplosione danneggia la navicella in modo grave e costringe i tre a annullare la missione e a tentare di rientrare con il modulo che avrebbe dovuto portarli sulla luna. Dopo quella frase diventata famosa 'Houston, abbiamo un problema' (la frase realmente pronunciata da Swigert Houston, è 'Houston, abbiamo avuto un problema qui' ma nel film la dice Tom Hanks ovvero Jim Lovell) il mondo stette con il fiato sospeso per quattro lunghissimi giorni, finché i tre riuscirono a tornare sulla Terra, ammarando nell'Oceano Pacifico. Il film di Ron Howard si trasforma dal racconto di una sconfitta all'epica celebrazione di uno straordinario successo, nel momento in cui l'intera NASA gudata dal direttore di volo Gene Kranz (Ed Harris) riuscì nel compito di riportare i tre astronauti a casa.

E da un archivio ecco che spunta il film sulla Luna. Quando, 50 anni fa, la missione Apollo 11 si avviò verso lo spazio, vennero girate centinaia di ore di immagini in formato 70 mm: pellicole straordinarie riscoperte solo recentemente da un archivista del Nara (National Archives and Records Administration), l'agenzia statunitense che si occupa di preservare documenti governativi e storici. Oggi quelle immagini sono diventate un film che il regista Todd Douglas Miller non ha esitato a definire "la collezione di riprese di miglior qualità sulla missione Apollo 11". Da quello stesso archivio, sono state anche recuperate circa 11mila ore di dialoghi Nasa sulla missione e grazie a questo incredibile materiale digitalizzato in 4K, il pubblico viene condotto direttamente nel cuore della più celebre missione della NASA, quella che per prima ha portato l'umanità sulla Luna, consegnando alla Storia gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin, i primi a toccare il suolo lunare, assieme a Michael Collins, pilota del modulo di comando. Il film sarà nelle sale italiane solo il 9, 10, 11 settembre per celebrare l'anniversario.

A casa di Piero e Alberto Angela: «E così ci siamo ritrovati insieme sulla Luna». Ci raccontano lo speciale di Ulisse in onda su Raiuno che celebra i 50 anni della missione Apollo 11. Conducono in coppia dopo 20 anni. Il padre: «Me lo ha chiesto lui». Il figlio: «Era alla Nasa, chi ne sa più di papà?». Alex Adami il 18 Luglio 2019 su Sorrisi.com. Il 20 luglio di 50 anni fa, quando il primo uomo sbarcò sulla Luna, Piero Angela era in servizio. «A quell’epoca era nato il primo telegiornale con i conduttori e io e Andrea Barbato ci alternavamo. Quando non eravamo impegnati nella conduzione, ognuno di noi faceva dei servizi e a me avevano chiesto di seguire in America tutta la preparazione delle imprese lunari a Cape Canaveral e a Houston. Ho seguito tutte le missioni Apollo dalla numero 7 alla 12: quella dello sbarco fu la numero 11 e nell’occasione io avevo seguito la partenza a Cape Canaveral, poi la Rai fece la famosa diretta con Tito Stagno per raccontare l’allunaggio. Io andai a New York per seguire la diretta su un grande schermo a Central Park insieme con molta altra gente. Devo essere sincero: dopo tante ore in piedi decisi di tornare a vederla più comodamente in tv. Ed è da lì che assistetti all’allunaggio». Piero Angela ci accoglie nella sua casa per fare una chiacchierata sulla ricorrenza. Mi offre un cioccolatino («Un gianduiotto? Sono i miei preferiti») e mi affascina con il suo racconto, in attesa che il figlio Alberto ci raggiunga da Palermo, dove ha appena ricevuto la sua prima laurea honoris causa (in tutto, fra padre e figlio il totale delle lauree sale a 15: un record, probabilmente). Ma ora siamo qui per parlare di “Quella notte sulla Luna”, speciale di “Ulisse” dedicato all’anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, che andrà in onda su Raiuno proprio il 20 luglio. «Già l’Apollo 8, nel dicembre 1968, aveva girato intorno alla Luna ed era ritornata sulla Terra» riprende a raccontare Piero Angela. «All’andata, a metà percorso, ci fu un collegamento e si vide per la prima volta la Terra dallo spazio. Io ero in onda, facevo la telecronaca diretta, e ho avuto una forte emozione guardando quell’immagine: una pallina nell’Universo. L’impressione immediata fu che noi, così piccoli, non siamo niente. Litighiamo, ci ammazziamo, inquiniamo questo unico luogo caldo che ci consente di vivere bene, ma davvero non contiamo niente».

E com’è assistere dal vivo alla partenza di un razzo?

«Incredibile. La tribuna stampa era a cinque chilometri di distanza, per sicurezza: in caso di caduta il razzo, che era una macchina con milioni di litri di carburante, avrebbe potuto fare una strage. Era un obelisco alto 110 metri, come un palazzo di 40 piani. I tecnici erano in ansia, i dirigenti della Nasa, l’ente spaziale americano, ancora di più. Per non parlare dei familiari degli astronauti che si tenevano per mano. E nel momento in cui arrivava, con 15 secondi di ritardo a causa della distanza, il rumore infernale, tante persone scoppiavano a piangere per la tensione. I secondi iniziali del volo erano quelli più difficili e delicati, e quando il razzo aveva raggiunto una certa quota partiva l’applauso».

Il racconto è interrotto dal suono del campanello: è arrivato Alberto da Palermo. In una mano ha il certificato di laurea in Comunicazione del patrimonio culturale, nell’altra un pacchetto di cannoli. «Come sei elegante» esclama Piero. Si abbracciano. Dopo un breve racconto di Alberto sulla cerimonia di consegna («Ma tu sai bene come funziona: ne hai 12!» ride Alberto) si torna a parlare di Luna.

Piero: «Dopo il cosmo e i dinosauri abbiamo preso strade diverse. Padre e figlio insieme… insomma, non andava bene. Ognuno ha fatto i suoi programmi, Alberto lavora ancora oggi per il mio “Superquark” facendo i suoi servizi, ma in modo autonomo. E quando Alberto mi ha chiesto: “Perché questo speciale non lo facciamo insieme?” mi sono stupito e ho risposto: “Ma come, abbiamo sempre evitato…”. “Sì, ma questo è diverso”. Sono rimasto colpito da questa proposta molto affettuosa. Mi sono sentito un po’ vecchietto, però… (ride)».

Alberto: «Era una cosa corretta da fare dal punto di vista giornalistico: è l’anniversario di un evento che lui ha vissuto come testimone. Mi è sembrato ovvio coinvolgerlo, avere la sua diretta testimonianza, il suo grande tesoro di conoscenze e di esperienze. E ce lo avevo... in casa! Era da tempo che desideravo tornare a fare qualcosa con lui. E dopo “Viaggio nel cosmo” del 1998, un po’ come gli Avengers, ritorniamo attraverso lo spazio…» (ride).

Non sarà solo un incontro “professionale”.

Alberto: «Certo, a quello si aggiunge il valore dell’incontro tra padre e figlio, ben più importante dell’anniversario in sé. Diciamo che l’anniversario è stato un’occasione per poter lavorare di nuovo assieme, dal momento che tutti e due avevamo qualcosa da dire sull’argomento. Mio papà Piero è la persona che in Italia può raccontare meglio il decollo dell’Apollo 11 e la sua missione, perché ha seguito tutto con i suoi occhi. E tornare lì a Cape Canaveral nei luoghi dove 50 anni fa faceva le sue telecronache in diretta: quello è il vero valore aggiunto».

Piero: «Mi ha fatto un effetto strano tornare in quel luogo che 50 anni fa brulicava di giornalisti che scrivevano, che facevano i collegamenti dagli studi allestiti appositamente, e di pubblico che riempiva le tribune. Oggi non c’è più niente, non c’era nessuno».

Come sarà lo speciale?

Alberto: «Rivivremo insieme le fasi di quell’evento storico dai luoghi originali. Ma ci saranno anche uno studio virtuale, immagini della Nasa, ricostruzioni grafiche e docu-fiction. E il racconto avrà anche la voce dei protagonisti: ci sono alcuni brani inediti di un’intervista a Buzz Aldrin, che in quella missione camminò sulla Luna e che ho incontrato qualche anno fa. E ancora, i ricordi di Gene Kranz, direttore delle operazioni di volo, e di Steve Bales, l’esperto dei sistemi di guida che salvò la missione con le sue indicazioni dalla sala di controllo di Houston. Poi abbiamo due interviste esclusive. Quella a Michael Collins, uno dei tre astronauti dell’Apollo 11, che ci ha raccontato alcuni aspetti meno conosciuti della missione. E quella a Gina Lollobrigida».

Gina Lollobrigida?

Alberto: «Sì. Dopo la missione la Lollo ha ospitato i tre astronauti nella sua villa di Roma. Era una cena ristretta a una trentina di invitati e tra gli ospiti c’era anche Claudia Cardinale. La cena andò così bene che alle 4 di mattina nessuno se ne voleva andare e lei dovette rifare una spaghettata. La Lollo conserva ancora il cravattino che Buzz Aldrin si era tolto per rilassarsi. E racconta anche di un bacio tra loro!».

Voi partireste per lo spazio?

Piero: «Nel periodo in cui seguivo le missioni spaziali andai a trovare un ricercatore della Nasa che studiava lo Shuttle. Ricordo che gli chiesi: “Quindi un domani anche dei giornalisti potrebbero andare sulla Luna? Allora mi metto in lista!”. Ero il primo dell’elenco dei possibili passeggeri per la stazione spaziale che si trova a 400 chilometri dalla terra».

Alberto: «Nello spazio eccome se ci andrei. Partirei domani».

Da quanto tempo non facevate un viaggio assieme?

Alberto: «Da tanto. Gli ultimi sono quelli in famiglia».

Com’erano?

Piero: «Avventurosi, con zaino e tenda».

Siete due viaggiatori simili? 

Piero: «Alberto è molto diverso da me, io sono disordinato, lui è precisissimo, ha fatto il boy scout».

Alberto: «Non è per quello! Ormai la valigia potrei farla al buio dopo anni e anni di viaggi».

Piero: «Ma io sono più puntuale».

Alberto: «La sua è una puntualità “Nasa”, la mia è una puntualità... “a naso,” ma alla fine gli aerei non li perdo mai».

Vi punzecchiate di più adesso o prima?

Piero: «Dipende da lui».

Alberto: «No, dipende da lui…(ride). Il vantaggio degli argomenti di scienza è che uniscono più che allontanare, mentre filosofie politiche e fede calcistica dividono le persone».

Luna aspettaci, stiamo tornando. Tra 5 anni la privata Moon Enterprise tornerà e troverà l’acqua ghiacciata. Maria Teresa Capria il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Sono passati 50 anni da quel 21 luglio del 1969 in cui l’uomo mise piede per la prima volta su un corpo extraterrestre. In molti allora pensarono che fosse solo il primo passo e che in pochi anni l’uomo sarebbe sbarcato anche su Marte. E invece il programma Apollo non ha avuto seguito e l’interesse nei decenni successivi si è spostato sull’esplorazione del resto del Sistema Solare condotta da sonde senza equipaggio. Il motivo appare ora abbastanza ovvio: gli enormi rischi per gli astronauti e l’altrettanto enorme investimento economico erano stati affrontati non tanto per amore della scienza quanto per affermare le capacità tecnologiche e la supremazia di una superpotenza su un’altra. Eppure, da un punto di vista scientifico, il programma Apollo ci ha dato molto, oltre alla dimostrazione che l’uomo può viaggiare nello spazio. I quasi 400 kg di rocce lunari, scelte una per una (uno degli astronauti della missione Apollo 17era anche un geologo), riportate a Terra e studiate da esperti di tutto il mondo, sono tra il materiale più prezioso e meglio custodito presente sulla Terra. I campioni, provenienti da varie regioni lunari, hanno consentito enormi progressi nella conoscenza del sistema Terra- Luna, permettendo la datazione e l’analisi della composizione del suolo lunare, e quindi la ricostruzione del processo di formazione del nostro satellite. L’opinione prevalente è che 4 miliardi e mezzo di anni fa la proto- terra sia stata colpita da un corpo di massa enorme e i detriti sarebbero entrati in orbita e avrebbero formato il nostro satellite. In realtà l’interesse per la Luna nei decenni passati non è mai scemato: a partire dagli anni ’ 90 varie sonde sono entrate in orbita lunare o sono allunate e molte altre sono in fase di costruzione o progettazione. Non si tratta più però di sole missioni americane o russe, sono entrati in gioco anche l’Agenzia Spaziale Europea, il Giappone, la Cina e l’India. La Cina è la terza nazione, insieme a Russia e Stati Uniti, che è riuscita a compiere un allunaggio sulla faccia visibile, ed è stata la prima, con la missione Chang’e- 4, a compiere un allunaggio su quella nascosta nel gennaio di quest’anno. La sonda americana LRO è in orbita polare intorno alla Luna da una decina di anni. Tutte queste missioni hanno mappato e studiato con ogni tipo di strumento la superficie lunare, dandoci un’idea precisa della sua composizione e storia evolutiva, e, cosa più importante di tutte, dimostrando la presenza di ghiaccio d’acqua, scoperta che ha rinfocolato l’interesse per la Luna e dato una spinta fondamentale ai progetti di esplorazione umana. I primi indizi della possibile presenza di ghiaccio si erano avuti nel 1994 dalle osservazioni della sonda americana Clementine ed erano stati confermati dalla missione indiana Chandrayaan- 1 nel 2008. Grandi quantità di ghiaccio si trovano nelle zone polari, in crepacci e crateri permanentemente in ombra. La missione americana LCROSS nel 2009 ha lasciato cadere una parte della sonda su uno di questi crateri e, analizzando la composizione del materiale eiettato, ha evidenziato la presenza di più di 100 kg di acqua. Come è arrivato sulla Luna questo ghiaccio? Due le ipotesi principali: origine cometaria (i nuclei delle comete sono costituiti in gran parte da ghiaccio d’acqua) e produzione in loco, attraverso una reazione originata dall’impatto dell’idrogeno contenuto nel vento solare con l’ossigeno di cui le rocce lunari sono ricche. La disponibilità di ghiaccio d’acqua sulla superficie lunare ha reso l’ipotesi di stabilire una base abitata sulla Luna assai più realistica, in quanto i costi del trasporto di acqua dalla Terra sarebbero sicuramente proibitivi. Rispetto a cinquanta anni fa lo scenario geopolitico internazionale che fa da sfondo all’esplorazione spaziale è completamente cambiato, e non solo perché altre nazioni oltre a Russia e Stati Uniti sono in grado di lanciare sonde nello spazio. La grande novità è l’entrata in scena dell’impresa privata. Nel 2016 il governo statunitense ha preso una decisione che avrà un impatto sul futuro, garantendo il permesso a una startup, la Moon Enterprise, di atterrare, quando ne avrà la capacità, sulla Luna. Nove compagnie commerciali, sempre americane, sono in competizione per inviare piccoli carichi di strumenti sul suolo lunare. Nell’aprile 2019 la sonda israeliana Beresheet, lanciata da una compagnia privata, ha orbitato intorno alla Luna prima di precipitare in un tentativo fallito di atterraggio. Certo l’esplorazione umana avrebbe più fascino. Il governo degli Stati Uniti ha annunciato che entro il 2024 invierà astronauti sulla Luna con la possibile collaborazione di imprese commerciali. Il luogo dell’allunaggio sarà il Polo Sud, dove è presente il ghiaccio. Il CEO della Amazon, Jeff Bezos, ha annunciato che la sua compagnia spaziale, la Blue Origin, avrà come obiettivo di andare sulla Luna per costruire una base permanentemente abitata. Il motore dell’esplorazione lunare non è più solo la scienza, e sta assumendo importanza l’interesse nelle risorse da sfruttare. Del resto, è la stessa potente spinta che ha giustificato l’impiego di capitale e determinato il successo delle imprese dei grandi navigatori del passato come Magellano e Colombo.

Il piede che profanò sogni, fiabe e poesie. Lo spazio ora è pieno di macchine che spiano, satelliti per telecomunicazioni, catorci e spazzatura spaziale. Ma i bambini stanno ancora con il naso all’insù. Gennaro Malgieri il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Posso confessarlo cinquant’anni dopo? Non invoco la prescrizione, ma soltanto la comprensione. Avevo sedici anni – li avrei compiuti sette giorni dopo – quel 21 luglio del 1969, alle 4.57, ora di Houston (Texas), quando Neil Armstrong poggiò il piede sulla Luna, seguito a ruota da Buzz Aldrin, mentre Michael Collins restava ai comandi della navicella spaziale. Un miliardo di esseri umani restarono incantati dall’impresa. Io la subii come una profanazione. Non gioii, me ne andai a letto. Insieme con Lodovico Ariosto ed il Viaggio di Astolfo sulla Luna tratto dall’Orlando furioso. L’illusione di trovare sul nostro satellite ciò che avevamo perduto sulla Terra si confermò sotto i miei occhi. E per quanto Armstrong poteva far ridere con i suoi saltelli da canguro sulla superficie lunare, non riuscì a convincermi, nonostante le enfatiche cronache ed i grotteschi litigi televisivi (esilarante quello tra Ruggero Orlando e Tito Stagno sui tempi dell’allunaggio), in me produsse una grande malinconia. Realizzavo che un sogno si stava spegnendo, che filastrocche infantili sull’astro latteo fossero finite in un attimo tra le carabattole destinate all’oblio, che soprattutto i poeti che mi avevano sfinito con i loro richiami lunari si sarebbero visti cancellati versi e poemi da quegli omini scafandrati a quattrocentomila chilometri di distanza, precursori di un “mondo nuovo”, di una vera “nuova frontiera” sulla quale non ci sarebbe stato più posto per le emozioni, le lacrime e i sorrisi di bambini e anziani, di amanti e contemplatori, di inseguitori delle avventure dello spirito e dei credenti nell’inviolabilità dell’universo, fermi alla Genesi, libro di tutti i libri. M’infastidiva dover dare ragione a chi sessant’anni prima aveva dichiarato il proposito di distruggere “il chiaro di luna”: poi, quanto lo avrei amato Filippo Tommaso Marinetti, ma in quel momento la sua vittoria era la mia sconfitta nel cui dolore accomunavo i lirici greci e Virgilio (nell’ Eneide il verso che mi porto dentro: “i complici silenzi della luna”), Dante e Petrarca, Leopardi e Baudelaire, Hugo e D’Annunzio. Mi rendo conto, cinquant’anni dopo, che i furori adolescenziali sono fuorvianti. Ma quello, la mia dedizione alla Luna, come ad un familiare del quale non si può fare a meno, non mi sembrò e non mi appare ancora oggi tale. Soprattutto razionalizzando i presunti benefici che l’umanità avrebbe tratto dalla “conquista lunare”. Non saprei dire se la ricerca scientifica applicata alla qualità della vita abbia fatto progressi: non mi sembra, ma non ho gli elementi per sostenerlo. So per certo, tuttavia, che la tecnologia se n’è giovata ampiamente e persino innescato gravi turbamenti nell’ordine esistenziale: lo spazio, dopo la “profanazione” della Luna si è riempito di carabattole inquinanti una parte non sappiamo quanto estesa dell’universo, comunque considerevole; di macchine dedite a spiare individui e popoli, a violare intimità, usi e costumi ancestrali, e religiosi coltivati nella riservatezza: tutto è stato volgarizzati da satelliti sempre più invasivi.

Chi direbbe oggi: “Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?”, con Giacomo Leopardi? Presenza amica e consolatrice un tempo, oggetto smitizzato dalla “profanazione”, non rappresenta più nulla. Ed i poeti possono scriverne soltanto osservandola come la curiosa “appendice” vagante intorno alla Terra, una stazione di rifornimento forse per più lunghi ed arditi viaggi, insomma la materializzazione “utile” del sogno che s’è infranto con motivazioni nobili che nobili non erano. La conquista dello spazio cominciò con la guerra fredda. Ce lo ricordano, tra gli altri, Luca Liguori e Giancarlo Mazzuca con il bel libro 21 luglio 1969. Quel giorno sulla Luna ( Minerva, pp. 102, € 12.00), che raccontando la genesi dell’avventura non tacciono il ruolo di von Braun, l’inventore delle micidiali macchine da guerra di Hitler, arruolato con altri scienziati nazisti senza andare troppo per il sottile, come del resto fecero i sovietici; ricordano la “confrontazione” tra le due superpotenze con una schiacciante supremazia iniziale di quella russa (Sputnik e Gagarin e Valentina Tereskova); si diffondono sulla politica spaziale americana ritenuta vitale al dispiegamento del suo imperialismo. Una questione altamente politica. “Abbiamo deciso di andare sulla luna in questo decennio – disse John F. Kennedy a Houston il 12 settembre 1962 e di impegnarci anche in altre imprese, non perché sono semplici, ma perché sono difficili, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità, perché accettiamo di buon grado questa sfida, non abbiamo intenzione di rimandarla e siamo determinati a vincerla, insieme a tutte le altre”. Impresa non facile, ma capiva che se la bandiera a stelle e strisce non fosse stata piantata dagli americani sulla Luna qualcun altro l’avrebbe fatto e per l’America sarebbe stata più che una sconfitta. Quando da Cape Kennedy l’Apollo 11 si staccò con la potenza di fuoco dei suoi reattori paura, speranza, disperazione dilagarono nel mondo. Ognuno aveva le sue ragioni. Soprattutto quelle dei poeti venivano “sacrificate”. Alla materialismo, all’imperialismo, al profitto. Il sentimento religioso e mitico, che ha accomunato per millenni tutte le civiltà, vero e proprio elemento unificante venerato a Oriente come a Occidente, diventò deposito di ferraglie e moneta di scambio politico. Forse addirittura scientifico, ma si mangiò tutti i versi, le storie d’amore, i sogni dei fanciulli e dei vecchi, in una interminabile diretta televisiva. Da mito a cosa: perché mi sarei ancora dovuto interessare della Luna? Per mezzo secolo ho evitato poesie e prose che ad essa si riferissero. Fino a tre anni fa. Una sera d’estate, a Sabaudia, il mio ultimo nipotino, Michele, mi strattonò all’improvviso indicandomi con un dito la Luna mezza piena. E mi sorrise. Volle che lo prendessi in braccio. E continua a puntare il dito. Spiccicava poche parole. Gli dissi: “Guardala bene, è la Luna”. Da quel giorno, e per molti mesi, mi ha ripetuto quella parola. E quando non appariva in cielo si rabbuiava, deluso, come se fosse stato abbandonato. C’è voluto del tempo per spiegargli ogni cosa. Ma da allora ho ripreso a guardare la Luna, incurante di ciò che è diventata e memore di ciò che è stata. Grazie ad un bambino.

Con quel "passo" abbiamo perso la Luna. Quell'orma ci mostrò la Luna per quello che è: un deserto di rocce e crateri. Così morì la magia di un astro non più remoto. Marcello Veneziani il 17 luglio 2019 su Panorama. Sul piano letterario la conquista della Luna fu una perdita. Il 20 luglio del 1969 la luna passò da Leopardi a Marinetti. Quel grande passo avanti dell’umanità fu un balzo indietro per la poesia. La lirica cedette il passo alla tecnica, la contemplazione alla velocità. D’un colpo svaniva la luna degli innamorati, dei poeti e dei licantropi, la luna sacra, l’orologio astrale dei pellerossa, la pallida luna d’argento delle canzoni languide. Calpestata, profanata dagli scarponi americani. Aveva vinto Marinetti contro il chiaro di luna. Futurismo batte Passatismo. Versi tecnologici beffarono liriche accorate, suoni sordi degli spazi fugarono il plenilunio di Beethoven. Dino Buzzati tre giorni prima dello sbarco supplicò invano la luna di fuggire dagli astronauti, di ribellarsi alla conquista e mettere in salvo l’universo spirituale. Il 20 luglio del ’69 il cosmo venne direttamente a casa nostra, seppure in bianco e nero. La magia si fece visione notturna, incantesimo di massa, spettacolo globale. Era una notte calda e memorabile e due uomini con la testa nel pallone di vetro passeggiarono per noi sulla luna, piantarono bandiere, mandarono messaggi extraterrestri. Eravamo con gli occhi sgranati e incollati al video per il collegamento diretto col futuro. Per la prima volta l’utopia toccava il suolo, la lontananza si faceva prossimità, la navicella planava sul mito. La notte dei miracoli, lo spazio che si fa struscio per la passeggiata lunare, Selene resa nota nelle sue parti intime entra nel tinello di casa e si mostra per quel che è, nuda e rocciosa, con foruncoli grandi come crateri. L’incanto di una notte d’adolescente vissuta eccezionalmente da sveglio per sognare a occhi aperti. Il brivido della creazione. Quella miracolosa discesa sulla luna, quella storia in diretta planetaria, quel sentirsi umanità e non singole persone, quell’appuntamento cosmico con Dio e la sua assenza. Ricordo gli occhi sgranati di Tito Stagno che conduceva in studio, dietro quelle strane lenti che ne ingrandivano lo stupore. E i commenti su scienza, fede e umanità di Enrico Medi, affabulatore mistico e scientifico che trasformava i pianeti in parrocchie e gli astri in santini ma suscitava amore per la scienza e il creato, come una versione devota di Piero Angela. Fu il primo narratore astrofisico; poi col tempo vennero i Rovelli e i Tonelli. Sorsero in quei giorni le diatribe dei pedanti se fosse più corretto parlare di atterraggio o di allunaggio. E i dubbi dei bambini: se la luna, che è lunatica, non è nel quarto giusto e non è piena ma è ridotta a una fettina, come faranno a sbarcare? Ricordo l’euforia per lo sbarco, unita allo sgomento, lo svanire improvviso dei sogni terreni e delle ideologie. Tutto diventò piccolo sulla Terra. Pure la Contestazione globale del ’68 diventò preistoria rispetto all’astronave e alle sfere celesti; cosa vuoi sfilare in corteo nelle galassie? Ariosto aveva immaginato nel suo Orlando Furioso che sulla luna ci fossero le cose perdute in Terra, e l’avventura lunare sarebbe stato un viaggio alla ricerca del tempo perduto. Invece apparve un deserto, il futuro resettò la memoria. Quella notte vanificò il proposito di Astolfo di andarsi a riprendere il senno perduto sulla luna. Si previdero grandi conquiste spaziali, traslochi in massa su altri pianeti; una canzone aveva già profetizzato: «Nel Duemila noi non mangeremo più gli spaghetti col ragù, solo pillole». Luna «busciarda». La rivoluzione annunciata poi non avvenne. Di quel tecno-miracolo restò un’impresa epica e vana, un’avventura sterile e magnifica nell’ignoto, un tentativo prometeico d’inoltrarsi coi mezzi della tecnologia nei pressi della magia, alle fonti della fiaba. L’incanto di una notte di mezza estate davanti al video, la partecipazione cosmica a un evento reale di storia virtuale. Gli sbarchi sulla luna finirono là, salvo trascurabili appendici. La luna tornò pallida, in preda ai romantici, ai lupi mannari, agli innamorati e ai leopardiani. E gli stolti che guardavano il dito anziché la luna si sentirono savi. Tornarono gli spaghetti con le antichissime cozze e la pasta col ragù, di lentissima fattura, il contrario del veloce futuro. Tornò la luna caprese di Peppino Di Capri. In questo mezzo secolo non abbiamo conquistato la luna né colonizzato Marte; in compenso abbiamo inguaiato la terra, l’aria, l’acqua, il clima, annegando tra le onde magnetiche. L’aveva vaticinato Guido Ceronetti nella sua lunatica e apocalittica Difesa della luna. È finita l’epoca eroica della modernità. C’era una volta il futuro, adesso c’è solo il presente. Lasciammo la via Lattea per incolonnarci sul Raccordo anulare. Da allora la luna ci guarda sorniona, restituita al suo legittimo proprietario, il sogno, persa nelle braccia del buio. Riprese a dettare armonie nella notte, lasciando sul mare le sue bave argentate, vaga lumaca del cosmo. La luna si rifece una verginità e un destino. Sul piano del pensiero, però, qualcosa di decisivo accadde il 20 luglio del ’69. La vera impresa spaziale non fu la conquista della luna ma l’emancipazione dalla Terra, lasciata alle spalle, vista da fuori e da lontano, piccola e remota, relativa, quasi una provincia del cosmo. Da allora fu nitida la visione del globale, da cui poi prese piede il processo di globalizzazione. Sulla luna avvenne il passaggio di consegne dalla filosofia alla tecnica, dalla poesia alla scienza. La conquista della luna si capovolse in perdita della Terra, notò Heidegger, denunciando lo sradicamento e il dominio planetario della tecnica sull’umano. Ma col chiarore della luna riaffiora la nostalgia degli dei.

Da Apollo 11 a Lunar Gateway: come è cambiata la tecnologia per la conquista della Luna. Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Davide Urietti su Corriere.it.

Il 20 luglio 1969 l’uomo toccò per la prima volta il suolo della Luna: a compiere questo passo significativo fu Neil Armstrong, astronauta statunitense della missione Apollo 11, accompagnato da Buzz Aldrin e Michael Collins. L’impresa fu possibile grazie agli sforzi della NASA, agenzia governativa responsabile del programma spaziale degli Stati Uniti che mise loro a disposizione la navicella Apollo, composta di 3 parti: il Modulo di Comando (CM), chiamato Columbia, il Modulo di Servizio (SM) e il Modulo Lunare (LSM), chiamato Eagle. Il primo costituiva lo spazio «abitabile» dei piloti, il secondo forniva propulsione, energia elettrica, acqua e ossigeno, mentre il terzo ha permesso ad Armstrong e Aldrin di atterrare e successivamente abbandonare la Luna. Di Armstrong furono celebri le sue prime parole dopo aver messo piede sul satellite: «Questo è un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità». Una comunicazione che è stata resa possibile grazie alle cuffia Plantronics MS50, sviluppata da POLY: in soli 11 giorni, con la NASA, fu creato un microfono funzionante, con la cancellazione del rumore, poi utilizzato in tutte le missioni Gemini, Apollo e Skylab. Questa componente faceva parte del più ampio Communications Carrier Assembly (CCA), noto come Snoopy cap per via della sua somiglianza con il celebre personaggio del cartone animato. Portando a termine la missione (356mila chilometri all’andata e al ritorno), la NASA realizzò qualcosa di inimmaginabile, soprattutto considerando la strumentazione: la potenza di calcolo dei sistemi del 1969, infatti, era infatti inferiore a un moderno smartphone. All’interno del Modulo di Comando e del Modulo Lunare, fondamentale per le operazioni di navigazione, guida e controllo nello spazio, era stato montato l’Apollo Guidance Computer (AGC), sviluppato dal MIT e assemblato da Raytheon. Se i calcolatori dell’epoca erano molto grandi, a bordo dell’Apollo 11 le dimensioni erano certamente più contenute: 61 centimetri di profondità, 32 di larghezza, 17 di altezza per un peso complessivo di 32 kg. Al suo interno erano presenti 2800 circuiti integrati. A far sorridere, invece, sono i dati seguenti: 152 kilobyte di memoria tra ROM e RAM, e frequenza di calcolo da 0,043 a 2 MHZ. Gli smartphone adesso sono decisamente superiori: hanno di norma almeno 32 GB di memoria e operano a 2.2 GHZ. Nonostante ciò l’AGC si è rivelato all’altezza della situazione, gestendo i dati provenienti dal sistema di navigazione giroscopico, dal telescopio e dai due radar, e fornendo agli astronauti il controllo sui motori e sulle operazioni di bordo. Oltre a essere progettato per non bloccarsi mai, nemmeno in caso di errore, operava secondo priorità: dovendo eseguire numerosi programmi, era in grado di stilare una lista, mettendo al primo posto quello più urgente. Dato che gli astronauti non erano tecnici informatici specializzati è stato necessario costruire un’interfaccia semplice e accessibile. Fu chiamata DSKY (display-keyboard) ed era appunto composta da un display, una tastiera numerica e indicatori luminosi: inserendo i codici, gli astronauti erano quindi in grado di eseguire un programma. Visti i tempi di latenza molto elevati, la maggior parte delle operazioni erano gestite direttamente dalla navicella, ma sulla Terra lo spiegamento di forze fu ingente. Per lo sviluppo dei software e dei computer, poi utilizzati dal Mission Control Center, IBM mise a disposizione un team di 4000 persone: a Houston furono così montati 5 calcolatori System/360 Model 75, che monitoravano tutti i dati relativi al volo dell’Apollo 11. Non solo, l’azienda informatica ebbe un ruolo fondamentale anche per i sistemi di gestione del vettore, ovvero il razzo Saturn V.

Chang’e 4 - La missione cinese con vista sul futuro. Nell’anno del 50° anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, la Cina realizza a suo modo un’altra impresa. Il 3 gennaio 2019, infatti, riesce a far atterrare un lander e il rover Yutu 2 sul lato nascosto del satellite, quello che dalla Terra non è possibile osservare e che finora nessuno aveva mai raggiunto. La missione Chang’e 4, il cui nome si riferisce alla dea cinese della Luna, ha mostrato al mondo gli evidenti passi in avanti in termini di tecnologia. L’atterraggio di lander e rover e le successive comunicazioni con la Terra non sarebbero possibili se nel 2018 la CNSA, l’agenzia spaziale cinese, non avesse lanciato in orbita Queqiao. Si tratta di un satellite artificiale che fa da ponte radio tra lo Yutu 2 e il centro di controllo sulla Terra: senza la sua presenza e dovendo operare sul lato non visibile, il rover non avrebbe potuto inviare le informazioni raccolte. Per ovviare al problema, Queqiao si è posizionato a circa 65 mila chilometri dalla Luna, in modo tale da avere una visuale chiara sia sul lato nascosto del satellite sia sulla Terra. È provvisto di trasmettitori radio: 4 canali in banda X che permettono il collegamento con il rover (fino a 256 kilobit al secondo); un canale in banda S che invia i dati al centro di controllo (fino a 2 megabyte al secondo). Usa un’antenna parabolica di 4.2 metri di diametro, inoltre pesa 425 chilogrammi ed è alimentato dall’energia prodotta da pannelli solari dispiegabili. Un altro tipo di antenna, la Netherlands Chinese Low-Frequency Explorer (NCLE), sviluppata dalla Netherlands Institute for Radio Astronomy (ASTRON), ha una tecnologia che consente la ricezione radio a bassa frequenza di stelle e galassie che hanno fatto la loro prima apparizione dopo sole poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Questo strumento consente, inoltre, di effettuare rilevazioni al di fuori delle interferenze radio dell’orbita terrestre bassa che bloccano le lunghezze d’onda inferiori a 30 MHz e sono tipiche di questa zona dell’Universo. Il ciclo di vita del satellite Queqiao dovrebbe essere di almeno 5 anni. Come per altre missioni spaziali cinesi, tuttavia, i dettagli relativi ai veicoli utilizzati sono limitati: ciò che è certo è che lander e rover sono dotati di un’unità di riscaldamento del radioisotopo (RHU), una funzione necessaria per mettere al sicuro i propri sottosistemi e resistere alle lunghe notti sulla Luna. Entrambi generano energia elettrica grazie alla presenza di pannelli solare: il rover Yutu 2, nello specifico, misura 1 metro di altezza, 1 metro di larghezza ed è lungo 1.5 metri, oltre a pesare 140 kg. Per raggiungere l’obiettivo, raccogliere informazioni sul suolo lunare, è dotato di due strumenti come il Lunar Penetrating Radar (LPR) e il Visible and Near-Infrared Imaging Spectrometer (VNIS). Il primo è un radar in grado di vedere il sottosuolo fino a oltre 100 metri e oltre lo spessore della regolite; il secondo, invece, uno spettrometro a infrarossi, è utilizzato per studiare la composizione minerale della superficie che è vicina al rover. Durante la precedente spedizione, Chang’e 3, la prima versione dello Yutu resistette 3 mesi prima di cessare le comunicazioni con la Terra: gli ingegneri cinesi, in questo caso, hanno apportato delle modifiche e sono fiduciosi affinché il ciclo di vita dello Yutu 2 possa arrivare anche a pochi anni. I progetti del Paese, guidato dal presidente Xi Jinping, sono però più ambiziosi: la Cina, infatti, al momento per budget è seconda solo alla NASA, ma intende essere la prima nel giro di poco tempo. Tra dieci anni, questi i tempi stimati da Pechino, l’obiettivo è costruire una base al Polo Sud della Luna: questo permetterà di ospitare inizialmente robot e infine anche astronauti.

Chandrayaan-2 - Anche l’India in corsa. Tra le nuove potenze, che intendono lasciare il segno sulla Luna, c’è anche l’India con la sua agenzia spaziale, la Indian Space Research Organisation. Domenica 14 luglio la sonda Chandrayaan-2 avrebbe dovuto cominciare il suo viaggio, ma per problemi tecnici è stato interrotto quando al lancio mancavano 56 minuti. Nulla di preoccupante, infatti tutto è stato risolto e la missione è partita il 22 luglio: l’obiettivo è quello di diventare la quarta nazione in grado di eseguire il cosiddetto atterraggio soft sul suolo lunare dopo Russia, Stati Uniti e Cina. Per scoprire se anche l’India potrà aggiungersi a questo gruppo ristretto bisognerà aspettare fino al 7 settembre, data in cui Chandrayaan-2 raggiungerà il punto stabilito e comincerà quindi la discesa del lander, Vikram, il cui nome fa riferimento a Vikram Sarabhai, considerato il padre del programma spaziale indiano, e del rover Pragyaan. Le comunicazioni con la Terra e il centro di controllo dell’Indian Deep Space Network (IDSN) a Byalalu saranno possibili grazie alla presenza di un orbiter, che volerà nello stesso lancio e si posizionerà a 100 km di distanza dalla Luna: quest’ultimo avrà, inoltre, una telecamera ad alta risoluzione per osservare il sito di atterraggio, un altopiano tra due crateri Manzinus C e Simpelius N. Quando il lander Vikram inizierà la sua discesa entreranno in gioco il sistema di propulsione, composto da 8 propulsori da 50 Newton per il controllo dell’assetto e 5 motori principali liquidi da 800 N. Questi ultimi, inizialmente, dovevano essere solamente 4, ma si è scelto di aggiungerne uno in più al centro per rispondere meglio ai requisiti della missione. Prima di atterrare, infatti, sarà necessario orbitare intorno alla Luna, inoltre il motore addizionale servirà a diminuire la spinta verso l’alto, causata dalla polvere lunare. L’atterraggio è stato dichiarato sicuro anche in caso di pendenza, fino a un massimo di 12 gradi. Vikram, inoltre, sarà dotato di telecamera ad alta risoluzione, telecamera di navigazione, altimetro, misuratore di velocità, accelerometro e il software dedicato all’esecuzione di questi componenti. Il lander è progettato per resistere un giorno lunare, pari a 14 giorni terrestri. La stesso ciclo di vita riguarda anche il rover Pragyaan, anche se c’è la possibilità che possa durare più a lungo. Al sistema di alimentazione a energia solare, infatti, è stato implementato un ciclo sonno/sveglia che potrebbe permettere al rover di allungare i tempi della missione. Sarà dotato di 6 ruote, ognuna delle quali azionata da motori elettrici, montate su un tipo di sospensione, chiamata rocker-bogie, in grado di consentire lo spostamento fino a 500 metri, alla velocità di 1 cm al secondo. Con i suoi 27 kg, inoltre, sarà decisamente meno pesante rispetto al rover cinese. Per muoversi ed essere agevolato nel suo obiettivo - analizzare chimicamente il luogo - avrà anche una telecamera stereoscopica in 3D: nello specifico sono due e sono montate sul fronte di Pragyaan. Entrambe monocromatiche da 1 megapixel, forniranno al centro di controllo sulla Terra una visione dell’ambiente circostante, dando così l’opportunità di elaborare un modello digitale per scegliere al meglio il percorso. L’invio di informazioni sarà possibile grazie al collegamento creato tra lander e orbiter.

Jeff Bezos - Anche i privati hanno iniziato la corsa per la conquista dello spazio. Molte aziende private, guidate da leader visionari, hanno iniziato a entrare sulla scena. Una di queste è Blue Origin, la società fondata nel 2000 da Jeff Bezos, cioè l’uomo più ricco al mondo e proprietario della più conosciuta Amazon. Inizialmente nata per consentire voli suborbitali di tipo turistico e commerciale, i recenti sviluppi l’hanno indirizzata verso quelli orbitali: «Stiamo costruendo una strada per lo spazio, così che i nostri figli possano costruire una strada per il futuro». È questa la mission di Blue Origin e a maggio 2019, Jeff Bezos, durante la conferenza stampa di presentazione del lander Blue Moon, a tal proposito ha sottolineato la necessità di creare una vasta economia spaziale. Date le risorse non infinite del nostro pianeta, il leader di Amazon ritiene fondamentale questo passaggio per la sopravvivenza futura dell’umanità. Per riuscire in questo intento sicuramente ambizioso, Blue Origin sta lavorando duramente. Ha iniziato quindi a sviluppare il New Shepard, un lanciatore suborbitale, il cui nome deriva da Alan Shepard, il primo astronauta statunitense a volare nello spazio con il gruppo Mercury Seven. Si tratta di un vettore, composto da una camera pressurizzata per l’equipaggio e un modulo di propulsione, in grado di decollare e atterrare verticalmente, una caratteristica che lo rende completamente riutilizzabile. Il modulo di propulsione del New Shepard è alimentato dal BE-3, un motore a razzo che brucia idrogeno e ossigeno liquido. Proprio questa scelta è indicativa di come Bezos intenda raggiungere quanto prima lo spazio e, in particolare, la Luna dalla cui superficie si vorrebbe ricavare l’idrogeno. Finora il vettore è stato in grado di superare senza problemi 11 voli di test, senza equipaggio a bordo: l’ultimo è recente visto che è stato completato a inizio maggio 2019. Durante queste prove il New Shepard viene lanciato verticalmente dal West Texas e i motori del BE-3, in grado di andare oltre la velocità Mach 3, restano accesi per circa 150 secondi: il razzo, una volta raggiunta la linea Karman, che si trova a 100 km di altezza e viene convenzionalmente considerato il confine tra l’atmosfera terrestre e lo spazio esterno, si stacca dalla capsula dell’equipaggio e comincia la sua discesa. La tecnologia permette al propulsore di essere direzionato e di modulare la propria potenza così da migliorare la fase di atterraggio. La capsula, invece, che potrebbe trasportare fino a 6 persone, dopo il distacco resta per pochi minuti in una condizione di microgravità salvo poi scendere a terra in sicurezza, grazie all’azione di 3 paracaduti e dei retrorazzi. Tutte queste operazioni avvengono senza alcun supporto dal centro di controllo, infatti il New Shepard integra al suo interno un computer di bordo. Per Blue Origin, il prossimo passo sarà la prova con l’equipaggio a bordo, ma ancora non è stata fissata una data: non dovrebbe mancare molto, visto che all’interno del sito del lancio è già stata portata la nuova versione del propulsore, il BE-4. L’azienda sta anche sviluppando il New Glenn, su cui ripone molte speranze per i voli orbitali, ma che potrebbe non essere sufficientemente potente per raggiungere la Luna: è un veicolo di lancio che, secondo i piani di Blue Origin, nel 2021 riuscirà già a trasportare carichi utili. Nello specifico ha un diametro di 7 metri ed è costituito di 3 stadi: il primo è riutilizzabile fino a un massimo di 25 missioni, grazie alla capacità di atterrare verticalmente, mentre il terzo è opzionale. Saranno 7 propulsori BE-4 a sostenere la prima spinta, il secondo stadio avrà un solo motore BE-4 in grado di operare nel vuoto, mentre il terzo sfrutterà il BE-3U che brucerà ossigeno e idrogeno liquido in condizioni di vuoto. Si arriva infine all’annuncio del lander Blue Moon, che dovrebbe vedere la luce nel 2021 ed essere attivo per la prima missione lunare a partire dal 2024: come gli altri veicoli dell’azienda sarà in grado di atterrare verticalmente su qualsiasi punto della Luna. Potrà trasportare carico utile fino a 4500 kg e per questo si ipotizza che attraverso più spedizioni e discese sul satellite possa quindi portare con sé gli elementi per costruire una base. Per l’atterraggio soft utilizzerà un motore BE-7, sarà inoltre provvisto di celle a combustibile che daranno kilowatt di potenza in grado di allungare i tempi della missione e di resistere alla notte lunare. I recenti sviluppi, portati avanti dall’azienda di Bezos, hanno suscitato un certo interesse anche da parte della NASA: non è quindi escluso che le due parti possano avviare una collaborazione per riportare l’uomo sulla Luna.

Elon Musk - Il miliardario che ha già conquistato la NASA con la sua SpaceX. Così come Jeff Bezos, anche Elon Musk non ha perso tempo e, nel 2002, ha fondato SpaceX, la sua azienda aerospaziale ad Hawthorne, in California. Creazioni di quest’ultima sono i razzi Falcon 9 e Falcon Heavy, e il veicolo Dragon. Il primo è un vettore orbitale a due stadi e così come quelli prodotti da Blue Origin è in grado di essere riutilizzato per più missioni. Grazie alle sole due fasi, gli eventi di separazione sono ridotti al minimo: la spinta iniziale è garantita da 9 motori Merlin, alimentati da ossigeno liquido e RP-1, un tipo di kerosene. L’utilizzo della tecnologia engine out, inoltre, ha permesso di raggiungere il 97 % di successo delle missioni: se uno dei motori si spegnesse, infatti, il volo non ne risentirebbe. Nel 2012, il Falcon 9 è entrato nella storia quando ha fatto in modo che Dragon, la capsula orbitale da trasporto, raggiungesse la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per portare rifornimenti. Questo importante evento ha reso SpaceX la prima compagnia commerciale ad attraccare in un luogo accessibile per pochi. Vista l’alta affidabilità dimostrata, l’azienda ha quindi iniziato a sviluppare una versione per il trasporto di persone, così da permettere alla NASA di inviare i propri astronauti sulla ISS. A tal proposito, il 3 marzo 2019 il test della Crew Dragon, o Dragon 2, si è concluso positivamente: si tratta di un risultato storico, perché è stata la prima navicella spaziale americana ad attraccare autonomamente alla Stazione Spaziale Internazionale. A bordo era presente un manichino, chiamato Ripley, per capire quali fossero le condizioni a cui un essere umano poteva essere sottoposto. La Crew Dragon, nelle intenzioni dell’azienda, dovrebbe consentire il trasporto fino a 7 persone e così come il razzo Falcon 9 è prevista una certa riusabilità del veicolo per un massimo di 10 missioni. Tra le caratteristiche più interessanti, oltre alla capacità di attraccare in autonomia alla ISS, vi sono sicuramente i controlli posti su uno schermo touch screen, per un utilizzo ottimale da parte dell’equipaggio, e gli 8 motori SuperDraco montati lateralmente, i primi del loro genere a essere stampati in 3D. Il debutto del volo operativo, con a bordo 4 astronauti diretti sulla Stazione Spaziale Internazionale, sarebbe dovuto avvenire nel 2020, ma è probabile che i tempi si possano allungare, dato che il test di luglio 2019 è stato rimandato a data da destinarsi, dopo i problemi della capsula in occasione della missione Demo 1. Per quanto riguarda la Luna, SpaceX, con il suo Falcon 9, è stata la prima azienda privata a tentare una missione sul satellite: ad aprile 2019, infatti, ha lanciato la sonda israeliana Beresheet. Si può definire un successo a metà, da una parte il vettore ha compiuto a pieno il suo dovere permettendo al lander di raggiungere il punto desiderato, ma dall’altra la discesa del velivolo si è risolta con uno schianto sul suolo lunare. Un vero peccato se si considera che la missione è costata circa 100 milioni di dollari, un prezzo basso rispetto a quelli spesi normalmente dalle agenzie. In futuro, SpaceX sarà coinvolta in un progetto particolare, chiamato Dear Moon: sarà finanziato dal miliardario giapponese Yusaku Maezawa che intende circumnavigare la Luna e portare con sé alcuni artisti. Durante questo viaggio, che difficilmente avverrà prima del 2023, per 6 giorni Maezawa e i suoi ospiti, fino a un massimo di 8, avranno modo di osservare il satellite per produrre le loro opere, successivamente visibili una volta tornati sulla Terra. L’impresa sarà possibile grazie allo sviluppo di Starship, un veicolo spaziale completamente riutilizzabile e destinato al trasporto di merci e persone in viaggi di lunga durata. Per questo tipo di uso, bisognerà aspettare fino al 2021, ma in ogni caso nei piani dell’azienda è considerato il successore del Falcon 9 e della capsula Dragon.

Lunar Gateway - La prima base spaziale oltre l’orbita terrestre. Se la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è stata la costruzione più grande mai realizzata nello spazio negli ultimi 20 anni, in futuro c’è l’intenzione di creare qualcosa di ancora più innovativo. A marzo 2019, infatti, è stata annunciato il progetto del Lunar Gateway (LOP-G), una stazione orbitante attorno alla Luna. A svelare il progetto è stato il Multilateral Coordination Board che finora ha supervisionato le attività della Stazione Spaziale Internazionale. Dello sviluppo di questa nuova base ne hanno parlato insieme con le 5 principali agenzie: la NASA (Stati Uniti), Roscosmos (Russia), ESA (Unione europea), JAXA (Giappone) e CSA (Canada). Al momento solamente Canada e Stati Uniti hanno formalizzato l’accordo, mentre a novembre 2019 dovrebbe arrivare la decisione definitiva da parte dell’Unione europea. La speranza è che più potenze possano entrare a far parte di questo progetto, così da ottimizzare gli enormi costi di realizzazione: la NASA che punta forte sul Lunar Gateway, ad esempio, si è vista aumentare recentemente il budget di 1.6 miliardi di dollari dall’amministrazione Trump. L’eventuale riuscita comporterà grossi miglioramenti per tutte le parti coinvolte, infatti avere un avamposto oltre l’orbita terrestre, dove si trova l’ISS, così vicino alla Luna permetterà più missioni con o senza equipaggio sul satellite, ma anche la possibilità di prepararsi fisicamente per le future operazioni su Marte. Il Lunar Gateway disterebbe 5 giorni di viaggio, a circa 380 mila km di distanza dalla Terra: sarà costituito da 7 moduli e l’intera costruzione non dovrebbe pesare più di 40 tonnellate, quindi molto distante dalle 420 della Stazione Spaziale Internazionale. Il primo modulo, Power and Propulsion Element (PPE), fornirà propulsione ionica ed energia elettrica, tramite pannelli fotovoltaici: dovrebbe essere lanciato nello spazio nel 2022, ma tutto dipenderà da eventuali ritardi nello sviluppo del razzo Orion da parte della NASA. Il secondo modulo, l’European System Providing Refuelling, Infrastructure and Telecommunications (ESPRIT) contribuirà all’immagazzinamento di xenon e idrazina, oltre a costituire un punto di attracco per eventuali carichi. Il terzo sarà l’Utilization Module, di produzione statunitense, e fornirà spazio aggiuntivo e costituirà l’iniziale modulo abitativo, mentre il quarto, l’International Habitation Module (I-HAB) farà parte del modulo abitativo durante le missioni con equipaggio. Quest’ultimo, al suo interno, avrà spazi notte, di cucina e di esercizio e infine fornirà un punto di attracco per altri moduli. L’U.S. Habitation Module sarà il quinto modulo dove si troveranno gli spazi abitativi degli astronauti statunitensi, mentre a chiudere ci saranno i Gateway Logistics Modules, usati come moduli di rifornimento, e il Gateway Airlock Module, che servirà da camera d’equilibrio per eventuali passeggiate spaziali e sarà fornito dalla Russia. All’interno della nuovo avamposto è stato ipotizzato un numero massimo di 4 persone per uno spazio abitabile di 125 metri cubi. L’ambizioso progetto sta particolarmente a cuore alla NASA che ha inserito il Lunar Gateway all’interno delle sue missioni Artemis, ovvero Artemide, la gemella di Apollo il cui nome era stato scelto per i primi lanci spaziali sulla Luna. Il programma, a partire dal 2024, prevede lo sbarco della prima donna sul satellite a distanza di 55 anni dal primo con la storica spedizione di Apollo 11.

Dainese e l’eccellenza italiana nello Spazio. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Italiani nello spazio. Non c’è solo Luca Parmitano, fresco comandate della Stazione Spaziale Internazionale. Come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, diverse realtà del Paese partecipano a vario titolo alla corsa dell’uomo verso le stelle. Tra i marchi italiani, ce n’è poi uno leader nel proprio settore, la vicentina Dainese, che da più di 10 anni lavora al fianco di Nasa ed Esa per trovare soluzioni ottimali per le tute degli astronauti. Con l’obiettivo su Marte, nel 2030. «Abbiamo sviluppato negli anni una capacità di comprendere e conoscere il corpo umano che è di valore assoluto, ed è questo il segreto che ci porta a essere così competitivi», ci spiega Cristiano Silei, amministratore delegato dell’azienda che nel 2018 ha raggiunto il fatturato record di 187 milioni di euro. «È per questa competenza che ci viene riconosciuta da tutti che l’Mit di Boston ha deciso di venire da noi per lavorare sul progetto della Nasa per sviluppare una tuta che protegga e aiuti gli astronauti nella missione verso Marte». La Biosuit è un progetto ai vertici dello sviluppo tecnologico: niente di meno è richiesto quando si lavora con lo spazio nel mirino. Una collaborazione che Dainese sta portando avanti anche con l’Esa, l’Ente spaziale europeo, per una tuta spaziale da usare a bordo dell’Iss che limiti gli effetti dell’assenza di gravità sugli astronauti, deputati a passare mesi a bordo della Stazione.

La prima base stabile sulla Luna? La progetta un ingegnere italiano. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Caprara. Si chiama Tommaso Ghidini, ha 45 anni ed è a capo del progetto dell’Esa che studia il nuovo insediamento Da Apollo 11 a Lunar Gateway: come è cambiata la tecnologia per la conquista della Luna. Mattoni e mura lunari stanno prendendo forma nei laboratori olandesi dell’agenzia spaziale europea Esa. La Luna è ormai vicina, e gli orizzonti selenici saranno presto segnati anche dall’architettura e dall’innovazione europee. Il grande razzo Sls con la nuova astronave Orion della Nasa sono quasi pronti per il primo volo di collaudo senza astronauti intorno al nostro satellite verso la fine dell’anno prossimo. Intanto si sta disegnando il veicolo per sbarcare e poi ritornare in orbita lunare, che si aggancerà alla piccola stazione orbitale Gateway anch’essa già in fase di realizzazione. E nel 2024, come ha chiesto il presidente americano Trump, una donna e un uomo torneranno a camminare sulle polverose sabbie grigie secondo il programma battezzato Artemis che nella mitologia greca era la sorella di Apollo, il nome delle missioni anni Sessanta. «Si procede rapidi e per questo stiamo progettando un primo insediamento e sperimentando le tecnologie necessarie per poter vivere e lavorare in tranquillità in quel difficile ambiente», spiega Tommaso Ghidini a capo della divisione ingegneria strutturale nel centro Estec dell’Esa a Noordwijk, in Olanda. Anche l’Europa è, infatti, proiettata in collaborazione con la Nasa verso i panorami selenici nei quali si torna per rimanere con una colonia che nascerà condivisa da altre nazioni come è accaduto per la stazione spaziale. I dettagli li decideranno il mese prossimo a Siviglia i ministri della ricerca dei Paesi che finanziano l’Esa.

Il rendering del villaggio lunare. «Nei nostri laboratori abbiamo prodotto i mattoni artificiali costituiti degli stessi elementi di quelli veri lunari con i quali si fabbricherà la base capace di ospitare sei astronauti» spiega Ghidini, 45 anni, che domenica al Festival della scienza di Genova illustrerà i dettagli del piano e dei lavori in corso. «Costruiremo l’edificio — continua — con stampanti 3D utilizzando il materiale della superficie, la regolite, per assemblare i vari pezzi. Il tutto in maniera completamente automatica, senza l’intervento dell’uomo, facendo ricorso a impianti robotizzati. Anzi gli astronauti, per evitare rischi, arriveranno e varcheranno la soglia solo quando la casa lunare sarà completata». L’edificio di partenza, progettato con il grande architetto inglese Norman Foster, sarà formato da una prima struttura gonfiabile sormontata da una parete di mattoni e l’insieme ricoperto ancora da polvere lunare. «Tutto ciò — aggiunge Ghidini dal centro olandese dove è arrivato nel 2007 — serve per proteggere gli astronauti dalle radiazioni cosmiche e dai micro-meteoriti mentre, tra le due strutture, si inietterà pure dell’acqua anch’essa efficace nella schermatura dai micidiali raggi».

Il luogo di sbarco prescelto è il Polo Sud, nella zona del cratere Shackleton. «In questa prospettiva è stato pure siglato ieri a Washington — riferisce Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio per le politiche spaziali — un accordo tra la Nasa e l’Asi per l’impiego di tecnologie italiane». «E siccome — conclude Tommaso Ghidini — la regolite contiene vari elementi come titanio, alluminio e silicio non usati nella produzione dei mattoni, gli scarti li impiegheremo per comporre sempre con la stampa 3D strutture metalliche e componenti elettronici». Nella logica di insediamento sul vicino corpo celeste nulla va perduto, tutto riciclato. Sarebbe infatti impossibile per la complessità dei viaggi e i costi insostenibili portare il necessario dalla Terra mentre invece le nuove tecniche cosmiche potranno ritornare sulla Terra per essere applicate quaggiù con indubbi benefici.

·         Cinquant'anni fa scoppiava l'autunno caldo. E finiva il Miracolo economico.

Autunno ’69, l’anno della rivolta operaia. Paolo Delgado il 16 Agosto 2019 su Il Dubbio. Cinquant’anni fa arrivò l’autunno caldo. La protesta uscita dalle fabbriche arrivò improvvisa. Segnò l’intero decennio successivo e colse impreparato il sistema di potere italiano. Ancor più di quanto avvenne con l’esplosione degli atenei l’anno prima in Italia il gioco si fece sporco e duro. Nel 1969, in Italia, cambiò tutto. Molto più del citatissimo 1968, l’anno degli studenti, fu la data successiva, l’anno degli operai, a chiudere una fase che, con sfumature anche profondamente diverse ma vantando lo stesso una continuità di fondo, durava da un paio di decenni. Non se lo aspettava nessuno. Quella rivolta, destinata a segnare l’intero decennio successivo, colse il sistema di potere italiano ancor più alla sorpresa dell’esplosione degli atenei del ‘68. Nel mondo spirava un vento di riflusso, come si diceva allora. Negli Usa la grande rivolta aveva consegnato la presidenza al candidato più distante dal Movement americano che si potesse immaginare: Richard Nixon. In Cecoslovacchia il suicidio dello studente Jan Palach, che si diede fuoco in piazza san Venceslao il 16 gennaio, indicava, con la sua disperazione impotente, che il sogno di cambiare il socialismo reale dall’interno era svanito una volta per tutte. In Francia, dove il ‘ 68 aveva assunto in maggio caratteri apertamente insurrezionali, il governo procedeva ad asfaltare le strade di Parigi, per evitare che il pavè fosse di nuovo usato per erigere barricate come in maggio. Non ce ne sarebbe stato bisogno. La rivolta era finita. De Gaulle, il vincitore, era comunque vicino a uscire di scena: avrebbe rassegnato le dimissioni il 29 aprile, dopo aver perso un referendum sulla riforma del Senato. Ma non c’erano dubbi su chi lo avrebbe sostituito e infatti in giugno il nuovo leader gollista, Georges Pompidou, vinse con ampio scarto le elezioni presidenziali. In Italia proseguivano le occupazioni degli atenei ma sembrava la ripetizione di un rituale già stanco. La fortissima mobilitazione degli studenti più giovani, quelli delle medie superiori, che aveva riempito le strade nell’ultimo scorcio del ‘ 68, alle prese con interrogazioni e scrutini finali si era fermata. Nelle fabbriche si respirava un clima di ottimismo, un secondo boom pareva alle porte. La Fiat aveva ripreso ad assumere e migliaia di giovani del sud si riversavano a Torino calamitati dal miraggio del lavoro nella fabbrica modello o nell’indotto. Alla presidenza, dopo i decenni del comando di Vittorio Valletta, aveva deciso nel 1966 di andare di persona, nonostante la conclamata inesperienza, Gianni Agnelli, affiancato dall’amministratore delegato Gaudenzio Bono e aveva inaugurato un clima di maggiore apertura rispetto all’era Valletta, il presidente e Ad degli "anni duri", dei licenziamenti e dei reparti confino. In aprile l’uccisione di due manifestanti da parte della polizia a Battipaglia, nel corso di uno sciopero, aveva attizzato il fuoco. Alla fine di maggio, nelle officine Carrozzeria dell’enorme stabilimento della Fiat Mirafiori iniziò una serie di scioperi spontanei che coinvolgevano soprattutto gli operai "di linea", senza specializzazione e dunque senza potere contrattuale, per lo più immigrati da poco, tradizionalmente la fascia operaia più ricattabile e meno combattiva. Gli scioperi selvaggi proseguirono per oltre un mese, spiazzando i sindacati che firmavano accordi rifiutati puntualmente dagli operai. Il 3 luglio uno sciopero generale a Torino finì con violentissimi scontri con la polizia ai quali partecipò per 24 ore la popolazione dei quartieri operai della città torinese. La Fiat decise di passare alla controffensiva subito dopo la pausa estiva, un colpo preventivo in previsione di quello che sarebbe potuto succeder in autunno, con il rinnovo dei contratti dei metalmeccanici ma anche di moltissime altre categorie, per un totale di 5 milioni di operai coinvolti. Il 2 settembre annunciò la sospensione e messa in cassa integrazione di 6.700 operai: nel giro di sei giorni le sospensioni arrivarono a 28mila. Iniziava così l’ "autunno caldo", il ciclo di conflittualità operaia più massiccio in un Paese occidentale dopo la guerra. La trasformazione non riguardò solo le fabbriche ma l’intera società italiana: nel decennio successivo praticamente tutti i settori della società italiana avanzarono richieste di maggior libertà e maggiori diritti, spesso sostenendole con conflitti a volte molto aspri. Anche i riflessi sul sistema politico furono immediati, innescando una lunga fase di instabilità destinata a prolungarsi per un decennio. Oltre all’Italia il solo Paese nel quale l’onda del ‘ 68 continuò a montare anche nell’anno seguente furono gli Usa, nonostante la vittoria di "Tricky Dick" Nixon. Se In Italia ad alimentare la richiesta di cambiamento erano le lotte operaie, negli Usa erano la guerra nel Vietnam e i conflitti razziali. Il 1969 segnò in realtà il momento di massima espansione della cosiddetta ‘ controcultura’ e allo stesso tempo l’inizio del suo declino. Tra il 15 e il 17 agosto mezzo milione di giovani hippies si ritrovarono a Woodstock, nello Stato di New York, per un festival pop al quale partecipavano molte delle principali rock star dell’epoca. Non fu solo un concerto però, si trasformò in una sorta di manifesto politico, l’apoteosi dell’ "altra America" che si ribattezzò la "Woodstock Nation". In quello stesso mese, però, il massacro compiuto da una comunità all’apparenza identica a quelle hippie, nel quale perse la vita anche l’attrice emergente Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, svelava che nel mondo della controcultura campeggiavano anche pulsioni ben diverse da quelle sbandierate dai "tre giorni di pace amore e musica" di Woodstock. Il 6 dicembre, ad Altamont California, la violenza del servizio d’ordine composto da Hell’s Angels in un concerto gratuito dei Rolling Stones, culminata con l’uccisione di uno spettatore, segnò la fine della stagione hippie. La controcultura non fu distrutta solo dalle ombre che covava al proprio interno. Il sistema di potere si prodigò per azzerare i movimenti del dissenso. L’Fbi prese di mira soprattutto il Black Panther Party, partito rivoluzionario nero e comunista dilagante nei ghetti, usando mezzi tra i più discutibili e spregiudicati. In dicembre il leader delle Pantere nere di Chicago, Fred Hampton, e il militante Mark Clark furono uccisi a freddo dalla polizia durante un’irruzione. Appena un mese prima, il massacro della popolazione civile del villaggio di My Lai, in Vietnam, aveva dimostrato che la "sporca guerra" rimaneva tale nonostante anni di proteste crescenti in patria. Anche in Italia il gioco si fece, in quell’anno, sporco e duro. In aprile e in agosto una serie di ordigni era esplosa alla Fiera di Milano e poi, in pieno esodo estivo, su numerosi treni. Quella che verrà poi definita ‘ strategia della tensione’ si tradusse in strage il 12 dicembre, in pieno autunno caldo, quando una bomba piazzata nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana uccise 17 persone. Nella stessa giornata esplosero, senza fare vittime, altre 4 bombe: la fase più sanguinosa della politica italiana iniziò con quella tragedia. Con gli occhi puntati sul conflitto sociale passò quasi in secondo piano il golpe che, il primo settembre, portò al potere in Liba il colonnello Gheddafi. Era stato organizzato dall’Italia, consapevole di cosa ci fosse sotto il suolo dello “scatolone di sabbia” libico.

Cinquant'anni fa scoppiava l'autunno caldo. E finiva il Miracolo economico. Nel 1969 scadevano 32 contratti collettivi di lavoro in un Paese già in preda alla contestazione giovanile e alle proteste violente. Ecco che cosa accadde. Guido Fontanelli il 24 giugno 2019 su Panorama. Cinquant’anni fa. Esattamente il 20 giugno del 1969: quel giorno il governo, presieduto dal democristiano Mariano Rumor, approva la bozza dello Statuto dei lavoratori che verrà licenziato dal Parlamento, con molte modifiche, nel maggio di un anno dopo. È il tentativo della politica di rispondere con una serie di nuovi diritti alle pressanti richieste che arrivano dalle fabbriche in subbuglio. Ma non basta. E a settembre esplode l’Autunno caldo. Una stagione di proteste durissime, condite dall’ideologia anti americana e anti capitalista, che investe soprattutto la grande industria e che lascerà un segno profondo nella nostra società. Racconta Franco Amatori, professore ordinario di Storia economica all’Università Bocconi di Milano: «Tutto ha inizio alla Fiat di Torino nel settembre del 1969 quando in 800, nella più grande fabbrica d’Italia, scioperano spontaneamente per un contrasto con l’azienda relativo al passaggio di qualifica e la Fiat risponde con la cassa integrazione per 25 mila operai. Il sindacato riesce a porsi alla guida della lotta e a ottenere la revoca delle sospensioni, un successo che consente, sullo slancio, di aprire la vertenza per il contratto nazionale che sarebbe scaduto a fine anno».

In quei mesi sono in scadenza ben 32 contratti collettivi di lavoro: oltre cinque milioni di lavoratori dell'industria, dell'agricoltura, dei trasporti e di altri settori rivendicano riduzioni dell’orario di lavoro e aumenti salariali. Le proteste si moltiplicano, a metà novembre si contano già 250 milioni di ore di sciopero in tutte le categorie, un record mai raggiunto negli ultimi dieci anni. Gli industriali presi alla sprovvista cedono, abbandonati da una politica debole e intimoriti da un clima generale di lotta al sistema: da un anno gli studenti occupano le scuole e le università, le manifestazioni invadono le città e il Paese sembra sull’orlo di una vera rivoluzione. I sindacati dei metalmeccanici ottengono un nuovo contratto che fissa l'orario di lavoro a 40 ore settimanali, con una riduzione di 4-5 ore: un risultato senza precedenti in Italia e in Europa.

Aumenti uguali per tutti. Accanto a richieste legittime, come la riduzione dell’orario, il diritto all’informazione sulle attività dell’impresa o il controllo della nocività dell’ambiente di lavoro, i sindacati cavalcano rivendicazioni assurde, come gli aumenti uguali per tutti (culminate nel 1975 con l’accordo sul «punto unico di contingenza», che aggancia le retribuzioni all’indice del costo della vita) instaurando nelle fabbriche un assemblearismo in stile studentesco. E arrivano a tollerare forme inaccettabili di intimidazione verso i capireparto e proteste violente: il 29 ottobre 1969, in contemporanea con l’apertura del Salone dell’automobile di Torino, un gruppo di scioperanti armati di sbarre e bastoni assalta lo stabilimento di Mirafiori devastando le linee della Fiat 600 e della 850, il reparto carrozzeria e le strutture della mensa. E quando la Fiat individua i 122 operai colpevoli, il ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin costringe l'azienda a ritirare le denunce.

La Cina d'Europa. Questa era l’Italia del 1969, mezzo secolo fa. Un Paese che vede sfiorire il Miracolo economico negli scioperi, nella violenza e nella crisi petrolifera. «Negli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta l’Italia è la Cina d’Europa» ricorda Mario Deaglio, ordinario di economia internazionale presso la facoltà di Economia dell'Università di Torino. «I nostri elettrodomestici, le nostre Lambrette e le nostre 600 invadono l’Europa, è un periodo bellissimo per l’economia». Grazie a una manodopera a basso costo e numerosa proveniente dal Sud (nel quadriennio 1960-1963, il flusso migratorio dal Sud al Nord raggiunge il totale di 800 mila persone all'anno) l’industria italiana può ottenere risultati sbalorditivi in termini di produttività. Ma la nascita del consumismo, il desiderio degli operai di prendersi una fetta del boom, la creazione di fabbriche gigantesche dove il lavoratore ex contadino si sente schiacciato sotto le rigide gerarchie aziendali, gettano le basi per le proteste e le rivendicazioni salariali, che già nel 1963 provocano una prima ondata di scioperi con conseguente aumento degli stipendi e frenata dell’economia. Intendiamoci, il Pil cresce a tassi del 6-8 per cento all’anno, ma negli anni Sessanta imbocca una china discendente. In seguito all’Autunno caldo e al rallentamento delle altre economie mondiali, dopo il 1969 la crescita del Pil frena al 2 per cento per poi rimbalzare a un bel più 7 per cento nel 1972 e quindi crollare sottozero dopo il 1973, abbattuta dalla crisi petrolifera. Dopo il rincaro del petrolio l’inflazione nel 1974 si impenna in Italia al 24,5 per cento e resta sopra all’11 per cento, con punte del 21, fino al 1983. Un boomerang per i sindacati, come sottolinea Amatori: «L’inflazione erode una parte considerevole dell’incremento nominale dei salari, e in sostanza nel corso degli anni Settanta una redistribuzione del reddito fra i gruppi sociali si verifica in misura assai limitata». Il «lungo autunno», come lo chiama Amatori, finisce il 14 ottobre 1980 dove era iniziato: a Torino, con la marcia dei 40mila capi e impiegati Fiat che invocano la fine dei picchetti all’ingresso di Mirafiori, interpretando la voglia di normalità dell’intera forza lavoratrice del Paese.

Una conflittualità più duratura. Ricapitoliamo: negli anni Sessanta e Settanta l’economia italiana cresce del 153 per cento, ad un tasso medio del 4,8 per cento. Nel ventennio successivo aumenta complessivamente del 49 per cento. E negli anni 2000-2018 solo del 4 per cento. La fine del Miracolo è colpa dell’Autunno caldo? Sicuramente le proteste di quegli anni spostano il pendolo del potere nel campo dei sindacati a discapito degli imprenditori. Ma il problema è che i sindacati, in assenza di un forte partito socialdemocratico, colmano un vuoto lasciato da una politica e da una classe imprenditoriale deboli. «Da noi la conflittualità è durata più a lungo che negli altri Paesi» osserva Giuseppe Berta, professore associato di Storia contemporanea all’Università Bocconi. «Non siamo riusciti a far fare al nostro Miracolo il passo successivo: in Gran Bretagna le grandi fabbriche automobilistiche in quegli anni vengono chiuse e si volta pagina. La Corea del Sud, che inizia negli anni Sessanta il suo boom costruendo su licenza le Fiat 124, continua a investire, in particolare nell’istruzione, e oggi è un colosso nell’auto e nell’elettronica». In Francia la protesta dei lavoratori viene in qualche modo assorbita da uno Stato-mamma che governa l’economia con decisione schierandosi a difesa della propria industria. «L’Italia invece non si è mai assestata su un modello definito, ha seguito una politica ondivaga cercando di venire incontro a tutte le richieste aumentando la spesa pubblica». Con l'Autunno caldo si è chiusa un’epoca, l'epopea della grande industria. L'economia italiana si è trasformata nel tessuto dei distretti industriali: fatti da aziende piccole e lontane dalle grandi città, dove ormai gli stabilimenti sono giganteschi scheletri vuoti.

·         1989, Good bye Lenin.

1989, Good bye Lenin. Lanfranco Caminiti il 21 Agosto 2019 su Il Dubbio. Nessuno aveva previsto il crollo improvviso del comunismo ma le premesse erano lì da tempo. E l’effetto domino spazzò via tutto il sistema. Gorbaciov traghettò l’Urss nel capitalismo mentre la Cina, che ebbe Tienanmen, riuscì a salvarsi dal terremoto. La verità è che nessuno l’aveva previsto un 1989 così. D’altronde nessuno aveva previsto, per dire, neppure la crisi finanziaria del 2008. Ricordate quando la regina Elisabetta – proprio come uno chiunque di noi, esterrefatto, incredulo quanto lei – si rivolse a uno degli economisti più considerati e gli chiese: «Ma com’è che non siete riusciti a prevederla?» E il crac del 1929, qualcuno l’aveva previsto? E la Seconda guerra mondiale, qualcuno l’aveva prevista? E il 1917 bolscevico, qualcuno l’aveva previsto? La verità è che nessuno può prevedere le grandi crisi della Storia: la Storia non ha proprio nulla di deterministico. Non va per linea retta. E se per quello, neppure l’economia. Però, in verità, sulla fine dell’Unione sovietica qualcuno c’era andato vicino: Emmanuel Todd aveva venticinque anni quando pubblicò in Francia nel 1976Il crollo finale. Saggio sulla decomposizione della sfera sovietica. Era un demografo, un antropologo oltre che uno storico – e studiò l’innalzamento del tasso di morti infantili tra 1971 e 1974, l’alfabetizzazione, la contraccezione, le strutture antropologiche di base ( i modelli familiari), e riportò un dato bizzarro quanto strabiliante: un intero carico di scarpe destre che non trovava collocazione. Che paese era, che sistema era, quale disorganizzazione mostrava, quello per cui non si riusciva ( nonostante la propagandata pianificazione, la suprema razionalità del socialismo) a costruire insieme scarpe destre e sinistre? Che paese era – l’unico paese industrializzato in cui si registrava questo dato – quello in cui la mortalità infantile cresceva, per malattie varie, trascuratezze, insufficienze sanitarie? Che paese era, quale sofferenza psicologica viveva un paese in cui i tassi di suicidio aumentavano senza sosta? Due anni dopo, nel 1978 esce Esplosione di un impero? di Hélène Carrère d’Encausse, in cui si prospetta il crollo dell’Urss sotto la pressione demografica delle repubbliche asiatiche ad alti tassi di nascita, al contrario di quelle dell’Europa dell’est dove erano crollati i tassi di fertilità: la popolazione di origine musulmana sarebbe diventata la maggioranza nell’Unione Sovietica mentre la classe dominante del Partito, dell’Esercito e dell’industria era in gran parte di origine russa, e quindi di cultura europea. Questa distorsione avrebbe posto un problema di legittimità del potere politico. In realtà, l’Urss non crollò né per il tasso dei suicidi né per quello di natalità delle repubbliche asiatiche. Però, Gorbaciov forse aveva letto la d’Encausse, perché nel 1987 affermò: «Compagni, possiamo davvero dire che il nostro paese ha risolto il problema delle nazionalità». Passarono ancora due anni prima che i tartari di Crimea potessero tornare a casa dall’esilio in Asia in cui erano stati confinati, ma le richieste di autonomia da ogni angolo dell’impero si erano intanto moltiplicate. E erano diventate ingovernabili. E a quel punto arrivò l' 89.

Perché – si chiese Tony Judt, nel suo bellissimo Dopoguerra – il comunismo crollò in modo così rapido? Perché è questo che davvero sconcerta: la rapidità con cui andò a gambe all’aria. Come è stato possibile che tutto sia accaduto per un fraintendimento, per un annuncio mal formulato in televisione? Andò così: ad agosto l’Ungheria aveva rimosso i blocchi di frontiera con l’Austria e a migliaia i tedeschi dell’Est vi si erano riversati. Poi, l’Ungheria specificò che solo i cittadini ungheresi avrebbero potuto passare “di là”. Così, quelle migliaia di tedeschi dell’Est si trovarono in una terra di nessuno – e si riversarono nelle ambasciate occidentali. Allora, in accordo con la diplomazia occidentale, si decise che sarebbero potuti andare a ovest, ma solo riattraversando la Germania orientale: li caricarono sui treni e fecero il viaggio all’inverso, passando per le città da cui erano scappati. Era il treno della speranza, un treno blindato. Venne accolto con invidia, con frustrazione, con rabbia. Quelli passavano, gli altri li guardavano passare e rimanevano. Si moltiplicarono le manifestazioni di protesta. A quel punto il capo della Germania orientale, Honecker – che a gennaio aveva solennemente dichiarato che « Die Mauer wird in 50 und auch in 100 Jahren noch bestehen bleiben », il muro sarebbe durato altri cinquanta o cent’anni – si dimise. È il 18 ottobre: il capo nuovo, Egon Krenz, pensò bene di allentare la situazione e il nuovo governo decise di concedere permessi per viaggiare nella Germania dell’ovest; a certe condizioni, le Reiseregelungen, regole di viaggio. Incaricarono di comunicarlo urbi et orbi al ministro della Propaganda, Günter Schabowski, che però era in vacanza. Lo prelevarono e lo piazzarono a una conferenza- stampa internazionale, ripresa in diretta tv. Mentre Schabowski leggeva il suo comunicato, un giornalista italiano gli chiese da quando le nuove disposizioni entravano in vigore. Schabowski, che non aveva partecipato alla riunione di governo, cercò la risposta nei fogli, ma non c’era o lui, affannato, non la individuò. Allora, improvvisò: « ist das sofort, unverzüglich – subito, immediatamente». Gli sembrava ovvio. Sono le 18.53 del 9 novembre. Decine di migliaia di berlinesi dell’Est, che stavano incollati alla televisione, si precipitarono ai posti di blocco, chiedendo di entrare in Berlino Ovest. Le guardie di confine non sapevano che fare, tempestavano di telefonate i loro superiori, che a loro volta telefonavano a chi era più in alto in grado, ma era ormai chiaro che non sarebbe più stato possibile rimandare indietro tutta quella gente. Così, aprirono i cancelli. Crollava il muro di Berlino. È così che è caduto il comunismo.

Fu la televisione a far perdere il comunismo? Nel 1987, nove famiglie sovietiche su dieci avevano un televisore. Certo, i programmi non dovevano essere troppo vivaci, ma erano seguiti perché si era imparato a cogliere i segnali minimi, a decifrare, a decrittare le parole che venivano dette, come venivano pronunciate. La televisione provocò l’esplosione a Berlino, e chi non ricorda Goodbye Lenin, il film dove un figliolo amorevole per non causare uno choc fatale nella mamma fedele alla linea uscita dal coma dopo la caduta del muro organizza dei siparietti televisivi per raccontare che la realtà è la stessa di prima, per non turbarla? Ma la televisione registra e amplifica, non produce eventi. E allora? Come si riesce a spiegare quel contagio tra Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Germania est, Urss? Un effetto domino, per cui cadendo una tessera, cadevano le altre? In realtà, Gorbaciov aveva lasciato intendere che poteva accadere quel che doveva accadere, lui non sarebbe intervenuto, non come aveva fatto Krusciov contro l’Ungheria di Nagy nel ’ 56, non come aveva fatto Breznev contro la Cecoslovacchia di Dubcek nel ’ 68 – in Polonia nel 1981 i carri armati russi non erano andati perché ci pensò il generale Jaruzelski a fare un colpo di stato preventivo e a introdurre la legge marziale. Il 6 luglio 1989, davanti al Consiglio d’Europa, riunito a Strasburgo, Gorbaciov aveva dichiarato che l’Urss non si sarebbe opposta a processi di riforma in Europa orientale: era una «questione che interessava unicamente gli stessi popoli». Nel corso di una conferenza dei leader del blocco orientale, tenutasi a Bucarest il 7 luglio 1989, aveva affermato il diritto di ogni paese socialista a seguire la propria direzione senza subire interferenze esterne. E cinque mesi dopo, nella cabina del capitano della nave da crociera Maksim Gorkij ormeggiata al largo di Malta, aveva garantito al presidente Bush che non sarebbe stata impiegata la forza per mantenere i regimi comunisti dell’Europa orientale. Cadeva il deterrente che teneva incollati i regimi – la forza, la repressione, la paura. E infatti la cosa sorprendente è che, a parte la Romania di Ceasescu, il processo fu ovunque indolore, senza rivolte, senza violenze, senza barricate, senza insurrezioni. Un impero cadde praticamente senza colpo ferire. E quasi ovunque il “traghettamento” fu gestito da ex- comunisti: non in Cecoslovacchia – dove l’opposizione si raccolse intorno Havel, un commediografo che aveva conosciuto le prigioni socialiste – e non in Polonia, dove era stato lo stesso per quasi tutti i membri del Kor ( l’opposizione intellettuale) e di Solidarnosc ( il sindacato operaio, dieci milioni di iscritti al suo apice). Ma Polonia e Cecoslovacchia erano paesi dove una società civile, non- statalizzata, in qualche modo aveva resistito, era “tollerata” entro certi limiti, vuoi per le ragioni di un radicamento religioso, che si era rinforzato con l’elezione a papa di Karol Wojtyla, vuoi per le lunghe tradizioni culturali. E la violenza, la brutalità apparteneva al regime, a ciò che si voleva cambiare, trasformare, abbattere. E erano paesi che guardavano all’Europa, che si “sentivano” Europa. Di sicuro, il socialismo aveva un problema con l’economia. La qualità dei prodotti era scarsa, la pianificazione era un disastro e i debiti pubblici ( 30.700 milioni di dollari nel 1986, 54.000 nel 1989) aumentavano a dismisura: che il 30- 40 percento delle risorse fosse destinato alle spese militari non era certo un dato secondario. L’improvvisa accelerazione imposta da Reagan nel 1982 con la “Star Wars” era stata fatale. Soprattutto, il mondo socialista era spaventosamente indietro rispetto le nuove tecnologie – aveva perciò una struttura industriale e agricola decisamente arretrata: Cernobyl, nel 1986, mostrò in tutta evidenza la drammaticità di questa contraddizione. E poi c’era stato l’Afghanistan, una guerra maledetta, un Vietnam russo – da cui era tornata in patria una leva generazionale di soldati in cui i traumi post- bellici avevano tassi altissimi, affiancati da quelli di alcolismo. Ma tutto questo non basterebbe forse a spiegare quel crollo. Praticamente in un anno muoiono in sequenza Leonid Breznev, a 76 anni, Yuri Andropov, già malato quando eletto segretario, a 68, e Konstantin Cernenko, anche lui malandato, a 72. Nel 1985, viene promosso segretario Michail Gorbaciov: è nato nel 1931 e a 41 anni è entrato nel Comitato centrale. È giovane – proprio tutta un’altra generazione rispetto a Breznev, Andropov, Cernenko. Gorbaciov intuisce che per la riorganizzazione dello Stato, per la perestrojka dell’Urss, del comunismo, ha bisogno di trasparenza, di glasnost, deve riformare il partito. Ma come “inventare” il mercato? Come “inventare” una società civile? In una società autocratica il potere è indivisibile – e Gorbaciov cominciò a smantellare un puntello dietro l’altro, a svuotare il potere del partito da dentro. E questo è il punto: solo un comunista poteva smantellare il comunismo. Anche se Gorbaciov intendeva salvarlo, il comunismo sovietico, a prezzo di mollare tutti i paesi satelliti al loro destino.

Il ruolo di Gorbaciov fu determinante: la sua credibilità internazionale cresceva mentre proseguiva il suo “lavoro” di glasnost – i suoi viaggi in Europa e nelle capitali internazionali si intensificavano. Forse, proprio mentre aumentava la simpatia all’estero, di pari passo aumentava la “debolezza” all’interno. Gorbaciov, così, faceva un passo di lato e poi tornava verso i conservatori; poi, faceva un passo avanti, e poi tornava verso i conservatori. I riformisti più radicali, come Boris Eltsin, restavano frustrati – e a un certo punto non si fidarono più di lui né i conservatori né i riformisti. Ma questo venne dopo. Furono proprio i mutamenti indotti da Gorbaciov che spinsero i giovani cinesi a chiedere riforme più radicali, la Quinta modernizzazione, e spaventarono il vecchio gruppo dirigente. Gorbaciov arrivò in Cina alla metà di maggio, ma la protesta di Tienanmen era già iniziata il 22 aprile, giorno dei funerali del segretario Hu Yaobang, e ogni timida apertura – era stato proprio il nuovo segretario, Zhao Ziyang a mostrarsi disponibile all’ascolto – si scontrava con una determinazione assoluta del partito a reprimere ogni protesta. Deng Xiaoping, a capo della potente Commissione militare, convinse gli Otto Immortali, vecchi combattenti con un prestigio ancora fortissimo, che Tienanmen fosse solo una manovra delle potenze occidentali per distruggere la Cina. Il resto è noto. Accadde insomma in Cina proprio il contrario di quello che aveva terremotato la Russia. Il comunismo è morto ( in Europa), il comunismo è vivo ( in Cina): alla fine, fu questo il 1989. Forse l’uno era il passato, e l’altro non poteva rappresentare il futuro. Good bye Lenin

·         Albert Einstein: il genio.

Albert Einstein: indagine sui segreti dell’universo. Il libro in edicola. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Nel sottolineare l’impegno «pacifista e internazionalista» di Albert Einstein, nella sua biografia del grande fisico in edicola dal 14 marzo con il «Corriere», Vincenzo Barone mostra come esso s’intrecciasse con le istanze scientifiche. Il cammino era stato lungo, e non sempre facile. Una prima teoria della relatività (il termine è di Max Planck), detta ristretta o speciale, era stata formulata da Einstein nel 1905 basandosi su due «postulati». Il primo, il suo principio di relatività (che generalizzava un’idea abbozzata da Galileo Galilei), enunciava che «le leggi della fisica hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme (o, se si preferisce, per tutti i sistemi di riferimento)». Il secondo principio diceva «che la velocità della luce nel vuoto, tradizionalmente indicata con c, è la stessa per tutti gli osservatori in moto uniforme». Nota Barone che, «anche se non sembra, il secondo postulato della relatività ristretta riguarda il tempo. (Infatti) se due osservatori vogliono misurare un certo intervallo di tempo e confrontare i risultati, devono disporre di orologi sincronizzati. Ciò richiede una procedura universale di sincronizzazione. Il secondo postulato (...) fornisce appunto tale procedura; dal momento che la luce viaggia sempre alla stessa velocità, i due osservatori, qualunque sia il loro stato di moto, possono sincronizzare i rispettivi orologi scambiandosi un segnale luminoso». Ciò comporta un rilevante mutamento concettuale, sottolinea Barone: «Siamo generalmente portati a pensare che il tempo scorra allo stesso modo per tutti gli osservatori, che cioè sia unico, assoluto (questa è la concezione del tempo sottesa alla fisica classica). La teoria einsteiniana mostra che le cose non stanno così: i tempi, misurati da osservatori in moto l’uno rispetto all’altro sono diversi — il tempo è relativo. Anche la simultaneità tra gli eventi è relativa: due eventi che si verificano contemporaneamente per un osservatore, si verificano in tempi diversi per un altro osservatore». Nel corso del 1905 Einstein pubblicò un lavoro di appena tre pagine, L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia?. Spiega Barone: «Col termine inerzia si indica in fisica la resistenza che un corpo oppone a una variazione di velocità, cioè a un’accelerazione. Nella meccanica newtoniana l’inerzia è legata alla massa: maggiore è l’energia di un corpo, più è difficile imprimergli un’accelerazione. Inoltre, la massa stessa è una forma di energia. Anche quando è a riposo (...) un corpo possiede un’energia (E) che è data dalla sua massa (m) per la velocità della luce (c) al quadrato: in simboli, E = mc²». Il pensiero scientifico è capace di «vedere» sotto la superficie delle apparenze. «C’era voluto il genio di Einstein per capire che la massa è energia: ma perché fino al 1905 nessuno si era accorto sperimentalmente di un fatto così clamoroso? Il motivo è semplice: se le masse dei corpi non cambiano (o non cambiano apprezzabilmente), come succede nei fenomeni fisici più familiari e nelle reazioni chimiche, l’energia di massa è, per così dire, un’energia latente, che non si manifesta. È solo quando le masse cambiano, anche di poco, come succede nelle reazioni nucleari, che l’energia di massa può trasformarsi in energia di moto ed essere direttamente osservata». Opportunamente Barone richiama qui un breve scritto divulgativo (1923) di Enrico Fermi: «Non appare possibile che, almeno in un prossimo avvenire, si trovi il modo di mettere in libertà queste spaventose quantità di energia». Ma, osserva Barone, «fu proprio Fermi, due decenni dopo, a trovare il modo di produrre quell’energia, con il primo reattore nucleare, e poi, in forma esplosiva, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki». Vincenzo Barone (Ancona, 1952) autore della biografia di Einstein, insegna Fisica teorica Questo non vuol dire che sia lecito definire Einstein il «padre» dell’arma atomica. Giustamente Barone nota che «quanto alla legge di equivalenza di massa ed energia, attribuire al suo scopritore la responsabilità della bomba atomica è come attribuire a Galileo (e alla sua legge del moto parabolico) la responsabilità dei missili balistici». E al livello politico va rilevato che l’intervento di Einstein presso Franklin D. Roosevelt, allora presidente degli Stati Uniti, nell’estate del 1939, non fu decisivo: «L’impegno americano nelle ricerche atomiche», nota Barone, «ebbe realmente inizio due anni dopo, per impulso soprattutto di Vannevar Bush». Einstein si era deciso a rivolgersi alla presidenza Usa solo nel timore che i nazisti stessero lavorando a un progetto del genere con probabilità di riuscita: «Non avrei potuto agire altrimenti, sebbene io sia sempre stato un pacifista convinto». Quel non poter agire altrimenti mi ricorda un carattere saldo e coraggioso come quello di Lutero di fronte alle minacce alla Dieta di Worms o quello di Darwin, che nell’Autobiografia aveva dichiarato di cercare invariabilmente nuove ipotesi ogni volta che quelle precedenti fallivano alla prova dei fatti. Nel dicembre 1945 Einstein dichiarò che «la guerra è stata vinta, non così la pace». L’unica speranza era in «un governo mondiale (...) in grado di risolvere i contrasti fra le nazioni con delle decisioni vincolanti». Come vediamo oggi, la strada pare ancora lunga. Il volume di Barone fa emergere alcune analogie con il percorso scientifico. Nelle intenzioni di Einstein la relatività generale non era l’acquisizione finale: aveva sempre più vagheggiato una teoria che unificasse il campo elettromagnetico (relatività ristretta) e quello gravitazionale (relatività generale). Vincenzo Barone si accomiata dai lettori così: «Il grande sogno di Einstein — una teoria che unificasse la gravità e l’elettromagnetismo, e che facesse scaturire le particelle dai campi, senza bisogno di ricorrere alle leggi quantistiche — non si realizzò. Dobbiamo (...) concludere che gli ultimi trent’anni della sua vita furono, sul piano scientifico, fallimentari e inutili? Se la scienza fosse fatta solo di risultati e scoperte da inserire nei manuali, la risposta dovrebbe essere sì (...). Ma la scienza è fatta anche di problemi, di idee, di metodi: da questo punto di vista, gli sforzi di Einstein non furono vani, perché il programma di ricerca che egli avviò è ancora attuale». Le forze fondamentali sono diventate quattro, perché se ne sono aggiunte due del mondo subatomico, la forza nucleare forte e la forza debole. E oggi, nota Barone, «nessuno ritiene più che si possa fare a meno della meccanica quantistica» (peraltro nel 1905 Einstein aveva dato un fondamentale contributo alla fisica quantistica, introducendo i «quanti di luce», detti poi «fotoni», per spiegare l’effetto fotoelettrico, e non è irrilevante che l’assegnazione del Nobel a Einstein sia stata motivata da questo risultato, e non dalla relatività). Resta di Einstein l’aspirazione a nuove teorie sempre più «razionali», cioè capaci di ridurre l’arbitrario nella descrizione delle morfologie osservate.

L'Einstein privato dei manoscritti perduti: "Non sei battezzato? Non andrai all'inferno". L'università di Gerusalemme pubblica gli scritti inediti del genio tedesco, scrive Manila Alfano, Giovedì 07/03/2019, su Il Giornale. Un genio ma anche un ottimista. Nel 1935 Albert Einstein fiutava l'aria e aveva timore. Sentiva che qualcosa stava per accadere, anche se rimaneva un ottimista: «ho letto con un po' di apprensione di un movimento in Svizzera, incitato dai banditi tedeschi», scriveva al figlio Hans che viveva in Svizzera. Lui che era emigrato negli Stati Uniti, dove gli venne offerta una cattedra presso l'Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. «Ma ritengo- scriveva dunque al figlio- che anche in Germania, le cose stanno lentamente cominciando a cambiare. Speriamo solo che non ci sia una guerra in Europa prima». Si preoccupa Einstein, come un qualsiasi padre. Mette in guardia pur senza allarmare, si aggrappa all'idea dell'Europa, al buon senso degli altri Stati, si interroga e si risponde che in fondo qualcuno dovrà pur intervenire. Non può sapere quello che di lì a poco accadrà. «Il riarmo della Germania- continua la lettera- è certamente molto pericoloso, ma il resto dell'Europa sta finalmente iniziando a prenderlo seriamente, in particolare la Gran Bretagna. Sarebbe stato meglio e più facile se avesse agito con mano più pesante un anno e mezzo fa». Sono fogli, riflessioni sulla vita, la morte e la religione e studi scientifici rimasti finora inediti del famoso pensatore. Sono i temi affrontati nelle 110 pagine manoscritte, svelate per la prima volta dall'Università ebraica di Gerusalemme in occasione del 140esimo anniversario della nascita del fisico e filosofo tedesco. Un tesoro prezioso che comprende anche una pagina, finora mancante e che si riteneva fosse andata perduta, di un allegato a una teoria scientifica presentata nel 1930. «Questo articolo è stato uno dei tanti tentativi di Einstein di unificare le forze della natura in un'unica, singola teoria, uno sforzo al quale dedicò gli ultimi 30 anni della sua vita», ha spiegato l'ateneo, che ha recentemente acquisito i manoscritti da un collezionista privato della North Carolina per conservarle negli archivi dedicati al celebre fisico. Tra le lettere ce n'è anche una indirizzata al caro amico Michele Besso, ebreo convertito al cristianesimo, nella quale lo rassicurava, sostenendo che non sarebbe «andato all'inferno», anche se era stato «battezzato». Già nel marzo del 2012 c'era stata la messa in rete di materiale del fisico rimasto fino ad allora segreto. Erano lettere alle amanti, i quaderni di appunti con gli studi rivoluzionari che porteranno alla teoria della relatività, una messe di materiali che ricostruiscono l'uomo dietro al genio che fu Albert Einstein. E per la prima volta era tutto stato messo online. Un grande tesoro fruibile per tutti, un'occasione nuova per gli studiosi del genio che da allora hanno potuto consultare tutto il materiale ricomposto. Oggi la storia si ripete, esattamente come avrebbe voluto il genio. «La conoscenza non deve essere nascosta ma aperta a tutti», aveva detto nel 2012 Menachem Ben Sasson, presidente della Hebrew University, di cui lo stesso Einstein è stato uno dei fondatori nel 1925. Quattro anni dopo aver vinto il Nobel per la fisica.

10 curiosità su Albert Einstein. Simone Valesini, Giornalista, su Wired il 25 novembre 2015. In occasione del centenario della nascita teoria delle relatività generale, ecco 10 curiosità sul suo inventore, che potreste non sapere. Oggi si celebrano i 100 anni dalla nascita della teoria della relatività generale, che nel 1915 ha rivoluzionato il mondo della fisica. Una teoria entrata ormai nella cultura popolare non meno del suo ideatore, Albert Einstein, famoso da oltre un secolo non solo come scienziato geniale ed eccentrico, ma anche per l’impegno politico a favore del pacifismo e dei movimenti per i diritti civili. Proprio per la sua fama, la figura di Einstein è circondata da una lunga serie di miti e leggende metropolitane, più o meno attendibili. Per festeggiare il centenario della sua più importante scoperta, ecco 10 curiosità che potreste non conoscere su Einstein.

1. Non era una capra in matematica. Leggenda vuole che il giovane Einstein a scuola andasse malissimo in matematica. Una parabola edificante di redenzione che è stata propinata a generazioni di studenti in difficoltà con le materie scientifiche, che (purtroppo per loro) non contiene un briciolo verità. A Monaco, dove studiò fino all’età di 15 anni, Einstein aveva buoni voti, soprattutto in matematica. A 16 anni, è vero, fallì il test di ingresso per il Politecnico di Zurigo, ma ottenendo comunque il massimo dei voti in fisica e matematica. Quando, anni dopo, ad Einstein arrivò la voce dei suoi pessimi risultati giovanili in matematica, il fisico rispose: “Non ho mai avuto problemi in matematica. A 15 anni sapevo svolgere perfettamente il calcolo differenziale e gli integrali”.

2. La figlia segreta. Nel 1903 Albert Einstein sposò la compagna di studi Mileva Marić, da cui ebbe due figli: Hans Albert, nato nel 1904, che sarebbe diventato un importante ingegnere, ed Eduard, nato nel 1910, che ebbe una vita travagliata, in cui lottò per anni con la schizofrenia. Questo almeno è quello che si sapeva della vita privata di Einstein fino al 1987, quando venne pubblicato un carteggio privato con l’ex moglie, da cui si scoprì che la coppia aveva avuto una figlia illegittima un anno prima del matrimonio, che venne presa in carico dai nonni materni subito dopo il parto. Il destino della bambina è ancora oggi sconosciuto, anche se alcuni storici ritengono che sia morta di scarlattina in tenera età, mentre per altri sarebbe stata data in adozione.

3. Respinto dall’accademia. Einstein non era un pessimo studente come vuole la leggenda, ma aveva effettivamente dei problemi in campo scolastico. Una personalità ribelle e un forte rifiuto per l’autorità lo accompagnarono lungo tutto il periodo degli studi, al termine del quale, nonostante gli ottimi voti, fu l’unico tra i diplomati del suo anno a non ottenere un posto da assistente al Politecnico di Zurigo. Einstein fu quindi costretto a trovare lavoro presso l’ufficio brevetti di Berna, un lavoro umile che gli garantiva però sufficiente tempo libero per portare avanti le sue ricerche. Nel 1905 arrivò quindi il suo annus mirabilis, in cui pubblicò quattro articoli che rivoluzionarono il mondo della fisica. Nonostante questo, passarono altri quattro anni (dieci dalla sua laurea) prima che gli venisse proposto un posto da professore universitario.

4. Che fine ha fatto il premio Nobel? Nel 1910 si concluse la relazione tra Albert e la prima moglie, e lo scienziato iniziò una relazione con la cugina Elsa, che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. Tra le clausole del divorzio, ottenuto solamente nel 1919, Einstein promise alla ex moglie una piccola rendita mensile, da integrare con il premio in denaro che avrebbe guadagnato in caso di vittoria del Nobel. Non c’era alcuna avvisaglia all’epoca che Einstein avrebbe realmente vinto il Nobel, ma questo arrivò realmente pochi anni dopo, nel 1922, e Mileva Marić come da accordi si vide recapitare una piccola fortuna.

5. Tutto merito di un’eclissi. La teoria della relatività generale venne pubblicata nel 1916, ma non ebbe da subito il successo che conosciamo oggi. Molti fisici dubitavano infatti delle formule di Einstein, e continuarono a farlo fino al 1919. In quell’anno ci fu un’eclissi totale di Sole, e l’astronomo inglese Arthur Eddington ne approfittò per fotografare il fenomeno, e calcolare l’effetto della gravità del Sole sulla luce delle stelle. I suoi risultati confermarono le previsioni di Einstein, obbligando il mondo della fisica ad accettare la nuova teoria, e rendendo lo scienziato una celebrità di calibro mondiale.

6. Spiato dall’Fbi. Einstein si trasferì negli Stati Uniti nel 1933, iniziando a lavorare come professore presso l’ Institute for Advanced Study di Princeton. All’epoca era già famoso per le sue idee pacifiste e per il supporto dato ai movimenti per i diritti civili, e fu da subito bollato come comunista dall’Fbi. Per 22 anni, gli agenti del Bureau non si arresero, e spiarono meticolosamente la vita dello scienziato, ascoltando le sue telefonate, aprendo la sua corrispondenza, e controllando persino la sua spazzatura. Per un periodo, l’Fbi indagò persino la possibilità che il fisico stesse costruendo un raggio della morte per conto dei sovietici. La sorveglianza si fermò solo alla sua morte, nel 1955, quando il fascicolo relativo ad Einstein aveva raggiunto ormai le 1.800 pagine di lunghezza.

7. La bomba atomica. Alla fine degli anni ’30 Einstein venne a sapere che gli scienziati del Reich stavano lavorando alla bomba atomica. Messo da parte il suo pacifismo scrisse quindi una lettera al presidente Roosvelt, incitando gli Stati Uniti a condurre ricerche nel campo per ottenere l’arma prima dei nazisti. Einstein non partecipò mai in alcun modo al progetto Manhattan, ma nei decenni seguenti si pentì fortemente del piccolo ruolo giocato nello sviluppo delle bombe atomiche, e pochi mesi prima della sua morte scrisse insieme al filosofo Bertrand Russell un documento noto come Manifesto Russel-Einstein, in cui si ricordavano i pericoli legati agli armamenti atomici, e si chiedeva a tutti i governi del mondo di “trovare metodi pacifici per risolvere le dispute tra loro”.

8. Presidente di Israele. Einstein non fu mai particolarmente religioso, né appoggiò più di tanto il movimento sionista. Le sue radici ebraiche però furono sempre particolarmente importanti per lo scienziato. Alla morte del primo presidente di Israele, nel 1952, il governo offri ad Albert Einstein l’opportunità di divenire il secondo presidente della nazione. Una proposta che Einstein declinò gentilmente, dichiarando: “Per tutta la vita mi sono occupato di questioni oggettive. Per questo mi mancano sia l’attitudine naturale sia l’esperienza per trattare con le persone e per esercitare una funzione ufficiale”.

9. Il cervello rubato. Alla sua morte, nel 1955, Einstein chiese che il suo corpo venisse cremato. Thomas Harvey, patologo di Princeton che praticò l’autopsia sul cadavere dello scienziato, rimosse però il suo cervello, sezionandolo in 170 fette per poi conservarlo. Non aveva ricevuto nessuna autorizzazione per farlo, e si trattò quindi di un furto di cervello (restituito anni dopo), ma quando la famiglia scoprì cosa era avvenuto autorizzò, con una certa riluttanza, che il cervello fosse utilizzato per studiare l’origine della straordinaria intelligenza di Albert Einstein. Nei decenni seguenti l’organo è stato soggetto di diversi studi, nessuno dei quali ha portato a risultati definitivi.

10. Teoria unificata. Nella seconda parte della sua vita, Einstein lavorò incessantemente alla creazione di una teoria unificata, che combinasse la spiegazione della gravità e dell’elettromagnetismo. Una teoria che, sperava il grande scienziato, avrebbe aiutato a risolvere quelli che lui vedeva come i paradossi della fisica quantistica. A questa teoria Einstein non arrivò mai, ma continuò a lavorarci testardamente fino alla morte. Poche ore prima di soccombere ad un aneurisma dell’aorta addominale, stava ancora lavorava alle sue ultime equazioni, le cui scansioni sono disponibili nell’archivio online della Hebrew University di Gerusalemme.

Una laurea postuma per la moglie di Einstein, la scienziata dimenticata. Il Politecnico di Zurigo sta valutando la proposta. Mileva Maric abbandonò gli studi dopo il matrimonio. Ma fu una collaboratrice fondamentale del marito. Gabriella Greison il 13 luglio 2019 su La Repubblica. Questa è una storia bellissima. Una storia che non ha ancora una fine. E proprio come in tutte le storie senza ancora una fine, siamo noi i protagonisti della vicenda, che con le parole, il linguaggio, la diffusione, possiamo cambiare le cose per come sono sempre andate. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare. Per raccontarvi questa storia devo partire da lontano. 1896, Politecnico di Zurigo, Svizzera. Mileva Maric aveva un sogno nella vita: diventare fisica. A quei tempi per le donne non era facile realizzarsi nella scienza, venivano ostacolate in tutte le maniere. Marie Curie doveva autofinanziarsi il lavoro, quando con Pierre faceva gli esperimenti sul radio; Lise Meitner poteva solo siglare i suoi articoli, per non mostrare al mondo che era una donna; Rosalind Franklin doveva entrare dal portone posto sul retro, e non da quello principale, per raggiungere il laboratorio. Mileva però si iscrive al Politecnico, riesce nell'impresa, e inizia il suo percorso come fisica. Inizia anche la storia d'amore con Albert Einstein, che conosce tra i banchi. Studiano insieme, e passano i primi esami. Mileva ne sa molto più di Einstein, ma non è questo il punto. Mileva resta incinta. Mileva e Albert hanno il primo figlio (illegittimo, una femmina, Lieserl, muore pochi mesi dopo di malattia). Mileva riprende i corsi, si sposa con Einstein, resta incinta di nuovo, e poi di nuovo. Viene bocciata. Si iscrive di nuovo, per riuscire a finire l'ultimo anno, ma alcuni professori e la società sessista del tempo le impediscono di andare avanti. Figuriamoci: una donna, una donna perdippiù con due figli, una donna perdippiù sposata con Einstein (a quei tempi non veniva visto di buon occhio dai professori vecchio stampo, quelli che lui chiamava 'paludati cattedratici'), ma dove voleva andare... Una laurea e, oltraggio maximo, un dottorato non potevano che essere un miraggio. La storia tra Mileva e la scienza finisce così. Ora arrivo alla notizia di questi giorni. Io sono divulgatrice, con un passato da fisica sperimentale. Mi sono laureata a Milano e ho lavorato due anni all'Ecole Polytechnique, tra le varie cose. Ma non siamo qui per parlare di me. Ma del fatto che la fisica, da sempre, è considerata una disciplina per uomini. La fisica nel secolo XIX era lo svago degli uomini della ricca borghesia. Gli svaghi per le donne erano altri: curare i malati, accudire i figli, tenere in ordine la casa. In particolare, ho scritto due libri su Mileva, e in generale le donne nella scienza: “Einstein e io” (Salani editore) e “Sei donne che hanno cambiato il mondo” (Bollati Boringhieri), da cui ho tratto uno spettacolo teatrale “Einstein & me” (produzione Teatro Brancaccio di Roma) in cui faccio rivivere le vicende di Mileva in prima persona. Quest'anno ho fatto quasi un centinaio di repliche, e l'autunno scorso l'ho portato anche a Zurigo, ospite dell'Istituto Italiano di Cultura. Quando sono tornata a Zurigo (le mie ricerche per scrivere il romanzo e il monologo sono partite proprio da lì) ho fatto una proposta al Politecnico: attribuire una laurea postuma a Mileva. Come segnale che le cose adesso stanno cambiando. Un simbolo, per dare conforto alle nuove generazioni. La notizia è che proprio qualche giorno fa mi hanno risposto ufficialmente dal Politecnico di Zurigo: mi hanno detto che la proposta è sul tavolo delle discussioni, e entro fine luglio mi arriverà la risposta (parole sottoscritte dal Presidente della facoltà). Oggi il quotidiano Tages-Anzeiger in tedesco ha diffuso e appoggiato l'iniziativa, con una lunga intervista. La battaglia delle donne a perseguire il coinvolgimento nelle arene della scienza continua, è una battaglia molto dura. Nella storia della scienza (e non solo) alcune donne vengono cancellate. Alcune un po' alla volta, altre di colpo. Alcune ricompaiono. Alcune ricompaiono grazie ad altre donne che le tirano fuori e le raccontano. Ogni donna che appare, lotta contro le forze che vorrebbero farla sparire. Lotta anche contro le forze che vorrebbero raccontare una storia al posto suo. O depennarla dalla storia. Ma oggi ho una consapevolezza in più, malgrado la fatica, tutto questo non sta andando indietro. E tutto questo sarà di buon auspicio per le nuove generazioni.

Ps: Devo aggiungere una postilla, a questo racconto. L'idea di questa domanda di una laurea postuma a Mileva al Politecnico di Zurigo è nata a una ragazza che frequenta la quarta liceo a Schio. Autunno scorso avevo fatto il monologo nel loro teatro, e alla fine mi ha fermato nel foyer una ragazza che si chiama Arianna, per chiedermi di portare avanti questa proposta. Io l'ho presa sul serio, come sempre vanno presi sul serio i ragazzi. Ed ecco che siamo arrivati a oggi. Con la proposta che deve essere discussa, e che mi daranno la loro risposta appena ne avranno formulata una. Aspettiamo la fine di luglio allora. Con una convinzione in più: non sto camminando da sola. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare.

Il politecnico di Zurigo nega a Mileva Maric la laurea postuma. "Ma Einstein è stato un pessimo marito". La decisione dopo mesi di incontri: impossibile per l'Eth il riconoscimento a causa "delle regole in vigore in quegli anni". Ma il problema era proprio quello. Ecco la storia di un'ingiustizia che non siamo riusciti a riparare. Gabriella Greison l'1 novembre 2019 su La Repubblica. Doveva essere una storia bellissima. Una storia che avremmo raccontato alle nuove generazioni, come il momento della svolta definitiva. Una storia che avrebbe portato con sé il segnale di un cambiamento, un simbolo, un lieto fine scritto apposta per rendere i sogni dei piccoli ancora più grandi. E invece, no. “Quello che è capitato a Mileva Maric è successo a tantissime donne in quegli anni, erano le regole”, dicono dal Politecnico di Zurigo. “E Albert Einstein è stato il peggior marito che una donna, perdippiù con ambizioni da scienziata, potesse avere”, aggiungono. A questa conclusione li faccio arrivare dopo una lunghissima telefonata, che è avvenuta il giorno seguente la loro risposta per email alla mia domanda di attribuzione postuma di una laurea a Mileva Maric (domanda avvenuta quattro mesi prima). Ma faccio un passo indietro, e riepilogo tutto, per maggior chiarezza. Primavera 2019: a Schio (in provincia di Vicenza) racconto la vita di Mileva Maric nell'aula magna di una scuola; alla fine del monologo, una ragazza di quarta liceo (Arianna) alza la mano: mi chiede pubblicamente di fare un tentativo, di portare la domanda di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric al Politecnico di Zurigo, e aggiunge: “Perché non è giusto che le cose siano andate così, e comunque ora possiamo rimediare. Noi non ne possiamo più di sentire storie di donne che finiscono male”. Io avevo detto loro che il mese successivo sarei andata a Zurigo a fare lo spettacolo, e così loro hanno pensato che sarebbe stata la giusta occasione per aprire un conto sospeso con il passato, e fare giustizia, visto che i tempi oggi sono cambiati. Avevano ragione, le richieste dei ragazzi vanno prese sempre molto seriamente. E così ho fatto. Estate 2019: il quotidiano Tages Anzeiger viene a sapere della storia e mi fa un'intervista. Il 13 luglio 2019 l'intervista esce sul quotidiano Tages Anzeiger, a tutta pagina, in lingua tedesca, il titolo è la mia proposta di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric. Il giorno stesso pubblico per il sito di Repubblica tutta la storia, e riporto per intero la risposta interlocutoria che il Politecnico di Zurigo nel frattempo mi ha dato, in cui scrivono che la mia proposta è in fase di dibattito, e presto me ne daranno un'altra definitiva. Questo articolo in pochissimo tempo fa letteralmente il giro di tutto il mondo, le condivisioni sono migliaia, e iniziano ad arrivare appoggi e sostegno dai media internazionali. Con la conferma che Mileva Maric rappresenta realmente, per tutti, il simbolo maximo dell'ingiustizia vissuta dalle donne del XX secolo e indietro. Alle donne di quei tempi non era permesso frequentare la maggior parte delle facoltà scientifiche, e se glielo permettevano potevano seguire le lezioni solo come uditrici, non potevano fare esami. Alcune di queste, non potevano entrare dalla porta principale, ma potevano accedere alla facoltà da quella secondaria. Le donne di quegli anni non potevano firmare articoli, solo siglarli semmai. E via così. In particolare, per sapere chi è nel dettaglio Mileva Maric rimando ad un articolo scritto per l'allegato delle Scienze di Repubblica. Ma torniamo alla nostra storia, seguitemi che si fa interessante. Dopo quattro mesi dalla domanda (e due e mezzo dalla prima risposta interlocutoria), arriva la loro risposta definitiva per email (30 ottobre 2019). Una risposta molto strana, in cui sembrano quasi dirmi che vorrebbero dare la laurea a Mileva ma non possono, e così decido di chiamarli. La risposta che mi scrivono la riassumo qui: “Abbiamo discusso la sua proposta di conferire a Mileva Maric una laurea postuma ad honorem. Ma Mileva Maric purtroppo non ha superato l'esame al suo secondo ed ultimo tentativo, e quindi secondo le regole in vigore all'epoca, doveva lasciare la scuola. In seguito, non ha lavorato nel suo campo di studi. Crediamo che il successo intellettuale di Mileva Maric debba essere apprezzato nel contesto scientifico e sociale del suo tempo, dalla comunità scientifica e dagli storici scientifici. Noi attualmente abbiamo una sola procedura per attribuire dottorati postumi: la procedura prevede che tutta la commissione scientifica sia d'accordo, non uno escluso, che passi al vaglio di un'altra commissione giudicante esterna, e che poi la persona venga alla cerimonia annuale per ritirare il diploma: capisce quindi che non è possibile farlo”. Firmato la Rettrice del Politecnico di Zurigo, che parlava anche a nome del Presidente. Dunque. All'Eth (Politecnico di Zurigo) nel 1896 Mileva di iscrive, perché era una delle poche facoltà che ammettevano le donne, e davano il titolo di laurea. Ma non dava il titolo di dottorato (tant'è che Einstein dopo la laurea lo ha conseguito da un'altra parte, il dottorato). Dopo il primo anno, Mileva decide di andare all'Università di Heidelberg, in Germania, dove le donne non potevano neanche iscriversi regolarmente come studenti, ma solo come uditrici, va lì perché Heidelberg rappresentava il non-plus ultra per la fisica. Segue per un semestre i corsi, chiede di essere ammessa agli esami, come gli altri studenti, ma le dicono che Heidelberg non dà lauree alle donne, e le consigliano di ritornarsene a Zurigo. Torna a Zurigo, riprende i corsi lasciati indietro, si mette in pari, e recupera le lezioni perse, fa gli esami, ma all'ultimo anno viene bocciata. Si iscrive lo stesso come ripetente per l'ultimo anno (con inizio 1901), perché vuole conseguire la laurea, ma rimane incinta (aprile 1901). Siccome la regola è che si possono fare solo due tentativi di esame finale, poi si diventa ex-matricolation, Mileva è costretta così a finire gli studi. La questione è fumosa, esattamente come in tutte le situazioni in cui una donna è incinta, figuriamoci riferita a quegli anni. La risposta via email che hanno dato loro conferma solo i fatti che ho descritto sopra. E i fatti che riportano sono il motivo per cui ho fatto la domanda di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric. Intanto, l'università di Heidelberg pubblica sul loro sito ufficiale una bella ricostruzione della vicenda e c'è anche la carta di studi di Mileva, che conferma tutto quello che ho scritto sopra. Chiamo il giorno seguente la Rettrice, con lo spirito da cronista, per avere chiarezza sui punti oscuri dell'email che mi hanno mandato. La Rettrice in persona non risponde perché troppo impegnata, mentre parlo a lungo con il suo staff: erano tutti informati su chi fossi e sulla proposta, tant'è che dopo lunghi rimpalli sono riuscita a parlare con una delle persone del suo staff che ha partecipato alle discussioni di attribuzione della laurea postuma, e ha risposto alle mie domande. Dicono che hanno preso seriamente in considerazione l'idea di attribuire la laurea postuma a Mileva, per questo ci hanno messo diverso tempo per riunirsi, hanno selezionato esperti di fisica e i più grandi conoscitori di Einstein, e sono arrivati alla conclusione che non essendoci articoli o paper che dimostrano che Mileva aveva i requisiti per laurearsi non possono darle la laurea postuma (e grazie! alle donne non facevano firmare articoli, a quei tempi). E anche dopo il secondo tentativo di passare l'esame (quando era incinta, con relazione illegittima) sottolineano che poi non hanno più trovato traccia delle sue conoscenze di fisica (e certo, ha avuto una figlia da una relazione illegittima, e la figlia ha avuto nei primi mesi la tubercolosi, ed è morta neanche ad un anno di vita, poi si è spostata con Einstein, e poi ha avuto altri due figli). Il secondo motivo è che non esiste una trafila che possa darle una laurea, "certo potremmo inventarla, ma non è usuale: le regole ora sono che dopo aver avuto il sì unanime di tutti quelli della commissione, nessuno escluso, la persona premiata deve presentarsi alla festa di fine anno e in questo caso la cosa è irrealizzabile, no?". In conclusione mi dicono: "Proviamo sympathy (compassione) per Mileva, ma ha avuto il peggior marito che una donna possa avere. Einstein ha ostacolato il percorso di Mileva nella scienza". E hanno aggiunto a più riprese il concetto del "capitava spesso in quegli anni alle donne; quello che è successo a Mileva è successo a tante donne" (e certo! è il motivo per cui ho fatto la domanda!). Insomma, il colpevole è Einstein, secondo loro. Secondo me, il gesto simbolico (da creare apposta per lei) avrebbe chiuso la questione, e dato speranza alle nuove generazioni, alle ragazze che oggi vorrebbero studiare fisica. La musica, il cinema, le arti ci stanno dicendo altro. Mentre la scienza europea è ancora ferma ad oltre un secolo fa. Eppure, ci voleva davvero poco. Nel frattempo, nel Regno Unito hanno attribuito 7 lauree postume, dopo 150 anni dall'immatricolazione, alle Sette donne di Edimburgo che non hanno ottenuto una laurea ai loro tempi.

"Non ti aspettare alcuna intimità. E non provare a rimproverarmi". Ecco le regole disumane che Einstein impose alla moglie Mileva. Albert Einstein su Il Giornale Venerdì 14/08/2015. Il Premio Nobel per la fisica Albert Einstein? Un marito spietato e traditore. Almeno secondo la biografia Einstein, la sua vita, il suo universo (Mondadori) di Walter Isaacson. Albert Einstein e Mileva Maric si conobbero nel 1898 mentre frequentavano entrambi il Politecnico Federale Svizzero. Lì nacque l'amore, che fu regolarizzato con matrimonio civile nel 1903. Nel 1914, dopo tre figli (uno dei quali morto neonato, quando la coppia non era ancora sposata), Einstein e Maric entrarono in grave crisi. Il genio della fisica non era un uomo fedele, e tra le numerose relazioni extraconiugali ci fu anche quella con sua cugina Elsa (che diventerà la sua seconda moglie). A quell'epoca risale la lettera d'amore (in questo caso si fa per dire) che pubblichiamo. Una serie di regole spietate, quasi disumane, imposte da Einstein alla moglie. Perché non si separarono? Per il solito motivo: il bene dei figli. Obbedienza, niente sesso, nessuna vita in comune se non nelle inevitabili ricorrenze sociali. La lista produsse però un solo effetto: pochi mesi dopo Mileva prese i figli e abbandonò il marito a Berlino. Il divorzio arrivò cinque anni dopo.

Mileva, queste sono le mie condizioni:

A. Ti assicurerai che:

1. i miei vestiti e il mio bucato siano sempre tenuti in buon ordine.

2. che riceverò i miei tre pasti regolarmente e nella mia stanza.

3. che la mia stanza e il mio studio siano sempre puliti, e specialmente che il mio tavolo sia riservato al mio esclusivo utilizzo.

B. Rinuncerai a tutte le relazioni personali con me, a meno che non siano strettamente necessarie per ragioni di etichetta e di vita sociale. In particolare ti asterrai:

1. dal sederti accanto a me in casa;

2. dall'uscire o viaggiare con me.

C. Ti atterrai ai seguenti punti per regolare le relazioni personali con me:

1. Non ti aspetterai alcuna intimità da me, e non mi rimprovererai in alcun modo per questa mancanza.

2. Smetterai di parlare, se io ne farò richiesta;

3. Lascerai immediatamente la mia stanza da letto o il mio studio, senza protestare, quando io ne farò richiesta.

Ho ridato la moglie al genio di Einstein. Gabriella Greison il 16 settembre 2018 su La Repubblica. La lezione sarebbe iniziata dopo un'ora. Fondamenti di fisica. Facile. Piano inclinato, leggi di Newton, la solita manfrina. Entrai in aula con molto anticipo, come mio solito. Mi piace arrivare agli appuntamenti prima del previsto. Mi piace aspettare l'arrivo degli altri. Se sono io che aspetto, è come avere sotto controllo la situazione nella maniera scientificamente ottimale. Tipo un magnete con massa più grande che aspetta che l'altro magnete con massa più piccola venga attratto a sé per le leggi dell'elettromagnetismo. Facile. Sono una secchiona, e non faccio nulla per nasconderlo. Tutto ciò che ho o che faccio io me lo sono guadagnata. Mi piace fare elenchi, mi è sempre piaciuto. Mi piacciono le classifiche, mi piace tutto ciò che può essere numerato. Il mio cibo preferito oggi sarebbe la pizza da asporto: niente di meglio che avere un cerchio dentro un quadrato che si mangia diviso in triangoli. Mi piace contare tutti gli angoli retti che incontro mentre cammino in strada. E c'è sempre stato in me quel rigore scientifico nel prendere lettera per lettera tutto ciò che viene detto. E così, a volte, non capisco i doppi sensi, non capisco il sarcasmo, non capisco le allusioni o i proverbi. L'anno in cui è ambientata questa storia non è uno solo. Ce ne sono due. Il primo è lontano, e la protagonista che avete sentito parlare finora è nata esattamente cento anni prima di me. Il luogo dove si trova è Zurigo, ma non importa ( potrebbe essere qualsiasi altro). Dovete immaginarvi, ora, un'altra donna. Che vive oggi, e che parla anche lei come avete sentito finora. E che sono io (questa è più facile da immaginare; ma parlerò di me in terza persona, il perché ve lo dico dopo). Entrambe le donne hanno una caratteristica formidabile: la mentalità scientifica che condiziona le loro vite. E poi sono fisiche, tutt'e due. E nel corso della loro vita si innamorano perdutamente dello stesso uomo: Albert Einstein. Anche se in epoche diverse, ma cosa importa. La prima lo sposa e ci fa due ( forse tre) figli, la seconda ne divora biografie e ne segue le tracce per tutta Europa, fa ricerche, si mette a parlare di lui con professori svizzeri, giga esperti, e scienziati. La prima si chiama Mileva Marić. E della sua vita conosciamo poco, anche perché tutti i biografi di Einstein sono stati uomini. Tra le cose che ci sono arrivate di lei: dopo la separazione da Einstein è diventata pazza. Ma quelli erano gli anni del pretesto della pazzia per colpire le donne ribelli: il disturbo poteva anche essere di intolleranza alla vita familiare. La seconda decide che questo è il momento per esprimersi meglio. Portando in giro la fisica, e la sua testa. Crea monologhi teatrali che mette in scena nei teatri di tutta Italia, e soprattutto pubblica romanzi. Romanzi che hanno un nuovo modo di vedere le cose: il racconto di quei grandi della scienza che hanno creato il nostro mondo, con una base di ricerche e documentazione solida, ma romanzi, storie, racconti facili per tutti. E così, finalmente, per lei è arrivato il momento di affrontare anche Mileva. E soltanto adesso poteva farlo. Non prima (non una decina di anni fa). Prima non sarebbe stata capita. Perché Mileva è Hermione rispetto a Harry Potter: lei è la secchiona, non è mica miracolata come il suo amichetto; e tutti (i bambini lo hanno capito prima) la amiamo più del principino. Torno alla prima persona, adesso. Anche se mi è difficile, perché ormai credo veramente di essere io la moglie di Einstein, e non so più come farmi chiamare. In questi giorni a teatro sto ultimando le prove del mio nuovo monologo. Interpreto Mileva Marić, appunto: lo spettacolo si chiama Einstein & me. E a teatro, nello spettacolo che metto in scena, la voce di Albert Einstein è di Giancarlo Giannini. Che mi racconta: « L'idea di ascoltare il racconto su Albert Einstein dal punto di vista di sua moglie mi affascina molto, perché una donna con la mentalità scientifica, che gli è stata a fianco nel periodo in cui è diventato Albert Einstein, lo può capire meglio di chiunque altro. Io sono un grande studioso di Einstein. I suoi libri mi hanno trasmesso la sua vorace caparbietà di tradurre il mondo con parole semplici, che io applico alla mia vita di tutti i giorni. Einstein parlava in maniera facile di cose complicatissime, era questo il suo segreto: ti faceva credere di essere come tutti gli altri, con le parole. Quando insegno recitazione, io prendo spunto dal suo modo di intendere la vita. La sua frase "rimarremo bambini per tutta la vita, finché vivremo, e ce ne sbatteremo del mondo" racchiude ciò che io incarno. La fantasia, il gioco, la curiosità: sono tutte caratteristiche che Einstein trasmette forti. Einstein ha riscritto la definizione della parola tempo, e io mi perdo spesso nel cercare di capirla. Così come l'infinito. Una retta che passa dal centro della terra e arriva all'infinito, toccando pure noi, ci fa credere di poterci trasformare in qualsiasi cosa, dove possiamo arrivare come esseri umani? Non c'è limite a ciò che inventeremo. Einstein mi fa fare nuove domande, mi aggiunge dubbi a dubbi, non mi fa fermare. Mi porterò nella tomba la sua interpretazione della gravità: trascorro ore a pensarci. Con Einstein di fianco puoi immaginare qualsiasi cosa, tanto poi basta che qualcuno trovi le formule per spiegarla. La stessa cosa avviene nel mio lavoro. Ho lavorato con i più grandi al mondo, ma sei un genio solo quando mi fai viaggiare con la testa. "La fantasia è la nostra forza", lui diceva così, e noi dovremmo ripetercelo ogni giorno. Per questo Einstein, oggi, è più attuale che mai». Avere la voce di Giancarlo Giannini, mentre sono sul palco, è un formidabile privilegio, lo so. Sentire lui, nei passaggi cruciali della vita di Albert Einstein, vuol dire avere una persona che sa quanto Einstein sia fondamentale nel nostro percorso. E nel mio, come fisica e come narratrice. Per me l'esigenza oggi è di raccontare il femminile, le donne che hanno permesso a me, e tutti noi, di vivere una vita di grande libertà, con la gioia di poter fare scelte, e di poter affrontare i cambiamenti. Io, di tutto questo, ne sono un esempio lampante: tanto che a volte penso di aver già vissuto dieci vite diverse. E tutto questo l'ho potuto vivere grazie a Mileva. Lei rappresenta un punto di svolta, per tutti. Per questo oggi la sua lettura deve essere più attenta: non si può liquidare come una delle Piccole donne che si ribellano ma poi tornano a casa a curare il focolare. Non era così. Gli esempi di oggi per capirla ci arrivano continuamente, basta saperli trovare: la più amata della serie The Big Bang Theory è Amy Farrah Fowler, la moglie scienziata di Sheldon Cooper, il fisico brillante. Altre ovunque, sconosciute, nel mondo. Tutte, riunite in un'unica equazione, saremo una la continuazione dell'altra, una l'esperienza dell'altra, una l'eredità dell'altra, prenderemo una il nome dell'altra. E specchiandoci in queste donne che ci hanno preceduto vedremo riflessa la parte di noi stessi di cui prenderci cura come il più prezioso dei regali della vita.

Il figlio folle, l’unico problema che Einstein non seppe risolvere. Un romanzo di Laurent Seksik ricostruisce il dramma di Eduard: una vita in clinica, abbandonato dal padre. Mario Baudino l'8 luglio 2014 su La Stampa. Albert Einstein, oltre a essere il genio del Novecento, fu un uomo di grande coraggio, che riuscì a sfuggire alla Gestapo, a contribuire alla creazione di Israele, e a spingere Roosevelt al progetto per la bomba atomica cercando però di fermarlo quando si trattò di lanciarla sul Giappone. Una cosa sola non riuscì a fare: visitare il figlio chiuso in un ospedale psichiatrico. Era il suo limite, «ma solo l’Universo non ha limiti», scrive Laurent Seksik in Il caso Eduard Einstein», romanzo-biografia appena uscito per Frassinelli. In omaggio alla tradizione molto francese delle biografie che scavano nel sentimento, per concedersi solo in campo psichico la parte di invenzione romanzesca (basti pensare a quelle che André Maurois dedicò a un’infinità di personaggi, da Byron a Hugo, da George Sand a Balzac, o più di recente alla versione scabra e quasi reticente negli ultimi libri di Jean Echenoz), Seksik riporta così alla luce una scheggia di vita del grande scienziato ben nascosta nelle lettere o in pagine e note di altri lavori. La tragedia della sua vita: il figlio Eduard che a vent’anni fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Zurigo e di fatto lì abbandonato. Una tragedia dimenticata. Nato nel 1910, secondogenito del matrimonio tra il padre e la scienziata Mileva Maric, ragazzino sensibile e malaticcio, Eduard è considerato un talento nella musica e negli studi. Cresce a Zurigo con la madre e il fratello Hans Albert, e gli anni dell’adolescenza sono gli unici sereni: il padre che vive a Berlino arriva spesso in visita, il ragazzo è in apparenza sereno. Si affaccia all’università per studiare medicina. Vuole diventare psichiatra, si appassiona alle opere di Freud, ma il suo male è in agguato, e deflagra nel 1930, quando ha vent’anni, in forma gravissima. Durante una crisi, il giovane aggredisce la madre. Nel ’32 si rende necessario il ricovero al «Burghölzli», una clinica per malattie mentali di Zurigo, e da quel momento tutto cambia. Eduard ne sarebbe uscito qualche volta, ma lì era destinato a trascorrere gran parte della sua esistenza e a morire, nel 1965, dieci anni dopo la scomparsa del padre. In tutto questo periodo, in tutta questa vita, Albert e Eduard si incontrarono una sola volta, come documenta una fotografia. Fu nel ‘33, quando lo scienziato lasciò fortunosamente Berlino per riparare in America con la seconda moglie. Hitler era diventato cancelliere, e Albert Einstein fu il primo obiettivo dei nazisti. Riuscì a mettersi in salvo, e si precipitò a Zurigo per convincere il figlio a seguirlo. Senza riuscirci. Fu quello il loro ultimo incontro, al Burghölzli. Insieme suonarono il pianoforte; quanto al resto può solo essere immaginato. Seksik lo fa nella sua biografia-romanzo, dove Eduard dice al padre, con tono di sfida. «Venire con te? Meglio crepare». È del tutto verosimile, anche se non sapremo mai che cosa passò in quel momento tra i due. Il giovane restò affidato alla madre - e alle terribili cure di quegli anni, agli elettroshock, alla contenzione -, mentre per il grande scienziato cominciava una nuova vita. E tuttavia anche dopo la guerra - e la scomparsa di Mileva - l’uomo che più ha impresso la sua impronta sul secolo non se la sentì mai di guardare ancora una volta in viso la follia del figlio. Fu una sorta di terrore, che filtra qua e là nelle varie corrispondenze: «Mio figlio - scrisse - è l’unico problema che rimane senza soluzione». Un terrore in qualche modo ricambiato. Nel manicomio o nelle case di famiglia che di volta in volta lo ospitavano, Eduard studiava, scriveva (per esempio poesie) e non faceva mistero del suo essere come schiacciato da un padre insopportabilmente geniale e da un oscuro passato famigliare, che emerse a poco a poco. Scoprì per esempio dal fratello Hans Albert che prima di loro c’era stata una bambina, nata dall’unione dei genitori quando erano studenti, ancora troppo giovani e squattrinati, che la dettero a balia per perderla quasi subito. Si discute se sia stata successivamente adottata o sia morta di scarlattina - Seksik propende per la seconda ipotesi - ma la sostanza non cambia. Eduard non era forse l’unico «problema senza soluzione». In camera teneva un ritratto di Freud, forse un ambiguo simbolo paterno. Albert Einstein ebbe infatti col padre della psicanalisi un rapporto complicato. All’inizio respinse le sue teorie, tanto che nel 1928 si oppose - senza successo - alla decisione dell’Accademia di Stoccolma di assegnargli il Nobel per la medicina. In seguito fu però in corrispondenza con lui. E, insieme, i due scrissero per la Società delle Nazioni un libro di lettere in cui discutevano sul tema Perché la guerra. Non solo: da parte dello scienziato venne infine un riconoscimento esplicito che le teorie sull’inconscio erano forse accettabili. Senza mai menzionare con lui - altro mistero in questa zona buia della sua esistenza - la malattia del figlio.

·         Carosello, la pubblicità in tv: quando Mina consigliava Barilla.

Carosello, la pubblicità in tv: quando Mina consigliava Barilla. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Corriere.it. Non è solo un come eravamo. È anche uno dei periodi più belli della televisione. Quello del Carosello, il momento della serata in cui tutta la famiglia stava appiccicata davanti allo schermo. Quando, giusto per fare qualche nome, a venderti i prodotti, senza malizia alcuna, erano anche Mina, Ornella Vanoni, Frank Sinatra, Charles Aznavour. Senza dimenticare Vittorio Gassman, Totò, Virna Lisi. Diretti da grandi registi, come i fratelli Taviani, Luciano Emmer, Ettore Scola. Il logo della mostra: «La Linea» di Osvaldo Cavandoli Queste pubblicità, che sono dei piccoli capolavori di ironia, inquadrature, animazioni e musica, verranno celebrate in una mostra dal titolo Carosello. Pubblicità e Televisione 1957-1977, alla Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (Parma). L’esposizione apre un nuovo capitolo nell’indagine della storia della pubblicità in Italia. La mostra infatti — allestita alla Villa dei Capolavori, sede della Fondazione, dal 7 settembre all’8 dicembre — segue dopo due anni la prima esposizione dedicata alla storia della pubblicità dal 1890 al 1957, che fu l’occasione per ripercorrere la nascita e l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria e in particolare del manifesto, permettendo al visitatore di comprenderne la genesi, dai primi schizzi ai bozzetti, fino al manifesto stampato. Con la nuova mostra — a cura di Dario Cimorelli, cultore di storia della pubblicità, e Stefano Roffi, direttore scientifico della Fondazione — il visitatore troverà tantissimi, celebri manifesti di quel periodo, affiancati ai bozzetti e agli schizzi, e insieme avrà la possibilità, grazie a una serie di schermi distribuiti nelle sale espositive, di ripercorre l’unicità e l’innovazione degli inserti pubblicitari di Carosello, vincolati al tempo a rigide regole di novità e lunghezza. Luciano Dinelli, Vespa sprint, 1965 (140 x 98,5 cm). Collezione Galleria L’Image, Alassio (SV)Si scoprirà così l’universo dei personaggi animati che sono nati con la televisione, come La Linea di Osvaldo Cavandoli, Re Artù di Marco Biassoni, Calimero di Pagot o Angelino di Paul Campani, fino alla moltitudine di personaggi nati dalla matita di Gino Gavioli. Bozzetti, schizzi, rodovetri, storyboard sono gli elementi a complemento della serie di cartoni animati presentati in mostra a cui si aggiungono gli inserti pubblicitari in cui sono protagonisti i personaggi ai quali accennavamo all’inizio. Si potrà vedere una selezione dei più importanti oggetti promozionali dell’epoca: l’ippopotamo Pippo, i gonfiabili di Camillo il Coccodrillo, della Mucca Carolina, di Susanna tutta Panna completano la presentazione della pubblicità dei primi trenta anni della seconda metà del Novecento. Carosello, infatti, ebbe successo anche perché creò e impose i suoi caratteristici personaggi. Umberto Eco all’epoca sosteneva, nel saggio Ciò che non sappiamo della pubblicità televisiva, che si trattava di personaggi ambigui ed esili, di personaggi cioè che, a differenza degli eroi e dei personaggi mitologici tradizionali, non erano «portatori di un’idea» e avevano perso «la nozione di ciò che dovevano simboleggiare». Eppure, forse proprio grazie a questa loro apparente debolezza comunicativa, tali personaggi hanno saputo integrarsi efficacemente con la cultura di massa della società italiana. Armando Testa, «Cafè Paulista non c’è bocca che resista», (1960-65), collage e tempera su cartone. Csac fondo Testa Università di Parma La pubblicità di quel periodo — ricordano gli organizzatori — dal 1957 al 1977, non solo televisiva — introdusse una vera e propria rivoluzione nel patrimonio culturale e visivo di tutti. «Carosello era trasmesso in bianco e nero, ma per gli italiani era ricco di colori. Aveva infatti i colori del consumo, i colori di un nuovo mondo di beni luccicanti che si presentavano per la prima volta sulla scena sociale: lavatrici, frigoriferi, automobili, alimenti in scatola. Carosello non era semplicemente pubblicità, ma un paesaggio fiabesco dove regnavano la felicità e il benessere, un paesaggio estremamente affascinante per una popolazione come quella italiana che proveniva da un lungo periodo di disagi e povertà. Un paesaggio onirico che esercitava un effetto particolare nei piccoli paesi, nelle campagne e nelle regioni più arretrate, dove rendeva legittimo l’abbandono di quell’etica della rinuncia che apparteneva alla vecchia cultura contadina, in favore dell’opulenza della città e dei suoi beni di consumo».

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 10 settembre 2019. Questa clamorosa mostra su «Carosello. Pubblicità e televisione 1957-1977», piazzata un po' a sorpresa fra i Van Dyck e i Goya della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (da oggi all' 8 dicembre), è soprattutto una favolosa operazione-nostalgia per chiunque sia abbastanza vecchio da essere stato mandato a letto dopo Carosello. Il primo fu trasmesso il 3 febbraio 1957: faceva la réclame, come si diceva allora, per Shell, L' Oréal, Singer e Cynar. Le regole erano già ferree: lunghezza di due minuti e 15, storie slegate dalla pubblicità vera e propria, condensata infatti in 35 secondi, per lo più nel «codino» conclusivo, unico elemento replicabile perché ogni Carosello era diverso dall' altro. Infatti in quel debutto Mike Bongiorno intervistava per L' Oréal un' avvocatessa penalista, allora una rarità, mentre incredibilmente il Cynar non era ancora il rimedio principe contro il logorio della vita moderna e il testimonial non era Ernesto Calindri, bensì Carlo Campanini nei panni di un barman prestigiatore.

Nell' Italia appena avviata sull' autostrada del boom, la pubblicità era vista con sospetto. Le due chiese di massa, la cattolica e la comunista, non amavano il consumismo, cosa che peraltro non gli impedì di stravincere. La Sacis, la concessionaria della Rai democristiana, vegliava non solo sui buoni costumi, ma anche sulle buone maniere: vietato, per esempio, dire «lassativo», da qui il celebre «Basta la parola» di Tino Scotti per i confetti Falqui. Le donne, ovviamente, erano sempre in casa e vestitissime, anche molto di più, fanno notare i curatori Dario Cimorelli e Stefano Roffi, di quelle alquanto scollacciate della cartellonistica bellépochiana. Colpisce che ancora nel '72 un Carosello della Singer fosse tutto giocato sul tema della donna al volante pericolo costante, e per la regia di Paolo Taviani (senza Emilio), poi. Carosello era la via italiana alla pubblicità, un caso unico al mondo di concentrazione di tutti i consigli per gli acquisti in un' unica rubrica, il che fra l' altro non deprimeva la pubblicità sui giornali, alla radio o sui manifesti, qui ampiamente rappresentati. In quei vent' anni di Caroselli se ne produssero più di 30 mila, una media di quattro al giorno, un ritmo da telenovela sudamericana ma con ben altra fantasia. L' eutanasia di Carosello, il 1° gennaio '77, segnò la fine del sovranismo pubblicitario: non c' era più solo il primo canale, iniziavano le emittenti locali e poi le «private» e come nel resto del mondo la pubblicità tivù smetteva di essere sketch per diventare spot. In effetti, già nei Caroselli degli Anni Settanta i pantaloni a zampa d' elefante e le musiche yéyé quasi disturbano, come se con il Sessantotto fosse finita quell' età dell' innocenza italiana che furono i nostri favolosi Sixties. Naturalmente, ci sono tutti: Totò e Alberto Sordi, Vianello in coppia sia con Tognazzi che con la Mondaini, Mike, Baudo, la Carrà, Virna Lisi, Vittorio Gassman, Fernandel, Rascel, Macario, il Quartetto Cetra, Franco Cerri sempre a mollo nella lavatrice con il Bio Presto, e una Mina regale che nel '66 canta per la Barilla su fondali metafisici come un De Chirico: sono, si scopre sul ghiotto catalogo, il tetto della stazione di Napoli e la scalinata del Palazzo della Civiltà del Lavoro all' Eur. E ancora: un Paolo Poli fantastico per la Nestlé nel '64, un Dario Fo spiritato e spiritoso per Barilla nel '59, i divi d' importazione, Joséphine Baker, Dalida, Sylvie Vartan, Abbe Lane, Brigitte Bardot. Nel '68 Louis Armstrong gira a Modena quatto short in cui suona When the Saints go marchin' in. Già è surreale Satchmo che fa il Carosello a Modena, ancora di più che nessuna marca l' abbia voluto usare: così la pellicola finì prima in un cassetto e poi, pare, distrutta. Si rivedono Topo Gigio, la Linea di Osvaldo Cavandoli, Caballero e Carmencita di Armando Testa, l' ippopotamo Pippo pure di Testa (con schizzi dettagliatissimi per i due disgraziati che lo muovevano dall' interno), Calimero di Pagot, Angelino di Paul Campani, Camillo il coccodrillo, Susanna tutta panna, la mucca Carolina. Slogan indimenticabili per prodotti forse dimenticati oppure ancora sulla breccia e sugli scaffali, il digestivo Antonetto, il rabarbaro Zucca, la carne Montana, la dolce Euchessina, mentre i registi si chiamano Emmer, Bolognini o Scola. Carosella anche chi non t' aspetti: così nel '57 l' Amarena Fabbri usa Renato Guttuso, «il Picasso italiano». Anche Salvador Dalì in Francia era il testimonial del cioccolato, fotografato mentre addentava goloso la barretta che gli faceva subito rizzare il celebre baffo. Operazione nostalgia, si diceva. Non tanto e non solo di vent' anni di irripetibile creatività, ma di quell' Italia giovane, ottimista, innovativa, proiettata sul futuro e sul mondo, non rancorosa né arrabbiata. Oggi che siamo ridotti a rimpiangere non dico De Gasperi, ma perfino Fanfani o addirittura Rumor, volete che non sembrino «mitiche» invenzioni geniali come la Linea o Calimero? Vero che noi a letto subito dopo Carosello ci siamo andati davvero...

·         Le 100 canzoni italiane più belle del ventunesimo secolo (fino ad ora...).

Le 100 canzoni italiane più belle del ventunesimo secolo (fino ad ora...). Dal primo gennaio 2000 ad oggi: i brani che sono stati e sono la colonna sonora del nuovo millennio. Gianni Poglio il 26 agosto 2019 su Panorama. Abbiamo scelto le canzoni che hanno segnato la musica italiana del nuovo millennio, quelle che sono state pubblicate dal primo gennaio del 2000, quando artisti imprescindibili come Fabrizio De André e Lucio Battisti non c'erano più. Sono le canzoni di una nuova era della musica italiana, brani simbolo di artisti come Tiziano Ferro, Negramaro, Caparezza o Fabri Fibra, senza dimenticare però i capolavori di quei cantanti che hanno lasciato un segno indelebile negli ultimi trent'anni dello scorso secolo e che hanno ancora qualcosa di bello da far ascoltare. Quella che vedete qui sotto non è una classifica in ordine di bellezza (anche perché i gusti sono gusti e, in quanto tali, opinabili), ma un elenco di brani fondamentali per ricostruiire la "colonna sonora made in Italy" degli ultimi 19 anni. Buona lettura! Le più belle canzoni italiane del ventunesimo secolo:

100) Nel mio letto - Verdena

99) Battle Royal - Bassi Maestro

98) Chiedi alla polvere - Marracash

97) La canzone che scrivo per te - Marlene Kuntz - Skin

96) Dedicato a te - Le Vibrazioni

95) A un isolato da te - Francesco Renga

94) Dove comincia il sole - Pooh

93) Fossi figo - Elio e le Storie Tese

92) La descrizione di un attimo - Tiromancino

91) Dal basso - Emis Killa

90) L'anima vola - Elisa

89) Rotolando verso Sud - Negrita

88) Rose nere - Gue Pequeno

87) Attimo - Gianna Nannini

86) Fatti bella per te - Paola Turci

85) Isola grande - Pino Daniele

84) Nessun grado di separazione - Francesca Michielin

83) Vita tranquilla - Tricarico

82) Someone's else tears - Zucchero

81) Life is sweet - Silvestri Gazzè Fabi

80) Elegia - Paolo Conte

79) Una donna da sognare - Patty Pravo

78) Ti porto in Africa - Mango

77) Gocce di memoria - Giorgia

76) Per me è importante - Tiromancino

75) Gandhi - Mannarino

74) La borsa di una donna - Noemi

73) 21 grammi - Fedez

72) Fragile -Fiorella Mannoia

71) Chiamami ancora amore - Roberto Vecchioni

70) Poetica - Cesare Cremonini

69) Tu che sei parte di me - Pacifico feat. Gianna Nannini

68) Canzone di notte n.4 - Francesco Guccini

67) Con una rosa - Vinicio Capossela

66) 13 buone ragioni - Zucchero

65) Per brevità chiamato artista - Francesco De Gregori

64) Completamente - Thegiornalisti

63) Dannate nuvole - Vasco Rossi

62) Sono come tu mi vuoi - Irene Grandi

61) Pop Porno - Il Genio

60) Primavera in anticipo - Laura Pausini feat. James Blunt

59) Charlie fa surf - Baustelle

58) Oroscopo - Calcutta

57) Dentro alla scatola - Mondo Marcio

56) Ed ero contentissimo - Tiziano Ferro

55) Ti regalerò una rosa - Simone Cristicchi

54) Quando canterai la tua canzone - Ligabue

53) Come foglie - Malika Ayane

52) Mister Nessuno - Mogol-Audio2

51) This is what you are - Mario Biondi

50) Un'emozione per sempre - Eros Ramazzotti

49) Come vorrei - Vasco Rossi

48) Mi scusi - Teho Teardo & Blixa

47) Una somma di piccole cose - Niccolò Fabi

46) Amami amami - Mina Celentano

45) Sempre e per sempre - Francesco De Gregori

44) Mentre tutto scorre - Negramaro

43) What happened last night - The Kolors

42) Sotto casa - Max Gazzè

41) Ragazza Magica - Jovanotti

40) Pronti, partenza via! - Fabri Fibra

39) Ti vorrei sollevare - Elisa Feat. Giuliano Sangiorgi

38) La prima risposta - Dargen D'Amico

37) E tu lo chiami Dio - Eugenio Finardi

36) L'eccezione - Carmen Consoli

35) Idioti - Ministri

34) Fino all'imbrunire - Negramaro

33) Caro il mio Francesco - Ligabue

32) Inneres auge - Franco Battiato

31) Fuori dal tunnel - Caparezza

30) La decadenza - Ivano Fossati

29) Anymore - Vasco Rossi

28) Per averti - Adriano Celentano

27) Unfair - L'Aura

26) Domani smetto - Articolo 31

25) Vai in Africa, Celestino! - Francesco De Gregori

24) Sovrappensiero - Bluvertigo

23) Argento vivo- Daniele Silvestri

22) Ricomincio da qui - Malika Ayane

21) Tutto l'universo obbedisce all'amore - Franco Battiato feat. Carmen Consoli

20) Vietato Morire - Ermal Meta

19) La verità - Brunori Sas

18) Mogol Battisti - Mina

17) Salirò - Daniele Silvestri

16) Parlami d'amore - Negramaro

15) Sere Nere - Tiziano Ferro

14) Luce (tramonti a Est) - Elisa

13) A te - Jovanotti

12) Ti fa stare bene - Caparezza

11) L'essenziale - Marco Mengoni

10) Controvento - Arisa

9) Amore disperato - Lucio Dalla & Mina

8) Le donne lo sanno - Ligabue

7) Il più grande spettacolo dopo il big bang - Jovanotti

6) Il comico (sai che risate) - Cesare Cremonini

5) L'amore è nell'aria - Zucchero

4) Tutti i miei sbagli - Subsonica

3) Quello che non c'è - Afterhours

2) Il mondo che vorrei - Vasco Rossi

1) Gli ostacoli del cuore - Elisa & Ligabue

·         Dai Beatles a Lucio Battisti tutti i dischi mitici del 1969.

Dai Beatles a Lucio Battisti tutti i dischi mitici del 1969. I segreti dei 300 album usciti nei dodici mesi passati alla storia come un'esplosione di creatività rock e pop. Antonio Lodetti, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Il 1969. Cinquant'anni fa esatti, la creatività musicale toccò il suo apice. Ci furono Woodstock, Altamont e il primo Festival dell'Isola di Wight. Al cinema approdavano film «rock» come Midnight Cowboy e Easy Rider e la musica viaggiava libera sulla Route 69, titolo del libro di Mox Cristadoro (Tsunami, pagg. 240, euro 19) che ha per sottotitolo Il 1969 a 33 giri e raccoglie quasi 300 album che bene o male hanno lasciato un segno nella storia del rock. Certo non sono tutti Abbey Road (di cui esce in questi giorni il cofanetto con inediti) o Tommy dei Who, forse il più alto esempio di art rock, ma hanno comunque tutti una storia da raccontare. Come il secondo, eponimo, album di David Bowie, poi reintitolato Man of Words Man of Music e infine Space Oddity, dichiarato omaggio al Kubrick di 2001. Odissea nello spazio, che mostra già la visione teatral musicale del personaggio. È l'anno del gioiellino nihilista di Nick Drake Five Leaves Left, ancora insuperato per contenuti ed emozioni a così tanti anni dal suicidio dell'artista. Saltabeccando qua e là c'è naturalmente il sofisticato Let It Bleed - l'ottavo album dei Rolling Stones che segna l'addio di Brian Jones - con l'ancora oggi insuperata You Can't Always Get What You Want e tante invenzioni sonore sul classico sottofondo rock blues. C'è la nascita e al tempo stesso l'apoteosi del rock progressivo con In the Court of the Crimson King, «la posa della prima pietra per edificare la muraglia di creatività sonora appannaggio di Robert Fripp ma anche dei suoi compagni di avventura, da Greg Lake a Ian McDonald, da Michael Giles al quinto elemento Peter Sinfield». Insieme McDonald e Giles pubblicarono a loro volta un album mitico. Quell'anno esplodeva il rock in tutte le sue molteplici forme ma anche negli altri generi il mondo della musica ribolliva. Bob Dylan tornava al country d'autore con i colti paesaggi sonori di Nashville Skyline, cui collaborano anche Johnny Cash e il mago della chitarra «flat picking» Norman Blake. Anche se fu scartata per la colonna sonora di Un uomo da marciapiede, Lay Lady Lay rimane un classico. Sempre per il country rock (quello doc, che anticipava i tempi e dilaniava gli stereotipi di Nashville) un classico rimane The Gilded Palace of Sin, esordio dei Flying Burrito Brothers, dopo la pionieristica esperienza psycho country dei Byrds (da lì arrivano soprattutto Chris Hillman e il prematuramente scomparso Gram Parsons). Si dividevano tra brani acustici di tradizione popolare e lunghissime jam session psichedeliche i Grateful Dead di Jerry Garcia, che quell'anno pubblicarono il convulso Aoxomoxoa, senza dimenticare le quattro facciate di Live/Dead con i 23 minuti di Dark Star, che ha fatto la storia dei loro infiniti concerti dal vivo. «Cugini» dei Dead nello spaziare dal country ai suoni lisergici, i gloriosi Quicksilver Messenger Service di John Cipollina (chitarrista di culto) che pubblicarono il colorito Happy Trails (con l'inconfondibile disegno in copertina del cowboy a cavallo) e Shady Grove con Nicky Hopkins al pianoforte. Nel 1968 la creatività di Jim Morrison è già prepotentemente minata dai suoi guai psicofisici. Così l'anno successivo l'uscita di The Soft Parade, quarto album dei Doors unisce il loro viscerale blues a echi pop e jazz. Un disco inferiore alla loro media ma con un brano come il singolo Wishful, Sinful che merita il suo posticino nella storia del rock. Quelli citati finora sono album basici che tutti conoscono; più difficile andare a ritrovare il rock blues di artisti come l'organista Al Kooper (già sodale di Dylan nella sua svolta elettrica) e il chitarrista Mike Bloomfield, tanto grande stilisticamente quanto limitato dalla tossicodipendenza. Di quell'anno vanno citati almeno quattro lavori ovvero The Live Adventures of Mike Bloomfield and Al Kooper, Kooper Session con Shuggie Otis, l'album dal vivo al Bill Graham's Fillmore West e You Never Know Who Your Friends Are del solo Kooper. Decine sono i gruppi di hard rock o hard blues che emergono, tra cui i Taste del virtuoso chitarrista irlandese Rory Gallagher che quell'anno pubblicò l'eponimo Taste ma che ha dato il meglio (alla grandissima) in album dal vivo come Irish Tour. Ci sono gli americani Grand Funk Railroad, anch'essi un trio che picchiava duro, gli Argent di Rod Argent, i cattivi Steamhammer che pubblicarono ben due dischi così come la Keef Hartley Band, gli Strawbs innamorati del folk inglese. Tra le curiosità c'è l'album di debutto solista del leone dalla voce roca Rod Stewart, che dopo l'esperienza con i Faces e con Jeff Beck, regala The Rod Stewart Album, come si intitolava in America, che in Inghilterra prese il titolo di An Old Raincoat Won't Ever Let You Down. Parlando di future superstar, esce anche Empty Sky di Elton John, allora serioso e intimista giovane re del pianoforte in coppia con Bernie Taupin. Nel 1969 brilla ancora la fulgida stella di Re Elvis con From Elvis in Memphis, cavalcata rock-pop-soul-country di qualità. In questo sabba di musica ci sono anche dischi da tutto il mondo, persino, perché no, dall'Italia, dove spiccano Quelli (con il disco omonimo), il collettivo Stormy Six con l'album dal programmatico titolo Le idee di oggi per la musica di domani, Ad Gloriam, il concept album de Le orme e il classico Lucio Battisti con perle come Il vento e Non è Francesca.

“Easy Rider”, la colonna sonora di una generazione. Indimenticabile la scena in cui le Harley Davidson guidate da Peter Fonda e da Dennis Hopper sono accompagnate da "Born to be wild" degli Steppenwolf. Gabriele Antonucci il 17 agosto 2019 su Panorama. "Siate liberi di guardare lontano anche oltre l’orizzonte, liberi di viaggiare veloci o lentissimi, dove vi porta il suono schietto della moto, che annuncia il vostro arrivo come un tuono annuncia il temporale", afferma il pilota e scrittore Roberto Patrignani in un celebre aforisma sulla musica emanata dalla sua fedele due ruote.  Il rapporto tra musica e moto è sempre stato molto stretto, basti pensare all'iconica scena inziale di Easy Rider, con la trascinante Born to be wild degli Steppenwolf ad accompagnare le immagini delle rombanti Harley Davidson guidate da Peter Fonda e da Dennis Hopper. Curioso come il protagonista di uno dei film più iconici della controcultura americana, Peter Fonda, sia morto proprio nei giorni in cui si celebra il cinquantennale di Woodstock, il concerto-evento simbolo di una generazione che sognava un mondo diverso. Ancora più singolare il fatto che la colonna sonora del film, anch’essa entrata nell’Olimpo della cinematografia mondiale, non fu prevista originariamente da Dennis Hopper, che si limitò a utilizzare come commento sonoro alcuni dei suoi brani preferiti tra quelli trasmessi alla radio in quel periodo. Solo in un secondo momento propose a Crosby, Stills, Nash & Young di scrivere le musiche appositamente per la pellicola, salvo poi tornare (per motivi mai del tutto chiariti) sui suoi passi e mantenere la selezione originale. Dopo il clamoroso successo al botteghino del film nell'estate del 1969, la ABC/Dunhill Records decise di pubblicare ufficialmente la colonna sonora del film, da cui fu esclusa la celebre versione di The Weight di The Band perché la Capitol Records non ne concesse i diritti legali. La canzone fu inserita ugualmente nella versione del gruppo statunitense Smith (da non confondere con gli Smiths di Morrissey e Johnny Marr). Anche Let's Turkey Trot di Little Eva e Flash, Bam, Pow degli Electric Flag, che già facevano parte della colonna sonora del film Il serpente di fuoco di Roger Corman, furono esclusi dall’album di Easy Rider. Gli Steppenwolf sono protagonisti della colonna sonora con due brani indimenticabili, la già citata Born to Be Wild e The Pusher, così come Roger McGuinn, che ha interpretato It’s Alright, Ma (I’m only bleeding), composta da Bob Dylan, e Ballad of Easy Rider. Non poteva mancare Jimi Hendrix, il chitarrista più influente della storia del rock, con la straordinaria If 6 Was 9, tratta dall'album Axis: Bold as Love del 1967 e utilizzato anni dopo anche nella colonna sonora di Point Break - Punto di rottura.

·         Jimi Hendrix: un gigante gentile.

Leon Hendrix: «Mio fratello Jimi, un gigante gentile e le droghe che soffocarono la sua creatività». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Corriere.it. «Io e Jimi eravamo poveri e vivevamo in una famiglia problematica, certo, ma eravamo a nostro modo felici. Poi il successo ha cambiato le cose e non è stato più lo stesso. Mi manca molto e penso a lui ogni giorno. Se fosse ancora vivo, continuerebbe a regalarci la sua grande musica, il suo unico vero modo di esprimersi». Così Leon Hendrix, 71 anni, fratello minore di Jimi, genio innovatore della musica rock, probabilmente il più grande chitarrista elettrico di tutti i tempi, scomparso il 18 settembre 1970 a soli 27 anni, ricorda l’adolescenza vissuta insieme a lui a Seattle. L’occasione è stata il concerto tenuto sabato a Teramo per celebrare il cinquantennale del festival di Woodstock, alla cui notorietà contribuì anche Hendrix. A organizzarlo la libreria Tempo Libero e l’associazione Polygonon in collaborazione con il Comune di Teramo. Leon fu il primo ad accorgersi dell’incredibile talento del fratello e ne vide l’ascesa fino alla pubblicazione del primo album, Are you experienced, e dei successivi. Oggi, dopo un passato turbolento che l’ha portato anche in carcere e dopo essersi liberato della dipendenza dalle droghe, gira il mondo per suonare le canzoni di Jimi e far conoscere la sua storia attraverso un libro. Leon, chi era per lei Jimi?

«Era mio fratello maggiore, una specie di gigante gentile che si prendeva cura di me e si assicurava che avessi ciò di cui avevo bisogno e mangiassi anche quando i miei genitori non c’erano. Se papà e mamma litigavano di brutto, mi prendeva da parte e mi consolava dicendo: tutto passerà».

Quando lo ha visto per la prima volta cimentarsi con uno strumento musicale?

«Il primo strumento che Jimi imparò a suonare, a quattordici anni, fu un ukulele con una sola corda. Poi passò a una chitarra acustica rotta, che voleva comprare per cinque dollari dalla signora da cui eravamo in affitto, ma mio padre disse no. Pensava dovesse trovarsi un lavoro e non pensare alla musica. Fu la zia Ernestine ad aiutare Jimi ad acquistarla».

La perdita di vostra madre malata, Lucille, nel 1958, gettò lei e Jimi nella disperazione. Cosa rappresentava per voi?

«I nostri genitori si separarono presto, ma spesso mia madre tornava a casa la mattina per prepararci la colazione, ci accorgevamo di lei quando sentivamo il profumo dei pancake, delle frittelle e del bacon. Una disgrazia nella disgrazia fu non essere presenti al suo funerale, nostro padre era alcolizzato e non riuscì a portarci in tempo nel luogo dove si svolgeva la funzione. Ci perdemmo con l’auto e arrivammo tardi. Jimi non si stancò mai di rimproverarlo per questo anche negli anni successivi. Dedicò a nostra madre due canzoni: Angel e Little Wing».

Da quali musicisti eravate influenzati e quali canzoni amava suonare Jimi all’inizio?

«Ci piaceva il blues di Robert Johnson e Muddy Waters, trovammo i loro dischi a casa di zia Ernestine. Con l’ukulele Jimi era abbastanza limitato nella scelta. All’inizio suonava il tema di Peter Gunn o canzoni di Elvis Presley, come Love me tender, o di Chuck Berry. Impugnava lo strumento e faceva piccole esibizioni in casa con tutte le mosse tipiche di una rockstar. Quando riuscì ad acquistare la chitarra acustica, si procurò subito dopo un pickup con cui cercò di amplificarla collegandola all’impianto del giradischi. Mi chiedeva di reggere il cavo e lo facevo nonostante prendessi delle scosse terribili…».

Quante ore al giorno si esercitava Jimi all’inizio?

«Sempre, a ogni ora del giorno. Andava a dormire con la chitarra e si svegliava suonandola. La portava con sé ovunque».

Il successo cambiò Jimi?

«Sì, non era più lo stesso. Quando iniziò ad esibirsi a New York e prendeva cento dollari a settimana, era felice e tranquillo. Quando diventò famoso e iniziò a guadagnare molto di più, fu subito circondato da tante persone, tutte interessate a spremerlo perché la macchina continuasse a fare soldi. Lui era stufo di suonare Foxy Lady o Purple Haze centinaia di volte, voleva andare dove lo portava la musica e non dove lo portavano i soldi. Questa situazione lo deprimeva».

Jimi usava alcol e droghe per ampliare la sua creatività oppure ne era una vittima come altre rockstar?

«Prima di andare in palcoscenico, Jimi non assumeva sostanze, ma poi, come quasi tutte le rockstar all’epoca, non si risparmiava. In ogni caso la droga non lo aiutava a migliorare la sua creatività, che era innata e si esprimeva anche quando suonava l’ukulele con una sola corda. Lui aveva qualcosa di speciale sin da bambino, mi sembrava possedesse un mucchio di conoscenze e riusciva a incantarmi con le parole anche se non lo avevo mai visto leggere libri».

Al festival di Woodstock Jimi suonò, distorcendolo, l’inno americano. In molti lessero quella interpretazione come una protesta contro la guerra in Vietnam. Oggi Jimi Hendrix protesterebbe così con il governo Trump?

«Non lo so e non amo molto parlare di questo, ma sono sicuro che continuerebbe a comunicare con la musica, era l’unica cosa con cui riusciva ad essere completamente a suo agio restituendo tutte le sue emozioni a chi lo ascoltava».

·         Chi era davvero Jim Morrison?

Chi era quindi davvero Jim Morrison? Alex Pietrogiacomi per “il Giornale”  il 21 luglio 2019. Ogni volta che si tenta di fare luce sulla vita delle star del rock si resta invischiati in tantissime problematiche legate alle fonti cui attingere, alle voci di corridoio o di quelle persone che non riuscivano proprio a non vedere l' oggetto delle loro testimonianze senza acrimonia o soggettività. Peggio ancora, spesso ci si trova a dover fare i conti con una stampa snob, impreparata o troppo politicizzata. Chi era quindi davvero Jim Morrison? Chi è stato nella sua vita? Chi è diventato quando è assunto a star? E in chi è stato trasformato dopo la sua morte a Parigi? Sono domande cui risponde Frank Lisciandro (che è stato regista insieme a Morrison del film HWY e ha effettuato le riprese di Feasts of Friends) con il suo libro Una conversazione tra amici, testo di cui da qualche anno si parlava nell' ambiente editoriale e musicale e che finalmente arriva in Italia per i tipi di Giulio Perrone Editore. Che cosa si trova tra queste pagine? Molto schiettamente lo dichiara nell' incipit lo stesso Lisciandro: «Questo libro affronta e spazza via i miti per fare luce su un uomo straordinario e su un artista creativo di talento. In queste pagine, Jim viene rivelato candidamente da persone che lo hanno conosciuto, che ne sono state compagni, colleghi, mentori e amanti. Troverete storie buffe, segreti rivelati e verità più sorprendenti di qualsiasi distorsione fatta circolare durante e dopo la vita di Jim. Il risultato è una interpretazione più dettagliata, un ritratto più umano e accurato». Ma oltre a essere un' interpretazione più dettagliata, un ritratto più umano, ciò che si legge di Morrison appare come un mosaico aperto, dove il lettore può aggiungere le proprie considerazioni. Il lavoro dell' autore è stato certosino e appassionato, avulso da qualsiasi sistema di protezione dell' amico scomparso (pur dichiarando di volerlo «rivalutare») e si è appoggiato sui suoi amici - che non lesinano comunque momenti abrasivi nelle loro memorie - e sulle persone della sua cerchia: «Una a una, iniziai a contattarle e a incontrarle, nella speranza di poter ricavare dalle nostre conversazioni nuove informazioni e notizie inedite. Molte di quelle persone non erano mai state intervistate e alcune erano piuttosto riluttanti. Potevo però contare sul fatto che tutti sapevano che io e Jim avevamo collaborato e che mi considerava un amico intimo. L' unica condizione a cui dovevano attenersi era che raccontassero soltanto ciò che avevano visto con i propri occhi. Così, sarebbe stata chiara e inconfutabile la fonte. Non volevo diffondere storie poco credibili, dalle origini discutibili o inaffidabili. Con pazienza e generosità, gli amici di Jim mi resero partecipe dei loro ricordi...». Da questi incontri ne esce un libro che mette in gioco il «Re Lucertola», lo allontana da qualsiasi speculazione postuma o proiezione critica/personale, ne mette in luce aspetti impensabili per molti ascoltatori, lati come la sua profonda ironia, che da ragazzo esplodeva in scherzi telefonici o finte morti tra i corridoi scolastici. Soprattutto risalta, durante questa conversazione, la grafomania di Morrison, che lo portava a scrivere di continuo, che lo possedeva nella poesia e nell' idea - forse inconsapevole, forse no - di poter diventare un poeta, sulle tracce di Whitman e dei poeti beatnik, soprattutto (pur ridendone a mo' di scherno dei poeti), ma con una personale linea di fuga simbolica che gli apparteneva per Dna, con la creazione di una nuova mitologia, di una spiritualità, se così vogliamo definirla, che prendeva spunto anche dalle sue letture fondamentali, come Hermann Hesse (Il pellegrinaggio in Oriente) oppure Sándor Ferenczi (il saggio Schermo del sogno). Si esce da questo libro con un senso di leggerezza e spaesamento, con il retrogusto di un' inconsolabile mancanza tipica dell' occasione perduta, quella di non aver compreso o conosciuto un uomo che aveva deciso di intraprendere la fenomenica del rock' n'roll, pur non rinunciando a una sua laica spiritualità capace di affascinare e magnetizzare chi lo incontrava, anche da sotto un palco. Un uomo mosso da una straordinaria passione per la vita e l' arte che viene sintetizzata in una sua frase: «Abbiamo tutta questa roba da fare».

·         Jack Kerouac della Beat Generation.

Pietrangelo Buttafuoco per il “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2019. Il luogo dove cavalcare la tigre della vita, del tempo e del destino è di certo la strada. Ogni errante vi transita. E la meta cui destinare tutto lo sfasciarsi di sé - andare, e non smettere mai di andare finché non ci arriviamo - è una sorta di convento in cui il priore è la madre. Ogni errante è nell' errore se non c' è altro posto dove andare. E a quarantasette anni, un figlio - questo è Jack Kerouac, un cirrotico dall' anelito mistico ritiratosi in Florida - resta pur sempre un novizio. La sua preghiera del mattino è whiskey, un singulto ancora e ogni urto di sbotto esofageo. La sera prima ha fatto a pugni e come oggi - ma cinquant' anni fa - nell' improvviso della mattinata sputa un fiume di sangue e perde conoscenza. Il giorno dopo, il 21 ottobre del 1969, l' autore del febbrile On the road - il capolavoro della Beat Generation - muore. Il santo vagabondo venuto dalla schiatta quebecchese è un martire che si è fatto carico di tutte le angosce - disciolte nella miscela di hashish e benzedrina - e lascia la madre tra ininterrotti rotoli di carta su cui lui ha scritto e sempre ha scritto e poi una foresta di bottiglie, molte delle quali ancora da svuotare, disseminate nell' angusta veranda della casa di St. Petersburg. Ma si fa presto a dire Beat Generation. Lui - improvvisatore, rabdomante di poesia - non è che un innamorato di Dio. A dispetto degli altri strafattoni giunti al suo seguito a partire dal 1957 - l' anno di pubblicazione del suo bestseller - il Padreterno di Kerouac è ancora quello di cui ha avuto lo stigma perfettissimo del Creatore del cielo e della terra seguendo le lezioni di catechismo in parrocchia, nella chiesa di Santa Giovanna d' Arco. Dio è il padrone assoluto di tutte le cose. È l' Eterno onniscente di bontà infinita e perciò è tollerante di qualunque libertà perché lo sa - Lui che premia i buoni e castiga i cattivi - di poter ricavare il bene anche dal male. Questo impara Kerouac dalla sua educazione cattolica e beat per lo scrittore ben volentieri aggrappato alla passione della carne - la bottoniera dei pantaloni per lui è la porta della beatitudine - è beato ma per rifiutarne tutte le implicazioni politiche, non ultime quelle sbrigativamente pacifiste se negli anni della guerra in Vietnam Kerouac sceglie di stare dalla parte dei marines e non, come tutti - nel ceto dei letterati - contro l' intervento armato. Nel settembre del 1966, in un teatro di Napoli gremito per ascoltarne la voce - cercando in lui un profeta più che un semplice scrittore - Kerouac si lancia nell' epicedio di ogni singolo soldato morto in battaglia lasciando nello sconcerto Fernanda Pivano che lo accompagnava e l' intera casa editrice Mondadori, imbarazzatissima nel dover gestire un ribelle in così tale rivolta da disturbare l' obbligo ideologico e il ciripiripì dei letterati e delle madamine perbeniste. Autore conosciuto in virtù di un solo titolo, virtuoso di parola immediata, cerca sempre un modo per farsi portare via dal buon Dio - inghiotto l' urlo e mi lascio semplicemente andare dentro la morte e la Croce, scriverà - Kerouac ha la tipica grana della gente di San Lorenzo. È quel pezzo d' America, in territorio canadese, forgiata nel rigore di una natura aspra e impossibile. E lui, per dirla con Paolo Vites, nel solco del Cristo, del Buddha, sotto le stelle del jazz, nell' eternità dorata della scrittura, paga con la vita "il continuo movimento, alla ricerca di un posto migliore, di una vita migliore, la terra promessa che nessuno aveva mai trovato perché impossibile da realizzarsi". È di certo on the road il modo più nichilista e più attivo per cavalcare la tigre altrimenti detta amor fati. E, certamente, si fa presto a dire beat. Tutto il nostro immaginario stagna nella larga botola del luogo comune. L' opera di questo disperato vagabondo alberga nell' affollato sabba del fraintendimento. Esempio. Tanto fu reazionario Pier Paolo Pasolini da risultare progressista, quanto fu avanguardia Kerouac da ritagliarsi - a cinquant' anni dal suo transito terreno - un luminoso scranno nel coro dell' eterno.

·         Tutti contro Michael Jackson.

Il 25 giugno 2009, nella tenuta-parco giochi di Los Angeles a Neverland, moriva l'artista soprannominato "il re del Pop". Ma dopo le lacrime e le celebrazioni, sono arrivate, postume, le accuse di molestie. Contenute in un documentario sconvolgente. Chi era davvero Jackson? Ernesto Assante il 20 giugno 2019 su La Repubblica. Angelo o diavolo? Ma se, come è più probabile, non fosse stato né l'uno né l'altro? Michael Jackson, scomparso esattamente dieci anni fa, non era certamente un santo, cosa che con buona certezza non è la stragrande maggioranza degli esseri umani, ma era sicuramente un grande artista. E forse non era nemmeno un diavolo, anche se in tanti oggi pensano lo sia stato. Di certo, Michael Joseph Jackson, morto dieci anni fa nella sua casa di Los Angeles, il ranch Neverland, è stato uno dei personaggi che ha contribuito a definire il mondo dello spettacolo della fine del secolo scorso. Lo ha fatto cambiando le regole del pop, usando i videoclip, costruendo degli show in cui alla fine addirittura volava, costruendo il suo personaggio e portandolo al livello del mito. Chiediamocelo ancora: angelo o diavolo? E se alla fine Michael Jackson fosse stato entrambi? Non c'è dubbio che volendo raccontare la storia di Jackson l'aggettivo "normale", sempre che l'aggettivo abbia qualche senso se applicato a una star del mondo dello spettacolo, è del tutto inutilizzabile. Jacko "normale" non è mai stato, nel trionfo come nella fine, quando era sugli altari e quando è finito nella polvere. Ma forse nessuno di noi ha mai pensato che Jackson fosse 'normale', anzi nessuno di noi ha mai voluto che lo fosse. Da quando a cinque anni aveva iniziato a cantare con i suoi fratelli, i Jackson 5,fino agli ultimi minuti della sua vita nella follia di Neverland, il "re del pop"  ha sperimentato un frullatore straordinario di emozioni, suoni, immagini, come probabilmente nessun altro essere umano ha mai sperimentato, e questo ha prodotto grande musica così come terribile oscurità, ha fatto di lui un essere umano e soprannaturale, un mistero e una luce, sostanzialmente un enigma che, per chi non è diventato suo devoto come in tanti hanno fatto in tutto il mondo, è tutt'ora impossibile da decifrare. Sono passati dieci lunghi anni dalla sua scomparsa e nonostante tutti i tentativi di riportare la sua vicenda nel solo ambito della cronaca, tra storie di fallimenti economici, abusi sessuali, sbiancamenti della pelle, matrimoni veri e fittizi, malattie, dipendenze, figli penzolanti dal balcone, il mito riesce ancora a resistere, la "favola", per quanto strappata, stropicciata, malmessa, per molti è ancora viva. Quella di un bambino prodigio che, dotato di una magica voce, aveva deciso di farla diventare uno scudo, o ancor meglio un superpotere, e con quell'arma aveva deciso non solo di difendersi ma, addirittura, di conquistare il mondo. Anzi no, visto che il mondo così com'era non gli piaceva, non era adatto a lui, aveva deciso di non crescere più, di trasformarsi in Peter Pan, senza sesso, senza razza, senza volto, di costruire il suo universo, di vivere una vita incredibile, assurda, pazzesca, in un castello incantato dove tutto sembrava possibile e dove il mondo, quello vero, non poteva toccarlo. Una favola con un'apparente lieto fine, quello del successo, della eterna giovinezza, della lontananza dalla realtà. Ma la realtà ha invaso lo stesso il suo mondo, portandolo dieci anni fa alla fine, una realtà fatta di accuse di molestie e abusi su bambini, dalle quali è stato assolto ma che continuano a perseguitarlo anche dopo la morte, una realtà che oggi ci porta a vedere la sua vita, tutta la sua vita, non tanto come una favola ma come una gigantesca, assurda, incredibile follia. La domanda resta senza risposta: angelo o diavolo? Nessuno dei due, probabilmente, nonostante le mille iniziative benefiche, nonostante We are the world, nonostante il messaggio universale di pace della sua musica, nonostante le accuse, nonostante il suo modo di vivere, nonostante tutto quello che si può vedere nei documentari, leggere nei libri. Ma possiamo anche dire che tutti e due, l'angelo e il diavolo, ci hanno messo impegno per creare Michael Jackson e soprattutto la sua musica, lo straordinario Thriller che lo ha portato nella leggenda ma anche altri dischi e altre canzoni, in un perfetto gioco di ambiguità e inafferrabilità, dove Jackson era tutto e il suo contrario, dove la sua musica era pop ma anche rock, o dance, o rap, o disco, dove l'elettronica incontrava il soul, il cantante nero era diventato bianco, il bravo ragazzo un lupo mannaro o uno zombie, il divo un fallito. Dieci anni sono passati e Jackson è ancora al centro dell'attenzione, nonostante tutti i tentativi, riusciti o meno, di distruggere il mito. Ma possiamo essere certi di una cosa, comunque: forse nessuno saprà mai chi era Michael Jackson, se sia stato un angelo o un diavolo, ma tutti, ascoltando le sue canzoni, sanno che cosa è stato in grado di fare e in tanti continueranno ad ascoltarlo.

Dieci anni senza Michael Jackson: nessun omaggio. I grandi Network americani non hanno nulla in programma, si parla di un musical a Broadway per l’anno prossimo ma si dice che la produzione sia in difficoltà. Paolo Biamonte il 25 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il decennale della morte di Michael Jackson (martedì 25 giugno) è l’occasione per tornare su una delle più clamorose vicende di ascesa e caduta della storia dello spettacolo. Uno dei geni assoluti del pop, l’incredibile ballerino che ha cambiato il corso della danza, il Peter Pan che non voleva essere nero, è affondato in un gorgo melmoso di incubi da predatore sessuale di ragazzini. Nell’epoca del Metoo nessuno si azzarda a celebrare le sue gesta nel decennale della morte: neanche il suo amico, mentore, produttore Quincy Jones ha trasformato un concerto in programma a Londra per celebrare Jackson in un generico omaggio alle musiche da film. I grandi Network americani non hanno nulla in programma, si parla di un musical a Broadway per l’anno prossimo ma si dice che la produzione sia in difficoltà. Dal punto di vista legale, Michael Jackson era stato assolto dalle accuse di pedofilia: i processi erano iniziati nel 1993, l'assoluzione è del 2003, in mezzo ci sono molti accordi extra giudiziali. Ma il documentario «Leaving Neverland», (Neverland era il nome del suo famigerato Ranch-parco giochi) con le testimonianze di chi ha fatto parte del giro dei «giovani amici" di Michael, ha seppellito sotto un mare di fango qualsiasi accenno alla nostalgia. Anche i particolari della sua morte danno il segno di un disastro esistenziale: Jackson è morto perché il suo medico personale gli ha somministrato l’ anestetico chirurgico cui era assuefatto nonostante avesse già assunto una notevole quantità di farmaci potenti. Era in queste condizioni che cercava di affrontare il suo ritorno sulle scene: basta guardare «This Is It», il documentario sul dietro le quinte di quel ritorno che non c'è mai stato, per capire del Michael Jackson degli anni di «Thriller» e «Bad» era rimasta l'ombra. E sullo sfondo si intravede pure la storia di Michael bambino abusato da un padre violento e dispotico che gli insegnava le coreografie dei Jackson 5 a suon di botte. In questo quadro c'è spazio per ricordare la musica? Michael Jackson è stato il re del pop, ha lasciato tre album immortali come «Off The Wall», «Thriller» e «Bad», fenomeni commerciali da storia della musica registrata, un’icona che ha travalicato i confini musicali. I suoi funerali sono stati seguiti in tv da una platea smisurata ai quattro angoli del mondo. E in questo momento in cui al cinema fa tendenza il biopic nostalgico - il miliardo di dollari incassato da «Bohemian Rapsody» ha dimostrato che il filone può essere ricchissimo - gli anni '80 sono pronti a essere sfruttati. E per certi aspetti, gli anni '80 sono stati Michael Jackson e non solo per quella formidabile trilogia black e pop: basta pensare ai video clip kolossal di "Thriller» e «Bad», al look e al Moonwalkin' di «Billie Jean» e all’influenza che ancora hanno sull'immaginario popolare. E qui sta il punto: ci sono due generazioni cresciute con quella musica, milioni di ballerini, professionisti e non, che danzano imitando Michael Jackson. E poi ci sono quelli che da bambini sono stati nel lettone o in bagno con Michael e i bambini di oggi a cui andrà pure spiegato che tipo fosse il genio di «Thriller».

Michael Jackson: perchè il suo mito è ancora "invincible". La fama dell'artista di Gary, nato il 29 agosto 1958 a Gary, non è stata minimamente scalfita dal discusso documentario "Leaving Neverland". Gabriele Antonucci il 29 agosto 2019 su Panorama. "Puoi provare a bloccarmi, ma non servirà a niente/ Puoi fare quel che vuoi, ma sarò sempre qui/ Nonostante tutte le tue menzogne e i tuoi stupidi giochi/ Sono ancora qui e sono sempre me stesso, sono indistruttibile". Ascoltare oggi Unbreakable, uno dei brani più memorabili dell'album Invincible del 2001, è emblematico di come il mito di Michael Jackson, nel giorno del suo sessantunesimo compleanno (è nato a Gary nel 29 agosto del 1958), sia ancora intatto, senza essere scalfito dal discusso "documentario" Leaving Neverland" di Dan Reed. In un nostro articolo di alcuni mesi fa abbiamo mostrato, per primi in Italia, tutte le imbarazzanti imprecisioni e incongruenze del documentario, di cui ciclicamente emergono altre contraddizioni che ne inficiano completamente la veridicità. I controdocumentari Michael Jackson: Chase The Truth, disponibile su Amazon Prime dal 13 agosto, Neverland Firsthand: Investigating The Michael Jackson Documentary e Lies of Leaving Neverland, che possono essere visti gratuitamente su Youtube, mostrano in modo inequivocabile come Leaving Neverland abbia così tante falle e imprecisioni da non poter essere ritenuto credibile da chiunque abbia un minimo di serenità e onestà intellettuale. Il documentario, tralasciando l'aspetto "artistico", da un punto di vista cinematografico (oltre che etico) lascia davvero perplessi: intervistare solo i due protagonisti delle presunte violenze e i loro stretti familiari, con primi piani, lacrime di prammatica e musichette d'atmosfera, non offre quella pluralità di voci e quell'approfondimento che sono elementi indispensabili a ogni documentario degno di questo nome. Inoltre, a fronte di accuse gravissime, appare davvero incredibile che il regista non si sia premurato di ascoltare o di riportare la versione dei fatti di uno dei rappresentanti legali o della fondazione che cura gli interessi di Jackson. Appare inoltre singolare che, a sette mesi dalla prima del documentario al Sundance festival, nessun altro ex frequentatore di Neverland si sia fatto vivo sull'onda emotiva del documentario, asserendo di essere stato oggetto anch'egli di violenze, come avvenne in massa sia dopo lo scandalo Weinstein che dopo il caso dei preti pedofili in Australia: fatto assai curioso. Ma vediamo più da vicino chi sono i due accusatori del cantante che, ricordiamo, nel processo Arvizo del 2005 fu scagionato completamente, in 14 capi di imputazione su 14, dalle accuse di pedofilia dopo anni di indagini, anche da parte dell'FBI, che non hanno portato a nulla. Il ballerino e coregrafo Wade Robson, che in passato ha lavorato con Britney Spears ed è apparso nelle serie So You Think You Can Dance su Fox, fu chiamato a testimoniare nel 2005 nel processo Arvizo, negando allora con decisione che Jackson lo avesse mai infastidito e affermando sotto giuramento che "mai niente di inappropriato era accaduto con il Signor Jackson". Thomas Mesereau, il brillante legale che difese Michael Jackson, scelse come primo testimone per la difesa di Jackson lo stesso Wade Robson, che ora sostiene di essere stato molestato da MJ quando era bambino. Nel 2005, Robson - come affermato da Mesereau - era «irremovibile» sul fatto che Jackson non gli avesse mai fatto nulla di male. Anche la madre e la sorella di Robson affermarono le stesse cose. I Robson volarono dall'Australia per il processo. Rimasero a Neverland, e Mesereau li interrogò ripetutamente. Mesereau, dopo la prima di Leaving Neverland, ha dichiarato: «Trovai Wade eloquente e simpatico. Difese strenuamente Michael. Sua madre e sua sorella lo sostennero con le loro dichiarazioni. Sul banco dei testimoni, Wade fu sottoposto a un pubblico ministero accanito. Sono scioccato dal fatto che abbia assunto una posizione così diversa rispetto a ciò che mi disse e che testimoniò in tribunale». Quando il cantante morì, il 25 giugno 2009, Robson scrisse sui social: "Michael Jackson ha cambiato il mondo e, più personalmente, la mia vita per sempre. Lui è il motivo per cui ballo, il motivo per cui faccio musica e uno dei principali motivi per cui credo nella pura bontà del genere umano. E’ stato un mio caro amico per 20 anni. La sua musica, il suo movimento, le sue personali parole di incoraggiamento e di ispirazione e il suo amore incondizionato vivranno per sempre dentro di me. Lui mi mancherà immensamente, ma so che ora è in pace e incanta il cielo con una melodia e un Moonwalk". Dopo la morte del cantante, il coreografo ha fatto di tutto per avere i biglietti per partecipare al suo memoriale (come confermano gli sms scambiati con Taj Jackson, che li ha pubblicati su Twitter) e ha partecipato ai tributi del de cuius insieme Janet Jackson. Robson, a decenni di distanza dai presunti incidenti, ha partecipato ad alcuni barbecue con Michael Jackson e i suoi figli e nel 2005 voleva addirittura sposarsi a Neverland. L'Estate di Michael Jackson si fidò di lui e lo coinvolse nel 2012 nella lavorazione degli show del Cirque du soleil dedicato a Michael, il fortunato One, ma in seguito lo licenziò, insoddisfatta del suo comportamento ondivago. Nel 2013 Robson, quattro anni dopo la morte del Re del Pop, affermò ex abrupto di essere stato molestato quando era bambino da Michael Jackson e intentò due cause milionarie per risarcimento dei danni morali contro l'Estate del cantante per i presunti abusi. Tra il 2012 e il 2014, il ballerino scrisse due bozze di una biografia sui presunti abusi di Jackson, cercando, senza successo, di venderle agli editori. Jimmy Safechuck, dopo aver visto Wade Robson, intervistato sulla sua causa contro l’Estate di Jackson, si ricordò improvvisamente di essere stato molestato da Jackson, quindi decise di unirsi alla causa, contattando lo stesso avvocato. Una “illuminazione” coincisa con questioni di eredità dopo la morte di un suo parente, i cui fratelli sopravvissuti hanno cominciato a farsi causa l'uno con l'altro per il controllo degli affari di famiglia. Nel 2017 due diversi collegi giudicanti rigettarono le accuse intentate per mancanza di prove. Secondo il giudice della Corte Superiore di Los Angeles Mitchell Beckloff, oltre all'insussistenza del fatto, il motivo alla base del rigetto delle accuse da parte del giudice è che Robson abbia atteso troppi anni per sporgere denuncia contro Jackson, addirittura il maggio del 2013, quasi 4 anni dopo la sua morte. A sette mesi dall'uscita di "Leaving Neverland", possiamo serenamente affermate che, chi aveva intenzione di distruggere la sua fama con questo "documentario", ha fatto male i suoi calcoli. Il segno "più" sia negli stream su Spotify che nelle visualizzazioni su Youtube dei suoi video confermano, più di mille discorsi, quanto non solo i suoi fan gli siano rimasti fedeli, ma di come, realisticamente, si stiano accostando alla sua musica anche nuovi utenti. Jackson è stato l'artista più famoso e amato del mondo, ma anche il più frainteso e addirittura misconosciuto, un po' per la sua proverbiale riservatezza e molto a causa delle fantasiose notizie riportate per anni dai tabloid. Purtroppo ancora oggi, a dieci anni dalla morte, in molti pensano che l'artista di Gary si sia schiarito la pelle per un vezzo estetico o, peggio ancora, per rinnegare le origini afroamericane di cui era fiero, oltre che avere una sorta di fissazione patologica per la chirurgia plastica, come se le star di Hollywood non ne facessero continuamente ricorso. Il cantante soffriva di vitiligine e di lupus eritematoso sistemico, due malattie della pelle autoimmuni, come conferma anche l'autopsia effettuata il 26 giugno del 2009, il giorno dopo la sua morte. La vitiligine è una malattia cutanea caratterizzata da estese macchie bianche che porta a una progressiva depigmentazione della cute, ovvero a uno schiarimento irregolare della pelle. La vitiligine portò Michael a perdere la pigmentazione in quasi tutte le aree del corpo, lasciando la sua pelle traslucida più che bianca. Per anni la sua truccatrice e fidata amica Karen Faye, che lo seguiva come un'ombra, ha coperto la vitiligine con un pesante trucco. Nei primi anni dell'insorgenza della malattia, Karen scuriva le macchie bianche, ma, quando la vitiligine si diffuse in quasi tutto il corpo, iniziò a schiarire le poche zone rimaste scure, in modo da avere un colorito uniforme. Solo allora il cantante si sottopose a dei trattamenti di schiarimento della pelle per mano di Arnold Klein, il dermatologo dei vip, che riuscì, attraverso complessi trattamenti, a uniformare il colore dell'epidermide. Il lupus eritematoso sistemico, la malattia cutanea di cui soffriva il Re del Pop, provoca forti eruzioni cutanee sul viso e sul naso, lesioni delle pelle, perdita dei capelli e infiammazione dei polmoni. Il Dr.Strick, che effettuò un'ispezione personale al cantante nel 1993 su richiesta del procuratore Tom Sneddon, confermò che "il lupus aveva distrutto parte della sua pelle, in particolare del naso" e che i numerosi interventi di chirurgia a cui si era sottoposto erano per lo più "di tipo ricostruttivo, per nascondere le cicatrici del lupus". Michael tenne tutto questo per sé, senza renderlo pubblico, in quanto ritenuto imbarazzante e traumatico. Oggi non c’è praticamente artista r&b contemporaneo, da Pharrell Williams ad Usher, da Bruno Mars a Justin Timberlake, da Ne-Yo a The Weeknd, da Chris Brown a Jason Derulo, che non si ispiri apertamente al pop visionario e senza confini di Jackson. Tutti cantanti di talento, alcuni assai dotati anche nel ballo, ma privi, però, della creatività, del carisma, della magia e dell'incessante capacità di rinnovamento del Re del Pop. Jackson ha trasformato la musica da prodotto suonato a prodotto suonato e recitato insieme, facendo incontrare Hollywood con la Motown. Prima di lui i video musicali non avevano grande importanza e hanno smessa di averla dopo la sua morte. I suoi memorabili passi, dal moonwalk al circle glide, dal sidewalk all’antigravity, dall’airwalk al robot, vengono oggi insegnati nelle scuole di danza moderna e influenzano, con la loro grazia, perfino la danza classica. La moda continua ciclicamente a ispirarsi ai suoi look: dai pantaloni sopra alla caviglia al cappello Fedora nero, dal guanto ricoperto di strass alle vistose divise militari, dal giubbotto rosso di Thriller alle borchie di Bad, fino agli amati mocassini neri e ai Ray Ban specchiati da aviatore. Mentre oggi dominano le classifiche artisti rassicuranti come Ed Sheeran e Adele, che potrebbero tranquillamente essere i nostri vicini di casa, nel suo periodo d'oro Michael Jackson era unico e inarrivabile: sembrava provenire da un'altra galassia. Un alieno benevolo e imprevedibile, che aveva la grazia di Stevie Wonder, l’energia di James Brown e il carisma di Muhammad Ali. Nei suoi album si alternano con naturalezza funk, r&b, soul, rock, jazz, disco, musical, gospel, musica latinoamericana, hip hop, elettronica e industrial. Le sue canzoni, che mixavano i generi, scalavano le classifiche e conquistavano il mondo, erano porte d'accesso alla migliore musica. C’è uno struggimento e una verità nella voce di Michael Jackson (dotato di un'estensione di tre ottave e mezzo) che la rendono unica, riconoscibile tra mille altre e inimitabile. La sua voce, se isolata dagli altri strumenti, contiene già in sé la melodia, l'armonia, la ritmica e l'arrangiamento. Mentre grandi artisti come Bob Dylan e Bruce Springsteen hanno raccontato con verità e con poesia ciò che accadeva nel mondo, Jackson si è spinto oltre: ha creato un nuovo mondo, accessibile e misterioso, solare e cupo al tempo stesso, in cui i confini del reale sono notevolmente dilatati. La sua discografia è attraversata da alcuni temi ricorrenti come la pace, la speranza, la seduzione, l'amore, l'inganno, la lontananza, la paura, il desiderio di essere altrove, le ingiustizie sociali, la difesa della natura e la fratellanza tra i popoli. L'intero messaggio della sua opera era semplice, ma non facile da applicare: fare tutto per amore. Un amore che, ancora oggi, viene tenuto in vita in tutto il mondo dai suoi numerosi fan.

Tutto Michael Jackson in un libro: il mito, la musica, le controversie. A dieci anni dalla morte del Re del Pop, il libro di Gabriele Antonucci racconta la vera storia dell'uomo e dell'artista. Gianni Poglio il 25 giugno 2019 su Panorama. Sono passati dieci anni dal 25 giugno 2009, quando il mondo si è fermato per piangere l’improvvisa scomparsa di Michael Jackson, l’unico artista in grado di eccellere nel canto quanto nel ballo. La definizione di Re del Pop, per Michael Jackson, suona un po' riduttiva e semplicistica, vista l'enorme influenza che il cantante ha avuto e che ha tuttora anche in altri generi musicali, oltre che nel modo di concepire i video e gli show. Impareggiabili la sua genialità nel costruire un vero e proprio mondo intorno a ogni canzone, la sua capacità di creare brani senza tempo come Man in the mirror, Thriller e Billie Jean, di innovare i suoni, di creare dal nulla un immaginario che è entrato profondamente nella cultura pop. In occasione dei 10 ani della sua scomparsa, la Hoepli ha pubblicato il libro Michael Jackson. La musica, il messaggio, l'eredità artistica, scritto da Gabriele Antonucci, che ha dedicato diversi articoli al cantante. Il libro è divisi in 10 capitoli, corredati da numerose foto a colori, 32 box di approfondimento su singoli argomenti, cronologia e citazioni. Due aspetti che lo differenziano da altri volumi, spesso troppo prolissi, sono proprio quelli musicali e quelli del messaggio insito nella sua musica (si pensi all’attualità, nel 2019, di Black or whiteo di Earth Song), in luogo di una narrazione troppo spesso legata agli aspetti scandalistici, processuali e di gossip. La musica, il messaggio, l’eredità artistica parte dall'infanzia povera di Michael a Gary, dalla scoperta del suo talento che lo rende, a soli otto anni, un bambino prodigio, dai primi concerti con i Jackson Five fino al successo mondiale con la Motown, che fa scoppiare la "Jacksonmania". La rottura con l’etichetta e il passaggio alla Epic portano a un nuovo gruppo, i The Jacksons, e a un nuovo stile musicale, più funk e maturo. L'incontro magico con Quincy Jones lo conduce al "trionfo a metà" di Off The Wall, ma il riscatto è dietro l'angolo con i successi eccezionali di Thriller, l'album più venduto di sempre, e di Bad, caratterizzato da un sound più rock e audace. Jackson diventa il Re del Pop, rivoluziona il videoclip, scrive l'inno benefico We Are The World, partecipa ai film Captain Eo e Moonwalker e si rifugia nell'oasi dorata di Neverland. Gli anni Novanta rivelano un cambiamento di stile con il rivoluzionario album Dangerous. Arrivano anche i primi problemi legali con Jordan Chandler, l’attività benefica della fondazione Heal The World, il matrimonio con la figlia di Elvis Presley e con l'infermiera Debbie Rowe, l'album-kolossal HIStory, lo scontro con i media e la gioia dei figli. Gli anni Duemila sono segnati dall'insuccesso di Invincible e dal doloroso processo Arvizo, dove viene scagionato da tutti i capi di accusa. Il 2009 avrebbe dovuto segnare il suo ritorno in grande stile con il tour di This Is It a Londra, ma la morte improvvisa ha messo la parola fine alla sua straordinaria avventura umana e artistica. Divulgativo e insieme rigoroso, Michael Jackson. La musica, il messaggio, l'eredità artistica offre una visione articolata dell'artista e dell'uomo, chiarendo gli aspetti controversi, analizzando la discografia, raccontando aneddoti poco conosciuti e i rapporti con altri big della canzone come, ad esempio, Madonna, Prince e Paul McCartney.

Spunta deposizione Marlon Brando: mi convinsi pedofilia Jacko. Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Corriere.it. Una inedita testimonianza giurata rilasciata nel 1994 da Marlon Brando sembra confermare che Michael Jackson fosse un pedofilo. Lo rivela il «Los Angeles Times», scrivendo che il documento verrà rivelato nell’episodio finale di un podcast realizzato da Brandon Ogbor, «Telephone Stories: The Trials of Michael Jackson», in programma da domenica sul sito Luminary. Brando parlò volontariamente e candidamente con i magistrati di Jackson nel 1994, quando la popstar era sotto indagine per presunte molestie ad un ragazzino. Fu convocato dalla procura di Los Angeles, che era venuta a sapere della «relazione speciale» tra il cantante e la star del cinema, il cui figlio Miko faceva da autista a Jackson. Pare che quest’ultimo insegnasse a danzare a Brando, che in cambio gli dava lezioni di recitazione. Nella testimonianza l’attore rivela dettagli di una cena avuta con la popstar nel lussuoso Neverland Ranch, confessando agli inquirenti che all’inizio aveva pensato che Jackson fosse gay ma che in seguito era «molto ragionevole concludere che poteva aver avuto qualcosa a che fare con quei ragazzini». Ogbor ha verificato l’autenticità della deposizione con Lauren Weis, uno dei due procuratori che indagarono sul cantante. «Se Brando fosse vivo probabilmente vorrebbe che fosse cancellato», ha commentato. Durante la cena Brando si spinge nel mondo intimo del cantante, arrivando a chiedergli del suo rapporto con il padre, delle sue inclinazioni sessuali, dei suoi interessi per quei tanti giovani che l’attore incrocia nei sentieri di Neverland. «Stavamo parlando — si legge nella testimonianza—- delle emozioni umane e di dove esse arrivino. Gli chiesi se fosse ancora vergine e cominciò a sghignazzare e ad arrossire, mi disse solo: “oh, Brando”. E allora insistetti: “Dunque, come fai con il sesso?”; arrossì e si imbarazzò moltissimo». Brando racconta di aver chiesto a Jackson se si masturbasse e con gli investigatori aggiunge che «Michael vive in un mondo completamente diverso, non vive emozioni reali». Aggiunge l’attore: «Mi ha detto che odia suo padre ed è scoppiato in lacrime. Per questo non ho insistito, ho proseguito in punta di piedi, ho capito che viveva una vita difficile, nell’isola che non c’è, impossibile per un 35enne, specialmente se ha a che fare con lo show business». Brando chiede poi chi siano i suoi amici e Jacko risponde «Non conosco e non mi piace nessuno della mia età». «Perché?» gli chiede Brando. «Non lo so, non lo so» risponde Jacko piangendo forte. È a questo punto che Brando confida ai detective che originariamente era convinto che Michael fosse gay ma che dopo quella cena si persuase che poteva avere avuto qualcosa a che fare con quei ragazzini che si vedevano a Neverland. Jackson, che morì nel 2009 e oggi avrebbe avuto 61 anni, è stato indagato per due volte per molestie contro i minori. La prima volta non è stato processato; la seconda, nel 2005, andò a processo ma venne prosciolto da tutte le accuse.

Michael Jackson, quella conversazione con Brando. L'attore: "Una sera mi convinsi della sua pedofilia". In una testimonianza del 1994, il divo riferì agli investigatori della confessione raccolta durante una cena al Ranch di Neverland. Domenica verrà trasmesso il podcast con il documento coperto da giuramento. Carlo Moretti il 29 agosto 2019 su La Repubblica. Sono i primi anni Novanta e la scena è questa: ci sono Marlon Brando e Michael Jackson intorno allo stesso tavolo per una cena a Neverland, la magione fiabesca della popstar nei dintorni di Santa Barbara in California. Come fanno da qualche tempo a questa parte, i due hanno trascorso il pomeriggio a scambiarsi dei segreti: Brando ha promesso di insegnare a Jackson a recitare, l’altro gli rende il favore insegnandogli a ballare e ce la sta mettendo tutta, nonostante la mole dell’attore. I due sono amici, tra l’altro il figlio di Brando, Miko, lavora già come autista per Jackson ma questo "gioco" di insegnarsi i rispettivi mestieri li ha resi ancora più intimi. A cena Brando si spinge oltre, arriva a chiedere a Jackson del suo rapporto con il padre, delle sue inclinazioni sessuali, dei suoi interessi per quei tanti giovani che l’attore incrocia nei sentieri di Neverland. “Mi ero da tempo convinto che Michael fosse gay ma quella sera ebbi la netta impressione che egli aveva davvero a che fare con quella storia dei ragazzini”, dirà Brando. La rivelazione è contenuta in una testimonianza giurata rilasciata nel 1994, anno in cui l’attore venne contattato dai magistrati americani che indagavano sulle accuse di pedofilia contro Jackson. In effetti, il procuratore distrettuale della contea di Los Angeles aveva saputo del “rapporto speciale” tra il grande cantante e l’icona cinematografica. Ora la storia viene raccontata con tutti i suoi dettagli nella puntata finale del podcast Telephone Stories: The Trials of Michael Jackson, in programma da domenica prossima sul sito Luminary. Brandon Ogborn, uno dei produttori del podcast è venuto in possesso di una trascrizione della testimonianza giurata di Brando che porta la data del 14 marzo 1994 e ne ha verificato la veridicità con uno dei due giudici istruttori di allora, Lauren Weis, la quale ha indagato su Jackson nei suoi 23 anni presso l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Los Angeles e che oggi è un giudice della Contea. “Ho subito capito che quel documento era una vera e propria patata bollente” ha raccontato mercoledì scorso Ogborn in un’intervista al quotidiano Times di Londra. “Fosse vivo, Brando probabilmente vorrebbe che fosse cancellato. Brando del resto era completamente diverso rispetto a chiunque altro abbia avuto a che fare con l’inchiesta su Jackson”, ha spiegato Ogborn. “Era un attore famoso e ricco oltre ogni misura. Diversamente da tutti gli altri che in questi anni  hanno parlato apertamente contro Jackson, Brando non aveva nulla da chiedere o pretendere dalla popstar, e per questo offre all’ufficio del procuratore distrettuale informazioni dall’interno di quella realtà che non sono mai venute alla luce. Era anche a suo modo ‘strano’, proprio come lo era Michael Jackson. Era uno strano che poteva capire come nessun altro un altro tipo strano in un mondo strano”. Dunque Brando, che morì nel 2004, dieci anni prima aveva raccontato di quella cena al Ranch di Neverland a chi indagava su Michael Jackson: “Stavamo parlando delle emozioni umane e di dove esse arrivino. Gli chiesi se fosse ancora vergine e cominciò a sghignazzare e ad arrossire, mi disse solo: ‘Brando, oh, Brando’. E allora insistetti: ‘Dunque, come fai con il sesso?’; arrossì e si imbarazzò moltissimo”. Nella testimonianza Brando dice di aver chiesto a Jackson se si masturbasse e con gli investigatori aggiunse che “Michael vive in un mondo completamente diverso, e non vive emozioni reali tanto che questo rende molto problematico non solo il lavoro sulla recitazione ma anche la normale vita quotidiana”. Aggiunge Brando: “Mi ha detto che odia suo padre ed è scoppiato in lacrime. Per questo non ho insistito, ho proseguito in punta di piedi, ho capito che vive una vita difficile, impossibile per un 35enne, specialmente se ha a che fare con lo show business”. Brando chiede chi siano i suoi amici, e Jacko risponde “Non ne ho, non conosco e non mi piace nessuno della mia età’. Perché? Gli chiede Brando: ‘Non lo so, non lo so’ risponde Jacko piangendo sempre più forte. E’ a questo punto che Brando dice agli investigatori che originariamente era convinto che Michael fosse gay ma che dopo quella cena “era ormai ragionevole concludere che Michael poteva avere avuto qualcosa con i tanti ragazzini che si vedevano a Neverland”. Jackson, che morì nel 2009 e oggi avrebbe avuto 61 anni, è stato indagato per due volte per molestie contro i minori. La prima volta non è stato processato; la seconda, nel 2005, andò a processo ma venne prosciolto da tutte le accuse.

Michael Jackson: il genio il successo, la caduta. Il 25 giugno di dieci anni fa moriva la celebre popstar. Oggi la sua musica è offuscata dalle accuse di pedofilia, accuse da cui però non si può più difendere nel processo che finì nel 2005 fu assolto. Angela Azzaro il 25 giugno 2019 su Il Dubbio. Forse nessun’altra figura del mondo dello spettacolo, presenta così tante contraddizioni come Michael Jackson. Un artista a tutto tondo, un genio della musica, una pop star di successo, un ballerino che ha rivoluzionato il ritmo e i movimenti, da una parte. Dall’altra l’uomo, anzi l’eterno bambino, il nero che diventa bianco, la rockstar chiusa nella sua torre d’avorio, le accuse di pedofilia. Sbagliato provare a tenere tutto insieme, tracciare un’unica linea di una vita così complessa, fino all’ultimo giorno, quando dieci anni fa moriva per un’overdose di medicinali, quegli anti dolorifici di cui abusava e senza i quali non poteva stare. Nato a Gary, in Indiana, nel 1958 è il settimo di dieci figli di una famiglia non qualsiasi. Cinque di loro, compreso Michael, danno vita ai The Jackson 5: un successo immediato, che mette in evidenza il suo ruolo, le sue doti canore e di movimento. In quegli anni i fratelli Jackson sono sotto la guida di un padre padrone che li vede prima di tutto come fonte di guadagno. Un padre che verrà spesso citato per spiegare i problemi del suo figlio più geniale e controverso. L’incontro con Quincy Jones è l’inizio della carriera da solista che lo ha reso una delle popstar più conosciute e amate al mondo. Seguono i dischi che hanno fatto la storia della musica mondiale. Nel 1979 incide Off the wall che dà vita a ben 4 hit di successo. Michael non è soddisfatto pienamente, spera di aver un maggior riscontro. E in seguito lo avrà. Un successo che vale ancora oggi. Nel 1982 infatti esce Thriller, l’album dei record: è il disco che ha venduto di più nella storia della musica, 100 milioni di copie in tutto il mondo. Ma non è solo sound. Il video musicale di Thriller, per la regia di John Landis, della durata di 13 minuti e mezzo, è un caposaldo della storia dei video, una sorta di classico ancora oggi imprescindibile. Lo stesso si può dire degli altri suoi album come Bad e Dangerous. Nel 1984 gira insieme ai suoi fratelli lo spot per la Pepsi cola e durante la simulazione di un concerto i suoi capelli prendono fuoco. Per anni Michael Jackson si deve sottoporre ad interventi al cuoio capelluto a causa dell’incidente. Ma non saranno le uniche operazioni, gli unici interventi che lui farà sul suo corpo. Da nero si fa bianco a causa dirà – della vitiligine, da uomo ridiventa bambino, da maschio diventa una figura femminea. Ridisegna il suo corpo in maniera ossessiva, quasi volesse diventare uno degli zombie di Thriller. In quella ossessione c’è anche una grande forza di volontà: non volersi adattare alle forme che il destino gli ha concesso, il volersi cambiare, il voler diventare ciò che desidera. Ma nessuno lo perdona. I bianchi perché lui in fondo resta nero. Gli afroamericani perché si sentono traditi. I fan negli anni continuano ad amarlo per le sue canzoni, ma la sua mutazione non verrà mai capita. E’ una strada che lo porta verso l’abuso degli anti dolorifici e a una vita di solitudine, alla fine verso un decesso giunto davvero troppo presto. Il 25 giugno del 2009 Michael Jackson, a soli 51 anni, muore per un infarto provocato dall’anestetico propofol. Nel 1993 arriva la prima accusa di pedofilia. Non sarà la sola. Jackson verrà anche arrestato ma il processo che si chiude nel 2005 stabilisce la sua innocenza. Alcuni casi vengono chiusi prima con un accordo economico. La popstar – lo racconta lui stesso ama i bambini perché si sente come loro. Dopo la morte, il documentario Leaving Neverland ha riaperto il caso e la discussione. Neverland era la sua casa- parcogiochi ora in vendita, dove ospitava diversi minorenni. Alcuni di loro hanno partecipato al film raccontando la loro esperienza di abusi da parte della rockstar. Ma lui non c’è più per ribattere e Leaving Neverland non dà voce né alla difesa né a una ricostruzione che si articoli anche nella ricerca di prove. È indubbiamente una vicenda intricata, in cui è difficile stabilire cosa sia veramente accaduto. Ma forse proprio in questi casi la cautela da parte del sistema mediatico dovrebbe essere la prima regola. Così non è. Il processo mediatico azzanna tutto, ama le certezze e non i dubbi, preferisce dare ragione al proprio pubblico che davanti a questa storia è tendenzialmente colpevolista. Le paure di chi legge, l’angoscia che si prova davanti al racconto dei bambini che frequentarono Jackson sono più che comprensibili, ma ciò non toglie che chi fa informazione deve avere il compito di verificare, di non creare mostri. Per Jackson, una della più grandi popstar mai esistite, forse però è ormai troppo tardi.

"MICHAEL È INNOCENTE FINO A PROVA CONTRARIA”. Da Tgcom24  l'8 maggio 2019. Madonna rompe il silenzio sulle accuse di abusi sessuali contro Michael Jackson in una lunga intervista a "British Vogue" difende il cantante dicendo: "E' innocente fino a prova contraria". L'ex Material Girl, che sul magazine inglese, ha parlato del suo album di prossima uscita "Madame X", ha confessato però di non aver ancora visto il controverso documentario "Leaving Neverland", costruito sulle accuse di Wade Robson e James Safechuck, che affermano di essere stati abusati dalla popstar quando erano piccoli. "Non ho una mentalità da linciaggio, quindi nella mia mente, le persone restano innocenti fino a prova contraria", ha detto nell'intervista: "Ho avuto mille accuse rivolte contro di me, che non sono vere. Quindi il mio atteggiamento quando le persone mi dicono cose su altre persone è: "Puoi dimostrarlo?" Alla domanda su cosa potrebbe essere interpretato come prova della colpevolezza di Jackson, Madonna rispande: "Non lo so, non ho visto il film. Ma immagino che debbano essere le persone a raccontare gli eventi reali, poi però, naturalmente, a volte le persone mentono. Mi chiederei cosa c'è dietro alle affermazioni? Denaro? Estorsione? Prenderei in considerazione tutto questo...". Il nuovo album della cantante uscirà il 14 giugno mentre il prossimo 18 maggio Madonna sarà ospite nella serata finale dell'Eurovision Song Contest a Tel Aviv.

I Simpson cancellano Michael Jackson dopo il documentario che lo accusa di abusi sessuali, scrive l'8 marzo 2019 Repubblica Tv. Dopo la messa in onda del documentario HBO ''Leaving Neverland'', in cui vengono approfondite le accuse di presunta pedofilia nei confronti di Michael Jackson, il produttore esecutivo dei Simpson ha deciso di cancellare dalla programmazione e dai cataloghi l'episodio in cui l'ex popstar prestava la voce a uno dei personaggi. Nella prima puntata della terza stagione del cartoon cult, dal titolo originale Stark Raving Dad, Homer incontra in un manicomio un uomo che crede di essere Michael Jackson. Il vero Jackson, scomparso nel 2009, aveva doppiato l'intero episodio, trasmesso per la prima volta il 19 settembre 1991.

Simpson, rimosso l’episodio doppiato da Michael Jackson (per le accuse di presunta pedofilia). Pubblicato sabato, 09 marzo 2019 da Corriere.it. Anche i Simpson rompono con Michael Jackson. Il produttore esecutivo del cartone animato, James L. Brooks, ha detto al Wall Street Journal che l’episodio della terza stagione Stark Raving Dad, sarà eliminato dalla programmazione, dai servizi di streaming come Every Simpson Ever della Fox e da tutti i futuri cofanetti di dvd. La decisione è legata al documentario prodotto dalla HBO, «Leaving Neverland», diretto da Dan Reed, che ripercorre la storia di James Safechuck e Wade Robson, che all’età di 7 e 10 anni trascorsero diverso tempo presso la villa del cantante morto nel 2009, sostenendo di essere stati vittima di abusi sessuali. Il documentario riprende le accuse di pedofilia di cui Jackson si era già dovuto difendere, quando fu processato e poi assolto nel 2005. Nell’episodio, Homer viene rinchiuso in un istituto di igiene mentale a causa di uno scherzo del figlio Bart. Qui incontra un uomo di nome Leon Kompowsky che è convinto di essere davvero Michael Jackson. Il cantante — fan della serie animata — si era offerto di doppiare un personaggio con lo pseudonimo di John Jay Smith: l’episodio fu trasmesso per la prima volta il 19 settembre del 1991. «Sono contrario ai roghi di libri di qualsiasi tipo», ha chiarito Brooks, «ma in questo caso si parla del nostro libro, e ci è permesso di strappare un capitolo». La famiglia Jackson aveva tentato inutilmente di bloccare la pubblicazione del documentario, intentando alla HBO una causa da 100 milioni di dollari. Dopo l’uscita della pellicola, diverse radio avevano già deciso di non trasmettere più le canzoni del Re del Pop. E ancora, una sua statua è stata rimossa dal National Football Museum della Gran Bretagna. «Stiamo calmi». Così Paris Jackson reagisce alla bufera che si è scatenata sul padre. L’attrice e modella, figlia della popstar, non ha rilasciato nessuna dichiarazione sul film, ma ha comunque voluto dire la sua sui social. A tornare sulle accuse a Jackson è anche Corey Feldman, attore di Stand By Me, I Goonies e Gremlins che da piccolo frequentò molto da vicino la popstar e il suo personale parco giochi, la Neverland Ranch. «Diventa impossibile rimanere impassibili. Tra me e Jackson non è mai successo niente di sconveniente. Ma non sono qui per difenderlo. Non posso difendere qualcuno che è stato accusato di orrendi crimini. Allo stesso tempo però non posso giudicarlo, perché non ha fatto quelle cose a me. Il mio ruolo non è né quello di accusatore né di difensore, il mio compito è quello di focalizzare l’attenzione su quello che è importante, ovvero riformare la prescrizione in tutti gli Stati».

La musica di Michael Jackson sparita da alcune radio. Ancora problemi in vista per Michael Jackson dopo il documentario sulla sua vita: ora la musica del re del pop è bandita dalle radio, scrive Carlo Lanna, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Il documentario che alza il velo sulle accuse di pedofilia ai danni di Michael Jackson ha sollevato un vero e proprio un polverone mediatico. Non sono bastati gli appelli della famiglia a boicottare la trasmissione, per ora solo in America, di “Leaving Neverland”. Infatti come è stato riportato dal Daily Mail, la situazione sta sfuggendo di mano. La memoria di Michael Jackson è dilaniata proprio perché, secondo le ultime informazioni, alcune stazioni radiofoniche di Australia, Canada e Nuova Zelanda, avrebbero deciso di bandire la sue canzoni, come atto di dovere verso il pubblico. “Non stiamo decidendo se Michael Jackson è colpevole o no, ma ci stiamo assicurando che le nostre stazioni radio, riproducano la musica che la gente vuole ascoltare”, afferma uno dei dirigenti del network neozelandese. E nonostante in passato lo stesso artista è stato assolto dalle accuse, il documentario ha aperto una ferita che non è stata mai risanata. Oltre alle stazioni radio, Michael Jackson è stato cancellato da una puntata dei Simpson e la sua statua è stata rimossa dal National Footbal Museum di Manchester. Intanto i legali della famiglia hanno chiesto un risarcimento di 100 milioni di dollari alla HBO per aver violato un accordo confidenziale tra l’artista e Network.

Michael Jackson, boom di vendite: il documentario arriva in Italia. Michael Jackson sta registrando un boom di vendite dopo il rilascio di "Leaving Neverland": il tanto discusso documentario arriva anche in Italia, scrive Elisabetta Esposito, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Sempre più persone acquistano e ascoltano la musica di Michael Jackson. Il fenomeno che segue il rilascio del documentario “Leaving Neverland” - in cui due uomini accusano la popstar di molestie e abusi, avvenuti quando questi erano solo dei bambini - è quantomeno insolito. Da un lato, alcune radio hanno ritirato la musica di Jacko dalle loro rotazioni, mentre è stato eliminato un episodio de “I Simpson”, in cui il cantante presta la voce a un personaggio. Dall’altro, sono aumentate le vendite e gli ascolti streaming dei brani dell’artista. Come riporta Fortune, le vendite di brani e album sono aumentate del 10%, stando ai dati di Nielsen Music, e riguardano non solo il lavoro di Michael Jackson come solista, ma anche quello con i Jackson 5. Sui servizi streaming si è registrato un aumento del 6% degli ascolti per un totale di 19,7 milioni di visualizzazioni audio e video tra il 3 e il 5 marzo. Dopo la messa in onda negli Stati Uniti e nel Regno Unito di “Leaving Neverland”, invece, alcune radio hanno ridotto del 13% la trasmissione dei brani del re del pop. Mentre la riduzione della rotazione in radio potrebbe essere direttamente collegata ai contenuti negativi presenti nel documentario, non si conoscono invece le ragioni della crescita per vendite e ascolti. Forse l’onnipresenza di Jackson tra notizie e dibattiti social può aver stimolato nei giovani la curiosità verso questo artista, scomparso poco meno di 10 anni fa, mentre fra le generazioni meno recenti potrebbe aver generato un effetto nostalgia, con il riascolto delle canzoni del cuore del passato. Intanto, il documentario in due parti arriva sulla televisione italiana e in chiaro. “Leaving Neverland” sarà infatti trasmesso in prima serata su Nove il 19 e 20 marzo.

Dopo il documentario sul padre, Blanket Jackson non dice più una parola. Blanket Jackson, il figlio minore di Michael Jackson, non dice più una parola dopo la messa in onda del documentario "Leaving Neverland". Passa le giornate chiuso in camera sua, senza andare a scuola per evitare di essere vittima di bullismo a causa delle gravi accuse di pedofilia mosse contro il padre, scrive Sandra Rondini, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Il figlio più piccolo di Michael Jackson sta soffrendo molto a causa delle accuse di pedofilia avanzate nei confronti del padre nel recente documentario “Leaving Neverland” e da ragazzino allegro e solare è precipitato in una forma di depressione che preoccupa molto i suoi due fratelli, Prince Michael I e Paris, nonché i cugini. In particolare Taj Jackson che nel corso del programma televisivo britannico “BBC 2” condotto da Victoria Derbyshire ha rivelato che sono giorni che “Blanket si è completamente ammutolito e non dice più una parola”. L’ultimo dei tre figli del re del pop, che ora ha diciassette anni, passerebbe le sue giornate chiuso in stanza, da solo. “In realtà è il ragazzo più loquace della scuola. Ora non dice più una parola. Siamo tutti molto preoccupati per lui”, ha spiegato Taj. Blanket, di cui, a differenza dei due fratelli maggiori, non è mai stato reso noto il nome della madre biologica, vive attualmente a Calabasas, in California dove frequenta la Buckley School a Sherman Oaks, insieme ai suoi due fratellastri. Il suo vero nome è Prince Michael Jackson II, ma in casa è sempre stato chiamato Blanket e a chi chiedeva a suo padre il perché di questo soprannome che in inglese significa “coperta”, Michael spiegava che per lui rendeva bene l’idea di “coprire con amore suo figlio”, nel senso di proteggerlo. Dal 2015, stando all’annuario scolastico, si è scoperto che Prince Michael Jackson II non vuole più essere chiamato Blanket, ma Bigi Jackson perché a causa del nomignolo affibbiatogli dal padre tutti lo prendevano in giro. Ma di un bullismo ben più grave il ragazzino ora è vittima a scuola e sui social a causa delle gravi accuse mosse al padre nel documentario trasmesso dalla HBO. Blanket credeva che l’incubo delle accuse di pedofilia fosse finito una volta per tutte con la morte del padre nel 2013, invece adesso è tornato come uno tsunami stravolgendo la sua vita, mentre i suoi due fratelli, dalle personalità più forti e decise, stanno reagendo in modo opposto, combattendo per difendere la memoria del padre. In particolare Paris che ha fatto diverse dichiarazioni alla stampa accusando gli autori e i protagonisti del documentario di essere solo degli avvoltoi a caccia di soldi perché suo padre non è mai stato un pedofilo. E questo lei lo sa, come lo sanno i suoi fratelli, perché ci viveva insieme nel ranch di Neverland.

"Paris e Prince non sono figli di Michael Jackson": la rivelazione dell'ex moglie. Debbie Rowe, seconda moglie di Michael Jackson, ha rivelato di essere ricorsa all'inseminazione artificiale per avere Paris e Prince: i due, quindi, non sarebbero figli naturali del cantante, scrive Luana Rosato, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. In seguito all’uscita del documentario su Michael Jackson, "Leaving Neverland", la vita della pop star continua a destare scalpore. A fare una delle ultime rivelazioni choc è stata Debbie Rowe, seconda moglie del cantante. A differenza di quanto sempre raccontato, pare che Michael Jackson non sia il padre biologico di Paris e Prince. In una intervista rilasciata a The Sun, infatti, la Rowe ha spiegato di essere ricorsa all’inseminazione artificiale per permettere al cantante di realizzare il desiderio di essere padre. “Michael era un uomo divorziato, solo e voleva avere figli – ha spiegato la seconda moglie di Jackson - . Ho offerto la mia pancia, è stato un regalo, è stato qualcosa che ho fatto per renderlo felice". Una dichiarazione che ha destato molto scalpore e che ha creato un nuovo mistero attorno a quello che ancora oggi viene definito il re del pop. "Proprio come le fattrici sono fecondate in modo che si riproducano, è stato molto tecnico – ha continuato la Rowe, spiegando di aver lasciato a Michael Jackson, poi, la cura dei piccoli - . Michael ha fatto tutto, non ho cercato di essere una madre, non ho cambiato i pannolini, non mi sono alzata nel cuore della notte, anche se ero lì”. Il matrimonio tra Debbie Rowe e Michael Jackson venne celebrato in Australia nel 1996 e dopo tre mesi dalle nozze nacque Prince, mentre l’anno dopo venne al mondo Paris. I due, poi, divorziarono nel 1999 e i bambini vennero affidati al cantante. Dopo la sua morte, però, la Rowe intraprese una battaglia legale per l’affidamento dei figli e, ad oggi, i rapporti tra la madre e Prince e Paris non sono ottimi.

La maledizione dei Jackson: le accuse a Michael e il dolore di Paris. Il documentario Hbo sulle presunte molestie sessuali ai piccoli fan, i tentativi di suicidio della figlia: la vita del cantante pop torna sotto i riflettori a causa di nuove rivelazioni, scrive Matteo Persivale il 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. La breve infelicissima vita di Paris Jackson poteva finire in un istante, con il taglio di una lama sui polsi pallidi, se una chiamata al pronto intervento e i medici dell’ospedale non l’avessero salvata anche questa volta, libera di tornare a casa senza neanche la voglia di evitare l’assedio inevitabile dei paparazzi, lanciando verso il mondo due brevi tweet carichi di disgusto (e qualche parolaccia) per dare dei bugiardi, prevedibilmente, a quelli del sito Tmz che avevano fatto lo scoop del suo ricovero per tentato suicidio.

Salvata per miracolo. Suo padre Michael morì in una notte d’estate di 10 anni fa in una villa da 100 mila dollari al mese nei pressi di Sunset Boulevard, a Los Angeles, stroncato dall’iniezione — lo stesso farmaco dell’anestesia totale per gli interventi chirurgici — che il suo medico ora radiato e incarcerato usava per farlo addormentare. Lei ha cercato di seguirlo venerdì mattina, poco dopo l’alba, tagliandosi le vene in una casa sempre a Los Angeles ma meno faraonica di quella del padre, non da re del pop ma da modella (agenzia Img) tatuata e rockettara con rendita milionaria. Michael Jackson morto nel 2009; sua figlia Paris ventenne, ex tossica, ex alcolista, arrivata al tentativo di suicidio numero «chissà» visto che lei per prima dichiarò a Rolling Stone che dal 2013 aveva cercato di farla finita «many times», tante volte.

Le accuse di pedofilia. «Mi appare in sogno, è sempre con me» dice spesso di suo padre, amatissimo al di là di ogni sua bizzarria in vita e difeso anche adesso dalle accuse che non sono finite neppure dopo la sua morte senza senso (il propofol da sala operatoria invece dei normali sonniferi da farmacia). A una giovane donna che fin da bambina ha avuto problemi emotivi di ogni tipo non può aver fatto bene il ritorno di suo padre sulle prime pagine dei giornali, nei «trending topics» di Twitter: il documentario Leaving Neverland nel quale Wade Robson e Jimmy Safechuck, due dei numerosi bambini che dagli anni 80 in poi seguivano Jackson in tournée e dormivano spesso con lui, lo accusano di averli ripetutamente molestati, ricattati, plagiati e violentati.

Vicende controverse. Il film, in due puntate — in Italia andrà in onda su Nove, domani e mercoledì sera — è stato prodotto dalla Hbo, garanzia di serietà. Wade e Jimmy, quando cominciarono a frequentare Jackson, avevano 7 e 10 anni. Raccontano storie terrificanti, smentite dalla famiglia Jackson che ha sottolineato, in un raro comunicato perché generalmente non commentano nulla, come i due uomini abbiano in passato deposto sotto giuramento due volte nei vari procedimenti legali (civili e penali) contro il cantante, negando gli abusi (uno dei due aveva 14 anni al momento del giuramento).

Pugno allo stomaco. Mentivano allora, per difendere il loro idolo (che manteneva le loro famiglie)? Mentono adesso (Hbo nega che siano stati pagati per apparire nel film)? Ogni spettatore può farsi un’idea personale, al netto della certezza che in vita Jackson non è mai stato condannato penalmente per pedofilia, ha pagato però cifre enormi a vari accusatori (dal 1993 in avanti) in accordi extragiudiziali. Guardare il documentario, seguire i racconti particolareggiati di quello che sarebbe successo dietro la porta della camera da letto di Jackson e nella soffitta del suo ranch, Neverland, non è per tutti — colpisce, letteralmente, allo stomaco.

Soldi e autodistruzione. Paris ha anche una madre: Debbie Rowe, infermiera del dermatologo di Jackson, nel 2001 vendette a Michael quelli che di fatto erano i suoi diritti genitoriali. Paris aveva tre anni e suo fratello Prince quattro. Anni dopo cercò di far annullare la decisione del giudice, senza successo. Dopo la morte di Jackson fece causa alla nonna paterna per poter vedere i bambini, e ottenne visite per un totale di otto ore ogni 45 giorni. Peter Pan crocifisso dai calunniatori anche post mortem o mostro, ormai non c’è alternativa su Jackson che dopoLeaving Neverland rischia il ritiro di molte onorificenze e premi ricevuti. A Paris ha lasciato 100 milioni di dollari, una rendita di 8 all’anno, un cognome impossibile e una famiglia incapace di salvare i suoi membri dall’autodistruzione.

Paris Jackson, una vita all'ombra (ossessiva) del padre Michael. Modella, cantante e attrice, ha sempre difeso Michael dalle accuse di pedofilia. Ma la gestione della parentela non è stata facile, tra tentati suicidi e sparate ad effetto, scrive Alessio Lana il 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Una vita certo non facile quella di Paris Jackson, aspirante attrice e modella ma soprattutto figlia di quel re del Pop che anche da morto non le dà requie. È di sabato la notizia di un tentato suicidio della ragazza: lei nega tutto ma il sito Tmz, generalmente molto informato sulle star, ne è convinto e prova a dare anche un motivo. La ragazza non avrebbe retto all'uscita di Leaving Neverland, documentario che riporta in auge le accuse di pedofilie mosse contro Michael Jackson nel 2009.

Figlia di una sconosciuta infermiera. Bellissima ragazza dai lunghi capelli neri che ormai tinge costantemente di colore platino, Paris Jackson è nata nel 1998 dalla relazione del re del Pop con Debbie Rowe, una donna sconosciuta ai media, un'infermiera, l'assistente del dermatologo del cantante, una figura che ha acceso un'altra luce di mistero sulla già fosca vita di Jacko. Paris, che deve il nome alla città in cui fu concepita, è la seconda figlia di Michael. È cresciuta al Neverland ranch, il parco giochi di Jackson in cui, secondo l'accusa, l'uomo avrebbe attirato bambini per abusarne. Ad ogni modo, fin dalla nascita la vita di Paris non è facile. Ricchissima, ha avuto come madrina Elizabeth Taylor, da sempre amica del cantante, mentre il padrino è Macaulay Culkin, il bambino prodigio di Mamma, ho perso l'aereo che compare anche nel video di Black or white, ma è la sua carnagione ad attirare l'attenzione dei media. Paris è bianchissima, proprio come la madre, ma del padre sembra avere poco o nulla. Fin da quando era piccola i giornali scandalistici ne hanno analizzato i tratti somatici come fosse una statua a un museo tra chi trovava che i suoi occhi blu erano identici a quelli del nonno Joe Jackson e chi diceva che non era possibile che la figlia di un afroamericano non fosse almeno un po' mulatta.

I precedenti tentativi di suicidio. Qualcuno la ricorderà quando era piccolissima: Jackson era solita portarla a spasso con una grande mascherina che ne copriva il viso. Per privacy dicevano alcuni, per le manie del padre gli facevano eco altri. La prima grande apparizione pubblica è del 2010, quando viene intervistata da Oprah Winfrey sulla morte di Jacko. Nello stesso anno partecipa ai Grammy ritirando il premio alla carriera per il papà insieme al fratello Prince. La sua carriera invece stenta a decollare. La ragazza che afferma di sentirsi nera e di essere stata cresciuta dal padre infusa di cultura afroamericana nel 2011, a 13 anni, viene scritturata per un film che poi però non si farà. Nel mentre deve sopportare il peso di essere figlia di un re diventato ormai un mostro. A 15 anni è in preda a una pesante tossicodipendenza che la porterà a commettere più volte suicidio. Afferma poi di essere stata violentata quando aveva 14 anni ma non ha mai rivelato il nome del suo aguzzino. 

Particine al cinema. Paris cresce e inizia a giocare le sue carte puntando a tutti gli ambiti creativi possibili. Nel gennaio 2017 eccola apparire sulla copertina del Rolling Stone dove afferma che il padre è stato spinto a morire. «Suona come una totale teoria cospiratoria... ma tutti i veri fan e tutti in famiglia lo sanno. Era un congiura». A marzo di quell'anno firma un contratto come modella per la Img Models, la stessa agenzia di Kate Upton, Gisele Bündchen, Heidi Klum e le sorelle Hadid, diventa il nuovo volto di Calvin Klein e appare nella serie Tv musicale Star per due stagioni. Un anno dopo partecipa con un ruolo minore nel film Gringo, commedia leggera con David Oyelowo e Charlize Theron, mentre in ambito musicale forma con Gabriel Glenn il duo The Soundflowers, in cui canta e suona l'ukulele.  Insomma, sembra che la ragazza oggi 21enne abbia trovato la giusta via ma forse, come insinua Tmz, la ricomparsa delle accuse al padre scatenate dal documentario Leaving Neverland potrebbero averla riportata nei gorghi del passato. Lei smentisce il tentato suicidio e attacca senza mezzi termini il sito scandalistico. Difficile però sapere chi abbia davvero ragione.

Marco Molendini per “il Messaggero” il 19 marzo 2019. Un fatto è certo: Leaving Neverland ha fatto rumore, probabilmente più di quanto potesse aspettarsi l' autore, il regista Dan Reed. Su Michael Jackson, il re del pop, si è scatenata un' ondata che ha riacceso l' accusa infamante di pedofilia, sommersa negli anni dal successo infinito di Jacko. A riaccenderla, un racconto a tesi (nel senso che è privo di contraddittorio) di quattro ore, dettagliato quanto più non si potrebbe per voce di due suoi ex amici, al tempo bambini o poco più, irretiti, sedotti, manipolati, abusati, scaricati. Il film, che stasera e domani viene trasmesso anche in Italia dal canale Nove, offre il ritratto di un orco abile e insaziabile, divoratore di sesso, un bambino adulto capace di trasformare il suo campo giochi in un parco del sesso disseminato di camere da letto nascoste. Vero? Non vero? Leaving Neverland che, comunque, ha raggiunto il suo obiettivo (essere trasmesso in tutto il mondo) sta scatenando una guerra inevitabile considerando che, a essere minacciata, non è solo la reputazione di Jacko ma la fabbrica di denari che rappresenta (400 milioni nel 2018), senza considerare la tempesta emotiva che ha colpito Paris Jackson, ragazza fragile probabilmente quanto quei ragazzini che frequentavano il Peter Pan della musica, sognando una carriera folgorante. A parte la lunghezza smisurata fino alla noia, quello che colpisce dell' ossessivo Leaving Neverland sta soprattutto nelle immagini di film privati e clip ufficiali, dove la dipendenza di Jimmy Safchuck e Wayde Robson è manifesta, preoccupante, patologica. Nei loro ricordi la seduzione di Michael è infallibile nei modi e nei tempi: dai giochi ai giochini, alla masturbazione, ai veri tentativi di penetrazione. Non ci sono e né potevano esserci prove degli abusi, ma la maniera esplicita, minuziosa, perfino scioccante, immaginando che di mezzo ci sono dei bambini, in cui la relazione viene esaminata (nel caso di Wayde c' è perfino la rievocazione di un finto matrimonio) minaccia di essere comunque devastante. Inevitabile la reazione degli eredi, che sostiene che Wayde Robson, che oggi fa il ballerino, ha negato sia in tribunale che in interviste di essere stato vittima di Michael. Poi, quando gli è stato negato un ruolo nella produzione del Cirque du Soleil nel 2013, sono partite le sue accuse.

"Paris si è tagliata per sbaglio". La verità degli amici. Paris Jackson, la figlia 21enne del Re del Pop Michael, si sarebbe tagliata durante un party particolarmente scatenato, la sera del suo presunto tentativo di suicidio, scrive Mariangela Garofano, Venerdì 29/03/2019, su Il Giornale.  Il giallo riguardante il presunto tentativo di suicidio di Paris Jackson, figlia del defunto King of Pop, sembra essere in parte svelato. La ragazza infatti, che stando a quanto riportato dal sito TMZ, sarebbe stata trasportata in ospedale dopo una chiamata al 911, ha sempre negato di aver tentato di togliersi la vita, accusando i media di aver imbastito la vicenda per “avere una storia strappalacrime da vendere”. Ma ora spuntano delle fonti che avrebbero riferito al Daily Mail il vero motivo per cui Paris sarebbe finita in ospedale: si sarebbe tagliata un braccio accidentalmente durante una festa. “Paris stava festeggiando in modo un po’ un po’ scatenato, ma non è nulla di nuovo per lei. È stata una serata folle, e lei era fuori controllo. Lei dice di essersi tagliata accidentalmente un braccio con un paio di forbici e visto che il sangue non si fermava, gli amici hanno chiamato il 911" , ha raccontato la fonte, sottolineando inoltre come non si sia trattato di un tentativo di suicidio come invece ha affermato la polizia di Los Angeles, e aggiungendo anche che “ il problema con Paris e che è sempre misteriosa, anche con i suoi amici più cari. Lei vive nei mantra che le ha insegnato suo padre. "La verità è finzione e la finzione è la realtà”, le diceva. Michael le ha sempre consigliato di tenere per sé le sue cose private. Così nessuno sa davvero cosa sia successo quella notte, ma gli amici sono sicuri non si sia trattato di suicidio. Insomma, la vicenda appare in parte risolta ma ancora avvolta in quell'alone di mistero che ha sempre caratterizzato la vita di Michael Jackson e che a quanto pare Paris è decisa a portare avanti.

POLEMICA BARBRA (STREISAND) “LE MOLESTIE DI MICHAEL JACKSON? CREDO A QUEI RAGAZZI MA QUEL CHE È SUCCESSO NON LI HA UCCISI". Da Repubblica.it il 24 marzo 2019. "Sì, si può usare la parola "molestie", ma quei bambini erano eccitati all’idea di essere lì e sono loro stessi a dirlo oggi, la versione adulta di Wade Robson e James Safechuck. Entrambi comunque sono andati avanti, si sono sposati e hanno avuto figli, il che vuol dire che quegli episodi non li hanno uccisi". Barbra Streisand, intervistata dal quotidiano inglese The Times, dice la sua su Michael Jackson e Leaving Neverland, il documentario diretto e prodotto da Dan Reed con le interviste a Robson e Safechuck, che oggi hanno 41 e 37 anni, che accusano l’artista scomparso il 25 giugno 2009 di averli molestati sessualmente quando avevano 11 e 7 anni. E ciò che Barbra Streisand ha da dire è qualcosa di diverso rispetto a ciò che è stato detto finora e che ha scatenato sui social un'ondata di indignazione, soprattutto negli Stati Uniti. L'attrice infatti afferma di credere "assolutamente" alle accuse di molestia nei confronti di Jackson al punto che per lei è stato "estremamente doloroso guardare il film", allo stesso tempo però non vuole condannare definitivamente il musicista, "i suoi bisogni sessuali erano i suoi bisogni sessuali, che derivassero da un certo tipo di infanzia o da un particolare Dna" dice. Al giornalista che le chiede se provi rabbia nei confronti di Jackson, Barbara Streisand risponde: "è un mix di sensazioni. Mi dispiace per quei bambini, mi dispiace per lui. Forse do la colpa ai genitori che hanno permesso ai loro figli di dormire con lui. Mi chiedo perché Michael avesse bisogno di vestire quei ragazzini come lui, perché li voleva nei suoi show, perché voleva che ballassero e indossassero i suoi cappelli?”. Streisand ha incontrato Michael Jackson una sola volta e l’impressione avuta in quella occasione era stata di una persona "molto dolce, quasi infantile". Nel corso dell’intervista la cantante che vanta di aver conquistato un EGOT (vale a dire di aver collezionato un premio Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony nel corso della carriera) ha parlato anche del movimento #MeToo definendolo "molto forte". Tuttavia è convinta che aumenti il rischio per le donne di non essere più assunte, “gli uomini ora sono spaventati di poter essere accusati”.

Da rockol.it il 24 marzo 2019. La cantante e attrice statunitense ha affidato all’Evening Standard il suo pensiero su “Leaving Neverland”, il documentario sulle testimonianze di James Safechuck e Wade Robson a proposito delle presunte molestie del Re del Pop delle quali i due accusano di essere rimasti vittime, trasmesso in anteprima al Sundance Festival e andato in onda anche in Italia gli scorsi 19 e 20 marzo (qui l’opinione di Rockol). All’eco mediatica di “Leaving Neverland” Barbra Streisand ha risposto spiegando come lei creda “assolutamente” a quanto esposto nel documentario da Robson e Safechuck ma come creda anche che le persone da incolpare siano i genitori dei due (all’epoca) ragazzini: “Mi sento male per i bambini. Mi sento male per Jackson. Do la colpa, direi, ai genitori che hanno permesso ai loro figli di dormire con lui”. Ma la Streisand ha anche aggiunto: “Puoi dire ‘molestati’, ma quei bambini…erano felici di essere là”. Per poi aggiungere: “Sono entrambi sposati ed entrambi hanno figli, quindi questa cosa non li ha uccisi”. Nella stessa intervista la voce di “Happy Days Are Here Again” ha commentato: “I suoi bisogni sessuali erano i suoi bisogni sessuali, provenienti da qualunque infanzia avesse avuto o qualunque DNA avesse avuto”.

Mentre Barbra Streisand chiede scusa, in un tweet Diana Ross difende Michael Jackson. Entrambe su Twitter, le due dive parlano di Michael Jackson e se Barbra Streisand, travolta dalle polemiche per le sue dichiarazioni di ieri, chiede scusa alle presunte vittime molestate dal cantante, Diana Ross desidera che il re del pop sia lasciato in pace, scrive Sandra Rondini, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. Dopo Barbra Streisand, che ieri ha sostanzialmente assolto Michael Jackson dalle accuse di pedofilia rivoltegli nel documentario HBO “Leaving Neverland”, poiché, a suo parere “se le accuse sono vere, aveva un bisogno sessuale da soddisfare e comunque la colpa è dei genitori che hanno lasciato con lui i loro figli che erano sempre entusiasti di stare con Michael”, un’altra super star si schiera a sostegno del re del pop. Si tratta di Diana Ross che ha scelto Twitter per difendere quello che è stato un suo carissimo amico a cui voleva molto bene, completamente ricambiata da Jackson che la considerava il suo mito e la sua musa. Ieri sera la diva è andata su Twitter per condividere “ciò che è nel mio cuore” e ha detto che “Michael Jackson ha dato una forza incredibile a me e a tantissima gente. Questo pensiero è la cosa che più ha colpito il mio cuore stamattina”. Infine l’appello: “Fermatevi nel nome dell’amore”. Un tweet che vuole essere un ricordo del legame che li ha uniti negli anni e anche un invito alla stampa e agli haters di smetterla con questo stillicidio di accuse senza prove, basate solo sul racconto dei due protagonisti del documentario. Nulla però ha scritto a proposito della presunta pedofilia di Jackson. Su questo argomento così critico e spigoloso Diana Ross non ha voluto prendere alcuna posizione, come invece ha fatto fermamente la Streisand, accusata di giustificare in qualche modo le presunte molestie del cantante come una risposta naturale a un bisogno sessuale causatogli da un’infanzia difficile o forse inciso nel suo dna. Le sue dichiarazioni hanno leso gravemente la sua immagine pubblica così la cantante e attrice, dopo essere stata letteralmente travolta dalle polemiche, ha deciso di fare marcia indietro scegliendo anche lei Twitter per dirsi “profondamente dispiaciuta per qualsiasi dolore o incomprensione causata per non aver scelto con più attenzione le mie parole su Michael Jackson e le sue vittime”. “Non intendevo ignorare il trauma che questi ragazzi hanno vissuto in alcun modo" – ha aggiunto la Streisand, spiegando che, “come tutti i sopravvissuti a molestie sessuali, dovranno conviverci per tutta la vita. Sento un profondo rimorso e spero che James e Wade sappiano che li rispetto e li ammiro per aver detto la loro verità”.

Leaving Neverland, il mostro non è Michael Jackson, scrive il 25 Marzo 2019 Stefano Olivari su Indiscreto. Dopo aver visto Leaving Neverland, nelle due serate su Nove, la nostra opinione su Michael Jackson non è cambiata. Dopo la visione del lungo, quasi quattro ore, documentario di Dan Reed non sappiamo cioè se Michael Jackson sia stato un pedofilo che ha pagato il silenzio delle sue vittime oppure una celebrità accusata fuori tempo massimo da due testimoni e scagionata da decine di altri. Sappiamo però che sicuri mostri sono stati i tanti genitori, non soltanto quelli di Wade Robson e James Safechuck, che hanno lasciato i loro figli di cinque o poco più anni da soli insieme ad un adulto che conoscevano da poche ore, pensando di poterne ricavare soldi e celebrità di riflesso. Gente che nemmeno a distanza di decenni si rende conto della propria stupidità, a prescindere dal racconto dei figli. Insomma, Barbra Streisand non meritava di essere linciata per avere provato a inquadrare la situazione. E le radio che hanno tolto Jackson dalle playlist hanno dimostrato soltanto ipocrisia, accettando una sentenza basata sul "si dice" mediatico. Non stiamo dicendo che Jackson fosse innocente, ma soltanto che la morte non autorizza la diffamazione. Ma cos’è Leaving Neverland? Prodotto dagli inglesi di Channel 4 e dall’americana HBO, è basato fondamentalmente sulle interviste a Wade Robson e James Safechuck, oltre che ai loro familiari. Da sottolineare che in passato sia Robson sia Safechuck, in particolare Robson, erano stati decisivi con le loro testimonianze, immaginiamo non a pagamento (negli Stati Uniti la falsa testimonianza è un reato serio), nello scagionare Jackson da accuse simili. Meno famosi di Jordan Chandler e Gavin Arvizo, forse i due ex bambini ospiti di Neverland hanno voluto ritrovare la ribalta, ispirati da pendenze che ritengono di avere con gli eredi di Jackson, o forse avevano davvero un peso insopportabile dentro. Di certo è criminale che loro e tanti altri siano stati addestrati da genitori frustrati per diventare piccole star, mostriciattoli con più o meno talento. Guardare Wade e James bambini ballare come piccoli sosia del loro idolo è agghiacciante. E non c’è bisogno dell’eventuale reato di pedofilia, sia pure a carico di un morto (nel 2009), per dire che non si dovrebbe fare spettacolo con i minorenni e meno che mai con i bambini. Ad esempio anche senza reati il recente Sanremo Young è stato culturalmente una schifezza e non si capisce come la RAI abbia potuto trasmetterlo. Tornando a Leaving Neverland, bisogna dire che raramente il genio di Thriller e Bad è stato attaccato così nel dettaglio, con particolari anatomici che poco hanno aggiunto alla comprensione. Ed è incredibile che, trattandosi di documentario, sia stata un’opera a senso unico ignorando le testimonianze di decine di ex bambini (con genitori mostri anche nel loro caso, peraltro), fra i quali Macaulay Culkin, che hanno confermato l’assenza di abusi da parte del musicista e descritto la sua figura ipersensibile e tragica: stritolato fra un padre violento, una madre vittima, fratelli e sorelle avidi oltre che privi di talento (forse un minimo ne aveva Janet), approfittatori di ogni tipo, a 5 anni già manteneva da solo tutto il carrozzone. Cosa che peraltro fa anche da morto, per questa e le future generazioni di Jackson. Ma se non ci vogliamo fidare delle testimonianze dei bambini, bisogna ricordare quelle delle centinaia di adulti passati per casa Jackson e che hanno potuto vedere il divo nell’intimità: guardie del corpo, camerieri, manager, amici, questuanti. Tutti silenziati a colpi di 15 milioni di dollari, come Chandler? L’infanzia perduta non è certo una licenza di pedofilia, ma la spiegazione del perché si detesta la compagnia degli adulti.

Michael Jackson: i dubbi sul documentario "Leaving Neverland". Il discusso docufilm, che sarà trasmesso oggi sulla HBO, ha per protagonista Wade Robson, a cui sono state già rigettate due cause contro il Re del Pop. La controprogrammazione del 3 e 4 marzo, scrive Gabriele Antonucci il 3 marzo 2019 su Panorama. A quasi dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 25 giugno del 2009 a causa di una dose eccessiva di Propofol somministrata colposamente dal suo medico curante Conrad Murray (poi condannato a quattro anni di reclusione), continua a non esserci pace per Michael Jackson, da molti considerato il più grande performer di sempre. Il 25 gennaio, al Sundance Film Festival di Park City (Utah) è stato proiettato in anteprima un documentario incentrato sui presunti abusi sessuali che Michael Jackson avrebbe perpetrato nei confronti di due bambini di 7 e 10 anni, oggi trentenni: Wade Robson e James Safechuck. Intitolato Leaving Neverland, il documentario di 233 minuti è stato diretto da Dan Reed, un regista che già in passato si era occupato di questa tematica con il docu-film "The Pedophile Hunters" ("I cacciatori di pedofili"). Alcuni fan del cantante hanno protestato davanti all'Egyptian Theatre di Park City, mostrando cartelloni con le scritte "Innocente" e "Cercate la verità". Il documentario sarà trasmesso il 3 e il 4 marzo, in due episodi sulla pay tv HBO in Usa e il 6 e il 7 marzo su Channel 4, alla tv britannica. Considerando che il 25 giugno 2019 ricorreranno i 10 anni dalla morte del Re del Pop, Leaving Neverland, a partire dalla sospetta tempistica e dai nomi dei due protagonisti, appare come l'ennesima occasione per gettare fango nei confronti di una persona morta che, come tale, non può replicare a queste terribili accuse. Il documentario, tralasciando l'aspetto "artistico", da un punto di vista cinematografico (oltre che etico) lascia davvero perplessi: intervistare solo i due protagonisti e i loro stretti familiari, con primi piani, lacrime di prammatica e musichette d'atmosfera, non offre quella pluralità di voci e quell'approfondimento che sono elementi indispensabili a ogni documentario degno di questo nome. Inoltre, a fronte di accuse gravissime, appare davvero incredibile che il regista non si sia premurato di ascoltare o di riportare la versione dei fatti di uno dei rappresentanti legali o della fondazione che cura gli interessi di Jackson: il diritto alla difesa, in caso di accuse penalmente rilevanti, è costituzionalmente garantito in ogni stato occidentale, in Usa come in Italia. Dal lungometraggio, di una durata parossistica (4 ore!), non sono emerse prove concrete, che diano credibilità alle testimonianze, ma solo uno sfilacciato taglia e cuci di immagini e dichiarazioni il cui unico obiettivo è screditare Michael Jackson. Insomma, Leaving Neverland, più che un documentario, sembra un perfetto esempio di "mockumentary", un particolare genere cinematografico che simula lo stile e il procedimento documentaristico, celandovi la costruzione di una fiction, a cavallo tra lo scandalistico e il fantastico. Marcos Cabotà, un regista presente alla prima, ha stroncato Leaving Neverland, dandogli 1 su 10 come voto: "Dopo aver assistito alla prima, è evidente che si tratti di un mockumentary (documentario di fantasia) invece di un documentario. Non riesco a credere a una sola parola delle due "vittime". Cattiva recitazione. A volte, vergognosa. La regia e i testi sono addirittura peggio. 1/10". Il nipote Taj Jackson, membro dei 3T, ha promosso una campagna di crowdfunding per la realizzazione di un film-verità come risposta a quello di Dan Reed, per difendere la reputazione dello zio. Servono almeno 777.000 dollari (circa 681.000 euro): al momento le donazioni ammontano a 30.000 dollari. Dopo alcuni giorni di riflessione, il 28 gennaio è arrivata una lunga e articolata dichiarazione dei familiari di Jackson: «Michael Jackson è nostro fratello e nostro figlio. Siamo furiosi per il fatto che i media, senza uno straccio di prova o un singolo pezzo di indizio materiale, abbiano scelto di credere alla parola di due bugiardi conclamati invece che a quella di centinaia di famiglie e amici in tutto il mondo che hanno trascorso del tempo con Michael, molti di loro a Neverland, e che hanno sperimentato la sua leggendaria gentilezza e generosità globale. 

Siamo orgogliosi di ciò che Michael Jackson rappresenta. Le persone hanno sempre amato perseguitare Michael. Era un bersaglio facile perché era unico. Ma Michael fu sottoposto a un'indagine approfondita che incluse un raid a sorpresa a Neverland e in altre proprietà, nonché un processo davanti a una giuria in cui Michael venne considerato COMPLETAMENTE INNOCENTE. Non c'è mai stato uno straccio di prova di nulla. Eppure i media sono ansiosi di credere a queste bugie. Michael ha sempre rivolto l'altra guancia, e anche noi abbiamo sempre rivolto l'altra guancia quando le persone hanno perseguitato i membri della nostra famiglia - questo è lo stile dei Jackson. Ma non possiamo semplicemente stare fermi di fronte a questo linciaggio pubblico e alla persecuzione da parte di avvoltoi e altri che non hanno mai incontrato Michael. Michael non è qui per difendersi, altrimenti queste accuse non sarebbero state fatte. I creatori di questo film non erano interessati alla verità. Non hanno mai intervistato una sola anima che conoscesse Michael, tranne i due spergiuri e le loro famiglie. Questo non è giornalismo, e non è giusto, eppure i media continuano a diffondere queste storie. Ma la verità è dalla nostra parte. Fate le vostre ricerche su questi opportunisti. I fatti non mentono, le persone sì. Michael Jackson era e sarà sempre al 100% innocente da queste false accuse.

La famiglia Jackson. Jermaine Jackson, durante la trasmissione "Good Morning" condotta da Susanna Reid e Piers Morgan, è scoppiato in lacrime mentre difendeva suo fratello dalle accuse del documentario proiettato al Sundance Festival, dichiarando: «Ciò che la gente non sa è che Wade Robson ha cambiato la sua versione dei fatti, quella che aveva raccontato sia prima che dopo la morte di Michael. Dopo essere stato escluso dallo spettacolo del Cirque du Soleil dedicato a MJ, se n'è andato in giro a cercare un contratto di pubblicazione per il suo libro sui presunti abusi, che nessun editore ha mai neanche considerato. Ha citato in giudizio l'Estate di MJ per 1,5 miliardi di dollari, ma è stato sbattuto fuori dal tribunale. Dunque, tutto ciò che gli rimaneva da fare era un documentario. Così si è messo di fronte a una telecamera con un gruppo di persone e ha vomitato tutte queste assurdità. La nostra famiglia è stanca, siamo molto stanchi. Lasciate riposare quest'uomo, ha fatto tanto per il mondo, lasciatelo riposare. Abbiamo perso Michael, abbiamo perso nostro padre, siamo ancora in lutto. Abbiamo perso molto, lasciateci soli, lasciatelo in pace, lasciatelo riposare, merita di riposare. Sono sicuro al mille per cento dell'innocenza di Michael. È stato giudicato da una giuria e assolto da tutto ciò perché non c'era alcun indizio concreto. Non c'era niente lì. Non esiste alcuna verità in questo documentario. Viviamo in un'epoca in cui le persone possono dire qualsiasi cosa e viene accolta come verità. Sotto giuramento, Robson ha detto ciò che ha detto, ma si preferisce credere a un documentario.

Se agiremo per vie legali? Sono cose che riguardano la sua Estate. Dopo la prima al Sundance Festival, non si è fatta attendere la reazione dell'Estate di Jackson, che ha denunciato le affermazioni contro il cantante e il documentario nel suo complesso. "Leaving Neverland" non è un documentario, è una sorta di assassinio del personaggio tabloid che Michael Jackson ha sopportato nella vita, e ora nella morte. Il film tratta accuse non provate per cose presumibilmente successe 20 anni fa e le tratta come fatto. Queste affermazioni sono state la base di querele depositate da questi due bugiardi, che sono state in via definitiva respinte da un giudice. I due accusatori avevano (in precedenza) testimoniato sotto giuramento che questi eventi non si sono mai verificati. (Nel film) non hanno fornito nessuna prova evidente e assolutamente nessuna prova a sostegno delle loro accuse, il che significa che l'intero film si basa esclusivamente sulla parola di due spergiuri. E' significativo che il regista abbia ammesso al Sundance Film Festival di aver limitato le sue interviste solo a questi accusatori e alle loro famiglie. Nel farlo, ha intenzionalmente evitato di intervistare numerose persone che, nel corso degli anni, hanno trascorso un tempo significativo con Michael Jackson e hanno inequivocabilmente dichiarato che ha sempre trattato i bambini con rispetto e non ha fatto loro nulla di male. Scegliendo di non includere nessuna di queste voci indipendenti che potrebbero sfidare la narrazione che era determinato a vendere, il regista ha trascurato di fare la verifica dei fatti realizzando così una narrazione così palesemente unilaterale che gli spettatori non avranno mai nulla di vicino ad un ritratto equilibrato. Per 20 anni, Wade Robson ha negato in tribunale e in numerose interviste, anche dopo la morte di Michael, di essere stato vittima e ha dichiarato di essere grato per tutto quello che Michael aveva fatto per lui. La sua famiglia ha beneficiato della gentilezza di Michael, della generosità e del sostegno alla sua carriera fino alla morte di Michael. A prescindere da "Leaving Neverland", occorre considerare il fatto che quando a Robson è stato negato un ruolo in una produzione di Cirque du soleil a tema Michael Jackson, sono improvvisamente emerse le sue accuse di molestie. Siamo estremamente solidali con qualsiasi effettiva vittima dell'abuso di minori. Questo film, però, fa un disservizio a quelle vittime. Perché nonostante tutte le false smentite fatte che qui non si tratta di soldi, si è sempre parlato di soldi - milioni di dollari - risalente al 2013 quando sia Wade Robson che James Safechuck, che condividono lo stesso studio legale, hanno lanciato senza successo le loro affermazioni contro la Estate di Michael. Ora che Michael non è più qui per difendersi, Robson, Safechuck e i loro avvocati continuano i loro sforzi per raggiungere la notorietà e per essere pagati coprendolo con le stesse accuse di cui una giuria lo ha trovato innocente quando era vivo" (The Estate of Michael Jackson) L'Estate ha annunciato di avere fatto causa alla HBO, non solo distributore ma anche  coproduttore di "Leaving Neverland", poiché nel 1992 la stesso canale stipulò un accordo per la messa in onda del concerto "Live From Bucharest", che diventò lo speciale più visto nella storia di HBO. Nell'ambito di tale accordo, la HBO accettò disposizioni non denigratorie che restano in vigore, quindi la società è accorsa in una violazione del contratto.

L'Estate ha lanciato una controprogrammazione il 3 e il 4 marzo, negli stessi giorni e fasce orarie in cui HBO trasmetterà "Leaving Neverland", quando verranno pubblicati sul canale Youtube di MJ i concerti "Live in Bucharest" e "Live at Wembley", gli unici ufficialmente in commercio. Disponibili per un periodo di tempo limitato, il "Live in Bucharest" (Dangerous World Tour, 1º ottobre 1992) sarà online dalle 8:00 pm del 3 Marzo (le 2:00 in Italia), mentre il "Live at Wembley" (Bad World Tour, 16 Luglio 1988) dalle 8:00 pm del 4 Marzo (le 2:00 in Italia).

I due concerti vanno ad aggiungersi al "Michael Jackson's This Is It" che, non a caso, proprio in questi giorni è disponibile on demand su Netflix. L'emittente pubblica britannica BBC ha annunciato "Michael Jackson The Rise and Fall", un nuovo documentario dedicato al Re del Pop e alternativo a "Leaving Neverland" Diretto dal giornalista investigativo Jacques Peretti, il documentario racconterà i momenti più significativi della vita di Michael Jackson: dall'infanzia a Gary alla carriera con i Jackson 5, dai giorni dello Studio 54 alla nascita del Neverland Ranch, fino al "This Is It". Verrà affrontato anche il tema delle accuse, ma con l'approccio scientifico tipico di Peretti, che al Re del Pop ha già dedicato tre documentari: “What Really Happened”, “Michael Jackson’s Last Days: What Really Happened” e “Michael Jackson’s Secret Hollywood”. «Peretti è uno dei più importanti esperti di Michael Jackson e della sua turbolenta vita ed eredità», ha dichiarato Patrick Holland, direttore di BBC Two, dove l’emittente britannica ha intenzione di trasmettere il documentario. «Quando è venuto da noi con l’idea di riesaminarlo a dieci anni dalla morte, siamo stati immediatamente conquistati dal progetto. Sapevamo che non si sarebbe tirato indietro rispetto alle controversie che lo circondano». Inoltre l'Estate ha rilasciato una lunga lettera di ringraziamento ai fan di Michael Jackson, che in questi giorni si sono prodigati in tutto il mondo per far conoscere la verità. "Quando, il 9 Gennaio, apprendemmo per la prima volta dell'esistenza di 'Leaving Neverland', fu inconcepibile per noi - e probabilmente anche per voi - che dietro a tutto questo ci fosse una società rispettata come la HBO. Davamo per scontato che i valori aziendali della HBO riflettessero un impegno rivolto all'equità, all'onestà e all'integrità. Purtroppo, ci sbagliavamo. 'Leaving Neverland' non è altro che un'imboscata premeditata, annunciata all'ultimo momento al Sundance Film Festival nell'ambito di un raggiro durato due anni, e tenuto segreto per sfuggire al controllo della famiglia, dell'Estate, degli amici, dei soci e dei fan di Michael. Quando il film venne annunciato, la HBO cercò anche di tenere nascosti i nomi dei due accusatori, diffondendoli malvolentieri soltanto dopo che, tramite la nostra prima dichiarazione pubblica, rivelammo l'identità di quei due querelanti falliti che ben conosciamo. L'obiettivo della HBO è ovvio: vuole silenziare le voci di tutti coloro che parlerebbero in difesa di Michael Jackson, che conoscono la mancanza di credibilità di queste accuse e la personalità degli individui che le espongono. Grazie a tutti voi, HBO e il suo regista non sono stati in grado di evitare - come speravano di fare - che la luce della verità illuminasse le menzogne di questo film. Vogliono che nessuno noti la sua natura assolutamente unilaterale. Vogliono che non si sappia che il regista, in due anni, non ha cercato di contattare nessuno a parte i due soggetti e le loro famiglie, neanche coloro che ha diffamato e che sarebbe stato moralmente ed eticamente obbligato a contattare. HBO vuole che nessuno sappia di come i soggetti in questione abbiano ripetutamente ritrattato la loro versione dei fatti, rilasciato falsa testimonianza e agito per motivazioni finanziarie tenute nascoste al pubblico. Piuttosto, HBO spera di eludere 'Leaving Neverland' da un rigoroso controllo dei fatti e dalla credibilità che avrebbe dovuto richiedere al suo regista. Ma la vostra tenace passione nel difendere Michael di fronte a tale disonestà ha trafitto la mancanza di trasparenza della HBO. Ciò è fonte di ispirazione e commozione, e ve ne siamo grati. HBO e il suo partner Channel 4 vogliono distogliere l'attenzione dal fatto di stare attaccando un uomo innocente che non è più con noi per difendersi, e si sentono in diritto di farlo solo perché non possono essere ritenuti legalmente responsabili della diffamazione di una persona deceduta. HBO continua a ripetere che l'equità sia irrilevante, aggiungendo la falsa e assurda affermazione che il suo film non riguardi Michael Jackson. Parliamoci chiaro: riguarda interamente Michael Jackson. Lo stesso Michael Jackson che, solo 14 anni fa, fu giudicato in un tribunale e dichiarato unanimemente innocente su tutti i fronti da una severa giuria. Ma nel tribunale di HBO non esiste giuria, non c'è l'opportunità di esaminare i testimoni e nessuna difesa; solo una convinzione predeterminata su un uomo innocente da parte di un regista intenzionalmente raccapricciante, che si è auto-proclamato giudice e giuria. E piuttosto che lasciare che le persone valutino tutte le prove e decidano autonomamente se i soggetti stiano mentendo o dicendo la verità, HBO dà in pasto agli spettatori la trama del suo regista, senza concedere spazio - in quattro ore - neanche a una scintilla delle innumerevoli prove in contrasto con le sue tesi. Durante la sua vita, Michael Jackson è stato travolto da un'ondata di malignità che nessun artista della sua generazione è mai stato costretto a sopportare. Come scrisse profeticamente James Baldwin nel 1985, quando Michael era reduce dal fenomeno globale di 'Thriller', «La cacofonia su Michael Jackson è affascinante in quanto non riguarda affatto Jackson. Spero che abbia il buon senso di capirlo e la fortuna di strappare la sua vita dalle fauci di un successo carnivoro. Non sarà perdonato facilmente per aver cambiato così tante carte in tavola, per aver dannatamente ottenuto il massimo possibile. L'uomo che sbancasse il casinò di Monte Carlo non sarebbe nulla in confronto a Michael». Purtroppo i suoi figli, dopo aver perso il loro padre, hanno dovuto sopportare ripetutamente l'ulteriore dolore derivante da questi raccapriccianti pettegolezzi da tabloid, sia durante il processo penale all'uomo responsabile della sua morte, sia per le affermazioni dei due individui presenti in questo film. Nonostante la stampa abbia diffuso le accuse denunciate nel film come se fossero fresche e nuove, in realtà sono sei anni che i due individui raccontano ai media queste stesse accuse false e oscene, più della metà del tempo trascorso dal decesso di Michael. Ma avendo deviato la credibilità di HBO, tutto ciò che hanno adesso è soltanto una piattaforma più potente, una colonna sonora, scene riprese da un drone, un abile montaggio e un budget promozionale da svariati milioni di dollari. Ciò che non possono comprare è la verità. I fatti non mentono, le persone sì. Nei sei anni trascorsi da quando queste false accuse vennero presentate per la prima volta, la musica e l'eredità di Michael hanno prosperato per una semplice ragione: non si può mettere a tacere Michael Jackson.

Il suo genio e il suo talento artistico sono senza tempo, e la sua resilienza prevale sempre. Continueremo a combattere le infondate rivendicazioni dei suoi accusatori, perché lui è innocente. La sua eredità è più forte di due individui che reclamano centinaia di milioni di dollari dopo averlo difeso per anni, e le cui simili rivelazioni sollevano innumerevoli domande sulla loro tempistica e sulle loro motivazioni. La reiterata disonestà, dalla falsa testimonianza all'occultazione delle prove, dice tutto sulla loro mancanza di credibilità, che quattro ore di 'Leaving Neverland' cerca in tutti i modi di colmare. Infine, è importante ricordare ciò che Michael disse nel 1994, quando fu invitato ai NAACP Image Awards. A quel tempo, la persecuzione implacabile che lo avrebbe inseguito per il resto della sua vita, era iniziata. Parlando al pubblico, reclamò con forza il diritto di tutti noi alla presunzione di innocenza. «Non mi ero mai preso del tempo per capire l'importanza di questo ideale fino ad ora», disse Michael, «fino a quando non sono diventato vittima di false accuse, e della volontà altrui di credere e cavalcare il peggio prima di avere la possibilità di ascoltare il verità. Perché non solo sono presumibilmente innocente, io sono innocente. E so che la verità sarà la mia salvezza».  (L'Estate di Michael Jackson)

Vediamo più da vicino chi sono i protagonisti del documentario. Wade Robson e James Safechuck erano due bambini che frequentavano Neverland, la casa di Michael Jackson dal 1988 al 2005, nella contea di Santa Barbara, in California, a circa 150 miglia da Los Angeles.

Neverland. La proprietà era composta da 22 strutture e da un terreno di quasi 1.300 ettari contenente una villa con 6 stanze da letto e 30 posti letto medici in cui i bambini con gravi patologie potevano ricevere cure e vedere film sul maxischermo, uno zoo, un parco giochi, una stazione ferroviaria, una piscina, un campo da tennis e uno da basket, una sala cinematografica da 50 posti e due laghi artificiali. Neverland non era la sordida cornice dove avevano luogo i suoi incontri proibiti, come molti media hanno lasciato intendere, ma un posto che accoglieva per un breve periodo bambini gravemente ammalati (anche terminali) e le loro famiglie, regalando loro attimi di gioia e divertimento. Neverland era sempre pieno di persone, quindi non si capisce davvero come il cantante possa aver commesso degli abusi con decine di occhi costantemente puntati su di lui, tra cui quelli dei genitori degli ospiti. L'attore Macaulay Culkin ha parlato recentemente del suo rapporto con Michael Jackson durante il podcast "Inside of You" condotto da Michael Rosenbaum: «Alla fine, è piuttosto facile dire che [il nostro rapporto] fosse strano o altro, ma non lo era perché aveva un senso. In sintesi, eravamo amici. So che per chiunque altro possa sembrare chissà cosa, ma per me era solo una normale amicizia. Le accuse contro Michael sono assolutamente ridicole». Alfonso Ribeiro, famoso in tutto il mondo per il ruolo di Carlton Banks nella sit-com "Willy, il principe di Bel-Air", ha dichiarato: «Non mi importa cosa dica la gente, non crederò mai che Michael abbia fatto ciò di cui lo hanno accusato. Sono stato anch'io un bambino di 12, 13, 14 anni. Ho conosciuto Michael, sono uscito con lui e mai niente di simile si è verificato. Non è mai successo nulla di discutibile. Io semplicemente non ci credo». Tesi confermate dal sound engineer Rob Hoffman, uno che Michael lo conosceva da vicino: "Ho passato quasi 3 anni lavorando con lui, e non ho mai messo in discussione la sua morale, non ho mai creduto in nessuna delle accuse che gli sono state fatte. E a quel tempo non ero nemmeno un suo fan. L'ho visto interagire con i figli dei suoi fratelli, i figli degli altri e, a un certo punto, anche con i figli della mia ragazza. Ho passato una intera giornata a Neverland con loro. Michael è un essere umano davvero incredibile, sempre alla ricerca di un modo per migliorare la vita di tutti i bambini. Ogni fine settimana a Neverland venivano ospitati gruppi diversi di bambini - bambini con AIDS, bambini affetti da cancro, ecc... E il più delle volte Michael non era neanche lì". Stessa opinione di Bill Whitfield, bodyguard di Jackson dal 2006 al 2009: “Quando trascorri 3 anni con qualcuno come bodyguard personale, loro si fidano e dipendono da te. Puoi vedere il loro vero carattere, la loro anima e il cuore. Il signor Jackson che conoscevo so che non avrebbe mai potuto fare o pensare una cosa simile, non avrebbe mai abusato o fatto del male a un bambino. Lui non era così. Era un bravo ragazzo e non perché lo penso io ma perché lo so”. Curioso come centinaia di bambini abbiano frequentato Neverland, ma soltanto quattro abbiano accusato di abusi Michael Jackson: Jordan Chandler, Gavin Arvizo, Wade Robson e James Safechuck. E che solo loro gli abbiano intentato cause milionarie, spesso molti anni dopo.

Chi è l'accusatore Wade Robson. Il ballerino e coregrafo Wade Robson, che in passato ha lavorato con Britney Spears ed è apparso nelle serie So You Think You Can Dance su Fox, fu chiamato a testimoniare nel 2005 nel processo Arvizo, negando allora con decisione che Jackson lo avesse mai infastidito e affermando sotto giuramento che "mai niente di inappropriato era accaduto con il Signor Jackson". Thomas Mesereau, il brillante legale che difese Michael Jackson, scelse come primo testimone per la difesa di Jackson lo stesso Wade Robson, che ora sostiene di essere stato molestato da MJ quando era bambino. Nel 2005, Robson - come affermato da Mesereau - era «irremovibile» sul fatto che Jackson non gli avesse mai fatto nulla di male.

Anche la madre e la sorella di Robson affermarono le stesse cose. I Robson volarono dall'Australia per il processo. Rimasero a Neverland, e Mesereau li interrogò ripetutamente. Mesereau, dopo la prima di Leaving Neverland, ha dichiarato: «Trovai Wade eloquente e simpatico. Difese strenuamente Michael. Sua madre e sua sorella lo sostennero con le loro dichiarazioni. Sul banco dei testimoni, Wade fu sottoposto a un pubblico ministero accanito. Sono scioccato dal fatto che abbia assunto una posizione così diversa rispetto a ciò che mi disse e che testimoniò in tribunale». Quando il cantante morì, il 25 giugno 2009, Robson scrisse sui social:"Michael Jackson ha cambiato il mondo e, più personalmente, la mia vita per sempre. Lui è il motivo per cui ballo, il motivo per cui faccio musica e uno dei principali motivi per cui credo nella pura bontà del genere umano. E’ stato un mio caro amico per 20 anni. La sua musica, il suo movimento, le sue personali parole di incoraggiamento e di ispirazione e il suo amore incondizionato vivranno per sempre dentro di me. Lui mi mancherà immensamente, ma so che ora è in pace e incanta il cielo con una melodia e un Moonwalk". L'Estate di Michael Jackson si fidò di lui e lo coinvolse nel 2012 nella lavorazione dello show del Cirque du soleil dedicato a Michael, il fortunato Immortal, ma in seguito lo licenziò, insoddisfatta del suo lavoro. Nel 2013 Robson, quattro anni dopo la morte del Re del Pop, affermò ex abrupto di essere stato molestato quando era bambino da Michael Jackson e intentò due cause milionarie per risarcimento dei danni morali contro l'Estate del cantante per i presunti abusi.

Nel 2017 due diversi collegi giudicanti rigettarono le accuse intentate per mancanza di prove. Secondo il giudice della Corte Superiore di Los Angeles Mitchell Beckloff, oltre all'insussistenza del fatto, il motivo alla base del rigetto delle accuse da parte del giudice è che Robson abbia atteso troppi anni per sporgere denuncia contro Jackson, addirittura il maggio del 2013, quasi 4 anni dopo la sua morte. Davvero singolare che, con questi precedenti ben noti alla stampa, il Sundance film festival, diretto dall'esperto Robert Redford, abbia accettato di proiettare un documentario che appare assai poco credibile, anche nella durata monstre di quasi quattro ore, in una ricerca fin troppo evidente della morbosità a tutti i costi.

La verità sul rapporto di Jackson con i bambini. Ma facciamo un salto indietro nel tempo al 1993, per capire meglio come sia nata la leggenda metropolitana della supposta pedofilia dell’artista, una brutta storia che si è autoalimentata nel tempo di veleni, sospetti e falsità, fino a distruggere di fatto la sua reputazione e, di conseguenza, la sua carriera. Jackson fu accusato per la prima volta nel 1993, all’apice del successo, da Evan Chandler, padre di un tredicenne, Jordan Chandler. L’amicizia tra suo figlio e il cantante fu inizialmente ben accolta da Evan Chandler, più interessato a una carriera di sceneggiatore a Hollywood che a quella di dentista. L’uomo cercò di sfruttare l’amicizia del figlio con il Re del Pop per ottenere finanziamenti per la realizzazione di quattro film, di cui aveva già scritto le sceneggiature, ma il cantante, su suggerimento dei suoi consiglieri, non cedette mai alle continue richieste di denaro. La prospettiva di veder sfumati i suoi sogni di gloria, unita alla gelosia per il rapporto sempre più solido tra Jordan e Michael, che l'aveva sostituito come figura paterna, convinse il dentista a mettere in piedi un piano ben congegnato per ottenere denaro dalla popstar, con l’accusa più infamante per un benefattore di bambini: quella di aver abusato sessualmente di suo figlio. Chandler senior chiamò un avvocato senza scrupoli, Barry Rothman, per intentare una causa per la custodia del figlio e, successivamente, per intavolare una lunga trattativa con i legali del cantante, avanzando una richiesta di venti milioni di dollari per risolvere la vicenda senza intentare una causa civile. Nel libro Redemption, Geraldine Huges, allora segretaria legale dell'avvocato Rothman, parlò senza mezzi termini di estorsione. "La mia posizione è che Michael Jackson sia innocente per quanto riguarda le accuse di molestie sessuali e mi baso su fatti che avvalorerò nel corso del libro", ha scritto la donna nell'introduzione del libro. "Ho visto comportamenti, ascoltato dichiarazioni e letto documenti che erano più rivolti a pianificare un elaborato piano di estorsione che a perseguire la giustizia". La vicenda si risolse con un accordo extragiudiziario con la famiglia, di cui in seguito lo stesso Jackson si sarebbe pentito, versando un assegno da 22 milioni di dollari per chiudere in fretta la questione su pressione della sua casa discografica, che non voleva ripercussioni sul tour in corso di Jackson. Il cantante spiegò così la sua decisione: "Ho chiesto ai miei avvocati se potevano garantirmi che sarebbe stata fatta giustizia. Mi hanno risposto che non c'è garanzia per ciò che un giudice o una giuria possono decidere. Perciò ho deciso che dovevamo fare qualcosa per mettere fine all'incubo. Io e i miei legali ci siamo riuniti e abbiamo preso la decisione unanime di chiudere il caso". L’avvocato dell'artista, Tom Meserau, ha confidato: “E’ vero che per lui erano spiccioli, ma fu un errore gravissimo, creò un precedente e qualcuno deve aver pensato, perché lavorare se si possono estorcere quattrini a Jackson? Michael fu consigliato male dal suo staff, la cui unica preoccupazione era quella di perdere somme di denaro, magari essere costretti ad annullare gli spettacoli per via del processo”.

Il processo Garvin Arvizo. Ancora più infamanti le accuse rivolte anni dopo da Gavin Arvizo, un tredicenne che Jackson aveva aiutato a guarire dal cancro. Arvizo accusò il Re del Pop di abusi sessuali sull'onda dell’eco mediatica creata dallo speciale televisivo Living with Michael Jackson del giornalista britannico Martin Bashir, andato in onda il 3 febbraio. Un perfetto esempio di cattivo giornalismo, nel quale, con un sapiente taglia e cuci di immagini e di spezzoni di interviste, fu messo in cattiva luce l’ex bambino prodigio dei Jackson Five. Il processo iniziò il 31 gennaio 2005 e terminò il 13 giugno dello stesso anno, quando la giuria emise un verdetto unanime di "non colpevolezza" per tutti i quattordici capi d'accusa. La notizia dell’assoluzione di Jackson fu data dai media in modo fugace, per loro è sempre stato colpevole e, a quanto dimostrano gli ultimi accadimenti, lo è tuttora. Michael Jackson, che ha espresso tutta la sua rabbia nei confronti delle fantasiose ricostruzioni giornalistiche sulla sua vita privata nella corrosiva Tabloid Junkie, ha dichiarato: “La tecnica che usano i giornali è molto semplice: se continui a raccontare una bugia assurda, il lettore, a un certo punto, comincerà a pensare che sia vera”. La giornalista Aphrodite Jones seguì il processo per conto della Fox. Riteneva anche lei colpevole il Re del Pop, ma in seguito cambiò idea e scrisse nel 2007 un libro, dall'inequivocabile titolo Il complotto. “Quando in quell’aula – rivela la giornalista – il giudice pronunciò per 14 volte non colpevole, guardai Jackson in faccia e mi resi conto che la sua espressione era quella di un uomo grato, soddisfatto che giustizia fosse stata fatta, perché non era colpevole. Lì cambiai idea”. Il cantante, pur sollevato da quelle terribili accuse, ne uscì distrutto dal punto di vista psicologico e artistico. Il suo fisico non ha retto a una dose eccessiva di Propofol, la sostanza che, incautamente somministrata dal suo medico curante Conrad Murray (condannato per omicidio colposo), l’ha ucciso il 25 giugno del 2009.

L'eredità artistica del Re del Pop. Oggi, a quasi 10 anni di distanza dal tragico evento, non c’è praticamente artista r&b contemporaneo, da Pharrell Williams a Robin Thicke, da Bruno Mars a Justin Timberlake, che non si ispiri apertamente al pop visionario e senza confini di Michael Jackson. Il suoi passi vengono insegnati nelle scuole di danza moderna, i suoi album, sia di repertorio che postumi, vendono ancora migliaia di copie e ogni anno il numero dei suoi fan cresce in modo esponenziale. Tutti sanno che appartiene a lui l’album più venduto della storia, il capolavoro Thriller, con cento milioni di copie (anche se alcuni sostengono che siano in realtà 66 milioni, comunque il primato non cambia), un numero che continua a crescere di anno in anno. Un record meno conosciuto, ma ancora più importante, è quello certificato dal Guinnes dei primati di maggior filantropo nello show business, con quasi quattrocento milioni di dollari donati in opere di beneficenza e di filantropia, in particolare ospedali e orfanotrofi. Ci auguriamo che il prossimo 25 giugno, decimo anniversario della morte del cantante, sia un giorno in cui sarà celebrata in tutto il mondo la genialità artistica di Jackson, senza sterili polemiche su accuse che sono già state ampiamente smentite nel corso di un processo.

Michael Jackson, al film di accuse "Leaving Neverland" risponde la famiglia con un contro doc. I nipoti per ribattere alle accuse di abusi sessuali contro l'artista contenute nel film di Hbo "Leaving Neverland", hanno deciso di prendere le difese di Michael attraverso un nuovo documentario, scrive Giulia Echites il 5 aprile 2019 su La Repubblica. Hanno risposto al documentario con un altro documentario: la famiglia di Michael Jackson, per ribattere alle accuse di abusi sessuali contro l’artista contenute nel film di Hbo Leaving Neverland, ha deciso di prendere le difese di Michael attraverso un nuovo documentario, della durata di trenta minuti e pubblicato su Youtube, Neverland Firsthand: Investigating the Michael Jackson Documentary. Con la partecipazione del giornalista australiano Liam McEwan (che è pure produttore), contiene interviste a Taj e Brandi Jackson, nipoti del musicista scomparso nel 2009. Il punto di partenza è il 1993, anno in cui per la prima volta un ragazzino di tredici anni, Jordan Chandler, accusa la pop star, all’apice del successo, di violenza sessuale. L’anno successivo la causa intentata si chiude con un risarcimento di 23 milioni di dollari ricevuto dalla famiglia Chandler, atto che molti per parecchio tempo hanno considerato come un'ammissione di colpa da parte di Michael Jackson. "I soldi che la famiglia ha ricevuto non sono mai arrivati da Michael Jackson, ma dalla sua compagnia di assicurazione": nel documentario McEwan raggiunge telefonicamente Scott Ross, investigatore privato coinvolto nel processo a Jackson. "Non hai mai fatto un incidente d’auto? Anche se dici che non è colpa tua l'assicurazione decide di fare quel che vuole" dice Ross. Il documentario quindi va avanti cercando di dimostrare quanto sia usuale per un personaggio famoso essere citato in giudizio, si fa riferimento a Britney Spears, si sente la voce di Will Smith che elenca le cause in cui è stato coinvolto. Nel 2005, poi, Michael Jackson viene giudicato non colpevole di nessuno dei sette casi di abusi sessuali su minori per i quali era stato nuovamente denunciato. Quindi si arriva a gennaio 2019, al nuovo documentario diretto da Dan Reed con le testimonianze di James Safechuck e Wade Robson che sostengono di aver subito violenze sessuali all'interno del Neverland Ranch quando avevano rispettivamente 7 e 11 anni. Gli eredi di Michael avevano prima definito il docufilm "un massacro da tabloid" e poi hanno denunciato l’emittente televisiva Hbo con l'accusa di aver violato una clausola di non diffamazione scegliendo di mandare in onda, lo scorso 3 e 4 marzo, Leaving Neverland. Ora però hanno voluto partecipare attivamente al film che mette in discussione quanto già raccontato. Taj Jackson, nipote di Michael, si rivolge direttamente ai protagonisti di Leaving Neverland e alla domanda diretta sul rapporto che avesse suo zio con i ragazzini, Taj spiega come Michael rivivesse attraverso loro l'infanzia che non ha mai avuto: "Era sempre chiuso in uno studio di registrazione, a me e ai miei fratelli chiedeva come andassero le feste di compleanno. Era curioso". Quanto alle lettere che Robson e Safechuck mostrano nel documentario, in cui Jackson si firma 'Uncle Dudu', Taj spiega che decine e decine di ragazzi hanno le stesse note, compreso lui e i suoi fratelli: "Era così, se credeva che le sue parole potessero essere fonte di ispirazione scriveva lettere per tutti. Non c'è niente di strano". E lo stesso tono difensivo ha nel nuovo documentario la nipote di Michael, Brandi Jackson. Neverland Firsthand arriva su Youtube dopo che importanti stazioni radiofoniche neozelandesi e canadesi hanno messo al bando la musica di Michael Jackson, in seguito all'uscita del documentario di Hbo, e al contrario altri, personaggi più o meno famosi, si sono sentiti di difendere la pop star: la hanno fatto ad esempio Barbara Streisand dicendo che i bisogni sessuali di Michael Jackson erano “i suoi bisogni sessuali” e uno scrittore inglese, Mike Smallcombe, autore della biografia Making Michael, il quale avrebbe trovato prove che confutano quanto detto dagli accusatori nel documentario.

ORCO JACKO. Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica” il 5 giugno 2019. Il caso Michael Jackson non si è mai chiuso. Anzi, si riapre ciclicamente. Quest' anno in maniera anche più inquietante. Non solo per i fan innocentisti, ma anche per chi credeva che la morte avesse garantito alla star, se non la pace eterna, almeno una onorevole tregua. A guastare le celebrazioni del decennale della scomparsa (il 25 giugno 2009) è arrivato Leaving Neverland, il controverso documentario di quattro ore girato dal regista inglese Dan Reed e prodotto dalla Hbo (trasmesso in Italia da Canale 9), con le testimonianze choc di Wade Robson e James Safechuck, oggi adulti e padri di famiglia, che raccontano come Jackson avrebbe abusato di loro da quando avevano sette e nove anni fino all' adolescenza. Leaving Neverland, per la sua narrazione rigorosa e angosciante, ha di nuovo gettato ombre sinistre sulla personalità del re del pop, per due volte assolto dai tribunali americani dall' accusa di abuso su minori, dopo ritrattazioni e accordi extragiudiziali raggiunti a suon di decine di milioni. Ovviamente non saranno le proteste della famiglia a cancellare i dubbi né tantomeno l' annunciato lungometraggio realizzato in fretta e furia per arginare l' ignominia. A rafforzare la convinzione diffusa - anche tra psicoterapeuti e psichiatri di fama - che quelle di Leaving Neverland non siano fantasie, il 6 giugno esce in Italia Su Michael Jackson (66thand2nd, pp. 160, euro 16), una scrupolosa indagine sociologica, psicologica e fenomenologica che Margo Jefferson - 71enne scrittrice afroamericana, premio Pulitzer per la critica, autrice della rinomata autobiografia Negroland - pubblicò negli Usa nel 2006, quando la vita e la carriera del divo, stremato dalle vicende giudiziarie, dal linciaggio mediatico e certamente anche perseguitato dai suoi fantasmi, erano allo sbando. Non è l' ennesima biografia non autorizzata alla John Randy Taraborrelli, che nel 2004 aveva dato alle stampe le impietose settecento pagine di The Magic and the Madness, e neanche una di quelle sconcertanti pubblicazioni post mortem tipo Unmasked: The Final Years of Michael Jackson, con cui il giornalista investigativo canadese Ian Halperin raccontò con un tempismo sospetto (luglio 2009) un sordido, degradante e precoce finale di carriera (e di vita). Il doc Leaving Neverland non scredita, anzi aggiunge sostanza alle considerazioni raccolte da Margo Jefferson, anche se, in occasione dell' uscita italiana del libro, l' autrice ha voluto scrivere una nuova introduzione che sarà anche a corredo della nuova edizione americana. In verità il documentario di Dan Reed ha costretto i più autorevoli biografi di Jackson a riconsiderare le proprie posizioni e/o aggiungere nuovi capitoli alle loro storie; è quanto stanno facendo anche Joseph Vogel (Man in the Music), Diane Dimond (Be Careful Who You Love) e Steve Knopper (The Genius of Michael Jackson). «In Leaving Neverland, un documentario tremendo nonostante la sua pacatezza, due uomini di trent' anni, lo sguardo fisso sulla cinepresa, descrivono gli anni in cui da bambini hanno fatto sesso con Michael Jackson. Usano quest' espressione piatta, "fare sesso", e lo farò anch' io» scrive Jefferson. «Raccontano, quasi con stupore, quanto lo amassero, o meglio quanto lo adorassero, aiutandoci a capire quanto e quanto spesso l' abuso sessuale contempli un bambino che ammira un adulto autorevole - cioè un bambino che si affida, che ha bisogno e che forse è innamorato di quell' adulto. Molestia e abuso sono due parole dure e inequivocabili, ma spesso inseparabili dalle lusinghe e dalle ambiguità della seduzione; nel cervello e nel corpo del bambino questo genere di sentimenti si mescolano.() Michael Jackson era una divinità della nostra cultura. () Immaginate di incontrarlo di persona. Immaginate di essere un bambino che una divinità sceglie come suo favorito». Non è indulgente Margo Jefferson verso quell' artista che in gioventù, quando era il bambino prodigio dei Jackson 5, fu anche il suo idolo. Sa che è stato picchiato e vessato psicologicamente dal padre Joseph «e ci sono voci insistenti secondo cui, da bambino, era stato molestato sessualmente da almeno un adulto nel mondo della musica». Quindi con ogni probabilità Michael, come Wade e James, non è riuscito a liberarsi degli abusi subiti. Ma reiterare la violenza subita non è lecito né plausibile: «Quella di Michael è una favola tragica e al contempo una favola horror. C' è un predatore-seduttore che si finge il protettore puro di cuore di tutti i bambini innocenti del mondo. È un potere che esercita ancora oggi sulla moltitudine di fan». Jefferson non trascura nessuno dei traumi esistenziali della star e non è dalla parte di coloro che ipocritamente considerano bambini e adolescenti asessuati e incapaci di intrecciare una relazione romantica; valuta le attenuanti, ma lucidamente conclude: «Il genio vulnerabile è stato anche uno scaltro pedofilo: questa è la cosa con cui dobbiamo fare i conti adesso, e non possiamo certo sminuirla. (). L' innocenza legale è ben altra cosa dal proscioglimento pubblico». Leaving Neverland non ha ribaltato le convinzioni di Margo Jefferson, ha però sconvolto la certezza che nel giugno del 2009 la fece sentire più leggera rispetto alle spinose questioni che tre anni prima aveva sollevato col suo piccolo e rivoluzionario saggio - sperava che la morte restituisse all' artista la sua reputazione, come tante volte è successo nella storia. «Invece ora, dieci anni dopo» scrive, «un documentario come Leaving Neverland ci mette davanti a nuove domande. Provo imbarazzo e vergogna perché all' epoca non riuscii a spingermi fino al punto di riconoscere che quest' uomo ferito era quasi certamente un predatore sessuale? Sicuramente sì. () Io tifo per Wade e James affinché possano ottenere il più alto risarcimento legale ed economico possibile». Il mea culpa di Margo Jefferson va letto però come un eccesso di zelo più che come denuncia della propria codardia; il quadro psicologico che aveva tracciato nel 2006 era già sufficientemente allarmante: «È un uomo buono o un predatore? Un protettore di bambini o un pedofilo? Un genio rovinato o una celebrità che vuole rimanere al centro dell' attenzione a qualunque costo? Un divo bambino che ha paura di invecchiare o uno psicotico/freak/perverso/sociopatico? E se fosse tutte queste cose insieme?». I codici per interpretare i simboli, le conseguenze della auto-repulsione razziale e di quell' isola pre-sessuale che fu Neverland, di cui Jackson fu fiabesco castellano e orco a capo di un grottesco modello di famiglia allargata, sono perfettamente aderenti a quelli forniti da Wade e James. Come acuta è l' indagine sulla famiglia canterina dove tutti sono vittime non solo dell' abusivo papà Joseph, ma soprattutto dell' immensa popolarità di Michael, perché «un bambino prodigio rende insopportabile la vita degli altri otto fratelli che senza di lui non avrebbero alcuna importanza». Quanta confusione e schizofrenia in tutti quegli slittamenti di identità e di genere, in quell' applaudito infrangere delle leggi razziali che fecero seguito alla prima rinoplastica del 1979, quando aveva ventun anni, e ai successivi, progressivi sbiancamenti dermici! Cos' era alla fine se non un Frankenstein costruito con pezzi di Elvis e Diana Ross, della regina del burlesque Gypsy Rose Lee e di Little Richard, di Fred Astaire e Liz Taylor? Ora che le bugie dell' uomo e le menzogne dello star system sono state smascherate, resta la questione cruciale, quella che Margo Jefferson aveva già azzardato nel 2006 e che oggi, mentre alcune emittenti radio cancellano la musica di Michael Jackson dai palinsesti, si ripropone: è possibile separare l' arte dalla vita? «Sono tutti provvedimenti a breve termine» scrive l' autrice «e in alcuni casi indecorosamente ipocriti. Se la stessa misura venisse adottata per tutti i casi di sfruttamento sessuale e di abuso, la Rock and Roll Hall of Fame (che pure minaccia di prendere provvedimenti, ndr) - e molti dei suoi membri maschi e spavaldamente eterosessuali - ne uscirebbe decimata». E il mondo dell' arte - sottoposti a una fase di revisionismo morale Caravaggio e Verlaine, Oscar Wilde e Serge Gainsbourg, William Burroughs e Chuck Berry - si trasformerebbe in un cimitero di tombe anonime. 

·         Whitney Houston.

«Sono stata l’amante di Whitney Houston ma non potevo dirlo». Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. Per anni, la loro storia d’amore è stata oggetto di voci e speculazioni. Adesso la conferma arriva dalla stessa Robyn Crawford, che di Whitney Houston è stata la assistente personale e ora - si scopre - anche la compagna . La Crawford ha deciso di raccontare la sua storia nel libro di memorie «A song for you». «Perché ora?», anticipa la domanda dei lettori nell’introduzione al nuovo libro, dando anche una risposta.

«Ho fatto del mio meglio per stare lontano dai riflettori ma credo sia mio dovere onorare la sua memoria e chiarire le molte inesattezze su me stesso e su chi fosse Whitney». La loro relazione, secondo quanto riferito dalla Crawford, sarebbe durata due anni. « Non si trattava solo di andare a letto insieme», sottolinea nel libro. «Potevamo fidarci l’una dell’altra, confidarci i nostri sentimenti e davvero dirci chi eravamo». La Houston interruppe la relazione subito dopo aver firmato il suo contratto discografico, consegnando alla Crawford una Bibbia e dicendole che temeva il giudizio del pubblico: Whitney era convinta che se la relazione fosse diventata di pubblico dominio la sua carriera avrebbe potuto risentire. Robyn Crawford le rimase comunque accanto, dandole spesso un appoggio e un consiglio, anche durante la sua turbolenta vita sentimentale. Nel libro descrive senza remore l’uso disinibito di alcol e droghe della popstar, a cui lei assisteva in modo impotente. Quando la Crawford lasciò la squadra della Houston nel 2000, la star stava cancellando gli spettacoli e spesso disertava la sala di registrazione: il sospetto - poi confermato - è che la cantante fosse vittima di violenza da parte del marito Bobby Brown. Lo stesso Brown, secondo un articolo apparso su Us Weekly , sarebbe stato a conoscenza della relazione tra le due donne, che sarebbe proseguita clandestinamente anche durante gli anni del matrimonio. Pare inoltre che la madre di Whitney, Cissy, fosse irremovibile circa l’omosessualità di Whitney. Questa è considerata spesso una delle ragioni per cui la diva ha nascosto la propria bisessualità. La stessa storia della Crawford non è molto più felice: figlia di una ragazza madre , che ha lasciato il marito dopo anni di abusi, ha perso alcuni suoi familiari più stretti a causa dell’ Aids. Oggi la Crawford ha lentamente ricostruito la sua vita e ora è felicemente sposato con due figli adottivi: dopo aver lavorato come giornalista, intervistando artisti del calibro di Jessica Biel e Kristen Bell, attualmente è istruttrice di fitness.

DAGONEWS il 7 novembre 2019. Robyn Crawford, l’amica e confidente più stretta di Whitney Houston, per la prima volta mette a nudo la storia d’amore poi trasformata in amicizia tra lei e la cantante morta a 48 anni. Crawford, 58 anni, ha raccontato di aver trascorso oltre tre decenni al fianco di Houston e di aver avuto una relazione con lei negli anni ‘80 nel libro di memorie “A Song For You: My Life with Whitney Houston”. «Sono arrivata al punto in cui ho sentito il bisogno di difendere la nostra amicizia» ha scritto Crawford in un estratto pubblicato nel numero di People di questa settimana. «Ho sentito l’urgenza di rivelare l’incredibile donna che era al di là del talento». Crawford aveva 19 anni quando incontrò Houston, che aveva 17 anni, mentre lavoravano in un campo estivo a East Orange, nel New Jersey, nel 1980. Le due si innamorarono, ma trasformarono la relazione in un amore platonico dopo che Houston firmò il suo contratto con il produttore Clive Davis. Crawford ha raccontato che Houston ha interrotto la loro relazione fisica nel 1982, dandole una Bibbia blu: «Mi disse che non dovevamo avere più rapporti perché questo rendeva il nostro viaggio più difficile. Aggiunse che se le persone lo avessero scoperto, lo avrebbero usato contro di noi. Era così negli anni ’80.  Whitney inoltre mi disse che la madre, la cantante gospel Cissy Houston, le aveva detto che non era naturale che due donne fossero così vicine. E noi lo eravamo». Crawford ha detto di aver rispettato il suo desiderio. «Ho trovato conforto nel mio silenzio» ha scritto. La coppia, però, ha mantenuto un'amicizia stretta alimentando anni di speculazioni sulla sessualità di Houston. «Non abbiamo mai parlato di etichette, come lesbiche o gay - ha spiegato Crawford – Vivevamo le nostre vite e speravo che potesse andare avanti così per sempre. Volevamo stare insieme, e questo significava tanto per noi». La donna ha rivelato che la loro storia d’amore è solo una parte di un legame duraturo avuto Houston. «Whitney sa che l'ho amata e so che ha amato me - ha scritto Crawford - Ci siamo ripromesse di starci accanto». Negli anni successivi, Houston ha avuto una storia d’amore prima con Eddie Murphy e poi con la stella del calcio Randall Cunningham. Nel 1992 si è sposata con Bobby Brown (Crawford era la damigella d’onore) e un anno dopo è nata Kristina Brown. Il tumultuoso matrimonio della coppia ha fatto spesso notizia e i due hanno divorziato nel 2007. Houston è morta a 48 anni nel 2012 a Beverly Hills, in California. Un rapporto del coroner indicava che la cantante, che aveva lottato contro l'abuso di sostanze, era annegata accidentalmente nella vasca da bagno a causa di una malattia cardiaca e per l’uso di cocaina. Sua figlia, Bobbi, è morta tre anni dopo in un incidente legato alla droga nel bagno della sua casa in Georgia. Oggi Crawford lavora come istruttrice di fitness e vive una vita tranquilla con la sua compagna Lisa Hintlemann e i loro due figli adottivi. «Volevo dare il giusto peso alla sua eredità – ha detto - Darle rispetto e condividere la storia di chi era prima del successo». La madre di Houston, Cissy, quando ha parlato della possibilità che la figlia fosse lesbica nel 2013 con Oprah, ha detto che avrebbe avuto dei seri problemi nell’accettarlo.

·         George Michael.

«George Michael era sieropositivo e non scriveva le sue canzoni»: le accuse dell’ex Fadi Fawaz su Twitter. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Arianna Ascione. Fadi Fawaz, l'ultimo compagno dell'artista si è nuovamente sfogato su Twitter dal suo profilo social, scatenando la furia dei fan. Dall'uso di crack alla sua presunta sieropositività (scoperta a Vienna, presumibilmente quando si fece ricoverare all'AKH General Hospital poche settimane prima di morire nel 2016): Fadi Fawaz, ultimo compagno di George Michael, ha scelto Twitter per diffondere alcune scottanti rivelazioni - non confermate - sull'ex leader degli Wham!, che a suo dire avrebbe anche pagato altri per scrivere canzoni da far passare per sue («Dopotutto non era così talentuoso»). Per dimostrare che il suo profilo non è stato hackerato, e che era proprio lui in persona a scrivere i tweet, ha pubblicato una sua foto recente. L'ex hair stylist 46enne, che ha trascorso con l'artista gli ultimi quattro anni della sua vita, non sta vivendo un periodo facile: escluso dal testamento è stato allontanato dalla villa in cui viveva con Michael (nonostante avesse affermato di aver ricevuto da George, quando era ancora in vita, l'autorizzazione a rimanere). Oggi, stando a quanto riportano i giornali inglesi, vive come un senzatetto e lo scorso luglio è stato arrestato con l'accusa di danneggiamento aggravato. Davanti alle affermazioni di Fawaz, che ha affidato più volte ai social (tra Twitter e Facebook) pensieri e sfoghi sul suo rapporto con il cantante, i fan non sono rimasti a guardare: «Penso che tu abbia bisogno di un buon avvocato», gli hanno risposto. «Anche se questo fosse vero, pensi davvero che a qualcuno interesserebbe ?! George sarà amato per sempre dai suoi fan a prescindere...mentre tu svanirai nell'oscurità».

DAGONEWS il 6 Ottobre 2019. Durante il periodo negli Wham! George Michael ha lottato per mantenere segreta la sua omosessualità. È quanto rivela nella sua autobiografia “Wham! George and Me” Andrew Ridgeley, altro membro della band, che ha raccontato lo struggimento del cantante che aveva paura che quella notizia avrebbe potuto danneggiare la sua carriera, impedendogli di competere con star come Madonna e Michael Jackson. Ridgeley, che ora ha 56 anni, ha affermato che il cantante era ossessionato dalla voglia di mantenere la sua immagine pubblica immacolata. «Al di là di una stretta cerchia di persone nessuno ne aveva davvero la minima idea. La voglia di mantenere una facciata non stava facendo a pezzi George, ma si intravedevano le prime crepe. La sua ambizione di successo aveva la priorità su tutto, inclusa la sua sessualità. Era guidato da un desiderio inarrestabile di realizzare il suo potenziale, ma questo aveva un prezzo. Quali fossero le vere implicazioni per George, non posso dirlo, ma sapevo che non si era mai sentito a suo agio. Era irremovibile sul fatto che la sua sessualità dovesse essere tenuta nascosta il che ha creato un livello di stress indesiderato che era difficile da gestire». Ridgeley, che ha affermato di non aver mai incontrato alcun ragazzo di Michael durante la sua permanenza nella band, ha aggiunto: «George ha rifiutato di dirlo anche dopo la morte per Aids del suo fidanzato Anselmo Feleppa Aids nel 1993. Era devastato, ma non era in grado di discuterne in pubblico. Se avesse parlato prima, chissà in che modo le cose sarebbero potute andare». Nell'autobiografia Ridgeley racconta nel dettaglio il momento in cui George ha rivelato ai membri della band di essere gay. «Eravamo in un hotel di Ibiza durante le riprese di Club Tropicana nel 1983. Shirlie Holliman era seduto su un grande divano. George era ancora a letto. Ha sorriso quando sono entrato. L'atmosfera nella stanza era rilassata e familiare, ma ciò che George stava per rivelare era chiaramente un grosso problema per lui. "Non sapevo se dirtelo" mi disse, guardando Shirlie, "ma lo farò. Sono gay"». Da quel momento ci mise 15 anni per rivelare pubblicamente di essere omosessuale. Nonostante il loro stretto legame, Ridgeley ha ammesso di essere stato "invidioso" di Michael. «Ero stupito dal suo talento, ma sarebbe stato favoloso che un po’ di quella polvere di stelle arrivasse anche su di me». Infine Ridgeley ha affermato di avere ancora molte domande senza risposta sulla sua morte, nonostante sia stata catalogata come provocata da una patologia cardiaca: «Ora sembra che potremmo non sapere mai cosa è successo davvero».

·         L'Uomo Tigre, un eroe tragico che ci ha insegnato a soffrire.

L'Uomo Tigre, un eroe tragico che ci ha insegnato a soffrire. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessio Lana. Spietato con gli avversari sul ring, fragile quando si toglieva la maschera, è stato un esempio di sportività per milioni di ragazzi. Forza, azione e un'immancabile malinconia di sottofondo. «L'Uomo Tigre» compie 50 anni ma quei tratti crudi, la maschera che non lasciava trapelare emozioni e gli sfondi dai colori anni '60 sono ancora nei nostri occhi. E nel nostro cuore. «L'Uomo Tigre» (in originale «Tiger Mask») ha unito più generazioni e non solo nel nostro Paese. Il primo episodio, «Il demone giallo», è stato trasmesso in Giappone il 2 ottobre 1969 ma è arrivato da noi solo nel 1982, su Rete 4. Di fatto un ponte globale tra generazioni come ha sperimentato chi si è trovato a parlare con un anziano giapponese: è facile trovare un settantenne nipponico che ha i medesimi ricordi di un trentenne italiano. La formula del successo di Naoto Date, il ragazzo che si cela dietro alla maschera nato dal manga di Naoki Tsuji e Ikki Kajiwara nel 1968 (il cartone è della Toei) è nell'essere bifronte, vincitore e perdente contemporaneamente. L'Uomo Tigre è un eroe solitario, «combatte solo la malvagità/non ha paura si batte con furore/ed ogni incontro vincere lui sa», come recita la sigla italiana. Ma è anche un eroe tragico, che lotta prima di tutto contro se stesso. Tra fiotti di sangue, incontri spettacolari e nemici famelici, il campione di puroresu, il wrestling giapponese, è più tridimensionale di quanto ci si aspetti. C'è l'onore, c'è la lotta, c'è la vittoria ma c'è anche la sconfitta, l'amore per la libertà e per gli orfanelli (Naoto era lui stesso un orfano nato dopo la Seconda Guerra Mondiale). Il protagonista è fiero ma fragile, impenetrabile quando indossa quella maschera che non permette di vedere neanche i movimenti della bocca. Quando la toglie però eccolo diventare altro, un ragazzo come tanti, dai tratti dolci. Eppure è un ribelle, lui che ha deciso di versare i proventi delle vittorie non alla Tana delle tigri che l'ha allevato ma ai ragazzi senza genitori. Non ha neanche i superpoteri. In senso stretto l'Uomo Tigre non è un supereroe, è uno sportivo che si impegna, suda e si stanca, che geme, che viene messo al tappeto e deve faticare per eccellere. È un uomo che ha passato dieci anni della propria nelle Apli per allenarsi e arrivare ad avere quel fisico scolpito nel marmo. La vita non gli ha regalato nulla. È tutto frutto del suo impegno come nella migliore tradizione sportiva. Tutto ciò veniva captato, forse inconsapevolmente, da chi, in quel 1982 e nelle infinite repliche successive, era solo un bambino o un adolescente. Con l'Uomo Tigre il finale non era mai scontato, la vittoria sempre amara. Si soffriva con lui sul ring mentre riceveva colpi micidiali dipinti con questi tratti minimalisti, squadrati, freddi in cui c'era violenza ma era così stilizzata che difficilmente i genitori lo vietavano. Chissà, forse anche loro ne avvertivano la malinconia di fondo e ci lasciavano guardarlo. L'Uomo Tigre emozionava e faceva sognare ma forse dovremmo volgere la frase al presente. Provate a guardare oggi, con gli occhi ormai adulti, una puntata della serie. L'effetto sarà lo stesso. A partire dalla sigla.

·         Il Moulin Rouge.

Dai cavalli al cancan: 130 anni di storia del Moulin Rouge. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi. Ha aperto le porte per la prima volta il 6 ottobre 1889, diventando presto un’istituzione parigina e uno dei simboli di Parigi nel mondo. Il Moulin Rouge ha aperto le sue porte per la prima volta il 6 ottobre 1889, 130 anni fa, diventando in pochi anni un’istituzione parigina e uno dei simboli della città nel mondo. Celebrato nel 1955 nel film di Jean Renoir «French Cancan» e poi nel 2001 da Baz Luhrmann nel film con Nicole Kidman e Ewan McGregor, il Moulin Rouge tiene tuttora in vita la tradizione del music-hall con lo spettacolo «Féerie» inaugurato nel 1999 e visto da 12 milioni di persone con due rappresentazioni ogni sera, 365 giorni all’anno. Il Moulin Rouge venne creato da Charles Zidler e da Joseph Oller, che prima avevano avuto l’idea di fare correre i cavalli in un circuito vicino al Pont de l’Alma, accettando scommesse. Con i guadagni di quell’attività Oller comprò alcuni grandi spazi a Parigi, per esempio l’Olympia che all’epoca era un hangar. Francese di origine spagnola, Oller pensò di organizzare in quelle sale spettacoli musicali che chiamò music-hall (hall è l’inglese per hangar). Il Moulin Rouge accoglieva a Pigalle l’alta borghesia di Neuilly che si divertiva a frequentare la Parigi popolare e disinibita. E ben presto il locale divenne il punto di ritrovo di artisti come Apollinaire, Renoir, Braque, Aristide Bruant e soprattutto Henri de Toulouse-Lautrec, che fece della ballerina di cancan Louise Weber detta «La Goulue» una delle sue modelle. Dal 1840 a Montmartre si ballava una danza chiamata «quadrille naturaliste», che venne scoperta e apprezzata dall’impresario inglese Charles Morton. Quella danza venne importata a Londra da Morton, che decise di darle un nuovo nome: french, perché era francese, e cancan perché era molto rumorosa. Così nacque il french cancan, che tornò come tale in Francia, al Moulin Rouge, suo nuovo tempio. Sul palco del Moulin Rouge sono saliti anche Charles Trenet e Edith Piaf, ma la sala è rimasta legata alla rivista con ballerine e piume di struzzo. Un genere di spettacolo talmente kitsch e fuori moda da raccogliere un successo costante nel tempo. Secondo il proprietario del Moulin Rouge, Jean-Victor Clérico, il tasso di riempimento dei 900 posti è in media del 97 per cento. Domenica 6 ottobre 2019, alle ore 20 esattamente come 130 anni fa, i 60 artisti del Moulin Rouge offrono davanti al teatro, in Place Blanche, un french cancan all’aperto con fuochi artificiali.

Leonardo Coen per “il Fatto quotidiano”  il 3 ottobre 2019. Quando il Muro di Berlino crollò, il Moulin Rouge aveva già compiuto un secolo. Di feste. Di glamour. Di successi. Di illusioni erotiche. Cent' anni mai di solitudine. Di desideri (soprattutto) maschilisti sino alla spossatezza. Di quando mademoiselle La Goule, il 26 ottobre del 1890, la più celebre delle cocottes ed attrazione numero uno, vide in sala Edoardo VII , principe di Galles, e l' apostrofò: "Ohé, Galles, paghi tu lo champagne?" Con la medesima insolente sicumera e altrettanta sovrana leggerezza, domenica prossima 6 ottobre, il Moulin Rouge festeggia nel cuore di Pigalle - il vecchio quartiere a luci rosse di Parigi - gli anni diventati ormai 130. Lo fa con un tradizionale spettacolo di son et lumières proiettato sulla "sua leggendaria facciata", come si legge negli avvisi pubblicati dai giornali e nei siti web, "all' insegna del divertimento". E ci mancherebbe altro che non fosse così. Il Moulin Rouge è un' icona dei nostri tempi. Del nudo sdoganato, per usare una trita formula del politcally correct. Di Dio creò la donna. Di Toulouse-Lautrec che ne dipinse l' anima e il peccato, les affiches e le suggestioni. Mica è un anniversario trascurabile: si celebra un lungo viaggio nella storia del futile (ma non dell' inutile). Un vegliardo cabaret che di anni ne conta quanto quelli della Tour Eiffel, di cinque mesi più anziana. E né l' uno né l' altro vogliono arrendersi all' usura del tempo. Sono infatti i simboli più noti e visitati (col Louvre) di una Parigi che nel 1889, in occasione dell' Esposizione Universale, volle celebrare il mito del progresso costruendo l' edificio più alto del mondo ma affiancandolo anche ad un tempietto laico - la ricostruzione di un mulino (primo edificio parigino illuminato dall' elettricità) in cui si coltivava l' essenza e l' estetica dell' erotismo. Ma anche la stordente sensazione di varcare, senza impedimenti se non quello dei quattrini, la frontiera notturna "proibita" del divertimento osée che nella capitale francese era una sorta di marchio. Una meta dei provinciali. E dei turisti che provenivano da Paesi in cui frequentare locali del genere era considerato riprovevole, e i nudi severamente sanciti, se qualcuno ne denunciava l'oscenità. Il Moulin Rouge fu fondato con la specifica intenzione di convalidare, all' interno del vasto locale decorato con fantasie rococò, uccelli del Paradiso, gorgone e altre creature fantastiche, l' imprimatur del carattere licenzioso parigino. In realtà, lì dentro si sollecitavano i limiti e le trasformazioni del comune senso del pudore. Il 6 ottobre del 1889, all'inaugurazione si vantò l'ardimento tecnologico di Parigi, ma pure l'emancipazione di una città moderna proiettata verso il futuro che poteva assecondare la liberazione dei costumi e tollerare le audacie immorali. Il sogno di Totò, nel film che lo vede fiondarsi a Parigi per una serata trasgressiva Ma senza sconfinare nella volgarità. Il Moulin Rouge ha sempre puntato sulla qualità e la fantasia dei suoi spettacoli, mai banali. E sul fascino delle sue artiste: come Mistinguett, La Goulue, La Môme Fromage, Joséphine Baker. Sul suo palcoscenico si sono esibiti Edith Piaf, Yves Montand, Frank Sinatra e tanti altri mostri sacri della musica e del varietà. L'elenco è sterminato. Pure l'esasperata cura delle meravigliose coreografie è diventata leggendaria. Spesso, parentesi incantate. Come l' attuale rivista Féerie, dove il French Cancan è indiavolato ed impeccabile, coi froufrou e le giarrettiere come si deve. La nudità delle bravissime e stupende ballerine (le Doriss Girls) è ormai un pretesto. Danzano con straordinaria professionalità, e questa loro perfezione stilistica, abbinata ad un' alterigia imposta dagli organizzatori del locale, mitiga il timore dell'immoralità. Anzi. Semmai, incombe la cauzione dell' arte. L'alibi che allontana ogni rimorso del voyeur. Dell'occhio impuro. Persino lo strip-tease, con i suoi rituali movimenti - e la gelida, studiata indifferenza delle spogliarelliste - scaccia ogni morbosità: proprio quei gesti perfetti e apparentemente maliziosi, frutto di sofisticata tecnica, le tiene a distanza dallo spettatore, e l' indifferenza acuisce l' impressione che "la loro scienza le veste come un abito", scrisse il grande semiologo Roland Barthes ("Miti d' oggi"). Demistificando le mitologie contemporanee, Barthes scoprì già nel febbraio del 1957 (!) che al Moulin Rouge, con questa minuziosa esorcizzazione del sesso, si cercava di addomesticare l' erotismo tentando di dare agli strip-tease e ai balletti scollacciati uno "statuto piccolo-borghese rassicurante". E familiarizzato. Tanto che lo strip assume contorni patriottici. Le ballerine del French Cancan slanciano gambe infinite, chiudono con spaccate mozzafiato, indossano strasses e paillettes trasparenti e svolazzanti coi colori della bandiera francese. È il travolgente clou che scatena entusiasmi da concerto rock. Da un secolo e tre decadi. Ogni sera, due spettacoli (il primo alle 21, il secondo alle 23), tutti i giorni dell' anno, senza requie. Il sold out impressionante del 97 per cento (600mila spettatori l' anno, in una sala che ne può ospitare 900) dimostra la validità commerciale della formula. Oggi il Moulin Rouge è incluso nei pacchetti turistici. Prenotazioni on-line. Il cabaret "piccante" più famoso del mondo attira clienti da ogni parte del mondo. Metà sono infatti stranieri e i più numerosi sono cinesi, russi, americani. Felici di sedersi ad un tavolino in platea, di ordinare l' immancabile champagne (altro eterno made in France) e stare in un luogo che un tempo era considerato, dai benpensanti, un posto di perdizione. Che forse non lo era mai stato.

·         Dieci anni dopo Mike la tv è ancora un quiz.

Domenica Live, rivelazione di Daniela Zuccoli a Barbara D'Urso: "Parlo sempre con Mike Bongiorno e dice..." Libero Quotidiano il 4 Novembre 2019. Daniela Zuccoli, moglie di Mike Bongiorno, ospite di Barbara D'Urso a Domenica Live, su Canale 5, ricorda il conduttore televisivo scomparso dieci anni fa: "Parlo con Mike, lui c'è in un modo tale che io dico delle cose che in realtà lui dice per me. Mi accorgo che la gente mi stringe la mano e in realtà la stringe a lui". La Zuccoli ricorda la proposta di matrimonio: "Arriviamo in spiaggia, un amico fa una foto proprio in quel momento e lui mi dice 'Voglio proprio sposarti'", racconta la donna. Mike è mancato l'8 settembre del 2009. Daniela rivela che tre giorni prima fece "un discorso ai ragazzi, profetico e bellissimo, dice 'Non disperate mai nella vita, abbiate coraggio'. Il 6 è nata Luce, la nipotina. Il 7 siamo partiti felici per Montecarlo". Le ultime parole sono proprio per la piccola Luce: "Che bella, sembri tu quando prendi il sole", le disse Mike.  

Mike Bongiorno, a dieci anni dalla scomparsa le celebrazioni Rai-Mediaset. Zuccoli: "Forse sarebbe contento di vedermi a parlare di lui". L'omaggio a viale Mazzini, a Cologno Monzese uno studio intitolato al conduttore. L’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini: "Aveva la capacità di raggruppare davanti allo schermo tutta la famiglia". Silvia Fumarola il 06 settembre 2019 su La Repubblica. Una giornata televisiva nel ricordo di Mike Bongiorno, a dieci anni dalla morte. Se ne andò l’8 settembre, per un infarto a 85 anni. Più che un conduttore un pezzo di storia italiana. Il 3 gennaio 1954 inaugurò le trasmissioni del servizio pubblico con il programma Arrivi e partenze, con i suoi quiz, da Rischiatutto a Lascia o raddoppia, ha fatto la storia della tv. Una vita da romanzo. Sabato sarà ricordato con un appuntamento speciale di Porta a porta intitolato Allegria allegria allegria, in onda su Rai 1 alle 22,55, con una staffetta Rai-Mediaset visto che ci sarà un collegamento realizzato con Gerry Scotti negli studi di Cologno Monzese. Lo ha annunciato a Viale Mazzini Bruno Vespa, presenti anche la vedova di Mike, Daniela Zuccoli e il più piccolo dei figli di Bongiorno, Leonardo. Saranno tra gli ospiti di Vespa insieme a Carlo Conti, Amadeus, Flavio Insinna (che saranno nelle cabine dei concorrenti) e Marco Liorni (nel ruolo del notaio). Da Scotti andranno invece gli altri due figli di Bongiorno, Nicolò e Michele, ospiti nello studio intitolato al padre. Sabato alle 20,35 su Rai 1 ci sarà uno speciale dal titolo Allegria, a cura di Vincenzo Mollica, in cui Rosario Fiorello racconta Mike, seguito alle 21,25 da Techetechetè. “Come moglie non sono stata mai abituata a parlare troppo in pubblico. Forse sarebbe contento di vedermi a parlare di lui”, dice Daniela Zuccoli. “Trovo speciale tutto ciò che sta avvenendo in questi tre giorni attorno alla sua morte. Non solo con queste 12 ore di trasmissioni Rai. Ovunque, sia sulle reti della concorrenza, sia sui social, per strada. Immaginavo che quest’anno ci sarebbe stata una rincorsa per avere interviste, disordine e frenesia, una corsa alla realizzazione di un ricordo adeguato. Allora, sono venuta in Rai dicendo: ‘So già che verranno fatte molte cose, le uniche che vi posso portare sono Vincenzo Mollica e Fiorello’ che avevo organizzato personalmente in quei giorni. L’unica altra cosa che ho chiesto è stata di poter mettere a disposizione un numero per una raccolta di beneficenza per la Fondazione Mike Bongiorno. Vorrei che non fosse ricordato solo come presentatore di quiz, vorrei fosse ricordato come uomo che ha fatto un po’ di storia d’Italia. Abbiamo un premio in casa che ricorda come abbia ‘venduto la tv agli italiani’. Ha unificato nord e sud, ha unificato la lingua, un merito anche particolare, visto che veniva dagli Usa. Tutte le città che vogliono una via intitolata a Mike ora possono averla, viso che sono passati dieci anni dalla sua scomparsa”. “Le reti unificate”, continua, “non si sono mai viste, era difficile. Quando la Rai mi ha dato il suo accordo, sono andata a Mediaset e anche loro mi hanno dato la massima disponibilità, confermando la volontà di regalare anche loro 12 ore di trasmissione a Mike. Gli hanno anche intitolato uno studio. Mi viene da dire a Mike, con un pizzico di commozione: ‘Nella vita hai sempre unito tutti e stai ancora unendo tutti: la tua famiglia e le aziende per cui hai lavorato’”. Il figlio Leonardo è impegnato nella Fondazione: “Nei quiz viene premiato il più preparato e il più appassionato. E questo è ciò che abbiamo pensato di trasferire alla fondazione, attraverso le borse di studio. La filosofia che più rappresenta il lavoro di papà. Gireremo le università di tutta Italia, troveremo gli studenti più meritevoli e con un ISEE basso, gli daremo un’opportunità. Ho visto in anteprima il programma di Rai Cultura e sono rimasto quasi scioccato. Ovviamente conoscevo la storia di mio padre, ma mi ha permesso di capire da dove arrivano tutti i valori e gli insegnamenti che mi ha tramandato, anche nella vita privata”. Mike Bongiorno chiamava il figlio Leonardo, oggi trentenne, Leolino. Papà ansioso, raccontava che restava sveglio la notte per aspettare che tornasse a casa. Laurea alla Bocconi, Leonardo ha pubblicato sui social una foto che lo ritrae bambino mentre fa il bagno con il padre che per farlo ridere gli fa le boccacce. Il post è tenero: “Te ne sei andato qualche giorno dopo il mio 20simo compleanno. Oggi ne faccio 30 e stiamo ricordando i 10 anni dalla tua scomparsa. In verità sei sempre con me e sono sempre il tuo Leolino anche se ora un po’ cresciuto e penso che non ci staremmo più in due in quella vasca da bagno". “Mike teneva molto al Rischiatutto”, dice Vespa, “per me è quello di Lascia o raddoppia, perché quella era l'Italia che cresceva e che sarebbe bello tornasse. Si è molto ironizzato sulla semplicità del suo linguaggio, ma è quello perfetto per la tv perché bisogna farsi capire da tutti". "Il giovedì sera non si usciva di casa. Mike Bongiorno incarnava i due principi fondamentali del servizio pubblico, coesione e inclusione” spiega l’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini. “Aveva la capacità di raggruppare davanti allo schermo tutta la famiglia, e la capacità di rendere protagonisti. Con lui il concorrente non era un concorrente, era protagonista. Ha portato in Italia il quiz show, non ha importato un format ma lo ha creato. È un lascito a tutta la televisione italiana: fa parte della storia della Rai e ricordarlo non è un obbligo ma un piacere". "L'allegria di Mike era quella di una Rai spensierata, di un'Italia che guardava con fiducia al futuro”, aggiunge il presidente della Rai Marcello Foa. “Se la Rai oggi è quello che è lo deve anche a Bongiorno perché fu il primo a capire il potenziale della tv di massa e ad applicarlo concretamente. Lo ha fatto con una professionalità e una capacità di linguaggio che ancora oggi deve far riflettere".

Dieci anni dopo Mike la tv è ancora un quiz. Ma lui resta il campione. Bongiorno battezzò la Rai e fece crescere Mediaset. Un recordman fra idee e litigi. Paolo Scotti, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. Quando di un personaggio pubblico si dice che è come «uno di famiglia», si può anche peccare di retorica. Ma se c'è un personaggio a cui l'abusata definizione calza come un guanto, quello è proprio Mike Bongiorno. Con buona pace di Umberto Eco, che dall'alto del suo irritato snobismo lo definì «mediocrità assoluta», forse è stata proprio l'aurea «normalità» del più amato fra i presentatori tv a farne un po' quello che in famiglia è - attraverso le generazioni - prima l'amico fidato, poi lo zio rassicurante, infine il nonno brontolone. Perché sarà pure vero che, come scrisse l'autore di Fenomenologia di Mike Bongiorno, in lui lo spettatore vedeva «glorificato e insignito di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti», ma certo lo schizzinoso intellettuale non si accorse di quanto quei limiti fossero uniti a un professionismo d'acciaio, a un infallibile fiuto per le novità televisive, al sicuro istinto per tutto ciò che (magari involontariamente) fa spettacolo. E di quanto ciò sia bastato a fare di quel «mediocre» un uomo di successo, tale da essere ancora, a dieci anni dalla scomparsa (era l'8 settembre 2009 quando un infarto se lo portò via ottantacinquenne, durante una vacanza a Montecarlo) «uno di famiglia». Lo testimoniano non solo i palinsesti con cui Rai e Mediaset lo festeggeranno - dopo lo «speciale» di ieri firmato Maurizio Costanzo, sabato e domenica Canale 5 celebrerà un intero «Mike Day» con brani dei programmi più amati, mentre sabato Raiuno risponderà con uno «speciale» di Vincenzo Mollica e un Techetechetè monografico - ma soprattutto l'affetto da cui il suo nome è tuttora avvolto. Non stupisce allora il biglietto che Alda Merini fece recapitare alla vedova Daniela, il giorno del funerale: «Da ieri il tinello di casa mia è rimasto vuoto». Perché quello di «mister Allegria» è il singolare destino delle figure pubbliche che una lunga vita e un'ininterrotta attività (il calcolo, non accertabile, che la sua carriera tv sia la più duratura al mondo, dev'essere comunque vicino al vero) rendono ineliminabili punti di riferimento. Che Bongiorno sia stato «l'inventore» della tv in Italia, infatti, non è un'esagerazione. Sua - dopo gli esordi radiofonici promossi da Vittorio Veltroni, papà di Walter - l'inaugurazione delle emissioni ufficiali Rai con Arrivi e partenze nel 1954; suo il primo show divenuto fenomeno di costume, quel Lascia o raddoppia? che dal '55 al '59 incatenò un Paese intero davanti ai televisori o agli schermi dei cinema; suo il primo talent show (Campanile Sera); il primo show con Vip (Giochi in famiglia); il primo show della memoria (Ieri e Oggi). Suo il merito della fine dell'inveterato uso di mandare i bambini a letto dopo Carosello: grazie a Rischiatutto si poteva restare in piedi almeno al giovedì. Sua anche la prima partecipazione illustre alla tv commerciale, con conseguente fine del monopolio Rai quando, a fronte dei 26 milioni annui corrispostigli da viale Mazzini, Berlusconi gliene offrì 600. Sempre fedele a sé stesso e incapace di pose intellettuali, non negava il nozionismo dei suoi quiz, ma lo valorizzava: «Almeno la gente impara la data della scoperta dell'America». Conosceva la formula del successo come le sue tasche, ma ne sperimentava anche le varianti: «Il quiz non cambia. È quanto che c'è attorno, che deve cambiare». E anche in Mediaset, imperterrito e imperturbabile, attraversò i decenni rinnovandosi ogni volta un po' - Telemike, Superflash, La ruota della fortuna - ma, in fondo, rimanendo sempre lui. «Quale il fulcro del suo talento? - si chiede oggi Pippo Baudo -. Fiutare a naso il personaggio nascosto nel concorrente. Con lui il professor Degoli, l'esteta Mariannini, la tabaccaia Garoppo, il parapsicologo Inardi, diventavano uno spettacolo dentro lo spettacolo». E a proposito di Baudo, anche la loro leggendaria rivalità, causa d'irresistibili siparietti sul palco dei Telegatti o di Sanremo, fu solo spettacolo. «Un giorno mi disse: l'Italia è il Paese delle fazioni. Coppi e Bartali, Callas e Tebaldi. Facciamo Bongiorno e Baudo! Tu parli male di me nelle tue trasmissioni, io lo farò di te nelle mie». In fondo aveva recitato anche con Ludovico Peregrini, l'arcigno «signor no» del Rischiatutto che, nella realtà, era una pasta d'uomo. «Ogni volta che tu dici no a un concorrente, io lo difendo. Così il pubblico odia te e ama me». «Quando lo superai nel record delle conduzioni a Sanremo - ricorda Pippo - lo invitai al mio dodicesimo festival. Insistette per essere lui a presentare me. Mi commosse profondamente». Certo: l'uomo aveva i suoi difetti. Basta farsi un giretto su Youtube per vederlo ancora all'opera nelle impareggiabili gaffes, vere o simulate che fossero: «Vere sempre - confermò lui - ma talvolta esagerate, per farci su un po' di spettacolo». Accertato che la più celebre di tutte («Ahi, ahi, signora Longari: lei mi è caduta sull'uccello!») non è mai stata realmente pronunciata, ancora Youtube ci delizia con i suoi mitici malumori: la sfuriata che fece a tal Maura Livoli, beccata con degli appunti nella scollatura, o le parolacce rifilate ad Antonella Elia, rea di aver complimentato una signora che rifiutava per animalismo le pellicce dello sponsor. E poi c'era il pubblico più giovane, che interpretava il suo perfezionismo come pedanteria; il buonsenso come paternalismo. Non era tipo da sottigliezze, Mike Bongiorno: in una tv ancora estranea alle provocazioni odierne, celebre fu la rissa verbale con Vittorio Sgarbi che si augurava che la lava dell'Etna inghiottisse le case abusive sulle sue pendici. Ma all'età in cui molti vengono dimenticati, o scivolano nel patetico, lui seppe reinventarsi prendendosi in giro: gli spot pubblicitari girati con Fiorello rimangono dei piccoli gioielli d'intelligente autoironia. E proprio Fiorello, ai funerali in piazza Duomo a Milano, seppe trovare per lui l'epitaffio più azzeccato. «Secondo me ora lui sta dicendo: Hai visto? Mi hanno dato il Duomo di Milano. A Baudo non l'avrebbero mica dato».

Mike Bongiorno moriva 10 anni fa. Ecco i suoi segreti: il carcere, la politica, l’infarto, la salma trafugata. Dieci anni fa moriva il re del quiz. Lanciato da Veltroni (il padre), divenne un’icona per Berlusconi. L’amarezza per la rottura con il Cavaliere e il mistero della tomba violata. Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Renato Franco su Corriere.it. L’8 settembre di 10 anni fa moriva a 85 anni Mike Bongiorno, stroncato da un infarto in una suite dell’hotel Metropole di Montecarlo, dove si trovava per una breve vacanza con la moglie Daniela Zuccoli. Michael Nicholas Salvatore Bongiorno era nato a New York il 26 maggio 1924 da padre siciliano e madre torinese. Già a sei anni è in Italia, a Torino, dove fa il liceo, tifa Juve e collabora alle pagine sportive della Stampa. Nella sua vita l’eccezionale è stata la norma, lui che — per i suoi detrattori — era l’esempio della normalità se non della mediocrità.

In cella con Montanelli. Durante la guerra si unisce alle formazioni partigiane e per questo, nell’ aprile del 1944, viene rinchiuso nel carcere milanese di San Vittore, dove è compagno di cella di Indro Montanelli: «Ero il suo messaggero, nascondevo in bocca un bigliettino scritto da Montanelli e lo portavo a “Maggiolino”, la donna cui Indro era legato». Finirà anche nei campi di concentramento, matricola 2264, prima di essere liberato grazie allo scambio con dei prigionieri tedeschi.

Lanciato da Veltroni (padre). Torna a New York e poi è di nuovo in Italia dove Vittorio Veltroni, padre di Walter e allora alto dirigente della Rai, lo convince a lasciare il suo programma radiofonico newyorchese. La tv in Italia inizia con lui: presenta la prima trasmissione in onda sulla tv di Stato «Arrivi e partenze», nel 1954. L’ anno dopo arriva lo strepitoso successo di «Lascia o raddoppia?» (1955-59). Un dato per capire: la messa in onda del programma fu spostata dal sabato al giovedì su richiesta dei gestori dei locali pubblici che avevano visto diminuire gli incassi, proprio per la serata considerata più ricca della settimana.

«Rischiatutto» da 20 milioni. Gli anni 70 si aprono e sono segnati da «Rischiatutto», cinque edizioni seguite da una media di 20 milioni di spettatori, le minigonne audaci della valletta Sabina Ciuffini, la busta in cui è contenuta la domanda finale sulla materia scelta dai concorrenti. Nasce anche la leggenda della signora Longari, domanda di ornitologia: «Lei mi è caduta sull’uccello». Ma non è vero niente.

Con Berlusconi. È il re del quiz e decide di seguire Silvio Berlusconi a TeleMilano che poi diventò Canale 5. Abbandona la Rai e fa quello che sembra un salto nel buio, ben pagato: il contratto da 25 milioni sale a 600. Diventa paladino prima del Berlusconi imprenditore, poi anche del Berlusconi politico: nel 1994 non nega al futuro premier uno spot elettorale alla «Ruota della fortuna», magnificando le imprese del Cavaliere: «Molti dicono che Berlusconi fa promesse e non le mantiene. Invece è uno che fa quel che promette». Primo esempio di televoto... Per la tv del Biscione conduce «Bis», «Superflash», «TeleMike». Il fiuto televisivo è sempre altissimo: nel 1989 importa dagli Usa «La ruota della fortuna», che conduce fino al 2003, in cui lancia vallette come Ylenia Carrisi (figlia di Al Bano e Romina Power), Paola Barale, Antonella Elia, Miriana Trevisan...

Gli spot e le mogli. In mezzo a tutto questo, trova anche il tempo di condurre 11 edizioni del Festival di Sanremo — la prima nel 1963, l’ ultima nel 1997 con Chiambretti e Valeria Marini —, fare tanta pubblicità — dallo spot della Grappa Bocchino («sempre più in alto») a quelli per Infostrada con l’amico Fiorello —, sposarsi tre volte, l’ ultima (1972) è quella giusta, con Daniela Zuccoli, ex stilista, che gli ha dato tre figli.

Lo strappo con il Cavaliere. Lo strappo con Berlusconi arriva a inizio 2009: «Mediaset prima della fine dell’anno scorso, senza preavviso, non mi ha rinnovato il contratto che mi legava al gruppo fin dalla sua fondazione». Non si fa vincere dall’amarezza e decide di aprire la sua terza era televisiva, la sua terza «prima pietra» nel palazzo della televisione. Approda a Sky dove avrebbe dovuto togliere dalla polvere il suo «Rischiatutto», ribattezzato, in omaggio alla tv di Murdoch, «Riskytutto»: dodici puntate che non andranno mai in onda perché la sua morte gioca d’anticipo.

La salma trafugata. L’ultimo quiz da risolvere lo lascia per dopo la sua morte: il 25 gennaio 2011 la salma di Mike Bongiorno viene trafugata nella notte dal cimitero di Dagnente, piccola frazione di Arona (Novara). Per risolvere il caso si fanno avanti sciacalli e veggenti: il feretro verrà ritrovato, ancora intatto, l’8 dicembre dello stesso anno nei pressi di Vittuone (Milano). La salma viene subito dopo cremata su decisione della famiglia e le ceneri vengono disperse nelle valli del Cervino. Dal 21 ottobre 2015 a Milano c’è via Mike Bongiorno, a Porta Nuova.

Mike Bongiorno, raccontare la tv con il coraggio della semplicità. Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. A differenza di molti suoi colleghi, Mike ha interpretato il mestiere con scrupolo, al limite della meticolosità; nel fare e nel raccontare la tv, ha sempre scelto il punto di vista del «semplice». Per questo, fin dagli inizi della sua carriera, ha continuato a produrre — un po’ per carattere, un po’ per mestiere — gaffe, bizze, goffaggini, battute che hanno garantito un richiamo popolare non meno forte di quello esercitato dai giochi proposti. Anche se la celeberrima battuta rivolta a una concorrente («Ahi, ahi signora Longari, lei mi è caduta sull’uccello!»), non è mai stata pronunciata. Attribuita a lui, però, è diventata più vera del vero, una leggenda metropolitana. Per il coraggio della semplicità, Mike è sempre stato facile preda degli entomologi dell’ovvio. Ma dire che era mediocre, ignorante, succube degli esperti, prodigioso gaffeur privo di umorismo era anche un modo cifrato di avvertire i fans che il loro idolo era lo specchio di una qualità antica: l’aurea medietà (la caratteristica più ragguardevole dei media), quel buonsenso che contribuisce a rendere più saggi gli uomini. Non è facile esercitare la propria grandezza nelle cose ritenute di poco conto. Si portava dietro un cruccio, la famosa «Fenomenologia di Mike Bongiorno», un tópos del pezzo di costume e della ricerca sociologica sulle comunicazioni di massa. Mike è stato considerato un evento aurorale su cui fondare una mitologia negativa: le sue apparizioni televisive sono come la fodera invisibile della mediocrità, del ludibrio della cultura, della mancanza di curiosità, dell’immobilismo: «Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti», scriveva Umberto Eco. Certo, quell’articolo è stato un pezzo di bravura, un’analisi inconsueta, un divertissement intelligente. Ma nei confronti di Mike, e della cultura pop, per una volta Eco si era fatto vincere dal moralismo.

Eco compie 80 anni, rileggiamo la Fenomenologia di Mike. L’inkiesta il 5 gennaio 2012. L’uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze. Tuttavia, poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com’è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L’ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno. La situazione nuova in cui si pone al riguardo la Tv è questa: la Tv non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l’everyman. La Tv presenta come ideale l’uomo assolutamente medio. (...)

Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti. Per capire questo straordinario potere di Mike Bongiorno occorrerà procedere a una analisi dei suoi comportamenti, ad una vera e propria «Fenomenologia di Mike Bongiorno», dove, si intende, con questo nome è indicato non l’uomo, ma il personaggio. Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta, biologicamente parlando, un grado modesto di adattamento all’ambiente. (...)

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all’apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla. In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. Di costui pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la metodologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di una funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente quantitativo. In tal senso (occorrendo, per essere colto, aver letto per molti anni molti libri) è naturale che l’uomo non predestinato rinunci a ogni tentativo. (…)

L’ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quando, in base alla cultura, si viene a guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L’uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di far studiare il figlio. Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore («Pensi, ha guadagnato già centomila lire: è una bella sommetta!»). Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le impietose riflessioni che lo spettatore sarà portato a fare: «Chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno stipendio modesto! Ha mai avuto tanti soldi così tra le mani?». (…)

Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d’Aramengo bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic). Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. È paterno e condiscendente con gli umili, deferente con le persone socialmente qualificate. (...)

Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. (...)

Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui. Non accetta l’idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. Nabucco e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce di fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur. (...)

Mike Bongiorno è privo di senso dell’umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l’interlocutore sia simpaticamente anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si nasconda una verità, comunque non lo considera come veicolo autorizzato di opinione. Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non manca di informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa... «Mi dica un po’, si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos’è di preciso questo futurismo?»). Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l’opinione dell’altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse. Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: «Cosa vuol rappresentare quel quadro?» «Come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?» «Com’è che viene in mente di occuparsi di filosofia?».

Porta i clichés alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalle suore è virtuosa, una ragazza con le calze colorate e la coda di cavallo è «bruciata». Chiede alla prima se lei, che è una ragazza così per bene desidererebbe diventare come l’altra; fattogli notare che la contrapposizione è offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando l’educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffes non tenta neppure di usare perifrasi (...).

Per lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l’artificio retorico è una sofisticazione. In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quando la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provocazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei critici e del pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l’uomo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta portando la gaffe a dignità di figura retorica, nell’ambito di una etichetta omologata dall’ente trasmittente e dalla nazione in ascolto. Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortato sull’esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita. Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti. 

Testo tratto Laterza Ariel, Archivio Interattivo per l’educazione letteraria, da Umberto Eco, Diario minimo 1992/2011 RCS Libri S.p.A. / Bompiani.

Nanni Delbecchi per ''il Fatto Quotidiano'' l'8 Settembre 2019. Pippo Baudo, a dieci anni dalla scomparsa l'Italia ricorda l'inossidabile Mike Bongiorno con affetto non meno inossidabile.

«Mi fa un gran piacere vedere ricordato Mike con questa benevolenza e anche con parecchia nostalgia. Bisognerebbe fare altrettanto per le figure di Corrado e di Enzo Tortora, che invece mi sono parse un po' dimenticate. La Prima Repubblica televisiva non era niente male».

Ricorda il primo incontro con Mike?

«Come no, fu un battesimo di fuoco. Di persona ci eravamo solo sfiorati perché io lavoravo a Roma e lui a Milano. Il primo incontro vero fu davanti alle telecamere di Studio Uno. Insieme a Mina c' eravamo io, lui, Corrado e Enzo Tortora. Tortora mi sussurrò di mettermi accanto a Mike e di alzarmi sulle punte per farlo sembrare ancora più piccolo, ma non ne ebbi il coraggio».

Meglio non farlo arrabbiare.

«Quello non sarebbe successo. Mike era autoironico, sportivo, aveva una vita piena al di là degli impegni televisivi».

Però negli anni 80 la rivalità Mike-Pippo teneva banco.

«Certo, ma faceva parte del gioco. Fu lui stesso a dirmelo: "Guarda che dobbiamo sfotterci il più possibile perché gli italiani adorano le contrapposizioni, dobbiamo diventare come Coppi e Bartali". Mio malgrado, ho obbedito».

In realtà eravate amici.

«Certo, e ancora una volta è stato lui a prendere l' iniziativa. Mi invitava spesso a cena a casa sua, poi Daniela e i figli se ne andavano e noi due restavamo a parlare dei nostri progetti rigorosamente separati».

E la televisione?

«Rigorosamente spenta».

Dica la verità: all' inizio un po' si è ispirato a lui.

«Francamente no, perché credo che ogni presentatore, se vuole emergere sul serio, debba puntare a qualcosa di personale. Quando ho cominciato, negli anni 60, in Rai era scoperto il ruolo del conduttore specializzato nella musica. Ho provato a inventarlo».

Non si può ricordare Mike senza citare Eco. Era davvero il perfetto uomo medio?

«Non credo che in Eco ci fosse volontà di offendere, ma quel giudizio resta molto duro, e non così esatto. Mike si calava di proposito nel ruolo dell' italiano medio, ma non mediocre. Voleva essere compreso da tutti, e questo era il modo migliore per riuscirci».

Anche sulle gaffe non si è mai saputa la verità. Erano vere o create a bella posta?

«Dipende. All' inizio, ai tempi di Lascia o raddoppia? e del Rischiatutto erano sicuramente vere, perché nemmeno Mike conosceva le risposte dei suoi quiz. "Chi sarà mai questo Paolovi, mai sentito nominare?". Era papa Paolo VI . Poi però si accorse che le gaffe aumentavano la popolarità, e non escludo che ci abbia giocato lui per primo».

E la signora Longari?

«Quella è una leggenda. Ma per un conduttore diventare una leggenda è il massimo».

Vera o presunta, il culmine della vostra rivalità arriva nel 2007, l' anno del sorpasso sanremese.

«Certo, quando ho accettato di condurre il mio 12° Sanremo, gli ho telefonato e gli ho detto: "Mike, io presento il Festival ma tu devi presentare me"».

Lui?

«Felicissimo. Il giorno del debutto è arrivato tre ore prima. "Ma Mike, guarda che devi dire solo: ecco a voi Pippo Baudo". "Lo so, lo so. Non preoccuparti, ma sai, volevo respirare l' aria dell' Ariston"».

Quanto è cambiata la tv italiana in questi dieci anni?

«È cambiata in peggio, il grande varietà sta scomparendo perché pochi lo sanno fare e il declino è evidente soprattutto nello show musicale. Oggi si fanno cantare i dilettanti per un minuto e mezzo, poi si votano. Ma come fai a giudicare un artista in un minuto e mezzo? È una farsa».

Anche la politica ha invaso il campo dell' intrattenimento. Ai vostri tempi, invece, c' era un confine preciso.

«Certo, Mike non ne voleva sapere, il mio massimo è stato una breve rubrica in Domenica in. Dieci minuti e uno alla volta. Modica quantità».

Andreotti non mancava mai.

«Era un ospite fisso. Ogni volta mi convocava il sabato alle 6 di mattina. Mi riceveva in giacca da camera, mi offriva un caffè e si metteva a parlare d' altro. Quando gli dicevo di cosa avremmo trattato in trasmissione rispondeva che si era fatto tardi: "Improvvisiamo"».

C' è un erede di Mike?

«Ci sono ottimi professionisti, Paolo Bonolis in testa, ma con le caratteristiche di Mike non vedo nessuno. Non è detto sia un male».

Almeno possiamo chiudere dicendo "Allegria!"

«Mi sembra una parola molto impegnativa per i tempi che stiamo vivendo».

E allora?

«Mettiamoci un punto interrogativo "Allegria?"».

COME ''LEOLINO'' BONGIORNO HA RICORDATO IL PADRE MIKE. Emanuele Ambrosio per Il Sussidiario il 9 settembre 2019. Leonardo Bongiorno, detto Leolino, è il terzo figlio di Mike Bongiorno e della moglie Daniela Zuccoli. A soli 20 anni ha dovuto dire addio al padre, l’amatissimo presentatore televisivo scomparso dieci anni fa a causa di un infarto a Monaco. Un’assenza con cui il piccolo Leolino, oggi diventato un uomo, ha dovuto fare i conti troppo presto. A differenza dei due fratelli più grandi, Nicolò e Michele, lui se lo è vissuto di meno, ma forse goduto di più visto che ci ha trascorso gli anni in cui Mike non era sempre impegnato in televisione. Nel giorno dell’anniversario della sua morte, Leonardo ha voluto omaggiare e ricordare il padre presenziando allo speciale Porta a Porta di Bruno Vespa mostrandosi solare e comunicativo proprio come papà Mike. Un momento davvero emozionante a distanza di pochi giorni dagli altri speciali televisivi che hanno visto come ospite il fratello Nicolò Bongiorno, che al Maurizio Costanzo Show si è commosso nel ricordo i periodi più difficili della vita del padre. Difficoltà che sono poi state ripagate dal grande, grandissimo successo nella vita privata e personale. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

“Il ricordo più bello? Le partite della Juve”. Fu proprio Leonardo Leolino Bongiorno a combinare l’incontro tra Fiorello e papà Mike, avvenuto nei primi anni Duemila quando ancora lo imitava alla radio. “Sono stato io a far sentire a papà le imitazioni di Fiorello e all’inizio non era molto contento”, racconta Leolino in un’intervista al Corriere. “Poi invece sono diventati amici ed è cominciata l’abitudine di sentirsi in diretta alla radio. Papà prendeva quegli appuntamenti sul serio, ogni giorno fingeva di essere stato sorpreso mentre faceva una cosa diversa: una volta mi mandò a comprare quei barattoli che se li giri fanno il verso della mucca, e raccontava che stava mungendo in montagna; un’altra volta si fece incidere un esercizio da un violinista per far credere che stesse suonando lui”. Tra i ricordi più belli che Leolino condivide c’è quello delle partite della Juve: “Le guardavamo in salotto, io sul divano, lui nella sua poltrona, con i Telegatti dietro di noi che facevano il tifo. Nessuno poteva alzarsi”. (agg. di Rossella Pastore)

Mike Bongiorno fu un padre molto premuroso. La moglie Daniela Zuccoli lo descrive come un marito altrettanto presente, anche se non fu sempre sempre così. “Io ho avuto ‘due mariti'”, ha dichiarato di recente a Tv Sorrisi e Canzoni. “La prima gravidanza fu tutto normale: era il primo figlio. Lui era spesso assente, per lavoro. Dopo il secondo figlio, i medici dissero che sarebbe stato rischioso averne altri. Al terzo cesareo Mike è cambiato. Arrivò a fare quello che non aveva mai fatto prima: cambiare pannolini e dare il biberon al bambino”. Ognuno dei suoi ragazzi ha ereditato qualcosa da lui. Tutti, però, sono accomunati da una cosa: “La voce. I ragazzi hanno tutti una voce bella come la sua. Ognuno gli somiglia in una cosa in particolare: Michele ha preso la sua saggezza, la serietà; Nicolò la parte spirituale, filosofica, interiore. E Leonardo quella comunicativa, la solarità”. (agg. di Rossella Pastore)

Leonardo Leolino Bongiorno è il figlio più piccolo di Mike Bongiorno. Oggi ha trent’anni e da dieci convive con l’assenza del padre, scomparso appunto a settembre del 2009. In una delle sue ultime uscite, Leolino Bongiorno, ha voluto ricordare papà Mike anche per ricordare lo speciale realizzato da Canale 5: “Te ne sei andato qualche giorno dopo il mio 20simo compleanno. Oggi ne faccio 30 e stiamo ricordando i 10 anni dalla tua scomparsa. In verità sei sempre con me e sono sempre il tuo Leolino anche se ora un po’ cresciuto e penso che non ci staremmo più in due in quella vasca da bagno”. Leonardo ha perso papà Mike quando aveva solo venti anni, ma i ricordi del tempo passato insieme sono intatti: “Rispetto ai miei fratelli maggiori, Michele e Nicolò, me lo sono goduto nella sua fase più lenta, casalinga e affettuosa”. (Aggiornamento di Jacopo D’Antuono)

Leonardo Bongiorno, detto Leolino, ha ricordato il padre Mike nel giorno a lui dedicato. Mentre le reti principali omaggiano il grande presentatore, il terzo figlio di Mike Bongiorno ha voluto condividere sui social il suo personale ‘omaggio’ e ricordo all’amato padre. Dopo la foto che lo ritrae piccolissimo in vasca da bagno con il papà, Leolino come Mike amava chiamarlo ha postato una foto in compagnia della madre Daniela Zuccoli negli studi di Porta a Porta dove si è recato per le registrazioni dello speciale televisivo dedicato al padre per i 10 anni dalla scomparsa. Uno speciale che si preannuncia uno evento come ha raccontato lo stesso Leonardo:  “con tanti amici e colleghi conduttori e per la prima volta nella storia un collegamento televisivo a reti unificate tra Rai a Roma e Mediaset a Milano dove le due aziende “concorrenti” televisive si uniscono nel ricordare il padre della televisione Italiana”. Un ricordo meritatissimo al più grande della televisione italiana.

Leonardo Leolino Bongiorno sul padre Mike: “te ne sei andato qualche giorno dopo il mio 20simo compleanno”. A dieci anni dalla morte di Mike Bongiorno, il figlio Leonardo “Leolino” Bongiorno ricorda il padre con un messaggio sui social. Leolino, come amava chiamarlo il grande Mike, ha deciso di condividere nel giorno del suo 30imo compleanno su Instagram una foto privata di famiglia. Si vede Leonardo piccolissimo nella vasca da bagno con il padre, intenti a giocare con la schiuma. Sui loro volti un grandissimo sorriso, a conferma di quanto Mike fosse un padre esemplare, una colonna per l’intera famiglia. Ad accompagnare la foto un messaggio davvero emozionante del terzo figlio Leonardo: “Te ne sei andato qualche giorno dopo il mio 20simo compleanno. Oggi ne faccio 30 e stiamo ricordando i 10 anni dalla tua scomparsa. In verità sei sempre con me e sono sempre il tuo Leolino anche se ora un po’ cresciuto e penso che non ci staremmo più in due in quella vasca da bagno”.

Leonardo Bongiorno detto Leolino: “me lo sono goduto nella fase più casalinga“. Leolino Bongiorno, il terzo figlio nato dal matrimonio tra Mike Bongiorno e Daniela Zuccoli, ha voluto ricordare l’amatissimo padre. Oggi è un adulto, ha 30 anni e ha conseguito una Laurea presso l’Università Bocconi di Milano seguita da un master a Shangai. A soli 20 anni si è trovato costretto a dire addio al padre, l’inventore della televisione italiana morto a causa di un infarto l’8 settembre del 2009 a Monaco. Due anni fa, parlando proprio del rapporto con il padre, Leonardo Bongiorno ha raccontato del tempo trascorso con lui e della duplice immagine di presentatore e padre che trascorreva in vestaglia e pantofole del tempo libero con lui. “È la prima immagine che ho di lui: sono in cucina, lui è dentro la tivù e poi apre la porta e compare in vestaglia e pantofole” ha raccontato Leonardo, che rispetto ai fratelli maggiori Michele e Nicolò è riuscito a viversi di più il padre: “me lo sono goduto nella sua fase più lenta, casalinga e affettuosa”.

Leonardo Bongiorno: “Mike Bongiorno è stato un grande padre”. A differenza dei fratelli maggiori, Leonardo Leolino Bongiorno ha trascorso molto più tempo con il padre Mike Bongiorno. A raccontarlo è stato proprio il ragazzo in occasione di un’intervista rilasciata a Il Corriere della Sera: “Loro non lo vedevano mai, esclusi i bellissimi viaggi in tutto il mondo durante le vacanze, perché dagli anni ’70 ai ’90 era sempre impegnato nel ‘Giro Mike’, una tournée che faceva in tutte le città d’Italia, dove presentava ogni tipo di sagra”. Giustamente col passare degli anni gli impegni di Mike, per via anche dell’età, sono diminuiti. “In casa, dopo, siamo rimasti io, lui e mamma, un nucleo nostro” ha detto il terzo figlio, che parlando di Mike papà ha sottolineato: “non mi ha mai fatto rimpiangere quei padri giovani che portano il figlio a calcetto o al parco e se lo issano sulle spalle. Sapeva essere lo stesso molto efficace con l’esempio”.

·         Dieci anni senza Mino Reitano, l'artista che si faceva maltrattare dalla tv.

Dieci anni senza Mino Reitano, l'artista che si faceva maltrattare dalla tv, scrive Massimo Falcioni domenica 27 gennaio 2019 su tv blog. Dieci anni fa se ne andava Mino Reitano, l'artista che la tv amava maltrattare. "Italia" lo ingabbiò una sorta di eterna parodia. Nel 2002 a Sanremo venne umiliato per i denti 'nuovi'. Lui ne uscì con dignità. Il riscatto lo ha ottenuto solo da morto. Dopo dieci anni, di Mino Reitano ci resta la dolcezza. Un candore unico, strabordante, persino eccessivo. Il 27 gennaio 2009 il cantante partito da Fiumara se ne andava, lasciando il ricordo di una purezza d’animo che spesso cozzava con la sua resa televisiva. Sì perché negli ultimi tempi Beniamino Reitano detto Mino era diventato più che altro un fenomeno da piccolo schermo, l’incursore da schernire, da prendere di mira. Insomma, la vittima ideale. Mino era popolare, estremamente popolare. Probabilmente la linea di confine tra l’artista e il bersaglio fu sancita da quell’“Italia” che lui urlò al Festival di Sanremo nel 1988. Un brano del quale non si sarebbe più sbarazzato, finendo per ingabbiarlo in un’eterna parodia di se stesso. Reitano era buono, ingenuo. Si faceva torturare e stava al gioco. Magari soffriva in camerino o a casa. Ma in tv era il bersaglio perfetto. Forse troppo perfetto. Da Premiata Teleditta a Domenica In, dove una volta uscì da un mega-uovo di Pasqua. Passando per Libero, trasmissione di scherzi telefonici che una volta gli fece credere di parlare col vero Silvio Berlusconi. Lo spettatore rideva, sghignazzava e sottovoce si domandava per quale motivo si prestasse a tutto questo. Nessuno saprà mai se Mino un po’ ci marciasse o se per lui fosse davvero un’eterna ricreazione. A inizio millennio trionfò nel programma celebrativo degli anni ottanta La notte vola. Fu l’apripista per il settimo e ultimo ritorno a Sanremo. Pippo Baudo lo richiamò in gara all’Ariston e gli suggerì di rimettersi in ordine i denti. Il consiglio non bastò ad evitare l’umiliazione pubblica orchestrata dal giornalista Aldo De Luca: “Come ti trovi con la dentiera?”. Il pubblico insorse, Reitano invece non si scompose: “Tutti noi andiamo ogni tanto dal dentista. Io ci sono andato e ho fatto una pulizia”. In un mondo che giudica e critica alle spalle, con Mino si faceva un'eccezione. La preda veniva azzannata sotto i riflettori. E più Mino rimbalzava l’attacco, più si tornava alla carica. Tempo due anni e rispuntò al Dopofestival mettendo a segno un siparietto indimenticabile con Umberto Bossi sulle note di “Italia”, che il senatur modificò in “Padania”. Scene che oggi generano affettuosi sorrisi, ma che all’epoca non fecero altro che inserire Reitano tra i mostri di Blob. Nel 2007, già ammalato e visibilmente provato, si esibì a Piazza Grande senza riuscire a trattenere la commozione. L’addio ai fan arrivò il 12 febbraio 2008 con l’ultima apparizione a La vita in diretta. Il riscatto, come spesso accade, lo ottenne da morto. Nella primavera del 2012 Massimo Giletti gli dedicò uno speciale al sabato sera. Avevo un cuore che ti amava tanto totalizzò più di 5 milioni e riuscì a sconfiggere la corazzata di Amici. Più di un Ballando qualsiasi.

·         Quel magnifico naso di Giorgio Gaber: oggi il Signor G. avrebbe compiuto 80 anni.

Quel magnifico naso di Giorgio Gaber: oggi il Signor G. avrebbe compiuto 80 anni, scrive Daniele Bellasio il 25 gennaio 2019 su "La Repubblica". Oggi Giorgio Gaber compie 80 anni e quello che mi manca di più è il suo naso. Quando meno te lo aspettavi il Signor G. lo piazzava lì, a mezz’aria, nel punto esatto dove accendeva il tuo sorriso, il tuo pensiero, il tuo dubbio, la tua emozione, il tuo fon. Per Gaber il naso era il regista occulto delle reazioni del pubblico, il primo degli applausi che meritava dopo lo shampoo, lo strumento del fascino e il trucco del colpo di genio beffardo. Giorgio Gaber non è soltanto musica, non è soltanto teatro, non è soltanto poesia, è soprattutto il suo corpo, il suo sorriso disincantato, ma sempre benevolo. Lo utilizzava come una macchina teatrale alla Carmelo Bene, il corpo; quando spostava la testa di lato – “Oh, mamma” -, quando piegava leggermente la schiena come a rannicchiarsi con il pugno chiuso sbattuto con grinta all’ingiù per dire “dai, ce la facciamo”, o almeno “ce la faremo”, dentro un urlo tenuto a distanza di sicurezza dal microfono; quando lo slegava in gesti ognuno separato dall’altro nella cantilena sui tic alla catena di montaggio; quando formava un cerchio con pollice e indice, stendeva le altre tre dita in avanti e sottolineava il cuore di quel che stava dicendo; quando arrivava dopo il suo teatro canzone per i bis con le sue canzoni in teatro.

Chitarra, capelli sudati buttati all’indietro alla ricerca di quelli perduti e degli anni passati, Barbera, Champagne. Il pubblico lasciava le sedie del Lirico di Milano e si avvicinava. Lui, sempre gentile. Suonava dinoccolato, intenerito dalla nostra presenza costante, anno dopo anno, dilemma dopo dilemma, elezioni dopo elezioni. Forse era già vietato fumare, ma in quei fuori programma per il suo clan te lo immaginavi sempre con la Marlboro accesa. Il naso, la chitarra, le mani lunghe, il microfono abbrancato, quel vestire sempre uguale a sé stesso e sempre elegante, la giacca, la cravatta, felicemente borghese, in pace con la sua libertà e maturità obbligatoria, portata con saggia leggerezza come un suo cappello nero o una sciarpa bordeaux. In ogni spettacolo il Signor G. sorrideva del e con il suo pubblico perché aveva il naso esatto per cogliere in qualunque periodo qual erano il luogo e il difetto comune del momento: il potere dei più buoni, l’ipocrita differenza di una famiglia dentro e fuori la porta di casa, la paura nell’incontro dell’ignoto in una strada notturna, gli eccessi della tv e gli eccessi della controtv, gli eccessi del mercato e gli eccessi del contromercato, gli eccessi della politica e gli eccessi dell’antipolitica, la destra, la sinistra, la nave, i soli, basta. Dai, è ovvio che non manca soltanto il suo naso, ma il fatto che manchi il suo corpo si fa sentire. “Che vuoi che se ne faccia un uomo del proprio corpo, che se lo prenda lei”, recitò in un monologo sulla “Coscienza della morte” del 1996. Ecco, l’ultimo dei fuori programma lo ricordo il giorno del suo funerale, il suo corpo non si vedeva più durante quel bis: c’era un giorno grigio, il Grigio di gennaio, una brutta giornata, tanta gente, un luogo del milanese e una canzone a mezz’aria: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna e purtroppo lo sono”. Sciacquo, seconda passata.

Giorgio Gaber avrebbe 80 anni: i 15 brani indimenticabili. Le canzoni più belle del signor G., che con il suo teatro-canzone ha raccontato trent'anni di storia italiana, scrive Gabriele Antonucci il 25 gennaio 2019 su Panorama. “Dove esistono una voglia, un amore, una passione, lì ci sono anch’io”. Parola di Giorgio Gaberščik, da tutti conosciuto come Giorgio Gaber, che oggi avrebbe compiuto 80 anni. Nato a Milano il 25 gennaio 1939 in via Londonio 28, il signor G. è stato uno dei personaggi più influenti dello spettacolo e della musica italiana del secondo dopoguerra. L’originalità della sua produzione artistica lo distacca nettamente dai suoi contemporanei. Nell'opera di Gaber c'è tutto: la leggerezza il disincanto, l'ironia per i tic e le nevrosi dell'uomo comune, il senso dell'amore e della vita, la gioia per l'impegno sociale e civile e la più cocente disillusione. Oggi a Milano sarà svelata una targa, alla presenza della vedova Ombretta Colli, della figlia Dalia, dei nipoti Lorenzo e Luca, sulla facciata della casa natale di Gaber di via Londonio, dove ha vissuto dal 1939 al 1963. Sulla targa è inciso: "Qui nacque nel 1939 Giorgio Gaber. Inventore del Teatro - Canzone. La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell'onestà intellettuale". Cantautore, chitarrista, commediografo, regista, attore, e scrittore, il "filosofo ignorante", come si era autodefinito, in realtà aveva un'ampia gamma di riferimenti letterari, da Adorno a Leopardi, passando per Beckett, Borges, Brecht, Céline, Sartre e Pasolini. Con quest'ultimo Gaber condivideva l'obiettivo di scardinare il conformismo ideologico, come rivelano i folgoranti testi di Qualcuno era comunista, Destra-Sinistra e Il conformista. Si forma con il jazz, suona il rock’n’roll quando da noi era ancora un genere di nicchia, collabora con Jannacci e Mina fino a quando, all’apice del successo, crea un nuovo genere nuovo: il teatro-canzone. Ispirato ai récital francesi, con il suo teatro-canzone l'artista del Giambellino ha attraversato trent'anni di storia italiana, in una compenetrazione continua tra vita pubblica e privata. Gaber ha costituito con Sandro Luporini una coppia artistica complementare e fecondissima, in grado di rivaleggiare, per qualità e inventiva, con McCartney/Lennon e Bacharach/David. Per celebrare gli 80 anni del signor G., morto il primo dell'anno del 2003, vi proponiamo 15 canzoni indimenticabili del suo repertorio, in ordine rigorosamente cronologico, consapevoli che sono solo una parte dei numerosi tesori che ci ha lasciato.

1) La ballata del Cerruti Gino (1960) "Il suo nome era Cerutti Gino/Ma lo chiamavan Drago/Gli amici al bar del Giambellino/Dicevan che era un mago (era un mago)"

2) Non arrossire (1961) "No non temere/Non indugiare/Non si fa del male /Se puro è l'amor".

3) Il Riccardo (1969) "Ma per fortuna che c’è il Riccardo/che da solo gioca al biliardo/non è di grande compagnia/ ma è il più simpatico che ci sia".

4) Lo shampoo (1972) "La schiuma è una cosa pura, come il latte: purifica di dentro/ La schiuma è una cosa sacra che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa/ È una cosa sacra. Come la Santa Messa".

5) La libertà (1973) "La libertà non è star sopra un albero/ Non è neanche il volo di un moscone/ La libertà non è uno spazio libero/ Libertà è partecipazione".

6) Far finta di essere sani (1973) "Per ora rimando il suicidio/ e faccio un gruppo di studio/ le masse la lotta di classe i testi gramsciani /far finta di essere sani / far finta di essere".

7) Un'idea (1973) "Un'idea, un concetto, un'idea/ finché resta un'idea è soltanto un'astrazione/ se potessi mangiare un'idea/ avrei fatto la mia rivoluzione".

8) Il dilemma (1980) "Il loro amore moriva come quello di tutti/ come una cosa normale e ricorrente/ perché morire e far morire è un'antica usanza/ che suole avere la gente".

9) Io se fossi Dio (1980) "Io se fossi Dio /non avrei proprio più pazienza inventerei di nuovo una morale /e farei suonare le trombe per il giudizio universale".

10) Qualcuno era comunista (1991) "Qualcuno era comunista perché era ricco, ma amava il popolo/ Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari/ Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio/ Qualcuno era comunista perché era così affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro".

11) L’illogica allegria (1992) "È come un'illogica allegria/ Di cui non so il motivo/ Non so che cosa sia".

12) Quando sarò capace d’amare (1994) "Quando sarò capace d'amare mi piacerebbe un amore/ che non avesse alcun appuntamento col dovere".

13) Destra-Sinistra (1994) "Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ma io dico che la colpa é nostra/ é evidente che la gente é poco seria/ quando parla di sinistra o destra".

14) La razza in estinzione (2001) “Coi giovani sono intransigente/Di certe mode, canzoni e trasgressioni non me ne frega niente”.

15) Io non mi sento italiano (2003) "Io non mi sento italiano/ Ma per fortuna o purtroppo lo sono".

L'antipopulista d'autore che aveva già previsto l'Italia al contrario di oggi. Ha raccontato il Paese con "Illogica allegria" e delusione. La sua generazione ha perso. Lui no, scrive Paolo Giordano, Sabato 26/01/2019, su "Il Giornale". Sì forse degli elogi o degli auguri di questi giorni, Giorgio Gaber avrebbe sorriso oppure ne avrebbe fatto un testo. Alla maniera sua e di quell'altro geniaccio di Sandro Luporini. Il Signor G compie ottant'anni, chissà cosa penserebbe dell'Italia di oggi, sarebbe felice oppure no e via dicendo. Ma non ha molto senso ora chiedersi se questo fuoriclasse in senso letterale (gli altri erano omologati in classe, lui no) avrebbe titolato una canzone Qualcuno era populista oppure se l'establishment lo avrebbe elogiato o censurato. Qualcuno ha scritto che neppure adesso lo capirebbero. In realtà Gaber è stato sempre capito, magari superficialmente, altrimenti non sarebbe stato temuto e criticato random, cioè sia a destra che a sinistra in ordine sparso, senza scadenze precise. Usciva un suo spettacolo e, se era ad esempio Polli d'allevamento (1978), lo criticavano gli allora giornali comunisti, con un mitragliante Michele Serra. Usciva il 45 giri con un brano come La libertà (quello del 1973 con il verso male interpretato «Libertà è partecipazione») e la destra lo prendeva di mira. Specialmente a quel tempo, chi non si schierava era per forza un avversario. Il pensatore libero, cioè Gaber, era quindi avversario di tutti, ogni sua frase veniva sfruttata «contro» qualcosa o qualcuno. Non a caso, l'unica etichetta che a stento accettava era «anarcoide». La sua carriera lo è stata. La sua vita no: una moglie per sempre, Ombretta Colli, una figlia adorata, Dalia, una passione maniacale per il lavoro fino alla fine. Si era fatto conoscere agli italiani prestissimo, al Musichiere proprio come Mina e Celentano, e divenne uno dei golden boy della musica leggera, uno dei primi a capire, anche come chitarrista, che dall'America la risposta musicale soffiava nel vento del rock'n'roll. Poi la tv lo rese famoso giovanissimo, quando viveva ancora in via Londonio a Milano con la sua famiglia (ieri il condominio gli ha dedicato una targa). A neppure trent'anni Gaber era già oltre. Nasce il Teatro Canzone, una delle formule espressive e artistiche più grandi e inimitabili del Novecento. Gli spettacoli come Libertà obbligatoria o Io se fossi Gaber o Far finta di essere sani sono frustate alla coscienza collettiva, avamposti del pensiero libero, campi minati per i luoghi comuni. Come ogni artista fuori dal coro, Gaber veniva capito per quanto possibile e sfruttato, specialmente dalla Rai, soprattutto per le sue storie o i suoi testi più politicamente neutrali. E, come ogni visionario, è stato capito soprattutto dopo. Negli anni Novanta, quando recitava cantando Qualcuno era comunista, in platea si commuoveva anche chi non era mai stato comunista e, addirittura, vent'anni prima dava del comunista proprio a Gaber.

E oggi? Come vivrebbe oggi nella società dell'immagine, galleggiando tra le fake news, fuggendo il viscido pedinamento dei social? Vivrebbe come allora. Facendo incazzare tutti. Creando appartenenza perché «Gaber è partecipazione» di chi non partecipa per scelta consapevole e magari sofferta. A differenza del suo tempo, quest'epoca è molto più frenetica, istantanea, fulminea e quindi ci sarebbe una «quota Gaber» di polemiche molto più frequente di allora. E la sua libertà di pensiero sarebbe notata molto più di quanto lo sia stata allora. Tra gli anni Settanta e i Novanta (ma anche dopo, a pensarci bene) non era possibile essere «altro». O si era di destra o di sinistra. O di qua o di là. Lui non era né di qua né di là perciò c'erano lanci di bottiglie ai suoi spettacoli, fischi e contestazioni. Proprio nel periodo di Polli d'allevamento disse: «Quando finisco lo spettacolo, so benissimo che s'incavoleranno, che fischieranno, sento questa cosa che mi arriva addosso e di nuovo rimango con l'occhio spalancato di notte, mi ritrovo a non addormentarmi fino alle otto di mattina per superare questo choc dello scontro». Già allora la scintilla dei suoi spettacoli, dei monologhi e delle canzoni era la fuga dalla massificazione, dall'omologazione spacciata per libertà. E quindi i suoi testi di ieri spiegano anche la vita di oggi e della società definita fluida ma clamorosamente omogenea perché tutti hanno gli stessi tic, le stesse forme di comunicazione e cascano nelle stesse trappole conformiste. Oggi sarebbe una pacchia per Gaber. O, forse, non avrebbe più voglia di ripetersi e riderebbe nella sua Versilia, dove il primo gennaio del 2003 se ne è andato a 63 anni. Nel 2001 aveva pubblicato La mia generazione ha perso, generosamente catalogandosi all'interno di una generazione sconfitta. In realtà non ne aveva mai fatto parte se non per poco, giusto il tempo di prendere appunti e poi fare arrabbiare tutti.

Luca Pavanel per “il Giornale” il 19 febbraio 2019. Quanti volti, quante vite vissute in una, quante storie da ascoltare. L' incontro con Ombretta Colli è un romanzo da sfogliare pieno di momenti, personaggi e viaggi in giro per l'Italia e all' estero. Ride divertita la signora quando glielo si dice, ma non si tira indietro, sta al gioco e si prepara a rispondere a una lunga raffica di domande. Si diverte a ripescare angoli del suo passato, come quando andava a New York e si interessava al femminismo, o come quando a un certo punto decise di abbandonare il mondo dello spettacolo per darsi alla politica. Davanti a un caffè, accetta di raccontarsi, nella sua casa a Milano dove viveva con lei suo marito Giorgio Gaber, che il 25 gennaio scorso avrebbe compiuto ottant' anni. «Eravamo davvero una bella coppia, tra di noi c'era una grande complicità», dice aprendo un sorriso.

Ombretta Colli: cantante, attrice e politico, quante identità...

«Sì, ho cambiato molte cose. Anche il mio cognome, che era Comelli, l'ho cambiato perché veniva storpiato, c' è chi l' ha fatto persino diventare Cammelli».

Ha seguito le orme di qualcuno?

«Mio padre era musicista, eravamo sempre in giro per l'Italia, l'ho vista quasi tutta già in gioventù. Anche qui ogni volta cambiavo tutto, dalla scuola agli amici».

Chissà che fatica...

«In un anno magari si abitava in tre città diverse. Si arrivava a Venezia? Si doveva allestire una nuova casa, una vita da nomade. Ho abitato anche in Svizzera e quando sono tornata in Italia un mio amico mi ha regalato un disco di Giorgio Gaber, un segno del destino».

Le persone importanti prima di quell' incontro?

«Mia madre. Si chiamava Franca, non sopportava i lamentosi, era una forte e simpatica. Da lei ho preso una certa tenacia».

Ha avuto buoni punti di riferimento?

«Anche papà era un uomo positivo, in maniera diversa da mamma. Lui tendeva a sdrammatizzare. Il carattere serve per andare avanti, certo poi ci pensa pure la vita a formarlo».

A proposito di modelli, le sarebbe piaciuto fare la modella?

«Negli anni Sessanta sono arrivata seconda a Miss Italia. Ho partecipato per caso, avevo diciassette anni. Di quell' esperienza mi è rimasta l'allegria che c' era tra le partecipanti».

È iniziata così l'attrazione fatale per il palcoscenico?

«Mi piaceva la recitazione, l'ho scoperta da giovanissima. Mi piacevano le scene sentimentali dei film ambientati nel Far West. Girando nelle varie città ho scoperto che i nomi delle sale sono tutti uguali, un Duse o un Rivoli ci sono ovunque».

Poi la musica...

«In casa si cantava sempre, le canzoni di Sanremo. Era un modo per fare allegria, dopo un po' di tempo, negli anni Cinquanta, arrivò la tv».

E per lei il cinema.

«Gli incontri nel mondo del cinema sono stati bellissimi. Penso ad alcuni registi con cui ho lavorato, come Elio Petri, Luigi Magni ed Ettore Scola, tre persone diversissime con in comune una cosa: una serietà che nella vita non ho trovato molto in giro. Era gente che non affrontava niente alla leggera e non ne approfittava mai».

Le va di raccontare qualche aneddoto?

«Scola mi faceva divertire. Io e Stefania Sandrelli ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. Allora lui diceva ragazze state bone!. Magni aveva una fissa, Roma scritta con tre r. Petri sembrava un uomo dei primi del '900, era la politica e l'impegno».

Insomma si è divertita...

«È stato molto bello pure nel teatro. Mi è piaciuto fare il personaggio Una donna tutta sbagliata. Poi ancora nel cinema, mi piaceva tutto, anche se mi svegliavano alle cinque del mattino per andare a Cinecittà».

E lì chi incontrava?

«Mastroianni, la Sandrelli appunto. Moravia e la Morante, Pasolini, ma lo vedevo meno. C'era anche Enzo Siciliano, marito di una mia amica. Ho incontrato Fellini, mi dava la sensazione di essere un fanciullone».

A Milano ci sono state altre frequentazioni.

«Battiato negli anni Settanta. Una mattina alle 5 suona il campanello di casa. Apro la porta e vedo questo ragazzone magrissimo che mi dice c' è Gaber?».

Pensava a sposarsi?

«Ero giovanissima, ho conosciuto Giorgio (Gaber, ndr) in maniera banalissima, nella casa discografica di un amico di mio padre. L' incontro fu per la copertina di un disco cui lui stava lavorando in vista del Festival di Sanremo».

Il primo incontro?

«Il giorno delle foto per il disco siamo andati al ristorante e lì, ho scoperto una cosa. Lui si alzava, si vestiva e usciva. Soldi e documenti non gli appartenevano, lasciava tutto a casa».

Come facevate?

«Al momento di pagare il conto cominciava a toccarsi la giacca per cercare il portafogli. Poi diceva: O me l'hanno rubato o l'ho lasciato a casa. Questa frase gliel' ho sentita dire un milione di volte».

Altri flash di quel periodo?

«A me è sempre piaciuto viaggiare, ogni tanto pensavamo a qualcosa. Un giorno Giorgio mi dice: Andiamo lontano! Io penso subito agli Stati Uniti, invece poi lui mi spiega che avremmo avuto un futuro davanti, insieme. Insomma niente vacanza».

Con suo marito Gaber come era la quotidianità?

«Anche nelle nostre collaborazioni è stato fatto tutto in allegria. Ogni cosa era interessante. Lo vedevo che passava ore e ore sui testi che scriveva. Aveva un amico, il pittore Sandro Luporini, con cui ha scritto dei brani».

Lui poeta, ma anche critico esigente...

«Se si parla di politica, era assolutamente di sinistra, ma l'ha anche criticata. Non ha detto cavolate, ha detto cose che sono avvenute, tutte quante. I nostri nipoti riscopriranno molte cose di lui».

Se fa invece un confronto con la musica di oggi?

«La nostra generazione ha avuto un friccico che non c' è più da anni. Questo però non è colpa dei cantanti. In generale c' è un po' di lassismo. Il cantante è qualcuno che va coltivato. Io e mio marito ogni anno andavano una settimana a Londra per informarci sulle novità. Londra era il caput mundi».

Negli anni Settanta ci sono stati momenti da brivido...

«Qualche volta momenti di angoscia, in quel periodo mio marito lavorava in teatro a Milano. Tiravano topi morti qui, a casa».

Tra di voi, entrambi di successo, c' erano rivalità, invidie?

«Assolutamente no. Quando Giorgio doveva debuttare io stavo male per lui, soffrivo fisicamente. E lui provava le stesse cose per me. Tra di noi c'era grande complicità».

Dai palcoscenici alla tv...

«Facevo della televisione divertente, ma ho sempre guardato tutto. In questi anni mi è capitato di vedere bei programmi molto tardi la sera, sono nottambula. Più volte mi sono chiesta perché certe cose non vengono messe in onda prima, non dico alle 21, ma appena dopo sì a beneficio di tutti».

Può raccontare l'esordio?

«L' esordio in tv è stato con la trasmissione Giochiamo agli anni Trenta. Mi sono divertita, ero vestita con gli abiti di quel periodo. Il programma? Andò benissimo».

Un periodo d' oro pieno di ritmo...

«Già da bambina ballavo il charleston. Mio padre diceva, se le venisse in mente di fare qualche cosa, questa è già avvantaggiata».

Cosa le è piaciuto di più fare?

«Tutto. Ogni esperienza mi ha lasciato qualcosa. La tv mi ha dato popolarità. Nel cinema ho avuto dei buoni riscontri, poi tutto il resto, la canzone. Di tutto questo sono felicissima».

Ha avuto compagni di viaggio imprevedibili, come Paolo Villaggio.

«Ho fatto una trasmissione domenicale con lui. Faceva morir dal ridere perché non aveva le più elementari regole dell'attenzione, rispetto e riservatezza. Magari prendeva in giro le persone senza pensarci su troppo, certo ci si divertiva, ma quello preso di mira...».

Insomma cose da Fracchia...

«Non lo dimenticherò mai. Con Paolo non si poteva non ridere.

Una volta si va al cinema, per entrare e uscire dalla sala c'era una scala. Lui che cosa fa? Si mette a salirla stando sdraiato come un marines, arrampicandosi sui gradini con la gente che passava. Una scena pazzesca. Per fortuna poi lo hanno riconosciuto e giù tutti a ridere».

E cose da Moravia?

«Moravia era pazzo per le donne, quando ne vedeva passare una, si fermava e diceva, quanta grazia, quanta grazia, quanta grazia ti hanno dato... ma chi sei?.

Gli dicevo dài Alberto, andiamo via!».

Poi c' è stato l'incontro con Rita Levi Montalcini.

«Una volta si è presentata in camerino, dopo uno spettacolo al Teatro Manzoni di Milano. Mi ha chiesto un autografo per i suoi nipoti e io l'ho chiesto a lei, per me».

Che rapporto ha con i suoi fan?

«Ci sono stati fiori, lettere, messaggi. Anche stalker purtroppo. Per esempio uno, per un anno, tutte le mattine alle 4 suonava il campanello di casa. Con noi abitava mia madre che cercava di tenerlo a bada».

Negli anni Novanta è stata folgorata dalla politica attiva. Come ha cominciato?

«Anche in questo caso per pura combinazione. Me lo ha proposto Silvio Berlusconi. Quando sono tornata a casa ne ho parlato con mio marito. Lui, che era di sinistra, mi ha detto: Se è una cosa che ti interessa falla, io di te mi fido».

Così si è buttata.

«Sì, l'ho fatta per parecchi anni, dal Senato al Parlamento europeo. Poi la Provincia di Milano con una politica molto amministrativa, facendo lavoro vero. Ho messo a posto le scuole. È un lavoro che consente di conoscere le cose dall'interno. Si potrebbe fare molto di più con un po' di grinta. Non si può affrontare la politica come se fosse un salotto dei primi del Novecento a Parigi».

Ha conosciuto meglio anche gli italiani?

«Noi italiani siamo volubili. Prima un amore folle per qualcuno, poi tutto il contrario. Comunque sia, io sono stata sempre interessata alla cosa pubblica».

E la famiglia?

«Mia figlia Dalia da piccola era brava, non ha dato pensieri. Ogni tanto la portavo con me al lavoro e durante lo spettacolo stava vicino alla batteria e si divertiva un mondo. Oggi è una donna forte, brillante e spiritosa, realizzata nel suo lavoro».

A casa come vi divertivate?

«Facevamo della grandi nottate insieme mangiando dolci e ascoltando la radio. Dalia tornava dai suoi impegni e noi anche. E la notte era come una casa normale la mattina».

E oggi?

«La famiglia si è allargata, coi nipoti Lorenzo e Luca, hanno 20 e 22 anni, studiano. Il più grande studia in America, nel campo economico-manageriale. Il più giovane invece decide adesso che cosa vuole fare. Tutti suonano ma saggiamente progettano anche altro».

Ombretta, che cosa ha capito dalla vita?

«Intanto che va vissuta. Poi che l’allegria è un antidoto a tutto.

Non bisogna perdere troppo tempo dietro a delle stupidate. Il nostro tempo diciamo che è un po' contingentato».

·         Maledetto Faber, ora ti amano tutti!

De André e PFM, dopo 40 anni riemerge il video «scomparso» del concerto del 1979. Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 da Corriere.it. Una perla rara emerge dal lontano 1979. A 40 anni dal tour di Fabrizio de André con la PFM è stato ritrovato il filmato con la registrazione completa dell'evento, uno dei concerti più noti della musica italiana. Parliamo di quella stessa performance immortalata da due dischi che sono diventati un classico, In concerto con PFM vol. 1 (o per meglio dire Fabrizio De André in concerto - Arrangiamenti PFM) del 1979 e il successivo In concerto con PFM vol. 2 del 1980. Il tour vedeva noti brani del cantautore genovese, da Bocca di Rosa a Il pescatore passando per Andrea e Un giudice riarrangiati in chiave rock da Franco Mussidda, Franz Di Cioccio e soci. Quel concerto energico e incalzante, indimenticabile anche per chi non c'era, oggi ha anche una controparte video. La registrazione realizzata dal regista genovese Piero Frattari il 3 gennaio 1979 a Genova era una sorta di Santo Graal della musica italiana. In molti parlavano della pellicola, rumors sulla sua esistenza si rincorrevano senza sosta, c'era anche chi giurava di averla vista. In tanti l'hanno cercata per decenni, ancor più si erano dati per vinti ma adesso eccola riemergere. Finalmente potremo vedere quei colori accesi che troviamo sulle copertine dei dischi, gli umori di quel palco colmo di energia dove Faber e i compagni si passano la palla senza tregua, si chiamano, ammiccano, urlano, si divertono. Come nella migliore tradizione archeologica, la storia del ritrovamento ha dell'avventuroso. A custodire quell'unica copia era Frattari stesso solo che non lo sapeva. «Devo ringraziare le mie due passioni: una per la musica di Faber e l’altra, maniacale, di conservare ogni cosa», racconta oggi il regista che spiega: «All’epoca facevo il video maker per radio e tv. Era il gennaio del 1979. Gli organizzatori mi proposero di registrare il concerto di Faber/ PFM. Non esitai un istante». Ma ecco il colpo di teatro: le videocassette di quella registrazione finirono in fondo ad un archivio che qualche anno dopo si decise di mandare al macero. Insomma, tutto sembra perduto ma forse no. «Solo per caso riuscii a recuperarle e a catalogarle tutte nell’archivio della mia società, Vidigraph, che possedeva già circa 20mila videocassette professionali – dice Frattari – Erano video analogici su nastro, quindi, per salvarli dal degrado, decisi nel 2000 di trasferirli tutti su supporto digitale». Scovata la perla inattesa, il regista contatta Sony Music per dare avvio al necessario restauro. A quanto fa sapere oggi l'azienda, quel video sarà presto disponibile al pubblico e tutti potremo finalmente vedere ciò che pensavamo neanche esistesse.

Fabrizio De André e la Pfm, ritrovate le immagini del concerto di Genova. Le aveva girate il regista Piero Frattari che nel 2000 le aveva digitalizzate. La testimonianza di un evento unico per il pop e il rock italiani. La Repubblica il 18 ottobre 2019. De André e la Pfm in concerto a Genova. E’ il 3 gennaio 1979 e lo show viene ripreso Dal regista genovese Piero Frattari. Da allora le immagini non si sono mai viste, la pubblicazione avviene soltanto ora e si tratta di un documento in grado di restituire i colori, gli umori di quel palco, di quei live, resi possibili dall’incontro del grande cantautore genovese con la straordinaria rock band italiana. “Devo ringraziare le mie due passioni: una per la musica di Faber e l’altra, maniacale, di conservare ogni cosa”, racconta il regista Frattari a proposito della registrazione che verrà finalmente resa disponibile al pubblico dalla Sony. “All’epoca facevo il video maker per radio e tv. Gli organizzatori mi proposero di registrare l’evento ma le videocassette di quella registrazione finirono in fondo ad un archivio che, qualche anno dopo, decisero di mandare al macero. Solo per caso riuscii a recuperarle e a catalogarle tutte, Nel 2000 decisi di trasferirli tutti su supporto digitale”.

Dori Ghezzi racconta: "Quell'auto con il motore acceso in caso di fuga...". Dori Ghezzi torna a parlare di suo marito Fabrizio De André, raccontando episodi sconosciuti ai più sulla loro vita, come quando pretese un'auto accesa fuori da un locale in caso di fuga estrema...Francesca Galici, Mercoledì 16/10/2019, su Il Giornale. Dori Ghezzi torna a parlare di Fabrizio De André e lo fa con la delicatezza e la lucidità che da sempre la contraddistinguono. Sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, la cantante ha ripercorso alcune delle tappe fondamentali della vita con il cantautore di Genova, partendo dall'episodio del rapimento in Barbagia. “La notte peggiore fu quella in cui liberarono me. Ci separavano, ma né io né Fabrizio avevamo la certezza che gli accordi fossero andati a buon fine. Non potevo sapere se i sequestratori lo avrebbero lasciato andare 24 ore dopo, così come lui restava nel dubbio […] Ma ogni esperienza serve, per cavarne qualcosa di buono: quella notte nacque Hotel Supramonte”, ricorda Dori Ghezzi. In effetti i sequestratori mantennero la promessa: Dori Ghezzi venne liberata alle 23 del 20 dicembre 1979 e Fabrizio de André alle 21 del 21 dicembre 1979 dopo 4 mesi di prigionia. Nonostante l'esperienza traumatizzante del sequestro, la coppia non si è mai costituita parte civile ma ha scritto una lettera di perdono per i sequestratori, con i quali durante la prigionia riuscirono a creare un legame di solidarietà. L'animo nobile e sensibile di Fabrizio De André e della sua compagna li portarono a voler capire i motivi che spingono le persone a compiere certi gesti ma, soprattutto, la speranza era di veder risparmiata la vita se si fosse trovata una strada per la risoluzione. È stata un'esperienza fortissima per la coppia e da quella prigionia è nato uno degli album capolavoro del cantautore. Intitolato semplicemente “Fabrizio De André”, da tutti venne identificato come l'indiano per il dipinto del pellerossa sulla copertina. “Quante analogie nelle sofferenze del popolo sardo e dei pellerossa, bersagli entrambi della prevaricazione dei più forti”, dice Dori Ghezzi. Nel racconto di Dori Ghezzi c'è spazio anche per altri grandissimi della musica italiana, che negli anni hanno incrociato le loro strade con la sua e con quella di Fabrizio De André. La cantante lascia che il mistero avvolga ancora la leggenda sul famosissimo verso della canzone Rimmel, scritta da Francesco De Gregori “Chi mi ha fatto le carte/mi ha chiamato vincente, ma è uno zingaro, è un trucco.” Pare che questi versi siano dedicati proprio alla moglie di Fabrizio De André, che nei soggiorni in Sardegna di De Gregori usava fargli le carte ma la donna, è il caso di dirlo, ha voluto mischiarle quelle carte: “Sì, io leggevo i tarocchi a Francesco, ma lui aveva conosciuto anche Puny, la prima moglie di Fabrizio, che a sua volta faceva le carte. Davvero parla di me?” L'amore tra Fabrizio De André e Dori Ghezzi è stato molto forte ed è nato durante una festa di compleanno della donna. In quell'occasione erano presenti altre grandissime voci della musica italiana come Mina e Ornella Vanoni, insistenti nel chiedere canzoni al genovese. “Mi spiace ma se ne devo scrivere una sarà per Dori”, racconta oggi la Ghezzi, che considera quella come la prima dichiarazione d'amore di quello che da lì a pochi anni sarebbe diventato suo marito. Nonostante i brani di grande successo, Fabrizio De André ancora non aveva trovato il coraggio di esibirsi dal vivo. La prima volta fu il 16 marzo 1975 nell'iconica Bussola di Marina di Pietrasanta. “Era terrorizzato. Io non ero in sala al suo esordio. [...] Aveva preteso un' auto con il motore acceso davanti alla porta sul retro, in caso di fuga in extremis”, dice oggi Dori Ghezzi, la cui relazione con De André non era ancora stata ufficializzata. Sono due i dischi di Fabrizio De André che Dori Ghezzi ha nel cuore, uno è “La buona novella” e l'altro è “Creuza de Ma”, un esperimento e una scommessa vinta dal Faber.

Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” il 16 ottobre 2019. "La notte peggiore fu quella in cui liberarono me. Ci separavano, ma né io né Fabrizio avevamo la certezza che gli accordi fossero andati a buon fine. Non potevo sapere se i sequestratori lo avrebbero lasciato andare 24 ore dopo, così come lui restava nel dubbio: mi avevano davvero lasciato andare a casa? Ma ogni esperienza serve, per cavarne qualcosa di buono: quella notte nacque Hotel Supramonte".

Cara Dori Ghezzi, sono passati quarant' anni dal vostro rapimento. Non vi costituiste mai parte civile.

«Scrivemmo quella lettera di perdono. In quei giorni di prigionia nacque una solidarietà con quelle persone, cercammo di comprendere i motivi che li avevano portato a tanto. Confidavamo che se la cosa non si fosse risolta ci avrebbero comunque risparmiato la vita».

Da quel dramma nacque un album immenso di De André.

«Con "L' Indiano" in copertina. Quante analogie nelle sofferenze del popolo sardo e dei pellerossa, bersagli entrambi della prevaricazione dei più forti».

Tornaste mai al leccio al quale restaste legati per mesi?

«Ci fecero fare dei sopralluoghi per le indagini, forse individuammo la zona. Ma dopo no. La vita doveva andare avanti. Capimmo ancora meglio cosa significhi essere liberi. E la nostra vicenda contribuì a sradicare la piaga dei sequestri in Sardegna. All'epoca era routine. Cossiga mandò Dalla Chiesa a fare luce sul nostro caso. Noi eravamo la coppia famosa, ma si contavano dodici ostaggi nelle mani delle bande, in quel momento».

Cinque anni prima, nella vostra tenuta di Portobello di Gallura, venne Francesco De Gregori. Che in "Rimmel" omaggia lei, Dori, con i versi "chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma è uno zingaro, è un trucco".

«Sì, io leggevo i tarocchi a Francesco, ma lui aveva conosciuto anche Puny, la prima moglie di Fabrizio, che a sua volta faceva le carte. Davvero parla di me? In quell' inverno De Gregori lavorava al Volume 8 di Fabrizio, uno degli album più sperimentali. Si scambiavano idee con foglietti lasciati in cucina: mentre uno dormiva, l' altro creava. Avevano bioritmi incompatibili».

In che occasione Faber le dichiarò il suo amore, Dori?

«A una festa per il mio compleanno, in casa del mio compagno di allora. Tra gli invitati c' erano Ornella Vanoni e Mina, che lusingavano Fabrizio chiedendogli canzoni. "Mi spiace", rispose lui, "ma se ne devo scrivere una sarà per Dori". Era quella la sua dichiarazione».

Però il successo di Mina fu poi utilizzato da Sergio Bernardini, patron della Bussola, per convincere De André a esibirsi dal vivo.

«Era terrorizzato. Io non ero in sala al suo esordio: la nostra relazione non era ancora ufficiale e non volevamo pettegolezzi. A cose fatte mi disse solo: 'È andata'. Non aveva la minima percezione se fosse stato un trionfo o un fiasco. Aveva preteso un' auto con il motore acceso davanti alla porta sul retro, in caso di fuga in extremis. Si circondò di amici per farsi coraggio. Il buttadentro che lo spinse sul palco era il regista Marco Ferreri, che poi si piazzò sul primo gradino, lì davanti, incitandolo».

Un altro degli amici di sempre, Paolo Villaggio, mi disse che in punto di morte Faber gli chiese di farlo ricordare come un poeta, non come un cantautore.

«Mah, forse è ciò che Paolo voleva sentirsi dire. Fabrizio non si considerava un poeta, ma un contadino. Comprò l' azienda agricola per lasciare qualcosa di concreto ai figli. Certo, amava far canzoni. Aveva rispetto del pubblico, e qualunque cosa proponesse la faceva con coraggio e lealtà».

Oggi lei, Mauro Pagani, Michele Serra, Morgan e Vittorio De Scalzi sarete protagonisti di una Masterclass su De André all' Ariston di Sanremo, anteprima del Premio Tenco che si inaugura domani.

«Sono i giovani a chiederci di divulgare la grande canzone d' autore del passato. Noi fummo protagonisti di una formidabile rivoluzione culturale, favorita dalla congiuntura storica. Adesso la musica è qualcosa di più residuale, è volatile, meno preziosa. Ma i ragazzi presto o tardi arrivano a comprendere il valore. Io, nel mio piccolo, mi adopero con la Casa dei Cantautori a Genova. Peccato che l' Italia non abbia mai scelto di valorizzare i suoi artisti. Dylan ha vinto il Nobel perché gli Stati Uniti ne presentarono la candidatura. La Francia va fiera di Brel o Brassens. I nostri sono sempre stati ignorati, tranne qualche testo nei libri di scuola. Poi incontri Joan Baez o David Byrne e scopri che sono i primi fan degli italiani. Patti Smith girò un documentario in cui, a un certo punto, canticchia "Amore che vieni amore che vai"».

A proposito: che rapporto c' era tra Fabrizio e Tenco?

«Molto stretto. Luigi aveva cominciato prima ed era protettivo nei confronti di De André. Che a sua volta andava in giro baldanzoso a ricordare che La ballata dell' eroe l' aveva scritta lui. Tenco lo venne a sapere: 'Fabri, ma ti serve questo per agganciare le ragazze?'. Erano due seduttori».

Ci sono inediti di Faber nel cassetto?

«No. L' unica cosa non pubblicata ufficialmente è la versione in inglese di Tutti morimmo a stento. Il risultato non lo convinceva, lasciò perdere. Poi qualche nastro è sfuggito dagli studi, ma io onorerò la volontà di mio marito».

Qual è il disco di De André che tiene nel centro del cuore?

«Due. La Buona Novella è un capolavoro, però Creuza De Ma lo vidi nascere. In fase di missaggio venne ad ascoltarlo il capo della casa discografica. Si mise le mani nei capelli: "Fuori di Genova non venderà una copia". Non fu buon profeta».

Quaranta anni fa il rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi: era il 27 agosto del 1979. Pubblicato martedì, 27 agosto 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. «Con Fabrizio De André e Dori Ghezzi i rapiti in Sardegna sono ora dieci (i Cinque, i Casana, Olivetti e gli Schild) e non ci sono più parole per definire questa incredibile escalation dei banditismo sardo. Il numero delle vittime sa di bollettino di guerra». Iniziava così l'articolo pubblicato in prima pagina il 28 agosto del 1979, firmato da Alberto Pinna, per raccontare il rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Era il 27 agosto quando a Tempio Pausania, nella regione sarda della Gallura, fu messo in atto il sequestro del cantautore e della sua compagna Dori Ghezzi, nella fattoria dell'Agnata acquistata tre anni prima. Durante la notte, Dori fu svegliata dal rumore di alcuni passi che si dirigevano verso la sua camera: quando stava per aprire la porta, le fu intimato di non muoversi da un uomo a volto coperto. Fabrizio, invece, era già stato immobilizzato. La coppia fu portata su una macchina e trasportata sulla statale Tempio-Oschiri. Sull'isola — continua Pinna — arrivò «anche il generale Dalla Chiesa, inviato in aereo dal governo» e alle truppe stanche e scoraggiate vennero «mandati di rinforzo ufficiali e sottufficiali dei CC e di PS e giovani commissari esperti nel banditismo sardo». E continua: «Una fortunata coincidenza ha impedito che nelle mani dei banditi cadesse anche Luvi, Luisa Vittoria, la figlia di due anni di Fabrizio e Dori», al mare a Porto San Paolo, vicino a Olbia, con i nonni. «È stata la domestica, al mattino, a informare i carabinieri, dopo aver trovato la stanza da letto a soqquadro e essersi insospettita per l'inconsueta assenza del suoi datori di lavoro». La coppia fu prelevata dall’Anonima Sequestri e venne tenuta prigioniera sul Monte Lerno, a Pattada. La loro liberazione avvenne quattro mesi dopo: lei il 21 dicembre alle undici di sera, mentre lui il 22 alle due di notte, dopo il pagamento di un riscatto di circa 550 milioni di lire. Il 26 dicembre furono arrestati tutti i componenti della «banda degli orunesi», compreso Marco Cesari, l'ideologo del gruppo. Al processo che nel 1983 si tenne a Tempio Pausania De André e Ghezzi decisero di non costituirsi parte civile. Una vicenda rimasta impressa nella memoria di Faber, che l'ha raccontata nell'album del 1981, «L’indiano», all'interno della canzone «Hotel Supramonte» (la catena montuosa nella zona centro-orientale della Sardegna, nascondiglio di banditi, ndr). Un brano rivolto alla compagna Dori che con lui visse la prigionia: «Dov’è il tuo amore?», scrive il cantautore genovese, ricordando l'esperienza della fame («i primi giorni non ci facevano togliere la maschera neppure per mangiare, ci tagliavano il cibo a pezzettini e ci imboccavano») e della sete e, infine, la gioia della liberazione: «Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile. Grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere e un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve, sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete».

Quaranta anni fa il rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi, lui: «Non mi chiesero mai di cantare, ma a Dori sì, una volta». Il sequestro raccontato dal cronista del Corriere della Sera che seguì il caso all'epoca. Pubblicato martedì, 27 agosto 2019  Alberto Pinna su Corriere.it. Estate tremenda, quell’ormai remoto 1979. Otto rapimenti, Anonima Sequestri scatenata, 10 ostaggi simultaneamente nelle sue mani, con l’emblematica vignetta di Giorgio Forattini che raffigurava la Sardegna a forma di orecchio mozzato, data quasi fuori dal controllo dello Stato e autorevoli commentatori convinti che soltanto l’intervento dell’esercito potesse ripristinare la legalità. Pattuglie di polizia e carabinieri incrociavano schiere di giornalisti, fra Barbagia e Costa Smeralda: erano stati prelevati l’ingegnere anglotedesco Rolf Schild, la moglie e la figlia, Luisa e Cristina Cinque, Silvio Olivetti. E prima ancora Pietro Cicalò, Salvatore Troffa, Ornella e Roberto Pancirolli, Giorgio e Marina Casana. Il 28 agosto si aspettava qualche novità sul fronte delle trattative per Schild e Cinque. Fra i giornalisti - alcuni a Tempio Pausania, i più in località della costa - i soliti controlli. Ad un tratto la sirena di un’auto dei carabinieri e subito dopo un’altra. Forse - azzarda un cronista - hanno liberato uno degli ostaggi. Squilla il telefono, una voce amica sussurra: «Vai all’Agnata». Che è accaduto? «Ripeto.Vai subito all’Agnata». L’Agnata, sapevamo tutti, era il buen retiro di Fabrizio De André. Tutti i giornalisti si precipitarono là. L’informatore amico richiamò subito: «Ieri notte hanno sequestrato Fabrizio e Dori Ghezzi». Una notizia bomba, ma anche nella frenesia il cronista deve ragionare: all’Agnata c’era ben poco da vedere e assai meno da scoprire, la fattoria era certamente off limits per i controlli della polizia scientifica, Fabrizio e Dori erano soli, non c’erano testimoni che potessero raccontare il rapimento, dire a che ora, come, quanti banditi... Inutile unirsi al codazzo dei colleghi. Uno sguardo d’intesa e Ulderico Piernoli, inviato dell’Occhio, quotidiano popolare, stesso gruppo editoriale del Corriere della Sera, è incerto:«Che si fa? Tu che sei sardo...». Un ricordo, un’intuizione: a Portobello di Gallura, costa occidentale, estremo opposto dalla Costa Smeralda, il padre di De Andrè ha una villa. C’è un problema. Portobello è un villaggio riservato, case immerse nel verde dei ginepri, sbarra all’ingresso, vigilanza rigida e i De André sono altrettanto riservati. Gli inviati del Corriere e dell’Occhio si presentano alla sbarra su una Fiat 128 blu. Il vigilante è diffidente e inflessibile, si avvicina allo sportello: «Non si può passare». Dall’auto una voce chiede a Piernoli:«Dottore, che diciamo al questore?». Il vigilante dà un’occhiata, la 128 blu viene scambiata per un’auto della polizia, la sbarra si solleva. Nella villa di Portobello ci sono la mamma di Fabrizio De Andrè e un ragazzino alto e magro, lo sguardo intenso: Cristiano. Lo choc per il rapimento vince anche la diffidenza. Si chiede e si risponde. A sera si ritorna a Tempio Pausania, in albergo. Del rapimento le fonti ufficiali, nel frattempo, hanno comunicato tutto. I De Andrè, padre e fratello di Fabrizio, hanno già preso in mano la trattativa e raccomandano: silenzio. La sola voce della famiglia («Fabrizio non temeva di essere rapito lui, ma che rapissero Cristiano») esce il giorno 29 sul Corriere della Sera e L’Occhio. Estate tremenda, autunno ancor più concitato: fra i ricordi un incontro presso uno studio legale di Sassari - presente l’avvocato Paolo Riccardi, braccio destro dell’Aga Khan - con il padre e il fratello di De Andrè, che cercavano di capire i «riti» delle trattative; le «soffiate» dalla Barbagia: «Gli ostaggi non sono qui», e infatti si saprà dopo che erano in una zona vicina, il Goceano. Fabrizio comunque chiamerà il luogo di prigionia Hotel Supramonte (montagna sopra Orgosolo) e così lo canterà. E poi il via libera, il ritorno a casa e i racconti del dopo, con un De André persino confidenziale: i banditi le hanno mai chiesto di cantare? «A me no, ma a Dori sì, una volta. “Ci faccia sentire la sua voce”». Infine il processo, le condanne e la (simbolica) «pietra sopra»: uno dei rapitori gli chiese di dare il suo consenso alla domanda di grazia e Fabrizio non volle ascoltare chi lo sconsigliava: «Perché non dovrei?». E, senza esitare, firmò.

Maledetto Faber, ora ti amano tutti! Vent’anni fa moriva Fabrizio De André. E’ stato, forse, il più grande cantautore italiano del Novecento. Ora tutti dicono: «Che artista!», scrive Piero Sansonetti il 6 gennaio 2019 su "Il Dubbio".  Una volta Fabrizio De André, chiacchierando con Adriano Botta che lo stava intervistando per l’Europeo, spiegò in poche parole cosa pensava di se stesso e delle scelte della sua vita. Disse: «Ho letto Benedetto Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti: dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante». Già, proprio così. E non si può dire che la sua decisione fosse sbagliata. Fabrizio De Andrè, “Faber” (come lo ribattezzò Paolo Villaggio) è stato probabilmente il cantante italiano di maggior talento di tutto il secolo. Il cantautore più bravo, più originale, più estroso. Uno dei pochissimi in grado di mettersi alla pari con i grandi cantautori americani, francesi, brasiliani. E’ morto 20 anni fa. L’ 11 gennaio del 1999. Stroncato da un tumore in pochi mesi, alla vigilia del nuovo millennio e alla vigilia dei suoi sessant’anni. A conclusione di una vita molto complicata, piena di successi, di delusioni, di rotture, di amori, di avventure, di alcool. Fabrizio de André è stato il più grande dei cantanti italiani (diciamo pure dei cantautori) e il più sovversivo. O forse: è stato il più grande, sebbene il più sovversivo. O forse ancora: proprio perché il più sovversivo. Faber era sovversivo nelle sue canzoni come nella vita. Era anarchico, gli piaceva Bakunin, odiava il potere. Sì, anche il potere politico, certo, ma soprattutto il potere- potere, cioè la repressione, i giudici, la polizia, i guardiani dell’ordine costituito. Magari diciamolo sottovoce, per non scandalizzare nessuno (di questi tempi), però è difficile negare che se c’era un valore che De Andrè aborriva questo valore è la legalità. A lui piaceva vivere borderline e gli piacevano le persone borderline 8 o anche oltre il “border”), come Bocca di Rosa, come l’assassino, come il “tipo strano” che si aggirava nel porto di Genova dopo aver venduto sua madre a un nano per tremila lire, se ricordo bene. Lui stesso, neanche ventenne, si era fidanzato con una prostituta di via Prè. Creando grande scandalo nella sua famiglia. Il padre di Fabrizio all’epoca era un cinquantenne, era stato vicesindaco di Genova, era amministratore delegato della Eridania. Non era contento del comportamento da sbandato di Fabrizio, e della sua continua sfida a tutto ciò che era perbene. Voleva che Fabrizio facesse l’avvocato. Invece Fabrizio a 20 anni scrisse “La Ballata del Miché”, ebbe un certo successo, lasciò la facoltà di Legge e iniziò a strimpellare e a scrivere musica. Tanti anni dopo disse: «Miché mi ha salvato. Grazie a lui sono diventato un discreto cantante invece che un pessimo penalista». Fabrizio era nato a Genova il 18 febbraio del 1940. E aveva iniziato a comportarsi male già alla scuola media. Era un geniaccio, questo è chiaro, ma le regole non le sopportava, studiava un po’ come gli pareva a lui, faceva impazzire i professori. A otto anni, in vacanza a Cortina D’Ampezzo, aveva conosciuto un ragazzo parecchio più grande di lui. Si chiamava Paolo, aveva 15 anni ed era anche lui un po’ scapestrato. Fecero amicizia. Ma un’amicizia vera, forte, che durò tutta la vita. Paolo si comportò per vari anni da fratello maggiore. Poi da fratello più vecchio ma minore. Paolo, il giorno dei funerali di Fabrizio, disse che per la prima volta aveva provato invidia per un amico e per un funerale. Perchè disse – diecimila persone commosse in quel modo lui non le avrebbe mai avute al suo funerale. Qualche anno dopo morì anche Paolo e pure i suoi funerali furono ben partecipati e commoventi. Paolo, di cognome si chiamava Villaggio. Fece l’attore. Per il grande pubblico ebbe forse un successo ancora maggiore a quello di Fabrizio. Però Fabrizio è sempre stato un numero uno, o forse un numero unico, Polo no. Negli anni sessanta scrisse per Fabrizio una canzone un po’ sboccata, che vendette molti dischi: Re Carlo tornava dalla guerra. Di nuovo una storia di puttane e di scopate, e di lamenti del re tirchio che non voleva pagare cinquemila lire alla sgualdrina e scappava via frustando il cavallo. De André ha cantato l’amore, il sesso, ha cantato la miseria umana, ha cantato le lodi dell’illegalità, anche del crimine. Molte sue canzoni oggi non sarebbero accettate da nessun produttore. Pensate a quella in semi- dialetto napoletano, bellissima – don Raffaè – scritta pensando a Raffaele Cutolo, cioè il capo della camorra. Oggi Fabrizio è morto, Cutolo sta ancora in galera e credo sia il detenuto che ha scontato la pena più lunga di qualunque altro detenuto. Con qualche mese di intervallo, sta dentro dal ‘ 62. Voi vi immaginate se oggi qualche cantautore si presentasse, per dire, a Sanremo o a X Factor e dicesse che lui vuole cantare una canzone nella quale si parla – dico un nome a caso – di Matteo Messina Denaro? E’ vero che don Raffaè non è una esaltazione del capo camorrista, tutt’altro, ma un testo che critica la condizione delle carceri italiane e la sottomissione dello Stato (“e lo stato che fa? Si costerna si indigna si impegna poi getta la spugna con gran dignità…”). Però è il linguaggio diretto, anticonformista, antiperbenista di De Andrè che oggi sarebbe inammissibile.

Del resto già quarant’anni fa non è che fosse amatissimo. Né a destra, tra i conservatori, che si scandalizzavano facilmente. Né a sinistra, dove era considerato un individualista, un cane sciolto, un tipo molto borghese e parecchio pericoloso. Persino “Lotta Continua” stroncò uno dei suoi dischi che io penso sia forse il più bello e più di rottura di tutto il suo repertorio: “Storia di un impiegato”. E’ del ‘ 73, rilegge il sessantotto a modo suo, rilancia l’idea dell’anarchia, contesta tutte le istituzioni e tutti i poteri, il carcere, i giudici, invita alla rivolta, condanna la lotta armata, esalta i prigionieri, i detenuti, i delinquenti. E riesce persino a parlare d’amore, con la sua tristezza di sempre, con la disillusione e il pessimismo che sono il suo Dna, ma anche con lo struggimento e la capacità di commuovere che nelle sue canzoni non manca mai, mai, proprio mai. Quali sono le grandi istituzioni che de Andrè ha messo in discussione nei circa 40 anni della sua attività? La Chiesa, la Magistratura, il Carcere, la Legge, la Morale comune, il Sindacato. Quasi tutto. E su quasi tutto la sua critica è impietosa e urta il senso comune. Anche perché Faber contesta le istituzioni, non i valori e i sentimenti. Per esempio è severissimo con la Chiesa, coi preti e coi magistrati, ma non con la religione e con il diritto. Tutt’altro. Concepisce il diritto in modo molto originale: diritto a non essere giudicati e comunque a non essere puniti. La sua prima canzone – lo abbiamo detto – è la ballata del Miché, ed è una canzone che esalta un omicidio. Michè ha ucciso il rivale d’amore, ha ucciso per amore, per amore di Maria, e dunque la punizione è ingiusta e Miché si ribella nell’unico modo possibile: uccidendosi. E uccidendosi beffa tutti: evade. Faber è dalla parte di Miché: amante, uccisore, evaso, suicida. Ci sono Tutti i peggiori peccati possibili nella persone dell’eroe. E così anche nella sua religione – fortissima, a volte quasi ascetica – Faber parte dai peccati: lui sta con Cristo ma vuole peccare, perché Cristo è perdono e non punizione, è debolezza e non forza, è errore e non correttezza, è fuorilegge e non giudice, sta coi ladri e non coi derubati. “Guardate la fine di quel Nazareno, e un ladro non muore di meno…”. Oggi vedo che De André non scandalizza più. Molti se ne appropriano. Lo hanno esaltato, qualche anno fa, Fabio Fazio e Roberto Saviano, che pure sono ultralegalisti. Lo ha lodato Matteo Salvini. Persino tra i 5 Stelle De André va per la maggiore. Del resto che Faber fosse amico di Beppe Grillo è fuori di dubbio. Credo che Grillo fu suo testimone alle sue nozze con Dori Ghezzi e forse anche Fabrizio fu testimone di nozze di Grillo. Si sono frequentati e voluti bene fino all’ultimo. In realtà Beppe Grillo, per un lungo periodo della sua vita e della sua attività artistica è stato un anarchico, come Fabrizio. Un contestatore di tutto. Probabilmente con una preparazione culturale più leggera, sicuramente non con l’altezza artistica di De Andrè, ma in ogni caso con uno spirito simile. Poi però è successo qualcosa. Due cose, un po’ lontane nel tempo. De Andrè, insieme alla sua seconda moglie, Dori Ghezzi, subisce un rapimento. In Barbagia. Era la fine del 1979. Un rapimento che dura quattro mesi. Quattro mesi nascosti nei boschi del Supramonte, all’aperto, al freddo, spesso legati, bendati. Fabrizio supera in modo grandioso questa prova umana. Non si indurisce. Non cambia le sue idee e i suoi valori. Perdona. Rispetta lo spirito delle sue canzoni. Addirittura compatisce i suoi persecutori. Dimostra una coerenza e una grandezza morale difficili da trovare in un un uomo e in un artista. Grillo fa il percorso inverso. A metà anni ottanta viene cacciato dalla Rai, probabilmente perché aveva criticato troppo Craxi. Grillo vede a rischio la sua carriera, non resiste alla rabbia per quella che ritiene, e forse è, una ingiustizia. Reagisce producendo odio, e rimodellando sull’odio, non più sull’ironia bonaria, tutta la sua costruzione artistica. Odio vuol dire punizione e contrappasso. E per ottenere punizione e contrappasso ci si affida ai giudici, alla legge, alla repressione, al rigore. Credo che sul piano umano i due restino amici. Tanto che Grillo viene incaricato dalla famiglia di occuparsi dei funerali di Faber. Ma sul piano intellettuale la distanza diventa siderale. Perciò a me sembra poco rispettoso l’abbraccio a De André senza idealità. De André, certo, è anche quello di “Marinella” o di “Valzer per un amore”, o di “Volta la carta”. Però De Andrè è soprattutto un intellettuale, “imprevisto” da Croce, che ha messo la poesia al servizio del sovversivismo. Della contestazione delle istituzioni e della legge. Negargli questo aspetto, esaltandolo a prescindere, è un torto grave che gli si rende. Per me De Andrè resta soprattutto quello degli ultimi versi della “Storia di un impiegato”: «… Vagli a spiegare che è primavera: e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera». E ancora: «venite adesso alla prigione, state a sentire sulla porta, la nostra ultima canzone, che vi ripete un’altra volta: anche se voi vi credete assolti, siete per sempre coinvolti».

Fabrizio De André 20 anni dopo: Homo Faber (ma soprattutto poeta), scrive Francesco Prisco l'11 gennaio 2019 su Il Sole 24 ore. Venti anni fa. Fabrizio De Andrè è morto a Milano l’11 gennaio 1999. La canzone è arte minore? Questione antica, più volte riproposta negli ultimi 20 anni, almeno ogni qual volta l’Accademia di Svezia esaminava la candidatura di Bob Dylan per il Nobel alla Letteratura. Alla fine, nel 2016, «Sua Bobbità» il premio in questione se lo è visto assegnato per davvero e la disputa intorno alla nobiltà della musica popolare – intesa nel senso più ampio del termine – ha trovato finalmente un punto di equilibrio. Se Dylan merita il Nobel, al di qua dell’Atlantico faremmo bene ad abbandonare ogni indugio: Fabrizio De André è in tutta probabilità il più grande poeta italiano della seconda metà del Novecento, di sicuro il più influente, quello che meglio di ogni altro ha fatto grande letteratura (poesia) ed è riuscito a divulgarla attraverso un formidabile strumento (musica). E non c’è bisogno di scomodare i lirici greci per legittimare la nobiltà artistica della parola cantata, perché ci bastano quattro versi di Faber: «Voglio vivere in una città/ dove all’ora dell’aperitivo/ non ci siano spargimenti di sangue/ o di detersivo». Ci bastano i suoi versi e le almeno venti pubblicazioni a lui dedicate uscite nell’ultimo anno, tra saggi che ne spiegano il pensiero, biografie più o meno autorizzate e ritratti vari, attenzioni degne di un autore senza tempo per questo straordinario artista che ci lasciava l’11 gennaio 1999, esattamente 20 anni fa. Due di questi libri meritano sicuramente menzione. Il primo è Falegname di parole – Le canzoni e la musica di Fabrizio De André, scritto da Luigi Viva (Feltrinelli, pp. 288, euro 25), forse il primo biografo del cantautore genovese, autore di quel Non per un dio ma nemmeno per gioco uscito nel 2000, dopo dieci anni di lavoro di selezione delle fonti in diretta collaborazione con Faber. Chi ha conosciuto e amato quel testo, apprezzerà questo che fu scritto in parallelo e lo completa. Falegname di parole, titolo che prende spunto da un componimento inedito di De André, è infatti una specie di guida ragionata all’ascolto del cantautore, una vita attraverso le opere, disco per disco. Dagli esordi da indipendente con la Karim, quando questo giovane intellettuale di buona famiglia si fa strada sulla vivacissima scena della Genova anni Sessanta, davanti agli occhi, come modello, la coerenza anarchica di George Brassens. Le notti alle osterie della Città Vecchia, il sodalizio umano e artistico con Paolo Villagio, una manciata di singoli che gli valgono una grande reputazione: Il testamento (1963), La guerra di Piero e soprattutto La canzone di Marinella (1964) che, grazie al successo della versione di Mina datata 1967, darà finalmente una ribalta nazionale al cantautore. Negli anni della Contestazione, mentre tutti si sporgono verso Stati Uniti e Inghilterra, lui guarda soprattutto agli chansonnier francesi con Vol. 1 (1967), Tutti morimmo a stento e Vol. 3 (1968). Tutti chiedono l’impegno politico e lui rilegge i Vangeli apocrifi, tirando fuori quel capolavoro che si chiama La buona novella (1970), un concept album su Gesù di Nazareth che, secondo Faber, «è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi». Tutti declamano i versi dei poeti Beat e lui mette in musica gli epitaffi primo Novecento di Edgar Lee Masters, facendosi aiutare da Fernanda Pivano, senza la quale qui da noi i poeti Beat neanche avremmo saputo chi fossero: ne esce Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), disco impossibile da ascoltare senza lacrime. E poi il concept sulla deriva bombarola del Movimento condiviso con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani (Storia di un impiegato, 1973), il feeling con l’astro nascente del Folkstudio Francesco De Gregori (Canzoni del 1974 e Vol. 8, 1975), la scoperta di Dylan e Leonard Cohen, gli affacci live sull’universo prog con la Pfm, il prolifico sodalizio con Massimo Bubola che porterà ad album decisivi come Rimini (1978) e l’omonimo con l’indiano in copertina (1981), nato dalla drammatica esperienza del sequestro subito assieme alla moglie Dori Ghezzi in Sardegna, sua patria elettiva. Negli ultimi 20 anni di vita De André pubblica meno, ma la sua scrittura raggiunge vette inedite per la storia della parola cantata. E qui ci viene incontro Amico Faber – Fabrizio De André raccontato da amici e colleghi di Enzo Gentile (Hoepli, pp. 258, euro 17,90), con la testimonianza del regista tedesco Wim Wenders su Crêuza de mä (1984), capolavoro di world music realizzato in coabitazione con Mauro Pagani, tutto in dialetto genovese: «Sono convinto che tanti artisti nel mondo potrebbero apprezzare e capire le canzoni di Fabrizio reinterpretandole a modo loro». O quella di Ivano Fossati su Le Nuvole (1990) e Anime Salve (1996): «Fabrizio aveva il massimo grado di responsabilità e controllo su quello che faceva, quasi un motivo di sofferenza». Eggià: «Ormai sono abituato a soffrire, e forse ne ho la necessità», diceva di sé Eugenio Montale, altro Nobel per la Letteratura. Genovese, stessa razza di De André.

Fabrizio De André, 20 anni senza: le frasi indimenticabili. Il grande cantautore genovese, morto l'11 gennaio del 1999, ci ha lasciato parole, aforismi e riflessioni memorabili, scrive Gabriele Antonucci l'11 gennaio 2019 su Panorama. Sono passati vent'anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, morto l’11 gennaio 1999, un notevole lasso di tempo che, invece di offuscare il valore culturale e popolare del suo lavoro, rende ancora più doloroso il distacco dal cantautore genovese, specie se paragonato al desolante panorama odierno della musica italiana di largo consumo. De André si serviva della musica per raccontare l'uomo, la sua vita, le sue fragilità. Ha saputo portare al centro dell’attenzione chi da sempre era considerato e collocato ai margini della società: emarginati, ribelli e prostitute. Non si può prescindere dalla forza dei suoi testi e dalla curiosità che trasmetteva, in modo silenzioso, portando l'ascoltatore, quasi senza accorgersene, a leggere L’antologia di Spoon River, i Vangeli Apocrifi o ad ascoltare Georges Brassens, Leonard Cohen e Bob Dylan. Il cantautore genovese, inoltre, ha avuto il merito di aver liberato il dialetto dalle pastoie delle vecchie ballate popolari, traghettandolo nella musica moderna e assegnandogli una centralità che non aveva mai avuto prima di lui.

La poetica di De André. Bocca di rosa, una delle sue canzone più famose, è un po’ l’emblema della sua poetica. De André, nelle sue canzoni, parte sempre da un episodio di vita per raccontare “le umane cose” ed il loro evolversi secondo schemi prestabiliti e sempre uguali. A meno di un atto di coraggio che implica il voler essere sé stessi, liberi da qualsiasi etichettatura sociale. Un atto che, spesso, si paga caro. L’uomo-vittima di De André combatte sempre quello che non conosce, perché gli ricorda la parte più oscura di sé. L’uomo-eroe è quello che sceglie di scegliere. Ovviamente, la strada più difficile. Vogliamo ricordare, in occasione dei 20 anni dalla sua morte, il grande cantautore genovese attraverso le frasi, gli aforismi e le citazioni più belle tratte dalle sue canzoni.

Le citazioni più belle:

"Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori" (Via del campo)

"Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione" (Smisurata preghiera)

"Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato/ per un fruscío di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco" (Il suonatore Jones)

"Poi, d’improvviso, mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali/quando mi chiese: “Conosci l’estate?”/ io, per un giorno, per un momento/corsi a vedere il colore del vento" (Il sogno di Maria)

"Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane/ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame" (Nella mia ora di libertà)

"C’è chi aspetta la pioggia/ per non piangere da solo" (Il bombarolo)

"E l’amore ha l’amore come solo argomento/ e il tumulto del cielo ha sbagliato momento" (Dolcenera)

"Non si risenta la gente per bene/ se non mi adatto a portar le catene" (Il fannullone)

"Ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo/e il mio cuore le restò sulle labbra" (Canzone di un malato di cuore)

"Passerà anche questa stazione senza far male/passerà questa pioggia sottile come passa il dolore" (Hotel Supramonte)

"Si sa che la gente dà buoni consigli/ se non può più dare cattivo esempio" (Bocca di rosa)

"Coltiviamo per tutti un rancore che ha l’odore del sangue rappreso/ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso" (Ballata degli impiccati)

"E se tu tornerai t’amerò come sempre ti amai/ come un bel sogno inutile che si scorda al mattino" (Per i tuoi larghi occhi)

"Quei giorni perduti a rincorrere il vento/a chiederci un bacio e volerne altri cento" (Amore che vieni, amore che vai)

"Primavera non bussa, lei entra sicura/come il fumo lei penetra in ogni fessura/ ha le labbra di carne, i capelli di grano/ che paura, che voglia che ti prenda per mano/Che paura, che voglia che porti lontano" (Un chimico)

"E ora sorridimi perché presto la notte finirà/ con le sue stelle arrugginite, in fondo al mare" (Verdi pascoli)

"All’ombra dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore/e aveva un solco lungo il viso/come una specie di sorriso" (Il pescatore)

"Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti/è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti" (Un giudice)

"E come tutte le più belle cose/ vivesti solo un giorno come le rose" (La canzone di Marinella)

"Pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita/debba in qualche modo incominciare una chitarra" (Amico fragile)

"Dormi sepolto in un campo di grano/ non è la rosa non è il tulipano/ che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ ma sono mille papaveri rossi" (La guerra di Piero)

"O resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro/ senza chiederti come mai/ continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai" (Verranno a chiederti del nostro amore)

"Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura/ dove cammina il mio destino c’è un filo di paura" (Canto del servo pastore)

Pensare: "Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che pensano e quelli che lasciano che siano gli altri a pensare".

Virtù ed errore: "C’è poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l’errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c’erano morali, nel Medioevo, nel Rinascimento, che oggi non sono più assolutamente riconosciute".

Giovani: "Non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri".

Gesù: "Fra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale piena di perdono, altri combattevano e combattono per imporre il loro potere".

Preghiera: "Quando non hai nessuna possibilità di decidere del tuo destino, ti metti nelle mani di qualcuno che, in quel momento, speri che esista. E così ti arrendi alla tentazione della preghiera: non una preghiera tua, che forse non ne sei capace, ma una di quelle che ti hanno insegnato da bambino e che, magari, ti ricordi ancora a memoria".

Cantautori: "Certe volte mi chiedo se noi che cantiamo insieme al pubblico non siamo rimasti per caso un “club” di signorine romantiche che giocano a “palla a mano” fra le mura di un giardino di melograni mentre fuori la gente si sbrana".

Elemosina: "Trovo estremamente più dignitoso chiedere l’elemosina che fare le scarpe al proprio collega in ufficio".

Solitudine: "La solitudine non consiste nello stare soli, ma piuttosto nel non sapersi tenere compagnia. Chi non sa tenersi compagnia difficilmente la sa tenere ad altri. Ecco perché si può essere soli in mezzo a mille persone, ecco anche perché ci si può trovare in compagnia di se stessi ed essere felici (per esempio ascoltando il silenzio, stretto parente della solitudine)".

Consensi elettorali: "Agli estorsori di consensi convengono i disagi sociali degli uomini: gli uomini disagiati, senza lavoro, senza soldi, sono facilmente orientabili, sono facilissime fonti di consensi (anche elettorali)".

Italia: "L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all’Italia?".

Marinaio: "Il cuore del marinaio è sempre all’asciutto, a scaldarsi intorno al fuoco. Il marinaio non ama il mare: ci lavora e lo teme. Sogna di avere sempre la terra sotto i piedi, ricorda gli aromi, i volti e i sapori di casa".

Rapimento: "Durante il rapimento mi aiutò la fede negli uomini, proprio dove latitava la fede in Dio. Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza".

Genova: "Genova è anche gli amici che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare".

Utopia: "Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura".

Anarchia: "Se posso permettermi il lusso del termine, da un punto di vista ideologico sono sicuramente anarchico. Sono uno che pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio".

Libertà e anarchia: "Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie".

Governo: "Quello che io penso sia utile è di avere il governo il più vicino possibile a me e lo stato, se proprio non se ne può fare a meno, il più lontano possibile dai coglioni".

Sanremo: "Se si trattasse ancora di una gara di ugole, si trattasse cioè di un fatto di corde vocali, la si potrebbe ancora considerare una competizione quasi sportiva, perché le corde vocali sono pure sempre dei muscoli. Nel caso mio, dovrei andare ad esprimere i miei sentimenti, o la tecnica attraverso i quali io riesco ad esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione".

Uomo e artista: "Io ho tentato in tutti i modi di poter essere un uomo. Avrei potuto esprimermi per esempio attraverso la coltivazione dei fiori se fossi vissuto ad Albenga, oppure attraverso l’allevamento delle vacche se non mi avessero venduto di soppiatto una fattoria che avevano i miei nel ’54. Mi è accaduto di fare il cantautore. Il fatto di diventare un artista, in qualche maniera, ti impedisce di diventare uomo in maniera normale. Quindi credo che ad un certo punto della tua vita tu devi recuperare il tempo che hai perduto per fare l’artista per cercare di diventare un uomo".

Canzone: "La canzone è una vecchia fidanzata con cui passerei ancora molto volentieri buona parte della mia vita, sempre e soltanto nel caso di essere ben accetto".

Donare: "I potenti rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare".

Solitudine: "Io sono uno che sceglie la solitudine. E che come artista si fa carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. È il mio mestiere".

Sardegna: "La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso".

Genoa: "Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo".

Realtà e finzione: "Tutte le sere quando finisco un concerto desidererei rivolgermi alla gente e dire loro: “tutto quello che avete ascoltato fino adesso è assolutamente falso, così come sono assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che mi hanno portato a scrivere queste cose e a cantarle”. Ma con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro. E per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti, reali".

Doppio binario: "Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane".

Poesie: "Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono solo due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. E quindi io, precauzionalmente, preferisco definirmi un cantautore".

Morte: "Sicuramente ho paura della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo".

Scrittura: "Perché scrivo? Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me".

Fabrizio De André, vent'anni senza, venti canzoni per ricordarlo. Il cantautore genovese se ne andava nel 1999, lasciando un vuoto incolmabile, ripercorriamo la sua storia discografica con un viaggio lungo venti brani, scrive Giulia Cavaliere l'11 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".

Valzer per un amore. Sono trascorsi vent'anni a velocità sconcertante da quell'11 gennaio del 1999 quando Fabrizio De Andrè scomparve improvvisamente per un cancro ai polmoni. Di lui si è detto tutto: ma, oltre a un numero di indimenticabili classici, De André ha soprattutto scritto grandi canzoni, non precludendosi mai temi, vie, citazioni, incontri artistici che si sarebbero rivelati fortunati. Prima di essere "mostro sacro”, anche in eccesso secondo certi esegeti, Faber era un uomo che scriveva brani eccezionali dalla forza universale e spesso capaci di sconvolgere l'ascoltatore. Ebbene, qui di seguito lo ricordiamo attraverso 20 canzoni speciali e, in qualche caso, persino un po' nascoste nella sua straordinaria discografia che lo raccontano meglio di mille parole. “Vola il tempo lo sai che vola e va / forse non ce ne accorgiamo / ma più ancora del tempo che non ha età / siamo noi che ce ne andiamo”. Il Valzer Campestre di Gino Marinuzzi gira sul grammofono di Giuseppe De André quando suo figlio Fabrizio sta nascendo. Alcuni anni dopo lo stesso Fabrizio, venuto a conoscenza di questa storia, decide di trasformare questo brano classico in una canzone, ispirandosi a un sonetto del 1578 del poeta francese Pierre de Ronsard intitolato Quand vous serez bien vieille. La canzone è originariamente il Lato A di “La canzone di Marinella” e torna nel disco Canzoni del 1974, cioè esattamente dieci anni dopo. Durante la registrazione del disco negli studi Fonorama di Milano, Fabrizio De André invita per la prima volta Dori Ghezzi e la conduce ad ascoltare questo brano in studio. Se mai canzone fu galeotta del grande amore tra i due, beh, fu proprio questo antico valzer.

Il testamento. “Cari fratelli dell'altra sponda / cantammo in coro giù sulla terra / amammo in cento l'identica donna / partimmo in mille per la stessa guerra, / questo ricordo non vi consoli / quando si muore, si muore soli.” Inciso con arrangiamento del maestro Gian Piero Boneschi nel 1963 e ispirato al Testament di George Brassens pubblicato sette anni prima, Il testamento è un’apparentemente allegra tarantella per chitarra e fisarmonica. Dentro ci sono già tanti temi che saranno cari a De André e, soprattutto, tanti mondi che andranno a comporre il suo universo iper realista e insieme allegorico: la prostituzione, il gioco, l’illecito amoroso e, naturalmente, il tema della morte. Il requiem in chiusura fa il tono del brano tutto più fosco, cupo e lugubre, annunciando, insomma, la fine imminente ed è proprio lì che De André arriva pienamente con la sua verità bruciante: niente da fare, quel che abbiamo fatto qui a un certo punto, ovunque andremo, sarà di poco conto: davanti alla morte saremo comunque soli.

La stagione del tuo amore. “Passa il tempo sopra il tempo / ma non devi aver paura, / sembra correre come il vento / però il tempo non ha premura.” Il giovane Fabrizio De André osa su uno spettro molto più profondo di quello normalmente riconosciuto, non solo prostitute e notti brave nei vicoli come ci racconta la vulgata, ma una profondità espressiva assoluta che tocca temi lontanissimi come per esempio quello del tempo che passa, degli anni che se ne vanno, dell’amore che si trasforma rispetto a quello che attraversa la giovinezza ma che non per questo è meno rigoglioso. Con il suo timbro senza rivali qui De André ci restituisce un grande esempio di quanto detto: ed è la delicatezza stupefacente messa in questa scrittura e poi in questa interpretazione a lasciare senza fiato. Insieme a questa novità: il tempo non ha premura, ci dice Fabrizio. Probabilmente siamo noi ad averne.

Secondo intermezzo. “Sopra le tombe d'altri mondi nascono fiori che non so / ma fra i capelli di altri amori muoiono fiori che non ho”. Un viaggio psichedelico allucinato, che oggi sarebbe perfetto un dj set di gran gusto: fiati, batteria, basso, tastiere e chitarra elettrica magistralmente diretti da Gian Piero Reverberi che ci fa sprofondare in questa sorta di trip lisergico che ricorda un velluto tombale, tra la sinfonia e la colonna sonora dei poliziotteschi anni ’70, tra gli Osanna e Beethoven. Il secondo, per il suo testo (una strofa ripetuta identica due volte), è probabilmente il più interessante tra i tre intermezzi contenuti in “Tutti morimmo a stento”, il concept album più oscuro e doloroso mai scritto in Italia.

Il sogno di Maria. Siamo nel 1969 quando Fabrizio De André, mentre nelle strade impazza il Movimento Studentesco, si dedica alla rilettura musicale dei Vangeli apocrifi e, in particolar modo, del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo arabo dell’infanzia. Sembra un’operazione controcorrente – e certamente, formalmente, la è – ma ci sono dei forti punti di congiunzione tra lo spettro valoriale mobilitato da questo lavoro che De André definirà sempre “di liberazione del Cristianesimo dal Cattolicesimo” e quello che sta abitando quotidianamente le piazze. Oggi più che mai è bene porre attenzione su quanto al centro di questo straordinario concept album le figure attorno alle quali ruota il perno della narrazione e la forza del racconto, siano sempre le donne: Maria e le Tre madri in primis. Il sogno di Maria è un viaggio magico in un territorio che ricorda l’entroterra ligure – viaggio che Maria compie con Gabriele al suo fianco e, al tempo stesso, è la trasposizione in canzone di un quotidiano e comune disorientamento di fronte alla semplice scoperta di attendere improvvisamente un figlio – disorientamento che, naturalmente, si fa più sconcertante nella situazione di Maria.

Un ottico. “Vedo che salgo a rubare il sole / per non aver più notti, / perché non cada in reti di tramonto, / l'ho chiuso nei miei occhi, / e chi avrà freddo / lungo il mio sguardo si dovrà scaldare”. Secondo Fernanda Pivano l’ottico è uno spacciatore di hashish, tuttavia è certamente più facile immaginarlo come un Timothy Leary alle prese con l’LSD, uno che spaccia lenti speciali, appunto, stufo di far vedere alla gente la semplice, comune (pessima?) realtà. Tra tutti i personaggi che popolano L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che De André, ormai inabissato nel piacere per i grandi concept, rende protagonista e filo conduttore del suo Non al denaro, non all’amore né al cielo, l’Ottico è quello che musicalmente porta il grande lavoro di Nicola Piovani, arrangiatore e primo musicista dell’album, su un livello ancora più alto, sommersa tra rese lisergiche dei passaggi musicali che oscillano tra il valzer il kraut rock a una sperimentazione assolutamente inedita nella discografia di De André.

Al ballo mascherato. “Mio padre pretende aspirina ed affetto / e inciampa nella sua autorità / affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo / ma lui esplode dopo, prima il suo decoro. Mia madre si approva in frantumi di specchio / dovrebbe accettare la bomba con serenità / il martirio è il suo mestiere, la sua vanità / ma ora accetta di morire soltanto a metà, / la sua parte ancora viva le fa tanta pietà”. Siamo nel 1973 e ancora una volta Fabrizio De André si dedica a un concept, questa volta, ancora in pieno clima politicamente coinvolto, anche l’autore si apre espressamente al trattamento dei temi politici nei suoi brani. I temi centrali dall’album sono allora quelli del Maggio Francese, della lotta armata, della condanna dell’ideologia borghese, dell’individualismo e delle contraddizioni che coinvolgono l’intimo dell’essere umano messo in relazione con i moti delle masse. Il ballo mascherato è l’antro delle danze borghesi, è il luogo scelto dal nostro impiegato, novello bombarolo e protagonista, per piazzare la sua bomba. Quello che De André ci riporta, dunque, è il variegato mix di umanità e mito che anima la festa borghese: Gesù Cristo che vuole ottenere il premio Nobel per la bontà, Maria coinvolta da questioni edipiche (un modo ironico e deanderiano per parlarci della psicanalisi), Dante che spia Paolo e Francesca dalla porta per guardare “chi fa meglio di lui” e poi ci sono loro: i genitori, quelli che più di tutti – secondo le leggi morali del movimento – andrebbero devastati dalla bomba.

Le passanti. “Ma se la vita smette di aiutarti / è più difficile dimenticarti / di quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare / delle occasioni lasciate ad aspettare / degli occhi mai più rivisti. Allora nei momenti di solitudine / quando il rimpianto diventa abitudine / una maniera di viversi insieme/ si piangono le labbra assenti / di tutte le belle passanti / che non siamo riusciti a trattenere.” Forse il più struggente e riuscito tra tutti gli adattamenti italiani fatti da De André è questo brano, una delle ultime canzoni di George Brassens che riprende una poesia di un minatore alsaziano, Antoine Pol, che nel lontano 1911 compone una delle più belle elegie di tutti i tempi dedicata alla molteplicità della figura femminile. Nel brano c’è l’uomo che osserva ogni donna del mondo, ogni sconosciuta, appunto, ogni passante, con l’occhio di chi prova a immaginare con lei un amore, un tentativo, un segreto condiviso mostrando al contempo sia il desiderio di conoscere sia il puro piacere di contemplare.

Giugno '73. “Poi il resto viene sempre da sé / i tuoi "Aiuto" saranno ancora salvati / io mi dico è stato meglio lasciarci / che non esserci mai incontrati”. Una canzone d’amore e disamore inusuale, che rifugge la rima, allontana gli stilemi classici della canzoni italiana e, altresì, del cantautorato. Una delle poche canzoni apertamente dialoganti e d’amore che De André abbia mai scritto – non a caso avvicinata di frequente a Verranno a chiederti del nostro amore, anch’essa in seconda persona. Un senso di innocua perdita, di sommessa tristezza domina il brano a partire da quella data del titolo che pare fermare su un diario un momento che è già da ricordare e quindi già finito. Anche la musica si muove pacata, come a descrivere la morte dolce delle relazioni che non sono grandi amori ma potevano esserlo, che sanno essere meravigliosi e immediatamente dopo di troppo, semplicemente amicali e capaci di lasciare spazio ad altro. Ricco di ironia e aperto a una sintassi canora quasi d’avanguardia, il brano ci lascia soprattutto i versi citati quassù, entrati negli annali della letteratura amorosa – sonorizzata e non – della nazione.

Franziska. “Hanno detto che Franziska / è stanca di ballare / con un uomo che non ride / e non la può baciare”. La storia di Franziska viene raccontata a Fabrizio De André da uno dei suoi carcerieri durante il sequestro del 1979. Ancora una volta De André mette una donna al centro dei suoi brani, spostando il centro del discorso da quello considerato più facilmente tale. Franziska è la donna del brigante che si è dato alla macchia. Franziska vive in uno stato di assoluto pericolo e conduce un’esistenza a metà in cui non può amare, non può sorridere ad altri uomini, non può neppure concedersi semplici relazione quotidiani. Se il brigante dorme in qualche caverna dispersa, con il rosario che avvolge il fucile pensando a Franziska, lei, altrove, non può che sperare che arrivi uno sventurato, ignaro del pericolo, ad amarla. Il pezzo sembra, musicalmente, stare sospeso a metà tra Linda Paloma di Jackson Browne e Buenos Aires di Francesco De Gregori.

Jamin-a. "Staccati Jamin-a / labbra di uva spina / fatti guardare Jamin-a / getto di fica sazia. / E la faccia nel sudore / sugo di sale di cosce / dove c'è pelo c'è amore." C'è una canzone che Fabrizio De André ha scritto per Dori Ghezzi senza dirle mai il titolo. In cuor suo, ha sempre affermato Dori, la speranza è che sia proprio questa Jamin-a, la canzone più erotica che De André abbia mai scritto: "è hardcore", diceva lui. Jamin-a è il canto del desiderio del navigante che, dopo aver affrontato i pericoli e le rabbie del mare, spera ogni volta in un attimo d'amore all'approdo. Il brano è il secondo, dopo la title track, contenuto in Crêuza de mä, l'album interamente cantato in genovese, realizzato con Mauro Pagani, uscito nel 1984 e diventato ben presto una delle pietre miliari della musica italiana e della musica etnica mondiale. Il canto erotico del mare di Jamin-a diventa però qui anche una cosa in più: il canto erotico della stagione del mare, delle sabbia e del caldo, la stagione d'amore che stringe tutti noi.

Le acciughe fanno il pallone. "Se prendo il pesce d'oro / ve la farò vedere / se prendo il pesce d'oro / mi sposerò all'altare. Ogni tre ami c'è una stella marina / ogni tre stelle c'è un aereo che vola / ogni balcone una bocca che m'innamora". Nell'ultima fase della sua carriera De André sembra riavvicinarsi e avvincersi ancora di più alla sua terra e al mare, osservandone dettagli nuovi, dando particolare rilevanza e centralità alla natura e al modo in cui l'umanità si rapporta a essa. Questo brano, scritto con Ivano Fossati come tutto l'album Anime Salve, in questo senso, è una perla. Lo è per il magnifico arrangiamento di Cristiano De André e anche per la storia che ci racconta: quella delle acciughe che sfuggono al pesce azzurro muovendosi verso la superficie saltando fuori dall'acqua assiepate in semisfere scintillanti. Le acciughe, secondo la leggenda, sono stelle marine cadute dal cielo e i pescatori, dunque, sono pescatori di stelle. Stelle che tremano sotto gli ami.

Prinçesa. "Sorriso tenero di verdefoglia / dai suoi capelli sfilo le dita / quando le macchine puntano i fari / sul palcoscenico della mia vita. Dove tra ingorghi di desideri / alle mie natiche un maschio s'appende / nella mia carne tra le mie labbra / un uomo scivola l'altro si arrende". Per scrivere questo brano l'autore si ispira alla storia di Fernanda Farias de Albuquerque, giovane contadina nata in un corpo maschile. Fernanda nasce col desiderio di essere qualcun altro, conosce il disagio, la solitudine, l'emarginazione, la prostituzione e poi la fortuna di piacere ai clienti (milanesi in primis) che con i loro soldi le permettono di pagarsi l'operazione per cambiare sesso. In un magnifico magma sonoro di fisarmonica cromatica, chitarra classica, tra il violoncello di Piero Milesi e la batteria di Ellade Bandini il brano si muove in una bolla di suggestione e potenza, chiudendosi con i cori che recitano trentadue immagini in portoghese per descrivere, a frammenti, l'intera vita di Fernanda. Nel 1996 De André racconta la storia di un un transessuale ("preferisco chiamarli transgeneri" diceva lui) scegliendo di aprire proprio con questa storia - inedita nella musica italiana - quello che sarà il suo ultimo lavoro in studio.

Girotondo. "Se verrà la guerra, Marcondiro'ndero / se verrà la guerra, Marcondiro'ndà / sul mare e sulla terra, Marcondiro'ndera / sul mare e sulla terra chi ci salverà? Ci salverà il soldato che non la vorrà, ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà". Travestita da brano per l'infanzia, questa è la più importante e riuscita canzone antimilitarista composta nella storia della nostra musica. Un brano apocalittico, incalzante, nel quale De André affida a un coro di voci bianche sempre più macabro e distorto il compito di trasferire all'ascoltatore l'orrore incosciente della guerra. In Rai il brano viene confuso con una canzoncina per bambini spensierata e, mentre la censura miete ciecamente vittime, De André viene invitato a eseguire il brano - in verità profondamente inquietante - alla trasmissione Incontri Musicali, accompagnato da un coro di bimbi.

Il suonatore Jones. "In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità / a me ricordava la gonna di Jenny / in un ballo di tanti anni fa". Chi è il suonatore Jones? Un flautista, nel brano, violinista nel libro di Masters, che non ha il tempo per preoccuparsi dei campi da coltivare, di diventare più ricco, di distruggersi la schiena con l’aratro: la sua libertà, è la sua prigione, la gioia degli altri è la sua povertà e insieme la sua stessa felicità. Jones è il musicista che suona per la musica e per regalarla alla gente, creando per lei e per sé mille ricordi capaci di frantumare qualsiasi rimpianto. E il rimpianto è vivere come non vorresti, laddove la gioia è seguire il proprio amore.

Leggenda di Natale. "E adesso che gli altri ti chiamano dea / l'incanto è svanito da ogni tua idea / ma ancora alla luna vorresti narrare / la storia d'un fiore appassito a Natale". Grazie a una leggerezza poetica in grado di alleviare e addolcire o, come abbiamo visto per quanto riguarda Girotondo (ma vale anche per un pezzo come La ballata dell'amore cieco o per Sally) di creare un'atmosfera di apparente giocosità, Fabrizio De André arriva anche a dipingere quadretti di atrocità davanti all'ascoltatore. Nel caso di questo brano, per esempio, ci racconta un episodio di pedofilia attingendo a un immaginario doppiamente fiabesco: quello dell'atmosfera natalizia (identificabile per antonomasia con la purezza) e avvalendosi persino all'immagine che, per l'infanzia, è innocenza per eccellenza: quella di Babbo Natale.

Ottocento. "Figlio bello e audace, bronzo di Versace / figlio sempre più capace di giocare in borsa / di stuprare in corsa e tu / moglie dalle larghe maglie, / dalle molte voglie / esperta di anticaglie / scatole d'argento ti regalerò". Un brano che sembra mutuato direttamente dal primo immaginario di De André, quello, per intenderci, abitato da brani come Il Testamento, Carlo Martello, La città vecchia. Al centro troviamo un'invettiva contro i potenti che sono, in linea con il concept dell'album Le nuvole (tratto da Aristofane) in cui troviamo il brano, proprio la rappresentazione vivente della nuvola, cioè di chi oscura la purezza, l'azzurro. Il potente, dunque, qui, che oscura il plebeo, l'umile. Il brano è un'operetta che include uno jodel tirolese, nove cantanti lirici e un numero imprecisato di riferimenti metapop e metaculturali curiosissimi nonché una chiusura in tedesco maccheronico: giochi di parole e variazioni sul tema.

Dolce luna. "E tu mi vieni a dire voglio un figlio / su cui potermi regolare / con due occhi qualunque e il terzo occhio inconfondibile e speciale / che non ti importa niente / se non riuscirà a nuotare / l'importante è che abbia sulla guancia destra / quella mia voglia di mare / e mi dici ancora che il mio nome / glielo devo proprio dare /ma non so testimoniare". Dovessimo menzionare un solo brano capace di decretare le influenze di Francesco De Gregori sulla scrittura e sul cantato di Fabrizio De André sarebbe sicuramente questo. Il disco è Volume 8, l'album che rende ancora più stretta (realizzata in quattro brani) la collaborazione tra i due. Siamo nel 1975 e Dolce luna, con quell'ermetismo degregoriano per chitarra già volto a una diversa emotività rispetto a quello degli esordi, sembra lasciata casualmente fuori da Buffalo Bill (l'album di Francesco De Gregori che uscirà l'anno successivo).

La ballata dell'amore cieco. "Fuori soffiava dolce il vento / tralalalalla tralallalero / ma lei fu presa da sgomento / quando lo vide morir contento. Morir contento e innamorato / quando a lei niente era restato / non il suo amore non il suo bene / ma solo il sangue secco delle sue vene." Dritta, crudele, appassionata: un brano che sembra animarsi seguendo la struttura fint'allegra della tromba che suggerisce spensieratezza, unitamente al "tralalalalla tralallalero" mentre il testo, ispirato a una poesia francese di Jean Richepin intitolata "Cuore di mamma", è in realtà una vera e propria fiaba nera. Eppure la morale della fiaba è a suo modo pacificante, straordinaria e imprevedibile: l'uomo che per amore sacrifica ogni cosa, anche la la propria vita, è un uomo felice. L'essere umano che, invece, invita un altro a sacrificarsi per soddisfare il proprio egoismo e la propria vanità resta vivo a mani vuote. 

Se ti tagliassero a pezzetti. "T'ho incrociata alla stazione / che inseguivi il tuo profumo / presa in trappola da un tailleur grigio fumo / i giornali in una mano e nell'altra il tuo destino / camminavi fianco a fianco al tuo assassino. Ma se ti tagliassero a pezzetti / il vento li raccoglierebbe / il regno dei ragni cucirebbe la pelle / e la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso / e il polline di Dio /di Dio il sorriso." Una canzone d'amore e insieme un inno alla libertà e, in qualche modo, all'armonia con un disegno superiore che rimette a posto ogni cosa, fa ordine, riporta al proprio posto ciò che al proprio posto era sfuggito, perché la vita, perché il tempo, perché il caos... chissà perché. Se ti tagliassero a pezzetti, uscita nel 1981, sembra includere riferimenti alla Strage di Bologna e, come spesso accade con la scrittura di De André, suggerisce una sovrapposizione continua e struggente dell'allegoria e del reale, depistando l'ascoltatore e insieme offrendogli più piani di poesia.

Per De André pugni chiusi e Ave Maria in sardo. Vent'anni fa a Genova i funerali del cantautore. Vi riproponiamo il pezzo pubblicato su Repubblica il 14 gennaio 1999 di Gianni Mura: "Ci sono molti fiori, nelle sue canzoni, e non è solo il profumo che ci resta", scrive Gianni Mura il 14 gennaio 2019 su "La Repubblica". In occasione dei vent'anni dalla morte di Fabrizio De André riproponiamo dall'archivio di Repubblica il pezzo sui funerali del cantautore scritto da Gianni Mura e pubblicato sul quotidiano il 14 gennaio 1999. Adesso che solo la morte lo ha portato in collina, a Fabrizio non dispiacerebbe sapere che proprio di fronte alla chiesa di Carignano, al balcone dell'istituto E. Ravasco, Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria, è appeso uno striscione bianco e sopra c'è scritto grazie Fabrizio, e lo gonfia la tramontana. Sotto, davanti alla chiesa barocca (le nuvole non ci sono, oggi) gli anarchici hanno scritto sull'asfalto che la puttana (Bocca di rosa) alla stazione ce l'ha accompagnata il prete con la polizia. Memento. In cima alla scalinata c'è la bandiera rossa e nera dell'anarchia. La regge ferma una signora col cappotto bordeaux e la faccia di chi ha camminato la vita per dritto e non per traverso. E forse a lui verrebbe da ridere: picchetto d' onore e un prete a dire le ultime parole, ma almeno un prete che sa cosa dire, e poi non esistono le ultime parole. Ci pensavo prima della cerimonia, che è stata asciutta e dolce, con tanti lucciconi quando è partita l'Ave Maria in sardo, e se partiva Preghiera in gennaio credo che molti sarebbero stati male sul serio. Ci pensavo ascoltando dei ragazzi che erano fuori a cantare, in un angolo, fin dalle nove con un paio di chitarre. Cantavano stonati, ma con tanto amore. Notte notte notte sola sola come il mio fuoco, piega la testa sul mio cuore e spegnilo a poco a poco. Questo è il Canto del servo pastore. Cosa importa se sono caduto se sono lontano perché domani sarà un giorno lungo e senza parole. Questo è Hotel Supramonte. E questa è una mattina di sole freddo, in una piazza come sospesa sul porto, una piazza spartiacque fra la città di chi sta meglio e la città di chi sta peggio, scendi una rampa e sei in piazza Sarzano e di lì nei vicoli, uno dei primi è vicolo Boccadoro. Una mattina lunga il giusto, e con tante parole. Quelle che si portano dentro e premono contro gli occhi, quelle che qualcuno ha scritto sui biglietti che accompagnano i fiori: Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati, questa è Giugno '73. E ora non piangere perché presto il concerto finirà, questa è Verdi pascoli. Ma più ancora del tempo che non ha età siamo noi che ce ne andiamo, questa è Valzer per un amore, così scopertamente ronsardiana. Le parole sono quelle che bisbiglia la donna che ho di fianco, con il sacchetto del supermercato, tra i 50 e i 60. Ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. È una favola che resiste, la storia vera era quella di una puttana massacrata di botte e gettata nel Tanaro. Strano il mondo. Un' altra canzone che resta uguale, Il cielo in una stanza, Paoli la scrisse pure per una puttana, ma viva, dei carrugi. Non che abbia importanza, adesso, nemmeno sapere se poi da qualche parte gli ultimi saranno i primi come lo sono stati nelle canzoni di Fabrizio. Cantava di puttane e balordi all'inizio degli anni 60, di zingari e transessuali sull'orlo del 2000. Prima del '68 e prima che fosse battezzato e irriso il buonismo. Chi sta dentro la chiesa barocca queste cose le sa, e anche chi sta fuori perché dentro non c'è più posto o perché ha deciso che il suo posto è fuori. Sicché, Le monde ha scritto che Fabrizio era il Brassens italiano, e detto dai francesi è un gran complimento. Ma io penso che Brassens, gigantesco, monolitico, una cosa come Creuza de mà non l'avrebbe mai fatta, non ci avrebbe mai pensato. Non perché gli mancasse un Mauro Pagani ma perché era l'esempio dell'artista isolato e lieto di esserlo. Mentre Fabrizio, che passava per un musone appartato, gli altri li ha cercati e ci ha lavorato: De Gregori, Pfm, Bubola, Fossati. Gli altri ai funerali ci sono, come c'era Fabrizio (e solo lui, di tutti i cantautori italiani) ai funerali di Tenco, anche lì un cimitero in salita ma la neve sui costoni di vigne. Gli altri, in questa piazza Carignano che curiosamente fa angolo con via Alghero e sono le due terre di Fabrizio, sono quelli trovati senza essere cercati. Le facce note e le facce vere, le kefiah e le pellicce, i pugni chiusi e i segni di croce, quelli di Albaro e quelli del Biscione, le sciarpe del Genoa e anche della Samp, i colletti bianchi e quelli del porto. Una maestra ha portato la sua classe, 19 bambini di cui 5 con la pelle scura. Forse non capiranno tutto, ma serve più una canzone di Fabrizio (sulle minoranze, sul rispetto) di tanti discorsi. E ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto (come il suonatore Jones) sarebbe bello averne, ma il rimpianto, fratello minore del pianto, c'è e si sente ed è quello di aver perso un amico non importa quanto conosciuto da vicino, uno che trovava le parole giuste (che paura che voglia che ti prenda per mano), e quando si fa la conta si è uno in meno e quelle parole (com'è che non riesci più a volare) adesso chi le dice? Inutile andare in via del Campo, niente occhi grigi come la strada né occhi grandi color di foglia. Pure, le ultime parole non esistono. Come Fabrizio non sarebbe stato Fabrizio se non avesse ascoltato Brassens, e un po' di Brel e di Ferré, così uno di questi ragazzi che si sentono più soli un giorno troverà le parole giuste e i giusti accordi per la libertà e l'amore. A questo servono, brutto verbo, i poeti. Una vecchia ragazza con le calze verdi (come Nancy) lega fiori finti a un palo della segnaletica e il biglietto dice: Bocca di rosa per sempre. Non capisco cosa vuol dire, ma sono qui per sperare, non per capire. Con funerali rigorosamente pubblici, la famiglia di Fabrizio lo ha idealmente e praticamente diviso con chi lo amava. Innamorati, non fan. Un poeta anarchico e popolare, Prévert, che Fabrizio ha sicuramente letto da giovane, lui che leggeva Machado e Thomas, ha scritto: le jardin reste ouvert pour ceux qui l'ont aimé. Credo ai segni: tre gerbere lanciate da dieci metri restano impigliate nelle maniglie della cassa. Vorrei che il comune di Genova ricordasse Fabrizio dedicandogli un giardino pubblico, un piccolo parco, con quel po' di verde così difficile a Genova, niente fiori strani (viole e papaveri sì) e tante panchine dove i ragazzi possano dirsi non ci lasceremo mai e poi mai, e restasse un po' di tenerezza anche passato l'amore che strappa i capelli, e ci fosse tolleranza per i barboni e quelli che hanno bevuto un bicchiere in più, e certo ci andrebbero a passeggiare la signora Libertà e la signorina Fantasia, uscite da Se ti tagliassero a pezzetti e viste ieri in piazza Carignano, e Brassens non ci troverebbe niente da ridire e Fabrizio credo sarebbe contento. Ci sono molti fiori, nelle sue canzoni, e non è solo il profumo che ci resta.

Cristiano De André contro le figlie al Grande Fratello: «Voi in tv per diffamare». Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da Renato Franco  su Corriere.it. «Tutte le famiglie felici si somigliano. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». L’incipit non poteva che essere una citazione della sentenza più celebre e definitiva sui rapporti familiari. Del resto Tolstoj già ai tempi di Anna Karenina pensava anche ai De André, Cristiano e le sue figlie: ennesimo esempio, uguale e diverso, di un’infelicità sedimentata in anni di groviglio, come serpenti, accuse pubbliche e private, ferite che non si rimarginano, parole che ogni volta sono sale che le irrita. L’ultimo capitolo di una serie di incomprensioni, distacchi e durezze, incomunicabilità e veleni, è la partecipazione al Grande Fratello di Fabrizia e Francesca. In un ginepraio di rancori, bisogna prima riassumere l’avviluppato albero genealogico di famiglia: Cristiano dalla prima moglie Carmen de Cespedes ha avuto Fabrizia (1987) e i gemelli Francesca e Filippo (1990). Poi un’altra figlia (Alice, 1999) dalla relazione con Sabrina La Rosa, ma questa è un’altra storia. Con le ragazze più grandi gli scontri sono continui, soprattutto con Francesca che li ha spesso messi in piazza nel salotto pomeridiano senza pareti di Barbara D’Urso («schiaffi e pugni, mio padre è un violento») in un’escalation a chi ferisce di più che arriva alle querele per diffamazione. Perché si era giunti a tanto, a diffamare il proprio sangue? Cristiano De André aveva dato la sua versione dei fatti: «A 24 anni un giudice mi ha tolto l’affidamento dei figli, non c’è stato tempo di raccontare loro chi ero. Carmen, la madre, li ha riempiti di rancore nei miei confronti, li ha cresciuti a pane e veleno». L’ultima diffida (padre contro figlie) è di pochi giorni fa. Fabrizia e Francesca decidono di partecipare al Grande Fratello, il programma che è il buco della serratura sull’intimo, spettacolarizzazione di noiosi scambi di isterismi, piagnistei, edonismi. Alla fine Fabrizia rinuncia (non per amore paterno, ma materno, non vuole stare lontana dal figlio); Francesca invece tira dritto: «Non ho paura di mio padre, è lui che ha la coda di paglia». Cristiano De André allora sceglie Facebook per spiegare una diffida che si è comunque rivelata una pistola ad acqua: «Non sono più disposto ad accettare che venga strumentalizzata, denigrata e diffamata la nostra famiglia — scrive il figlio di Fabrizio —. Non ho mai risposto pubblicamente alle continue accuse delle mie figlie nella speranza che la cosa andasse scemando, in quanto ritengo che in una famiglia i problemi e le incomprensioni esistano, ma che debbano essere affrontate e risolte al suo interno e non svendute nei salotti televisivi, che hanno il mero scopo di incrementare ulteriormente dissapori per fini speculativi». Accusa il circo mediatico De André, dove la regola è che l’ospite viene invitato solo se accende una polemica, denuda dissapori, rivela gioie (un amore) o dolori (una disgrazia). Dice di essere sempre disposto ad un confronto con le figlie, ma non pubblicamente; assicura di non aver mai smesso di mantenerle e provvedere a loro. È qui che arriva il «ma», come in ogni contrasto che si rispetti. «Ritengo che essendo ormai donne di 29 e 32 anni sia giunto il momento che si tolgano questa veste di vittimismo e dimostrino di avere stoffa e capacità reali che giustifichino la loro presenza nel mondo dello spettacolo. La mia diffida ha l’unico scopo di tutelare la nostra famiglia e chiaramente anche loro, in modo che esprimano ciò che sono davvero, gettando via questa maschera dietro la quale si sono nascoste per troppo tempo. Le mie figlie, lo dico a malincuore, hanno preferito cercare un “successo” veloce, attraverso trasmissioni che considero di bassa levatura. Sicuramente avrò commesso degli errori come padre, ma non ho mai smesso di amarle. Soffro a vedere le mie figlie abbandonarsi a questo vuoto». Del resto ogni vuoto ciascuno lo riempie a modo suo.

Dalla bacheca facebook di Cristiano De Andre’. Dagospia il 19 aprile 2019.  “Tutte le famiglie felici si somigliano. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Anna - Lev Tolstoj. Ho letto in questi giorni molti commenti, da parte di testate anche serie, riguardo al fatto che non sarei stato d’accordo con l’entrata delle mie figlie Francesca e Fabrizia nella casa del Grande Fratello. In realtà non riguardava la scelta da parte loro di partecipare al programma, anche se lo ritengo un inutile spettacolarizzazione di noiosi scambi di isterismi, piagnistei ed edonismi fine a se stessi. La vera ragione è che non sono più disposto ad accettare che venga strumentalizzata, denigrata e diffamata la nostra famiglia. Non ho mai risposto pubblicamente alle continue accuse delle mie figlie nei miei confronti nella speranza che la cosa andasse scemando, in quanto ritengo che in una famiglia i problemi e le incomprensioni esistano, ma che debbano essere affrontare e risolte nel suo interno e non svendute in salotti televisivi, che hanno il mero scopo di incrementare ulteriormente dissapori per fini speculativi. Io e mi figlia Francesca eravamo in buoni rapporti fintanto che lei non ha iniziato a prendere parte a questo circo mediatico, incentrando le sue ospitate sulla diffamazione nei miei confronti, cosa che al contrario di quanto dicono, ha avuto origine prima della pubblicazione del mio libro “la versione di C”. Ad ogni modo, sono e sarò sempre disposto ad avere un confronto con loro, ma di certo non pubblicamente. Infatti nonostante anni di orrende accuse, spesso infondate nei miei confronti, non ho mai smesso di mantenerle e provvedere a loro. Ora però ritengo che essendo ormai donne di 29 e 32 anni, sia giunto il momento che si tolgano questa veste di vittimismo e dimostrino di avere stoffa e capacità reali che giustifichino la loro presenza nel mondo dello spettacolo. La mia diffida ha l’unico scopo di tutelare la nostra famiglia e chiaramente anche loro, in modo che esprimano ciò che sono davvero, gettando via questa maschera dietro la quale si sono nascoste per troppo tempo. Ho studiato violino al conservatorio, ho seguito una mia carriera personale che conta sette album all’attivo e altri tre album riguardanti il progetto su mio padre. Le mie figlie, lo dico a malincuore, hanno preferito cercare un “successo” veloce, attraverso trasmissioni che considero di bassa levatura, dove solo il gossip regna sovrano nelle regole di quel gioco. Tutto questo definisce per me questo secondo medioevo che stiamo attraversando e che ci ha ridotti a diventare degli spioni che da un buco della serratura osservano gli altri, per esorcizzare le proprie meschinità e sentirsi un po’ migliori. Con dedizione mi occupo da più di dieci anni di cultura e alla divulgazione soprattutto alle nuove generazioni, della grande opera e parola di mio padre. Attraverso nuovi arrangiamenti ho avvicinato giovani che non ascoltavano prettamente la canzone d’autore, e che grazie a nuove sonorità si sono avvicinati a lui e non lo hanno più abbandonato, perché è diventato il loro appiglio sicuro, un anticorpo contro una società malata che usa le persone a differenza di chi invece le rispetta e cerca di aiutarle a coltivare la loro parte migliore.  Più volte, durante questo tour “Storia di un impiegato”, mi è capitato di dire che le canzoni di mio padre sono “una tachipirina per l’anima”. Ho combattuto nella mia vita, pur inciampando a volte, ma rialzandomi sempre e continuando a farlo, contro l’ignoranza, la cattiveria, il pettegolezzo, il sopruso, la presunzione, il potere, le leggi del più furbo e contro chi ha raccontato ai nostri figli la gigantesca bufala che la felicità si potesse comprare....e per chi tristemente ci ha creduto!! Da padre, sinceramente soffro a vedere le mie figlie abbandonarsi in questo vuoto, dove ho sempre cercato e sperato che anche loro un giorno trovassero invece dei valori per riempirlo. Sicuramente avrò commesso i miei errori come padre, ma non ho mai smesso di amarle e di sperare che riescano a trovare la loro realizzazione in qualcosa di più costruttivo rispetto a quello dimostrato fino ad oggi.

FAIDA DE ANDRE’. Ida Di Grazia per Il Messaggero il 21 aprile 2019. La terza puntata del Grande Fratello 2019 si apre subito con la faida familiare tra Francesca e Cristiano De André. Quando è entrata Francesca De Andrè nella casa c'è stata una diffida del padre sia alla figlia che a Mediaset, ma nei giorni scorsi Cristiano ha rilasciato delle dichiarazioni sempre contro le figlie e Francesca ha risposto così: «Mio nonno diceva dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. Noi siamo nate dal letame». «La settimana scorsa - ricorda ai telespettatori Barbara D'Urso  - ti avevo chiesto di non parlare del tuo rapporto burrascoso con tuo padre, ma è accaduto qualcosa» (parte un video di Francesca De Andrè disperata perchè non può "raccontarsi senza raccontare"). «Noi di Mediaset e tu sei stata rispettosissima, ma è successa una cosa molto particolare, perchè  venerdì è stato tuo padre a parlare» le mostrano gli articoli e risponde: «che schifo, se c'è una persona che diffama è lui, io ho vinto una causa perchè ha scritto un libro in cui diffamava. E' lui che deve farsi una vita, gli piace passare da vittima, ma lui è tutto tranne che una vittima, basta scrivere il suo nome e cognome su Google per capire quanto fa schifo. Ha picchiato donne, ha fatto incidenti perchè non era lucido.  Comoda la vita lui può parlare e ame mi diffida, ci si vede in tribunale bello!» «Partiamo dal presupposto che se io avessi avuto una famiglia non mi avrebbero affidato al comune di Milano, Beato lui che non posso aprire la bocca, a me sembra che la vittima l'abbia sempre fatta lui. Io ho sempre risposto alle accuse». Interviene anche la sorella Fabrizia: «non ti preoccupare». «Purtroppo  - conclude rabbiosa Francesca - i lividi addosso non mi sono rimasti, ma ho portato le prove  in tribunale, quello che ha lasciato mio padre è solo violenza. Mio nonno diceva dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, noi siamo nate dal letame».

·         Le ultime ore di Freddie Mercury prima di morire.

28 anni senza Freddie Mercury, tutti i suoi segreti, da Bohemian Rhapsody al vero testamento. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. Freddie Mercury ha 73 anni. Sì, è vero, se n’è andato il 24 novembre 1991, quando di anni ne aveva 45, ma per i fan - e sono tanti, tantissimi - il tempo non è mai passato: Freddie è ancora lo spavaldo frontman con giacca gialla e baffi «Castro clone» che arringava le folle dal palco trasformando i Queen, la band di cui lui si è sempre detto «componente al 25%». È il campione del mondo che il mondo se l’è preso quel 13 luglio 1985, Wembley Stadium, Live Aid: «La più grande performance della storia del rock», parola di Dave Grohl, leader dei Foo Fighters, mica pizza e fichi. Oggi gli Hard Rock Cafè di tutto il mondo si trasformano in un unico locale in cui si celebrerà il cantante dei Queen. Stasera Montreux, il buen retiro del Freddie malato, la località in Svizzera dove la statua del cantante campeggia sulle rive del lago, ospiterà fan in arrivo da ogni dove per una festa in perfetto Mercury style. E da ieri il libro «Queen. Opera Omnia - Le storie dietro le canzoni», scritto dal giornalista del Corriere della Sera Roberto De Ponti e pubblicato da Giunti, prova a raccontare i tanti piccoli segreti che si nascondono dietro le oltre 200 tracce incise da Brian May, Roger Taylor, Freddie Mercury e John Deacon.

Le ultime ore di Freddie Mercury prima di morire. Quando Freddie Mercury se ne è andato il mondo ha perso una voce unica, un artista eccezionale che rivive attraverso le canzoni, la musica e ora anche grazie alle parole commoventi del suo assistente personale Peter Freestone. Francesca Rossi, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Quando Freddie Mercury morì, il 24 novembre 1991, i temi legati al terribile virus dell’HIV erano ancora un tabù. Oggi l’ostacolo del silenzio è stato superato, si parla ampiamente di prevenzione, sono stati fatti dei passi avanti nella cura dell’AIDS (tanti ne rimangono da fare). Ogni giorno si cerca di migliorare le condizioni di vita dei malati. La morte di Freddie Mercury fu uno degli eventi tragici che accesero i riflettori su questo male devastante. Come spiega il magazine Elle, Peter Freestone era l’assistente personale del cantante e gli rimase vicino nelle ultime ore di vita. I due si conoscevano da 12 anni durante i quali la loro amicizia era diventata man mano più stretta. A distanza di circa 30 anni Freestone ha voluto rievocare quei dolorosi momenti che portarono alla scomparsa di una delle più belle voci di sempre. Nelle sue parole toccanti c’è la sofferenza e la malinconia per un passato che non più tornare, per un’amicizia spezzata dalla morte. Freestone racconta a Vice che Freddie “aveva deciso di morire dopo che il 10 novembre 1991 aveva smesso di assumere le medicine che lo stavano mantenendo in vita. L’AIDS aveva cancellato ogni autonomia di Freddie, è stato il suo modo di riprendere il controllo della sua esistenza”. Mercury scoprì di avere l’AIDS nel 1989, ma scelse di non rivelare pubblicamente la notizia. La sua salute, minata giorno per giorno dalla malattia, lo costrinse a diradare gli impegni e le apparizioni. Solo quando si rese conto che il tempo a sua disposizione stava finendo, Freddie Mercury decise di rilasciare una dichiarazione sulla sua condizione, invitando il mondo intero a lottare contro l’AIDS. Era il 23 novembre 1991 (il testo della dichiarazione, però, era stato redatto il giorno precedente). A tal proposito Freestone ricorda: “Da quel momento Freddie è cambiato totalmente. All’inizio della settimana era teso, poi invece è cambiato. In tutti quegli anni non avevo mai visto Freddie così rilassato. Non c’erano più segreti, non si nascondeva più. Sapeva che avrebbe dovuto rilasciare la dichiarazione, altrimenti qualcuno avrebbe potuto pensare che lui considerasse l’AIDS come qualcosa di sporco, da nascondere sotto il tappeto”. Gli amici più cari si radunarono attorno a Freddie Mercury. Freestone gli tenne la mano, rievocando il passato. Di quei momenti l’assistente ha un ricordo vivido e prosegue: “Dopo la dichiarazione, alle 8 di venerdì 22 novembre sono iniziate le mie 12 ore con lui. E poi sono arrivate le 8 di domenica mattina. Stavo per andarmene quando Freddie mi ha preso la mano e ci siamo guardati negli occhi. Mi ha detto: ‘Grazie’. Non so se avesse deciso che era l’ora di andarsene e volesse ringraziarmi per i 12 anni passati insieme, o se invece mi stesse solo dicendo grazie per le ultime 12 ore. Non lo saprò mai, ma è stata l’ultima volta che abbiamo parlato”. A quanto sembra Freestone è stato tra quelli che si sono opposti alla possibilità di mostrare la morte di Freddie Mercury nel film “Bohemian Rhapsody” (2018) di cui è stato consulente. Al riguardo Peter disse: “Nessuno dovrebbe veder morire Freddie Mercury sullo schermo”. In effetti quel momento, per amici e familiari, è stato troppo doloroso e privato. In quegli istanti non c’era più il cantante, la rockstar di fama mondiale, ma solo l’uomo amato dai suoi cari.

·         Martin Luther King, l’uomo che sognava Obama.

Martin Luther King, l’uomo che sognava Obama. Novant’anni fa nasceva il leader afroamericano, scrive Lanfranco Caminiti il 12 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Ci hanno messo quindici anni, gli americani – dal 1968, pochi giorni dopo la morte, fino al 1983, quando con 338 voti contro 90 alla Camera e 78 contro 22 al Senato divenne legge. E così Reagan la firmò. Ma ce ne vollero altri dieci perché in tutti gli Stati uniti d’America si rispettasse questa festa. E c’erano volute marce e proteste e petizioni per arrivare a quel punto: il terzo lunedì di gennaio è il Martin Luther King Day. Che poi gli americani hanno queste date importanti messe così: il Thanksgiving si festeggia il quarto giovedì di novembre; si vota per eleggere il presidente il martedì successivo al primo lunedì di novembre (nel 2016 si votò tardi perché c’era un martedì 1 novembre, ma non c’era nessun lunedì precedente, e così si votò l’8 novembre). Non è proprio la data in cui il dottor King è nato ma ci è abbastanza vicino. Martin Luther King nacque ad Atlanta, in Georgia, il 15 gennaio 1929, secondogenito di Martin Luther King Senior, reverendo della chiesa battista, e anche il nonno materno di Martin era pastore. A quindici anni riuscì a superare l’esame di ammissione al college di Atlanta, frequentato in precedenza da suo padre e da suo nonno – dove si laureò in sociologia nel giugno del 1948. Martin voleva diventare avvocato o medico, mentre il padre insisteva perché diventasse pastore battista come lui. Il 13 settembre 1951 iniziò a frequentare l’Università di Boston, dove conobbe Coretta Scott con cui si sposò il 18 giugno 1953 e conseguì il dottorato in Filosofia. Nel 1954, ebbe diverse offerte, di cui una dalla chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, che accettò volentieri. A venticinque anni Martin Luther King Jr. diventò così il pastore di una delle città nel profondo Sud degli Stati Uniti dove la situazione razziale era tra le più dure. Entrò a far parte della sede locale del NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e diventò vicepresidente del Consiglio dell’Alabama per i rapporti umani. È proprio a Montgomery, nel 1955, che scoppiò il boicottaggio dei bus deciso dalla comunità afroamericana. Sui bus c’erano posti riservati ai bianchi e posti per i neri e poi c’erano i posti di mezzo, dove poteva sedere chiunque, ma se un bianco voleva sedersi e il posto era occupato da un nero, il nero si doveva alzare e cedergli il posto e restare in piedi. Funzionava così. Rosa Parks, l’1 dicembre 1955, si rifiutò di cedere il proprio posto. Fu arrestata e condannata a pagare una multa. E qui scattò il boicottaggio per il 5 dicembre. Gli attivisti neri prevedevano che il sessanta per cento della popolazione nera avrebbe aderito, ma la percentuale fu molto più alta. Durò trecentottantadue giorni, il boicottaggio. Si spostavano a piedi, o con auto di amici o con taxi di afroamericani che praticavano tariffe da bus. Ci furono sentenze e violenze, tante, da parte del Ku Klux Klan che arrivò a lanciare una bomba contro la casa di King. Ma alla fine vinsero: il 13 novembre 1956 la Corte Suprema dichiarò anticostituzionale la segregazione sui bus. È in questo periodo che King fonda, in compagnia di altri attivisti per i diritti civili della comunità afroamericana, il Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei leader cristiani degli stati del Sud) con l’obiettivo di dare un’autorità di riferimento al movimento per i diritti dei vari gruppi di neri che in precedenza si muovevano attorno le singole parrocchie della città. E è in questo periodo che scoppia la crisi di Little Rock. Nel 1954, negli Stati Uniti, si era deciso di porre fine alla segregazione razziale nelle scuole: prima di quell’anno bambini e ragazzi neri frequentavano scuole diverse da quelle dei loro coetanei bianchi, nonostante non esistesse alcun divieto ufficiale di creare classi miste. La situazione era molto dura soprattutto nel sud degli Stati Uniti. Il 4 settembre 1957 a Little Rock, nell’Arkansas, era il primo giorno di scuola. Nove ragazzi neri – sei maschi e tre donne – erano stati selezionati per fre- quentare la principale scuola superiore cittadina, ma le truppe dell’Arkansas National Guard, che agivano per conto del governatore dello stato, impedirono loro l’accesso in aula. Pochi giorni dopo, il presidente Eisenhower commissariò l’Arkansas National Guard e inviò truppe federali a verificare che ai nove ragazzi neri fosse consentito l’ingresso a scuola e lo svolgimento dell’attività didattica. Nonostante la presenza dell’esercito, i nove studenti furono sottoposti a continue violenze e atti di discriminazione da parte dei loro compagni, sotto gli occhi dei docenti. L’estate successiva il governatore dell’Arkansas, pur di rinviare l’eliminazione graduale della segregazione, con la scusa delle continue violenze decise di sospendere le lezioni e tenere chiuse tutte le scuole. Il governo vietò l’apertura di scuole private per gli studenti bianchi, e l’anno successivo la scuola pubblica fu riaperta. John Kennedy volle incontrare King, promettendo un impegno nella lotta per i diritti civili. Il settanta per cento della comunità afroamericana poi lo votò come proprio presidente. Fu anche grazie all’impegno della Casa bianca che la SCLC organizzò le campagne nel Sud per il diritto di voto, soprattutto in Mississippi e in Georgia. È il movimento dei Free Riders, giovani studenti bianchi che partivano dal nord per andare negli Stati del Sud e aiutare le lotte dei neri per la registrazione negli elenchi dei votanti e per abolire le forme più odiose della discriminazione razziale, sugli autobus, nei ristoranti, nelle scuole. Subivano agguati e pestaggi da razzisti del Ku Klu Klan spesso con la faccia delle istituzioni. Ma è nel lungo 1963 che King acquista vera dimensione di leader. Durante la campagna in Alabama, che era diventata simbolica del segregazionismo, soprattutto per la durezza del suo governatore George Wallace. L’ 11 giugno 1963, con i suoi sostenitori, Wallace si presentò davanti all’Università dell’Alabama per impedire la desegregazione dell’istituto e l’entrata ai corsi dei primi due studenti neri, Vivian Malone e James Hood, che erano scortati e protetti dalla Guardia Nazionale, dal marshall federale e dal procuratore dello Stato. I due allievi sarebbero entrati comunque nell’università tra le urla della folla. Un analogo tentativo di Wallace di impedire l’iscrizione di quattro studenti neri in quattro diverse scuole elementari a Huntsville nel settembre 1963 fu bloccato dall’intervento di un tribunale federale di Birmingham, consentendo ai quattro bambini di entrare, per la prima volta in Alabama, in una scuola integrata. In quello stesso anno un attentato mortale colpì una chiesa battista di Birmingham, uccidendo quattro bambine nere. Wallace fu ritenuto responsabile dell’atmosfera di odio che regnava nello Stato e King lo chiamò in causa personalmente, accusandolo di avere le mani sporche del sangue di quelle bimbe. È anche l’anno in cui il presidente Kennedy presenta al Congresso un provvedimento per sancire pari diritti tra bianchi e neri, e è l’anno della marcia su Washington, per il lavoro e la libertà, quando duecentocinquantamila persone arrivano al Lincoln Memorial – bianchi e neri – e ascoltano il dottor King fare il suo più celebre discorso: I Have a dream. E poi ci fu Selma. Nel 1964 c’era anche stato un Civil Right, ma dovevate vederli gli impiegati dell’Alabama o di qualche altro Stato del Sud come interpretavano la legge per votare, e serve questo e quest’altro, e questo non basta, e qui dice così, che ti passava la voglia e dovevi avere la pazienza di Giobbe e tutte le sere andare in qualche chiesa battista a batterti il petto e cantare qualche gospel a squarciagola – Oh! Lord, oh! my Lord – per lasciar correre. Così avevano invitato il pastore a dare man forte. Il pastore era il dottor Martin Luther King jr. Decisero di fare delle marce di protesta. Tra gennaio e febbraio furono arrestati in tremila. Poi a Marion era rimasto ucciso Jimmy Lee Jackson, colpito da numerose pallottole sparate dalla truppa di Stato. È a quel punto che si pensò di organizzare una lunga marcia da Selma a Montgomery, la capitale. Sono cinquantaquattro miglia. Ottantasette chilometri. La prima marcia fu il 7 marzo. Era domenica. Appena i seicento superarono il confine della contea, che era proprio il ponte Edmund Pettus, la polizia di Stato attaccò. Fu un massacro. Donne, bambini, preti, attivisti, tutti caricati senza pietà. Fu Bloody Sunday, domenica di sangue. Poi ci fu una seconda marcia, due giorni dopo, con in testa Luther King, il percorso era stato appena iniziato. E anche stavolta ci furono cariche, dopo pochi chilometri, e i manifestanti furono dispersi. E poi ci fu una terza marcia, il 21 marzo. E stavolta ce la fecero. Solo in trecento riuscirono a percorrere tutte e cinquantaquattro le miglia. Ma quando arrivarono allo State Capitol Building, il palazzo governativo, erano in venticinquemila. Era il 25 marzo. Ci avevano messo quattro giorni per coprire quelle cinquantaquattro miglia. È così che passò il Voting Rights Act di Lyndon Johnson. Cinquant’anni dopo, a Selma, un corteo riattraversava lo stesso ponte e alla testa c’era il primo presidente nero, Barack Obama, che teneva la mano di Amelia Robinson, spinta su una sedia a rotelle – aveva ormai 104 anni. Cinquant’anni prima, quella donna marciava da Selma verso Montgomery, capitale dell’Alabama, perché i neri avessero il diritto di voto. Cinquant’anni prima la foto di questa donna, bastonata, colpita dai gas e dai manganelli della polizia di Stato, svenuta, incosciente sul selciato del ponte Pettus tra le braccia di un compagno aveva fatto il giro del mondo. Anche la foto di Obama con Amelia Robinson fece il giro del mondo. La storia aveva fatto un giro. Eppure siamo ancora qui. Ancora con metodi di esclusione dei neri dal diritto di voto, e dopo Ferguson, dopo la sequenza di giovani neri assassinati dalla polizia. A più di cinquant’anni da quel maledetto colpo di fucile a Memphis. È il 4 aprile 1968, e King è al Lorraine Motel a Mulberry Street di Memphis. Nella sua stanza, la 306, assieme ai suoi collaboratori cerca di organizzare un nuovo corteo per uno dei giorni successivi. Doveva cenare a casa del reverendo Kyles, che alle 17 e 30 giunse al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l’autista di King, gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto. Alle 18 e un minuto King uscì sul balcone del secondo piano del motel, dove venne colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; un singolo proiettile calibro 30- 06 sparato da un Remington 760. Il proiettile entrò attraverso la guancia destra di King, spaccando la mascella e diverse vertebre mentre scendeva lungo il suo midollo spinale, tagliando la vena giugulare e le arterie maggiori prima di fermarsi sulla spalla. La forza del colpo strappò la sua cravatta. King cadde violentemente all’indietro sul balcone, incosciente. Trasportato al St. Joseph’s Hospital, i medici constatarono un irreparabile danno cerebrale, e la sua morte venne annunciata alle 19 e 05. Senza quel maledetto colpo di fucile avrebbe novant’anni oggi, il dottor King. Niente di stano: Mandela è morto a novantacinque anni. D’altronde, ebbero entrambi il premio Nobel per la pace. Certo, le chiese battiste non sono più il cuore dell’attivismo e delle lotte per i diritti – Black Lives Matter è un movimento cresciuto attraverso i social – e un pastore dalla grande oratoria sembra più una reliquia. Anche se – ne sono sicuro – Beyoncé andrebbe a trovare nonno Luther, e si farebbero grandi chiacchierate. E chissà quante cose avrebbe ancora da dire, nonno Luther, sul muro della vergogna che Trump vuole costruire per impedire ai migranti di entrare negli Stati Uniti, nella terra promessa. Perché siamo ancora qui, aspettando di salire sopra la montagna e guardare oltre. E vedere la terra promessa.

Cinquant’anni fa moriva Martin Luther King. Colombo: «Non sapremo mai chi l’ha ucciso», scrive Giulia Merlo il 4 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Il 4 aprile del 1968 veniva assassinato a Memphis il reverendo Martin Luther King, leader delle lotte non violente per i diritti civili dei neri in America. A mezzo secolo di distanza, Colombo ricorda il suo primo incontro con «un leader logico, preciso e organizzato, che si trasformava quando parlava in pubblico ed era in grado di toccare le corde emotive di chi lo ascoltava». «Martin Luther King insegnò ai bianchi ad accettare i neri e ai neri che i diritti si potevano conquistare senza cedere alla violenza». Furio Colombo, intellettuale, scrittore, storico inviato per la Rai, La Stampa e La Repubblica, ha raccontato l’America negli anni delle sue rivoluzioni culturali, sociali e civili. Unico giornalista italiano, ha incontrato Martin Luther King quando era ancora uno sconosciuto reverendo di Atlanta e ha partecipato con lui alle marce nelle città del sud fino a quella di Washington, passata alla storia per il discorso che cominciava con “I have a dream”. Ancora, era a Memphis il 4 aprile del 1968 quando – esattamente cinquant’anni fa – il “dottor King” veniva assassinato con un colpo di fucile alla testa, poche ore prima di un comizio. Subito dopo il suo arresto, ha sostenuto l’innocenza del presunto killer, James Earl Ray. Anche lui, come ha sempre ripetuto la vedova King, è convinto che il nome dell’assassino, come quello di John Kennedy, rimarrà tra i misteri insoluti d’America.

Quando ha incontrato per la prima volta Martin Luther King?

«Lo conobbi a New York, ad una serata nel salotto di Jean Stein, una cara amica e una signora di un certo potere, grande organizzatrice di eventi in favore del Partito Democratico. Erano gli ultimi mesi del 1959 e King stava costituendo la sua Southern Christian Leadership Conference, per questo era in cerca di fondi. Ricordo questo reverendo che veniva da Atlanta e che mi parlava della sua attività, per poi darmi appuntamento nella sua parrocchia di Auburne Avenue».

E andò a trovarlo?

«Sì, lo incontrai per la seconda volta pochi mesi dopo, nella sua chiesa. Mi aspettavo di trovarmi davanti ad una di quelle grandi parrocchie nere in cui si riunivano migliaia di persone, invece la sua era molto piccola, con duecento posti al massimo, in un quartiere della borghesia nera di Atlanta. Lui abitava in una casa lì vicino e mi presentò sua moglie e i suoi figli, in particolare legai con Martin, con il quale mi ritrovai il giorno dell’assassinio del dottor King a Memphis».

Si capiva già che sarebbe diventato il leader di uno dei maggiori movimenti del Novecento?

«Non era un uomo appariscente, ma appena ci si parlava si capiva che era uno a cui prestare attenzione. Nonostante fosse un uomo di chiesa, però, il suo non era un carisma miracolistico e parareligioso. Martin Luther King era un leader logico, preciso e organizzato, che si trasformava quando parlava in pubblico ma era molto diverso nel privato. Quando saliva sul suo pulpito o nei palchi delle piazze delle cittadine del sud aveva una capacità oratoria capace di raggiungere in modo straordinario le corde emotive di chi lo ascoltava: è successo anche a me, quando sono entrato nella sua chiesa ho avuto la sensazione di avere davanti un uomo che volevo ascoltare di nuovo».

Una qualità rimasta iconica con il celeberrimo “I have dream”.

«Io ho partecipato a molte marce nel sud, soprattutto in Alabama e Louisiana. Ero presente anche il giorno di quel famoso discorso, perchè a quella marcia partecipava anche Joan Baez, alla quale mi legava una profonda amicizia. Ricordo che lei suonò insieme a Bob Dylan e al gruppo Peter, Paul and Mary, stretti tra due ali di folla. Fu un evento straordinario, giornalisticamente e umanamente parlando».

Che America era, quella in cui Martin Luther King marciava?

«Allora come oggi, era un’America spaccata politicamente, con sfumature estremiste, forti ma minoritarie, sia a destra che a sinistra. Il Partito Repubblicano era molto istituzionale e rigoroso, con una forte visione economica legata alla tutela delle imprese; il Partito Democratico sosteneva l’esatto inverso, ovvero che era proteggendo il lavoro che si sosteneva il progresso del Paese. A destra, esistevano elementi di esasperazione estremistica che oggi si possono intravedere nella alt- right di Trump; mentre a sinistra prendevano forma movimenti come quello delle Black Panther e di Malcom X. Ecco, sul versante dei neri c’era una forte scheggia di sinistra radicale, in cui si stava sdoganando l’utilizzo delle armi. Ricordando questi due estremismi minoritari ma pericolosi di destra e di sinistra, si coglie compiutamente la grandiosità della rivoluzione di Martin Luther King».

Fu l’uomo giusto al momento giusto?

«Introdusse lui in America il concetto della non violenza, guidando una parte notevole del Paese a una rivolta per la conquista dei diritti civili attraverso le vie della pace, anziché accettare quella delle armi. Sul tetto della Cornell University di Ithaca comparvero i fucili, mentre nelle piazze del sud Martin Luther King si faceva manganellare dalla polizia, senza reagire e senza mai cedere. Ripeteva che, nonostante le botte e le prepotenze subite, affermare i diritti dei neri significava dare più diritti anche ai bianchi, perchè chi dà più diritti ha più diritti, per il solo fatto di averli concessi».

Martin Luther King venne assassinato in un motel di Memphis, il 4 aprile di cinquant’anni fa. Lei crede alla ricostruzione ufficiale?

«No, io sono sempre stato della stessa opinione della famiglia King: James Earl Ray non era l’assassino ma un capro espiatorio, poco più di un vagabondo, individuato al momento giusto e con i giusti indizi in modo da tranquillizzare l’opinione pubblica sul fatto che l’assassino era stato preso. Per questo ho sostenuto con forza, anche mobilitando gli amici che avevo nel mondo giuridico e politico, la difesa di questo presunto killer».

Non è Ray l’assassino?

«No. Io ero a Memphis il giorno del delitto ed ero amico da anni di Andrew Young, il numero due del movimento e l’uomo che era in piedi accanto al dottor King quando il proiettile lo uccise. Dopo la sparatoria, incontrai Young e lui mi indicò il punto di provenienza del colpo e io seguii le indagini, insieme alla troupe della Rai».

E cosa scoprì?

«Il Lorraine Motel si trovava in uno dei quartieri peggiori della città, circondato da case pericolanti. Una di queste ospitava un ospizio per anziani abbandonati e secondo l’Fbi il colpo era stato sparato da lì. Io vi entrai con l’operatore ed esplorai le stanze, incontrando un solo infermiere e nessuno a fermarmi. Parlai con chi era in grado di rispondermi, ma nessuno seppe dirmi nulla sulla presenza di un uomo con un fucile. Inoltre, posso dire con certezza che nell’edificio non c’era traccia del passaggio di un killer».

Come fa a dirlo?

«Vede, gli edifici sporchi mantengono le tracce molto meglio di quelli puliti e io, su quel pavimento, non trovai traccia delle impronte degli stivali con suola pesante che tutto il mondo vide addosso a James Earl Ray al momento della fuga. Lo sporco era omogeneo e intatto e prima del nostro passaggio non c’erano impronte di passi coerenti con quelle di un cecchino, né all’ingresso dell’ospizio nè alle finestre orientate verso la terrazza del Lorraine Motel. Io documentai tutto questo per Tv7 e il servizio andò in onda due giorni dopo, insieme ai funerali di Martin Luther King ad Atlanta».

L’omicidio King rimane uno dei misteri insoluti d’America?

«Nelle ore successive ne discussi con Jesse Jackson e Andrew Young: eravamo tutti certi che i colpi non potevano essere partiti da dove la polizia diceva che erano stati esplosi. Anche la moglie di Martin Luther King, Coretta, ha sempre sostenuto che non poteva essere andata come le autorità hanno raccontato. Questo omicidio, come quello di Kfk, rimane uno dei delitti misteriosi che hanno segnato la storia americana».

Quanto c’è stato di Martin Luther King nell’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca?

«Obama discende in modo diretto da King e non sarebbe mai potuto diventare presidente senza le sue lotte. E’ stato Martin Luther King a educare i bianchi all’accettazione dei neri e a far capire ai neri che non avrebbero ottenuto nulla ricorrendo alla violenza. Grazie a questo insegnamento, Obama ha portato l’America ad essere un paese libero, forte e potente, rispettoso dei diritti e anzi incline ad allargarli».

E oggi, nell’America di Trump in cui i neri muoiono per mano della polizia, cosa resta del sogno di Martin Luther King?

«L’acrobazia a rovescio che ha portato all’elezione di Trump è un fenomeno che la sociologia americana ancora non ha spiegato. Si tratta di un fallimento non politico ma culturale, con un incredibile capovolgersi su se stesso dell’edificio americano, andato poi a sistemarsi sui pilastri minoritari di una destra feroce».

E’ stata una svolta imprevedibile?

«Io non ricordo di nessun americano che, durante la campagna elettorale, abbia detto di aver paura di una vittoria di Trump. Nessun giornale, nemmeno tra le testate di destra, aveva previsto la sua vittoria e nei giorni successivi – secondo una tradizione giornalistica molto italiana – i media hanno dovuto correre ai ripari, inventando le storie della Rust Belt, degli abbandonati delle periferie e dei salotti troppo frequentati dai democratici. In realtà, l’America è uscita stravolta dal trionfo di un uomo antipatico, grossolano e volgare. Uno sgomento che ha coinvolto anche le destre, che volevano sì un presidente di destra ma non un uomo che avrebbe fatto sfigurare il Paese come oggi sta accadendo, con un arretramento culturale che tutt’ora mette in imbarazzo».

L’America dei diritti è arretrata, quindi?

«Io credo sia in atto un fenomeno ancora per nulla indagato e tutto culturale, che l’America non ha ancora avuto il coraggio di dire a se stessa e al mondo. La realtà è che, in silenzio, è stata annullata una parte dell’eredità di Martin Luther King: basti pensare al ritorno dei suprematisti bianchi, che oggi possono esibirsi pubblicamente. Con questo gli americani dovranno fare i conti: con il fatto che nessuno di loro è stato in grado di intuire il fenomeno Trump, prima della sua vittoria. In questo vuoto di comprensione è scomparso l’enorme portato pedagogico dell’esempio di Martin Luther King, ma come ciò sia stato possibile è un mistero».

Martin Luther King a 50 anni dall'assassinio. Il 4 aprile 1968 il leader dei diritti civili degli afroamericani veniva ucciso da un colpo di fucile a Memphis, scrive Edoardo Frittoli il 3 aprile 2018 su "Panorama". Queste furono le parole dell'ultimo sermone pronunciato dal reverendo Martin Luther King Jr. il 3 aprile 1968. Il giorno seguente verrà assassinato a Memphis, Tennessee, con un unico fatale colpo di fucile. “I’ve seen the promised land. I may not get there with you. But I want you to know tonight, that we, as a people, will get to the promised land. And I’m happy tonight. I’m not worried about anything. I’m not fearing any man. Mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord.” "Ho visto la Terra Promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che stasera voi sappiate che noi, come Popolo, arriveremo alla Terra Promessa. E per questo stasera sono felice. Non ho paura di nulla. Non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore". L'ultimo sermone nella Memphis dell'odio razziale (febbraio-aprile 1968)

Dal febbraio 1968 il clima a Memphis, Tennessee si era molto surriscaldato. La città era governata dal sindaco razzista Henry Loeb, che si era sempre dichiarato a favore della segregazione razziale ed aveva mantenuto le leggi "Jim Crow" contro l'integrazione della comunità nera. La rabbia si era scatenata in città dopo la morte avvenuta il 1 febbraio di due dipendenti di colore della nettezza urbana cittadina, stritolati da un compattatore. L'incidente fu la causa dello sciopero ad oltranza dei netturbini, quasi tutti afro-americani, per protestare contro le condizioni di lavoro disagiate e le discriminazioni razziali subite dai superiori bianchi. Durante i giorni dello sciopero la polizia di Memphis si produsse in continue provocazioni contro i cortei degli scioperanti arrivando a scortare crumiri bianchi assoldati dal sindaco.

Il lungo cammino pacifico dei diritti civili. Martin Luther King arrivò in città il 3 aprile 1968, all'apice della sua fama di promotore dei diritti civili degli afro-americani. Negli anni '50 il reverendo era stato già protagonista della protesta nella forma della disobbedienza civile pacifica. Nel 1956 era riuscito assieme ad altri attivisti ad avere ragione sulla segregazione razziale nei luoghi pubblici del sud degli Stati Uniti promuovendo assieme ad altri attivisti il lunghissimo boicottaggio dei mezzi pubblici dopo l'arresto dell'attivista Rosa Parks che si era rifiutata di cedere il suo posto a un bianco. La protesta durerà per ben 381 giorni fino alla concessione della sospensione della separazione dei posti sui mezzi pubblici in base alla razza. Martin Luther King fonda subito dopo la SCLC (Southern Christians Leadership Conference) della quale diviene leader. Viaggia negli Usa ed in Europa per promuovere la sua battaglia pacifica per i diritti civili della popolazione di colore, culminata con la grandiosa marcia di Washington del 28 agosto 1963 dove il reverendo dell'Alabama terrà il suo memorabile discorso "I Have a Dream" di fronte ad una folla di circa 300.000 partecipanti. Nel 1964 è Nobel per la Pace. Vicino a John Fitzgerald Kennedy, che più volte intervenne in favore delle lotte promosse dall'SCLC, fu spesso duramente contestato dalla Nation of Islam di Malcolm X che riteneva l'atteggiamento pacifico di King un "regalo per i bianchi", con i quali bisognava rispondere con violenza in risposta alla violenza.

I poveri neri, i poveri bianchi e il Vietnam. Quando arrivò a Memphis per appoggiare la protesta dei netturbini, Martin Luther King aveva fatto un ulteriore passo, toccando i temi caldi della povertà (sia bianca che nera) e della guerra in Vietnam. Alcuni detrattori lo avevano più volte bollato come un "nero comunista", mentre i seguaci di Malcolm X continuavano a ritenerlo un traditore colluso con i bianchi.

Il discorso della montagna. Le ultime parole di Martin Luther King. La sera del 3 aprile 1968 Martin Luther King tenne il suo ultimo discorso al Mason Temple di Memphis, dove gli scioperanti si erano riuniti già dall'inizio della protesta dei netturbini. In alcuni passi l'ultimo sermone suonò come un presagio, quando King asserì di non avere paura della morte, sentendosi nelle mani di Dio dopo essere stato "sulla vetta della montagna" (il discorso è infatti ricordato con il titolo "I've been on the mountaintop"). Il giorno seguente il reverendo King alloggiava al Lorraine Motel assieme ad altri attivisti storici come Ralph Abernathy. Poco prima delle 18:00 il leader dell'SCLC uscì sul balcone della camera 306 al secondo piano. Alcuni istanti più tardi un rumore secco tagliò l'aria: era un colpo di fucile dal quale fu esploso il proiettile calibro 7,62 che, perforando la guancia destra del reverendo, spezzò le vertebre cervicali e tranciò la carotide. L'ispiratore e il promotore di tante battaglie e altrettante vittorie dei neri americani cadeva privo di sensi, dissanguandosi rapidamente nonostante fosse stato prontamente soccorso dagli amici e compagni di lotta. Il suo cuore cessava di battere un'ora più tardi al St. Joseph Hospital.

La rivolta delle città, l'omaggio all'uomo della pace. Alla notizia dell'assassinio, in più di 100 città degli Stati Uniti scoppiarono gravi tumulti, per cui fu necessario un appello alla calma da parte dello stesso Presidente Lyndon Johnson. Poco dopo fu trovata l'arma del delitto, un fucile Remington abbandonato poco lontano dalla scena del crimine. Quattro giorni dopo, guidati dalla vedova Coretta Scott King, una folla di oltre 40.000 persone rendeva omaggio alla salma di Martin Luther King ancora esposta a Memphis. Il giorno successivo si tennero i funerali solenni ad Atlanta, dove Martin Luther King Jr. era nato il 15 gennaio 1929. Per l'occasione si riunirono oltre 100.000 persone, compresa Jacqueline Kennedy e il Vicepresidente degli Stati Uniti Hubert Humphrey. Il sermone fu tenuto dall'amico di sempre Ralph Abernathy, mentre risuonavano le note di "Take My Hand My Precious Lord". Il feretro fu trasportato al cimitero cittadino su un carretto trainato da due muli della Georgia.

La caccia all'assassino. Sulle tracce dell'assassino si misero 3.500 agenti dell'Fbi e appena due mesi mesi dopo fu fermato all'aeroporto Heatrow di Londra il delinquente comune James Earl Ray mentre cercava la fuga nella Rhodesia dell'apartheid. Criminale recidivo, era noto per le sue idee razziste e si trovava a Memphis dopo essere evaso dal carcere nel 1967. Per l'omicidio di Martin Luther King fu condannato a 99 anni di carcere, dal quale riuscirà a fuggire per alcuni giorni nel 1977 dopo aver ritrattato nel frattempo la propria confessione, iniziando a ventilare l'ipotesi di una congiura per uccidere il leader della protesta pacifica degli afroamericani. Da queste dichiarazioni si faranno largo disparate teorie del complotto, che spaziano dalla Mafia ai Federali alla Polizia di Memphis. Nel 1997 Dexter King, uno dei figli del reverendo, incontrò James Earl Ray in carcere, convinto che la responsabilità non fosse unica. Ray confermò la teoria del complotto appoggiato anche dalla vedova Coretta che chiese la riapertura del processo che coinvolse Loyd Jowers il proprietario del Jim's Grill, il locale da cui partì il colpo fatale.Fu lui per primo a rilasciare dichiarazioni sul complotto di cui Ray sarebbe stato solamente il capro espiatorio. La morte dello stesso Ray il 23 aprile 1998 e la ritrattazione di molti testimoni del nuovo processo fecero decadere la teoria della cospirazione, archiviata dal Procuratore Generale Janet Reno nello stesso anno.  

IL KING DELLE ZOZZERIE. Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 27 maggio 2019. Martin Luther King ha avuto oltre quaranta amanti, ha partecipato ad orge, e ha testimoniato uno stupro, guardando e ridendo mentre un pastore suo amico violentava una parrocchiana. Sono le rivelazioni sconvolgenti fatte da David Garrow, autore di una biografia del leader del movimento per i diritti civili, che sostiene di averle lette nei rapporti scritti dall' Fbi sulla base di registrazioni ancora segrete. È noto che Edgar Hoover, per decenni potentissimo capo del Federal Bureau of Investigation, aveva messo sotto sorveglianza King, per cercare di distruggerlo nel timore che fosse membro del Partito comunista. Gli agenti nascondevano cimici ovunque andasse, nella speranza di incastrarlo. Le registrazioni sono custodite negli US National Archives, e non potranno essere pubblicate fino al 2027. Garrow, studioso americano che nel 1987 vinse il premio Pulitzer con la biografia «Bearing the Cross», ha scritto sulla rivista «Standpoint» che ha potuto leggere i rapporti relativi a vari incidenti. Per quanto odiosa fosse la pratica dello spionaggio, ha commentato che il loro contenuto, se confermato, «pone una sfida così fondamentale alla sua statura storica, da richiedere la più completa ed estesa revisione possibile». Nel gennaio del 1964, ad esempio, gli agenti dell' Fbi avevano nascosto microfoni trasmettitori in due lampade della stanza occupata da King al Willard Hotel di Washington, vicino alla Casa Bianca. Il futuro Premio Nobel per la Pace era con il pastore di Baltimore Logan Kearse, e diverse fedeli: «Discutevano di quali tra le parrocchiane fossero più adatte ad atti di sesso naturali e innaturali. Quando una delle donne aveva protestato, dicendo che non approvava quella condotta, il ministro battista l' aveva immediatamente e forzatamente stuprata». King «guardava, rideva, e offriva consigli». Gli agenti erano nascosti nella stanza accanto, ma avevano continuato a registrare, senza intervenire. Il giorno successivo, il leader dei diritti civili e una dozzina di altre persone avevano partecipato ad una «orgia sessuale, compiendo atti di degenerazione e depravazione». Una donna aveva resistito, e King le aveva detto che compiere quegli atti avrebbe «aiutato la sua anima». L' Fbi in seguito aveva mandato una lettera al pastore in cui lo definiva «una bestia diabolica e anormale», e lo incoraggiava a suicidarsi prima che le sue malefatte fossero rivelate al mondo. L'infedeltà di King era nota, e la moglie Coretta si era spesso lamentata della sua assenza. Lui le avrebbe suggerito di «uscire e avere le proprie relazioni sessuali». Lo spionaggio di Hoover era una pratica orribile e forse illegale, ma secondo Garrow quando il pubblico potrà sentire le registrazioni, la figura storica di King verrà distrutta.

·         4 marzo 1994: venticinque anni fa la tragica notte di Kurt Cobain a Roma.

4 marzo 1994: venticinque anni fa la tragica notte di Kurt Cobain a Roma. Quando il leader dei Nirvana venne ricoverato d'urgenza per un'overdose di farmaci e alcol. Un mese dopo il suicidio a Seattle, scrive Gianni Poglio il 4 marzo 2019 su Panorama. Per terra, stravolto, con il sangue che colava dal naso. Così Courtney Love trovò Kurt Cobain nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1994. Il leader dei Nirvana era riverso a terra nella suite dell'Hotel Excelsior dove la coppia alloggiava nei giorni delle loro vacanze romane. O almeno di quelle che avebbero dovute essere delle vacanze... Con Kurt e Courtney c'era anche la piccola Frances Bean, nata nell'agosto del 1992. Il male di vivere, una relazione di coppia provata da liti e incomprensioni continue, l'incapacità di reggere e gestire la fama, l'eroina come via di fuga dalle pressioni dei media e del music business. Questa era la condizione di Cobain nelle settimane che hanno preceduto il suicidio. A Roma un mix micidiale tra champagne e pastiglie di Roipnolebbe un effetto devastante su Cobain che venne ricoverato in coma al Policlinico Umberto I dove venne salvato per poi essere trasferito all'America Hospital. Parve subito chiaro che si trattava di un tentativo di sucidio. Pochi giorni prima i Nirvana avevano concluso il loro tour con uno show al Terminal 1 di Monaco in Germania, l'ultimo concerto di Kurt Cobain. Che, con i Nirvana era entrato per l'ultima volta in studio di registrazione il 30 gennaio dello stesso anno per incidere il branoYou know you're right. Si salvò Kurt a Roma, ma la fine era purtroppo vicina, molto vicina. L'8 aprile aprile 1994 il corpo di Cobain venne trovato da Gary Smith, un elettricista, nella serra della sua casa di Seattle. Si era sparato con un fucile a pompa. Nelle parole della lettera d'addio, rivolta a un amico immaginario della sua infanzia, Boddah, citò un brano di Neil Young. Hey hey, my my (into the black): It's better to burn out than to fade away: è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

QUANDO ANTONELLO FASSARI DETTE DEI DROGATI AI NIRVANA. Nicholas David Altea per Rumore.it il 7 aprile 2019. La tv italiana ha questo triste primato: Kurt Cobain e i Nirvana si sono esibiti per l’ultima volta in un canale televisivo, in assoluto, nel nostro paese. L’ultima apparizione ufficiale di sempre. Era 23 febbraio 1994, il giorno esatto dell’esibizione, ma il programma andò in onda su Rai 3 il 27 febbraio 1994. Non proprio un programma musicale (ma durante le puntate passarono alcuni artisti internazionali): si trattava di Tunnel registrato negli studi Nomentano di Roma; durò solamente una stagione (dal 6 febbraio al 22 maggio 1994) e fu un contenitore comico-satirico, composto da una buona parte di comici che arrivavano da Avanzi – altro programma comico, durato due anni. A condurre e a tenere le fila della trasmissione c’era Serena Dandini con una schiera di comici come Corrado e Sabina Guzzanti, Massimo Olcese, Adolfo Margiotta, Antonello Fassari, Cinzia Leone, Francesca Reggiani, Stefano Masciarelli e molti altri. Meno di un mese e mezzo dopo quell’apparizione, la mattina dell’8 aprile 1994, il corpo di Cobain venne ritrovato nella sua villa sul lago Washington da Gary Smith, un elettricista della Veca Electric che avrebbe dovuto installare delle luci di emergenza. Il luogo esatto del ritrovamento fu nella serra presso il garage nella sua casa. Morto con un colpo in testa autoinflitto con fucile Remington M11- calibro 20. L’autopsia dichiarò che la morte era avvenuta il 5 aprile e nel suo corpo erano state trovate grosse quantità di eroina e Valium. Tornando all’esibizione televisiva, la band passò dagli studi Rai proprio in concomitanza col tour italiano che li vedeva per ben 4 concerti nei palazzetti: il 21 febbraio a Modena, il 22 febbraio al Palaghiaccio di Marino (Roma), il 24 e il 25 al PalaTrussardi di Milano – rinominato poi PalaVobis, PalaTucker, MazdaPalace e PalaSharp fino alla definitiva chiusura. Forse i Nirvana non si trovarono molto a loro agio in una situazione del genere. Prima di introdurli ci fu uno sketch tra Serena Dandini e Antonello Fassari, nel ruolo del Signor Ricci, un perenne paranoico impaurito da tutto e da tutti, esordisce così, mentre è impaurito dall’arrivo della band, e ci auguriamo non si siano accorti di nulla. La band in formazione a quattro con Kurt, Cris Novoselic, Dave Grohl e l’ex Germs, Pat Smear è già sul palco e attacca subito con Serve the Servants, brano estratto da In Utero (qua potete rileggere la lettera di Steve Albini alla band in occasione della produzione del disco). Alla fine del live, mentre Kurt Cobain sta bevendo una bottiglia d’acqua, interviene sul palco Corrado Guzzanti vestito da giovane ragazzo alternativo, coatto, con t-shirt di In Utero e camicia di flanella con toppa degli Iron Maiden: il mitico Lorenzo. Corrado Guzzanti inizia subito a molestare la band, ma solamente Krist Novoselic interagisce non capendo nulla di cosa stesse accadendo. Forse non tutti sanno (o si ricordano) che i Nirvana registrarono due canzoni a Tunnel, Serve the Servants e Dumb (anch’esso estratto da In Utero). Quest’ultima canzone non andò in onda e venne trasmessa solo dopo la sua morte come tributo durante il Concerto del Primo Maggio 1994. Nel video si vede anche una turnista al violoncello. Questa è l’ultima volta assoluta di Kurt Cobain e dei Nirvana in un’apparizione pubblica televisiva. Qualche settimana dopo la fine del tour europeo, lui, Courtney Love e la figlia passarono alcuni giorni di vacanza a Roma, ma a causa di un’overdose di Roypnol e Champagne venne ricoverato al Policlinico Umberto I salvato dai medici. Il legame tra Kurt Cobain e l’Italia resta ancora oggi molto forte, e questi filmati sono ormai archeologia video da conservare preziosamente. Scusa Kurt (e scusate Nirvana) avremmo dovuto (e voluto) accogliervi in un altro modo.

Kurt Cobain moriva oggi 25 anni fa: ecco perché è stata l'ultima grande rockstar. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 da Giulia Cavaliere su Corriere.it. Il 4 aprile 1994 Kurt Cobain si suicidò, con un colpo di fucile puntato alla testa, nella serra della sua casa sul lago Washington. Il corpo venne ritrovato quattro giorni dopo, casualmente, da un elettricista e solo l'autopsia confermò, ancora successivamente, che si era trattato di morte autoinflitta. Ecco qualche motivo per cui, il bellissimo angelo biondo e struggente che ha cambiato per sempre il corso del grunge e del rock, è stata anche l'ultima grande rockstar. Almeno fino a questo momento... Gira su YouTube un video bellissimo in cui viene domandato ad alcuni bambini di età inferiore a 10 anni, di ascoltare i Nirvana e di raccontare le proprie impressioni e sensazioni istintive. Sono ragazzini nati nel 2007, nel 2008, al massimo nel 2009 e infatti diversi tra loro non sanno chi siano questi Nirvana di cui gli viene annunciato l’ascolto. Tuttavia, qualcuno, appena sentito quel nome, se ne esce con un: “ho visto le magliette con una faccina gialla!”. La bambina in questione, insomma, non sa certamente chi siano i Nirvana ma sa che esistono t-shirt di questo gruppo, che esiste un apparato visivo che l’accompagna, per questo, pur avendo solo 9 anni, in qualche modo, lei, i Nirvana, li conosce, ha visto il loro logo – quello utilizzato per la prima volta da Kurt Cobain nel settembre del 1991 in un flyer di presentazione di Nevermind. La cosa significativa e interessante è quel logo non esiste sui dischi dei Nirvana ma viene replicato unicamente in una enorme quantità di merchandise che dagli anni ’90 popola il pianeta dei fan della band di Seattle. Insomma, quel logo, non ha nulla a che vedere con la musica. Di quali band, nate dopo i Nirvana, un ragazzino, tra trent’anni, potrà ricordare il logo, la t-shirt, l’immaginario reso in forma di oggetto, cioè nella forma plastica ed estetizzata per eccellenza? Probabilmente nessuna. Negli anni ‘90 – e nella coda dei primi anni ’00 – gli adolescenti si facevano portavoce di un’icona, il volto angelicato e insieme sofferente di Kurt Cobain se ne stava stampato sul cotone di uno straordinario numero di magliette, portafogli; se ne stava sulle toppe applicate agli zaini di scuola, ai jeans. Questo, prima di lui, avevano fatto le popstar, o le grandi rockstar che avevano conosciuto le glorie del pop. A partire dai Beatles – i cui volti sono ancora stampati su confezioni di caramelle alla frutta, tazze, t-shirt, sveglie, ciabatte, sottobicchieri, orologi e chi più ne ha più ne metta. Siamo certi che, dopo i Nirvana, nessun altro sia stato più così iconograficamente pervasivo, attraversando generazioni fino a stamparsi nella mente di una ragazzina che nel 2019 ha solo 9 anni.

Kurt Cobain e quel tragico requiem di Milano. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Matteo Cruccu su Corriere.it. Per tutta la durata del concerto non cambiò praticamente posizione, quasi inanimato, come a voler essere in qualunque posto del pianeta tranne che su un palco a dover comunicare qualcosa a qualcun altro. Già, se ne era andato ben prima del 5 aprile di 25 anni fa Kurt Cobain, quando lo trovarono riverso nel garage dopo che aveva messo fine ai suoi tormenti con un colpo di pistola. Sì, in realtà si era congedato almeno un mese e mezzo prima quando al vecchio Palatrussardi di Milano si affaticò a chiudere le date di un tour in cui avrebbe recitato l’ultimo atto il 1 marzo a Monaco di Baviera. E sembrò dunque un requiem mozartiano quell’ora scarsa di Milano, mal suonata e triste, dove potevi avvicinarti facilmente al palco, facendoti largo tra le camicie di flanella intente a praticare un pogo selvaggio ( tutti a spingersi contro tutti, come usava allora). Per poter constatare da pochi metri il pallore mortale di Kurt, sorretto solo dal mestiere degli altri due, Krist Novoselic e Dave Grohl. Eppure quella specie di dolorosa agonia è trasfigurata a mito per i ragazzi che non hanno potuto assistervi. Esattamente come altri ragazzi avevano invidiato - in assenza - i più anziani dal leggendario Bob Marley di San Siro ‘80 o, prima, dai Beatles al culmine di Vigorelli‘65. Perché, come per gli altri due happening, conta «l’esserci stati» dai Nirvana e dal loro angelo caduto Kurt Cobain, coloro che hanno interpretato meglio di chiunque le disillusioni di una generazione senza eroi e la fine della religione dell’ottimismo e dei buoni sentimenti dei Beatles o di Marley. E che quel requiem sia stato più o meno bello, è solo un, irrilevante, dettaglio.

Kurt Cobain, a 25 anni dalla morte rimane la musica: ecco i dieci brani immortali dei Nirvana. Il 5 aprile 1994, a 27 anni, si toglieva la vita l'anima fragile e potente del grunge. Da "About a Girl" a "Pennyroyal Tea" le canzoni che hanno sconfitto anche la morte. Restando nel cuore di più di una generazione, scrive Carmine Saviano il 5 aprile 2019 su La Repubblica. Mito già in vita, portavoce di una generazione, poeta maledetto. Troppo sensibile per affrontare il successo e le dinamiche dello show business, troppo dipendente da farmaci e droghe, irrisolto, incompreso. E via così. A venticinque anni dalla morte le definizioni di Kurt Cobain, il cantante e chitarrista dei Nirvana suicidatosi a 27 anni con un colpo di fucile al volto nel deposito degli attrezzi della sua casa di Seattle il 5 aprile 1994, si sprecano. Riempiono articoli, post sui social, commemorazioni pubbliche e private. Oltrepassando spesso l’unica eredità tangibile di Cobain: le sue canzoni. Meno di un centinaio: distribuite in tre dischi ufficiali, qualche raccolta, decine di live e di opere postume. Canzoni che lo hanno reso – e lo rendono tuttora – uno dei più geniali compositori della storia del rock, un talento puro in grado di realizzare classici istantanei. In grado meglio di chiunque altro agli inizia degli anni novanta di utilizzare e ridare vita alla forma canzone. Ne abbiamo scelte dieci.

About a Girl (1989) La terza canzone dell’album di debutto dei Nirvana, diventata celebre nella versione registrata per l’Unplugged del 1993, rivela tutta l’influenza del 'pop' su Cobain. Le chiavi d'accesso principali, confessate in più interviste dallo stesso cantante, sono i Beatles e i primi R.E.M. Il cambio di tonalità del ritornello è senza dubbio un omaggio ai Fab Four. E sulla struttura armonica classica Cobain deposita il suono grezzo della sua chitarra e della sua voce. In filigrana, il tema per eccellenza delle canzoni dei Nirvana: la lotta per stabilire autentiche relazioni con l’altro.

Negative Creep (1989) Rabbia, il vortice della volontà che non si realizza mai. Saltare oltre il fosso della solitudine e dell’alienazione non è possibile. La dipendenza come unica, provvisoria e inutile soluzione. Un racconto in prima persona in diretta dal buco nero dell’anti-socialità. Con le parole di Cobain che diventano lame affilate su un suono cupo, dove la luce è solo una speranza mai compiuta. Suono che sembra provenire e raccontare la desolazione della provincia americana. “Tutto questo è fuori dalla nostra portata e sta crescendo. Sono un pessimista senza speranza e sono fatto”.

Smells Like Teen Spirit (1991) Semplicemente epocale. C’è da scommetterci: ognuno ricorda il momento in cui l’ha ascoltata per la prima volta. Una epifania per i ragazzi nella terra di mezzo dei primi anni novanta. I quattro accordi di chitarra pulita – diventati canone musicale istantaneo per schiere di musicisti – lo stacco di batteria e poi il rock che ritrova il suo essere strada verso la liberazione individuale e collettiva. Titolo 'rubato' a Kathleen Hanna delle Bikini Kills. Versi da brividi su un muro di suono che lascia ancora senza fiato.

In Bloom (1991) Di quel capolavoro assoluto che è Nevermind, forse è la canzone che riesce miracolosamente a non invecchiare neanche di un giorno. Empatia assoluta da Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl. Le matrici – l’hard rock anni settanta e l’indie americano degli anni 80 – che si fondono in un classico del rock contemporaneo. Nel video tutta la carica iconoclasta dei Nirvana, nel testo l’indicazione che la morte, lo spegnersi delle cose, è in azione anche quando si è “in fiore”.

Polly (1991) Scritta alla fine degli anni ottanta e registrata in due versioni. Quella veloce, hardcore punk, è su Incesticide. Nevermind ospita la versione lenta, chitarra acustica e voce di Cobain. Un rapimento e una violenza visti dal punto di vista di chi compie il crimine. Un manufatto puro per veicolari luoghi dell’anima oscuri e abissali.

On a Plain (1991) Energia allo stato puro. Non quella rabbiosa a la Territorial Pissing. Ma una fredda ed elettrica descrizione che attraversa in velocità la noia e la monotonia dell’esistenza. L’inconsistenza della maggior parte dei rapporti umani, il ritirarsi in se stessi come condizione obbligata per rimanere a galla. “Comincerò senza dire parola alcuna, mi sono fatto così alto che mi sono graffiato fino a sanguinare. Amo me stesso meglio di te. So che è sbagliato quindi cosa dovrei fare?”. Anche qui la scrittura musicale di Cobain è allo stesso tempo classica e del tutto innovativa.

Come as You Are (1991) Uno dei riff di chitarra più belli degli anni Novanta. Per una canzone che è un crescendo verso uno dei ritornelli più radiofonici dei Nirvana. Ma niente ammiccamenti. L’amore cantato da Cobain unisce venerazione e disperazione in una canzone che è diventata uno standard rock eseguita da migliaia di band in tutto il pianeta.

Serve the Servants (1993) La prima canzone di In Utero, l’ultimo album in studio dei Nirvana, è una dichiarazione d’intenti. Rispetto a Nevermind il suono si asciuga, diventa essenziale, scheletrico. “La rabbia giovanile ha pagato bene, adesso sono vecchio e stanco”, l’attacco di Cobain nella strofa che porta a un ritornello atipico, dimesso, spettrale. Nessun compromesso rispetto alle aspettative di chi voleva dai Nirvana una ripetizione senza fine dei canoni di Smells Like Teen Spirit.

Heart-Shaped Box (1993) Forse la canzone che più di ogni altra cristallizza la poetica di Kurt Cobain. L’alternarsi di 'piano' e 'forte', la strofa marziale che irrompe nell’urlo del ritornello. Un ossimoro musicale: proclamare la propria indipendenza estetica cantando la forma più morbosa di dipendenza, l’amore che si trasforma in gabbia, schiavitù: “Cala il tuo cordone ombelicale affinché io possa arrampicarmi per ritornare”. 

Pennyroyal Tea (1993) Una solitudine senza uscita, quella in cui si è alle prese con l'impossibilità di stabilire un ponte, una comunicazione con il mondo. Anche qui la strofa è l’opaco messo in musica che si spezza nel dolore distorto del ritornello. Tutto in una composizione che dal punto di vista armonico è semplicissima: un piano musicale lineare sul quale Cobain riversa tutte le proprie crepe. Insieme a All Apologies è il Requiem di Kurt Cobain, musica che acquista senso compiuto solo se la si immagina percepita, suonata e cantata nella contemplazione della propria fine. 

25 anni senza Kurt Cobain: la tragica notte di Roma un mese prima della fine. Era il 4 marzo quando il leader dei Nirvana venne ricoverato d'urgenza per un'overdose di farmaci e alcol. Il 5 aprile il suicidio a Seattle, scrive Gianni Poglio il 5 aprile 2019 su Panorama. Per terra, stravolto, con il sangue che colava dal naso. Così Courtney Love trovò Kurt Cobain nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1994. Il leader dei Nirvana era riverso a terra nella suite dell'Hotel Excelsior dove la coppia alloggiava nei giorni delle loro vacanze romane. O almeno di quelle che avebbero dovute essere delle vacanze... Con Kurt e Courtney c'era anche la piccola Frances Bean, nata nell'agosto del 1992. Il male di vivere, una relazione di coppia provata da liti e incomprensioni continue, l'incapacità di reggere e gestire la fama, l'eroina come via di fuga dalle pressioni dei media e del music business. Questa era la condizione di Cobain nelle settimane che hanno preceduto il suicidio. A Roma un mix micidiale tra champagne e pastiglie di Roipnolebbe un effetto devastante su Cobain che venne ricoverato in coma al Policlinico Umberto I dove venne salvato per poi essere trasferito all'America Hospital. Parve subito chiaro che si trattava di un tentativo di sucidio. Pochi giorni prima i Nirvana avevano concluso il loro tour con uno show al Terminal 1 di Monaco in Germania, l'ultimo concerto di Kurt Cobain. Che, con i Nirvana era entrato per l'ultima volta in studio di registrazione il 30 gennaio dello stesso anno per incidere il branoYou know you're right. Si salvò Kurt a Roma, ma la fine era purtroppo vicina, molto vicina. L'8 aprile aprile 1994 il corpo di Cobain venne trovato da Gary Smith, un elettricista, nella serra della sua casa di Seattle. Si era sparato con un fucile a pompa. Nelle parole della lettera d'addio, rivolta a un amico immaginario della sua infanzia, Boddah, citò  un brano di Neil Young. Hey hey, my my (into the black): It's better to burn out than to fade away: è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

Kurt Cobain, 25 anni senza: le frasi indimenticabili. Il cantautore americano, morto il 5 aprile 1994, è diventato un'icona per due generazioni di giovani, scrive Gabriele Antonucci su Panorama il 5 aprile 2019. La vita di Kurt poteva essere quella di tanti altri suoi coetanei. Nato nel 1967 in una famiglia modesta ma dignitosa, figlio di un meccanico e di una cameriera, fu presto gravemente turbato dal divorzio dei genitori, quando aveva 7 anni. Il suo carattere mutò improvvisamente. Divenne chiuso e nervoso, a scuola il rendimento crollò e cominciò a comportarsi da bullo, fino a mostrare comportamenti omosessuali apertamente volti alla provocazione contro i “normali”.  Non completò mai gli studi, abbandonandoli appena prima del diploma superiore.Quello che non abbandonò fu la passione per la musica. Iniziato da parenti che avavano avuto esperienze musicali varie, crebbe ascoltando autori altrettanto diversi. Mentre incamerava il talento compositivo dei Beatles, assorbiva il ribellismo punk rock dei Ramones e dei Sex Pistols. Pochi album, come Nevermind dei Nirvana, hanno avuto un impatto così forte su una generazione, quella degli adolescenti dei primi anni Novanta che ritrovavano nel grunge, l’ultima vera rivoluzione del rock, la stessa furia iconoclasta del punk. Trascinato dall’iconica Smells like teen spirit, Nevermind è considerato ancora oggi, a 28 anni dalla sua uscita, un disco fondamentale per gli appassionati di rock, frutto del genio del frontman Kurt Cobain e della portentosa sezione ritmica formata da Krist Novoselic e Dave Grohl, futuro leader dei Foo Fighters. Sono bastati ai Nirvana soltanto tre album, Bleach del 1989, Nevermind del 1991 e In utero del 1993, per entrare nella leggenda del rock, diventando il gruppo-simbolo del grunge e collocando per la prima volta Seattle al centro della scena musicale internazionale. Al frontman Kurt Cobain, nato ad Aberdeen, Washington, il 20 febbraio 1967 e morto 25 anni fa, è stato affidato suo malgrado il ruolo di "portavoce della generazione X", diventando nel tempo un'icona per i giovani di due generazioni, tanto da influenzare ancora oggi la musica e la cultura giovanile. Negli ultimi anni della sua vita, Cobain ha lottato contro la dipendenza dall'eroina e le pressioni dei media su di lui e sulla moglie Courtney Love, da cui ha avuto una figlia, Frances Bean. All’apice del successo, una forte depressione, peggiorata dall'abuso di droghe e stupefacenti, ha portato il cantante a suicidarsi il 5 aprile del 1994 nella sua villa di Lake Washington, Seattle. «Qualche mese dopo la morte di Kurt decido di andare a un festival con un gruppo di amici» -ha dichiarato Dave Grohl- «Fino a quel momento avevo tenuto duro, non mi ero lasciato andare. All’improvviso, nell’intervallo fra una band e l’altra, parte una canzone dei Nirvana e 40 mila ragazzi iniziano a cantare. Uno shock. In una manciata di secondi ho capito che era davvero tutto finito». Secondo la rivista "Rolling Stone", Cobain è stato il miglior artista degli anni Novanta, oltre ad essere al 45º posto nella lista dei 100 migliori cantanti di sempre e al 73º posto della lista dei 100 migliori chitarristi. Cobain è stato introdotto nel 2014, insieme agli altri membri dei Nirvana Dave Grohl e Krist Novoselic, nella Rock and Roll Hall of Fame, al primo anno in cui erano eleggibili. Nel 2015 Cobain: Montage of Heck, il documentario firmato da Brett Morgen, ha fornito un ritratto inedito di una delle ultime icone del rock, morto a 27 anni come Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Vediamo insieme le 30 frasi più belle, spiazzanti e significative del grande cantautore americano.

Ricordi. Vorrei avere più ricordi. Ho la sensazione di non avere mai avuto un padre... Mi manca una figura paterna con cui dividere le cose.

Amore e odio. Preferisco essere odiato per ciò che sono, piuttosto che essere amato per ciò che non sono.

Paura. La nostra paura più grossa all'inizio era che la gente potesse pensare che eravamo una copia dei Melvins.

Persone. Nella nostra vita nulla è programmato al contrario di quello che noi speriamo, ogni evento può essere portato al suo estremo opposto in una piccola frazione di secondo, cosa condiziona ciò? il nostro umore, quindi è assolutamente evidente che la nostra vita dipende dalle persone.

Punk. Pensavo: "Cosa dovrebbe essere veramente il punk? Che cos'è? Quanto è cattivo?" E tentavo di suonare nel modo più arrabbiato possibile. Alzavo al massimo il volume del mio piccolo amplificatore. Non avevo assolutamente idea di cosa stessi facendo. Sono proprio contento di aver avuto la possibilità di scoprire il punk. Fu una vera manna. Aveva un modo di fare i rednecks veramente terrificante. Ero affascinato dal suo comportamento. Consisteva in "fottili fino a quando riesci a farla franca".

Autostima. Avevo così poca stima di me che non riuscivo minimamente a pensare di poter diventare una rockstar. Non riuscivo minimamente a immaginare di arrivare in televisione o rilasciare interviste o cose del genere.

Gesù. Una volta ho visto Gesù dentro una tortilla.

Lezione. Ho imparato una lezione. Non ho nessun diritto di esprimere la mia opinione finché non so tutte le risposte.

Carattere. Uso frammenti del carattere degli altri per costruire il mio.

Genitori. Voglio bene ai miei genitori eppure sono in disaccordo praticamente su tutto ciò in cui loro credono.

Migliore. Sono pessimo a fare quello in cui sono il migliore.

Dio. Dio è gay e anch'io lo sono. Dio è amore, l'amore è cieco e anch'io lo sono.

Testi. I miei testi sono un gran mucchio di contraddizioni. Sono spaccati esattamente a metà tra opinioni estremamente sincere e sentimenti che nutro e confutazioni sarcastiche e spero umoristiche di ideali stereotipati da bohèmien superati da anni. Insomma, è come se per le personalità di chi scrive canzoni non ci fossero due scelte possibili.

Televisione. La televisione. La televisione è la cosa più sinistra del nostro pianeta. Va' subito a prendere la tua TV e buttala dalla finestra o vendila e compra uno stereo migliore.

Rispetto di sé. Mettere il proprio nome su un disco non conta un cazzo. Chiunque lo può fare, ma c'è una grande differenza tra raggiungere la notorietà e conquistare il rispetto di sé attraverso la musica.

Ingranaggio del sistema. Mi piace infiltrarmi nell'ingranaggio di un sistema fingendo di farne parte e poi lentamente far marcire tutto l'impero da dentro.

Gay. Non sono gay ma vorrei esserlo per il solo desiderio di far incazzare gli omofobici.

Fare finta. Sento che esiste un senso universale, tra quelli della mia generazione, che tutto è stato detto e fatto. Vero. Ma chi se ne frega. È pur sempre divertente fare finta.

Energia. Le parole non sono importanti come l'energia che viene dalla musica, soprattutto se dal vivo. La musica è energia. Una sensazione, un'atmosfera. Sentimento.

Passione. La vita non è nemmeno lontanamente sacra quanto l'apprezzamento della passione.

John Lennon. John Lennon è il mio idolo da quando sono nato, ma per quanto riguarda la rivoluzione ha torto marcio.

Arte. L'arte è espressione, e per esprimersi occorre il 100% di libertà e la libertà di esprimere la nostra arte è in un gran cazzo di pericolo.

Nichlismo. Il nichilismo è un'ottima base su cui costruire una fondazione di ideali ma non fateci entrare le termiti.

Rivoluzione. Grazie all'ispirazione, la rivoluzione non è più fonte di imbarazzo.

Diritti. Difendere i propri diritti a volte può essere divertente. Vandalismo, strategie militanti e riunioni che assomigliano ad un club.

Postivi vs Negativi. Essere positivi sempre è ignorare tutto ciò che è importante, sacro o di valore. Essere negativi sempre è essere minacciati dal proprio senso del ridicolo e dall'istantanea inaffidabilità.

Parole descrittive. L'abuso di parole descrittive ma oscure riflette la volontà disperata e sincera, per quanto idiota, di esprimersi.

Insegnanti. Gli insegnanti di storia alla scuola superiore americana sono allevati in recinti nello stato del Montana. Sono pappa e ciccia con la gotta. Non fidatevi di loro, ubbidite ma non fidatevi.

Musica. Fai dono della musica.

Kurt Cobain visto dal suo manager: «Sembrava disorientato dal successo, in realtà era un pianificatore». Pubblicato giovedì, 09 maggio 2019 daDanny Goldberg su Corriere.it. ... Kurt ha detto più volte che l’improvviso successo di Nevermind è stato una sorpresa anche per lui. Alcuni aspetti collaterali della celebrità lo disorientavano, e a volte rimpiangeva che non esistesse un corso di base per fare la rockstar, eppure ho la sensazione che abbia pianificato i passi successivi dei Nirvana con la stessa lucidità che aveva dimostrato nella musica. Mentre a livello personale stava facendo i conti con i dolorosi risvolti fisici ed emotivi della disintossicazione e con la gravidanza di Courtney (che invece lo emozionava molto), a livello artistico continuava a riflettere sul suo ruolo nella cultura punk e sul fatto che Nevermind avesse ampliato in un batter d’occhio il campo delle sue possibilità. Era determinato a restare con un piede nella cultura indie e l’altro in quella mainstream come nessuno aveva mai fatto prima di lui. Ciascuno a modo suo, tutti i membri della band furono travolti dal successo. Dave ha raccontato dei suoi attacchi di panico, e Krist aveva l’ulteriore problema, coi suoi quasi due metri d’altezza, di essere il più riconoscibile dei tre. Subito dopo l’uscita del video di “Smells Like Teen Spirit”, mi disse: «Mi riconoscevano ovunque andassi. Ho iniziato a fare dei sogni in cui ero nudo: i classici incubi da ansia». 

Ammette di essere rimasto entusiasta quando Tom Hamilton, il bassista degli Aerosmith, lodò pubblicamente le sue linee, ma in quel periodo dichiarò anche al giornalista spagnolo Rafa Cervera: «Siamo stressati, quel che sta accadendo ci fa venire un’angoscia pazzesca. Siamo solo dei ragazzi della classe operaia, e di sicuro non inizieremo ad amare tutti quelli che finora ci hanno ignorato. ’Fanculo, non rovineremo tutto diventando avidi e materialisti». «Venivamo dalla controcultura, e invece della stampa mainstream leggevamo le fanzine. Ci sentivamo degli outsider e poi di botto siamo diventati la band numero uno al mondo» riflette oggi. Ma aggiunge anche che i Nirvana erano determinati a «mostrare a tutti che non erano dei venduti, anzi: erano lì per promuovere una rivoluzione ». Il ruolo che Kurt aveva nel gruppo contribuì a puntare ulteriormente i riflettori su di lui: in fondo, ricorda Krist, «era il leader, il cantante e l’autore delle canzoni». Sulla stampa mainstream qualcuno mise in giro l’idea, prevedibile quanto assurda, che Kurt dovesse essere una specie di portavoce della sua generazione. E anche tra i fan più smaliziati ci sono cascati in molti. Una pressione mediatica che a lui doveva sembrare surreale, così come lo era stata per gente come Dylan, Lennon e Bowie. C’erano periodi in cui non voleva essere riconosciuto in giro, e a volte indossava occhiali finti e altri stratagemmi del genere per camuffarsi. «Ogni artista vorrebbe essere libero, ma il successo non glielo consente» mi ha detto Montgomery. «Anche se la Geffen e la Gold Mountain si impegnavano al massimo per garantire alla band il completo controllo sulla loro carriera, non c’era nulla da fare quando mtv o Rolling Stone insistevano per ottenere qualcosa da loro». 

Ma per molti versi la celebrità non ha cambiato Kurt. Non si è messo a frequentare le star del cinema o vip vari, non ha cambiato modo di vestire e non ha iniziato a sperperare denaro (a parte le droghe, quando ci ricascava). Krist ricorda che anche nei tour successivi, quando la band poteva ormai permettersi i migliori catering, «per Kurt era roba troppo raffinata. Preferiva i panini e i maccheroni al formaggio». Krist mi ha anche parlato di quanto potesse essere contraddittorio il suo approccio al successo. «Quando eravamo in cerca di un’etichetta discografica abbiamo incontrato il boss della Columbia, Donny Ienner.» Ienner aveva alle spalle una carriera gloriosa, ma il suo background nella promozione per le radio commerciali e la sua personalità ambiziosa incarnavano perfettamente lo spirito del music business. In ogni caso, Kurt ne rimase colpito e con la massima serietà gli disse: «Vogliamo essere la band migliore del mondo, devi fare di tutto per promuoverci». Krist a questo punto del suo racconto si è fatto una risata e ha concluso, vagamente sarcastico: «E poi, quando siamo diventati davvero il miglior gruppo al mondo, ha iniziato a dire: “Non è questo che voglio”». Il mio ruolo nella carriera di Kurt, però, mi imponeva di concentrarmi sul lato di lui che desiderava il successo. Un pomeriggio mi chiamò in preda all’ansia e mi disse: «È da un po’ che sto guardando mtv, hanno passato i Pearl Jam tre volte e noi solo una. C’è qualcuno che ce l’ha con i Nirvana?».

Dopo il boom di Nevermind, iniziò a dire che vendite e classifiche non gli interessavano, ma verso la fine del 1991, quando il giornalista australiano Robyn Doreian gli chiese durante un’intervista telefonica «Come ci si sente ad aver venduto seicentomila copie solo negli Stati Uniti?», Kurt lo corresse: «Veramente le copie vendute in America sono state un milione e quattrocentomila». Dopo l’uscita dell’album bisognava stabilire quale singolo avrebbe seguito “Smells Like Teen Spirit”. Con Silva, Gersh e la band ci incontrammo al Jerry’s Deli di Van Nuys per discuterne. Avevamo sempre pensato che “Come as You Are” avesse il ritornello e la melodia giusti per le radio pop, ma Kurt era preoccupato perché pensava che il riff di chitarra fosse troppo simile a quello di “Eighties” dei Killing Joke. Dopo esserci trastullati per un po’ con l’idea di scegliere “In Bloom” (il ritornello mi era rimasto in testa), decidemmo di attenerci al progetto originario. Dissi a Kurt che difficilmente i Killing Joke avrebbero intentato una causa per plagio contro i Nirvana, e per fortuna avevo ragione. (Nel 2003 Dave suonò la batteria nel loro nuovo disco, forse per pareggiare i conti.) Una volta deciso il singolo, Kurt trascorse il resto del pranzo cercando di convincere Gersh a ingaggiare i Mudhoney, anche se Gersh era convinto che non avessero le canzoni giuste e non ne voleva sapere. Ma lui continuò a insistere, sostenendo che erano il miglior gruppo di Seattle: l’idea che una band che ammirava non avesse un contratto con una major gli dava sui nervi. In ogni caso, qualche tempo dopo i Mudhoney firmarono con la Warner Bros.: una cosa in meno di cui preoccuparsi. Nel frattempo, quel giorno, Kurt non aveva smesso di pensare alla sua band. Mentre pranzavamo aveva scarabocchiato qualcosa su un tovagliolo, e alla fine me lo consegnò comunicandomi che si trattava del «design per la prossima t-shirt». Ogni minimo dettaglio relativo all’immagine dei Nirvana per lui era importante. E se per la copertina di “Come as You Are” si limitò a dire a Robert Fisher, l’art director della Geffen, di usare «qualcosa con delle immagini microscopiche e del viola», il suo coinvolgimento nel video fu decisamente maggiore. 

Dopo i conflitti su “Smell Like Teen Spirit” non voleva più lavorare con Sam Bayer e scelse Kevin Kerslake, che aveva diretto diversi video dei Sonic Youth. Anche Courtney, dopo aver lavorato con lui in “Garbage Man”, glielo aveva raccomandato. Ai tempi delle riprese di “Smells Like Teen Spirit” i Nirvana erano una band emergente. Ora che erano delle superstar, le aspettative e il budget erano molto più alti. Robin Sloane diede carta bianca a Kurt: «Tutti i video nascevano da una sua idea» ricorda, «ed era sempre lui a discutere i dettagli con i registi». Per “Come as You Are” non partì da una storia, ma da un’atmosfera impressionista dai toni violacei. I primi fotogrammi ritraggono una pistola fluttuante. Per le inquadrature della band voleva sottolineare la nuova realtà di superstar dei Nirvana, e insisté molto perché lui, Kris e Dave venissero ripresi dietro una cortina d’acqua che ne offuscasse i volti. Personalmente ho sempre pensato che il modo in cui Kurt appare nel video, a volte a fuoco e a volte no, rappresentasse una specie di metafora della sua personalità. In alcuni momenti lo sentivo vicino come un fratello, in altri mi sembrava lontano anni luce, quasi invisibile attraverso le distanze siderali che ci separavano. Non tutte le immagini del video sono astratte, comunque: Kurt si assicurò che alcune inquadrature fossero chiare abbastanza perché i fan potessero vedere bene la sua maglietta dei Flipper, la stessa del Saturday Night Live. 1 “Come as You Are” era esteticamente molto diverso e molto più complesso di “Smells Like Teen Spirit”, ma al tempo stesso era più astuto dal punto di vista commerciale. Nel caso ci fosse qualche spettatore di mtv troppo fatto o troppo stupido per riconoscerlo come un video dei Nirvana, ci infilammo dentro un neonato che nuota verso una banconota agganciata a un amo da pesca. Kurt e Courtney in quel periodo si erano trasferiti nell’appartamento di Spaulding Avenue. 

Il mio ricordo più vivido di quel posto è il numero impressionante di quadri e disegni che Kurt aveva realizzato nelle prime settimane dopo il trasloco. Non la smetteva mai di creare. Eric Erlandson viveva a Seattle, ma tornava ogni settimana e passava da loro. «Quando la situazione era fuori controllo, Courtney mi chiedeva di raggiungerli. Vivevano in una specie di grotta. Kurt aveva una paura pazzesca di essere riconosciuto per strada, e per questo voleva che andassi con lui a fare shopping.» E durante quelle uscite lo rimproverava perché Eric non metteva la cintura di sicurezza. «Era estremamente prudente, voleva sentirsi al sicuro… Io pensavo fosse un po’ paradossale per uno che sul palco si lancia sul pubblico dal punto più alto che riesce a raggiungere. » E la sua fissazione in questo senso aumentò il 29 aprile 1992, quando gli agenti della polizia di Los Angeles che erano stati ripresi mentre picchiavano Rodney King furono assolti da tutte le accuse. Quel pomeriggio ci furono degli scontri, ed Eric ricorda: «Io e Kurt siamo andati in diversi negozi perché voleva fare scorta di provviste, per paura che i disordini finissero per bloccare la città. Gli scaffali erano già stati ripuliti, ma abbiamo trovato sigarette, acqua e zuppa. A Melrose Avenue, vicino al loro 167 appartamento, ci furono dei saccheggi, e Kurt era parecchio agitato. Sono rimasto con loro fino a notte fonda a guardare gli edifici in fiamme sulla Cnn»...

·         Luciano Pavarotti.

Ron Howard: «Ecco le lezioni di Pavarotti». Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 da Corriere.it. Luciano Pavarotti in frac, le braccia larghe come il suo sorriso, il fazzoletto stretto in mano che fa parte della sua iconicità. È l’immagine che meglio rappresenta Pavarotti, il documentario di Ron Howard che dopo la Festa del cinema andrà nelle sale dal 28 al 30. Quello sguardo che trasmette gioia, energia, ambizione; quegli occhi in cui Howard ha visto «abbandono e follia». Il regista Usa ha intervistato 53 persone che hanno conosciuto e amato un uomo e un artista che era più di una voce eccezionale, il grande tenore ruspante e carismatico amante della vita, con la sua bonomia emiliana. «Era conosciuto in tutto il mondo, ma non si sa molto della sua vita privata. Non dimenticò mai le sue radici, era umile nell’onorarle», dice Howard citando la città d’origine, Modena, che definisce «a small village». «Ha vissuto una vita avventurosa e complessa, è stato come se le arie che cantava potessero raccontare la sua storia; un viaggio lungo, una scoperta con echi della sua infanzia, in circostanze difficili che hanno influenzato la sua vita». Ecco Domingo, Carreras, Bono degli U2 e la sua famiglia, Adua con le loro tre figlie, e Nicoletta, la seconda moglie. «In genere i parenti sono restii, invece c’è stata grande generosità. Ed era la prima volta che hanno collaborato a un progetto su Pavarotti. Abbiamo avuto accesso a materiale inedito». La testimonianza di Adua, la prima moglie che lo accompagnò fin dai primi successi, ha momenti duri, quando dice per esempio che l’immagine del cantante sarebbe cambiata dopo il tradimento. «Quella è una delle lezioni del documentario. Il dolore non si dimentica: si può perdonare senza dimenticare. Alla fine della sua vita, le sue donne si sono riunite attorno a lui». E le altre lezioni? «Oltre a essere un ambasciatore della lirica, fino alla sua morte, nel 2007, la lezione è che la grandezza va conquistata. Scoperto di avere una splendida voce, fece un duro lavoro di apprendistato, e questo è un messaggio importante per i giovani. Fino a 20 anni fu maestro di scuola elementare, la madre lo spinse verso l’arte. Un altro aspetto che mi ha colpito è che si lasciò ispirare da Lady Diana nella filantropia, la beneficenza dei suoi eventi di cross over, per i quali fu molto criticato nell’ambiente della classica, come spiega Bono nel filmato». Lui ricorda di quando Luciano, con una certa sfacciataggine, si presentò a casa sua, senza preavviso, con una telecamera, per convincerlo a cantare per Pavarotti & Friends. Forse si è dato poco spazio alla carriera nei teatri d’opera, soprattutto italiani, con i suoi picchi, fino alla contestazione per il Don Carlo del 1992, l’ultima volta che mise piede alla Scala. «Quella sequenza c’era, nel montaggio abbiamo deciso di toglierla». Howard incontrò una sola volta Pavarotti, in una occasione sociale a Hollywood. Aveva il panama e il foulard, che era la sua uniforme fuori scena. Dice che non era un esperto d’opera: era solo un puntino di quella massa che Big Luciano voleva raggiungere, quando cantava nei parchi, negli stadi.

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 19 ottobre 2019. Su questo Pavarotti di Ron Howard la notizia buona è che è un bellissimo film, quella cattiva che è un bellissimo film sbagliato. Iniziamo dalle liete novelle. Howard ha fatto un gran lavoro di montaggio, sempre convincente e in qualche momento perfino commovente. Ha recuperato filmati rarissimi (tipo la tournée della Corale Rossini di Modena con un giovanissimo Luciano in Galles nel '55) e ha fatto parlare moltissima gente: i Due Tenori superstiti, la prima moglie Adua, sempre tosta, la seconda Nicoletta, le figlie, Bono, Mehta e così via. Madelyn Renée, sempre affascinante, racconta per la prima volta di essere stata qualcosa di più di una segretaria e allieva. E ci sono perfino inaspettate finezze, per esempio quando viene giustamente individuato in Errico Caruso il vero inventore di un tenorismo pop e «industriale» di cui Pavarotti fu il continuatore (passando per Beniamino Gigli). La colonna sonora è bellissima, ma lì aveva già provveduto Lucianone nostro. I peccati del film sono due. Il primo è di omissione. Forse perché sgraditi a qualcuno, non sono stati sentiti testimoni che su Pavarotti avrebbero avuto da raccontare molte più cose di altri. Per esempio, il maestro Leone Magiera, la figura più importante dell' intera vita musicale di Big Luciano, Mirella Freni, il cameriere-austista-badante Edwin Tinoco alias «Tino» (per il suo datore di lavoro), i superstiti amici della briscola. Il secondo peccato, più grave, è che il film è tipicamente americano, con l' aggravante che il regista non ha letto Gramsci (né Stendhal). Non sa, cioè, che il melodramma è stata la vera forma artistica nazionalpopolare italiana. Crede, magari pure in buona fede, che i Tre Tenori o i concerti nei parchi o il Pavarotti&Friends e l' altro pattume musicale abbiano davvero «divulgato» l' opera. Gli sfugge che la grandezza sociale e storica dell' opera in Italia è quella di essere sempre stata interclassista, insieme alta e bassa, aristocratica e popolare, sublime e baraccona. È in quel mondo che Pavarotti è nato, è cresciuto, si è formato. Di più: di quel mondo oggi perduto Pavarotti è stata la voce, una delle più grandi e forse, in questo senso, anche l' ultima. Era il mondo dove il figlio del fornaio di Modena pareva nato per cantare parole antiche e magari poco comprensibili e musiche egualmente antiche ma sempre modernissime. Allo stesso modo il figlio del «trombetta» di Pesaro diventava Rossini o quello dell' oste delle Roncole, Verdi, e sono nomi che ancora ci fanno tremare di emozione e gratitudine. Di questa grandezza, forse la maggiore della civiltà italiana, in questo bellissimo film non c' è traccia. E per questo è un bellissimo film sbagliato.

Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” il 19 ottobre 2019. Di certo a Ron Howard, regista premio Oscar per A Beautiful Mind e indimenticato Richie di Happy Days, non difetta la sincerità. Di più, il candore. Sul palco dell' Auditorium di Roma, dove è in Festa il suo Pavarotti, candidamente confessa che alle due interviste cardine del documentario lui non c' era. Un film a sua insaputa? Non scherziamo, eppure, a sentire il frontman degli U2 Bono Vox, che ricorda fuor di metafora come "il braccio di ferro emotivo" di Big Luciano ti lasciasse con l' arto spezzato, e la prima moglie Adua Veroni, che mastica amaro, Ron non c' era. Alla prima non ha partecipato "perché Bono lo conosce il produttore Nigel Sinclair, ci ha pensato lui" e/o per impegni concomitanti, alla seconda "perché non parlo italiano": forse è la giusta distanza poetica, chissà. Forse, non è - letteralmente - aria, ché di musica nella famiglia Howard se ne sentiva poca né lui collezionava dischi: vai a sapere, è al terzo doc musicale, dopo The Beatles: Eight Days a Week - The Touring Years (2016) e Made in America (2013) su Jay-Z. Comunque, i problemi del film, che la Festa pare accogliere più per catalizzare l' odierno incontro col pubblico di Howard che per indiscussi meriti artistici, sono talmente evidenti da sconfessare dietrologie: agiografico sempre, oleografico a tratti, nondimeno, riesce a rendere il celeberrimo tenore elusivo, sfuggente, meglio, insondabile. L'eterno sorriso incastonato da barba e capelli corvini come una maschera teatrale: chi c' è dietro? Qualche dubbio lo confessano gli stessi autori: "Ci siamo avvicinati all' uomo, ma qualcosa lo ha tenuto per sé", Sinclair; "Rimane ancora un' aura di mistero", Howard. Insomma, la domanda è la solita, chi era costui?, la risposta un "boh di petto", e trattandosi del re dei Do di petto - nove quelli messi in fila nella Fille du régiment di Donizetti - qualcosa non torna. La camera non affonda mai, cincischia, suggerisce, svicola: così nel "passaggio" da Adua alla seconda moglie Nicoletta Mantovani; così nel rapporto tra il tenore e la soprano Madelyn Renee; così nelle critiche dei puristi, e non solo quelli, per le contaminazioni lirica-rock e lirica-pop dei concerti Pavarotti & Friends. Il resto è missing: stornato al montaggio, come i fischi alla Scala per il Don Carlo del 7 dicembre 1992 di cui Luciano sportivamente ammise "due e mezzo, anzi tre" errori, o nemmeno contemplato, come il patteggiamento col fisco di 25 miliardi di lire in diretta tv del 28 luglio 2000. Ecco, se l' intenzione era di offrire un ritratto a tutto tondo, che peraltro gli sarebbe calzato a pennello, questi, ehm, dettagli avrebbero potuto giovare, avrebbero detto qualcosa di più, di meglio, di quegli "occhi da cui traspariva la gioia di vivere, ma anche il rimpianto, l' abbandono e una follia che poteva ferire". Pur from womb to tomb, dal grembo alla tomba, a questo viaggio manca se non qualche tappa tout court - dai Tre Tenori a Lady D, dai Friends alla beneficenza globale, ce n' è - qualche stazione di Via Crucis, di quel contadino che volle farsi tenore del popolo. Nessun dorma, cantava, eppure qualcuno dietro la macchina da presa dell' eponimo Pavarotti (dal 28 al 30 ottobre in sala) l'ha fatto, volente o - il condizionamento delle famiglie: Adua, con le figlie Lorenza, Alice e Giovanna, e Nicoletta - nolente. C'è però un momento da pelle d' oca: il Nessun dorma a Caracalla in occasione dei Mondiali di calcio del 1990. Con lui si unirono, la prima di un tour senza eguali, i colleghi Placido Domingo e José Carreras, e dinnanzi a un pubblico di un miliardo e quattrocentomila di persone entrarono nella leggenda. Era grande Pavarotti, ma chi era?

Pavarotti: «I viaggi di Luciano con trenta valigie piene di prosciutti e tortellini». Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 da Valerio Cappelli su Corriere.it. Nicoletta Mantovani e le figlie del grande tenore hanno fornito materiali preziosi per il documentario di Ron Howard. Le prime immagini sono in Amazzonia. Nel mezzo del nulla c’è un teatro. Era chiuso. Luciano Pavarotti arrivò senza preavviso, lo fece riaprire per un suo recital. «Voglio cantare dove Caruso si esibì 100 ’anni fa». Pavarotti di Ron Howard sarà il 18 ottobre alla Festa del cinema di Roma (nelle sale dal 28 al 30). «In USA ha sfiorato i 7 milioni di incassi, moltissimo per un documentario», racconta Nicoletta Mantovani, la moglie del tenore che ha vissuto «Larger than life». Ha venduto 90 milioni di cd per la Decca.«E’ un lavoro straordinario, con interviste e filmati inediti che ho dato sia io, con la Fondazione Pavarotti, che le tre figlie di Luciano», racconta Nicoletta nella casa museo che era «il nostro nido d’amore», dove Luciano spirò nel 2007. L’artista e l’uomo. «I viaggi con 30 valigie che contenevano il suo mondo, e tanto cibo, prosciutti interi, tortellini, parmigiano». Adua, la prima moglie, racconta gli inizi, «vivevamo come nella Bohème, c’era bisogno di denaro e non avevamo niente, guadagnavo io, i primi anni». Poi racconta: «Mi parlavano di tradimento e non ho mai voluto credervi. Mi giurava che non era vero. Capii che diceva il falso». «Il regista ha dato la possibilità a tutti quelli che l’hanno amato di parlare», spiega Nicoletta. Quando lo conobbe, studentessa in cerca di un lavoro estivo, aveva 23 anni, lui 34 in più. Parla di Luciano con la coscienza del dolore e con la strana serenità di qualcosa che è stato e non sarà più: «E’ un misto di sentimenti, la memoria di tutto il bello che c’è stato, gioie e dolori, poi scatta la malinconia». Il primo incontro, nella scuderia della casa museo. «Ero imbarazzatissima. Gli chiesi: le piacciono i cavalli? E lui: la prossima domanda sarà se mi piace cantare?». Dopo meno di un mese si dichiarò. «Eravamo incerti tutti e due». Un giorno partì. «Vieni con me?». No. «Allora vienimi a salutare e non ci rivedremo più». Nicoletta lo raggiunse: non scese più da quell’aereo. Cosa le manca? «I suoi abbracci che erano il mio rifugio il sorriso coinvolgente che trasmetteva gioia e forza. E gli occhi, che nostra figlia Alice ha preso». Alice ha 16 anni, «non sa cosa farà da grande ma non l’artista. Del padre ricorda quando vedevano i cartoni animati in tv e dipingeva tenendola in braccio». Nicoletta si accorse di essere malata di sclerosi appena sei mesi dopo che si erano messi insieme. Ora svela: «Dal bacino in giù non sentivo più niente, decidemmo di non dirlo a nessuno. Luciano mi disse: Fin qui ti ho amato. D’ora in poi ti adorerò. Vinceremo questa battaglia». Luciano le raccontò di quando ricevette l’estrema unzione a 12 anni, «aveva preso il tetano giocando a calcio a piedi nudi, la penicillina all’epoca era rara. Guarito, decise che non avrebbe sprecato un secondo di vita. Mi diceva, non andare a dormire se non hai imparato una cosa nuova». E’ vero che sognava di duettare con Mina? «Progettarono un Magnificat ma saltò». Nicoletta gli chiese: come vuoi essere ricordato? E lui: «Come artista, uno che ha portato la lirica alle masse; come uomo, forse non ho potuto essere il padre che volevo essere». Si commuove, è rimasta timida, ha un guizzo: «Aiutava i giovani in modo gratuito, diceva che la voce è un fiore selvaggio che può nascere ovunque». Quel modenese ruspante che amava la vita diventò il tenore del secolo, col dono di un timbro che stordiva nello squillo.

·         Bud Spencer.

I record in vasca (e al botteghino), Napoli celebra Bud Spencer. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 da Corriere.it. Carlo Pedersoli, il Bud Spencer del cinema, scomparso nel giugno 2016 è sempre vivo nel ricordo degli italiani e non solo. Si susseguono le iniziative che le città gli tributano insieme alle televisioni dove a ciclo continuo vengono programmati i film del grande «nuotattore». Per comprendere la sua celebrità — scelse quel nome d’arte pensando al suo attore preferito Spencer Tracy ed a una nota marca di birra americana – basti pensare che la città di Budapest gli ha reso omaggio con una statua ancor prima di Livorno, dove ha girato Bulldozer e Bomber, e che in Germania un comune del Baden Wuertemberg gli ha intitolato una piscina. Non poteva certo mancare un omaggio della sua città natale Napoli. La mostra che resterà aperta fino al 9 dicembre al Palazzo Reale è curata da Umberto Croppi che spiegando il criterio espositivo afferma di aver rappresentato la vera personalità di Bud che diceva sempre «di non sentirsi attore: è stato un campione sportivo, un pilota di aereo ed elicottero, ha fondato due aziende che producevano abbigliamento sportivo». Tra i tanti effetti personali del recordman italiano dei 100 metri stile libero, in grado di scendere sotto il limite del minuto e nazionale di pallanuoto, nella mostra spiccano gli accappatoi da nuotatore, le cuffie ed anche i caschi da pilota d’aereo (aveva fondato peraltro la compagnia Mistral Air). Nelle interviste era solito affermare che per lui i successi sportivi sono quelli che davvero contano, una ventina di titoli italiani nel nuoto, «perché tutto il resto che uno fa nella vita, è il pubblico che lo crea. Quando invece vinci nello sport è tutta roba tua». Tanta roba come tre partecipazioni alle Olimpiadi, chiude con le competizioni dopo Roma nel 1960, dove in vasca si divideva tra stile libero e pallanuoto, ma è così forte il ricordo del campione di sport e di vita tanto da indurre il comune di Fontevivo in provincia di Parma a dedicargli anche una via. E chissà che dopo la statua a grandezza naturale, alta un metro e 93 centimetri eretta sui piedoni di 47 di numero su cui pesa oltre un quintale per effetto dell’armatura di ferro, che Livorno gli ha dedicato, la prima in Italia in memoria di un nuotatore (a parte «Il nuotatore alla partenza» in bronzo di Aroldo Bellini allo Stadio dei Marmi di Roma), da non escludere che possano aggiungersene altre ancora. Per il momento c’è una mostra interattiva da visitare guidati dalla sua voce tra impianti multimediali, videomapping, proiezioni su pannelli, memorabilia e vari premi sportivi e artistici. Di certo alla mostra non mancherà il suo sodale artistico Terence Hill: farà bene a farlo «altrimenti lui si arrabbia» e come direbbero in Germania che gli ha pure dedicato un verbo ( sich budspenceren) lo picchia.

·         Lucio Battisti, un genio: oggi avrebbe 76 anni.

Roberto Mallò per davidemaggio.it il 12 dicembre 2019. Lo speciale su Lucio Battisti, andato in onda su Rai 1 nel corso della terza puntata di Una Storia da Cantare, non è proprio piaciuto ad Andrea Barbacane, il nipote del celebre cantautore. Il figlio di Albarita Battisti si è scagliato fortemente contro la trasmissione condotta da Enrico Ruggeri e Bianca Guaccero che, lo scorso 30 novembre, ha cercato di dare omaggio – a suo dire in maniera pessima – alla memoria dello zio. “Lo speciale di Raiuno dedicato a mio zio Lucio Battisti è stato un disastro. E’ stato reso un servizio pessimo da cantanti come Ruggeri, Morgan, Arisa, che hanno fatto morire zio Lucio per la seconda volta. Mi stupisce che Mogol fosse presente e li abbia ringraziati. Rispetto a Dieci ragazze cantata da Ruggeri sono molto meglio le canzoni dello Zecchino d’Oro“. Ha inveito, senza mezzi termini, Barbacane sulle pagine di Chi, non risparmiando critiche ai cantanti che hanno eseguito il repertorio di Lucio, né tanto meno a Mogol, autore di molte delle canzoni portate al successo dallo scomparso interprete. In uscita con il libro Quel gran genio di mio zio e quel che non è stato detto su Lucio Battisti, Andrea ha anche voluto smentire una serie di leggende metropolitane legate alla figura di Battisti: “Il Battisti politico non è mai esistito perché zio Lucio non votava neanche, lasciava a casa di nonno le cartoline elettorali. Il Battisti laziale nasce dalla fantasia dei tifosi suffragata da nonno Alfiero: l’unica volta che zio Lucio andò allo stadio fu una domenica pomeriggio, quando accompagnò mio padre a vedere la partita che avrebbe decretato lo scudetto della Lazio: era curioso dell’evento, non era tifoso”. Polemiche a parte, Barbacane ha inoltre espresso la sua felicità sulla caduta caduta dell’obbligo che imponeva la diffusione delle canzoni dello zio solo attraverso i vinili e le cassette: “Lucio Battisti è un patrimonio di tutti e non è proprietà di nessuno, nemmeno dei famigliari”.

Lucio Battisti, un genio: oggi avrebbe 76 anni. L'eredità di un artista che ha cambiato la storia della musica italiana senza ripetersi mai. Nel segno della bellezza..., scrive Gianni Poglio il 5 marzo 2019 su Panorama. L’artista non esiste, esiste solo la sua arte, l’artista non parla, non pontifica, non ha una vita mediatica, ma comunica esclusivamente attraverso lo strumento che gli è proprio: la canzone. Voleva essere soltanto un cantante Lucio Battisti, nient’altro. In realtà, è stato molto di più, un genio rivoluzionario e nazional popolare al tempo stesso. Sempre un passo avanti, fin dagli inizi, quando con una manciata di hit ha mandato in frantumi il mito del bel canto italico imponendo al centro della musica le emozioni, i brividi, l’intensità. Non sono l’intonazione o la tecnica vocale a fare la differenza, ma l’interpretazione che tocca l’animo di chi ascolta. In questa direzione andavano senza esitazioni la sua musica e le parole di Mogol. Un punto di riferimento per tutti quelli che sono venuti dopo: da Rino Gaetano a Vasco Rossi, fino al più recente Calcutta. Battisti (nato il 5 marzo 1943) non era un interprete, ma un musicista colto e raffinatissimo, un conoscitore straordinario e curioso dei suoni del mondo. E proprio per questo, mai uguale a se stesso. Le sue composizioni erano figlie di ore ed ore di ascolti e di illuminati esperimenti in sala d’incisione, dove Lucio diventava il regista della bellezza in musica. Bellezza che ha attraversato tutta la sua produzione e non soltanto quelle quindici-venti canzoni scolpite per sempre nella memoria collettiva. Battisti è stato Emozioni e Sì, Viaggiare, ma anche molto altro. A vent’anni dalla sua morte, cogliere fino in fondo l’arte e il genio di Lucio significa immergersi senza remore nella sua discografia per riscoprire un capolavoro assoluto come Anima Latina, forse il miglior disco italiano di sempre: un volo pindarico e senza rete, la fusione perfetta tra l’attitudine musicale del Sud America e il progressive rock anglosassone, con la voce di Battisti immersa in un mare di suoni e canzoni prive di ritornelli facili ed immediati. Tredici settimane consecutive al primo posto in classifica fu la risposta del pubblico. Era il 1974. Ha sempre volato alto e senza confini Lucio Battisti, disegnando una traiettoria artistica tutta sua, senza concessioni alle mode, ma cavalcando sempre con largo anticipo i suoni e le tendenze. Lo ha fatto alla vigilia degli anni Ottanta con Una donna per amico e Una giornata Uggiosa e poi ancora nella produzione successiva alla fine del sodalizio con Mogol. Prima con E già (1982) e poi nei “cinque album bianchi”. L’ultima rivoluzione, quella definitiva (i testi erano opera del poeta Pasquale Panella) in cui l’artista cambia radicalmente pelle e si trasforma in avanguardia destrutturando se stesso, la sua musica e il modo di interpretare, disorientando l’ascoltatore come mai nessun artista italiano aveva osato fare fino ad allora. Niente è più come prima: di Battisti restano la voce e la forza evocativa di armonie magiche quanto inafferrabili. L’ultimo atto di un genio che non si è mai voltato indietro perché sapeva solo andare avanti…

Il genio di Lucio Battisti come i Beatles: così rivoluzionò la musica in Italia. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 da Corriere.it. L’Ufo Lucio Battisti atterra su Spotify. Il grande recluso della musica italiana — l’uomo che un giorno decise di scomparire per farsi pura voce — e che da morto ha perpetuato la sua assenza grazie alla gelosa gestione della sua opera da parte dei suoi eredi, ha finalmente iniziato a surfare (adorava farlo) sulle onde dello streaming, e potrà così provare alla Generazione Y di essere uno dei due fuochi — insieme a De André — dell’ellissi in cui è inscritta tutta la nostra musica pop. In effetti, De André e Battisti sono l’alfa e l’omega della canzone italiana; rispettivamente il poeta e il musicista, l’intellettuale e il bon sauvage. De André era dotato di un timbro profondo, grave, quasi solenne; la voce di Battisti era sottile come una lama di ghiaccio, traballante, modernissima. Quasi mai De André ha composto la musica delle proprie canzoni, la cui forza sono i suoi celebratissimi testi; Battisti, al contrario, è il geloso autore di ogni singola sua nota, lasciando ad altri il compito di rivestirle di parole. De André inizia a fare concerti nel 1975, quattordici anni dopo avere inciso il suo primo singolo; Battisti smette di farli nel 1970, quattro anni dopo il suo debutto discografico: «Che ozio nella tournée / di mai più tornare / nell’intronata routine / per cantar leggero / l’amore sul serio» intonava — chissà da quale iperuranio — in «Don Giovanni» nel 1986, ovvero sedici anni dopo aver detto basta, appunto, alle tournée e a sei dalla decisione di abbandonare definitivamente il nostro pianeta per iniziare una personalissima cosmonautica nel Regno dell’Assenza. Il testo di «Don Giovanni» è di Pasquale Panella, ovvero dell’ultimo ad avere assolto il compito di riempire di parole le armonie dell’equivalente italiano dei Beatles per genio creativo, successo commerciale, importanza nella formazione non solo musicale di un ormai consistente numero di generazioni: a questo punto — prevedibilmente — anche la prossima. Ma sono versi che più autobiografici non si può. Sì, perché, esattamente quarant’anni fa, nel 1979, Battisti annunciava: «Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte».Chiunque abbia vissuto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso con la vaga percezione di cosa sia la cultura pop, potrà testimoniare il senso di disagio che provocava il solo evocare quel nome: Lucio Battisti. La sua assenza era tangibile: e poteva essere inquietante pensare che in quel preciso momento, da qualche parte Lucio Battisti esisteva davvero. Più lui e la sua musica diventavano eterei, fino all’impalpabilità, più il peso della sua necessità diventava insopportabile. Battisti ha di fatto inventato il beat italiano, fondato la nostra psichedelia e trovato il modo di mescolare con esiti stupefacenti il soul e l’r&b a stelle e strisce con la melodia italiana, grazie anche alla collaborazione con Mogol, l’autore di tutti i suoi testi dagli esordi fino al divorzio, avvenuto nel 1980. Mogol troverà altri interpreti a cui affidare testi sempre più triti e banali. Battisti, invece, scompare. Lo vedono a Roma, a Rimini, nelle piazze degli autogrill, a fare windsurf sul Garda, ma è come se non ci fosse. Lo scovano davanti a un supermercato ma lui si nega e insolentisce i disturbatori. Lo fotografano mentre sta lavorando in villa, con la vestaglia da prepensionato, cuffia in testa e metro da falegname in mano, ma in genere per riprenderlo ci vuole il teleobiettivo. Nei dorati anni Ottanta dove conta più apparire che essere, e il look è più importante della sostanza, Battisti diventa il Fantasma nella Macchina. La sua distanza è un gesto estetico protratto oltre ogni misura. Nel 1982 esce «E già» ed è uno choc: mancano i testi di Mogol; ma soprattutto mancano gli strumenti: al loro posto le programmazioni elettroniche. Passano quattro anni di silenzio assoluto, interrotti nel 1986 da «Don Giovanni», primo dei cinque dischi realizzati con Pasquale Panella come compositore dei testi. «E tu dici ancora che non parlo d’amore: / batte in me un limone giallo, / basta spremerlo. / Con lacrime salate agli occhi tuoi / ben condita amata t’ho». Roba inaudita. Di una grande voce si dice che saprebbe cantare anche l’elenco del telefono? Detto fatto. Il Nostro non si limita a rompere con il passato, in tutti i sensi, ma letteralmente comincia a reinventare un modo di scrivere, libero dalle forme classiche. Si racconta che gli appuntamenti con Panella se li dava su una panchina di un giardinetto a Cinecittà: in mezzo a mamme e bambini, il più grande autore di canzoni popolari di questo Paese e il suo paroliere confabulavano senza che nessuno sospettasse niente. Quando nel 1998 Battisti muore a soli 55 anni, la nostra musica diventa meno colorata e più triste.

21 anni senza Lucio Battisti, un genio mai uguale a se stesso. L'eredità di un artista che ha cambiato la storia della musica italiana senza ripetersi mai. Nel segno della bellezza...Gianni Poglio il 9 settembre 2019 su Panorama. L’artista non esiste, esiste solo la sua arte, l’artista non parla, non pontifica, non ha una vita mediatica, ma comunica esclusivamente attraverso lo strumento che gli è proprio: la canzone. Voleva essere soltanto un cantante Lucio Battisti, nient’altro. In realtà, è stato molto di più, un genio rivoluzionario e nazional popolare al tempo stesso. Sempre un passo avanti, fin dagli inizi, quando con una manciata di hit ha mandato in frantumi il mito del bel canto italico imponendo al centro della musica le emozioni, i brividi, l’intensità. Non sono l’intonazione o la tecnica vocale a fare la differenza, ma l’interpretazione che tocca l’animo di chi ascolta. In questa direzione andavano senza esitazioni la sua musica e le parole di Mogol. Un punto di riferimento per tutti quelli che sono venuti dopo: da Rino Gaetano a Vasco Rossi, fino al più recente Calcutta. Battisti (nato il 5 marzo 1943) non era un interprete, ma un musicista colto e raffinatissimo, un conoscitore straordinario e curioso dei suoni del mondo. E proprio per questo, mai uguale a se stesso. Le sue composizioni erano figlie di ore ed ore di ascolti e di illuminati esperimenti in sala d’incisione, dove Lucio diventava il regista della bellezza in musica. Bellezza che ha attraversato tutta la sua produzione e non soltanto quelle quindici-venti canzoni scolpite per sempre nella memoria collettiva. Battisti è stato Emozioni e Sì, Viaggiare, ma anche molto altro. A vent’anni dalla sua morte, cogliere fino in fondo l’arte e il genio di Lucio significa immergersi senza remore nella sua discografia per riscoprire un capolavoro assoluto come Anima Latina, forse il miglior disco italiano di sempre: un volo pindarico e senza rete, la fusione perfetta tra l’attitudine musicale del Sud America e il progressive rock anglosassone, con la voce di Battisti immersa in un mare di suoni e canzoni prive di ritornelli facili ed immediati. Tredici settimane consecutive al primo posto in classifica fu la risposta del pubblico. Era il 1974. Ha sempre volato alto e senza confini Lucio Battisti, disegnando una traiettoria artistica tutta sua, senza concessioni alle mode, ma cavalcando sempre con largo anticipo i suoni e le tendenze. Lo ha fatto alla vigilia degli anni Ottanta con Una donna per amico e Una giornata Uggiosa e poi ancora nella produzione successiva alla fine del sodalizio con Mogol. Prima con E già (1982) e poi nei “cinque album bianchi”. L’ultima rivoluzione, quella definitiva (i testi erano opera del poeta Pasquale Panella) in cui l’artista cambia radicalmente pelle e si trasforma in avanguardia destrutturando se stesso, la sua musica e il modo di interpretare, disorientando l’ascoltatore come mai nessun artista italiano aveva osato fare fino ad allora. Niente è più come prima: di Battisti restano la voce e la forza evocativa di armonie magiche quanto inafferrabili. L’ultimo atto di un genio che non si è mai voltato indietro perché sapeva solo andare avanti…

Lucio Battisti: le 20 canzoni indimenticabili. Il grande cantante di Poggio Bustone, morto il 9 settembre 1998, ha dato vita con Mogol ad alcune delle più importanti pagine della nostra musica. Il 27 settembre esce il cofanetto "Masters 2". Gabriele Antonucci il 9 settembre 2019 su Panorama. «Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l'immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L'artista non esiste. Esiste la sua arte. » Parola di Lucio Battisti, nato il 5 marzo 1943 a Poggio Bustone, un giorno dopo Lucio Dalla. Ognuno di noi, anche il più restio alla musica italiana, ha almeno un vivido ricordo legato a una canzone del tandem Lucio Battisti-Mogol, che ha dato vita ad alcune delle più importanti pagine della nostra cultura popolare. Canzoni senza tempo, che sono ancora un approdo sicuro per chi cerca musica di qualità, in grado di attraversare i decenni senza perdere nulla della loro freschezza e della loro ispirazione. Impossibile non rimanere coinvolti dalla sua voce emozionante, ricca di anima e inimitabile di Lucio, che ha portato una ventata di novità nella canzone d'autore italiana, grazie a un'anima soul tipicamente americana. Lucio ha attraversato i generi, interpretato i suoi tempi, anticipato tendenze e movimenti, dialogato in silenzio con il suo pubblico, mettendo al centro della sua carriera i dischi in studio e preservando sempre la sua integrità artistica con poche interviste e pochissimi concerti. Battisti ha esplorato tutte le possibilità della forma-canzone, innestando melodie italiane sopra il funk/soul americano, inglobando rock, blues, folk, prog e disco-music, fino a giungere a un pop elettronico e colto, unico nel suo genere, che tanto ha ispirato Battiato e, per arrivare ai giorni nostri, Cosmo. Lucio è morto prematuramente il 9 settembre del 1998, ventuno anni fa, all'ospedale San Paolo di Milano, gettando nello sgomento milioni di fan.

Il cofanetto "Masters - Vol.2". La Sony ha annunciato, a due anni dal successo di “Masters”, l'uscita per il 27 settembre di “Masters – Vol.2” di Lucio Battisti, la seconda raccolta, targata Sony Music, contenente 48 brani estratti direttamente dai nastri analogici originali restaurati e rimasterizzati a 24bit/192KHZ, la migliore definizione attualmente possibile. Il cofanetto sarà disponibile in 3 LP o 4 Cd, quest'ultimo corredato da un booklet di 40 pagine con foto e interviste a Renzo Arbore, Alessandro Colombini, Franz Di Cioccio, Alberto Radius, Mario Lavezzi, Phil Palmer, Mara Maionchi e Gaetano Ria. Si completa, così, il lavoro di restauro e rimasterizzazione dell’opera “Battisti come non lo hai mai ascoltato”. In attesa di ascoltarlo anche sul nostro smartphone o tablet.

Un nuovo libro sulla sua vita e sulla sua musica. Da non perdere, per i fan dell'artista di Poggio Bustone, il libro Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana del giornalista e scrittore Donato Zoppo (Hoepli, 218 pp, 17,90). Con un taglio coinvolgente e appassionato, questo volume narra l’intera storia di Battisti, dalla fine degli anni ’60 alla sua scomparsa nel 1998, arricchita da interviste e testimonianze di chi ha conosciuto ed è stato vicino all’artista. Donato Zoppo racconta come la musica di Battisti e le parole di Mogol abbiano accompagnato la vita privata degli italiani , diventando la colonna sonora dell’educazione sentimentale di un popolo, con un occhio di riguardo alle motivazioni che lo hanno portato a certe scelte, all'importanza delle sue innovazioni, ai misteri e ai segreti di una personalità complessa e imprevedibile, ancora oggi amatissima. Il libro esplora meritevolmente anche la fase ermetica in cui, attraverso i testi di Pasquale Panella, Battisti si è rivelato un artista inquieto, riservato e sfuggente. Un uomo enigmatico che ha lasciato parlare la sua opera, tenendo pochissimi concerti, rifiutando interviste e apparizioni televisive. Il volume è arricchito da box di approfondimento, materiale fotografico, citazioni e curiosità. Un lavoro imprescindibile sul genio della musica italiana che per la prima volta ha portato in sala di registrazione passione, gioie, inquietudini e paure di un intero popolo.

Il paradosso di Battisti. Il paradosso di Battisti è quello di essere forse il cantautore più amato in Italia ma, al tempo stesso, quello più "invisibile" non solo a livello discografico (soprattutto se paragonato ad altri importanti artisti italiani, i cui cd affollano gli scaffali dei mediastore) ma soprattutto in ambito digitale, fondamentale nel 2019. Le sue canzoni non sono in vendita su iTunes, non si possono ascoltare su Spotify se non attraverso le raccolte in cui sono presenti, su YouTube sono caricati solo video non ufficiali di pessima qualità. Il brand Battisti non può essere utilizzato per un festival o per una fondazione a lui intitolata, per non parlare di spot pubblicitari e colonne sonore di film con le sue canzoni, a causa della ben nota ritrosia di Grazia Letizia Veronese, vedova di Lucio Battisti e comproprietaria dell'Acqua Azzurra edizioni musicali, notoriamente poco propensa a concedere il riutilizzo delle canzoni del marito. Ritrosia che, è bene sottolineare, è probabilmente anche frutto delle ultime volontà del cantante, che negli ultimi anni di carriera si è tenuto scientemente lontano dal clamore dei media e dalle luci della ribalta, sulla scia di Mina, lasciando parlare i suoi dischi, anche quelli più ermetici realizzati insieme al paroliere Pasquale Panella. Gaetano Presti, il liquidatore della società «Edizioni Musicali Acqua Azzurra» che detiene i diritti dei 12 album storici Battisti-Mogol, nominato dal Tribunale di Milano, ha formalmente comunicato alla Siae martedì l’estensione del mandato anche all’incasso dei diritti sul web. Ciò significa che a breve quelle canzoni indimenticabili potrebbero essere disponibili sulle piattaforme streaming come Spotify, Apple Music, Google Music, Deezer e Tidal, i cui ricavi sostengono metà del mercato discografico mondiale. Su Youtube si trovano solo alcuni video di bassa qualità del genio di Poggio Bustone, mentre su Spotify si trova un Lucio Battisti che, però, non è "IL" Lucio che tutti conosciamo, ma anonimi esecutori di cover, che comunque raccolgono milioni di stream. Per celebrare il 21esimo anniversario dalla scomparsa del grande artista, vi proponiamo qui una playlist delle 20 canzoni fondamentali di Battisti, quelle che tutti dovrebbero conoscere, dai grandi successi con Mogol fino alle sperimentazioni di Anima Latina e del periodo dei "dischi bianchi" con Panella, consapevoli che sono soltanto una piccola parte dell'eredità che ci ha lasciato. 

1) Il mio canto libero (1972) "In un mondo che/Non ci vuole più/Il mio canto libero sei tu/E l'immensità/Si apre intorno a noi/Al di là del limite degli occhi tuoi"

2) I giardini di marzo (1972) "I giardini di marzo si vestono di nuovi colori/E le giovani donne in quel mese vivono nuovi amori/Camminavi al mio fianco ad un tratto dicesti: "tu muori"/Se mi aiuti son certa che io ne verrò fuori".

3) Ancora tu (1976) "Ancora tu non mi sorprende lo sai/Ancora tu ma non dovevamo vederci più/E come stai, domanda inutile/Stai come me e ci scappa da ridere".

4) Amarsi un po’ (1977) "Amarsi un po' è un po' fiorire/Aiuta sai a non morire/Senza nascondersi/Manifestandosi/Si può eludere la solitudine".

5) Mi ritorni in mente (1970) "Mi ritorni in mente/Bella come sei, forse ancor di più/Mi ritorni in mente/Dolce come mai, come non sei tu".

6) Acqua azzurra acqua chiara (1969) "Sono le quattro e mezza ormai/Non ho voglia di dormir/A quest'ora, cosa vuoi?/Mi va bene pure lei/Ma da quando ci sei tu tutto questo non c'è più".

7) Emozioni (1970) "E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere/Se poi è tanto difficile morire/E stringere le mani per fermare/Qualcosa che è dentro me".

8) Non è Francesca (1969) "Ti stai sbagliando chi hai visto non è/non è Francesca/Lei è sempre a casa che aspetta me/non è' Francesca/Se c'era un uomo poi,no, non può essere lei".

9) Un’avventura (1969) "No, non sarà un' avventura/Un'avventura non è un fuoco che col vento può morire/ ma vivrà".

10) La canzone del sole (1972) "Ma ti ricordi l'acqua verde e noi/Le rocce e il bianco in fondo/Di che colore sono gli occhi tuoi?/Se me lo chiedi non rispondo".

11) E penso a te (1972) "Sono al buio e penso a te/Chiudo gli occhi e penso a te/Io non dormo e penso a te..."

12) Io vorrei…non vorrei…ma se vuoi (1972) "Dove vai quando poi resti sola/senza ali tu lo sai non si vola/Io quel dì mi trovai per esempio/ quasi sperso in quel letto così ampio".

13) La collina dei ciliegi (1973) "E respirando brezze che dilagano su terre/senza limiti e confini/ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini".

14) Pensieri e parole (1971) "Che ne sai tu di un campo di grano/poesia di un amore profano/la paura d'esser preso per mano, che ne sai".

15) Con il nastro rosa (1980) "Chissà, chissà chi sei/Chissà che sarai/Chissà che sarà di noi/Lo scopriremo solo vivendo".

16) Anima Latina (1974) "Quando musica e miseria/ diventan cosa sola/ La gioia della vita/ La vita dentro agli occhi dei bambini denutriti/ allegramente malvestiti /che nessun detersivo potente può aver veramente sbiaditi".

17) Neanche un minuto di non amore (1977) "Il traffico che corre / la gente nei caffè / la mente mia che scorre / e indaga su di te / le ultime espressioni / le pause fra di noi / le minime emozioni /i gesti, gli occhi tuoi".

18) Due Mondi (1974) "E' una vela la mia mente / prua verso l'altra gente / vento, magica corrente / quanto amore! / Voglio te, una vita/ Far l'amore nelle vigne".

19) Fatti un pianto (1986) "Da un chilo di affetti un etto di marmellata/ Se sbatti un addio c'esce un'omelette / Le cosce dorate van fritte / Coi sorrisi fai croquettes / E tu dici ancora che non parlo d'amore / Batte in me un limone giallo basta spremerlo".

20) La sposa occidentale (1990) "Se tu ti vesti, io sul tuo balcone/ faccio calare in forma d'indumenti, tutti i paracaduti ed un tendone bianco da sceicco/ e la sua scimitarra per fermaglio /ed è più facile a dirsi che a dimostrarlo falso/ e infatti te lo dico perché non basta il pensiero".

ACQUA AZZURRA, ACQUA CHIARA: “CHE BRANO DELLA MADONNA”! Paolo Giordano per “il Giornale” il 14 agosto 2019. E invece no. Di solito i tormentoni sono passerelle di slogan divertenti, sensuali o surreali e, per carità, di riflessioni profonde neppure l'ombra perché d' estate si cerca Despacito mica La locomotiva di Guccini. Ma Battisti è Battisti e Mogol lo conosciamo tutti. Maestri. Acqua azzurra acqua chiara è stato forse il primo clamoroso successo estivo ad avere un pensiero profondo. E ad andare controcorrente. Tanto per capirci, è uscito 50 anni fa esatti, a marzo del 1969, e nessuno avrebbe previsto che sarebbe arrivato terzo al Cantagiro e addirittura primo al Festivalbar con la bellezza (allora) di quasi 344mila preferenze, staccando i Camaleonti di 50mila voti. In pratica, il vero successo di un' estate nella quale le monetine dei juke-box innescavano brani di pronta presa come Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto o esibizioni di furore polmonare come Rose rosse di Massimo Ranieri. Lucio Battisti, che si era appena esibito per la prima e ultima volta al Festival di Sanremo con Un' avventura di fianco alla leggenda Wilson Pickett, era il contrario. La voce scontentava sia gli amanti del belcanto alla Claudio Villa sia chi cercava i toni beat più liquidi e inglesofili. Dopo la sua esibizione all' Ariston, Natalia Aspesi, che allora scriveva sul Giorno, si riferì senza giri di parole a «chiodi che gli stridono in gola» e il grande Paolo Panelli lo paragonò a Pierino Porcospino per la sua zazzera nerissima e tonda come un corista della Motown. Insomma, non era un sex symbol, non era un barricadero, non faceva il piacione, anzi. Come sempre accade, il pubblico sa riconoscere. «Ogni notte ritornar, per cercarla in qualche bar, domandare Ciao, che fai?, e poi uscire insieme a lei. Ma da quando ci sei tu, tutto questo non c' è più». Jim Morrison dei Doors era stato arrestato venti giorni prima per (supposti) atti osceni in luogo pubblico. A Woodstock proprio in quei giorni estivi si celebrava (anche) il sesso libero e Acqua Azzurra acqua chiara celebrava la svolta di un uomo libertino che passava la vita cercando l' amore di notte nei bar, l' amore libero, disimpegnato e che finalmente aveva trovato l' amore. L' acqua azzurra e chiara, usata come anafora dall'inarrivabile Mogol, non è soltanto un' immagine religiosa perché «con le mani posso finalmente bere» richiama direttamente una conversione o, quantomeno, un drastico cambiamento di valori. Ma si contrappone, soprattutto, alla torbidità sessuale che faceva scalpore in quel periodo. E versi come «nei tuoi occhi innocenti posso ancora ritrovare il profumo di un amore puro» non sono soltanto l' entusiasta dichiarazione d' amore nell' euforia dei primi giorni infuocati. Sono piuttosto i caposaldi di un convinzione etica che Battisti ha rispettato nella propria vita e che in quel momento era fortissima nella maggioranza silenziosa, quella ignorata dai giornali, quella che non scendeva in piazza, che non manifestava contro l' idea stantìa di famiglia. Tu chiamali, se vuoi, tormentoni. Neanche Battisti e Mogol si immaginavano un tale successo, e difatti loro avrebbero preferito presentare come singolo il lato B di quel 45 giri, ossia Dieci ragazze, molto più in linea anche con il sentimento diffuso che sembrava dominante tra i giovani. Fu Renzo Arbore, prima di ospitare Battisti nel suo Speciale per voi, a consigliare di puntare su Acqua azzurra, acqua chiara, perché la musica e il testo erano controcorrente eppure sorprendenti e piacevoli. Delle parole, si sa: tutti le abbiamo canticchiate almeno una volta e il titolo della canzone è entrato pure nel linguaggio giornalistico al punto che articoli su sorgenti di montagna o su fonti inquinate, tac!, da mezzo secolo citano immancabilmente l' acqua azzurra e chiara del tormentone meno tormentone di sempre. Come accadde pochi mesi dopo al Festival di Sanremo con Chi non lavora non fa l' amore di Adriano Celentano, il sentimento popolare aveva adottato slogan in controtendenza rispetto a quello che oggi si definirebbe il «claim» del periodo. Battisti e Mogol avevano scritto le parole e la musica di Acqua azzurra nella villa di Torre Squillace sulla costiera salentina che Mogol frequentava in quel periodo. Era il luogo giusto dove mettersi tra parentesi mentre il mondo ribolliva e cambiava con una velocità allora imprevedibile (oggi sembra lenta, ma è un' altra storia). Il 1969 non è soltanto l' anno in cui l' uomo sbarca due volte sulla Luna perché il 19 novembre Charles Conrad diventa il terzo essere vivente a passeggiare sul satellite. È anche l' anno di Gianni Rivera che vince il Pallone d' oro e di Mariano Rumor che giura ad agosto per il suo nuovo governo, ovviamente balneare. Mezzo secolo dopo, ci sono ancora gli stessi tormenti governativi ma i tormentoni hanno senza dubbio minor impatto sociale. Il tempo cambia, gli uomini no. Forse Acqua azzurra acqua chiara è stato il primo passo per creare la leggenda di Lucio Battisti come uomo di destra, leggenda che negli anni Settanta e Ottanta ha realmente polarizzato la musica italiana. In quell' epoca, il non prendere posizione equivaleva a schierarsi dall' altra parte, ossia a destra. E Lucio Battisti con Mogol ha sempre sublimato le storie personali, il sentimento intimo di chi attraversa dolori, crisi, gioie, tenendosi rigorosamente distante dalla politica persino in un anno come il 1969 nel quale, ad esempio, Samuel Beckett vinceva il Premio Nobel per la Letteratura e le cronache parlavano della battaglia di Hamburger Hill in Vietnam, con i corpi dei marines accatastati a più strati come il tipico panino americano. Lucio Battisti, impacciatissimo quando appariva sullo schermo in bianco e nero, era il controcanto. Mogol racconta che «lui se ne stava in pigiama ad ascoltare dischi per otto ore al giorno». E difatti in Acqua Azzurra c' è il sofisticato «call and response» tipico del rhythm' n'blues, il dialogo tra voce e sezione fiati che allora ben pochi conoscevano qui da noi. Non a caso, Franz Di Cioccio della Pfm, che ha suonato la batteria, ha definito Acqua azzurra acqua chiara «un brano della madonna». Ma non solo. È stata la consacrazione al grande pubblico del talento più puro, selvaggio e sfortunato della nostra canzone d' autore, uno dei pochi che tra un secolo sembrerà ancora attuale.

·         Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa.

Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa. Il prete che combatteva il totalitarismo della camorra fu ucciso dai clan e calunniato sui giornali locali. Oggi che avrebbe detto la Rete? Scrive Roberto Saviano il 14 marzo 2019 su L’Espresso. Sono del 1979. Nella terra in cui sono nato e cresciuto, dalla mia nascita, sono morte centinaia di persone in faide di camorra. I clan vivono in guerra, gli affiliati non conoscono altro modo di stare al mondo perché ritengono che se mostri di avere fiducia verrai tradito, che se perdoni verrai punito, che se non uccidi verrai ucciso. Da bambino avevo sviluppato una sorta di fascinazione quasi morbosa per i cadaveri che venivano mostrati nei tg regionali o che vedevo, coperti da lenzuola, in prima pagina sui quotidiani locali. C’erano bossoli contrassegnati da numeri, chiazze di sangue coperte da segatura e persone disperate: perché nella morte poco importa da che parte stai. La morte è morte. La morte è la fine della presenza, della speranza di cambiamento. È la fine di ogni cosa. Ecco perché dare la morte, per le organizzazioni criminali, significa celebrare un rito, un rito che non deve ristabilire ordine o pacificare, ma restare come monito. Ed ecco perché la simbologia, nella morte, diventa fondamentale: i simboli sono come slogan, frasi semplici, immediate, parlano a tutti e per molto, moltissimo tempo. Il mio rapporto con la morte cambia repentinamente dopo l’omicidio di don Peppe Diana. Era il parroco di Casal di Principe, feudo del clan dei casalesi. La sua morte ha cambiato molte vite e anche, profondamente, la mia. Era un prete, quindi era il padre della sua comunità e si chiamava Giuseppe, ecco perché il clan dei casalesi decide di ucciderlo il 19 marzo, nel giorno del suo onomastico e della festa del papà, tingendo di nero un giorno che ogni anno riapre in molte persone una ferita dolorosa che non riesce mai a rimarginarsi. E difatti sono passati 25 anni dalla morte di don Peppe e io sono qui, come ogni anno, a parlarne; come se il suo omicidio appartenesse a un momento ancora vicinissimo a noi nel tempo. E questo accade perché chiunque abbia incrociato la storia di don Peppe, il 19 marzo, qualunque 19 marzo, non potrà ignorare ciò che gli hanno fatto e ciò che hanno fatto alla nostra terra. Don Diana aveva scritto un trattato dal titolo “Per Amore del mio Popolo non tacerò” e l’aveva distribuito in tutte le chiese della diocesi e dei paesi circostanti. Aveva scritto che non viviamo in una vera democrazia, ma sotto il totalitarismo della camorra: in un mondo in cui i figli, presto o tardi, diventano vittime o mandanti della criminalità organizzata; un mondo in cui i camorristi dettano le loro regole con le armi. Aveva 35 anni quando gli hanno sparato in faccia e a me la notizia della sua morte è arrivata già inquinata. «Don Peppe Diana è stato assassinato, chissà perché?». Già soltanto questo commento, “Chissà perché?”, apriva un mondo. Un mondo che sapeva di sospetto. Per diversi anni si mormorò che avesse avuto atteggiamenti disinvolti con le ragazze che frequentavano gli scout. Sulle testate locali si diede spazio alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e quindi, in prima pagina, fu possibile leggere titoli come questi: “Don Peppe Diana era un camorrista”, “Don Diana a letto con due donne”. Inoltre c’era una foto dove lo si vedeva con il braccio intorno alle spalle di due ragazze scout. La memoria di chi viene ammazzato viene immediatamente lordata dal sospetto. Per un omicidio come quello di don Peppe Diana ci si sarebbe aspettati una presa di coscienza nazionale che non ci fu, perché i dubbi sulle circostanze della sua morte furono più efficaci della tragedia. Questa sembra una storia lontana anche se ancora a distanza di 25 anni ci fa stare male, ma io mi interrogo ogni volta su come reagirebbe oggi l’opinione pubblica di fronte a un evento come la morte di un prete anticamorra. Di fronte alla morte di don Peppe Diana. Come reagirebbe al senso di colpa per aver lasciato solo un padre amorevole che aveva a cuore il destino delle persone tra cui era nato, cresciuto e con cui ogni giorno aveva a che fare? Come reagirebbe oggi il web alle dichiarazioni dei pentiti che la stampa locale ha usato per i titoli di prima pagina? Cosa ne sarebbe, su Facebook, dei “Don Peppe Diana era un camorrista”, dei “Don Diana a letto con due donne” e delle foto di don Peppe abbracciato alle persone a cui voleva bene? Immaginare questa reazione mi fa paura, più paura della morte stessa.

·         Andreotti, Donat Cattin, Moro: altro che capitani!

Andreotti, Donat Cattin, Moro: altro che capitani! Il centenario di grandi personaggi del mondo della politica. Se leggi le loro biografie, capisci subito la differenza tra un vero leader e un narcisista, scrive Francesco Damato il 17 Marzo 2019 su Il Dubbio.  A cento anni dalla nascita due campioni della Dc fra i più diversi, se non opposti, Giulio Andreotti e Carlo Donat- Cattin, si sono ritrovati nelle celebrazioni che ne hanno fatto al Senato, a poche settimane di distanza, storici e amici che li hanno studiati e frequentati. E li hanno ricordati con una nostalgia ben comprensibile, vista la qualità, francamente, di molti dei loro successori a livello partitico e di governo, come ha osservato il senatore ed ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, democristiano doc. I due coetanei ritrovati nel rimpianto dei colleghi di partito, ma forse anche al di fuori di quella che fu la Dc, sono peraltro accomunati da passaggi drammatici della loro lunga esperienza politica. A ricordare i quali viene un po’ la pelle d’oca. Ad Andreotti capitò, dopo essere stato sette volte presidente del Consiglio e ancora più volte ministro in postazioni anche delicatissime come quelle della Difesa e degli Esteri, di essere processato per omicidio e per mafia. E di uscirne assolto, per fortuna prima di morire, anche se sull’assoluzione per mafia il suo accanito accusatore, l’allora capo della Procura di Palermo Gian Carlo Caselli, gli rimprovera ancora una prescrizione parziale: quella riferita ai fatti, agli incontri, alle frequentazioni precedenti la primavera del 1980. Che la Corte d’Appello ritenne accertati, in riferimento al reato di associazione a delinquere, con argomentazioni e deduzioni ritenute però nella sentenza definitiva della Cassazione ragionevoli quanto quelle di segno opposto: cosa che gli avvocati difensori di Andreotti ricordano giustamente ogni volta che al loro defunto cliente viene contestata dai suoi irriducibili avversari l’assoluzione. Ma prima ancora di essere processato, ad Andreotti era capitato drammaticamente di gestire alla guida del governo nel 1978 la tragedia costituita dal sequestro di Aldo Moro. Che le brigate rosse rapirono fra il sangue della sua scorta, sterminata come in una macelleria – parola di una terrorista partecipe dell’operazione – a poche centinaia di metri da casa, per ucciderlo dopo 55 giorni di prigionia e di tentativi più o meno sinceri di trattarne il rilascio. A Carlo Donat-Cattin, che visse quella tragedia con l’angoscia di un amico appena salvato proprio da Moro come ministro dell’Industria a conclusione di una crisi di governo in cui aveva rischiato di non essere confermato per un veto posto dai comunisti, partecipi della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, sarebbe capitata due anni dopo la tragedia di scoprirsi padre di un terrorista. E questo proprio a lui che come ministro del Lavoro, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, con l’esperienza abbinata di sindacalista e di politico, aveva saputo spegnere i fuochi sociali nei quali covavano già le prime tentazioni della lotta armata. La vicenda del figlio terrorista, per la quale l’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga rischiò il processo davanti alla Corte Costituzionale sotto l’accusa di avere aiutato l’imputato a scampare allora all’arresto, spezzò il cuore a Carlo Donat-Cattin. Che sarebbe stato colto dal primo infarto accompagnando la moglie dopo qualche anno a trovare il figliolo in carcere. E, tornato alla piena attività politica da protagonista, per esempio di un congresso della Dc destinato ad aprire la stagione del pentapartito a guida alternata fra socialisti e democristiani, di cuore sarebbe morto nel 1991, dopo un’operazione in cui i medici avevano cercato di ripararglielo. So bene che la storia non si fa con i se. Ma lasciatemi sospettare che ben difficilmente Mino Martinazzoli sarebbe riuscito a tradurre la crisi della Dc sopravvissuta a Tangentopoli nella chiusura del partito, se fosse stato ancora vivo Carlo Donat-Cattin. Glielo avrebbe fisicamente impedito. La morte di un uomo come lui fu il colpo di grazia alla Dc dopo la fine di Moro. Che della Democrazia Cristiana era stato il cervello, come Donat-Cattin avrebbe continuato per tredici anni ad esserne il cuore, purtroppo già segnato di suo per la tragedia ricordata del figlio. Fra Aldo Moro e Carlo Donat-Cattin, come è stato ricordato dallo storico Francesco Malgeri nella cerimonia celebrativa del centenario della nascita dello stesso Donat-Cattin, svoltasi nell’affollata Sala Koch del Senato alla presenza significativa del capo dello Stato Sergio Mattarella, moroteo dichiarato nella storia della Dc, fu vero scambio costante di amicizia e stima, personale e politica, pur nella diversità dei loro temperamenti, pari se non superiore a quella di entrambi con Andreotti. Della diversità fra Moro e Carlo Donat-Cattin ho ancora nitido un ricordo personale che risale al mese di dicembre del 1971, quando si cercava di eleggere a Montecitorio, a Camere naturalmente congiunte, il successore di Giuseppe Saragat al Quirinale. Il candidato col quale la Dc si era presentata all’appuntamento, l’allora presidente del Senato Amintore Fanfani, era stato ormai messo fuori gioco dai cosiddetti franchi tiratori del suo partito. Dove tuttavia si stentava a trovare un’intesa fra le correnti su un altro candidato. Donat- Cattin spingeva per la designazione di Moro, allora ministro degli Esteri. E voleva che l’amico non si limitasse, come faceva, ad aspettare pazientemente che maturassero le condizioni di partito a lui favorevoli. Che in effetti non sarebbero mai arrivate, essendosi alla fine i gruppi parlamentari dello scudo crociato espressi a favore di Giovanni Leone, sia pure per una manciata di voti a scrutino segreto. Donat-Cattin, peraltro già espostosi contro Leone sette anni prima, in occasione della successione anticipata ad Antonio Segni, impedito al Quirinale da un ictus nell’estate del 1964, chiese ad un certo punto che Moro si facesse votare in aula al primo scrutinio a portata di mano contando su mezza Dc e sui comunisti, pronti a sostenerlo dopo avere contribuito all’insuccesso di Fanfani, ‘ l’altro cavallo di razza’ del partito di maggioranza, come si diceva allora. Ebbene, a Moro che si sottraeva alle sue sollecitazioni, ancora fiducioso che l’ormai sconfitto Fanfani desse via libera alla sua candidatura, l’insofferente Donat-Cattin, seduto su un divano nel ‘ Transatlantico’ di Montecitorio, mandò a dire tramite il fedelissimo Renato Dell’Andro, rosso in volto e ancora più minuto del solito per l’imbarazzo: ‘ Si convinca che per fare i figli bisogna fottere’. Moro, informato del messaggio nell’ufficio dell’amico Tullio Ancora, un funzionario della Camera curiosamente provvisto al centro della fronte di una frezza bianca simile a quella del leader democristiano, ne sorrise. E quando dai gruppi parlamentari uscì la candidatura di Leone, e il segretario del partito Arnaldo Forlani temeva, come confidava agli amici, di assistere a un ‘ safari natalizio’, data la stagione, Moro chiamò personalmente anche Donat- Cattin per raccomandargli un voto disciplinato per l’uomo designato dalla maggioranza dei parlamentari dello scudo crociato. Non so francamente se Donat- Cattin ubbidì a Moro e al suo partito, nei cui riguardi Andreotti soleva rimproverare il mio amico Carlo di comportarsi come ‘ un anarchico’, neppure tanto simpatico, spintosi una volta a disertare per polemica proprio con lui una cerimonia di giuramento come ministro al Quirinale. Leone comunque fu eletto alla seconda delle due votazioni svoltesi in aula sulla sua candidatura. E sei anni e mezzo dopo fu tra i pochi, forse anche a costo di perdere la Presidenza della Repubblica, a prodigarsi davvero, per cercare di strappare Moro alla morte predisponendosi a graziare una terrorista contenuta nell’elenco dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano reclamato di scambiare l’ostaggio. Donat- Cattin, parlandogliene una volta a Saint Vincent, dove ogni anno riuniva in autunno la sua corrente, mi confidò di essere anche lui convinto che Leone con quelle dimissioni impostegli nel mese di giugno del 1978, sei mesi prima della scadenza del mandato e un mese dopo l’assassinio di Moro, avesse pagato proprio la colpa di quella grazia peraltro mancata. I terroristi infatti, informati chissà da chi, ma con tempestività a dir poco inquietante, l’avevano preceduta uccidendo il prigioniero.

·         Federico Fellini.

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

·         Chi era Gustavo Rol.

Chi era Gustavo Rol. Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 16 settembre 2019. Non poteva che nascere e vivere a Torino, che, secondo una certa tradizione, farebbe parte, assieme a Lione e a Praga, del cosiddetto triangolo della magia bianca. Nella città della Sindone e del Museo Egizio, d' altronde, ci passarono Nostradamus e il leggendario conte di Saint-Germain, che vi sarebbe addirittura sepolto, oltre a Giuseppe Balsamo detto il conte di Cagliostro e all'alchimista Fulcanelli, quello del Mistero delle Cattedrali. Gustavo Adolfo Rol (Torino, 1903-1994), tuttavia, non amava essere chiamato sensitivo o veggente, e tantomeno medium. A Roberto Gervaso, che lo intervistò nel dicembre del 1978 per il Corriere della Sera e che gli chiese di dare una definizione di se stesso, rispose di essere "un essere molto più alla buona, meno importante, ma diverso". E aggiunse di non possedere poteri paranormali, ma "possibilità", che si manifestavano attraverso la telepatia, la chiaroveggenza, la precognizione, la levitazione, la telecinesi e la materializzazione di oggetti. Una signora, Domenica Fenoglio, che lo aveva frequentato a lungo, raccontò a un giornalista di Novella: "Una volta andai da lui mentre dipingeva. Il pennello si mosse da solo, si alzò fino al soffitto e tornò nelle sue mani. Hai paura?, mi chiese. No, gli risposi; mi disse 'brava' e continuò a dipingere". Eppure non volle mai sottoporre i suoi "prodigi" a controlli di tipo scientifico. E a chi, per questa ragione, metteva in dubbio quelle facoltà oltre il normale, come lo scienziato Tullio Regge, Rol replicò in una lettera, il 6 luglio del 1986: "Lei invoca, a giusta ragione, controlli rigorosi ma chiede la presenza di 'prestigiatori professionisti di alto calibro capaci di scoprire immediatamente qualsiasi trucco del ciarlatano di turno'. Io mi domando a che cosa servono queste persone nel caso specifico che il ciarlatano non esista. Quel rapporto della mente col meraviglioso al quale accennavo verrebbe immediatamente turbato col risultato facilmente intuibile: la distruzione in partenza dell'esperimento". Amato da Federico Fellini e dall'avvocato Gianni Agnelli, da Franco Zeffirelli e da Cesare Romiti, da Pittigrilli e da Dino Buzzati, l'uomo che aveva quelle "possibilità", e che anche Walt Disney volle conoscere, nel 1942 fu convocato da Benito Mussolini a Villa Torlonia. Il Duce gli disse: "Mi dicono che fate delle previsioni. Come va la guerra?". Dopo avere indugiato per qualche secondo, Rol parlò: "Duce, per me la guerra è perduta". Mussolini lo incalzò: "E il Duce?". E Rol: "Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945". Mussolini, allora, diede un gran pugno sul tavolo e ordinò di congedarlo. Gustavo Adolfo Rol è morto venticinque anni fa, il 22 settembre del 1994, a Torino, dove era nato in un famiglia borghese benestante il 20 giugno del 1903. Tre lauree, antiquario e pittore, scoprì le sue facoltà, secondo quanto raccontava, quando volle provare a indovinare tutte le carte di un mazzo. Cadeva il 28 luglio 1927, era a Parigi. Sulla agenda annotò: "Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!". Ad apprezzarlo, tra i primi, ci furono il giornalista Renzo Allegri, Dino Buzzati e Federico Fellini. Rammentava l'autore de Il deserto dei Tartari: "Ma 'il personaggio di gran lunga più interessante' racconta Fellini che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta di un mago più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l' università, dipinge, si è dedicato per anni all' antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo". Sempre Buzzati, negli anni Sessanta, sul Corriere della Sera narrò che "un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano finito di pranzare, era già stato pagato il conto. "Andiamo?" propose Fellini. "Andiamo pure" rispose Rol. Fellini fece per avviarsi all' uscita ma si accorse che Rol stava seduto. "Non ti alzi?" gli chiese. "Ma io sono già alzato" fece Rol. "Io sono in piedi". Fellini guardò meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano. Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle, di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. "Su, andiamo, andiamo" fece Rol a Fellini annichilito". Piero Angela, invece, ha sempre messo in dubbio le sue "possibilità", e soprattutto i "fenomeni" che ne scaturivano. Le dimostrazioni di Rol, a cui Angela aveva assistito, dall'utilizzo di carte da gioco alla lettura in libri chiusi, per lui erano probabili trucchi illusionistici. "Per decenni Rol", ha sostenuto Angela, "si è prodotto nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a "scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale", ecc.: cioè tutte persone incompetenti in trucchi! Perché invece non ha mai voluto fare i suoi esperimenti sotto l'occhio di un esperto? Neanche una volta?". Della stessa opinione era Tullio Regge. Quando Rol morì, scrisse su La Stampa: "Personalmente io ho visto solamente esperimenti fatti con carte da gioco e non ho rilevato di certo facoltà paranormali: in molti casi usò in modo ovvio le forzature dei prestigiatori". Anche se "rimane il ricordo", concludeva Regge, "di una personalità eccezionale, e inimitabile, veri o falsi che fossero i suoi esperimenti".

Da Gustavorol.org il 17 settembre 2019. Gustavo Rol, nato nel 1903 da una famiglia della ricca borghesia torinese, è stato un personaggio fuori dal comune: amante delle arti e pittore egli stesso, colto e carismatico, dopo aver lavorato come giornalista e bancario si è dedicato per tutta la vita alla sua grande passione, l’occulto. I suoi sostenitori gli hanno attribuito proprietà paranormali, i suoi critici hanno parlato di “mentalismo”, ma Gustavo Rol si è sempre dichiarato semplicemente un ricercatore e sperimentatore, con l’unico obiettivo “di incoraggiare gli uomini a guardare oltre l’apparenza e a stimolare in loro lo spirito intelligente”. Un uomo che ha attraversato il Novecento lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo e nelle numerose personalità internazionali con cui è entrato in relazione: da Walt Disney a Marcello Mastroianni, da alcuni presidenti della Repubblica Italiana, come Giuseppe Saragat e Luigi Einaudi, al presidente John Fitzgerald Kennedy fino alla Regina Elisabetta II. Federico Fellini lo definisce “sconcertante”, legandosi a lui con una profonda amicizia. (tratto da: Allegri, R., "Così ho viaggiato nel paranormale", rivista "Chi" del 25/07/2001, p. 139) 

Una delle caratteristiche di Rol era quella di essere, quando era di buon umore, un gran burlone, e poteva fare degli "scherzi" abbastanza impressionanti, con un fine dimostrativo per i presenti e una eventuale lezione (esplicita o implicita) per i destinatari dello scherzo. Ad esempio, Giuditta Miscioscia ha raccontato quanto segue: «Tornavamo da Savona verso Torino, in macchina sull’autostrada. Arrivati sul passo del Turchino ci fermammo all’autogrill a pranzare. Al tavolo accanto al nostro c’era una coppia. Lei, grossa, enorme.  Erano già al gelato. Dovevano aver mangiato molto e la signora sorbiva il gelato lentamente, con difficoltà, perché era troppo sazia, ma si capiva che il gelato le piaceva molto. Rol la sbirciava da lontano e i suoi occhi scintillavano. Capii che voleva divertirsi.  Quando la signora ebbe finito il gelato, piegò la testa sulla spalla del marito e mormorò sfinita ma soddisfatta: “Ce l’ho proprio fatta, l’ho mangiato tutto”. “Facciamogliene mangiare un altro”, mi sussurrò Rol. “No, per carità, la fai morire”, supplicai, ma era tardi: Rol era già intervenuto, la coppa del gelato della signora era di nuovo misteriosamente colma. Il marito della donna, dopo aver sentito la frase “Ce l’ho proprio fatta”, aveva guardato la coppa che non era affatto vuota, ma piena e disse alla moglie: “E quello?”. Lei guardò e sbiancò. “Chi lo ha portato?”, chiese con un filo di voce. “È il tuo”, rispose il marito. “Impossibile, l’ho appena finito”, mormorò lei. “Ti sembrava di averlo finito”, disse l’uomo ridendo. La signora era smarrita. Si guardava intorno pallida. Riprese a mangiare adagio adagio, con fatica. Quando finalmente ebbe finito, sospirò verso il consorte tenendosi le mani sullo stomaco: “Non ne posso proprio più”. “Ancora, ancora”, ripeté sottovoce Rol come se desse ordini a una presenza invisibile, e la coppa del gelato della signora apparve di nuovo piena. Questa volta fu il marito a sbiancare. “Non è possibile”, lo sentii mormorare desolato e si guardava intorno sospettoso. Poi prese la coppa di gelato e cominciò a ispezionarla attentamente. Alla fine disse alla moglie: “Questo te lo mangio io”. Sorbì il gelato in silenzio, era nervoso. Appena finito scattò in piedi, ma Rol velocissimo aveva di nuovo ripetuto “Ancora, ancora” e la coppa era di nuovo piena. “Andiamo via, qui ci sono cose che non vanno”, e spinse la moglie verso la cassa del ristorante. Rol rideva a crepapelle, come un ragazzino».

Giuditta Miscioscia: «Una sera eravamo in casa di un famoso parrucchiere di Torino. Oltre a noi c’erano altri ospiti, persone molto importanti che desideravano conoscere Rol e vederlo in azione. Il padrone di casa si dichiarava scettico. (...). [Segue un esperimento con le carte, quindi Rol...] Cominciò a guardarsi in giro ostentatamente per attirare l’attenzione. Guardava soprattutto verso il soffitto e disse forte: “C’è tanta polvere lassù”. Il padrone di casa, un po’ imbarazzato, balbettò: “Sì, forse, non saprei”. “Ah c’è un solo modo per accertarsi se lassù vi è della polvere” disse Rol, “andare a vedere”. Eravamo in sette persone sedute intorno a un tavolo pesante e massiccio. Rol si concentrò fissando il soffitto. Dopo qualche attimo, tutti noi presenti, tavolo e sedie compresi, cominciammo ad alzarci per aria, ondeggiando lentamente. Ci guardavamo in faccia impalliditi e guardavamo Rol che era sempre concentrato. Salimmo fino a raggiungere il soffitto, poi scendemmo, quindi di nuovo risalimmo al soffitto e poi planammo a terra. “Sì”, disse Rol sorridente “lassù c’è molta polvere: l’avete vista anche voi”. C’era un grande silenzio in salotto, ma gli sguardi ironici erano completamente scomparsi».

Chiara Bologna: «Rol e mia nonna si trovavano in un appartamento. Ad un certo punto ha visto Rol alzare un piede come se dovesse scavalcare un piccolo ostacolo. Invece Rol ha lasciato il piede sospeso nell’aria, a circa 20 centimetri dal suolo. Ha quindi tirato su l’altro piede, portandolo un po’ più in alto del primo, che era rimasto sospeso là dove si era fermato. Rol ha iniziato a salire dei gradini invisibili, camminava nell’aria»

Remo Lugli (Marisa Guasta/Catterina Ferrari): «E’ il 21 giugno [1994], l’indomani del suo novantunesimo compleanno. Gustavo e Catterina sono lì a San Marzano da ieri, hanno dormito nella villa [del professor Guasta] e al pomeriggio si accingono a partire per far ritorno a Torino. L’amico professore si è dovuto assentare e Gustavo raggiunge l’auto accompagnato da Catterina e Marisa Guasta che lo affiancano dandogli il braccio. Racconta Marisa: “Quando si è girato per entrare in macchina si è afflosciato ed è andato a terra senza che potessimo trattenerlo. Rol pesava ottanta chili e quando abbiamo provato a prenderlo per le ascelle per sollevarlo abbiamo capito che non saremmo mai riuscite a tirarlo su, le nostre forze erano assolutamente inadeguate. Eravamo preoccupate, agitate, ci chiedevamo cosa fare, ma altre persone nelle vicinanze non c’erano. Lui ci ha calmate: “Aspettate un momento” ha detto, “provate, quando ve lo dico”. Un attimo ancora e poi ha ordinato: “Adesso”. Noi lo abbiamo tirato su, ma senza nessuno sforzo. Si è raddrizzato come se fosse spinto dal di sotto. Ha esclamato: ‘Sia ringraziato il Signore’ e si è fatto il segno della croce”. Catterina, che negli ultimi tempi lo doveva aiutare a salire e a scendere dal letto, svestirsi e vestirsi, dice che a volte lui le dava il comando adesso, “e per qualche attimo pesava come un bambino”. E allora rideva, contento».

Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 19 settembre 2019. L'ultimo mistero di Rol non ha niente a che fare con l'esoterismo. Forse. Sennò, che mistero sarebbe? Di certo c' è che salvò due vite, ma nessuno può testimoniare come: con un trucco, un intervento paranormale o una mossa assolutamente normale? La verità è sepolta, come tutti quelli che c' erano. È un ricordo sbiadito, raccolto prima che svanisse, 17 anni fa. I fatti si svolsero 76 anni fa durante l' occupazione tedesca. Gustavo Adolfo Rol è morto 25 anni fa (22 settembre 1994), lasciandosi dietro una scia di nebbia fosforescente quanto la sua personalità. Il dibattito sulle sue potenzialità è stato più spesso ispirato dal pregiudizio che dal giudizio, talora al di sotto della sua studiata eleganza e sempre, tutto sommato, vano. Rol non chiese niente, si limitò a mostrare, e a pochi selezionati. Contano gli effetti, tranne quelli speciali, e in quel lontano 1943 ne ebbe. Si accenna all'episodio in uno dei numerosi libri a lui dedicati, Rol e l'altra dimensione, di Maria Luisa Giordano. Scrive: «Durante l'occupazione tedesca salvò molte vite umane, fece liberare partigiani e civili, ostaggi dei nazisti». Dove? Quando? Ma soprattutto, come? Nel 2002, volendo liberamente ispirare il personaggio di un romanzo alla figura di Rol, andai a Torino per raccogliere testimonianze e verificare quell'affermazione che si faceva più specifica indicando un fatto avvenuto a San Secondo di Pinerolo dove Rol e la sua famiglia erano sfollati e dove si trova oggi la sua tomba. Incontrai molte persone che l'avevano conosciuto. Tutte avevano comuni caratteristiche: erano scettici, non credenti, con professioni pratiche (chi fabbricava caminetti, chi dirigeva alberghi), eppure raccontavano con naturalezza: «L'ho visto aumentare di statura in ascensore» o «Fece apparire un dipinto completo sulla tela in pochi secondi». Il più attendibile mi parve Remo Lugli, ex inviato della Stampa, amico personale di Rol, ma capace di raccontarlo da cronista in Una vita di prodigi. Conosceva l'episodio di San Secondo, ma solo indirettamente. Sorrise e disse: «Avrà dato al comandante tedesco un assegno inesistente, come quello che fece apparire a noi». Si riferiva a un "esperimento" condotto in casa sua, alla presenza delle due mogli e dei coniugi Gaito e Innocenti. Rol fece dire quattro numeri e venne fuori 1943. Si mise a parlare con una presunta presenza invisibile: un uomo fucilato in quell' anno che avrebbe voluto pagare per evitarlo. Infine disse: «L'assegno è arrivato». Il dottor Gaito se lo ritrovò nella tasca interna della giacca, a lui intestato, datato 10 novembre 1943 per la somma di un milione. Il numero corrispondeva alle prime sei carte del mazzo sul tavolo. Mancava l' indicazione del conto di provenienza. Rol non ha mai tratto o prodotto un beneficio economico. Se non pagò, come salvò i condannati di San Secondo? Lugli mi diede due indicazioni: l'ultima compagna di Rol e sua esecutrice testamentaria, Catterina Ferrari, e un uomo del paese, un cavaliere del lavoro che mi avrebbe accompagnato a cercare superstiti del tempo di guerra. La dottoressa Ferrari, ex farmacista, ha trascritto quel che sostiene essere il ricordo di Rol sull'argomento: «La mattina del 30 settembre una donna venne a cercarmi di buon mattino...». Il comando tedesco aveva ricevuto una denuncia anonima e perquisito la casa di un certo Paschetto, che viveva con moglie, due figlie e due figli, trovando due pistole e un fucile nascosti nel porcile. I fratelli furono condannati all' esecuzione in piazza alle dieci della domenica seguente. Rol accolse l'invito della donna e si recò dal maggiore Werner, a capo degli occupanti, supplicando clemenza: «Intanto mi lavoravo il suo aiutante, tenente Utesh. Offrii loro due libri napoleonici di grande valore». Tre ore di "lavorazione" (qualunque cosa intendesse) e ottenne la commutazione della pena: deportazione in Germania. Intuì che la morte per i due sarebbe stata solo rinviata. E non di molto. Chiese di visitarli. Avevano un aspetto terribile. Uscì e tornò portando con sé, ben nascosto, un asciugamano inzuppato del sangue di una gallina che aveva fatto intanto uccidere. Lo diede a uno dei prigionieri, suggerendogli in dialetto di tossire platealmente e dichiararsi tubercolotico per impietosire i suoi carcerieri. Poi: «Nella notte, dinanzi a 14 ufficiali, perorai la causa di quei poveri disgraziati. Mi valsi perfino dei miei esperimenti di coscienza sublime per cattivarmi le simpatie di quei Teutoni! Lavorai sino all' alba. Finalmente, con la complicità di un giovane medico, venne steso un rapporto disastroso sullo stato di salute dei condannati. L'indomani il maggiore Werner portò l' ordine di liberarli e si congratulò: siete un buon italiano, un uomo di cuore». E bruciò le altre denunce anonime, di cui tuttavia conosceva l'autore. Anni dopo, annota la Giordano, l'ex ufficiale tedesco gli scrisse da Roma, dicendogli che in Germania aveva perso tutti i suoi cari e trovato solo distruzione e morte: era tornato in Italia per farsi frate domenicano. Anche di questo non esiste prova, come dei fatti accaduti quella notte. Sembra paradossale, almeno nei termini, che Rol possa aver evocato la "coscienza sublime" davanti a 14 nazisti che stavano incendiando l' Europa e progettando lo sterminio di un popolo. Eppure. Arrivato a San Secondo il cavaliere mi prese in consegna. Era un uomo schietto e provato. Suo figlio si era suicidato per un amore non corrisposto. Anche lui come gli altri che avevo incontrato non aveva propensioni per l' esoterismo, nemmeno per riallacciare un legame con chi aveva valicato la linea d' ombra prematuramente. Gli episodi della guerra sono spesso esagerati dal telefono senza fili della storia orale, taciuti i più straordinari. Mi condusse in un casolare abitato da una donna anziana. Era la vedova di uno dei fratelli Paschetto, i due ragazzi scampati alla fucilazione. Parlava solo in dialetto, la lingua delle istruzioni sul sangue della gallina. Il cavaliere tradusse. Suo marito le aveva raccontato, ovviamente, di quella notte aspettando la morte e di Rol. Lo ricordava senza aggettivi meravigliati, né un angelo né un illusionista, un uomo deciso, autorevole, capace di farsi rispettare: un negoziatore per conto della vita. Che cosa poi avesse fatto per convincere 14 nazisti era, resta e resterà un mistero. Un mistero benefico, come in fondo la sua esistenza. Non trasse profitti, dispensò regali, fossero anche illusioni, intrattenne i potenti ma fu vicino agli umili. Giocò molto e volentieri. Ma se salvò due vite, come ci viene spesso ricordato citando un testo sacro, salvò il mondo.

Federico Gazzola per “Nuova cronaca” il 21 settembre 2019. “Non era un impostore”. Il commento, laconico, correda un articolo online volto a smontare le doti di Gustavo Rol, relegando le sue facoltà a semplici trucchi di prestidigitazione. Parole da cui affiora anche l’affetto per una figura che ha saputo legare al proprio nome mistero e indubbie qualità umane. Gustavo Adolfo Rol nasce a Torino nel 1903 da genitori facoltosi. Cresce frequentando le famiglie dell’alta borghesia. Ottiene tre lauree: in Giurisprudenza, Economia e Biologia clinico-medica. Dopo aver trascorso un decennio come dipendente della Banca Commerciale Italiana, nel 1934 lascia il lavoro per aprire un negozio di antiquariato. Un’attività senza dubbio più consona alle sue inclinazioni: amante dell’eleganza e delle arti, Rol, uomo di sconfinata cultura, dipingeva e suonava violino e pianoforte. Ma proprio durante uno dei suoi viaggi come dipendente di banca Rol vive un’esperienza cruciale. Fin da piccolo interessato alla dimensione spirituale, inizia a interrogarsi, a leggere, ad approfondire. E a sperimentare. Partendo dalle carte da gioco: “Perché non dovrebbe essere possibile conoscere il colore di una carta coperta?”. Per anni prova e riprova, senza alcun successo. Fino al 1927. Durante un soggiorno a Parigi scrive parole enigmatiche sul suo diario. Sostiene di aver scoperto una legge che lega il colore verde, la quinta nota musicale e il calore. Una legge che definisce “tremenda”, che gli avrebbe tolto la voglia di vivere. Da quel viaggio, Gustavo Rol torna cambiato. Consapevole delle proprie capacità, mantiene viva la propria fede in Dio. Si definisce una “grondaia” attraverso la quale l’acqua, dal tetto, raggiunge il terreno. Una sorta di tramite tra una dimensione elevata e il piano materiale. Rifiuta però definizioni come mago, veggente, indovino. Detesta l’interesse della parapsicologia nei suoi confronti e rifiuterà sempre di sottoporsi a esperimenti tecnici da parte di esperti del settore: una volgarizzazione di ciò che riteneva espressione delle più alte vette spirituali mai raggiunte dall’uomo. Dopo la sua morte, avvenuta  sempre nella sua Torino nel 1994, proprio questa sua volontà lascerà, da una parte, la sua figura avvolta nel mistero, dall’altra campo aperto agli scettici che lo riterranno un impostore particolarmente abile nei giochi di prestigio. In realtà Rol non disdegnava dimostrazioni in presenza di uomini di scienza, figure che avrebbero potuto facilmente smentire le sue facoltà extrasensoriali. Ad assistervi furono personaggi del calibro di Albert Einstein ed Enrico Fermi. Ma anche gli scettici trovarono libero accesso, tra tutti Piero Angela, fondatore del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze: quest’ultimo, in effetti, parlò di Rol come di un abile mentalista, e nient’altro. Ma Rol andò su tutte le furie: durante la dimostrazione, infatti, Angela non avrebbe mosso alcuna obiezione in merito alle sue doti. Salvo poi metterne in dubbio la veridicità in alcuni scritti successivi all’incontro. Versione smentita, è bene specificarlo, dallo stesso Piero Angela. Ma esistono uomini di scienza che, al contrario, non hanno mai negato il proprio stupore. Testimonianze raccolte dal cugino Franco Rol che per anni ha lottato per “difendere” la reputazione del familiare. Interessante in questo senso è l’aneddoto del medico chirurgo Luigi Giordano che racconta di quando Rol accettò di essere “studiato” dal fisico Tullio Regge, membro del Cicap, che si presentò insieme a due assistenti in tre occasioni diverse. Spiega Giordano: “Dopo la terza sera i tre hanno detto che non sarebbero più tornati, perché non trovando una spiegazione logica a quanto capitava, non potevano permettersi di sovvertire tutte le leggi della fisica”. Altrettanto interessante è l’intervista a Carlo Castagnoli, datata 1972, anno in cui il celebre luminare era professore di Fisica Generale all’Università di Torino. Scettico, Castagnoli incontrò Rol proprio per interesse scientifico: “Ho visto cose che francamente non ho capito sulla base delle consuete spiegazioni ordinarie” sottolinea Castagnoli. Il professore racconta di quella volta in cui lui e Rol si trovavano a casa di amici. Castagnoli vide un libro di Wolfgang Pauli e da buon fisico lo estrasse per osservarlo. Rol, a quel punto, improvvisò uno schema con le carte da gioco arrivando a individuare un numero chiave, 85. Subito dopo iniziò a scrivere su un foglio. Erano le prime dieci parole proprio di pagina 85 di quel volume. Corrette, precise. Un libro non di sua proprietà, che Castagnoli aveva scelto senza alcun preavviso. Un altro episodio è raccontato da Gianluigi Marianini, professore di Lettere al Collegio Rosmini di Torino e studioso di scienze esoteriche e filosofia. Prima di un appuntamento con il mago, Marianini si fermò ad acquistare due mazzi di carte da gioco regolarmente sigillate. Giunto all’abitazione di Rol, quest’ultimo intimò all’ospite di non avvicinarsi. Non voleva avere contatti di alcun tipo con i due mazzi per non sollevare dubbi su presunti trucchi di prestidigitazione. “Quale carta preferisci?”, domandò. “Fante di fiori”, rispose l’amico senza pensarci. A quel punto Marianini, su invito di Rol, aprì i due mazzi scoprendo con meraviglia che entrambi contenevano solo fanti di fiori. Secondo i detrattori, Rol rifiutò di farsi esaminare da prestigiatori professionisti, per il timore che i propri trucchi potessero essere scoperti. Non corrisponde a realtà. Rol rifiutò di incontrare Silvan perché non provava simpatia nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo accettò di essere “osservato” da illusionisti altrettanto celebri come Elio De Grandi, meglio noto come Alexander. Quest’ultimo racconta, in un’intervista a History Channel: “L’illusionismo consiste in tecniche ripetibili. Onestamente ho visto Rol compiere azioni che vanno oltre tutto ciò. Il famoso vaso lanciato attraverso una stanza e che improvvisamente si smaterializza, scomparendo invece di infrangersi contro il muro. Io conosco molto bene il mio mestiere, ma questo effetto non saprei riprodurlo”. Le capacità di Rol furono apprezzate anche da imprenditori, politici, celebri artisti. Si dice che, per esempio, il grande regista Federico Fellini lo avesse scelto come sorta di consulente per i propri progetti cinematografici. Lo stesso regista raccontò di una passeggiata attraverso un parco di Torino. A un certo punto i due videro un pappagallo, fuggito da qualche gabbia. “Rol lo chiamò - racconta Fellini - e il giorno dopo lo riconsegnò alla sua proprietaria. Una donna che prima d’allora non aveva mai visto né conosciuto”.

Barbara Giannini su Vanillamagazine.it il 24 settembre 2019. Il 28 luglio 1927, Gustavo Rol scrisse sul suo diario, con una matita rossa, “Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale e il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò mai più nulla.” E, in effetti, nelle pagine successive si legge solo “INCUBI… INCUBI… INCUBI”. Gustavo Adolfo Rol era nato a Torino nel 1903 da una famiglia agiata. Fu un ragazzo e un uomo colto e curioso del mondo: conseguì tre lauree, in economia, in legge e in biologia medica, parlava fluentemente sei lingue ma, oltre che per la sua cultura, egli fu famoso soprattutto per le sue straordinarie doti di sensitivo. Tuttora considerato uno tra i più grandi veggenti mai vissuti, molte sono le testimonianze di chi assistette ai prodigi di cui era capace, definiti spesso come autentici fenomeni paranormali. Grazie alle sue intuizioni e ai suoi esperimenti, stupì l’Italia e il mondo per settant’anni. Tra i suoi estimatori più entusiasti ricordiamo Fellini, Zeffirelli, Buzzati, Gianni Agnelli, e vollero incontrarlo anche Ronald Reagan, J. F. Kennedy ed Einstein, il quale pare applaudisse entusiasta come un bambino assistendo ai suoi prodigi. In tempo di guerra, nel 1939, Rol fu chiamato alle armi come capitano degli Alpini, e nel 1942 qualcuno disse a Benito Mussolini che a Torino c’era un alpino in grado di prevedere il futuro che faceva catastrofiche previsioni sulla guerra in atto, nonostante in quel momento – ricordiamolo – tutto lasciasse presagire il contrario. Pitigrilli, scrittore e probabilmente all’epoca già collaboratore dell’OVRA, scrisse una lettera a Rol in cui gli comunicava “Gustavo, si parla in altissimo luogo di te” e poco dopo seguì una convocazione ufficiale a Villa Torlonia. Quando fu al suo cospetto, Benito Mussolini chiese senza troppi preamboli: “Mi dicono che Voi fate delle previsioni. Come va la guerra? Parlate pure liberamente”. Rol, agitato, iniziò a tergiversare. “Vi ho chiesto di riferirmi quello che andate dicendo ad altri. Parlate liberamente. Vi garantisco che non Vi sarà fatto alcun male”, incalzò Mussolini. Allora Rol infine rispose: “Duce, per me la guerra è perduta”. “E il Duce?”, chiese ancora Mussolini. “Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945”. A questo punto, Mussolini batté un violento pugno sul tavolo e si alzò in piedi: “Vedremo! Ora vada”, e lo congedò…

·         Auguri Alda Merini, poetessa simbolo del '900 italiano: oggi avresti compiuto 88 anni.

Auguri Alda Merini, poetessa simbolo del '900 italiano: oggi avresti compiuto 88 anni. Alda Merini nata nel primo giorno di primavera e in quella che oggi è la giornata internazionale della poesia. "Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle/ aprire le zolle /potesse scatenar tempesta", scrive Anna Bandettini il 21 marzo 2019 su La Repubblica. Alla fine la più forte di tutti è stata proprio lei. I demoni interiori l'avevano inseguita tutta la vita, e così il dolore, i lutti, il "vuoto d'amore" come scriveva, e poi la malattia mentale, l'isolamento, la solitudine... ma alla fine ce l'ha fatta, ha vinto su tutto e su tutti imponendosi come una delle poetessa più ammirate del Novecento italiano. Alda Merini, avrebbe compiuto oggi, proprio il primo giorno di primavera e, per una di quelle casualità formidabili, proprio nella giornata internazionale della poesia, 88 anni. Dieci ne sono passati da quando morì in ospedale a Milano per un tumore, circondata dall'affetto non solo dei cari ma di una intera città e da schiere di estimatori perché, a quel punto, lei era "Alda Merini". Sì perché, ancora oggi non si festeggia solo il ricordo di una grande poetessa di cui tanto si è scritto e detto, prolifica nel suo ardore artistico e letterario, ma anche di una donna straordinaria, ruvida e sensibile, che ha attraversato una vita eccessiva nel dolore e nella felicità, nel tormento e nella serenità, negli amori e nell'inferno, trasformandola, grazie al talento, in poesia. "Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle/ aprire le zolle /potesse scatenar tempesta", sono le sue parole per raccontarsi in "Vuoto d'amore". E le "tempeste" della Merini cominciano presto: dalle crisi mistiche dell'adolescenza alla passione per i libri e la poesia che la madre, mai amata, contrasta in tutti modi. Poi le difficilissime crisi esistenziali: i tradimenti del primo marito, i tradimenti suoi, la solitudine, le maternità complicate, diventano quasi 18 anni di manicomio, molti dei quali al "Paolo Pini", l'ospedale psichiatrico milanese da cui entrava e usciva, tornando in famiglia dalle figlie prima di un ennesimo ricovero, alcuni dei quali risolti -si fa per dire-  con l'elettroshock. "C'è una lunga preparazione al manicomio. Tu subisci, subisci, subisci, un bel giorno sbotti e dicono che sei matta. Io avevo l'accusa di adulterio e un grosso esaurimento post partum, dopo la mia terza figlia. Ero malata, ma non da manicomio. Però ho sopportato bene quegli anni. Certo, se per tutto il tempo mi fossi domandata perché, non ne sarei venuta a capo. L'ho presa sul ridere e mi sono anche divertita", raccontava in una intervista a Repubblica alla fine degli anni Novanta, sempre con la stessa impazienza, un po' di compiacimento e sarcasmo con cui parlava dei suoi dolori, senza mostrare di crederci. Tragedie che diventeranno materia dei suoi versi "La pazza della porta accanto", "La vita facile", "Ballate non pagate" e soprattutto quello che è considerato il suo capolavoro, "La Terra santa" con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.

La "ragazzetta di Milano" la chiamava ai tempi dell'esordio negli anni Cinquanta Pier Paolo Pasolini che molto l'apprezzava. Degli intellettuali diceva che erano "noiosi e spocchiosi", eppure fu amica di tanti, da Enrico Baj a Vanni Scheiwiller Quasimodo, Montale, ed è stata a lungo  "la favorita" di un sofisticato scrittore come Manganelli, con cui c'era stata anche una storia d'amore che molti anni dopo ricordò così: "Ho pianto più per la morte di Lady Diana che per quella di Manganelli". Eppure furono queste amicizie a sostenerla nel suo talento, tra le decine di alti e bassi che contraddistinsero la sua vita. 

Il cambiamento radicale lo si ricorda solo alla fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta, quando finalmente il pubblico riconosce il suo valore e fioccano i premi, nel 1996 il Viareggio, nel 1997 il Procida-Elsa Morante e nel 1999 il premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri settore poesia. La sua poesia comincia a circolare e anche la sua strana vita di isolata in due luride stanzette vicino a Ripa di Porta Ticinese a Milano diventa una leggenda per i fan, giornalisti, editori, intellettuali che l'andavano a trovare e che lei accoglieva con il suoi modi graffianti, soggiogando l'interlocutore dei pensieri più strambi e folgoranti e dove continuava a vedere le figlie a cui rimase sempre legatissima. Proprio le figlie, Emanuela, Flavia e Simona, hanno dato vita in questi giorni all'Associazione Culturale Alda Merini per  "promuovere, tutelare, approfondire e diffondere la figura e l'opera" della grande poetessa, di cui tra le ultime imprese, risalta  Magnificat del 2002, celebrazione della donna e della maternità, pacificazione non effimera con la propria tormentata vita che  negli anni ha trovato una indimenticabile "voce" in una ammiratrice eccelsa, Valentina Cortese.

Dieci anni senza Merini. Quella volta che Quasimodo bussò  alla porta: «Sto cercando Alda». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Maurizio Bonassina. I ricordi del fratello Ezio sulla poetessa celebrata tra le voci poetiche più alte del '900: «Amava le barzellette». «Era già sera, bussavano alla porta. Nostro padre Nemo, da buon capofamiglia, scese i gradini di quel magazzino, un ex deposito di stracci in Ripa Ticinese, dove ci eravamo trasferiti dopo i bombardamenti. La nostra casa in viale Papiniano non c’era più. Alla porta, insieme alla nebbia, un uomo distinto con borsalino e sciarpa. Chiede di Alda. “Ma lù chi l’è?” la domanda di papà, in stretto milanese. “Sono Salvatore Quasimodo”, sussurrò lo sconosciuto. Cercava mia sorella, cercava Alda. Era il 1950. Stupiti, quel giorno cominciammo a capire che quella piccola donna, in quella umile casa, qualche genialità l’aveva davvero». Esordisce così, a dieci anni dalla morte di Alda, Ezio Merini, fratello della poetessa celebrata tra le voci poetiche più alte del Novecento. Terzogenito (Anna la più anziana classe 1926, Alda del 1931), Ezio, nato nel 1943, ricorda la sorella nel periodo della giovinezza. Lui solo l’ha vissuta quando era ancora una ragazza. «Lei scriveva sempre, a casa o nello studio legale in cui aveva cominciato a lavorare. Ma sulla macchina per scrivere spesso rimanevano poesie, anziché sentenze. Tanto che l’avvocato un giorno, spiandola, le disse: “ma questo l’hai scritto davvero tu? E allora, cosa stai qui a fare?”» «La guerra poi ci ha portato via da Milano — continua il fratello — eravamo sfollati a San Salvatore Monferrato: ricordi sfumati. È come se quegli anni non li avessimo vissuti». Ezio ricorda bene invece quel tema, assegnato nel 1955, quando frequentava il Cattaneo: «La professoressa di lettere ci aveva dato un titolo a scelta. Nostro padre era appena morto e io volevo raccontare quel lutto, che mi aveva segnato il cuore, ma non trovavo le parole adatte. Chiesi aiuto ad Alda e lei iniziò a dettare: una paginetta, poco più. Il primo della classe scrisse invece otto pagine. Il giudizio dell’insegnante fu entusiasta e severo nello stesso tempo: “questa è poesia, io non posso correggere una virgola ma non l’hai certo scritta tu, sentenziò». Quel giorno anch’io compresi la statura di Alda. Alda che aveva vinto un premio nel 1941, un premio fascista, dedicato alle piccole poetesse d’Italia. Vinse 1000 lire e venne presa in braccio da Mussolini: a quei tempi contava». Poi però i ricordi si fanno bui, la malattia e il manicomio: «Lavoravo in Brera, ripensa Ezio, in uno storico colorificio, avevo la Lambretta e con quella, appena potevo, andavo ad Affori: lì c’era il Paolo Pini e dietro i cancelli c’era mia sorella che non diceva niente e non sembrava neanche soffrire, mi chiedeva solo una sigaretta. Non ho mai pensato che Alda fosse pazza, a quei tempi si confondeva spesso il guizzo geniale con la malattia mentale». I ricordi si fanno serrati: «Al Paolo Pini i ricoverati erano divisi per rioni, quelli del Ticinese, quelli di Porta Romana, quelli del Lorenteggio, ognuno marchiato dal suo. Incontravo spesso facce conosciute: “ma cosa fai qui?” non rispondevano, chiedevano solo spiccioli o sigarette. In quegli anni — sottolinea Ezio — le porte del manicomio si aprivano con troppa facilità. E chi ci entrava rimaneva marchiato. Oggi basterebbe il medico curante, qualche pillola e uno psicologo. Alda non ha mai dato manifestazioni di follia. Passavo i miei giorni a Brera, in mezzo ai più grandi artisti di allora. Le stranezze del genio erano concentrate lì. Gli artisti sono personaggi che vivono al confine della normalità, una linea di demarcazione che Alda rasentava ma senza far danni a nessuno, neppure a lei». «Non parlavamo mai di poesia — sottolinea il fratello — parlavamo di cose pratiche, della famiglia, dei bisogni. E poi Alda rideva, le piaceva raccontare barzellette. Io l’ascoltavo, sempre con piacere, con lo stesso piacere di quando, di nascosto, leggevo le sue poesie. Quella che mi è rimasta nel cuore è Il Gobbo, una delle prime: “Dalla solita sponda del mattino io mi guadagno palmo a palmo il giorno: il giorno dalle acque così grigie, dall’espressione assente…”. La porto sempre con me. È il suo spirito e mi tiene compagnia». E proprio le più belle poesie di Alda Merini sono riproposte, nel decennale della sua scomparsa, dal Corriere della Sera nella riedizione della collana tascabile diVersi (a cura di Nicola Crocetti).

Alda Merini, lacerata eppure indomita. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Vivian Lamarque. Il primo novembre di dieci anni fa moriva la «poetessa dei Navigli». Come siamo invidiosi noi poeti della Merini! O qualcuno per caso non lo è? Non si dice quell’invidia astiosa che ti fa diventare giallo come un limone o grigio come un topo, intendo un’invidia transitoria, veloce, lieve, che dopo qualche minuto, quando è passata, quasi divertiti si dice: roba da matti! se lo sapesse l’Alda! se sapesse cosa le è successo «dopo». Il giorno prima di morire, dal suo letto d’ospedale disse a Casiraghy, «Ciao Alberto, la Merini se ne va». Altro che andartene, non te ne sei andata proprio per niente. Sei qui più che mai, dappertutto. E molto più puntuale di prima (eri la croce degli organizzatori di serate). Lo saprà? Dubito, dubitavo già mezzo secolo fa: «Siamo poeti/ vogliateci bene da vivi di più/ da morti di meno/ che tanto non lo sapremo», vale per tutte le categorie umane. La copertina della prima uscita, «Vuoto d’amore»Ogni tanto noi poeti (chi più chi meno e i più saggi mai) ci aggiriamo furtivi, con l’aria di far finta di niente, tra gli scaffali delle librerie — defilato reparto poesia — scorriamo i dorsi dei volumi in ordine alfabetico alla ricerca del nostro cognome: nove volte su dieci è una ricerca fallimentare. Per sicurezza controlliamo un’altra volta e diamo un’occhiata anche negli immediati dintorni, fosse mai che qualcuno ci avesse soppesati e poi, senza pietà, rimessi giù ma al posto sbagliato. Niente, nessuna nostra traccia. In compenso dilagano ovunque volumi-Alda-Merini di ogni genere e formato, è qui che vacilliamo un po’, rischiando di prenotarci un posto tra gli invidiosi della Commedia, con gli occhi cuciti dal fil di ferro per aver in vita guardato malevolmente. Veniamo al dappertutto: è in edicola da oggi il primo dei 16 libri previsti, curatela di Nicola Crocetti, bella prefazione di Aldo Nove (nel secondo volume, La presenza di Orfeo, sarà della sottoscritta). Titolo del primo: Vuoto d’amore. È la Merini post-manicomiale, lacerata eppure intatta, indomita. Per capirla utile sarebbe una lettura binaria, affiancata dall’appena uscito Alda Merini, mia madre (Manni). A parlare è Emanuela Carniti, la primogenita, poco compaiono Flavia, Barbara e Simona, come lei scippate d’infanzia: «Vi è mancata vostra madre? Mai persa, mai avuta». In Vuoto d’amore sono le poesie della sezione «La Terra Santa» la vetta, come aveva ben compreso Maria Corti (sua grande estimatrice con Romanò, Spagnoletti, Manganelli, Scheiwiller, Turoldo, Erba, Quasimodo, Pasolini, Raboni, eccetera). I grandi versi che diventarono subito celebri: «Ho conosciuto Gerico/ ho avuto anch’io la mia Palestina/ le mura del manicomio/ erano la mia Gerico/ e una pozza di acqua infetta/ ci ha battezzati tutti...». Anni dopo, a fama già raggiunta, a farle paura era il mese di agosto, con la città svuotata, il telefono muto, allora alzava la cornetta e telefonava al «Corriere», aiuto, sono sola. Il giorno dopo il suo appello veniva pubblicato e qualche amico, qualche fan accorreva in Ripa di Porta Ticinese 47, attraversava il cortile interno, saliva, suonava. Oggi i suoi lettori la cercano invece in via Magolfa 32, dove Milano le ha ricostruito (bene ma con un po’ troppo algido ordine) la casa, la stanza, la parete con i numeri di telefono. E sappi, Merini, che dieci anni fa, dopo la tua morte avvenuta il primo novembre 2009, hai avuto persino funerali di stato in Duomo (riecco invidia vagare nell’aria) e che, per il decennale, ti intitoleranno il 6 novembre prossimo il Ponte sul Naviglio Grande, quello sotto casa tua, angolo via Corsico. Avercene! In molti hanno analizzato lo strepitoso fenomeno mediatico Alda Merini, qualche giorno fa Alberto Rollo, in un articolo assai condivisibile. Le mie domande invece, fissata come sono su tutte le infanzie, persino quelle altrui, riguardano Alda bambina. Qualcosa si trova nell’importante saggio Il buio illuminato di Ambrogio Borsani, anche se la Merini affermò: «La mia infanzia non ha avuto nulla di caratteristico». Cielo, nessuna infanzia può essere definita così! Non è necessario essere stati orfani o abbandonati o malcompresi o maltrattati, l’infanzia ha sempre «qualcosa» dentro, anzi tutto, o quasi tutto. Ho chiesto ricordi su di lei piccola al fratello Ezio, ma quando lui è nato lei aveva già 12 anni, e la sorella Anna ormai non c’è più. Ora ne troverò certo in Alda Merini, mia madre, intanto tra le tante foto che contiene, guardo quella di Alda di tre o quattro anni, con un grande fiocco in testa e il braccio destro piegato sul fianco; e la foto di classe di IV elementare, e un’Alda undicenne in piedi sul ramo di un albero. Già da un anno aveva ricevuto dalla Regina Maria José in persona il Premio Giovani Poetesse Italiane. P.S.: il 2 novembre, Giorno dei morti, se passate dal Cimitero Monumentale di Milano, fermatevi al Famedio per un salutino, condominio toccante, c’è anche, lì a pochi centimetri da lei, Giovanni Raboni.

«Difficile, bella, complicata, sfaccettata, fantastica: mia madre Alda Merini». Donna tormentata e geniale scrittrice. Amica e amante di autori e intellettuali, incompresa dal primo marito, felice con il secondo. Così la figlia Emanuela ricorda "la poetessa dei Navigli" a dieci anni dalla morte. Emilio Fabio Torsello il 30 ottobre 2019 su L'Espresso. Alda Merini«Amai teneramente dei dolcissimi amanti/ senza che essi sapessero mai nulla. E su questi intessei tele di ragno/ e fui preda della mia stessa materia./ In me l’anima c’era della meretrice / della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome/ e fui soltanto una isterica». Questo il ritratto che Alda Merini fa di se stessa nella raccolta "La Gazza Ladra – Venti ritratti", dove la poetessa dei Navigli “tracciò” in poesia i lineamenti di diversi amici e poeti che aveva letto e ammirato, da Saffo a Sylvia Plath a Giorgio Manganelli. E proprio con Manganelli, Alda Merini ebbe una relazione quando ancora era adolescente. Lui era sposato e con figli, lei poco più che quindicenne, appena entrata nel salotto buono della Milano del Dopoguerra. Alda Merini – nata a Milano «il 21 a primvavera» del 1931 è scomparsa dieci anni fa. La sua casa, per chi ebbe la fortuna di entrarci – bisognava chiedere un appuntamento diverse settimane prima e non era nemmeno detto che Alda si facesse trovare - era un bailamme di oggetti, carte, poesie e appunti scritti ovunque – anche sui muri o sulla porta di casa. Ma proprio lei – da molti giudicata in modo semplicistico e ingiusto “la matta” del Naviglio – ci ha lasciato alcune tra le più belle poesie di vita e d’amore del Novecento. Non vinse mai il Nobel, pur avendo il sostegno e il supporto di alcuni tra i maggiori scrittori italiani come Salvatore Quasimodo, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, Giorgio Manganelli o intellettuali ed editori come Vanni Scheiwiller o Giacinto Spagnoletti. Per ricordarla abbiamo incontrato la figlia Emanuela – nata dal primo matrimonio di Alda Merini con Ettore Carniti, un imprenditore milanese nel settore della panificazione – che ha da poco dato alle stampe un libro di memorie dal titolo “Alda Merini, mia madre” (edizioni Manni).

La maledizione della poesia.La voce di Emanuela è gentile, ha in sé quella dolcezza del timbro che inevitabilmente richiama alla memoria le tante interviste che Alda Merini concesse a Gigi Marzullo, a Maurizio Costanzo e ad altri, negli ultimi anni della sua vita. «Non è semplice per me parlare di mia madre», ci dice Emanuela. «Una figlia è solo un tassello dei tanti rapporti che una persona ha con il mondo esterno, ma per come la conoscevo io, da figlia, posso dire che nostra madre era difficile, bella, complicata, sfaccettata, fantastica. Custodiva in sé tante personalità e colori diversi. Posso dire che aveva la maledizione della poesia: la parola, la poesia, da un lato la salvava e dall’altro era qualcosa che si portava dentro e che la divorava».

La Terra Santa. Alda Merini inizia a scrivere giovanissima. Appena quindicenne rischia di farsi licenziare dallo studio notarile milanese in cui era stata assunta come segretaria perché sorpresa a digitare versi sulla macchina da scrivere dell’ufficio. Quando il capoufficio le chiede cosa stesse battendo sui tasti, sul foglio c’era questa poesia, dedicata alla Vergine: «Non avete veduto le farfalle / con che leggera grazia / sfiorano le corolle in primavera? / Con pari leggerezza / limpido aleggia sulle cose tutte / lo sguardo della vergine sorella. / Non avete veduto quand’è notte / le vergognose stelle / avanzare la luce e ritirarla? / Così, timidamente, la parola / varca la soglia / del suo labbro al silenzio costumato. / Non ha forma la veste ch’essa porta, / la luce che ne filtra / ne disperde i contorni. / Il suo bel volto / non si sa ove cominci, / il suo sorriso / ha la potenza di un abbraccio immenso». Un componimento in cui si ritrovano in nuce tutti gli elementi della futura poetica della Merini: quel sentimento di amore profondo e la metafisica personale che svilupperà una volta uscita dal manicomio. E proprio l’esperienza dell’ospedale psichiatrico, lunga oltre dieci anni, verrà trasposta nella silloge “La Terra Santa”, in cui riecheggiano elementi sacri come il Monte Sinai, il Cristo, le leggi, che parlano però di uno spazio “altro” – il manicomio, appunto – dove «il delirio diventa eco / l’anonimità misura / il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta». Ed è sempre Emanuela Carniti a raccontarci come andò quel primo ricovero in ospedale: «Papà era andato a un funerale di un parente nella bergamasca, doveva rientrare la sera stessa ma per un qualche motivo non riuscì a tornare a casa. Ricevemmo una telefonata non ricordo da chi, non da lui, in cui ci dicevano che papà non sarebbe rientrato. All’epoca non esistevano i cellulari e con il passare delle ore mamma iniziò ad agitarsi sempre di più. La mattina successiva era chiaro a tutti che quando papà fosse tornato, sarebbe successo un putiferio. E così accadde». Non sapendo più come arginare la crisi della moglie, il marito chiama un’ambulanza. «Quando arrivarono i barellieri, noi figlie ci mandarono dalla portinaia. Ma sentivamo la mamma urlare per le scale». Era il 1965, Alda Merini sarebbe uscita dal manicomio definitivamente nel 1978.

Il manicomio. Quel giorno è la stessa Alda Merini a ricordarlo e a raccontarlo nel libro “L’altra verita, diario di una diversa”: «Fui quindi internata a mia insaputa e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso quando mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. […] Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là».

La macchina da scrivere. E se da un lato la medicina non andava molto per il sottile – «le persone che oggi definiremmo ‘strane’ perché eccessivamente sensibili o complesse rispetto alla norma» spiega Emanuela, «all’epoca venivano internate senza farsi troppi problemi» – dall’altro Alda Merini sul suo cammino ha sempre incontrato “angeli custodi” che hanno compreso la sua complessità senza etichettarla come “follia”. Già nei primi anni del Dopoguerra, quando la Merini entra nel salotto buono degli intellettuali milanesi, Giacinto Spagnoletti in una lettera scrive: «Lo psichiatra che la teneva in cura si è dimostrato scettico sui risultati di un anno e mezzo di psicanalisi ed elettroshock. L’ha dichiarata, a bruciapelo, inguaribile. E allora, vista questa situazione, ho pensato che sarebbe giusto, umanamente, intervenire con quello che ella ha di più suo, cioè con la poesia. Chissà che questo non serva di più che gli elettroshock». E più avanti, durante gli anni dell’internamento in manicomio, lo psichiatra che la tiene in cura, Enzo Gabrigi, mette a disposizione di Alda Merini il suo ufficio all’interno dell’ospedale psichiatrico e soprattutto la sua macchina da scrivere, nella convinzione che la Merini non sia folle ma “vittima” di un trauma interiore. «Papà le chiese più volte perdono», ci racconta Emanuela, «lei credo che inizialmente gli fece scontare il ricovero forzato, poi però restarono insieme fino alla morte di lui. E sono sicura che nonostante tutto si amavano. Papà non era in grado di arginare la mamma, di sostenerla, e spesso delegava me, che ero la figlia maggiore. Papà era un uomo semplice, un gran lavoratore».

Senza una madre. Ma il ricovero di Alda Merini sconvolge l’intera famiglia. Lo racconta ancora Emanuela nelle pagine del libro “Alda Merini, mia madre”: «Subito dopo il ricovero, intorno al giorno dei morti, il 2 novembre, papà portò me e mia sorella in un collegio fuori Milano. Mia sorella piangeva, io ero sconvolta, non piangevo, ero pur sempre la maggiore e non dovevo farmi vedere debole, ma ero sconvolta. Dopo qualche giorno venne a riprenderci: io andai per un periodo dalla zia Anna, mia sorella da una cugina che non aveva mai visto in vita sua. Poi papà ci portò tutte e due a Torino da Aldo Sormano, il vedovo della zia Candida […] Lì a Torino stavamo malissimo, dopo qualche giorno papà tornò e io pensai: “Finalmente ci porta a casa”, invece prese me e lasciò mia sorella. Forse io ero più grande e più facile da gestire, e anzi potevo dare una mano in casa, certo non mi spiegò nulla né io me la sentivo di chiedere, non c’era mica l’abitudine di far domande ai genitori; ma fu uno shock tremendo per me e per mia sorella». E nel 1970 la Merini, su carta intestata dell’Istituto Ospedaliero Paolo Pini, scrive all’amico e intellettuale Vanni Scheiwiller: «Ma di questa prigionia non ne posso più, di queste sbarre, di questi cancelli chiusi mi sto letteralmente ammalando […] Spero tanto in un miracolo. E poi la lontananza dalla mia piccola Barbara che adesso è a balia presso persone estranee mi dà tanto male al cuore. …Vorrei piangere e non ne sono più capace, forse perché mi hanno praticato degli elettroshock che mi hanno fatto più male che bene. Non so, ma ho tanta paura di morire qui dentro senza veder più nulla, né sentire alcun fermento di poesia».

La seconda vita di Alda Merini. Dopo la morte del primo marito e l’uscita dal manicomio, Alda Merini sposa in seconde nozze un poeta e medico tarantino, Michele Pierri, che aveva conosciuto alcuni anni prima. «Dopo la morte di nostra madre», prosegue Emanuela, «ci trovammo una bolletta del telefono da cinque milioni di lire: erano le chiamate che Alda faceva con Michele Pierri, un uomo con cui finalmente poteva tornare a parlare di poesia e letteratura. Quando conobbe Michele, per la mamma fu come essere tornata indietro all’epoca del salotto con Manganelli, Spagnoletti e Luzi: finalmente aveva incontrato qualcuno che le corrispondeva. In quegli ultimi anni con Michele, mamma fu davvero felice». Di Alda Merini negli anni si è detto e scritto di tutto. C’è stato chi l’ha definita semplicemente una pazza, dalla poesia semplice, e chi invece ha saputo andare più a fondo, riconoscendo che pazza Alda Merini non era. Semmai la sua era una sensibilità molto forte, profonda, capace di trovare parole rare e vive per esprimere il mondo e la vita. Di tanto in tanto qualcuno va ancora alla ricerca di qualche scampolo di poesia per pubblicare l’ennesimo libro di “inediti”. Ma tanto – quasi tutto - è stato pubblicato negli anni scorsi e forse sarebbe il caso di non disturbare oltre la poetessa dei Navigli, lei che come pochi altri rivelò un’attenzione agli ultimi, ai sofferenti e agli emarginati. Dopo la morte del marito, in casa sua Merini accolse clochard, pittori e artisti senza il becco di un quattrino, persone che avevano vissuto la vita “dal basso”, che come lei avevano condiviso il dolore della caduta. Alda Merini – conclude Emanuela nel libro edito da Manni – «dettava le poesie al telefono al primo che avesse una voce di cui si invaghiva, le affidava a foglietti volanti a chiunque passando a trovarla si definisse editore, mandava varie stesure dello stesso componimento a persone differenti, e ora mancano tanti tasselli. Dobbiamo rassegnarci al fatto che non potremo mai avere il polso di tutto quello che di suo c’è in giro, e quanto sia tutto autentico. Però è stata anche la sua bellezza, la sua forza, quella generosità senza argini».

Le più belle poesie di Alda Merini scelte dai suoi più grandi fan. L'Espresso ha chiesto a scrittori, critici, intellettuali di indicare i versi che preferiscono tra quelli dell'autrice morta dieci anni fa. Ne è nata un'antologia d'autore, da Chiara Gamberale a Michela Marzano. E che aspetta il contributo dei lettori: voi quali consigliereste? Angiola Codacci-Pisanelli il 30 ottobre 2019 su L'Espresso. Si fa presto a dire Alda Merini. Tra libri pubblicati in vita e quelli usciti postumi, tra inediti regalati ad amici e conoscenti e versi abbandonati nei cassetti, per il lettore è difficile orientarsi nell'opera della "poetessa dei Navigli". Come ha detto la figlia Emanuela a Emilio Fabio Torsello nell'intervista all'Espresso, Alda Merini «dettava le poesie al telefono al primo che avesse una voce di cui si invaghiva, le affidava a foglietti volanti a chiunque passando a trovarla si definisse editore, mandava varie stesure dello stesso componimento a persone differenti». Per questo abbiamo chiesto a scrittori, critici, intellettuali uniti dall'amore per le sue poesie di consigliarci la loro preferita. Ne è nata un'antologia d'autore. Che aspetta di arricchirsi grazie alle indicazioni dei lettori...

Patrizia Cirulli. Cantautrice, ha dedicato alle più belle poesie, da Catullo ad Alda Merini, il pluripremiato disco "Mille baci". Il suo lavoro più recente è "Sanremo d'autore", raccolta di cover di brani lanciati dal festival, da "Ciao amore ciao" di Luigi Tenco a Vasco Rossi.

"E più facile ancora"

E più facile ancora mi sarebbe

scendere a te per le più buie scale,

quelle del desiderio che mi assalta

come lupo infecondo nella notte.

So che tu coglieresti dei miei frutti

con le mani sapienti del perdono...

E so anche che mi ami di un amore

casto, infinito, regno di tristezza...

Ma io il pianto per te l'ho levigato

giorno per giorno come luce piena

e lo rimando tacita ai miei occhi

che, se ti guardo, vivono di stelle.

(da "Folle, folle, folle di amore per te", Salani)

Paolo Di Paolo. Scrittore, giornalista, saggista, in questi giorni sulla rete televisiva LaF con un'antologia di biografie di scrittori tormentati, "Fuoco sacro. Il talento e la vita", che va da Luciano Bianciardi ad Alda Merini (interpretata da Federica Fracassi). Tra i suoi libri ricordiamo "Mandami tanta vita", Dove eravate tutti" e il recentissimo "Lontano dagli occhi" (Feltrinelli).

"A Giorgio Manganelli"

Molta gente mi ha

domandato di te,

come se fosse possibile

domandare a un morto

che cos’era in vita.

Non eri nulla.

Anch’io,

quando chiedono se sono una poetessa,

mi vergogno,

mi vergogno in modo amabile e gentile,

come tu ti vergogni di “essere” la poesia

e la vita.

Giorgio, non sono un valzer,

e se l’opera d’arte casualmente lo è,

è semmai come il valzer triste di Sibelius,

una cosa amara e dolcissima

che traligna verso la morte.

Sai, una donna decomposta,

come sono io,

un uomo decomposto,

com’eri tu,

non potevano che trasmigrare

in due figure di sogno,

un grande pinocchio

e una fatina petulante e misera che,

come Coppelia, vanno a vedersi

dall’alto di un loggione di cartapesta.

Idealmente, io e te, abbiamo portato

un cappello a sonagli per tutta la vita.

(da "La palude di Manganelli", La Vita Felice)

Alba Donati. Consulente editoriale e poetessa, ha pubblicato tra l'altro "La Repubblica contadina" e Idillio con cagnolino", ha scritto "Il canto per la distruzione di Beslan" musicato dall’Orchestra Regionale della Toscana, ha curao traduzioni (le poesie di Michel Houellebecq) e antologie ("Poeti e scrittori contro la pena di morte", "Il Dizionario della libertà").

"No, non chiudermi ancora"

No, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,

atterreresti in me quest'altra vena

che mi inebria dall'oggi e mi matura.

Lasciami alzare le mie forze al sole,

lascia che mi appassioni dei miei frutti,

lasciami lentamente delirare...

E poi còglimi solo e primo e sempre

nelle notti invocato e nei tuoi lacci

amorosi tu atterrami sovente

come si prende una sventata agnella...

(da "La presenza di Orfeo", Scheiwiller)

Chiara Gamberale. Scrittrice e conduttrice televisiva, ha scritto romanzi ("Una vita sottile", "Le luci nelle case degli altri" e il fortunatissimo "Per dieci minuti"), fino al recente "L'isola dell'abbandono" (Feltrinelli).

"Ci sono notti che non accadono mai"

Ci sono notti

che non accadono mai

e tu le cerchi

muovendo le labbra.

Poi t’immagini seduto

al posto degli dèi.

E non sai dire

dove stia il sacrilegio:

se nel ripudio

dell’età adulta

che nulla perdona

o nella brama

d’essere immortale

per vivere infinite

attese di notti

che non accadono mai.

(da "Fiore di poesia", Einaudi)

Ilaria Gaspari. Laureata in filosofia alla Scuola Normale di Pisa e alla Sorbonne, autrice di romanzi ("Etica dell'acquario") e saggi ("Ragioni e sentimenti"), ha da poco pubblicato il fortunato "Lezioni di felicità" (Einaudi).

"I poeti lavorano di notte"

I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere iddio

ma i poeti nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle.

da "I poeti lavorano di notte, Franco Puzzo Editore)

Michela Marzano. Esperta di filosofia morale e politica, insegna alla Sorbona ed è stata deputata del Pd. Tra i suoi libri, "Che cosa fare delle nostre ferite", "L'amore è tutto", con cui ha vinto il premio Bancarella, e il recente "Idda" (Einaudi).

"Le più belle poesie"

Le più belle poesie

si scrivono sopra le pietre

coi ginocchi piagati

e le menti aguzzate dal mistero.

Le più belle poesie

si scrivono davanti a un altare vuoto,

accerchiati da argenti

della divina follia.

Così, pazzo criminale qual sei

tu detti versi all’umanità,

i versi della riscossa

e le bibliche profezie

e sei fratello a Giona.

Ma nella Terra Promessa

dove germinano i pomi d’oro

e l’albero della conoscenza

Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.

Ma tu sì, maledici

ora per ora il tuo canto

perché sei sceso nel limbo,

dove aspiri l’assenzio

di una sopravvivenza negata.

(da "La terra santa")

 Mirella Serri. Giornalista e scrittrice, esperta di storia e letteratura del Novecento, ha dedicato i suoi ultimi saggi alla Seconda guerra mondiale: da "I rendenti" fino al recente "Gli irriducibili" (Longanesi) passando per "Bambini in fuga. I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono".

"A tutte le donne"

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso

sei un granello di colpa anche agli occhi di Dio

malgrado le tue sante guerre

e l'emancipazione.

Spaccarono la tua bellezza

e rimane uno scheletro d'amore

che però grida ancora vendetta

e soltanto tu riesci

ancora a piangere,

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,

poi ti volti e non sai ancora dire

e taci meravigliata

e allora diventi grande come la terra

e innalzi il tuo canto d'amore.

(da "Il suono dell'ombra", Mondadori)

Parole forsennate: quando la follia dà vita al genio letterario. Bipolari, sregolati, schizofrenici, suicidi: la fragilità psichica è il prezzo da pagare per addentrarsi nelle profondità dell'animo umano. Da Dino Campana a Siri Hustvedt, da David Foster Wallace ad Alda Merini, breve storia del rapporto tra creatività e malattie mentali. Gianfranco Turano il 25 ottobre 2017 su L'Espresso. «Chi è padrone di sé bussa invano alla porta della poesia». Due millenni e mezzo dopo la frase di Platone il British Journal of Psychiatry ha dimostrato la correlazione fra la creatività e la sindrome bipolare in una ricerca del 2011. Un altro studio del Karolinska Institutet dichiara che gli scrittori hanno probabilità superiori alla media di essere ansiosi, bipolari, depressivi unipolari, schizofrenici, anoressici, vittime di droghe e alcol. Il tasso di suicidi sarebbe doppio del normale. Avventurarsi ai limiti dell’animo umano si paga caro e, in effetti, il Parnaso del disagio psichico è sterminato. Paradossalmente l’instabilità diventa di moda grazie al genio meno autodistruttivo della storia delle lettere, Johann Wolfgang Goethe. Il suo Werther che si uccide per amore è il prototipo dello Sturm und drang, messo in pratica da Heinrich von Kleist, che si butta nel Wannsee, e dalla follia di Friederich von Hölderlin. L’alcolismo ammazza Edgar Allan Poe e segna la vita di Tennessee Williams, traumatizzato dalla schizofrenia della sorella Rose, che subisce una lobotomia orbitale. La depressione porta Sergej Esenin al cappio nel 1925 in un albergo di Leningrado, l’Angleterre: «Arrivederci, amico mio, arrivederci, tu mi sei nel cuore», scrive con il sangue nei suoi versi di commiato. Il suo gesto otterrà la riprovazione pubblica dell’amico e collega Vladimir Majakovskij («Voi ve ne siete andato, come suol dirsi, all’altro mondo»), che cinque anni dopo si ucciderà a sua volta, sconvolto dalla deriva stalinista dei Soviet. Più avanti nel Novecento il poeta statunitense Theodore Roethke viene ricoverato in ospedale per quello che si chiamava esaurimento nervoso e il romanziere di On the road, Jack Kerouac, padre della beat generation, viene riformato dalla Us Navy durante la seconda guerra mondiale per schizofrenia, altra patologia professionale. Sintomi collegati alla sindrome schizofrenica colpiscono Rainer Maria Rilke, William Blake, William Butler Yeats e il poeta persiano del tredicesimo secolo Jalal ad Din Rumi, che sentono le voci e hanno visioni. La depressione porta Ernest Hemingway a tirarsi una fucilata nel 1961. Nel 2005 imita il suo esempio Hunter J. Thompson, l’inventore del “gonzo journalism” impersonato al cinema da Johnny Depp (Paura e delirio a Las Vegas, 1998). Tre anni dopo, nel 2008, tocca a David Foster Wallace.

Le donne non sfuggono al destino. C’è l’isolamento malinconico di Emily Dickinson («mi parve che la mente mi si dividesse/che il cervello in due si spaccasse»). Dopo di lei, arrivano i suicidi di Virginia Woolf, che si annega per sfuggire alla follia incombente, della poetessa Anne Sexton, della quasi coetanea Sylvia Plath che muore con la testa nel forno a gas a trent’anni, nel 1963, dopo avere subito ricoveri in ospedale, terapia elettrica, trattamenti farmacologici e violenze domestiche dal marito Ted Hughes, anch’egli poeta. In Italia c’è la milanese Alda Merini, che vive la disperazione dei ricoveri fra Villa Turro e il Paolo Pini e la violenza di quarantasei elettrochoc. Un caso particolare è la poetessa svizzera Mariella Mehr. Nata nel 1947, viene tolta ai genitori di etnia nomade Jenisch e sottoposta a trattamento psichiatrico secondo il programma eugenetico varato dalla Confederazione nel dopoguerra. La letteratura nuoce gravemente a chi la fa e per dissuadere decine di milioni di aspiranti scrittori, si potrebbero sostituire le immagini dei malati sui pacchetti di sigarette con il disegno terrificante che Gustave Doré dedica al suicidio del poeta romantico Gérard de Nerval, impiccatosi alla grata di un condotto fognario vicino allo Châtelet di Parigi. Molti romanzieri e poeti hanno avuto la consapevolezza del loro stato. Alcuni hanno usato se stessi come cavie per regalare capolavori nati da sofferenze estreme, quelle che attraggono l’attenzione, a sua volta morbosa, dell’ipocrita lettore al quale Charles Baudelaire, habitué di droghe e assenzio, dedica i “Fiori del Male”.

Scrive Siri Hustvedt nella Donna che trema (2009): «Un numero insolitamente alto di poeti ha sofferto di disturbo bipolare, con violenti alti e bassi». Statunitense appassionata di neuroscienze e moglie del romanziere Paul Auster, Hustvedt racconta la sua esperienza con il disturbo da conversione, l’antica isteria, iniziata un anno dopo la morte del padre durante una cerimonia in suo onore all’università del Minnesota. Chiamata a parlare in pubblico Hustvedt viene invasa da un tremito incontrollabile. La diagnosi, a lungo incerta, la condurrà a periodi di ricovero al Mount Sinai hospital di New York e a lunghe terapie farmacologiche a base di betabloccanti, analgesici e sonniferi. Nel suo libro-confessione, strutturato su una bibliografia scientifica e una conoscenza della materia eccezionali, la scrittrice di origine norvegese si sofferma sulle ipotesi di alcune patologie mentali, anche se è ormai «riduttivo l’anacronismo riguardante il dualismo mente/corpo», come scrive l’ultima edizione del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che è la bussola delle patologie psichiche. Hustvedt parla dei tremori isterici delle streghe di Salem, dei legami fra personalità multipla e arte, della scrittura automatica praticata dai surrealisti francesi su suggerimento dello psicologo Pierre Janet e adottata in alcune terapie. Ma il passaggio dove è più chiaro l’andirivieni dell’artista dal confine della follia è quando descrive la sua impersonificazione nei dolori del padre agonizzante. «La sensazione era schiacciante, terribile. Sentivo la vicinanza della morte che mi attirava a sé, la sua forza inesorabile, e dovetti faticare per tornare nel mio corpo, per ritrovare me stessa». Prima di Hustvedt, sul finire dell’Ottocento, qualcuno aveva già esplorato di persona la follia e i metodi per curarla.

Maupassant e il vampiro. Uomo votato all’acqua, “idropata”, canottiere, appassionato di yacht e di nuoto, Guy de Maupassant anticipa un modello di artista di grande genio e pari sregolatezza che avrà fortuna per tutto il Novecento. Il “toro normanno” ha una carriera lampo ad altissima produttività che si svolge in un decennio in parallelo con eccessi erotici e sportivi censurati dal padrino letterario di Guy, “l’anziano” Gustave Flaubert. Maupassant impara presto che non vivrà a lungo. Nel 1877, a 27 anni, gli viene diagnosticata la sifilide, la malattia di Francesco I e Cesare Borgia che al terzo stadio comporta la paralisi cerebrale. Con una reazione tipica del superomismo dell’epoca se ne proclama fiero e conserva le sue abitudini. Il suo ritmo di lavoro è degno di Honoré de Balzac. A parte i romanzi, Maupassant scrive oltre trecento racconti. Uno di questi è il resoconto della sua follia incombente appena nascosta dallo schermo narrativo. L’Horla è del 1887, quando lo scrittore normanno ha 37 anni, ed è il diario più terrificante di una malattia mentale che sia dato leggere. Ambientato nei dintorni di Rouen, inizia con l’arrivo di un vascello fantasma brasiliano in una bella giornata di primavera. Sulla nave, invisibile e mortale, c’è il fantasma dell’Horla. Giorno dopo giorno questo vampiro invisibile occupa lo spirito del protagonista in un crescendo di allucinazioni. La misura artistica della narrazione si combina con la violenza della patologia per produrre un capolavoro, uno degli ultimi del narratore normanno. Prima di superare il limite del delirio, quando si proclamerà figlio di Dio, Maupassant scriverà all’amico scrittore Paul Bourget: «Una volta su due, rientrando a casa, vedo il mio doppio. Apro la porta e mi vedo seduto sulla mia poltrona». Il declino di Maupassant è un crescendo di pochi mesi. «A causa di sciacqui fatti con l’acqua marina attraverso le narici, ogni notte il cervello mi cola dal naso», racconta in una lettera al suo medico Émile Blanche, l’alienista amico della famiglia Proust che quarant’anni prima ha avuto in cura Gérard de Nerval. La lettera a Blanche porta la data del 31 dicembre 1891. Passano poco più di ventiquattro ore e nella notte fra l’1 e il 2 gennaio 1892, Maupassant tenta di spararsi in bocca. Il suo domestico però ha nascosto i proiettili. Allora lo scrittore tenta di aprirsi la gola con il tagliacarte. Visto che le ferite sono insufficienti, cerca di buttarsi dalla finestra. Viene bloccato dal cameriere e dal marinaio della sua imbarcazione. L’8 gennaio è internato dal dottor Blanche nella sua clinica del sobborgo parigino di Passy. Presto la camicia di forza si rivela inutile. L’autore di “Bel ami” morirà il 6 luglio 1893 quattro anni dopo avere visto spegnersi in un ospedale psichiatrico il fratello minore Hervé. L’amico Émile Zola terrà l’orazione funebre.

I bagliori di Dino Campana. «Ero una volta scrittore ma ho dovuto smettere per la mente indebolita. Non connetto le idee, non seguo». Quando Guy de Maupassant muore, Dino Campana ha otto anni. È figlio di un maestro elementare di Marradi, un paesino dell’Appennino tosco-emiliano. La scena poetica italiana del suo tempo è dominata da artisti con certificazione statale come Giosuè Carducci, come Giovanni Pascoli che celebra l’invasione colonialista della Libia (“la grande Proletaria si è mossa”) e infine come l’odiato Vate Gabriele D’Annunzio, «massima cloaca di tutto il letteratume presente passato di tutti i continenti». In questo contesto Campana è un outsider assoluto. Impara cinque lingue, gira il mondo, finisce in Argentina a costruire la ferrovia da manovale, traduce Bertrand Russell e si lascia travolgere da un filosofo che è un grande scrittore, Friederich Nietzsche. Con lui Campana condividerà la follia e l’incantamento per il mito della purezza idealistica della razza tedesca. Alla vigilia della Grande Guerra e in piena Triplice Alleanza fra Italia, Germania e Austria, i suoi Canti Orfici vengono dedicati “a Guglielmo II imperatore dei Germani” e hanno come sottotitolo “die tragödie des letzten Germanen in Italien” (la tragedia dell’ultimo germano in Italia). Il capolavoro di Campana è un misto di versi e poemi in prosa ispirati a viaggi, visioni e all’amore per la poetessa Sibilla Aleramo. La raccolta ha una storia avventurosa quanto il suo autore. Nel 1913 a Firenze, epicentro dei cambiamenti culturali dell’epoca, Campana presenta le sue prime bozze manoscritte, intitolate “Il più lungo giorno”, a Giovanni Papini che a gennaio dello stesso anno ha inaugurato la rivista Lacerba. Papini gira l’incartamento al cofondatore di Lacerba, Ardengo Soffici, che il giorno dopo perde la bozza. Non se ne troverà traccia fino al 1971, quasi quarant’anni dopo la morte dell’autore. Campana si trova costretto a riscrivere il suo lavoro a memoria e lo stampa nel 1914 grazie alla tipografia Ravagli di Marradi con il titolo definitivo, Canti orfici. È un nome ispirato alla moda dionisiaca lanciata da Nietzsche con la “Nascita della tragedia” ma anche alla tendenza cubista teorizzata da Guillaume Apollinaire, secondo quanto sostiene la filologa Fiorenza Ceragioli nella prefazione all’edizione vallecchiana dei Canti pubblicata nel centenario della nascita di Campana (1985). Quando inizia la guerra mondiale, mentre Papini invoca il bagno di sangue altrui - lui viene riformato -, Campana si ritrova a cancellare con la gomma da inchiostro, copia per copia, la dedica al kaiser diventato avversario dell’Italia. Lo stato mentale del poeta peggiora fino al ricovero nell’asilo di Castel Pulci presso Firenze l’8 novembre 1926. Fra gli elettrochoc per cui si ribattezza “Dino Edison” e la correzione degli errori dei Canti orfici presenti nella prima edizione vallecchiana (1928), Campana morirà a Castel Pulci il primo marzo 1932.

In salotto con Ezra Pound. Nel saggio “The Bughouse”, pubblicato quest’anno da Harvill Secker, Daniel Swift torna sul caso di Ezra Pound, due anni dopo la biografia in tre volumi di David Moody. Il poeta dei Cantos trascorre dodici anni nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth a Washington. Lì tiene «il salotto letterario meno ortodosso del mondo: presieduto da un fascista e tenuto in una casa di matti». Fra gli ospiti ci sono T.S. Eliot, Williams Carlos Williams, Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. In manicomio Pound riceve anche il suprematista bianco John Kasper che si intrattiene con il il razzistissimo “uncle Ez” sull’antisemitismo e sulla battaglia contro i diritti civili agli afroamericani sostenuta dal Ku Klux Klan di cui Kasper è membro. Sofferente di depressione Pound è stato internato a lungo soprattutto in quanto voce della propaganda nazifascista e traditore degli Stati Uniti. La punizione esemplare inizia con il suo arresto nel 1945. Prima di essere riportato in America l’autore dei Cantos è detenuto per tre settimane nel campo militare Usa a Pisa in una gabbia di metallo di due metri quadrati esposta in piazza d’armi. Lì Pound subisce un crollo psichico che descriverà con queste parole: «La zattera si spezzò e le acque mi sommersero». Quando Pound esce dal manicomio, si imbarca sul transatlantico Cristoforo Colombo per tornare nel paese che aveva scelto nel 1924, l’Italia. Al suo arrivo a Napoli accoglie i fotografi con il saluto romano. Passa i suoi ultimi anni in uno stato di «abietta disperazione, accidia, insensatezza, abulia, spreco». Nel 1972 muore a Venezia dove è sepolto nel cimitero di San Michele.

·         Domenico Modugno, puro genio della canzone.

Domenico Modugno, puro genio della canzone: con "Volare" incantò un'intera nazione. Il ricordo a 25 anni dalla morte di un monumento della canzone italiana: l'unico uomo capace di portare un intero paese a tuffarsi nel blu, ovviamente dipinto di blu. Gino Castaldo il 06 agosto 2019 su La Repubblica. Quando Ennio Moricone e Pier Paolo Pasolini ebbero l'idea di musicare i titoli di testa di Uccellaci e Uccellini, sapevano di poter contare sull'unico talento in grado di rendere non solo credibile, ma anche decisamente gustosa, un'operazione così bizzarra. Guardare per credere. Mimmo Modugno era così, un concentrato di energia vitale, un guerriero, uno spavaldo moschettiere in grado di dar vita praticamente a qualsiasi cosa, anche a un arido elenco di nomi. Una personalità talmente prorompente da spingerlo a essere tante cose diverse: attore, rumorista, autore di canzoni, cantante, comico, politico, ma soprattutto, questo va ricordato e ribadito, un puro e fiissimo genio della canzone. Prima ancora di mettere mano, insieme a Franco Migliacci, alla canzone che ne avrebbe per sempre segnato il destino a livello planetario, e che parlava di un metaforico salto nel blu infinito capace di incantare un'intera nazione, aveva già scritto e inciso canzoni degne di una carriera di primo piano, anche se in pochi se n'erano accorti. Una su tutte: Vecchio frac, che risale addirittuta al 1954, capolavoro assoluto e caso esemplare di canzone che riusciva a coniugare un crudo, tristissimo caso di cronaca vera, ovvero il suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia, e la visione notturna di una città magistrale e indolente che respira come una quinta teatrale. Di Modugno, prima ancora delle melodie avvolgenti, prima ancora delle storie, degli accenti dialettali, della malìa da cantastorie, arrivava l'energia, lo slancio vitale di un uomo che sembrava incarnare il più ancestrale desiderio umano di comunicare. Su questo era davvero invincibile, affrontava e domava qualsiasi mezzo, fosse il teatro musicale di Rinaldo in campo, o le urla pagane di Lu pisci spada, fossero le macchiette comiche della donna riccia e della sveglietta, oppure il festival di Sanremo, che ha occupato con tale convinzione da vincerne ben quattro edizioni. Sapeva far ridere, sapeva essere il più romantico dei romantici quando carezzava il dialetto napoletano di Resta cu'mme, poteva essere epico o sbarazzino, toccare la vetta sublime di Meraviglioso, e poi scadere nella melma di Piange il telefono, o peggio ancora de Il maestro di violino. Glielo chiesi, da apprendista e timido giornalista: maestro, mi tolga una curiosità, non riesco a spiegarmelo, perché mai ha inciso una canzone come Piange il telefono? Per scommessa, rispose Modugno, e in quella risposta c'era tutto un mondo. La vita era una sfida, da affrontare tutti i giorni, sempre e comunque, un film dopo l'altro, palcoscenico dopo palcoscenico, ogni canzone era un grido di bellezza lanciato versoil cielo, un'invocazione di complicità rivolta alla gente, anche quando arrivò un colpo terribile, una malattia che avrebbe piegato chiunque, ma che per lui diventò un'altra sfida, l'ennesima. C'erano mille violini suonati dal vento, c'erano tutti i colori dell'arcobaleno, ciao ciao bambina, un bacio ancora, il suo modo di far canzoni era il film del sentimento collettivo. L'unico uomo capace di portare un intero paese a tuffarsi nel blu, ovviamente dipinto di blu.

Domenico Modugno e quell’Italia che cambiava nel blu dipinto di blu. Valter Vecellio l'8 Agosto 2019 su Il Dubbio. 25 anni fa moriva il grande cantautore: una vita tra arte e impegno. Insieme popolare e profondo: Ma un impegno da cui si ricavano molte soddisfazioni e non troppi onori. Si schierò a favore del divorzio. Per cosa lo ricordiamo Domenico Modugno? Certo, per quell’incredibile Nel blu dipinto di blu, presentato per la prima volta al Festival di Sanremo edizione 1958: lui e Johnny Dorelli rompono gli schemi; ve la ricordate certamente, quella canzone: «Penso che un sogno così non ritorni mai più / mi dipingevo le mani e la faccia di blu / poi d’improvviso venivo dal vento rapito / e incominciavo a volare nel cielo infinito…». È uno spartiacque, quella canzone: segna una “rottura” non solo per il testo che scardina il tradizionale “amore/ cuore”, “mamma/ fiamma”. Non va solo ascoltata: va vista, per il “gesto”. Modugno non rimane impalato davanti al microfono, come gli altri cantanti fino a quel momento. Quelle braccia allargate, e poi alzate, quando esplode «Volare oh oh/ cantare oh oh/ Nel blu dipinto di blu/ felice di stare lassù », sono una liberazione. Da quel momento niente è più come prima. Modugno è insieme popolare e impegnato: di quell’impegno da cui si ricavano molte soddisfazioni e non troppi onori; perché si dà corpo a sentimenti e passioni civili, senza per questo legarsi a partiti o gruppi di potere. Bisogna cercare di entrare in quegli anni, non sono troppo lontani, eppure sideralmente distanti dal “sentire” di oggi. È il 1965, quando Francesco Guccini e i Nomadi cantano Dio è morto, canzone che qualche occhiuto funzionario della Rai giudica intrasmissibile ( per beffa, la si ascolta poi mandata in onda da Radio Vaticana); e sono gli anni in cui Loris Fortuna, Marco Pannella e Mauro Mellini si battono perché anche in Italia ci sia una legge che consenta alle coppie “scoppiate” di poter divorziare e rifarsi una vita e una famiglia. La legge alla fine viene approvata: l’allora pachidermico Partito Comunista vince timori e remore; per allargare il fronte si coinvolgono i liberali di Giovanni Malagodi ( la legge, infatti si chiamerà Fortuna- Baslini). La Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani e i settori più conservatori del Vaticano promuovono allora un referendum per abrogare la legge, sicuri di vincerlo. Fanfani in un comizio a Enna giunge a vaticinare che in caso di vittoria dei divorzisti, le mogli sarebbero fuggite con le loro donne di servizio. In Sicilia, per inciso, si registra una delle più alte percentuali di Sì alla legge. Il Pci timoroso d’essere tradito dalla sua base, solo alla fine, scende pesantemente in campo in difesa della legge. È il primo di tanti scollamenti del vertice dalla sua base. Saranno invece gli elettori della Dc e dell’Msi a “tradire” le indicazioni dei loro dirigenti. Non sono molti gli artisti che accettano di schierarsi in favore della legge; ne ricordiamo alcuni: Arnoldo Foà, Pino Caruso; e lui, Domenico Modugno. Incide una canzone che verrà diffusa nei comizi divorzisti. La canzone si chiama: L’anniversario. Musicalmente parlando, Modugno ha fatto di meglio; ma il testo è una piccola rivoluzione: si parla di una coppia di “conviventi” ( non molto prima, il vescovo di Prato aveva additato come “pubblici concubini” una coppia sposata solo in Municipio, civilmente). Una coppia con il cognome diverso «… ma uguale abbiamo il nome/ noi ci chiamiamo amore/ tutti e due amore senza data/ senza carta bollata… noi non ci giuriamo niente/ perché non c’è bisogno/ con un contratto/ non si lega un sogno come ti sono grato/ di questa libertà/ la libertà di amarti/ senza essere obbligato/ mia rosa senza spine/ mia gioia…». La straordinaria interpretazione di Rinaldo in campo, la commedia musicale di Garinei e Giovannini, è qualcosa che ancora oggi commuove ed emoziona: soprattutto quando Modugno canta La bandiera, i cui versi, nella loro semplicità e bellezza, sono il miglior antidoto a sovranismi e populismi: « Col bianco delle nevi delle Alpi/ Col verde delle valli di Toscana,/ Col rosso dei tramonti siciliani,/ Noi facemmo una bandiera/ Bianca rossa e verde/ La bandiera tricolor/ Bianca rossa e verde / La bandiera tricolor/ Col bianco dei colombi di San Marco/ Col verde dei miei prati in Lombardia,/ Col rosso dei papaveri abruzzesi/ Col bianco dei capelli di mia madre/ Col verde di due occhi tanto belli,/ Col rosso, rosso sangue dei fratelli… ». C’è un filmato, ( e molte fotografie), che ritrae Modugno già un po’ avanti con gli anni; l’ictus lo ha già ferito, ne è uscito per il rotto della cuffia. Non parla spedito, si muove lentamente, appoggiato a un bastone; spesso seduto su una carrozzella; ma lucidissimo, come non mai. È in corso a Roma un congresso del Partito Radicale. Lui per i radicali da sempre nutre simpatia, quel “pazzo” di Pannella gli piace, proprio perché rompe gli schemi; quando può dà loro una mano, si è anche iscritto e spende il suo nome per iniziative in favore dei diritti civili e umani. A quel congresso c’è anche Enzo Tortora, da poco uscito dal calvario giudiziario in cui la magistratura napoletana l’aveva impigliato. A un certo punto accade qualcosa che è difficile raccontare, bisogna averlo vissuto: Modugno, che siede al palco della presidenza, a fatica ce la fa ad alzarsi in piedi: in una mano il microfono, l’altra brandisce il bastone come una bacchetta di maestro d’orchestra; comincia a intonare quel liberatorio Nel blu dipinto di blu…; e tutto il congresso, alcune migliaia di voci si mette a cantare, “vola” con lui… Nel 1987 Modugno accetta la candidatura al Parlamento nelle liste radicali. Viene eletto parlamentare. Si impegna in particolare sui temi dei diritti delle persone disabili. Conduce una vera e propria battaglia per chiudere l’ospedale psichiatrico lager di Agrigento, dove i malati erano costretti a vivere in condizioni disumane; nel 1988, grazie a lui quel lager viene chiuso; e lui tiene il suo primo concerto dopo la malattia proprio dedicandolo a quei malati. Questo è il Domenico Modugno “altro” che forse gli altri non racconteranno. Eppure è il Modugno più vero, quello che anche nei momenti di malinconia, di tristezza, di sconforto, di “abbandono”, non mai cessato di credere e di sognare; di “volare”.

Domenico Modugno, quel figlio segreto tra pettegolezzi e aule di tribunale. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Arianna Ascione su Corriere.it. Quando li incontravano gli amici di Fabio Camilli e Marcello Modugno non potevano fare a meno di notare una certa somiglianza tra loro, ma i due - che praticamente erano cresciuti insieme, fin dai tempi della scuola - rispedivano sempre tutto al mittente con una risata. Eppure in quei tratti somatici in comune si nascondeva una verità tenuta nascosta per anni e mai confessata nemmeno sul letto di morte: così come Marcello - e i suoi fratelli Marco e Massimo - anche Fabio era figlio del cantautore icona della musica italiana, Domenico Modugno, morto il 6 agosto di 25 anni fa. Era frutto di una relazione clandestina con Maurizia Calì, ed entrambi erano già sposati, lui con Franca Gandolfi, lei con Romano Camilli, una vicenda che ha profondamente segnato le due famiglie anche a distanza di molto tempo. Ci sono infatti voluti anni, tra la rivelazione pubblica e una lunghissima battaglia in tribunale, per rimettere a posto ogni tassello.

L’ATTORE FABIO CAMILLI È FIGLIO DI DOMENICO MODUGNO! Da Il Messaggero il 19 agosto 2019. A pochi giorni dal venticinquesimo anniversario della morte del grande cantautore Domenico Modugno la I sezione civile della Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto l'attore Fabio Camilli figlio legittimo del Mimmo nazionale e ha messo la parola fine a 18 anni di battaglie legali. «Ho dovuto fare una battaglia per poter affermare chi era mio padre. È stato un viaggio faticoso ed estenuante», ha detto all'Ansa Fabio Modugno ringraziando in primis «il mio amico e avvocato Gianfranco Dosi». Fabio, figlio della ballerina e coreografa e regista triestina Maurizia Calì, la «bellissima Kalì» di Pasqualino Maragià uno dei numerosi successi di Modugno, all'Ansa aggiunge: «Il procedimento di riconoscimento di paternità della durata media di 4-5 anni si è trasformato per me in un percorso a» ostacoli «lungo (e credo sia un record) 18 anni. Comunque ce l'ho fatta, è finita. Sono molte le persone che dovrò ringraziare per essermi state vicine in questi anni. In particolare l'avvocato Gianfranco Dosi che in tutti questi anni ha saputo tenere la barra dritta durante questa lunghissima tempesta giuridica riuscendo alla fine a condurci in porto vivi e vittoriosi».

Fabio Camilli riconosciuto figlio di Modugno: «È stato  un viaggio estenuante». Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da  Stefania Ulivi su Corriere.it. «Ho dovuto fare una battaglia per poter affermare chi era mio padre. È stato un viaggio faticoso ed estenuante». Un viaggio durato diciotto anni quello dell’attore Fabio Camilli per vedere riconosciuta dalla I sezione civile della Corte Suprema di Cassazione la verità: è il figlio legittimo di Domenico Modugno. «Il procedimento di riconoscimento di paternità della durata media di quattro o cinque anni si è trasformato in un percorso a ostacoli lungo (credo sia un record) diciott’anni. Comunque ce l’ho fatta, è finita». Una vicenda complessa e dai risvolti dolorosi, una verità scoperta per caso come lo stesso Camilli — nato il 10 agosto 1962 — raccontò in un’intervista al Corriere nel 2014, dopo la prova del Dna e il verdetto del Tribunale di Roma che gli dava ragione. Suo padre era Mister Volare e non già Romano Camilli, ingegnere, amico di Garinei e Giovannini, «l’angelo custode» del Sistina di cui curò a lungo le relazioni pubbliche. Il teatro dove sua madre, Maurizia Calì, ballerina, lavorava come coreografa, dove conobbe Modugno per Rinaldo in campo. «Io stesso l’ho scoperta per caso. Con il terzo figlio di Modugno, Marcello, ci conosciamo da tempo, frequentavamo gli stessi ambienti dello spettacolo. Spesso ci facevano notare la somiglianza tra noi, ci scherzavamo su. Un giorno una mia amica — con cui avevo avuto una relazione e che poi si era fidanzata con Marcello — mi raccontò una sua confidenza: le aveva svelato che eravamo fratelli, pregandola però di non dirmi nulla». Decise, invece, di dirglielo. «Fu sconvolgente. Come fai a credere che quello che pensavi fosse tuo padre per quasi trent’anni in realtà non lo era?». Difficile crederlo, difficile anche parlarne. «Ci misi anni per farlo. Lo feci con un amico di famiglia e mi resi conto che il pettegolezzo girava da tempo. Come in un Truman Show: gli altri sapevano. Io no», raccontò l’attore che come nome d’arte (alterna teatro a serie tv, da Romanzo criminale a Don Matteo, da Distretto di polizia a 1993) continuerà a usare Camilli. Il cognome che per i primi 28 anni della sua vita pensava fosse il suo. Questa vicenda, ammise, cambiò tutto. Compreso, inizialmente, il rapporto con la madre. «Ha negato fino all’ultimo. Per un po’ non ci siamo parlati. A parte il supporto continuo di mia sorella, maggiore di due anni, spesso mi sono trovato solo». Tra quelli che sapevano, Camilli ne è sempre stato convinto, c’erano i figli di Modugno, nati dal matrimonio del grande artista scomparso 25 anni fa con Franca Gandolfi: Marco, Massimo oltre, appunto, a Marcello. Erano amici, scrissero anche una canzone a quattro mani, Fatto di te. «Certo che ne parlai con Marcello. E la reazione fu: siamo amici, questo ci lega di più. Tutto cambiò dopo la pubblicazione di un articolo sul Foglio che nel 2001 raccontava la mia storia. Per loro sono diventato un nemico, mi hanno dato del mitomane, truffatore. A quel punto è iniziata la battaglia legale durata tredici anni», spiegò. Ne sono passati altri cinque per mettere la parola fine. «Molte le persone che dovrò ringraziare per essermi state vicine — le parole che Camilli affida all’Ansa —. In particolare l’avvocato Gianfranco Dosi che ha saputo tenere la barra dritta durante questa lunghissima tempesta giuridica riuscendo a condurci in porto vivi e vittoriosi». Resta la questione economica: aspetti patrimoniali e anni di diritti d’autore Siae. «Capisco che ci sia chi pensa che questa sia stata la spinta. Invece è stato secondario rispetto all’importanza di sapere chi sono e di essere riconosciuto come tale», commentò Camilli con il Corriere.

·         Califano, la dolce vita quando la vita non era più dolce.

LETTERE DAL CARCERE, IL CALIFFO SEGRETO. Marco Molendini per ''Il Messaggero'' il 23 marzo 2019. Califano, la dolce vita quando la vita non era più dolce. Una vita da Califfo, fuori dal tempo, spericolata, senza limiti. Vizi, virtù, sprechi e talento di un cantautore fuori ordinanza, conquistatore smisurato, consumatore accanito di cocaina, uomo splendido, finto duro dal cuore tenero. Stavolta a raccontarlo, a sei anni dalla sua scomparsa (era il 30 marzo 2013), è Roberto Conrado, amico, musicista (ha scritto per Renato Zero, per esempio Sbattiamoci, e Fatti più in là con Arbore), per lunghi anni compagno di strada, di notti senza fine, di corse in autostrada sulla Bmw lanciata a tutta velocità ascoltando Sinatra e facendo sosta ogni due ore in autogrill «per bere un caffè». Avventure prese dagli archivi della memoria, senza badare all' ordine cronologico: ecco Tutto il resto... (edito da Pendragon), ritratto in diretta di un personaggio senza misura, un ultimo maudit convinto che l' unica strada percorribile fosse quella di respirare a pieni polmoni. Un uomo d' altri tempi, a cominciare dal suo primo gruppo i «Nun c' avevano una lira», di cui le colonne erano Er Cartaro, specializzato in poker truccati, e Nino er Bello, che vendeva abiti usati a Porta Maggiore. Una galleria di ricordi con la Roma degli anni Sessanta che ancora respirava i resti dello splendore che fu. Gli ultimi bagliori del night e i primi successi di Franco, che dava le parole a due splendide canzoni di Bruno Martino: E la chiamano estate e Baciami per domani. La lunga scia di donne consumate e lasciate per strada, l' unico legame sentimentale duraturo con Laura (viene citato solo il nome di battesimo). Quando la donna sfinita lo lasciò (una volta fecero aprire in piena notte una lavanderia per recuperare un tubetto di coca che Franco aveva lasciato nel cappotto) per il dolore il Califfo scrisse il testo di Tutto il resto è noia. La sera in cui il sarto Schuberth lo convoca nel suo attico con un mare di candele: mentre in sottofondo suonano i Notturni di Chopin, lo stilista gli si inginocchia davanti chiedendogli di cedere alla sua corte. I tre anni a Milano, dove «se smetteva di tirare per un solo giorno si sentiva morire. Cadeva in depressione, poteva anche trattare male le sue donne, per poi pentirsi...Tanto valeva continuare a pippare». La droga padrona della sua vita fino a consumargli il naso, il fisico, il cuore. Racconta il libro: «Nella vita del Califfo c' è stata una compagna che non ha mai tradito. Il suo nome inizia con la c e finisce con la a, ma non è Carla, Carmela e neppure Clelia, il suo nome è cocaina». Ancora: il vano tentativo di disintossicarsi tramontato subito dopo l' uscita dalla clinica, con la ricerca di «un po' di roba per tirarsi su di morale». E poi i formidabili monologhi, la passione per le cameriere d' albergo, le guardarobiere dei night, le infermiere. Le canzoni in cui riversava il suo talento filtrato dall' avversione per la retorica: Una ragione di più, Minuetto, Un grande amore e niente più. Il soggiorno a Regina Coeli. Il secondo arresto al teatro Parioli, addirittura sul palco «ammanettato e portato via come un assassino», i quasi quattro anni stavolta a Rebibbia, per poi scoprire che non c' entrava nulla perché il fatto non sussisteva: «Non ce la faccio più, ti prego fate qualcosa per me» scriveva a Laura dal carcere, in una delle quattro lettere inedite che ora vengono pubblicate. E poi la triste fase finale: difficoltà fisiche e economiche, il rosso in banca che saliva, vodka e coca, qualche serata, l' inutile reality, Music Farm, per cercare di «smuovere le acque», la caduta nel bagno. L' addio. Franco se ne è andato presto, a 74 anni, vissuti da Califfo e bruciati perché tutto il resto era noia.

Alessandro Zoppo per il 13 marzo 2019. David Bowie avrebbe scelto il suicidio assistito per porre fine alle sofferenze del cancro. Lo ha rivelato alla BBC Lesley-Ann Jones, l’autrice della biografia Hero: David Bowie. La giornalista ha raccontato che il cantante, morto per un tumore al fegato il 10 gennaio del 2016 a 69 anni appena compiuti, aveva optato per le cure palliative nelle settimane precedenti alla sua scomparsa. Poi prese l’ultima decisione rimasta per alleviare il dolore. “Chiunque l’abbia aiutato in questa missione e come sia stata compiuta non sarà mai rivelato. Sono sicura che non ha coinvolto familiari e amici per proteggerli”, ha spiegato la Jones. Sarebbe stato il musicista stesso ad aver chiesto al medico la prescrizione di una dose letale di medicine. David Bowie scelse il suicidio assistito. Bowie, uno dei più innovativi ed eclettici artisti degli ultimi 50 anni, non avrebbe coinvolto persone a lui vicine per ragioni legali: il suicidio assistito non è consentito in diversi stati americani, tra i quali quello di New York dove il Duca Bianco è deceduto. Sulla notizia, al momento, la famiglia del cantante non ha ancora rilasciato dichiarazioni. La voce di una morte pianificata circola tuttavia da tempo. Tony Visconti, suo storico produttore e amico da oltre 40 anni, ha ammesso su Facebook dopo la sua morte che Bowie considerava Blackstar, il suo ultimo album pieno di citazioni, allusioni e riferimenti sulla fine della vita, una sorta di auto-epitaffio, consapevole com’era della gravità del male che lo aveva colpito. Bowie aveva inoltre espresso la volontà a chi gli era vicino di andarsene “senza troppo rumore” e di non voler un funerale, neanche in forma privata. Il suo corpo è stato cremato in gran segreto a New York e le sue ceneri sono state disperse nell’isola di Bali in Indonesia con il rituale buddista (e non al Burning Man di Black Rock City, come riportato in un primo momento da alcuni media).

·         Zapata, l’anti-eroe che 100 anni fa cambiò il Messico.

Zapata, l’anti-eroe che 100 anni fa cambiò il Messico. Mauro della Porta Raffo: non era ideologico, la sua istanza era tornare alla terra e ai contadini. Fu ucciso in un’imboscata il 10 aprile 1919. Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Monica Ricci Sargentini su Corriere.it. Oggi ricorre l’anniversario di Emiliano Zapata, il rivoluzionario messicano che fu ucciso in un’imboscata a Chinameca nel 1919 ma che continua a vivere nel cuore di molti in Messico e all’estero. «La sua è una figura straordinaria — spiega lo scrittore e saggista Mauro della Porta Raffo —, lui viene dal meridione contadino, dallo Stato del Morelos. La sua è una lotta per tornare al passato, all’Ejido quando i contadini coltivavano insieme le terre e si dividevano il ricavato». Poi Porfirio Diaz introduce il latifondismo e nei villaggi dilaga la miseria. È da qui che nasce il suo impeto rivoluzionario. Verso la metà del 1910, dopo vari tentativi di risolvere i problemi della ridistribuzione dei terreni per via legale, Zapata e i suoi cominciano a occupare e a ridistribuire terre. «Sì, Zapata non agiva per un’ideologia — aggiunge Raffo — la sua vera istanza era tornare alla terra e ai contadini. Quando nel 1914, insieme con Pancho Villa, entra a Città del Messico, si rifiuta di sedersi sulla sedia del presidente: “Non combatto per questo. Combatto per le terre, perché le restituiscano” è la sua risposta». Prima di passare alla lotta armata chiede un colloquio a Diaz: «Sì, come prima cosa per combattere il latifondo va a parlare con il presidente e gli intima di tornare alla situazione precedente. Lui, come era nel suo stile, gli assicura che andrà tutto a posto ma non fa nulla». La sua alleanza con Pancho Villa è un asse portante della rivoluzione messicana: «Interessante è il rapporto tra i due rivoluzionari, uno del Sud e l’altro del Nord. Avevano un carattere opposto. Zapata era ombroso mentre Villa era espansivo». Zapata muore nel 1919 a Chinameca vittima di un’imboscata ordita da Jesus Maria Guajardo che gli aveva promesso armi e munizioni. Eppure gli zapatisti erano noti per essere inafferrabili: colpivano i distaccamenti militari e scomparivano. «Lui era pressato dalla necessità di trovare a ogni costo armi e munizioni per i suoi uomini, da tempo sotto scacco a opera delle truppe del generale carranzista Pablo Gonzales. Per questo accetta l’invito del colonnello Guajardo e parte alla volta di Chinameca con la sola compagnia di trenta guerriglieri a cavallo. Guajardo è uomo di Gonzales ma si è prospettato quale possibile alleato liberando un capitano zapatista suo prigioniero e inviandolo da Emiliano». Il giorno prima di morire una curandera predice la sua morte, in qualche modo lo mette sull’avviso, ma lui ci va lo stesso. «Si dice che Emiliano sia andato incontro coscientemente al suo destino: aveva, infatti, ricordato pochi giorni prima ai suoi che per il trionfo finale di una causa è necessario il martirio di un eroe». Un personaggio che vale assolutamente la pena ricordare: «È una figura straordinaria, una leggenda — racconta ancora Raffo —. Per anni nessuno ha creduto alla notizia della sua morte nonostante il suo cadavere fosse stato esposto in pubblico e la sua testa fosse stata fatta girare per i villaggi del Morelos. Ancora oggi c’è chi dice che lo vede su un cavallo bianco e ancora oggi c’è chi si dichiara zapatista. Questo qualcosa vorrà pur dire». Emiliano Zapata ha ispirato tantissima letteratura e almeno due film: «Indimenticabile è Viva Zapata girato nel 1952 da Elia Kazan su sceneggiatura di John Steinbeck. Un film eccezionale, un capolavoro in bianco e nero, con Marlon Brando che interpreta Zapata e Anthony Quinn nel ruolo di Eufemio, il fratello di Emiliano».

·         Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti.

Rino Gaetano avrebbe compiuto 69 anni : quella scrittura unica del privato che è politico. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Citato, stracitato, usato come paragone spesso con vaghezza e imprecisione, Rino Gaetano, il cui nome viene utilizzato con grande frequenza nel raffronto tra il vecchio e il nuovo mondo del cantautorato italiano, avrebbe compiuto oggi 69 anni. Se un incidente d'auto non lo avesse ucciso sulla Nomentana all'alba di quel 2 giugno 1981, dopo una delle sue notti brave in giro per la Capitale, oggi probabilmente starebbe ancora cantando e arrischiarsi in paragoni superflui con le le leve più giovani sarebbe ben più difficile. Diventato nella vulgata come un sinonimo di «strambo», «non incasellabile» oppure addirittura il simbolo di un modo di cantare ruvido, un po' rozzo e definitivamente liberato dai dettami del bel canto italiano, la verità è che Rino Gaetano resta un'esperienza di scrittura musicale perlopiù irripetuta nella nostra canzone. In primis dotato di quell'autorialità rara in grado di passare con agilità assoluta dall'intimo al sociale, la pubblico al privato, dalla stanza di casa a quella del bar, Rino Gaetano è stato il cantautore che in modo più trasversale ha raccontato gli anni Settanta in tutta la loro delicatissima evoluzione e, specialmente, nella loro conclusione. Nella sua penna gli esiti del Movimento sono annunciati e il riflusso è dietro l'angolo già prima che si cominci, sì, ma il privato che è politico è una vera e propria base poetica. Chi mi ama escluso il cane?  (...) Escluso il cane non rimane che gente assurda /con le loro facili soluzioni / nei loro occhi c'è un cannone / e un elisir di riflessione / e tu non torni qui da me... / perché non torni più da me? L'amore è un fatto che entra in relazione con la piazza, con l'evoluzione e l'involuzione del tempo che corre, e allo stesso modo, per raccontare la nazione, serve partire da una storia singola, per descriverne la sinusoide emotiva e i movimenti politici e le disfatte del occorre entrare in un nome proprio e nelle sue, di disfatte, nelle sue sinusoidi emotive e nei suoi movimenti. L'Italia allora non è l'Italia ma è Aida, l'opera lirica di Verdi che si fa nome proprio femminile, un nome che serve qui a sintetizzare la storia di ogni donna italiana e quindi, come disse Gaetano in più d'una intervista, proprio della nazione intera. La chiesa cattolica, il nazionalismo e il colonialismo, il fascismo, i compromessi del secondo dopoguerra, i "trent'anni di safari", cioè di lotte tra politici, imprenditori e uomini di spettacolo. Ma Aida è bellissima e Rino Gaetano non fa che dircelo, ce lo dice anzi così tanto che quel come sei bella è il ritornello della sua canzone, cioè lo snodo chiave, quello che non deve mai andarsene dalla memoria, quello che insomma, nonostante tutto, oltre tutto, tra le metafore sottilissime e azzeccate, tra il bene e il male raccontati, ci dobbiamo sempre ricordare. Questo magma tra personale - spesso ferocemente sentimentale pur con sarcasmo e ironia appuntitissimi - e nazionale, è la chiave di volta di un'intera discografia ed è il tratto che sarebbe interessante ritrovare, fuor di retoriche abusate, in questa nuova canzone italiana, proprio ora che si potrebbero aggiungere così tante strofe persino ad Aida, politicamente e confidenzialmente parlando.

Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti. I segreti della longevità del geniale cantautore, morto il 2 giugno 1981. Gabriele Antonucci il 2 giugno 2019 su Panorama. “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio: io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale”. La profezia che fece Rino Gaetano in un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979 si rivelò esatta. Il geniale cantautore crotonese, nato il 29 ottobre del 1950, ci ha lasciato 38 anni fa, eppure le sue canzoni sono ancora oggi così amate e ascoltate, anche dai più giovani, che riesce difficile pensare a una sua scomparsa ormai lontana.

Il 2 giugno del 1981 Rino Gaetano perse la vita in un incidente a via Nomentana, poco distante da casa sua, nel quartiere di Montesacro. La sua auto finì addosso ad un camion proveniente dall’altra corsia, ma il cantante non morì sul colpo. Dopo che tre ospedali rifiutarono il suo ricovero, morì per le gravi ferite riportate alla testa.

Le inquietanti coincidenze. È incredibile come lo stesso cantautore, 11 anni prima, aveva raccontato ne La ballata di Renzo la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e perfino dal cimitero. Nel brano La ballata di Renzo cantava: «Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l’accettarono forse per l’orario si pregò tutti i Santi ma s’andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l’alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c’era in alto il sole, si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c’era posto». Una somiglianza inquietante con quello che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo allo stesso Gaetano, arrivato al Policlinico Umberto I già in condizioni disperate. Sulle sue ultime ore di vita non sono mai stati fugati del tutto  dubbi  e sospetti, come conferma la pubblicazione di un saggio,  Rino Gaetano , la tragica scomparsa di un eroe di Bruno Mautone, nel quale l’autore  sostiene che l’artista sia stato ucciso dalla massoneria deviata. La notte dell’incidente un’ambulanza dei vigili del fuoco lo portò al San Camillo, dove venne però rifiutato il ricovero perchè non attrezzato a prestargli soccorso. Verrà poi rifiutato anche dall’ospedale San Giovanni e infine portato al Policlinico Umberto I nel quale, però, il reparto di traumatologia non era funzionante. Dopo alcune ore di agonia, senza aver ricevuto alcuna cura, il cantautore morirà verso le sei del mattino a soli 31 anni. In un primo momento gli verrà perfino rifiutata la sepoltura al cimitero del Verano, dove riposano numerosi personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, e soltanto dopo le pressioni di alcune personalità verrà trasferito definitivamente lì. Nel 2012 il Comune di Roma ha dedicato al cantante una targa commemorativa sul palazzo di Via Nomentana Nuova 53, dove Rino ha abitato dal 1970 fino alla sua scomparsa.

La nona edizione del Rino Gaetano Day. La nona edizione del Rino Gaetano Day, organizzata dall'Associazione Rino Gaetano Onlus per ricordare, come da tradizione, la scomparsa del geniale cantautore, si terrà lunedì 24 giugno presso l’Ippodromo delle Capannelle nell'ambito del festival Rock in Roma. Il Rino Gaetano Day, svoltosi nel corso delle precedenti edizioni nella cornice di Piazza Sempione, cambia quest’anno data e location per motivi di ordine pubblico, ma resta immutato negli intenti: un evento ad ingresso libero e solidale, un viaggio emozionante, tra immagini e canzoni, per ricordare Rino Gaetano nella città in cui è vissuto e cresciuto artisticamente, quasi a voler salutare un amico, un fratello, attraverso i suoi più grandi successi. In serata il concerto della Rino Gaetano Day, cover band ufficiale di Rino Gaetano, fondata nel 1999 dalla sorella, Anna Gaetano, e in cui suona il nipote Alessandro. Nei vent'anni di attività, la band ha calcato i palchi di tutta la penisola, condividendo momenti indimenticabili con i tantissimi fan che amano e ascoltano la musica di Gaetano, e soprattutto con quanti non lo conoscono ancora, per diffondere i suoi ideali, cantando le sue canzoni piene di ironia e di originali spunti sulla vita. A quasi 40 anni dalla prematura scomparsa del cantautore, alcuni dei suoi più significativi brani torneranno a vivere sul palco del Rock in Roma, in uno spettacolo-memorial che ripercorrerà le tappe più importanti della breve ma intensa carriera artistica di un personaggio ormai entrato nel mito. Alla serata-evento, inoltre, parteciperanno artisti che hanno raccolto l’eredità culturale di Rino e che sceglieranno di interpretare una sua canzone o, comunque, di rendergli omaggio. Rino Gaetano Day, nelle passate otto edizioni, ha ospitato diversi enti benefici per supportare il loro impegno sociale e solidale. La manifestazione musicale ha da sempre coinvolto, accanto ad artisti più noti quali Sergio Cammariere, Simone Cristicchi, Claudio Santamaria, Francesco Di Giacomo, Marco Ligabue, Pino Insegno, Mauro Casciari, Pierdavide Carone, Massimo Di Cataldo, Diana Tejera, Arturo Stalteri, Zibba, Babalot, Peppe Voltarelli, Tetês de Bois, Andrea Rivera e Daniele Luchetti, anche giovani esponenti della nuova scena cantautorale.

Il segreto del successo di Rino Gaetano. Il segreto della longevità di Rino Gaetano è nella sua capacità unica di coniugare un’impareggiabile attitudine all’ironia e allo sberleffo con una graffiante satira politica e sociale. In un paese come il nostro, da sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini, la sua musica ha messo d’accordo sia la destra che la sinistra proprio perché non ha risparmiato nessuna delle due parti, tanto meno il centro. Per questo non è mai stato catalogabile, a differenza di altri suoi colleghi degli anni Settanta, in uno schieramento politico. Rino non si limitò ad accenni generici all’attualità politica e ai suoi protagonisti, ma nelle sue canzoni fece i nomi e i cognomi e, anche per questo, i suoi testi e le sue esibizioni dal vivo sono stati più volte censurati. Il suo universo è affollato di santi vestiti d'amianto che salgono sul rogo, di donne immaginarie che filano la lana e fiutano tartufi, di cieli blu e di notti stellate, di amabili prostitute e di detestabili politici di ogni schieramento. Gaetano era accessibile e oscuro al tempo stesso, le sue canzoni venivano ballate in discoteca e facevano da colonna sonora delle manifestazioni politiche. Una canzone esemplare di questa sua attitudine allo sberleffo intelligente è Nuntereggae più nella quale, a ritmo di reggae, punta ironicamente il dito contro Gianni Agnelli, Enrico Berlinguer, le logge massoniche, il decano del giornalismo sportivo Gianni Brera e lo scandalo della spiaggia di Capocotta. Come non ricordare, poi, la sua fortunata partecipazione al Festival di Sanremo, dove nel 1978 si classificò terzo con la scanzonata Gianna, esibendosi in frac, camicia a righe rosse e scarpe da ginnastica?

Gli esordi. Eppure i suoi esordi discografici sono stati tutt’altro che esaltanti. Dopo alcune esperienze teatrali, tra i quali il ruolo della volpe nel Pinocchio di Carmelo Bene, Gaetano iniziò ad esibirsi nel leggendario Folkstudio, inesauribile fucina artistica dei cantautori romani, dividendo spesso il palco con gli allora sconosciuti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Si accorge del suo talento il produttore Vincenzo Micocci, che gli permette di pubblicare i suoi primi due singoli I love you Maryanna e Jaqueline, incisi dal cantante con lo pseudonimo di Kammamuri’s, e il primo album Ingresso libero, pubblicato dalla It nel 1974. Né pubblico né critica restano particolarmente colpiti dal cantautore crotonese, che si mette in luce un anno dopo con il 45 giri Il cielo è sempre più blu, un saggio della sua capacità di tenersi in perfetto equilibrio tra satira e  nonsense. Nel 1976 il pubblico si accorge delle sue singolari qualità grazie al secondo album Mio fratello è figlio unico, trascinato dalla splendida title track, una struggente ballad in bilico tra affetti familiari e denuncia sociale. Nel disco spicca anche l’emozionante canzone d’amore Sfiorivano le viole (video qui sotto), da molti considerato uno dei vertici della sua produzione artistica.

Il successo. Il terzo album Aida del 1977 è una piacevole conferma, ma è con il successivo Nuntereggae più e soprattutto grazie al terzo posto a Sanremo con l’orecchiabile e maliziosa Gianna che Rino entra ai piani alti delle classifiche. Il 1979 segna il suo passaggio dalla piccola etichetta It a una major come l’Rca, con la quale pubblica il suo quinto album Resta vile maschio, dove vai?. Nel 33 giri troviamo la divertente melodia spagnoleggiante di Ahi Maria, l’emozionante ritratto della amata Calabria in Anche questo è Sud e la sferzante satira politica di Nel letto di Lucia. Gaetano è ormai lanciatissimo, tanto che, dopo la pubblicazione nel 1980 del suo ultimo album in studio E io ci sto, viene chiamato da Riccardo Cocciante per alcune tappe di un tour fortunatissimo, che verrà ribattezzato Q Concert.

L'incidente mortale. Proprio nel periodo di massimo fulgore, nel quale stava prendendo forma un lavoro sperimentale intitolato provvisoriamente Alice, un tragico incidente stradale ha interrotto il 2 giugno del 1981 la sua parabola umana e artistica. Nel 2007 la fiction Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, trasmessa in prima serata da Rai Uno, ha fatto scoprire a tanti giovani la musica di Rino Gaetano, grazie anche all’eccellente interpretazione di Claudio Santamaria. La miniserie ha avuto un grande successo di ascolti, dimostrando ancora una volta l’attaccamento del pubblico al cantautore calabrese, ma non è piaciuta alla sorella Anna, secondo la quale la figura di Rino è stata troppo romanzata. In effetti non deve essere stato semplice riassumere, in due sole puntate di una fiction, una personalità complessa e fuori dagli schemi come quella del cantautore. Quella personalità che rende ancora oggi le canzoni di Gaetano incredibilmente fresche e attuali.

·         «Luigi Tenco è morto di noia».

Antonio Lodetti per il Giornale il 14 Ottobre 2019. Luigi Tenco non riesce proprio a riposare in pace. Anche il Premio Luigi Tenco - dal 17 al 19 ottobre prossimi all' Ariston di Sanremo - è finito nell' occhio del ciclone. La famiglia del cantautore che si uccise al festival di Sanremo 1967 quest' anno si dissocia dalla manifestazione e ne prende energicamente le distanze. «A malincuore - scrive in una nota la famiglia Tenco - ci troviamo a dover esternare il nostro dissenso su parte dei significati della prossima edizione del Premio Tenco che ci obbliga a dissociarci da questa edizione. L' accostamento del Premio Tenco ad altri festival musicali che nella maggior parte dei casi hanno interessi commerciali rappresenta uno snaturamento inconcepibile ed in contrasto con le ragioni per cui fu istituito. La distorsione della storia del cantautorato, diffusa addirittura da chi dovrebbe rappresentare il Tenco 2019, evidenzia interessi ben lontani da quelli perseguiti per decenni dal Premio Tenco». Una presa di posizione molto dura a difesa dell' integrità di un artista che aveva fatto della purezza il suo stile di vita. Eppure ci sono tanti cantautori, nel parterre della manifestazione, tra cui Morgan (che sarà anche conduttore), il glorioso leader degli Animals, Eric Burdon, e poi Gianna Nannini, Daniele Silvestri, Vinicio Capossela, Manuel Agnelli e Rancore, Nina Zilli, Levante, Ron, Petra Magoni, Achille Lauro. «Ma il Tenco deve riscoprire i cantautori - dice Michele Piacentini, ufficio stampa della famiglia - non lanciare personaggi già noti che poco hanno a che fare con il cantautorato». E poi ci sono eventi come «L' Aperi-Tenco» o la «Movida-Tenco», che per la famiglia tendono a trasformare «l' importante significato del Premio Tenco in un banale circo-spettacolo in cui tentano di trovare visibilità quelle persone e quelle aziende appartenenti a mondi molto lontani da quello della canzone». Eppure ci sarà anche un seminario su Fabrizio De André ad animare la tre giorni. La famiglia non ce l' ha con gli artisti, ma desidera che sia ripristinata «l' identità culturale» che in passato ha distinto il Premio Tenco dalle altre manifestazioni musicali e auspica «che venga recuperata la funzione originale di ricerca e scoperta di talentuosi cantautori, filosofia abbracciata da numerosi artisti prestigiosi alcuni dei quali sono presenti anche in questa edizione, in rispetto dei sacrifici di tutte quelle persone che hanno capito e poi diffuso gli alti valori umani e sociali per cui si batteva Luigi Tenco». Insomma non si scherza con l' immagine di Tenco, lo tenga presente chi vuole trasformare il Premio in una kermesse, magari mediatica o pubblicitaria. Gli organizzatori del Premio, nella conferenza stampa di presentazione di ieri, hanno ribadito il rispetto per la figura e l' opera di Luigi Tenco. «Questo intervento - ha dichiarato Nino Imperatore - ci ha sorpreso, stupito e addolorato; non ce lo aspettavamo e ci ha sorpreso anche la tempistica, quasi chirurgica, con l' odierna presentazione. Valuteremo come Club queste affermazioni, non vogliamo entrare nel merito delle stesse. Ovviamente loro hanno il diritto di esprimere la loro opinione, speriamo che sia un atteggiamento nato da un equivoco e da una mancanza di comunicazione tra le parti che a volte è difficile. La famiglia Tenco è sempre invitata a vivere la rassegna, a maggior ragione quest' anno, per vedere che il programma merita comunque. Pensiamo che questa rassegna per la prima volta ha uno spessore culturale mai visto prima. Comunque non vogliamo commentare in questa sede il comunicato». Anche il presidente di Confcommercio Sanremo, Andrea Di Baldassare, si è affrettato a comunicare alla famiglia che gli eventi collaterali saranno contornati da musica d' autore di alto livello, come Luigi Tenco merita.

«Luigi Tenco è morto di noia»:  il Rino Gaetano pensiero, nelle sue stesse parole. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Giulia Cavaliere su Corriere.it. Nei suoi discorsi e nelle sue canzoni quella dell'automobile era un'immagine che tornava molto spesso, qualcosa che oggi, a 38 anni esatti dal giorno in cui il giovane Rino Gaetano, trentenne, morì proprio per un incidente stradale avvenuto in piena notte in via Nomentana, a Roma, impressiona davvero. Quelle che troverete di seguito sono alcune dichiarazioni rilasciate da uno dei più brillanti autori della canzone italiana, forse, anche involontariamente, il più ripreso negli slanci da grande parte della canzone italiana che lo ha succeduto, quello che, per modernità o anzi vera contemporaneità, ha lasciato davanti e non dietro di sé la scia più imponente. Le dichiarazioni che troverete qui sotto arrivano da interviste con Gianni Boncompagni, con Enzo Siciliano e dal prezioso "Ma il cielo è sempre più blu. Pensieri, racconti e canzoni inedite" proprio di Gaetano, curato da M.Cotto. Io ho studiato due anni pianoforte, poi ho smesso di studiare e sono passato alla chitarra che alla fine è il mio strumento, quello su cui scrivo. Generalmente succede che sto in macchina, penso a un motivo, a un'aria e cerco di ricordarmela, di cantarla proprio fino all'esaurimento altrimenti me la scordo subito, perché tra l'altro ho poca memoria. Arrivato a casa la registro, poi quest'aria ovviamente mi ispira un testo. A volte però succede anche il contrario, che sto in macchina, vedo un paesaggio marino bellissimo e decido di raccontarlo in una canzone. Cerco di descrivere le foglie gialle che cadono e cadendo fischiano. E fischiano e fanno “cip cip” perché cercano di imitare il suono degli uccelli. Una volta che ho trovato queste frasi molto belle, molto bucoliche, queste cose qui, cerco di rileggermi queste frasi a casa con la chitarra, cercando da queste frasi un'ispirazione musicale.

·         Giuni Russo. Una voce di Libertà.

GIUNI RUSSO, UNA VOCE DI LIBERTA'. Giulia Cavaliere per corriere.it il 14 settembre 2019. Moriva 15 anni fa, davvero precocemente, quella che, senza alcun dubbio, è stata non solo, insieme a Mina, la più grande voce italiana di tutti i tempi, ma anche una donna che artisticamente ha contribuito in modo massiccio a un rovesciamento della percezione dei dettami performativi e artistici della figura della 'cantante donna italiana'. La conosciamo con il nome Giuni Russo ma all'anagrafe era Giuseppina Romeo, nata nella Palermo che si spalancava sugli anni '50, in una famiglia dove l'arte, e la musica specialmente, erano di casa e dove la genetica si sarebbe fatta sentire, è proprio il caso di dirlo, a gran voce. La madre di Giuni, infatti, era una soprano. La prima canzone pop cantata da Giuni, quella che le valse la prima vittoria a un festival della canzone, fu "A Chi" di Fausto Leali, con cui si impose a Castrocaro nell'edizione del 1969.

Da Sanremo a Milano. Partecipa a Sanremo nel 1968 con il nome Giusy Romeo, che diventerà poi Junie Russo quando, nei vorticosi giri delle prime case discografiche, approdata alla BASF, c'è il desiderio di lanciarla sul mercato internazionale. All'inizio però Giuni incide un brano scritto da Al Bano e apre e chiude a gran velocità una collaborazione poco fruttuosa con la Columbia che di fatto la fa fuori al primo insuccesso. La sua nuova vita è a Milano, dove arriva nel 1969 e che considererà la sua seconda terra natale per tutta la sua vita. Proprio a Milano, quasi subito, Giuni incontra Maria Antonietta Sisini, la donna con cui dividerà 36 anni di vita e creatività. Con Maria Antonietta scriverà canzoni come Una vipera sarò, Mediterranea, Alghero, Limonata Cha Cha Cha, Adrenalina, La sposa, La sua figura, Morirò d'amore e molte altre.

Volo di gabbiani. Giuni Russo poteva cantare come i gabbiani, non si tratta di un paragone colorito e arbitrario, ma di un semplice dato tecnico: la sua estensione vocale straordinaria che non è troppo definire come quasi sovrumana, sapeva coprire cinque e ottave e riprodurre naturalmente il 'fischio' del gabbiano - cosa che possiamo ascoltare e cogliere anche nella sua hit più famosa, Un'estate al mare. Nonostante questo la sua vita artistica non è sempre stata semplice e Giuni ha dovuto lottare contro le trappole di una discografia che l'avrebbe voluta intrappolata nella veste di cantante di successi commerciali, a discapito di quella sua tanto naturale quanto straordinaria tensione alla ricerca canora e sonora e alla sperimentazione. In più di un caso, memorabile quello alla CGD con cui ruppe nel 1985, la sua evoluzione artistica venne ostacolata a favore di altri nomi ed esperienze considerati più "sicuri" (nel 1984, per esempio, avrebbe dovuto partecipare al Festival di Sanremo, ma la CGD annullò all'ultimo la sua candidatura per concentrarsi sul ritorno in scena di Patty Pravo, messa da poco sotto contratto).

Con Franco Battiato. La sua vita artistica, tuttavia, fu anche piena di grandi amicizie, collaborazioni ed esperimenti musicali straordinari. Su tutti l'incontro con Franco Battiato, presentato a Giuni da Alberto Radius che diventa complice dei maggiori successi della cantante. Gli anni al lavoro con Franco Battiato, Giusto Pio, Alberto Radius e Maria Antonietta Sisini sono gli anni d'oro di Giuni, a partire dalla nascita del suo capolavoro Energie, disco del 1981 in cui Battiato è produttore artistico e coautore di tutti i brani sia per le musiche che per i testi. Energie, con brani come Crisi metropolitana e Una vipera, sarò è diventato disco di culto ancora non sufficientemente conosciuto nella storia dell'elettropop colto italiano, nonostante ne sia esponente di spicco. Il disco viene poi ristampato con l'aggiunta di Un'estate al mare, dopo il grande successo raggiunto dal singolo - che vinse il Festivalbar e stazionò primo in classifica per otto mesi.

Dal pop alla lirica. I tornanti e i cambi di rotta nella storia straordinaria di quest'artista restano tantissimi anche dopo il primo grande successo - replicato qualche tempo dopo con il singolo Alghero; Giuni, che morirà a soli 53 anni nella notte tra il 13 e il 14 settembre 2004, era infatti un'artista in continuo movimento, affamata, intellettuale e di unica profonda. Capace di sfidare le convenzioni sociali del suo tempo, tanto contro i paraocchi sociali nei confronti dell'amore vero quanto contro quelli dell'arte vera, oltre a Energie, con i suoi album Vox e Mediterranea ha fatto storia e scuola con un pop italiano oggi ancora troppo periferico, cioè ancora intrappolato dalla notorietà di una manciata di - bellissime - hit, pop che invece nasconde e sa rivelare molti dei mondi a cui Giuni si sarebbe affacciata dopo poco: world music, lirica, e molto ancora. Come spesso accade, infatti, nel pop c'è già il seme di tutte le esplorazioni che verranno.

Giuni Russo, ira della compagna: «La Rettore mente, rispetto per il suo male». Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it. «Rettore non ha visto né sentito Giuni negli ultimi anni». Maria Antonietta Sisini, produttrice, principale collaboratrice e compagna di vita di Giuni Russo per 36 anni, smentisce le dichiarazioni fatte da Donatella Rettore venerdì nella trasmissione di Rai1 «Vieni da me». «Purtroppo sono costretta a rompere il mio riserbo sulla malattia di Giuni Russo, artista con la quale ho lavorato e vissuto per 36 anni e di cui porto avanti l’eredità artistica». «Rettore - ribadisce Sisinni - non ha visto né sentito Giuni negli ultimi anni. Giuni nel 2004 non ha fatto chemioterapia, ha smesso nel 2003. Dopo le sedute di chemio non aveva nessuna voglia di parlare al telefono con chicchessia». La cantautrice, nota per «Un’estate al mare» e «Alghero», è morta nel 2004, a 53 anni. Con la Rettore aveva cantato «Adrenalina». Sabato Donatella Rettore, ospite del programma di Caterina Balivo, aveva ricordato l’amicizia con Giuni Russo e confidato: «Ho accompagnato Giuni Russo attraverso l’estate del 2004, non mi è piaciuto che abbia sofferto così tanto. Secondo me bisogna lasciare una libera scelta a chi vuol soffrire fino all’ultimo e a chi se ne vuole andare con dolcezza». «Ricordo che mi chiamava dopo le sedute di chemioterapia. Mi diceva `sto talmente male, se parliamo mi sento meglio´», aveva aggiunto Rettore, cogliendo lo spunto per una riflessione sul fine vita. «Non mi è piaciuto che abbia sofferto così tanto. Secondo me bisogna lasciare una libera scelta a chi vuol soffrire fino all’ultimo e a chi se ne vuole andare con dolcezza». Ma la compagna di Giuni smentisce il racconto: «Giuni è stata assistita dalla sottoscritta e dalla Vidas, che non smetterò mai di ringraziare perché grazie alle loro cure Giuni non ha sofferto. Non vado oltre, perché ho sempre tenuto il riserbo che Giuni merita», conclude la produttrice, musicista e scrittrice, che dopo la morte della compagna, si è dedicata a preservarne l’eredità artistica con l’Associazione Giuni Russo.

·         Alex Baroni, 17 anni fa moriva il cantante dopo un incidente stradale.

Alex Baroni, 17 anni fa moriva il cantante dopo un incidente stradale. Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Corriere.it. Diciassette anni senza Alex Baroni. E senza quella sua voce, così particolare e unica. Era il tardo pomeriggio del 19 marzo del 2002: il cantante, in sella alla sua moto, stava percorrendo la circonvallazione Clodia (zona tribunale penale) quando, all’incrocio con via Fasana, è stato travolto da un’automobile che faceva inversione in un tratto di strada dove invece quella manovra non era consentita. Il cantante venne sbalzato via e venne investito da una seconda auto che sopraggiungeva. Fu subito chiaro, a chi prestò i soccorsi, che le sue condizioni erano disperate: entrato in coma, Alex non ne uscì più. E dopo venticinque giorni di agonia, trascorsi nel letto dell’ospedale Santo Spirito di Roma, a soli 36 anni morì. Nato a Milano, da alcuni anni aveva scelto di vivere nella Capitale. Laureato in chimica, gli esordi nel mondo della musica vedono Alex Baroni corista per Francesco Baccini, Spagna, Eros Ramazzotti e Rossana Casale. Il successo arriva nel 1997 quando partecipa a Sanremo giovani e la sua «Cambiare» vince il premio assegnato dalla giuria di qualità. Alla partecipazione all’Ariston segue il primo disco «Alex Baroni» e il tour. Solo pochi mesi più tardi viene scelto dalla Disney per cantare nella versione italiana del film «Hercules». L’anno successivo partecipa ancora a Sanremo con «Sei tu o lei (quello che voglio)», che lo ha porta al secondo album. Nel ‘99 esce il terzo album «Ultimamente». La sua vita e la sua carriera sono segnati dall’incontro con Giorgia, la sua compagna per cinque anni. Che ogni anno ricorda la scomparsa di Alex. Quest’anno lo ha fatto in un’intervista a Verissimo. «Non sono mai stata brava a parlare di lui - spiega Giorgia - ma Alex va ricordato, come uomo e come artista, perché ha rappresentato un momento importante per la musica italiana». E ancora: «La sua perdita è stata devastante, una voragine nella mia vita e in quella della sua famiglia. La sera prima di morire mi aveva lasciato un messaggio sul telefono al quale non avevo risposto. Questo messaggio l’ho conservato per molto tempo, poi mi si è cancellato credo sia stato un segno».

17 anni fa moriva Alex Baroni, i fan lo ricordano con le sue canzoni. Il 13 aprile 2002 il musicista è morto in un incidente stradale. Il ricordo è ancora vivo tra chi amava la sua musica, scrive il 13 aprile 2019 La Repubblica. Passano gli anni ma il dolore per la morte di Alex Baroni non passa in chi ha amato lui e la sua musica. Diciassette anni dopo quel 13 aprile i suoi fan hanno riempito i social di ricordi e pensieri, ma soprattutto dei brani delle sue canzoni. Milanese, aveva iniziato la sua carriera negli anni Novanta cantando nei vari locali della città, poi era diventato corista per altri (Ramazzotti, Ivana Spagna, Rossana Casale) fino a debuttare come solista nel 1997 con un album che porta il suo nome. Dopo quello ne sono seguiti altri sette compreso uno postumo, C'è di più, e diverse raccolte. Il 19 marzo del 2002 mentre percorreva ad alta velocità una strada romana è rimasto vittima di un incidente con la sua moto, sbalzato dopo l'impatto con una macchina mentre stava facendo un'inversione di marcia vietata. Giorgia, che è stata la sua compagna  tra il 1997 e il 2001, lo ha tante volte ricordato pubblicamente e sui social. L'ultima volta pochi mesi fa nel giorno in cui il musicista avrebbe compiuto 51 anni (ne aveva 35 quando è morto). "In quell'angolo deserto del cuore risuona l'eco delle tue parole delle note di un tempo fermo immobile che non sente ragione e che niente vuol dimenticare, mai" scriveva la cantante che a Baroni ha dedicato molte canzoni tra cui Per sempre, Gocce di memoria, Marzo.

·         Prince: tre anni senza il genio del funk-rock.

Giuseppe Videtti per "la Repubblica" il 2 novembre 2019. L'avrebbe mai terminata la sua autobiografia? E, soprattutto, l' avrebbe mai data alle stampe, senza mille ripensamenti, correzioni, prefazioni e postfazioni, aggiustamenti e aggiunte dell' ultim'ora? Avrebbe onorato quel contratto con la Random House che con tipico distacco aveva fatto firmare da un fiduciario?

Prince (Prince Rogers Nelson, 1958-2016) non era un artista dalle decisioni univoche; poteva completare un intero album e nasconderlo in fondo al cassetto; annunciare un tour e poi rivoluzionarne le date; consegnare i master per la stampa del disco e bloccarne l' uscita. Era un genio controcorrente che né sette Grammy né un Oscar (per Purple Rain ) né gli oltre 100 milioni di dischi venduti hanno piegato alle logiche del mercato.

La compilazione di The Beautiful Ones - L' autobiografia incompiuta , il libro curato dal trentatreenne Dan Piepenbring, che HarperCollins pubblica in Italia il 14 novembre (verrà ufficialmente presentato il 12 nel corso di un #Purpleparty all' Arizona 2000 di Milano), a metà tra scrapbook, biografia e autobiografia, non è stata facile neanche dopo la morte dell' artista per quell' overdose di Fentanyl - l' assenza di un testamento ha scatenato una tale ridda di pretendenti da disorientare anche i giudici. Morte misteriosa, come la sua vita, come la scelta bizzarra di quel Piepenbring, bianco e di ventisette anni più giovane, che lui chiamava «fratello Dan» e aveva preferito a più accreditati biografi. Forse era rimasto intrigato da quella breve relazione che il giovanotto era riuscito a fargli arrivare. «Quando ascolto Prince, ho la sensazione di violare la legge La prima volta che mi trovai a guidare da solo a Baltimora, accesi la radio e sentii un uomo che cantava di voler essere una donna, rivelando una specie di primitivo desiderio psicosessuale senza filtri e quell' esperienza scardinò la porta del mio cervello» , recitava tra l' altro. «Devi scrivere come se volessi vincere il premio Pulitzer» , disse Prince consegnandogli, durante un tour in Australia, una ventina di pagine scritte a mano. Piepenbring le divorò: «Aveva scritto sulla propria infanzia e sulla propria adolescenza a Minneapolis. Sfogliai velocemente, trovando una messe di aneddoti giovanili, tutti sensoriali, quasi tattili. Rievocava il primo bacio mentre giocava a moglie e marito con una bambina del quartiere.

Descriveva anche l' epilessia di cui aveva sofferto durante l' infanzia». Piepenbring non pensò di aver fatto gol, ma sicuramente si sentì a pochi passi dalla porta, anche se non aveva dimenticato gli strani incontri con cui Prince lo aveva messo alla prova: «Volevo chiederti una cosa: tu credi nella memoria cellulare? Mi è venuta in mente leggendo la Bibbia, la faccenda dei peccati del padre. Come sarebbe possibile senza la memoria cellulare?». La star puntava in alto: «Possiamo scrivere un libro che contribuisca a risolvere il problema del razzismo?», chiese a Dan. E aggiunse: «Miles Davis credeva esistessero solo due categorie di pensiero: la verità e le stronzate dei bianchi» . Gli promise anche aneddoti esplosivi su Michael Jackson («Parlando di lui puoi usare la parola "magia", ma non farlo MAI quando parli di me, con me solo FUNK» , intimò al giovane autore) che avrebbe fatto leccare i baffi ai pubblicisti della casa editrice. Purtroppo, l' ultima volta che "fratello Dan" sentì Prince fu domenica 17 aprile 2016, quattro giorni prima che morisse, dopo un concerto del "Piano & A Microphone Tour", e in quei pochissimi mesi non aveva neanche scritto il primo capitolo, anzi non aveva scritto un bel niente. Ma l' Estate incaricata di far fronte alle beghe ereditarie e di aprire lo "scrigno" di Minneapolis che il genio di Purple Rain aveva gelosamente tenuto segretissimo, non sarebbe riuscita a far ordine tra le carte (delle musiche inedite stanno già facendo generosamente "scempio"; il 29 novembre uscirà una ristampa del leggendario 1999 con 35 tracce inedite) senza il contributo di fratello Dan. «C' erano meraviglie ad attenderci a ogni passo», racconta l' autore. «Appunti e testi erano scarabocchiati su buste, retro di scontrini, carta da lettere di alberghi di nazioni remote». Così l' idea della biografia si è rimessa in moto; The Beautiful Ones non è certo il volume definitivo e omnicomprensivo vagheggiato da Prince (e nulla è svelato della vita segreta - eccessi compresi - che il divo conduceva all' interno del suo maniero e che noi morbosamente avremmo voluto conoscere), ma a parte le già strombazzate provocazioni contro la "corporate music" di Ed Sheeran e Katy Perry, contiene materiale fotografico mai visto prima e l' inizio di una storia (quella familiare) che fino ad allora l' artista aveva solo sublimato in canzoni (e nel film Purple Rain ).«Lo strepito di un litigio tra genitori è agghiacciante per un bambino. Se capita che si trasformi in uno scontro fisico, può diventare devastante» , scrive. E ancora: «Quando ero ragazzo, nel Northside di Minneapolis c' era troppo testosterone per i miei gusti Violente risse, gravidanze indesiderate, a volte persino sparatorie. Inoltre, la pubertà si abbatté su di me con la violenza di un uragano, & non facevo che pensare all' altro sesso». «I genitori vengono descritti in modo così approfondito perché sono il motivo per cui tre dottori diagnosticarono a Prince un "disturbo mentale" definendolo un giovane con "una personalità dissociata" », commenta l' autore. «Prince ha diciannove anni e ha passato metà della propria vita a suonare musica e l' altra metà a tentare di capire chi è veramente ». Non sarà stato quel "disturbo mentale" ad aver partorito il genio?

DAGONEWS il 28 ottobre 2019. Panico, gioia, shock: Dan Piepenbring ha vissuto tutto questo quando Prince lo ha spinto a collaborare al suo primo libro di memorie. Ma uno shock ancora più forte è arrivato quando ha ricevuto la notizia della morte della star. Sebbene il progetto sia finito nel caos quando Prince è morto il 21 aprile 2016, alla fine si è deciso di continuare a rimettere insieme i pezzi della straordinaria vita dell’artista permettendo a Piepenbring di accedere alle memorie lasciate dal cantante nella sua dimora di Paisley Park, a Minneapolis. Ora il frutto di quella seppur breve collaborazione è pronto: "The Beautiful Ones" uscirà sul mercato angloamericano il 29 ottobre, mentre in Italia arriverà sugli scaffali delle librerie il prossimo 14 novembre, edito da HarperCollins. Piepenbring ha trascorso dalle 12 alle 15 ore faccia a faccia con Prince tra Minneapolis, New York e in tournée a Melbourne. La loro ultima conversazione è avvenuta appena quattro giorni prima della morte di Prince. Era incentrata sui suoi genitori e sulle influenze contrastanti nella sua vita. Suo padre, John L. Nelson, era un musicista jazz disciplinato e timorato di Dio con un carattere esplosivo. Sua madre, Mattie Della Shaw, era una bellissima ragazza, amante del divertimento e con una vena testarda e irrazionale. La natura tumultuosa della relazione dei suoi genitori ha avuto un impatto sulla vita di Prince che traspare dalle sue memorie: «Il fatto che i tuoi genitori litighino lascia il segno in un bambino». I loro conflitti, il divorzio a 7 anni e l’impatto che entrambi hanno avuto sulla sua vita sono i temi prevalenti del libro. «Le memorie riguardano soprattutto la lotta per rimettersi in sesto» ha detto Piepenbring. Ma Prince ha scritto anche della sua pubertà, delle convulsioni che ha avuto da bambino e il suo primo bacio con una bimba di soli 5 o 6 anni mentre giocavano a casa. Piepenbring ha rinvenuto anche un album fotografico a Paisley Park che Prince ha deciso di realizzare nel 1977 all'età di 19 anni, a pochi giorni dal completamento del suo album di debutto, "For You". «Prince era alla ricerca di una seconda voce per rendere viva la sua visione, come una cassa di risonanza - ha detto Piepenbring - Penso che avremmo potuto sapere di più della sua storia. E avremmo potuto scrivere non solo questo libro, ma tanti. Mi ha detto che voleva scrivere un sacco di libri. Penso davvero che dicesse sul serio».

Da rockol.it il 28 ottobre 2019. Prince non era un fan di popstar come Ed Sheeran e Katy Perry. Tutt'altro. Il folletto di Minneapolis arrivò addirittura ad accusare i network americani e l'industria discografica più in generale di voler far piacere a tutti i costi la voce di "Thinking out loud" e la cantante californiana: "Cercano di farceli ingoiare a forza". Così, almeno, si evince da alcune lettere definite inedite contenute in "The beautiful ones. L'autobiografia incompiuta", libro che svela lati inediti della personalità e del carattere della star di "Purple rain". Il volume uscirà sul mercato angloamericano domani, 29 ottobre, mentre in Italia arriverà sugli scaffali delle librerie il prossimo 14 novembre, edito da HarperCollins. Come già riportato da Rockol, è una versione ridotta del libro di memorie che Prince stava scrivendo prima della sua morte, avvenuta nel 2016, insieme allo scrittore newyorkese Dan Piepenbring. Nelle 300 pagine, Prince è raccontato attraverso lettere inedite che sarebbero state trovate a Paisley Park, la sua dimora a Minneapolis, e poi foto, ritagli originali e testi della stessa autobiografia che aveva iniziato a scrivere.

Prince: tre anni senza il genio del funk-rock. Il 21 aprile del 2016 Roger Nelson fu trovato privo di vita, a soli 57 anni, nella sua casa di Minneapolis per una overdose accidentale di fentanyl, scrive Gabriele Antonucci il 20 aprile 2019 su Panorama. Sono passati tre anni da quel maledetto 21 aprile del 2016, giorno in cui Prince fu trovato, a soli 57 anni, privo di vita nella sua casa compound di Minneapolis, gettando nello sconforto milioni di fan in tutto il mondo. L’autopsia stabilì che la sua morte fu causata da un’overdose accidentale di fentanyl, un oppiaceo sintetico 50 volte più potente dell’eroina, causata da pillole contraffatte di Percocet.

Una morte senza responsabili. La morte di Prince non ha un responsabile e resterà impunita. Lo ha deciso Mark Metz, procuratore della contea di Carver, in Minnesota, dopo aver chiuso l'indagine sulla morte del cantante avvenuta il 21 aprile del 2016. Non ci sono prove - spiega il giudice - per determinare chi procurò all'artista gli antidolorifici oppiacei sotto forma di Percocet falso. "Prince - ha dichiarato Metz - non aveva idea che stesse prendendo una pillola falsa che lo avrebbe ucciso. Le prove mostrano che Prince pensava di prendere Vicodin, non fentanyl, ma non ci sono prove che alcuna delle persone a lui associate fosse a conoscenza del fatto che in suo possesso aveva pillole false contenenti fentanyl". Analogie inquietanti con la morte di Michael Jackson, suo eterno rivale dagli anni Ottanta in poi, morto per un mix letale di farmaci, tra cui l’ansiolitico Lorazepam e il potente anestetico Propofol usato per sedare i pazienti nelle operazioni chirurgiche, colposamente somministrato dal suo medico curante Conrad Murray, poi condannato a quattro anni di reclusione per omicidio colposo.

Nothing compares 2 U. Il 21 aprile 2018 è arrivata come un fulmine a ciel sereno la versione originale di Nothing compares 2 U, canzone resa noto per la prima volta nel 1985 dalla band di Prince The Family nell’eponimo disco dello stesso anno e poi divenuta il più grande successo solista di Sinead O'Connor nel 1990. La canzone, diffusa dalla Prince Estate, in collaborazione con Warner Bros. Records, è disponibile in vinile 7’’, sia come picture disc sia nero. Il brano fu registrato nel 1984 da Susan Rogers al Flying Cloud Drive “Warehouse” di Eden Prairie, in Minnesota, e contiene i cori di Susannah Melvoin e Paul “St. Paul” Peterson, oltre al sassofono di Eric Leeds. In quel periodo il genio di Minneapolis era molto innamorato di Susannah Melvoin, la sorella di Wendy, e i bene informati sostengono che questa canzone fosse dedicata a lei. Il video dell'estate del 1984, girato dalla famiglia del'artista, mostra un Prince al massimo della forma nel canto e nel ballo, in un autentico stato di grazia.

Le nuove ristampe. Prince Estate e Legacy Recordings hanno reso disponibili dall’8 febbraio 2019 le riedizioni di Musicology, 3121 e Planet Earth.Questi primi tre album, che fanno parte di un progetto di distribuzione del catalogo del cantante di Minneapolis, costituiscono la trilogia dei primi anni 2000. Musicology (2004), 3121 (2006) e Planet Earth (2007) saranno pubblicati su CD e, per la prima volta in assoluto, anche in vinile. Le versioni in vinile saranno stampate su vinile viola da collezione, in edizione limitata, accompagnati da articoli esclusivi legati a ciascun album e riferiti al periodo della pubblicazione, e saranno in vendita esclusivamente nello shop ufficiale di Prince. Musicology è già disponibile in preorder in formato CD singolo / doppio LP. I tre album hanno segnato il ritorno di Prince ai vertici delle classifiche, con idee innovative per quanto riguarda il marketing degli stessi. Musicology ha ottenuto due Grammy Awards ed è stato certificato doppio disco di platino, oltre ad aver introdotto la distribuzione in bundle con il biglietto per il live.

3121 è stato invece il primo disco del cantante di “Kiss” a debuttare alla numero 1 della Billboard 200 ed il primo ad arrivare arrivato al primo posto in classifica dopo Batman, nel 1989. Planet Earth, uscito nel 2007, ha segnato un’altra svolta nella strategia di marketing per la distribuzione dei dischi: alcune copie dell’album erano state infatti regalate in partnership con il quotidiano inglese Mail on Sunday.

L'importanza di chiamarsi Roger Nelson. Prince è stato uno dei maggiori innovatori della musica black e uno dei migliori performer della storia del rock. L’incontro tra la sensualità del funky, il calore del soul e l’irruenza del rock, oltre a un’ impareggiabile genialità compositiva e a una straordinaria tecnica come polistrumentista, sono solo alcuni degli ingredienti dell’inconfondibile sound di Roger Nelson, morto tre anni fa, il 21 aprile 2016. La sua musica è stata una sintesi sorprendente, in continua evoluzione e sempre aperta a nuove influenze, che ha permesso al genio di Minneapolis di rinnovarsi costantemente nel tempo, senza mai snaturare il suo inconfondibile stile. I temi ricorrenti della monumentale produzione discografica di Prince, 38 album in studio (di cui numerosi doppi e tripli) sono il sesso in tutte le sue sfumature, l’amore romantico, una spiritualità difficilmente catalogabile nei rigidi schemi di una confessione religiosa e i mali oscuri della società, spesso tenuti nascosti come la polvere sotto il tappeto.

I capolavori degli anni Ottanta. Mentre gli anni Ottanta erano dominati da artisti rassicuranti, impeccabili e vagamente dandy, Prince sembrava un inquietante mix dei suoi eroi del passato: si vestiva come Jimi Hendrix, aveva i baffi di Little Richard e ballava come James Brown, ma al ritmo dell'amata drum machine Linn, collegando idealmente la tradizione del funk e del rock con il suono del futuro. L'attività di Prince era a dir poco febbrile. A volte lavora anche tre giorni di seguito senza dormire, dividendosi tra le sue tre band, i Revolution, i Time e le Vanity 6. Usava la musica e l'immagine per superare le barriere tra razze, generi e stili musicali (non a caso i suoi idoli erano Joni Mitchell, Carole King, Fleetwood Mac, Eric Clapton, Rolling Stones e Jimi Hendrix), cambiava con naturalezza registro vocale da maschile a femminile, i sui abiti eccentrici erano creati su misura per lui, i suoi show erano vere e proprie esperienze multisensoriali, quasi dei musical dionisiaci e imprevedibili. Il suo primo grande successo commerciale è il doppio album 1999, con una netta divisione tra il primo lato in perfetto equilibrio tra rock e funk e il secondo più ballabile e sensuale. In esso Prince suona nell'album ogni strumento possibile e immaginabile, dando prova delle sue straordinarie doti tecniche. Let's pretend we're married, Little Red Corvette e Delirious sono tre canzoni in grado di far capitolare qualunque donna, tra le più sexy mai prodotte dai tempi di Let's get it on di Marvin Gaye.

Purple Rain è uno dei rari casi nella storia del cinema in cui il film e le musica sono di pari livello: altissimo. La pellicola racconta le vicende di Kid, alter ego di Price, tra tormentate vicende familiari, l’amore per la sua ragazza e le difficoltà nel farsi strada nello show business. Il film incassò oltre cento milioni di dollari e la colonna sonora, nella quale spiccano le splendide When doves cry, caratterizzata da un sound rivoluzionario, e la title track Purple Rain, vinse perfino un meritato Oscar. Il disco, così audace nei testi da ispirare a Tipper Gore la creazione del Parents Music Resource Center, rimase per 21 settimane consecutive al primo posto nelle classifiche americane. Il 1987 è un anno impresso nella memoria di tutti i fan di Prince: l’artista di Minneapolis è infatti reduce dalla pubblicazione di tre album di grande successo a nome Prince & The Revolution, la band di incredibili musicisti e performer che lo affianca live e in studio.

Si scatena allora un derby con Michael Jackson, artista assai diverso e al tempo stesso simile a lui per molti aspetti. Dopo aver conquistato la vetta delle classifiche con la colonna sonora del film Purple rain (1984), aver pubblicato a seguire il suo album più colorato e variopinto, Around the world in a day (1985), e concluso la trilogia dei Revolution con l’album Parade (1986), colonna sonora del film Under the cherry moon nella quale è contenuta una sua hit planetaria, Kiss, Prince sorprende tutti tornando alla ribalta con un doppio album inciso quasi da solo e destinato a diventare uno dei suoi capolavori. Sign o’ the times, preceduto dalla pubblicazione del singolo omonimo, è infatti considerato universalmente una delle pietre miliari degli anni Ottanta, tanto è creativo, visionario, avanguardistico e radicale. Un viaggio all’interno dei segni del tempo psichedelico e futuribile, catartico e imprevedibile, in cui si alternano l’apocalittica title track, la straordinaria If I was your girlfriend, il funk torrenziale di Housequake, le deliziosamente vintage Slow Love e la malinconia di I could never take the place of your man.

Le controversie con la Warner negli anni Novanta. L’eccentricità di Prince ha dato luogo a una lunga controversia negli anni Novanta tra l’artista e la sua label, la Warner Bros. La major non voleva assecondarlo nella sua iperproduttività, con un album pubblicato all’anno, così Prince, per protesta, si fece chiamare «Symbol», un simbolo grafico indicante l’unione tra il maschile e il femminile, o «Tafkap», acronimo inglese per «The artist known as Prince» («L’artista precedentemente conosciuto come Prince»). L’artista si esibì nei concerti con la scritta «slave»(«schiavo») disegnata sulla guancia, per sottolineare la sua insofferenze alle regole di marketing dell’industria discografica. Tra i suoi "capricci" più famosi ricordiamo, nel 1997, quello di vendere solo on-line il triplo album Crystal Ball e, ancora più clamoroso, quello del 2007, quando Planet Earth fu pubblicato solo come allegato gratuito di una rivista inglese, un’iniziativa che fece scendere sul piede di guerra i mediastore della Gran Bretagna. Prince, che dal 2000 si è riappropriato del suo soprannome, ha continuato a produrre musica di qualità, come confermano gli ultimi due, eccellenti album HITnRUN Phase One e HITnRUN Phase Two.

Il boom di vendite nel 2016. Nel 2016 Prince è stato l’artista che ha venduto più dischi negli Stati Uniti con 7,7 milioni di copie di album tradizionali e 5,4 milioni dai download di canzoni digitali. I suoi titoli più venduti l'anno scorso sono stati The very best Of Prince (668.000 copie), seguiti da Purple rain(498.000) e 1999 (169.000). A pochi mesi dalla sua morte la Warner Music gli ha reso giustizia con una compilation finalmente all’altezza della sua fama, Prince 4Ever, con 39 classici della sua produzione più l’inedito Moonbeam Level, registrato da Prince nel 1982 durante le sessions di 1999, ma poi scartato dalla tracklist finale. In un periodo in cui la visibilità televisiva e la promozione sui media impiegano oggi gli artisti in modo maggiore rispetto alle sessioni in studio, Roger Nelson ha continuato fino all'ultimo giorno della sua vita a dialogare con il suo pubblico nel modo più semplice e diretto possibile: con i suoi dischi e con i suoi concerti, vere e proprie esperienze multisensoriali, quasi dei riti collettivi officiati da questo piccolo, grande sciamano del funk elettrificato. Nella sua immensa casa-studio registrazione di Paisley Park, Prince ha continuato a incidere brani originali, del tutto indifferente alle strategia di marketing e quasi guidato da una forza sovrannaturale, come se il bruciante demone della creatività non lo lasciasse mai riposare in pace, o forse per colpa del suono che fanno le colombe quando piangono. "Siamo qui riuniti stasera per provare ad affrontare quella cosa chiamata vita", cantava all'inizio di Purple Rain.  Una "cosa" che si affronta meglio, dopo aver ascoltato, a un volume adeguato, una delle numerose canzoni che ci ha lasciato in eredità.

Sinead O’Connor: "Prince prima cercò di picchiarmi poi mi inseguì in auto". Parlando dell'unica volta in cui incontrò Prince, la cantante ha raccontato che lui avrebbe cercato di colpirla con un oggetto pesante per poi inseguirla in auto alle 5 del mattino sull'autostrada di Malibù. Sandra Rondini, Lunedì 16/09/2019 su Il Giornale. Ospite di “Good Morning Britain”, Sinead O’Connor ha accusato Prince di aver provato a picchiarla una volta che i due erano soli nella villa di Los Angeles del cantante. Sinead O’Connor è ancora molto nota al pubblico per la canzone “Nothing Compares 2U”, uscita nel 1990 e composta da Prince e quando in studio le è stato chiesto che rapporto avesse con l’autore che più di tutti ha contribuito al suo successo internazionale come artista, la cantautrice irlandese ha detto di aver incontrato Prince una sola volta e di non avere un bel ricordo di quell’occasione. Alla domanda sul perché l’incontro con Prince le scatenasse sentimenti così negativi, Sinead ha risposto che “ci siamo incontrati una volta ma abbiamo subito cercato di picchiarci a vicenda, o meglio, è stato lui che ha picchiato me perché io mi stavo solo difendendo”. Mentre i due conduttori del talk show, Piers Morgan e Susanna Reid, la guardavano increduli, Sinead O’Connor ha ribattuto stizzita: “Guardate che non sto mica scherzando, è stata un'esperienza spaventosa". Sinead ha quindi fornito più dettagli, raccontando che “una sera Prince mi ha invitata a casa sua e io da perfetta idiota ci sono andata da sola. Appena mi ha fatto accomodare ho capito che era strafatto di droga. Non era lucido e ha iniziato a dirmi cose senza senso”. Quando le è stato chiesto di cosa si trattasse Sinead ha risposto: "Mi ha detto di avermi convocato perché era a disagio con il fatto che non ero una sua protetta. Avevo appena registrato 'Nothing Compares 2U' e voleva che fossi una sua protetta, qualunque cosa intendesse". Sinead ha aggiunto che il cantante le avrebbe quindi ordinato di non giurare più nelle interviste, “ma gli irlandesi come me – ha detto Sinead - giurano di continuo, quindi gli ho detto chiaro e tondo dove poteva andare". È stato allora che il loro confronto è diventato fisico. Sinead ha raccontato, infatti, che all’improvviso Prince sarebbe corso al piano di sopra per poi ridiscendere “con un cuscino in cui aveva inserito qualcosa di molto duro” e con quello in mano l’avrebbe inseguita per tutta la casa con l’intenzione di colpirla. “Ha iniziato a inseguirmi, così sono corsa fuori, in giardino, e mi sono nascosta dietro un albero per la paura. Finché con uno scatto non sono corsa verso la mia macchina, ma anche lui è riuscito a mettere in moto la sua e si è messo a inseguirmi alle 5 del mattino sull’autostrada di Malibù. Con le auto fianco a fianco, io gli ho sputato dal finestrino e lui ha cercato ancora di colpirmi sempre con quel cuscino”, ha aggiunto la cantante, raccontando di aver poi finalmente trovato rifugio sicuro a casa di suo padre, dove si sarebbe barricata finchè non si è sentita fuori pericolo. Quanto a Prince, “era in un giro di droghe molto pesanti ... non l'ho mai più visto o sentito dopo. E comunque – ha aggiunto Sinead - non solo l’unica donna con cui si è comportato in modo violento. Una delle ragazze della sua band all'epoca era finita in ospedale con le costole rotte”.

·         Il rapimento da cui nacque "Imagine" di John Lennon.

John Lennon avrebbe 79 anni oggi: 10 cose che forse non sapete di lui, raccontate dalle sue parole. Cynthia, Yoko, Paul, Brian Epstein, i Beatles, i Rolling Stones, la madre, l'amore, Imagine: John Lennon racconta sé stesso. Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 su Corriere.it da Giulia Cavaliere. John Winston Lennon è nato oggi, nel pomeriggio del 9 ottobre ma del 1940, al Maternity Hospital di Oxford Street, a Liverpool. Si racconta che durante la sua nascita fosse in corso un raid aereo tedesco della seconda guerra mondiale. Il piccolo Lennon nacque da una famiglia discendente dagli O'Leannain, oringinari dell'Irlanda occidentale. Per festeggiare questi suoi primi 79 anni abbiamo raccolto un po' di sue dichiarazioni sui Beatles, sull'amore, sulla musica, su Paul McCartney, Yoko Ono, i Rolling Stones, e tanto ancora.

Il banjo e la chitarra. Quando avevo 15 anni mia madre mi ha insegnato alcuni accordi di banjo infatti da piccolo all’inizio suonavo la chitarra come si suona il banjo, passavo il tempo a improvvisare, seguivo Elvis che era il mio mito insieme al padre dello skiffle, Lonnie Donegan. Poi sono arrivati Paul e George e grazie a loro ho imparato altre cose. La mia prima chitarra costava dieci sterline e avevo visto la pubblicità su uno di quei cataloghi che arrivavano per posta. Volevo come tutti i ragazzini provare a salire su un palco e suonare, e poi c’era questo fatto di mia madre che diceva di sapere suonare tutti gli strumenti a corda. Prima di allora ero così affascinato dalla chitarra che siccome non ne avevo una me la facevo prestare da un mio amico. Appena arrivò la mia cominciai a non fare altro che suonare e dopo poco, con un mio compagno di scuola e un tizio di nome Eric fondai i Quarrymen.

L'incontro con Paul McCartney. Ho conosciuto Paul tramite il mio amico Ivan, che abitava a due passi da me e frequentava il Liverpool Institute come Paul. Ivan sapeva che Paul trafficava in giro con la musica e pensò che per i Quarrymen fosse perfetto. Ci ricordiamo tutti e due benissimo il nostro primo incontro a Woolton, abbiamo anche annotato la data entrambi: era il 15 giugno 1955 ed era una bella giornata di sole. Fino a quel momento ero stato io il capo. Ora, pensai, se lo prendo con noi, cosa accadrà? Meglio migliorare il gruppo o restare io il migliore? Ma era bravo, somigliava a Elvis e conosceva più accordi di me perché suo padre suonava il piano e li aveva imparati da lui.

Contro il folk. Noi da ragazzi eravamo veramente contrari alle canzoni folk, facevano talmente piccolo-borghese! Tutti quegli studenti con lo sciarpone e le pinte di birra in mano che cantavano canzoni con quelle che noi chiamavamo “voci da filastrocca”. Ce n’erano proprio pochi di veri cantanti folk, non mi dispiaceva Dominic Behan e a Liverpool si sentivano alcune cose buone. Capita ogni tanto di ascoltare alcuni lavoratori veri alla radio o alla tv, loro sì che hanno una forza sorprendente. Ma perlopiù la musica folk è fatta da gente con voci smielate che cerca di tenere in vita qualcosa che è morto e sepolto.

Julia. Ho perso mia madre due volte. Due traumi. La prima volta è stato quando avevo cinque anni e mi trasferii dalla zia Mimi, la seconda quando ne avevo sedici e lei è morta fisicamente. A quel punto la mia asprezza e la rabbia che avevo dentro fin da ragazzino diventarono sempre più grandi. Mia madre è morta proprio quando stavo ricominciando ad avere un rapporto con lei, era stata dalla zia, quella dove vivevo io, ed è stata uccisa da un poliziotto ubriaco fuori servizio mentre era alla fermata dell’autobus. Il poliziotto venne e ci disse dell’incidente, proprio come nei film, “lei è il figlio?” e tutto il resto.

Gusti musicali. Fin dai primi giorni, ancora a Liverpool, George e io da una parte e Paul dall'altra avevamo gusti musicali molto diversi. Paul preferiva la musica pop e noi quella che adesso chiamiamo underground. Questo avrebbe potuto creare contrasti tra noi, specialmente tra Paul e George, ma il fatto di avere gusti diversi musicalmente parlando ci fece più bene che male, ne sono sicuro, e contribuì al nostro successo.

Brian Epstein. Ci rappresentò in molte occasioni e qualunque cosa facesse interpretava il suo ruolo alla grande. Era teatrale e ci credeva, credeva in noi, ma di certo non ci "confezionò", come hanno detto alcuni. Si è trattato di un mutuo accordo. Tu ci vuoi fare da manager? Ok! Ti diamo il permesso di farlo; non è che ci ha tolti dalla strada. Gli abbiamo permesso di occuparsi di noi. Paul non era molto entusiasta, ma è più conservatore nell'affrontare le cose. Lo dice lui stesso, e buon per lui: forse avrà più yacht.

Rolling Stones. Quando ci trasferimmo a Londra fu bellissimo. Io frequentavo molto gli Stones, trascorrevo un sacco di tempo con Brian Jones e Mick Jagger. Li ammiravo. Mi sono piaciuti dalla prima volta che li ho visti. All'epoca andavamo in giro in macchina per Londra, incontravamo gente tipo gli Animals per parlare di musica per ore e ore. Dal punto di vista della celebrità è stato il mio periodo più bello, la folla ancora non ci assediava più di tanto ed era come stare sempre in un bel circolo per fumatori.

Yoko. Mi parlava e mi inebriavo, la discussione saliva di livello e anche io continuavo a salire, quando se ne andava invece ritornavo nei bassifondi. Poi la rincontravo e la mia testa esplodeva come in un trip da acido. Io mi sballavo con quello che mi diceva lei, con le sue idee, con il modo di esprimerle: era incredibile. Dopo una prima sniffata ne ero dipendente e non sono stato più in grado di lasciarla. Non potevamo restare separati un solo istante.

Amore. Prima di Yoko non avevo mai conosciuto un amore simile, mi ha preso in modo così totalizzante che sono stato costretto a lasciare Cynthia, non credo sia stata una decisione avventata. Con Yoko ho conosciuto il vero amore, prima abbiamo avuto una relazione esclusivamente intellettuale, poi è arrivato anche lo scambio fisico. Il mio matrimonio con Cynthia non era infelice, era una normale situazione coniugale in cui non succede nulla, e che continuavo a sopportare. Una cosa che sopporti fino a quando non incontri qualcuno che improvvisamente ti fa sentire vivo. 

Imagine. Imagine è stata una dichiarazione sincera, era "Working class hero" con sopra del cioccolato. Cercavo di pensarla come una canzone per bambini. L'album l'abbiamo registrato nel nostro studio, Phil Spector l'ha prodotto e George Harrison suona in quattro o cinque pezzi e fa degli assoli straordinari. Il mio primo disco era troppo vero per la gente, Imagine dice le stesse cose che dicevamo lì, così ho pensato di ricoprire il messaggio di zucchero, così ecco una hit in cui posso parlare a tutti, e farlo con un brano antireligioso, antinazionalistico, anticonformistico, anticapitalistico.

Il rapimento da cui nacque "Imagine" di John Lennon. Il docufilm "Kyoko" racconta come "il Beatle" sequestrò la figlia di Yoko. Per restituirgliela, scrive Pedro Armocida, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. È una storia sconosciuta anche se vede come protagonista John Lennon all'apice della sua fama. Siamo nel 1971, un anno dopo lo scioglimento dei Beatles, quelli «più famosi di Gesù Cristo» proprio come aveva avuto modo di dire il cantante che due anni prima, dopo il divorzio con la prima moglie (...) (...) Cynthia Powell, si era sposato sulla Rocca di Gibilterra con Yoko Ono. Ovvero l'artista giapponese che i fan dei Beatles hanno sempre visto come la responsabile della fine della band. La storia però, si sa, non si fa con i se. L'unica certezza è che John Lennon aveva perso letteralmente la testa per Yoko Ono che era stata sposata con un produttore cinematografico, Anthony Cox, con cui aveva avuto una figlia, Kyoko. Che è il titolo di un interessante documentario diretto dai catalani Marcos Cabotá Samper e Joan Bover Raurell recentemente candidati ai premi Goya, gli Oscar spagnoli per intenderci. Il primo dei due registi è nato a Mallorca e fin da piccolo ha incrociato persone che dicevano di aver visto John Lennon sull'isola. Quella che gli era sembrata una divertente leggenda metropolitana piano piano si è trasformata in un'indagine che ha portato alla luce una delle storie meno conosciute della biografia di John Lennon. Siamo nel gennaio del 1971 e John Lennon e Yoko Ono arrivano a Palma di Mallorca. Il pretesto è quello di seguire alcuni incontri di meditazione trascendentale del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi. In realtà l'obiettivo è Kyoko, la figlia di Yoko Ono che, guarda caso, si trova sull'isola con il padre. Così, una volta atterrati a Mallorca, i due chiedono a Miguel Soler, un giornalista musicale locale, sia un registratore sia il contatto di un investigatore privato da cui ottengono l'indirizzo di un asilo nido. Sempre insieme vanno dalla bambina e la portano via, violando così la custodia parentale. In albergo iniziano a ordinare dolci e gelati per la piccola che, ricorda ora un'addetta della reception dell'hotel, ebbe un'indigestione. Tempo neanche un'ora e il momento che - immaginiamo - di grande intimità e felicità viene spezzato dall'arrivo della polizia. Giù nella hall si presenta la Guardia Civil chiamata dal padre di Kyoko che aveva immediatamente sporto denuncia per sequestro di persona. Un'accusa forse sproporzionata anche se tecnicamente ineccepibile. Nel documentario i due registi ricostruiscono quelle straordinarie 24 ore, intervistando tutte le persone che all'epoca erano a conoscenza dei fatti, a partire dal poliziotto Miquel Bunyola che, solo dopo, ha saputo di essere stato il primo ad aver arrestato John Lennon. Ascoltiamo addirittura le registrazioni audio del cantante che, di fronte al giudice e agli avvocati («Entrava e usciva dall'aula nervosamente», ricorda il poliziotto), difende a spada tratta la moglie che in tutta questa vicenda resta praticamente muta e visibilmente sconvolta come si capisce dagli scatti del fotografo Joan Torrelló che oggi si lamenta perché aveva «una macchina fotografica il cui flash tardava uno o due minuti a ricaricarsi». Lucida e precisa la difesa di Lennon: «Noi non volevamo portare via la figlia di Tony, lui è paranoico, pensa che siamo persone molto potenti che potremmo fargli qualcosa contro e non è così. Non c'è nulla che John e Yoko possano fare a Kyoko. Non la potremmo nascondere da nessuna parte perché siamo troppo famosi e non abbiamo dove andare. Yoko ha sempre detto che la bambina doveva avere la possibilità di vedere entrambi i genitori e per noi è indifferente il tipo di accordo che possa portare a questo». All'improvviso il colpo di scena. Anthony Cox ritira la denuncia e lascia la caserma con la figlia a cavalcioni. Anche John Lennon e Yoko Ono ripartono dall'isola con in tasca solo un nastro con la voce di Kyoko incisa in quei pochi minuti insieme in hotel e che ora ascoltiamo, non senza emozionarci, sui titoli di coda del film. L'accordo a cui si è giunti, probabilmente economico, non è mai stato reso pubblico. I registi ci tengono a far sapere che il documentario non vuole raffigurare Lennon come un criminale: «Al contrario, è una vittima degli impulsi provocati dall'amore incondizionato. Ma, quello che successe in quei giorni a Mallorca, rappresenta il terzo e ultimo atto della vita di John Lennon». Che, prima di essere ucciso l'8 dicembre del 1980 al Central Park di New York appena quarantenne, per quasi dieci anni aiuta Yoko Ono nella sua battaglia legale per riavere la figlia. Acquistano così un significato diverso le parole della canzone più famosa di John Lennon, Imagine, incisa appena pochi mesi dopo i fatti di Mallorca: «I hope someday you will join us», spero che un giorno ti unirai a noi...

“I BEATLES NON VOLEVANO SCIOGLIERSI”. "I Beatles non volevano sciogliersi" Il nastro che cambia la storia. Da “la Repubblica”  il 12 settembre 2019. In una registrazione del 1969 un' altra verità sulla fine dei Fab Four C' è una registrazione che, nel suo piccolo, potrebbe cambiare la storia. Almeno quella finora conosciuta che riguarda i Beatles e il destino che si consumò alla fine degli anni Sessanta. Nel settembre del 1969 i Fab Four non avrebbero affatto pensato allo scioglimento del gruppo, anzi, stavano progettando un nuovo disco. È quanto ha rivelato al Guardian uno studioso dei Beatles, Mark Lewisohn, autore di numerosi libri sulla storia della band, in base a una registrazione - effettuata negli uffici della Apple Records alla vigilia del debutto di Abbey Road - in cui John Lennon, Paul McCartney e George Harrison discutono dei progetti futuri, senza alcuna prova di quei contrasti che entro pochi mesi avrebbero portato allo scioglimento definitivo della band. L'assenza di Ringo Starr, che in quei giorni era ricoverato in ospedale per problemi di salute, sarebbe peraltro all' origine della registrazione: quel nastro, come una specie di appunto, sarebbe servito per far conoscere al quarto Beatle i progetti degli altri tre. Quel periodo è stato sempre raccontato come una fase in cui le tensioni fra i Beatles (soprattutto fra Lennon e McCartney) avevano ormai raggiunto un punto di non ritorno. Al contrario, nella registrazione raccolta da Lewisohn i toni sono piuttosto sereni al punto che i tre presenti si organizzano per "dividersi" le canzoni del futuro album, che sarebbe stato preceduto da un singolo da mettere in circolazione prima di Natale. Di fatto, le parole contenute nella registrazione evidenziano una certa insoddisfazione fra i tre presenti: nulla però che faccia immaginare una rottura imminente e definitiva. John, che da sempre è stato considerato il primo sostenitore dello scioglimento, propone che ognuno dei tre presenti porti quattro canzoni per il nuovo album mentre Ringo avrebbe potuto sottoporne due, "se vuole", aggiunge. In realtà, il più insoddisfatto degli equilibri della band era George Harrison, desideroso di avere un maggiore spazio come autore: quando John mette in evidenza la possibilità di firmare ognuno i propri brani mettendo così fine all' obbligatorio sodalizio Lennon-Mc-Cartney, Paul reagisce in maniera pacata sottolineando però di non aver mai considerato George un artista in grado di scrivere brani di livello, almeno fino a Abbey Road.

«Questione di gusti - risponde Harrison- in fondo la gente ha apprezzato le mie canzoni». La registrazione è uno degli elementi chiave di Hornsey Road, uno spettacolo organizzato dallo stesso Lewisohn che debutterà mercoledì 18 settembre al Theatre Royal di Northampton (poi si sposterà in altre città, da Bristol a Londra fino a Manchester dove la tournée si chiuderà il 4 dicembre) e che racconta la storia dell' ultimo album dei Beatles attraverso nastri, filmati e fotografie, oltre a diverse registrazioni di pezzi leggendari. I Beatles in concerto sul tetto nel 1969.

·         Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra.

Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra, scrive Adriano Scianca il 29 Maggio 2016 su Il Primato Nazionale. «Lei è un uomo di destra?». «Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi». Giorgio Albertazzi non era fatto per compiacere le menti asfittiche e i cuori di latta. E quando diceva di non essere di destra (al Fatto quotidiano, nello scambio di cui sopra) era solo per posizionarsi in un altrove alieno da tutti i conformismi. Nietzsche vagheggiava di un «Nuovo Partito della Vita». È l’unico a cui Albertazzi sia mai stato iscritto. Ma nei suoi vent’anni, gli stessi in cui, appunto, «non era di destra», aveva intravisto la vita indossare una divisa con gli emblemi della morte. Classe 1923, Albertazzi era cresciuto da fascista, come tutti quelli della sua generazione. Con il mito di Mussolini, ma anche con il culto estetico della Germania hitleriana: «La croce uncinata era bellissima, come bandiera, e anche certe divise nere dei nazi», scriverà nella sua autobiografia. Era impazzito per la guerra di Spagna, «una guerra stupenda per ardimento scontro ideologico eroismi: i rossi che stuprano i conventi, Barbadiferro che combatte con la sciabola, eccetera (mi rendo conto di scrivere alcune cose irresponsabili, ma assicuro che le penso tutte irresponsabilmente)». Poi venne il 25 luglio e l’8 settembre. In mezzo, uno zio ammazzato di botte dagli antifascisti e un voltafaccia senza onore e senza decoro («Mi ricordo la faccia da caratterista americano di secondo rango di Badoglio, figura ambigua e meschina: non mi piaceva»). L’arruolamento nella Repubblica sociale venne da sé. Cosa spinse il giovane Albertazzi a schierarsi per il fascismo repubblicano? «Era la paura (dignitosa) di mio padre, gli occhi ansiosi (lo sguardo!) di mia madre e il silenzio (vile) dei fascisti (degli ex). Tutto ciò mi spinse a scegliere i perdenti, in una specie di sonnambulismo. Scelsi non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta (alla fine del ’43 gli alleati e l’Urss avevano già vinto), contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza». Ma non c’era solo l’onore perduto da riscattare. In qualche modo baluginava anche il sogno di una rivoluzione sociale contro tutti i potentati conservatori: «Scelsi la Repubblica, che voleva dire, per me, un altro fascismo, non orpelloso, non coi fregi d’oro, non quello del maresciallo dell’Impero, non quello monarchico, non quello della Chiesa – lo scelsi nell’illusione, forse, che fosse ancora quello che nasce dalla costola del socialismo libertario di mio nonno Nando». Venne la guerra civile, quindi. Nei ricordi dell’attore, una figura emerge in modo particolarmente limpido: Alessandro Pavolini. Albertazzi fa giustizia sullo stereotipo che ne ha fatto un visionario, un esaltato, un pazzo. «Secondo me – racconta – Pavolini aveva perfettamente il senso della realtà: non si fa una guerra come quella, già perduta, se non per affermare proprio una realtà: essere disposti a morire per un’azione da compiere, un’estetica della morta». Sulla recente polemica a proposito dei partigiani “veri” o “falsi”, Albertazzi avrebbe potuto raccontare la sua esperienza: «Forse non dovrei dirlo – non sta bene! – ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Alla fine li avrebbe visti, intenti ad appendere Mussolini e gli altri gerarchi all’insegna di una pompa di benzina: «Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine», disse senza mezzi termini, ancora al Fatto. Nel dopoguerra, la sua unica “militanza” sarà per il teatro, anche se nelle elezioni del 1975 si presentò con i Radicali: Pannella, disse, era «il solo capace di intuizioni non legate all’apparato», anche se la sua «voglia di far spettacolo è talmente visibile da appannare qualche volta la lucidità politica». Sempre altrove, Albertazzi. Sempre odiato dai custodi delle ortodossie. Di Repubblica, che lo detestava, diceva: «È un giornale molto snob: i giornalisti di Repubblica si vestono in un certo modo, portano certi capelli, ironizzano in un certo modo, scrivono in un certo modo, le donne di Repubblica le riconosci lontano un miglio (sono fascinose e di bella gamba, in genere). Sono tutti imbarcati su un’arca, l’arca dell’impegno vissuto con discreto cinismo». Quando CasaPound decise di ribattezzarsi per un giorno CasaBene, in omaggio a Carmelo Bene, nei 10 anni dalla morte del grande artista, qualcuno chiese ad Albertazzi cosa ne pensasse, nella speranza che si intruppasse nell’esercito degli indignati speciali. Il maestro si fece trovare ancora una volta altrove rispetto al benpensare: «Provo un po’ di amarezza perché sono vivo… Sarebbe stata una felicità che l’avessero intitolata a me». Non è mai troppo tardi. Adriano Scianca

Giorgio Albertazzi: “Scelsi la parte dei perdenti, la Rsi. Piazzale Loreto? Fu macelleria messicana”. Nell'intervista al Fatto del 2015, l'attore parla della sua adesione alla Repubblica di Salò. "La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito". E aggiunge: "Misi in salvo 19 ebrei", scrive Emiliano Liuzzi il 28 Maggio 2016 su Il Fatto Quotidiano. Riduttivo chiamarlo col suo nome e cognome, Giorgio Albertazzi, con tutto quello che comporta essere nati a Fiesole, sulle colline del Rinascimento. Meglio maestro, perché è quello che è sempre stato. E a 93 anni è più lucido di sempre, uno dei più grandi intellettuali che l’Italia ha avuto, anche se l’adesione alla Repubblica sociale certi ambienti della sinistra non gliel’ha mai perdonata. “Neanche io, se è per questo, me la sono mai perdonata. Ma scelsi la parte dei perdenti, quella della Rsi, e lo feci più che per un istinto anarchico che non per convinzione. Fu un mio dramma personale, ma senza rinnegarlo o cercare scorciatoie. Poi a me il pentitismo non piace”. Lui non l’ha mai ammesso, ma gli viene imputato di aver partecipato a fucilazioni, anche se nel 1989 venne assolto perché “costretto, ma non estraneo ai fatti”. Attore, regista, scrittore. Grande seduttore. È tutto Albertazzi. Seduce solo a sentirlo parlare, anche attraverso quella distanza che un telefono non può colmare. Seduce perché l’uomo è vero, senza fronzoli. Non ne ha tempo. È il teatro che, a differenza del cinema, fronzoli non ne permette. Seduce la voce, seduce tutte le sere che si apre il sipario. E l’età è un problema accessorio, per chi come lui sul palcoscenico è nato. Lo chiamiamo per sapere di piazzale Loreto. Del luogo come epilogo di una guerra civile che andava a finire un ventennio di fascismo. Albertazzi non era a piazzale Loreto, ma aderì alla Rsi, gli ultimi fascisti. Come lui Dario Fo, ma anche Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Marco Ferreri e molti altri.

Maestro, per lei cosa fu piazzale Loreto? Era l’epilogo naturale di una rivoluzione?

«Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì».

Un animale?

«Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondo apparentemente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq».

Lei aderì alla Repubblica sociale. Ma era a piazzale Loreto la notte che venne portato il cadavere di Mussolini?

«Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente».

E cosa dice a quelli che a Milano c’erano alle 3 di notte?

«Dovevano portare il peso della vergogna per quello che fecero, come lo fecero. Come io ho portato la vergogna di essermi schierato coi fascisti».

Abbiamo capito il concetto. Ma l’uomo è migliorato o è sempre quello?

«Siamo all’età del ferro. Siamo regrediti, peggiorati. L’uomo è barbaro. Ha ucciso nel nome di Dio, e continua a farlo. Quale aberrazione è ? Ma non credo ci sia profonda differenza tra le crociate dei cristiani e quelli che ammazzano nel nome di Allah. Tutte le guerre hanno sempre trovato una miccia religiosa. La pretesa di sostenere che il mio Dio è migliore del tuo».

Le sue parole, maestro, sono quelle di chi ha perso la speranza.

«No, io non ho perso nessuna speranza, sono sempre convinto che l’amore e la leggerezza ci salveranno, alla fine. Quando la discesa al degrado un giorno si fermerà. Perché dovrà fermarsi. Purtroppo abbiamo vissuto in tempi irrespirabili. Ma la bontà dell’amore quella non può togliercela nessuno, è come l’equazione di Einstein applicata alla leggerezza».

Lei è un uomo di destra?

«Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi».

Però aderì alla Repubblica di Salò, la domanda è lecita.

«La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso. Come dissi in un’intervista all’Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l’ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte. Senza vittimismo o pentitismo. Ma ripeto che quello che avvenne a piazzale Loreto fu un teatro dell’orrore, inutile, anche per l’epilogo della rivoluzione civile».

Oggi cosa vede?

«Vedo quello che non vorrei, la violenza che come diceva Shakespeare, manda l’uomo fuori dai cardini. Gli toglie l’intelligenza, il ragionamento. È tutto molto violento, la vita quotidiana è violenta. Lo siamo noi, uomini, e tutto quello che poi creiamo, a eccezione della poesia, è di una violenza inaudita».

L’ultima battaglia politica è quella contro i rom.

«Questo siamo. Inaudito, per questo le dicevo in apertura che siamo all’età del ferro senza nessuna possibilità di svoltare. Fare tesoro degli errori senza farsi il segno della croce e così sia».

E la salvezza dove va cercata?

«Nella leggerezza, nel sorriso, come diceva Calvino».

E il maestro Albertazzi la salvezza dove l’ha trovata?

«Nella poesia. Invocherei la morte se non ci fosse la poesia, l’amore. Il teatro».

·         Ricordando Paolo Poli.

Barbara Costa per Pangea.News il 27 maggio 2019. Se alla vita togli lo sfizio del peccato, muori di sbadigli, me l’ha insegnato Paolo Poli, un uomo grande, uno che dire artista è dire niente, uno che correvi a vederlo a teatro, e nel mio caso era già ultra 80enne e ammirarlo era un privilegio, ne uscivi leggera, e in debito di risate, di cultura che due ore prima neppure pensavi esistesse. E se Poli come uomo di teatro ci lascia tesori, è fuori dalle scene, come persona, che era impagabile: per la sua sottile, raffinata perfidia. Poli non sapeva resistere al piacere di dire la sua verità, sempre, senza filtri, su ogni argomento e persona. Per farlo ci vuole carattere, e un fuoco dentro indomabile, alimentato a rabbia, e a una certa dose di frivolezza. Per Poli nulla era più importante della sua individualità, e vivere per gustare ciò che più gli garbava. Poli era omosessuale e non l’ha mai nascosto, neppure negli anni ’50, quando dirsi tale non era uno scherzo, e non sopportava il concetto di famiglia, “mi dà noia il matrimonio tra etero, figuriamoci il resto”, e un marito non l’ha mai voluto, convinto che fosse meglio “affidarsi all’istinto, e alla perversione, come spiegano Balzac e Tolstoj. Chi ha cervello sta bene da solo. Madame Bovary comincia col matrimonio e finisce con l’arsenico: bellissimo, non come I Promessi Sposi, dove Lucia fa tante storie e non si fa copulare!”. Paolo Poli aveva qualcosa da ridire pure su quella Sacra, di famiglia (“la madre rimane incinta da vergine, il padre è putativo: esempio più disastrato non ce n’è!”), e io lo ammiro per aver coltivato un’aristocratica solitudine fino alla fine, senza chiedere né spartire nulla con nessuno se non sesso veloce, furtivo, all’occorrenza a pagamento, “che poi i gigolò son tanto carini. Extracomunitari? Meglio!”. Sicché niente doveri, se non di fronte a te stesso, e al tuo pubblico quando sei in scena. Paolo Poli era fiero cinismo, ha dedicato la vita “al teatro, con cui ho un rapporto di concubinaggio, di tipo sodomitico, ovvio!”, e ha avuto questa fortuna, quella di aver conosciuto i più grandi del ’900, attori, scrittori, letterati. E li faceva a pezzi ogni volta che gliene chiedevi lumi. Non salvava nessuno. Una strage di talenti, di divi parodiati, umanizzati. Qualche esempio? Marlon Brando: “Ti fissava languido, poi apriva bocca e parlava come Paperino!”. Laura Betti: “Nel ’54 eravamo tra le prime ossigenate, insieme a Corrado Pani. Sempre ubriache, ma brillanti. Laura ingrassando è diventata un bolide”. Milva: “Col mio preparato per la tintura esagerò. Uscì in scena a Bologna con la testa verde. Le dissi: ‘Oh, cretina, rimani così, non t’andar a ricuocere di rosso!’”. Paolo Poli è stato compagno di scuola di Vittorio Sermonti: “Ci siamo rivisti e ci siamo fatti entrambi due coglioni così. Però che cultura!”, e per un periodo amico di Sandro Penna: “Quando si toglieva le scarpe emanava puri raggi di luce. Un modo poetico per dire che gli puzzavano i piedi. Lo so perché eravamo intimi, ma l’amore non s’è mai fatto: a lui garbavano i fanciulli”. Niente nemmeno con Pasolini: “Non gli piacevo, mi riteneva uno stronzo. Lui voleva i ninettidavoli, i brufoli e l’accento romanesco. A Pasolini piaceva il sesso bestiale, aveva un senso di colpa che io non ho mai conosciuto. Non era bello ma lo faceva venir duro, specie alle donne, che si innamoravano di lui col cervello, che dura di più”. Paolo Poli ha fatto pochissimo cinema, ma ha conosciuto Fellini (“una persona luminosa, una volta mi ha fatto la piadina. Si è messo il grembiule: son cose che non si dimenticano”), e Giulietta Masina: “Diceva che in famiglia erano tutti laureati, ostentava le sue medaglie: intorno aveva troie dalle quali doveva difendersi”. E poi Roberto Benigni: “Era innamorato di mia sorella che non gliel’ha mai data. Ora è diventato correttino, una mestrina: colpa della moglie, i Braschi hanno un Papa in famiglia!”. Ce n’è per Alberto Sordi: “Persona odiosa e omofoba. Mi dava la mano molle e si girava dall’altra parte!”, peggio per Raimondo Vianello: “Un reazionario spaventoso”, e per Carmelo Bene: “All’ultimo non stava più ritto in scena per la malattia, ma pure perché prima di ogni spettacolo beveva una bottiglia intera di whisky!”. A Paolo Poli che vuoi che importasse dei social, sosteneva che il giudizio morale non esiste, che siamo tutti buoni e cattivi, casti e perversi, e ha fatto in tempo a demolire i selfie (“tutti oggi si fanno la fotografia, ma nel 1840 il flash fu uno shock!”). Da ateo e da anticlericale (“il mio rapporto con Dio? Buono, ho fatto tante comunioni e ho sempre digerito”), ha passato la vita in scena a prendere in giro i preti e a travestirsi da suora, ma dava un po’ di fiducia alla Madonna e a Maria Maddalena le quali, per motivi diversi, “erano due ragazze chiacchierate”, e poi le donne più interessanti “sono le suore e le puttane: fanno un servizio pubblico!”. Poli aveva una cultura sconfinata, era laureato in letteratura francese (“lingua imparata leggendo Hugo e scopando Pierre Cardin: è veneto, lo so, ma non importa”), e riconosceva in Franca Valeri, sua coetanea, “il mio unico maestro”. Poli si è spogliato per Playboy posando in braccio a sua madre, e lodava le ‘colleghe’ Moana Pozzi e Ilona Staller: “Cicciolina col serpente! Nei teatri di provincia si esibivano prima di me. Carine. Meglio loro di tanti spettacoli noiosissimi!”. Prima di lasciarci, Poli ha registrato audiolibri dell’Artusi e del Kamasutra, ed è tornato in tv: “Ho una pensione avarissima, e le marchette [la tv ndr] le facciamo tutti, bisogna sopravvivere. Ma la RAI è orrenda: un posto dove uno lavora e dieci scaldano le seggiole col culo. Se uno c’ha un figlio imbecille, lo sistema lì. Ho visto Albertazzi a Ballando con le stelle. M’ha fatto pena. Giorgio è bravo attore, ma non è mai stato un uomo troppo intelligente. La mente era Anna Proclemer, che è stata sposata con Brancati”. Diceva Paolo Poli: “Senza i cattivi non succede nulla, lo sapeva anche il Padre Eterno: quando si accorse che Adamo si annoiava gli creò la moglie, una rompicogliona, che però ha fatto andare avanti la storia”. Gli ha chiesto una volta Pino Strabioli: “Paolo, sei felice?”, “Felice no. Io sono serenella!”.

·         Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.

Massimo Troisi, l'anarchico malinconico del cinema italiano. Ricordo dell'attore e regista, scomparso 25 anni fa. Dal cabaret con la Smorfia alle commedie, da 'Ricomincio da tre' a 'Non ci resta che piangere' con Benigni, fino al 'Postino' per cui ebbe una candidatura postuma agli Oscar. Roberto Nepoti il 03 giugno 2019 su La Repubblica. Qualcuno ha detto che ogni vero napoletano ricorda dove fosse e cosa stesse facendo il giorno in cui arrivò la notizia della morte di Massimo Troisi, il 4 giugno 1994. Ma l'osservazione si può estendere ben oltre i nati sotto il Vesuvio: in pochi anni di attività, cinematografica e televisiva, Troisi si era conquistato una popolarità che permise, presto, di paragonarlo a giganti partenopei dello spettacolo come Eduardo e Totò.

Massimo Troisi tra teatro e cabaret. Se si esclude il "debutto" precocissimo (da neonato fu scelto come testimonial per una pubblicità del latte in polvere Mellin), il futuro attore mosse i primi passi sul palcoscenico a quindici anni, nel teatrino della parrocchia; poi fece il Pulcinella per spettacoli domenicali. Più tardi diede forma, con gli amici Lello Arena (che sarebbe stato la sua "spalla" favorita sullo schermo) e Enzo Decaro, al gruppo cabarettistico La Smorfia: col quale, vestito di una semplice calzamaglia nera, metteva in scena sketch satirici basati sull'attualità, la religione (memorabile L'annunciazione), le tematiche sociali.

La Smorfia in tv 'L'annunciazione'. Col gruppo approdò in televisione, anche in programmi di prima serata che ne allargarono il successo a dimensioni nazionali. Si cominciò a capire allora che la "napoletanità" di Massimo, fieramente rivendicata, non avrebbe rappresentato un limite al gradimento del pubblico; anzi, sarebbe stata una delle caratteristiche salienti della sua popolarità.

Troisi e il cinema: 'Ricomincio da tre'. Come dimostrò ampiamente, all'inizio degli anni Ottanta, il debutto nel cinema. Il produttore Mauro Berardi, che voleva assolutamente lavorare con lui, gli diede carta bianca per un film da scrivere, dirigere, interpretare. Ricomincio da tre, uscito nel 1981, sorprese tutti: ma non tutti per gli stessi motivi. Ci fu chi lamentò il livello elementare della regia, quasi esclusivamente di inquadrature fisse; chi giudicò troppo bizzarro l'eloquio dell'attore, smozzicato e ritmato come un grammelot in stretto dialetto partenopeo; chi lo trovò più affine al cabaret che al cinema. Altri, invece, apprezzarono le note di modernità che entravano per la prima volta nel panorama ormai sclerotizzato della produzione italiana. In particolare un nuovo personaggio di giovane indeciso a tutto, refrattario ai vecchi cliché dell'immigrato napoletano, innamorato ma terrorizzato dall'emancipazione che le donne andavano conquistandosi nella società. Fu questo "carattere" a conquistare le platee, decretando la fortuna del film ai botteghini. Poi arrivò anche la critica, con una pletora di candidature e vittorie ai David di Donatello, ai Nastri d'Argento e ai Globi d'Oro. Gli imitatori fiorirono subito, dando origine al nuovo filone dei "malincomici": ispirati, con varie declinazioni vernacolari, al personaggio di Gaetano. Da allora Troisi si sarebbe dedicato completamente al cinema. Nel fondo, però, era un anarchico, che faceva film solo quando ne aveva voglia e si sentiva pronto. Anziché spremere il successo del debutto, cominciò a collaborare con lavori di altri (la farsa No grazie, il caffè mi rende nervoso di Ludovico Gasparini); e fece attendere due anni il suo secondo film, dall'esplicito titolo Scusate il ritardo, dove interpretava Vincenzo, un Gaetano ancor più timido e indeciso. Solo nel 1987 avrebbe diretto il terzo, Le vie del Signore sono finite, dalle soluzioni tecniche e dal linguaggio decisamente più evoluti rispetto ai precedenti.

Troisi e Benigni: 'Non ci resta che piangere'. Nel 1984 Massimo condivise la regia con un altro comico di grande popolarità: Roberto Benigni. Farsa su canovaccio in cui i due vengono rispediti dal presente nel 1492, Non ci resta che piangere salì al vertice degli incassi, superando concorrenti come Ghostbusters e Indiana Jones. Nel 1986 accettò un piccolo ruolo nel film di Cinzia Torrini Hotel Colonial, girato in Colombia; mentre i problemi cardiaci che lo tormentavano fin da bambino gli impedirono di essere il Pulcinella di Strawinskij in uno spettacolo teatrale di Roberto De Simone. Però Troisi recuperò, impersonando sullo schermo l'amata maschera napoletana nel Viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola, regista per il quale, l'anno precedente, aveva interpretato altri due film: Splendor e Che ora è?, quest'ultimo sui rapporti conflittuali tra un figlio e un padre (Marcello Mastroianni, con cui Troisi condivise la Coppa Volpi per il miglior attore a Venezia).

L'ultimo Troisi: 'Il postino'. Immaginare quanto altro avrebbe potuto ancora dare al cinema italiano e mondiale Troisi, deceduto a 41 anni poche ore dopo la fine delle riprese del Postino, è esercizio frustrante quanto irresistibile, ma che ciascuno può svolgere a modo proprio. Il suo ultimo film da regista, sceneggiatore e protagonista (una concentrazione di ruoli che, dopo di lui e non sempre con risultati felici, dilagò poi nelle commedie italiane) fu Pensavo fosse amore... invece era un calesse, altra divagazione sui sentimenti e sulla difficoltà di portare avanti un rapporto di coppia. L'apoteosi internazionale di Massimo, però, arrivò con Il postino, diretto dal britannico Michael Radford ma voluto da Troisi (che aveva acquisito i diritti del romanzo di Antonio Skàrmeta Il postino di Neruda), nonché da lui co-sceneggiato e interpretato nella parte del titolo. Parte per la quale, nel 1996, ebbe una candidatura postuma agli Oscar come miglior attore.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani. Una mostra al Quirinale, tra scatti e spezzoni di film, per ricordare l'attore scomparso venticinque anni fa, scrive Pedro Armocida, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. «Al mio cuore malandato/Almeno a lui ho messo le ali.../Io, padrone di un bel niente/Neppure di me stesso». Il 4 giugno 1994 moriva, a soli 41 anni, Massimo Troisi per un attacco di cuore (due volte operato a Houston: Abbiamo un problema!) che la poesia Al mio cuore, scritta nei primi anni Settanta «mentre la situazione/politica italiana/Andrebbe seguita/con molta più attenzione, aveva messo in conto perché «non è così importante/che muoia qualcosa dentro/Io cedo qualche sogno/e un po' di libertà». E la moltitudine dei suoi ammiratori ringrazia. Ancora. Perché la sua forza artistica è, come all'epoca, trasversale. E oggi, grazie soprattutto a Youtube, sono tanti i giovani che la (ri)scoprono. Ma ricordare Troisi, anche come persona oltre che come personaggio (ma c'è davvero una differenza quando parliamo di lui?), è fondamentale, così a 25 anni della morte arriva la mostra fotografica e multimediale «TROISI poeta MASSIMO», fino al 30 giugno a ingresso gratuito al Teatro dei Dioscuri al Quirinale di Roma, curata da Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, nipote dell'attore-regista, e prodotta da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film. Attraverso i cinque ambienti che portano alla sala del Teatro dei Dioscuri (dove ogni sera, fino al 28 aprile, la mostra verrà messa in scena in uno spettacolo omonimo con accompagnamento musicale) viene ripercorsa tutta la fulminante carriera di Troisi nato a San Giorgio a Cremano, il 19 febbraio 1953, in una casa divisa con i genitori (il padre ferroviere), i cinque fratelli, i nonni, gli zii e via elencando: «Sono nato in una casa dove vivevano sedici persone. Ecco perché quando ci sono meno di quindici persone mi prendono dei violenti attacchi di solitudine», ricorda la sorella Annamaria in una delle testimonianze che concludono il prezioso catalogo di Edizioni Sabinae. Certo la prima sala è quella più epifanica, perché ci racconta un Troisi meno conosciuto, dall'infanzia - quando già componeva poesie - alla gioventù, dal campetto di calcio che dovrà lasciare per la comparsa dei problemi al cuore fino alla foto accanto a Maradona per una partita di beneficenza al San Paolo di Napoli nel 1989. E si inizia con il naso all'insù perché la grande volta, è interamente ricoperta da un patchwork di immagini di Troisi realizzato da Marco innocenti. Un omaggio al suo essere un artista totale, un Pulcinella senza maschera, come è stato definito, erede della tradizione partenopea ma capace di attualizzarla in maniera originale. In questo senso la mostra si sofferma sull'esperienza fondamentale del Centro Teatro Spazio, un garage a San Giorgio a Cremano adattato a teatrino dove Troisi all'inizio del 1970 si cimenta nelle prime farse con la compagnia Rh Negativo (con, tra gli altri, Pino Calabrese e Lello Arena) su donne, politica, aborto, religione e Chiesa (bellissima l'immagine di Troisi sulla croce). Tutti temi che torneranno, come la mitica calzamaglia nera, negli spettacoli del gruppo formato con Enzo Decaro e Lello Arena, La Smorfia. Ed eccoci alla tappa fondamentale, quella televisiva, che lancia Troisi nell'olimpo dei comici. Correva l'anno 1978 e Enzo Trapani ideava Non Stop, fucina dei futuri campioni d'incasso del cinema italiano, Carlo Verdone, I Gatti di Vicolo Miracoli, I Giancattivi, e La Smorfia o, meglio, Massimo Troisi: «Rimasi molto colpito dai tempi di recitazione di quello che era il fulcro del trio. Rimasi incantato, ma talmente incantato che dissi: Ma questo è talmente grande ndo vado io con i personaggi miei?». Parola di Carlo Verdone per il quale Troisi «aveva l'arte di nascondere l'arte, era sempre naturale, proletario ed elegante allo stesso tempo». Come nei suoi film di grandissimo successo che decise di dirigere già dal primo, Ricomincio da tre del 1981 fino a Pensavo fosse amore e invece era un calesse del 1991, l'anno in cui Paolo Sorrentino, ventunenne studente di Economia e Commercio, gli inviava una lettera dattiloscritta chiedendo di prenderlo come aiuto regista. Cosa che non è accaduta. Certo Troisi ha sempre riconosciuto i suoi limiti di regista: «Io di Ricomincio da tre salverei solo un quarto d'ora, degli altri magari venti minuti. Ma è naturale vedersi e criticarsi, a meno che uno non sia un genio. Io non lo sono, non impazzirò mai per me stesso come regista». Perché «il cinema che faccio è un prodotto artigianale, un po' storto, imperfetto, come i vasi di ceramica fatti in casa». Ecco il vero Massimo Troisi che questa bella mostra ci racconta, quello che vediamo nelle inedite riprese del backstage sul set del suo ultimo film, Il postino di Michael Radford (l'attore è morto due giorni prima della fine delle riprese), quando deve baciare Maria Grazia Cucinotta e scoppia in ripetute risate. Con quel suo tipico sguardo, d'ingenuo imbarazzo, non moralistico ma morale. Di altri tempi.

·         La “Filosofa” Moana Pozzi.

Moana Pozzi se ne andava 25 anni fa: lo scandalo del porno, la liaison con Craxi, la morte misteriosa. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 su Corriere.it da Silvia Maria Dubois. Ritratto della più grande attrice a luci rosse italiana, scomparsa a Lione nel 1994. Dagli scandali, al decesso, con le ipotesi più diverse. Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato 25 anni fa. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto.

Quel libro cult di filosofia sotto le illustri lenzuola…Giovanni Terzi il 12/09/2019 su Il Giornale. Venticinque anni fa moriva l’icona Moana Pozzi (Genova, 27 aprile 1961 – Lione, 15 settembre 1994). La ricordiamo con quel suo libro di pagelle inedite, provocatorie come la sua biografia, che Giovanni Terzi aveva commentato in questo articolo. I libri di Camilleri, Moccia, De Bortoli o Cannavacciuolo ma anche Pennac o George Orwell oramai si possono comprare ovunque, non solo nelle librerie, ma anche sui siti internet quasi qualsiasi cosa è acquistabile. Dico quasi a ragion veduta perché c’è un titolo che è introvabile. L’ho cercato per librerie e per siti ma soltanto su Amazon appare in una sola copia in vendita al prezzo di 283 euro. Quale sarà quest’autore e cosa conterrà questo introvabile libro? L’autore è Moana Pozzi ed il libro è “la filosofia di Moana” dove la donna icona del sesso italiano dava, nel 1991, i voti ai propri amanti a letto. Un libro “cult” che dà nomi e cognomi di personaggi illustri tra le lenzuola. Così si scopre che Beppe Grillo, grande amatore, si merita un bel 7. Moana così lo racconta: “lo conobbi una sera d’agosto del 1985 alla Gritta, un bar di Portofino, ovviamente aveva la battuta pronta e mi fece morire dalle risate. Mi piacciono gli uomini spiritosi e decisi di passare con lui quella stessa notte. A letto ci sapeva fare ed era dolcissimo. Ci siamo frequentati per tre mesi, poi ci siamo persi.” A Marco Tardelli spetta addirittura un 8, il voto più alto. “Trovavo eccitante il suo comportamento spontaneo e dolce come un ragazzo alle prime armi. Nel periodo in cui ci siamo frequentati facevamo raramente l’ amore, a causa dei suoi continui viaggi e ritiri con la Juventus, però stavamo al telefono per ore, parlando soprattutto di sesso”. Bocciato invece un altro calciatore, il brasiliano Falcao con un 5 senza possibilità di riscatto: “carino e con un bel corpo, ma troppo sbrigativo“ e Massimo Ciavarro a cui la diva hard diede la sufficienza ma si lamentò in quanto non si tolse le mutande durante l’amplesso. Su Roberto Benigni Moana Pozzi dedica una pennellata ironica “mi infilai  nel letto mentre dormiva con una sua amica; Benigni si svegliò e cominciò a correre per tutta la stanza nel suo abbigliamento da notte (canottiera di lana, mutande e calze), gridando: “Ma io mi vergogno”. Rimangono senza voto Robert De Niro, mentre Luciano DeCrescenzo merita un bel 7 e Massimo Troisi una misera sufficienza.

La presentazione di La filosofia di Moana avvenne il 30 novembre de 1991 all’Osteria dell’Orso alla presenza di una quindicina di giornalisti. La sobrietà della cerimonia era già stata anticipata da Moana alla Laurenzi, giornalista di “la Repubblica”: «Farò soltanto una cena ristretta con una quindicina di giornalisti a fine novembre, pochi giorni prima che esca il libro. Nessuna presentazione nuda alla Busi, nessuna festa cretina e dispersiva. Non è certo un libro che ho fatto per guadagnare dei soldi, anzi, per ora ce ne ho solo messi di tasca mia: più di 60 milioni per stampare 20 mila copie, mi sembra una follia. E poi quanto tempo ci ho speso: l’ho scritto, riscritto, cancellato, mi sembrava misero. E la scelta delle foto: le più significative della mia carriera, più quelle del mio album personale, io a sei anni con papa, a sette con la classe, io che faccio la prima comunione» (“la Repubblica”, 2 novembre 1991). Moana accoglie i suoi ospiti in culottes e reggipetto di paillette nere sotto una vestaglia di seta nera lunga, stretta in vita da un solo bottone con gonna a ruota, maniche lunghe con polsi e spalle decorate in paillette e perle nere. Così, infatti, ancora oggi la vediamo sorridere porgendo il suo libro. Per sostenere l’immagine di scrittrice Moana realizza un bel servizio fotografico con Elena Somarè con la famosa Olivetti lettera 35. In alcuni scatti la vediamo pensierosa e concentrata dietro la macchina da scrivere, altri in pose più ironiche e abiti più succinti accanto ad essa. L’uscita del libro fu preceduta da un certo clamore soprattutto per la curiosità sugli amanti di Moana di cui la pornostar ha promesso di dichiarare nome e cognome e di valutarne le performances con dei voti. Così accanto a Luciano De Crescenzo che alla notizia del libro telefona a Moana per sapere un po’ ansiosamente la sua “pagella”, troviamo il più flemmatico Arbore che dichiara «Se c’ero dormivo» (“L’Espresso”, 17 novembre 1991), la difesa d’ufficio dell’allora compagna dell’ex tennista Nicola Pietrangeli, Licia Colò e la grande ombra di Bettino Craxi, l’unico di cui Moana non abbia fatto il nome. Insomma a distanza di un quarto di secolo la regina dell’eros fa ancora parlare di sé.

“MOANA POZZI ERA UNA SQUILLO CHE HA AVUTO LA FORTUNA DI DIVENTARE UNA DIVA”. Da I Lunatici Radio2 il 14 settembre 2019. Fulvio Abbate è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Abbate ha parlato di Moana Pozzi, scomparsa venticinque anni fa: "Ho scritto su Facebook che mi fa pena questa sua mitizzazione. Ho conosciuto personalmente Moana Pozzi, me la presentò personalmente Mario Schifano. Lei non era ciò che è stato raccontato. Era una squillo, diciamo così, che ha avuto la fortuna di diventare una diva. Non credo avesse tutti questi strumenti con cui viene descritta.  Viene mitizzata perché diversamente da Cicciolina, che era una profuga ungherese, ha dato la sensazione di essere una ragazza borghese. Cosa non vera, veniva da una famiglia normalissima. E' stata divinizzata, mostrata come fosse una martire, pura e incorrotta, come una protomartire cristiana. Pura retorica. Che Dio l'abbia in gloria. Ho un ricordo affettuoso di lei. Era molto bella, ma era anche venuta bene la chirurgia plastica. Prima di rifarsi aveva un naso da tucano e le guance incavate. Poi i chirurghi l'hanno resa straordinaria in volto. Aveva delle gambe incredibili e dei fianchi straordinari, era grande ma proporzionata. Era molto bella". Sulla crisi politica agostana: "Mi ha fatto piacere perché ci siamo tolti di torno per il momento Salvini e anche altre facce insostenibili, come la mia concittadina Bongiorno. Due soddisfazioni che sono più che sufficienti. Poi, non sono né del Pd né del Movimento Cinque Stelle.  Zingaretti non controlla nulla, controlla il partito, ma il partito è un guscio vuoto, chi ha in mano le leve è Renzi, che non è un uomo di sinistra, ma un ambizioso provinciale toscano che viene dalla democrazia cristiana".

DA il sussidiario.net il 15 settembre 2019.Come ricorda il sito di Amica, Rocco aveva già avuto modo di dire che sulla morte di Moana “non ci sono misteri, né leggende. Ho vissuto con lei l’ultima parte della sua vita. Era diventata magrissima, aveva perso più di 20 chili e aveva deciso di starsene in disparte. Era arrivata a vergognarsi di stare in mezzo alla gente. Moana non è scappata: è volata in cielo e questo è sicuro”.

Niccolò Fantini per Novella 2000 il 23 settembre 2019. Moana Pozzi è stata un’avanguardia femminile: la donna che, contrastata dai benpensanti e amata dal pubblico, nei rampanti anni ’80 e nei primi anni ’90 ha maggiormente trasformato il costume dell’Italia della Prima Repubblica. Moana se ne è andata venticinque anni fa, il 15 settembre del 1994 a Lione, in Francia. Aveva appena 33 anni. Ma la sua morte, inattesa e rapida, si è subito velata di un mistero che, ancora oggi, alimenta fake news e pagine di giornali. Ma ne incrementa anche il mito, fino a cristallizzare la leggenda della pornostar. Moana Pozzi era un’attrice di film a luci rosse e una donna intraprendente: viveva nel progresso e si affermò da sola in un’Italia bigotta. Proveniva da una famiglia borghese di Genova, era una donna colta e intelligente: l’eleganza, la bellezza, ma soprattutto l’eloquio e il fine pensiero la resero una protagonista, nella società e nella TV. Novella 2000 ha chiesto all’attore, regista e produttore di film per adulti Rocco Siffredi un ritratto personale di Moana.

Secondo lei Moana Pozzi sarebbe stata una grande pornostar, anche oggi, nel mondo dei social e dei video online?

«Credo che Moana, essendo una persona estremamente intelligente, se oggi avesse continuato a fare la pornostar si sarebbe adeguata ai tempi. Ma ci tengo a dire che Moana era una donna molto arguta, sensuale e affascinante. Anche se, in realtà, era poco interessata al sesso: era quasi asessuata. Io lo dico sempre: sul set giriamo dei film, ma il sesso non si può recitare. Fingere la passione, durante l’atto sessuale, è l’unica cosa che non si riesce a fare. Moana, con la sua bellezza e con quella marcia in più che solo lei aveva, se oggi avesse fatto ancora la pornostar sono sicuro che avrebbe guardato dall’alto in basso molte colleghe di lavoro. Se devo esprimere un parere professionale sulla sessualità direi che oggi le attrici danno davvero molto sul set, ma si divertono e sono protagoniste attive. Chi guarda il porno lo percepisce. Oggi l’intrattenimento per adulti è molto amplificato, estremo. E Moana non era una persona estrema».

Quindi anche secondo lei come Moana nessuna mai?

«Nessuna. Assolutamente insostituibile. Una donna con qualità uniche, che l’hanno resa la diva che è diventata. Anche l’Italia l’ha capito e la gente infatti l’ha divinizzata: in una fase storica complicata, Moana Pozzi è stata la pornostar che ha fatto da apripista femminile, oltre trent’anni fa. Lei è stata la prima donna, non senza difficoltà, ad aprire il mondo del porno alle famiglie italiane. Era una donna con un carattere e un’attitudine che le permettevano di elevarsi sopra a tante persone e ben oltre il mondo del cinema per adulti. Aveva una leggerezza e una classe davvero introvabili. Sia nel porsi sia nel mostrarsi. Come nel rispondere anche alle cattiverie più feroci. Moana aveva una leggerezza spiazzante».

Può dirci quali erano, per lei, le altre qualità uniche di Moana Pozzi?

«Recentemente ho letto un articolo su Dagospia, riportava il pensiero dello scrittore Fulvio Abbate, secondo il quale Moana era “una squillo che ha che ha avuto la fortuna di diventare una diva”. Non sono d’accordo. Moana batteva chiunque in classe e bellezza, aveva un portamento sempre elegante e mai volgare. Anche alle offese rispondeva sempre con molta eleganza. Per esempio in televisione: a chi l’aggrediva, replicava in maniera gentile e pacata. Magari era ferma e ironica, ma sempre con parole e modi eleganti. Ed era avanti: persino la sua bellezza era in anticipo sui tempi. Era il frutto di un gran lavoro. Moana aveva corretto ciò che non le piaceva, anche attraverso la chirurgia estetica. Oggi è la norma: modificare il naso è una cosa accessibile a molti. Ma trent’anni fa, con quel tipo di morale e di cultura, Moana era all’avanguardia. Anche nello studio del proprio corpo e nella creazione della propria bellezza. Nel sesso invece il discorso è differente perché, come detto, è difficile paragonarla alle pornostar di oggi e alle performance professionali che eseguono sui set. Ad esempio: Malena se la mangia. Ma la scintilla con cui Moana accendeva il desiderio era il suo modo di porsi di fronte alla telecamera. Compensava con bellezza ed eleganza la mancanza di sessualità esplicita e spinta. Era sensuale e aveva uno status da ragazza borghese che accendeva il desiderio nell’Italia dell’epoca».

E com’era sul set l’attrice Moana Pozzi? Avete girato numerose pellicole insieme. Ci può raccontare un episodio personale? 

«Vi racconto volentieri questo aneddoto: ero negli Stati Uniti con Moana, per le riprese del suo primo film americano. Lei in quel periodo mi voleva al suo fianco perché rappresentavo la parte maschile in cui si vedeva riflessa: un bravo ragazzo italiano, sano e pulito, non tatuato. Moana venne in America, la prima volta, per girare con due produttori siciliani, che mi telefonarono e mi chiesero di partecipare. Lei arrivò sul set, io prima dovevo girare una scena con due note pornostar americane, e Moana, dopo aver assistito alla scena, venne da me e mi disse una frase, che per me è storica: “Ma è pazzesco, queste sono veramente assatanate”. E io le risposi: “No, questo è il vero porno”. Infatti, quando giravamo dei film a luci rosse in Italia quasi non mi toccava. Le scene con Moana andavano così: ci si incontrava sul set, lei era già sdraiata sul fianco, nuda. E mi faceva un dolce sorrisino. Ma non era partecipe con passione, nel senso più fisico e sessuale del termine. Proprio non le interessava».

La scomparsa di Moana, inaspettata e prematura, alimenta tutt’oggi leggende. Può raccontarci il vostro ultimo incontro?

«Ne ho sentite e lette tante. Ma la realtà è semplice: è morta di un tumore che in pochi mesi l’ha portata in cielo. Non è nascosta chissà dove, e non è morta di Aids, come ho letto su Internet e su altri giornali italiani. L’ultima volta che ho visto con i miei occhi Moana Pozzi è stata al Fico d’India, un ristorante di Roma. Indossava dei grandi occhiali neri ed era seduta a un tavolo in disparte, con lei c’erano il marito, Antonio Di Cesco, e Riccardo Schicchi».

Oggi cosa le manca di Moana Pozzi?

«È stata unica. E le cose che di lei mi mancano sono tante, ma soprattutto la sua intelligenza, la sua leggerezza e la sua simpatia. Moana era una persona dolcissima, insostituibile».

Fulvio Abbate per Dagospia il 23 settembre 2019. Moana, Santa Moana, di più, per parafrasare Bertolt Brecht, Santa Moana dei Macelli del luogo comune. Nei giorni scorsi gli amici “Lunatici” di Radio2 hanno avuto la gentilezza di chiamarmi per commentare insieme un post nel quale dicevo, appunto, di trovare insostenibile la santificazione di Moana Pozzi, ennesimo esempio di banalità, di banalizzazione, attribuendo così a Moana Pozzi un improbabile plusvalore intellettuale sempre stato negato invece, metti, ad altre figure non meno leggendarie della nostra epica erotica progressiva contemporanea, penso a Ilona Staller, ritenuta quest’ultima, nonostante un curriculum rivoluzionario, poco più di una talentuosa, irresistibile “profuga ungherese”. Posto che non posso dire male di Moana, custodendone un ricordo del tutto radioso, la sua gentilezza amorevole, ed avendo perfino ricevuto da Mauro Biuzzi la tessera onorifica del Partito dell’Amore fin dalla sua costituzione, confermo i miei dubbi. E ancora, addirittura, nel 2007, aggiungo a mia possibile discolpa, d’avere ottenuto il Premio le Ceneri dalla medesima associazione, forse il riconoscimento che più mi è caro, giunto in un momento di difficoltà, ossia dopo che ero stato cacciato da “l’Unità” per espresso desiderio di Veltroni. E ancora, sempre da foto che accludo, custodisco una sagoma di Moana a grandezza naturale ritoccata in modo dionisiaco dall’amico comune Mario Schifano, omaggio ulteriore alla sua irresistibilità; ciononostante devo però confermare quello che ho già detto, meglio, correggere il tiro: era stato proprio Schifano, un pomeriggio di confidenze, mentre conversavamo sul talento della nostra comune conoscenza, a dire le parole che ho riferito, ossia che Moana Pozzi era “una squillo che aveva avuto l’immensa fortuna di diventare una diva”, parole che sposo pienamente, senza attribuire a loro alcuna valenza negativa, degradante, lontano da ogni moralismo. Quanto all’avvenenza di Moana ho già chiarito, e su questo c’è piena concordanza con le parole di Rocco Siffredi, mostrava una bellezza assoluta: i suoi fianchi le sue cosce, il suo culo erano irresistibili, atticamente statuari, sia detto senza retorica anche stavolta, idem il viso lo era, rarissimo caso in cui la chirurgia plastica aveva lavorato in modo straordinario nel disegnare un volto da encomio somatico, guance perfette, la linea del naso che viene giù dalla fronte; ma la ricordo anche piccola comparsa, mi pare, in “Ginger e Fred” di Federico Fellini, lì con ancora un naso da tucano e gli zigomi senza ancora l’assolutezza della forma della pesca, confermo anche questo. Rocco Siffredi, obiettando alle mie parole, dice pure, testualmente, che Moana era bravissima nel rintuzzare coloro che provavano semplicemente ad offenderla, anch’io posso confermare questo suo dono. Sarà stato forse il 1993 quando una sera, a Roma, al Bar della Pace di Bartolo Cuomo, che Dio abbia pure lui in gloria, venne chiesto a me di affrontare un faccia a faccia proprio con lei, candidata a sindaco di Roma con il Partito dell’Amore, quanto a me ero lì per una lista vicina a Rifondazione comunista promossa da Renato Nicolini, e che anche per lui splenda la luce perpetua, seduti davanti a noi due pischelli trentenni che per tutto il tempo dell’incontro, in modo più che insistente, le si rivolgevano, con effetto goccia, con queste esatte parole: “Scusa, ma poi ce la fai vedere la fica? Scusa, Moana, ma poi, già che siamo qui, quando avrete finito di parlare, ce lo farai un pompino? Non ho mai dimenticato il mirabile modo in cui la signora Moana Pozzi riuscì a zittirli, tramortendoli con mezza frase, abbattendone l’ottusa pervicacia; dimenticavo: accadde che a un certo punto ci fu detto che stavano perfino arrivando i fascisti per buttare tutto all’aria, non era vero, ma avemmo un attimo di brivido comune, Moana quella sera indossava un abito rosa, peccato non avere una foto di quell’incontro. Alla fine di tutto, Bartolo, prendendomi da parte, mi disse, ma tu lo sai che erano quei due stronzi che vi disturbavano? Poi accennò a due rampolli della Roma bene proprietari di un vivaio. La sagoma che Schifano aveva pitturato per lei ho provato inutilmente a fargliela avere, a restituirgliela, al telefono le ho detto: “… Ho qui il tuo ritratto a figura intera che Mario ha fatto per te, quando te lo porto?” La sua risposta: “… no, tienilo pure tu, è un mio regalo”. Più di vent’anni dopo è ancora con me. Confermo invece il mio fastidio tutto politico per la canonizzazione di Moana Pozzi da parte di molte anime belle del post-femminismo di sinistra, penso segnatamente alla banalità da educandato edificante presunto progressista di una Michela Murgia e delle sue consorelle, la stessa banalità che fa innalzare sugli altari, metti, una non meno banale, almeno come pittrice, Frida Kahlo in nome delle sue presunte stimmate. Non in mio nome. Peccato, non avere una foto di me insieme a Moana al Bar della Pace quella sera che tememmo perfino l'irruzione dei fasci.

LETTERA D'AMORE A MOANA POZZI. Andrea Bonzi per Quotidiano.net il 18 settembre 2019. Sono passati 25 anni. Il 15 settembre 1994, in una clinica di Lione, moriva Moana Pozzi. Aveva solo 33 anni, e faceva la pornostar. Anzi, era la stella dell’hard più nota. Da quel momento, come una Marilyn a luci rosse, Moana Pozzi entra nel mito. Non era una pornostar come tutte le altre: le apparizioni televisive (celebre la passerella di nudo integrale a L’araba fenice, su Italia 1, nel 1988), i talk show, i libri in cui dava le pagelle agli amanti (La filosofia di Moana, edito nel 1991 a proprie spese), facendo nomi e cognomi, da Marco Tardelli a Beppe Grillo e Bettino Craxi, potente segretario del Psi, nonché l’avventura elettorale col Partito dell’amore, l’avevano fatta uscire dal recinto dell’hard, trasformandola in un’icona nazionale, nel bene e nel male. La sua storia la rendeva unica. Nata a Genova il 27 aprile 1961 da una famiglia borghese, allieva del Conservatorio, nel 1979 lasciò la famiglia e iniziò la carriera di modella e attrice. La prima pellicola a luci rosse è del 1987 (Fantastica Moana): diventa, insieme a Cicciolina, la stella di Diva Futura, l’agenzia di Riccardo Schicchi. Nel 1992 si presenta con il Partito dell’Amore (fondato da Cicciolina, che poi ne era uscita) alle elezioni politiche. Gli ultimi cinque mesi della sua vita, Moana li ha vissuti nella clinica francese, nel più stretto riserbo e senza apparire mai. Subito dopo il decesso è stata cremata. Non mancano le speculazioni: ufficialmente è morta di cancro, ma in tanti attribuiscono all’Aids o all'epatite cronica infettiva la sua fine (scarsi, allora, i controlli e le protezioni per chi lavorava nel porno). Il mito vuole che non sia mai morta, e che sia ancora viva, all’estero. Ma è, purtroppo, solo una leggenda. "La divinizzazione di Moana? Potrà essere anche eccessiva, ma era una ragazza piacevole e intelligente. Quasi 40 anni fa, Moana lanciò una sfida: lei, che proveniva da una buona famiglia borghese di Genova, è stata una delle primissime persone a rivendicare pubblicamente l’uso del proprio corpo per trarne vantaggio e notorietà". Giampiero Mughini, giornalista e scrittore, racconta così Moana Pozzi, la pornodiva scomparsa a soli 33 anni, il 15 settembre 1994. Esattamente un quarto di secolo fa.

Mughini, che ricordo ha di Moana Pozzi e di quel periodo – tra fine anni Settanta e Ottanta – in cui le pornodive lanciate da Riccardo Schicchi avevano una fama che andava oltre le luci rosse?

"Ho conosciuto bene sia Schicchi, l’architetto che aveva inventato Cicciolina, sia le ragazze che lavoravano per lui. Moana era la star della sua scuderia – termine che non uso in senso spregiativo, beninteso –: le ragazze, per esibirsi in modo discinto e invitante, guadagnavano 3 milioni di lire a serata; Moana ne percepiva ben 12. E immagino che, anche sui set a luci rosse, guadagnasse quattro volte tanto le altre".

Moana diceva: «Faccio l’amore e non ho sensi di colpa». Un po’ una Marilyn a luci rosse. Si può dire che – grazie anche a comparsate televisive, interviste, libri – sia stata la prima pornostar a essere percepita dalla gente comune come una persona vera?

"Sì, più di Cicciolina. In quegli anni, quando incontravi la Staller e le chiedevi che giorno fosse, si voltava verso Schicchi prima di rispondere, sembrava davvero una sua creatura. La prima persona a figura intera del porno italiano è senza dubbio Moana".

E Moana che pensava di sé? Al di là delle dichiarazioni pubbliche, ovviamente...

"Mi ricordo una sera, a Napoli, c’erano Schicchi, Moana e altre ragazze, tra cui la mia amica Petra Scharbach, si esibivano in un teatro. Finito lo spettacolo, Moana mi disse: ‘Quando ero sul palco, mi chiedevo che cosa pensassi di me’. Io pensavo facesse un lavoro rispettabile, era una persona con cui potevi chiacchierare meglio che con tante giornaliste femministe di oggi".

Ci racconta un aneddoto particolare su Moana?

"Sempre quella volta a Napoli, tornai con lei in macchina. Io non guido, quindi, quando arrivammo a pochi metri da casa sua – stava vicino a San Pietro, a Roma –, mi disse: ‘Giampiero, sali che ti chiamo un tassì’. Io, per motivi di pura discrezione, perché non volevo pesarle ulteriormente, le risposi di non preoccuparsi, sarei rimasto lì in attesa. Lei pensò che non volessi entrare in casa sua in quanto la ritenessi un po’...sacrilega, diciamo. Questo per dire della sensibilità della donna che, va da sé, era bellissima, grazie anche a qualche ritocco del chirurgo, certo. Ma oggi, quale showgirl non ne fa".

Quanto ha pesato la sua morte misteriosa – un tumore, ma si è parlato anche di Aids – nel farne un personaggio che è entrato nella memoria collettiva?

"La sua morte non è affatto misteriosa. Sono convinto abbia contratto l’Aids, in quel contesto e in quel periodo era facile. Ha pagato oltremodo la sua notorietà e i suoi guadagni, ma era una scelta a suo modo coraggiosa, altro che quelle sciacquette – ma io userei anche termini più forti – che popolano social e blog oggi e ne traggono un vantaggio economico".

Moana scrisse un libro in cui dava i voti ai suoi amanti: Tardelli, Craxi, Grillo e molti altri. Le rivelazioni ebbero molto risalto. Sarebbe possibile oggi una situazione analoga, soprattutto pensando alla politica?

"Vedo una mediocrità spaventosa, mancano i personaggi. Non c’è un’altra Moana Pozzi, ma non ci sono neppure più politici all’altezza. Oggi lo sguainare cosce, culi e tette è un genere professionale: io faccio l’ingegnere, tu la dottoressa, tu la sciacquetta. Io non sono sui social, ma quando vedo le notizie su questa o quella influencer mi viene da ridere. Rispetto a loro, Moana quell’attenzione la meritava: ha imposto un personaggio che non c’era".

25 anni senza Moana Pozzi. Quella confessione choc di Villaggio. Il 15 settembre 1994 Moana Pozzi moriva a causa di un tumore al fegato. Simbolo di trasgressione, contribuì all'evoluzione dei costumi dell'Italia tra anni '80 e '90. Ma nel privato era una persona diversa. Come raccontò Villaggio. Roberto Bordi, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Era il 15 settembre 1994 quando Moana Pozzi, la diva dell'eros, la pornostar più amata dagli italiani, simbolo di classe e intelligenza, moriva su di un letto dell'ospedale di Lione a causa di un tumore al fegato. 25 anni dopo, il mito di Moana è ancora vivo. Periodicamente, qualcuno semina il dubbio che l'attrice sia ancora viva. Voci smentite qualche anno fa da Rocco Siffredi che ha raccontato di averla vista dopo il trapasso "dimagrita di 20 chili", irriconoscibile a causa della malattia. Qualcuno parlò di Aids, contratto sul set a seguito di un rapporto sessuale non protetto con il noto pornoattore John Holmes, qualcun altro di cirrosi. Un mistero che rimarrà per sempre, e che contribuisce ad alimentare ancora di più il mito di Moana.

Nata a Genova nel 1961 e cresciuta a Lerma, nell'Alessandrino, Moana ha rappresentato per anni il sogno erotico degli italiani. Ha cambiato i gusti e la morale dell'Italia a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, facendosi apprezzare non solo per le sue doti artistiche, chiamiamole così, ma soprattutto per stile, classe, cultura - due lauree secondo Lino Banfi, ma non si sa ancora con certezza - e intelligenza. Anche politica. Indimenticabile l'esperienza con Ilona Staller, alias Cicciolina, nel partito dell'Amore. Tra le sue proposte, non solo la riapertura delle case chiuse. Ma anche la corruzione. Come a intuire ciò che sarebbe successo con Tangentopoli. Ma non ebbe tempo.

Breve e ricca di colpi di scena, la sua vita. Le prime esperienze da modella e attrice, poi lo sbarco nel mondo dell'hard. Non solo quello, però. Una volta disse: "Io faccio tante altre cose che esulano dalla pornografia. Poi vedi che tante altre ragazze che fanno il mio stesso lavoro, non riescono ad andare al di là di quello. È bello essere un'artista che fa tante cose, no?". Nel suo libro "La filosofia di Moana", noto ai più per le pagelle ai personaggi famosi che aveva deciso di accogliere tra le sue morbide braccia, raccontava che "di sera non mi facevano uscire e io scappavo dalla finestra, mi proibivano di leggere libri spinti (Moravia era considerato osceno) e io lo facevo di nascosto, mi obbligavano a vestire da collegiale e io, uscita da casa, correvo da una mia amica a mettermi minigonna e tacchi alti. Non vedevo l'ora di diventare maggiorenne e di essere finalmente libera!". E libera lo è stata, fino alla tragica fine a soli 33 anni. Eppure, come capita a molti, anche Moana era molto diversa nel privato dall'immagine pubblica con la quale tutti la identificavano. Vedi le parole di Paolo Villaggio, suo amico di vecchia data che le fece avere una particina nel film del 1984 "A tu per tu", con lo stesso Villaggio e Johnny Dorelli: "Moana Pozzi era frigida. Odiava il sesso, provava disgusto per tutti quegli uomini che le slinguettavano addosso. Era schifata da quella pletora di sacerdoti pedofili, politici democristiani, quel mondo di corrotti che le girava attorno. In realtà li fustigava con distacco, questa era la sua forza". Poi la confessione choc: "Non ha mai amato veramente nessuno". Ma è stata amata da tutti.

 “Feci esordire Moana per quel sedere da infarto”. Il Giornale Off il 09/12/2016. Moana. Basterebbe il nome per collegare, per ricordare. Per capire. La grande mamma dell’erotismo, nell’immaginario collettivo di quell’Italia godereccia, dietro alla tendina. Mai trash, sempre cult: una leggenda. La famiglia genovese, l’adolescenza in Brasile, poi in Canada e in Francia. I concorsi di bellezza, la nudità mai nascosta, la televisione – Tip Tap, su Rai 2, Jeans 2, su Rai 3 e poi su Italia 1 con Antonello Ricci -, l’arrivo a Roma, il porno e poi il cinema, con Fellini in Ginger e Fred e con Carlo Verdone. Qui casca l’esordio, o almeno, una delle primissime apparizioni.

Borotalco. 1982. In quell’universo barocco e verista, nell’eterna periferia povera e splendente, in quella romanità in presa diretta, ecco Moana uscire tutta nuda dalla piscina di un attico, lussuoso, lussurioso, bugiardo, come quel “maschio” del suo proprietario, Manuel Fantoni, ovvero un Angelo Infanti più nazionalpopolare che mai. E subito fu cult nel cult ma ancora non si poteva immaginare. Galeotto fu il culo: “Tutta colpa di un gran bel sedere che lei ci offrì in tutto il suo splendore, con nostro grande diletto, in un appartamento sconosciuto nel lontano 1982”. Così il grande regista romano Carlo Verdone, racconta sulla sua pagina Facebook, una delle primissime apparizioni di Moana Pozzi sul grande schermo; una sexy comparsata, del tutto casuale, che passava proprio dal suo mondo: “Un giorno ero in giro per sopralluoghi e dovevo trovare un appartamento che potesse esser adatto al personaggio di Nadia Vandelli (Eleonora Giorgi) in “Borotalco”. Finimmo a Trastevere vicino Via Aurelio Saffi: lì ci aprì una attrice, Antonella, amica dell’organizzatore, che ci voleva far vedere il suo appartamento. Mi sembrava adatto ma mancava una stanza. “C’è un’altra stanza”, rispose. “Solo che ci sta dormendo una mia amica …”. Era quasi l’una passata e questa amica ancora dormiva?  Già pensavo al genere di ragazza che poteva essere: aspirante attrice che torna a dormire alle 5 di mattina.  “Aspettiamo un quarto d’ora … e semmai torneremo”, dissi rassegnato. Ma la ragazza, che ci teneva ad affittare l’appartamento, ebbe uno scatto. “No, no … Mo’ la sveglio e che diamine”.  Entrò spalancando la porta e le persiane: la stanza si inondò di luce e uno splendido sedere ci apparve in primo piano sul lettino … restammo senza fiato. Moana si lamentò un attimo per quel brusco risveglio e , come se nulla fosse, si infilò una maglietta per lasciarci vedere la stanza.  Nessuno guardava la stanza ma il corpo di quella ragazza misteriosa, tanto che il direttore di produzione s'incazzò: ” Oh … ma dovete vede’ ‘n culo o ‘na location ? E annamo su !”. L’appartamento per me era ok, e lo era  anche per Ennio Guarnieri, il direttore della fotografia: fissammo le date e salutammo. Ma uscendo chiesi ad Antonella di poter vedere un secondo la sua amica: Moana si affacciò ,con i capelli già bagnati dalla doccia, facendo capolino dalla porta del bagno.  “Ti va di fare due pose al volo per il mio film ?”.  “Certo ! Sono venuta a Roma per questo” disse con un certo entusiasmo. Feci prendere i suoi contatti dal mio aiuto e già pensai che una così non me la potevo far scappare.  “Ma che te stai a inventa’ ?” chiese preoccupato l’aiuto regista Roberto Giandalia.  “La metto un paio di volte a casa di Manuel Fantoni , è credibile che lui conosca una così.” E così, per caso, grazie ad un fondoschiena da infarto, Moana Pozzi debuttò per la prima volta nel Cinema con me. Le feci fare pure il bagno nuda nella piscina dell’attico di Fantoni sulla Magliana. Chi lo avrebbe mai immaginato che sarebbe poi diventata così famosa? Tutta colpa di un gran bel sedere che lei ci offrì in tutto il suo splendore, con nostro grande diletto, in un appartamento sconosciuto nel lontano 1982. Bel film. Bei ricordi. Pochi anni fa mi è stato detto che la piscina sull’attico è crollata, lesionando il palazzo.  Solo voci. Ma temo sia vero….” Un doppio tributo. Uno alla pornostar più amata d’Italia, l’altro ad un mondo morente, ad un’espressione nostalgica e sanguigna, ad una qualità cinematografica e ad un lavoro di rievocazione spontaneo, mai di riesumazione, che Carlo Verdone, di volta in volta, di post in post, offre.

COME VIVERE, MALE, SENZA MOANA POZZI. Barbara Costa per Dagospia il 12 settembre 2019. “Baciami sulla bocca, toccami, spogliami, accarezzami la f*ga, leccala e succhiala come sai fare tu. Adesso lascia che te lo tiri fuori e che ti masturbi, ma non devi venire, quello lo farai dopo, su di me, e dove vorrai. Dai, leccami di nuovo, fammi godere, e mentre sto ancora venendo, mettimelo dentro e sc*pami, sc*pami tanto, fino in fondo, davanti e dietro…” Hai appena letto e goduto di un estratto delle porno-performance che la grande Moana Pozzi faceva dal vivo, quando dava lezioni di sesso e piacere all’Italia. Lezioni, spettacoli per i quali è stata condannata a 2 anni e mezzo di galera, ma lezioni con cui Moana ha dato la "sveglia" a un’Italia addormentata, del sesso curiosa ma fobica, paurosa. Moana, lei lo sapeva benissimo, che siamo un Paese bacchettone, dove tutto si può fare basta non dirlo e non mostrarlo, e invece lei lo diceva e lo (di)mostrava, eccome, orgiava, succhiava, pornava, si faceva 5, 6 maschi per volta, ma pure tutti insieme, e se ne lamentava, che non le bastavano, non erano all’altezza, non la saziavano. Più si ergeva fiera delle sue pornate e più i "casti e puri" la attaccavano, come quel maître à penser che si chiama Jovanotti, il quale cantava compiaciuto: “Io non voto Moana/e non perché è una pu*tana/ma perché non penso sia un esempio di italiana”. Avercene, di donne come Moana, femmina irripetibile, lei che del porno ha fatto arte e estetica, e filosofia in un suo libro spietato. Avercene, di donne libere come Moana, lei che guadagnava cifre a sei zeri e altrettanti ne faceva fruttare, lei che sui set si poteva permettere ogni capriccio da diva. Lei che del sesso e del porno e dell’eros ne parlava con proprietà e libertà rare, e mai una volta che alzasse la voce, che perdesse in compostezza, o in classe. Mai che si presentasse in tv (se non per contratto, ovvio) spogliata, indecente, sopra le righe, e mai che sbagliasse una risposta, una pausa, un atteggiamento. Moana era una signora, la signora del porno, perché nel suo lavoro stanne certo non si risparmiava, sessioni porno di ore e ore, e sì che è vero che era lei a decidere chi quanto e come poteva toccarla, e se Moana non ne aveva voglia, la vagina da leccare, penetrare, spermare, era di una sua controfigura. Ma a fellatio, doggy-style, e orge, non dava requie, anche se alcuni registi – dopo la sua morte, beninteso – hanno rilasciato interviste str*nze in cui dicono che Moana era un disastro, non ci sapeva fare, come avessero dimenticato che era per Moana, che erano stati sull’Olimpo della pornografia. Eroticamente a Moana bastava poco, bastava spogliarsi, esibire quei centimetri immacolati di pelle lattea, quel sesso scuro quasi mai depilato, e quella quinta di seno che non strideva, semmai marcava la deliziosa "distanza" tra la sua vita stretta e quella parte di sé più amata e idolatrata, anche da Fellini, cioè quel sedere, quelle natiche che lei pornograficamente non lesinava, e chiedetelo a Rocco Siffredi, che poco più che 20enne con Moana ha girato tanti film, fatevi raccontare quanto a Moana piaceva esser presa e fatta inginocchiare, e sodomizzata da “quel ragazzo biondo lì”, che ad erezione non scarseggia(va) mai, che a potenza e resistenza e orgasmi non delude(va) nessuna. E forse nessuno ha conosciuto Moana come Rocco, Moana che era inaccessibile, e sui set solo a Rocco permetteva di entrare nel suo camerino, solo a Rocco qualcosa confidava, e credo che Rocco costudisca alcuni dei suoi segreti. Non dare credito, non ti fidare di chi in questi anni ha portato avanti il mito di Moana-santa, di ricca famiglia e di sana cultura immolatasi al porno. Moana proveniva da una famiglia perbene ed era ricca di cultura, è vero, ma al porno si è data con convinzione, e per voglia, fame, ambizione, desiderio di essere la numero uno. Per ribellione. C’è riuscita, e ha regnato sul porno e sul costume fino a che da quel trono l’ha strappata il cancro. Nel privato, Moana cercava l’osceno, si eccitava a vedere 2 uomini fot*ere, le piacevano poco le donne, e raccontava che la sua notte più bella era stata con un ragazzo greco che l’aveva fatta esultare 4 volte consecutive. Moana ha fatto sesso la prima volta a 14 anni, ma per la prima volta ha goduto a 17, e aveva orrore delle droghe, e diceva che l’unica cosa di cui si vergognava era aver partecipato a Miss Italia. E adesso ti dico di lei e Bettino Craxi: è vero, hanno avuto una storia, quando lui era a capo del PSI e non ancora presidente del consiglio, e soprattutto Moana non era ancora una pornostar. Si son conosciuti a una cena dove erano 2 donne – lei “e Antonella, la mia amica intrallazzona” – e 10 uomini tra politici, segretari, portaborse. Soli son rimasti la sera dopo, all’hotel Raphael, “e lui si masturbò accarezzandomi”. Sono stati insieme 5 mesi, si vedevano anche a casa di Angelina Tattilo, editrice di "Playmen", su cui Moana posa nuda. Craxi fa entrare Moana in RAI, tutti i sabati lei conduce su Raidue "Tip Tap Club", un programma per ragazzi. La lascia lui, perché Moana sta con Craxi ma pure con un altro, tale Pietro, e non te lo posso assicurare ma questo Pietro stava in un giro se non mafioso para, Pietro che muore in un incidente stradale ma prima "affida" Moana a Alfredo, un suo "socio" palermitano, con cui Moana fa la bella vita tra yacht e lusso, fino a che Alfredo non viene arrestato per affari di droga (allora Palermo era la principale raffineria di eroina al mondo). Craxi, Moana lo rivede una volta sola, in un ristorante, lui è il dominus d’Italia e lei una pornodiva, e in quanto tali fanno finta di non conoscersi. Ma è Craxi che, da suo ex, permette a Moana di restare in RAI dopo l’uscita di "Valentina, ragazza in calore", il primo porno di Moana, girato con lo pseudonimo Linda Hevert. Vedendola in tv, i produttori di questo porno tappezzano i muri d’Italia di locandine col viso, corpo e nome Moana Pozzi in primo piano, per ottenerne il massimo ritorno economico. È il 1982 ed è uno scandalo, di quella bella e "innocente" ragazza che dalla tv parla agli adolescenti ma che in realtà porna se ne occupano la tv, e i giornali più seri. Ai cinema si fa la fila per vederla, in più occasioni intervengono le forze dell’ordine per sedare scazzottate. Ma nessuno toglie Moana da "Tip Tap Club", sta lì fino all’ultima puntata. Lo sai meglio di me: la telefonata di qualcuno di potere, ai piani alti della RAI, a favore e protezione di Moana, era certamente arrivata…!

Valeria Arnaldi per Leggo.it il 12 settembre 2019. 

Roberto D'Agostino, fondatore del sito Dagospia: com'è cambiata l'Italia nei 25 anni senza Moana Pozzi?

«Sono avvenuti cambiamenti epocali, anche nel porno che - negli anni '70 era stato identificato con Ilona Staller. Moana ha portato un significativo cambiamento, riuscendo a entrare nelle famiglie, addirittura in programmi nazional-popolari. Per la prima volta un personaggio del porno è riuscito a entrare nelle case di tutti».

Ma manca e quanto?

«Manca personalmente e manca in generale perché aveva una visione della sessualità che è ancora quella giusta. Era sobria, intelligente, colta. Leggeva Nietzsche e Bataille. Parlava un ottimo italiano, non era volgare. Non faceva paura agli uomini, né alle donne. Era diversa da altri che lavoravano in quel settore».

Il suo segreto?

«Moana Pozzi vedeva nel porno uno strumento dell'immaginario. E, in tale ottica, è riuscita a trasmettere al pubblico italiano un concetto chiave: il porno è un fatto culturale».

Era epoca di cassette e videoregistratore, oggi protagonista è il web...

«È stato proprio il porno il primo a fare il salto in Rete, intuendone il potenziale. Moltissimi dei primi pc in Italia sono stati acquistati per vedere film porno. È cambiato il modo di fruire del prodotto. Prima questi video si guardavano in tivvù con il rischio di essere esposti agli sguardi di chi passava. Lo schermo del pc ha consentito un rapporto più intimo con l'immagine. Nel nostro Paese il desiderio era visto come una colpa, l'uomo doveva essere liberato dai preconcetti sulla sessualità, era questo che pensava Moana Pozzi. Aveva studiato la materia e conosceva bene i meccanismi del desiderio».

Quali cambiamenti ha determinato l'esordio dell'eros in Rete?

«Il web ha cambiato le dinamiche in camera da letto. On line si trovano varie categorie di video porno, per uomini e per donne. Il mercato è internazionale. È un campo dove non ci sono discriminazioni. Oggi il porno è, direi, un additivo familiare. Ed è anche comunicazione e l'incapacità di comunicare oggi è uno dei fattori alla base delle violenze. Il porno è spesso considerato volgare ma è un errore, è materializzazione del desiderio, bisogna prendere atto del fatto che siamo tutti porno».

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 21 settembre 2019. Diamo a Moana quello che è di Moana. È vero che la canonizzazione della Pozzi a 25 anni dalla morte è quantomeno prematura (Padre Pio ce ne ha messi 34), ma è pur vero che a questo paese sono rimasti giusto gli anniversari. È vero che Moana Pozzi sopra le lenzuola non sapeva fare quasi niente, ma anche per questo è riuscita a seguire il consiglio di Oscar Wilde, diventare un' opera d'arte, operazione delicata, per cui il talento può essere di troppo. La sua forza è stata la coerenza, dote necessaria a una pornostar (non ti puoi mica svegliare con il mal di testa), ferma nella sua immagine e orgogliosa dei suoi principi. Perché anche una pornostar può averne, anzi, può dare lezione. "Il sesso mi è sempre piaciuto, fin da ragazzina adoravo vestirmi in maniera provocante, mi piace eccitare sia gli uomini sia le donne, hard o non hard faccio solo quello che mi diverte, sì, mi considero una perversa". Questo è un paese dove si pentono tutti, terroristi, mafiosi, corrotti, politici, faccendieri, savonarola e maledetti. Moana Pozzi non si è mai pentita, né convertita, né corretta. Non c' è strappona che, tra una copertina e l'altra da Ibiza, non dichiari di sognare una famiglia con tanti bambini. Moana dava a se stessa quello che è di Moana, nulla più, e tale coerenza di vita rima con il mistero della sua morte. Si può restare giovani finché si è giovani, l'età non è uguale per tutti, ma l'unico modo per restare fedeli alla propria giovinezza è sparire. Non ce n'è un altro.

·         Charlot: Charlie Chaplin.

CHE TRIVELLONE CHARLIE CHAPLIN! Cesare Lanza per “la Verità” il 12 maggio 2019. Era ossessionato dalle donne e dal sesso. Celebre la sua imitazione di Adolf Hitler, ammirava invece Benito Mussolini, ma si schierò sempre a favore della pace. Tante le guerre giudiziarie con le numerose mogli. Di Charlie Chaplin è famoso soprattutto il suo inimitabile personaggio, Charlot. E di Charlot Chaplin ha detto: «All' inizio Charlot simboleggiava un gagà londinese finito sul lastrico... Lo consideravo soltanto una figura satirica. Nella mia mente, i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell' uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di dignità, e i suoi scarponi gli impedimenti che lo intralciavano sempre». E anche: «Volevo che tutto fosse una contraddizione: i pantaloni larghi, la giacchetta stretta, il piccolo cappello e le grandi scarpe. Ho aggiunto i baffetti che, pensai, avrebbero aggiunto qualche anno in più. Non avevo ancora bene in mente il personaggio. Ma nel momento in cui mi sono vestito, gli abiti e il trucco mi hanno fatto sentire chi ero. È bastato il tempo di entrare sul set per far nascere Charlot». Altre riflessioni: «Non è patetico, non è terribile che tutta questa gente mi circondi gridando "Dio ti benedica, Charlie!" e che voglia toccarmi il cappotto, e ridere o persino piangere? Li ho visti farlo, quando riescono a toccarmi la mano. E perché? Semplicemente perché li ho rallegrati. Dio, che lurido mondo è questo, che permette alla gente di passare una vita tanto abietta che se qualcuno li fa ridere vogliono inginocchiarsi e toccargli il cappotto come fosse Gesù Cristo che li risuscita». «Il mio ideale di donna? Potrei non essere davvero innamorato di lei, ma lei dovrebbe essere totalmente innamorata di me». «Ritengo che se non possiamo ridere di Hitler di tanto in tanto, allora vuol dire che la nostra condizione è peggiore di quella che crediamo. Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita, persino della morte. La risata è come un tonico, un sollievo, un rimedio per attenuare il dolore». «Quando studio qualche gag che mi piace in modo particolare, e poi vado al cinema per vedere l' effetto che fa, quello che ride per primo è invariabilmente un bambino. Afferrano al volo, sempre». E di Chaplin, e Charlot, gli altri che cosa hanno detto? Alla sua morte, Federico Fellini ha scritto: «È scomparso nella stessa atmosfera natalizia in cui lo vidi per la prima volta. A Rimini i suoi film erano i più importanti, arrivavano nel periodo natalizio. Da bambini lo vedevamo come un omino cui dovere gratitudine, lo si accettava come un fatto naturale, come la neve d' inverno, il mare d' estate, Gesù Bambino. Una specie di Adamo, il progenitore da cui tutti si discende». «Chaplin ha speso tutto il suo genio per comprare sesso [...]. Seppe addirittura fingersi ebreo, cosa difficilissima, per accattivarsi il potere finanziario a Hollywood... Un amabile cinico, creatore di un personaggio umanitario» (Guido Ceronetti). «Tutto il mio amore è per Charlie Chaplin: il divino vagabondo, il divino fanciullo, il comico, il clown» (Roberto Benigni). «Chaplin è probabilmente l' uomo più sadico che io abbia mai incontrato» (Marlon Brando). Curiosità. Oltre al teatro, Chaplin si dedicava al podismo: era iscritto al club podistico di Kennington e si allenava sulle distanze lunghe; nel 1908 prese anche in considerazione l' idea di iscriversi alla maratona delle Olimpiadi di Londra, ma proprio in quel periodo si ammalò. Albert Einstein andò alla prima del film Luci della città negli Stati Uniti in compagnia dello stesso Chaplin: quando gli spettatori li videro, si alzarono in piedi applaudendoli calorosamente. E Chaplin mormorò a Einstein: «Vedi, applaudono me perché mi capiscono tutti; applaudono te perché non ti capisce nessuno». Pare che Charlie Chaplin e Paulette Goddard si siano sposati nel 1936 (per divorziare nel 1942). Tuttavia, ancora oggi, esistono dubbi se fra i due ci sia stato un effettivo matrimonio: entrambi rifiutavano di concedere dichiarazioni al riguardo e la Goddard, in lizza per ottenere il ruolo di Rossella O' Hara in Via col vento, perse per un soffio contro Vivien Leigh proprio perché non fu in grado di dimostrare di essere realmente la moglie di Charlot. Chaplin raccontava pubblicamente che si erano sposati in Cina e che avevano divorziato in Messico, ma con gli amici e la famiglia sosteneva che non erano sposati. Un cinema di New York fece l' esaurito per ben 10 anni proiettando solo film di Chaplin: dal Charlot muto ai titoli più impegnati del sonoro (che il regista non amava). Entrò così nel Guinness dei primati. Un giorno passeggiava per le strade di San Francisco e incontrò un barbone, lo portò in un ristorante e gli offrì il pranzo, dopodiché cominciò a fargli delle domande finché ottenne un racconto dettagliato e divertente della vita del senzatetto. Da quel racconto gli venne l'ispirazione per Il Vagabondo. Chaplin partecipò a un concorso per il suo miglior sosia. Arrivò terzo. La famosissima bombetta e il bastone di Charlot sono stati venduti a un' asta da Christie' s a Londra, nel 1995, come i due pezzi più importanti. Sono stati comprati al costo di 44.750 sterline, cioè circa 110 milioni di lire. Un capitolo a parte riguarda i rapporti con le donne. Peter Ackroyd ha pubblicato una biografia su Charlie Chaplin e ha messo in luce alcune (presunte?) ossessioni sessuali dell' attore e la sua sregolata vita sentimentale. Non c'era festa ad Hollywood nella quale non si rendesse subito gran protagonista: determinato a guadagnarsi sempre il centro dell' attenzione, sapeva mimare la parte di un bullo o quella di un assassino. Chaplin viene descritto come un uomo «ossessionato» dalle donne, soprattutto minorenni. Sembra che si vantasse spesso delle sue conquiste e ha confessato di aver avuto rapporti sessuali con più di 2.000 donne. Basso, con la testa leggermente troppo grande per il suo corpo esile e delicato, Chaplin era considerato da molti come di bell' aspetto, con i suoi profondi occhi azzurri, capelli neri e pelle chiara come l' avorio. Un uomo che non si è mai veramente fidato delle donne: ossessionato dalla paura della perdita e dell' abbandono e incline a furiosi scatti di gelosia. Una delle sue prime «scoperte» è stata la collega Edna Purviance, conosciuta quando lui aveva 25 anni: lei era una diciannovenne bionda, senza esperienza cinematografica e i due divennero più che colleghi. La relazione naufragò a causa dell' attaccamento al lavoro di Charlie, capace di girare la stessa scena anche 50 volte, prima di giudicarla perfetta. Poi, la sedicenne Mildred Harris, conosciuta a una festa nel 1918: per conquistarla inviò al suo albergo mazzi di rose rosse e la attendeva dopo le riprese, in auto. Diventarono ben presto amanti: lei gli raccontò di essere incinta e un matrimonio riparatorio fu organizzato in breve tempo. Divorziarono nel 1920 e in tribunale lei lo accusò di «crudeltà»: «Era irascibile, impaziente e mi trattava da cretina». Charlie era una vera «macchina del sesso». Dopo il flirt con la cacciatrice di dote Peggy Hopkins Joyce, la quindicenne Lita Grey, scelta per il film La febbre dell' oro. Anche lei rimase incinta e per Chaplin fu come rivivere l' incubo di Mildred: le suggerì di abortire, ma lei rifiutò. Consapevole dei 30 anni di carcere destinati a chi si fosse macchiato del reato di sesso con minori, l' attore confessò in un' intervista qualche anno dopo: «Ero scioccato e pronto a togliermi la vita quando Lita mi disse che non mi amava, ma che dovevamo sposarci». L'attrice dichiarò ai giornalisti dell'epoca che Charlie era una vera «macchina del sesso», capace di fare l' amore anche sei volte in una notte senza troppa fatica. I due divorziarono e in tribunale Lita l' accusò di aver tentato di minacciarla con una pistola, ad abortire. Ma è sulla questione «sessuale» che le sue dichiarazioni fecero scalpore: pare che Chaplin avesse «preteso e chiesto a Lita di gratificare i suoi innaturali, perversi e degenerati desideri sessuali». Le accuse furono subito negate dall' attore, che però concesse alimenti per un valore di 625.000 dollari, di cui 200.000 in fondi per i loro figli. Dopo Lita, Paulette Goddard, che gli disse di avere 17 anni quando invece ne aveva 22. Con lei recitò in Tempi moderni, la Goddard raccontò successivamente di aver subito dei veri e propri atti di «bullismo» da parte di Chaplin. Qualche giorno prima della prima de Il Grande Dittatore nel 1940 lei lo lasciò. Charles Spencer «Charlie» Chaplin (Londra, 16 aprile 1889 - Corsier-sur-Vevey, 25 dicembre 1977) nacque a East Street, nel sobborgo londinese di Walworth, in condizioni di indigenza, da un padre fannullone e una madre psicotica. Una vita «dalle stalle alle stelle». Ha raggiunto lo status di «uomo più famoso del mondo» a soli 26 anni. Nel 1943, sommerso dalle critiche dal governo americano per essere (così dicevano) guerrafondaio e comunista, Chaplin sposò un' altra donna molto più giovane, la figlia della sceneggiatrice irlandese Eugene O' Neill, Oona. Oona aveva 18 anni, Chaplin 54. Eugene, stessa età, era così furiosa che aveva diseredato Oona. Nonostante le critiche, il matrimonio durò fino alla morte di Chaplin, e ne nacquero otto figli. Il grande dittatore (1940) fu il primo film completamente sonoro di Chaplin, girato e distribuito negli Stati Uniti poco prima della Seconda guerra mondiale. Nel film, interpreta due personaggi: Adenoid Hynkel, il dittatore di Tomania, esplicitamente ispirato ad Adolf Hitler, e un barbiere ebreo perseguitato dai nazisti. Il film ebbe due candidature agli Oscar, come miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura, ma non vinse alcuna statuetta. Memorabile la scena nella quale il dittatore danza con il mappamondo sulla musica del preludio del Lohengrin di Richard Wagner. Nel pomeriggio della vigilia di Natale del 1977, Chaplin chiese alla moglie Oona di spalancare le porte della camera affinché dalla hall sottostante potessero salire le note delle Christmas carol, secondo un rituale che si ripeteva da vent' anni. Quella stessa notte, alle 4, se ne andò per sempre, nel sonno, uno dei più grandi attori di sempre. Morì a Corsier-sur-Vevey (Vaud), in Svizzera. Fu sepolto nel piccolo cimitero della cittadina svizzera. Al suo fianco lo raggiunse Oona, nel 1991.

·         Frank Sinatra.

Cesare Lanza per la Verità il 2 settembre 2019. È importante dire subito che, nei ritratti di Frank Sinatra, emerge una complessità unica: gli episodi che riguardano la sua vita, anche e soprattutto i più clamorosi, non hanno riscontri certi; sono controversi, discussi, a volte perentoriamente (e poco credibilmente) smentiti. Parlo dei suoi vari tentativi di suicidio, dei rapporti con la mafia che gli sono stati generalmente attribuiti, dei festini con i Kennedy e con Marylin Monroe, delle insistenti richieste (agli amici mafiosi, ovviamente) di uccidere Woody Allen. Tutti - e molti altri - capitoli di una vita assolutamente romanzesca. Cominciamo dai tentativi di suicidio. Frank Sinatra provò tre volte - senza riuscirvi - ad uccidersi. La prima volta, a conclusione di una lite furiosa con Ava Gardner, la donna all' epoca più bella di Hollywood, seduttrice irresistibile, con cui visse una tormentosa storia d' amore. La seconda, quando seppe che Ava aveva deciso, senza dirglielo, di abortire il figlio concepito dalla loro unione. La terza e ultima volta (almeno secondo quanto comunemente si è detto) dopo aver visto un enorme poster del rivale Eddie Fisher, di cui era gelosissimo rivale. Poi, la mafia. Quali rapporti reali Frank ha avuto con amici e rappresentanti di Cosa Nostra di varia importanza? La mia sensazione è che nelle biografie ci siano state molte esagerazioni: era suggestivo, di fronte all' opinione pubblica, sostenere che Sinatra fosse, fino al collo, nel giro dei mafiosi, complice e protagonista. Si è scritto perfino che era stato utilizzato come un prezioso corriere della mafia e che sfuggì a un arresto con una valigia piena di dollari, tre milioni e mezzo in contanti. Ad affermarlo è stato niente meno che Jerry Lewis, parlando con gli autori di uno dei tanti libri sul grande cantante, lanciato e pubblicato a puntate da Vanity fair. Secondo il racconto di Jerry Lewis, la valigia era piena di dollari in biglietti da 50 e Sinatra riuscì a sfuggire alla dogana perché poliziotti e doganieri furono distratti dalla straordinaria popolarità di Frank. Si stavano accingendo ad aprire la valigia, ma una folla esagitata si era formata in pochi secondi intorno a Sinatra e i doganieri rinunciarono alla perquisizione. Ma gli autori del libro commissionato da Vanity fair sono vaghi: Lewis non sarebbe stato un testimone oculare, ma semplicemente parlava dell' episodio in quanto «ne era stato messo a conoscenza». Di Sinatra e mafia parlano molti reportage giornalistici e innumerevoli libri, l' ultimo è la biografia non autorizzata Sinatra: la vita, di Anthony Summers e Robbyn Swan. Qual è la verità? Frank ha sempre negato, come se si trattasse di fastidiose maldicenze prive di consistenza, ogni rapporto con la mafia. Tuttavia alcuni dossier dell' Fbi (resi pubblici nel dicembre 1998, sette mesi dopo la sua morte) affermano che Frank era un amico stretto del presunto boss di Chicago, Sam Giancana. Secondo i documenti dell' Fbi, il celeberrimo cantante avrebbe fatto un viaggio a Cuba con Lucky Luciano nel 1947. E il suo ingresso nel mondo dello spettacolo sarebbe stato sostenuto è finanziato da un big del racket del New Jersey, Willie Moretti. Ancor meno credibile la storia - vorrei definirla storiella - secondo cui Sinatra avrebbe interpellato nel 1993 la mafia allo scopo di uccidere Woody Allen, responsabile di un comportamento umiliante verso Mia Farrow. Mia era stata sposata per due anni con Sinatra, successivamente aveva scoperto la relazione di Woody con la figlia adottiva Soon-Yi. Mia in lacrime avrebbe chiamato disperata Frank per chiedergli aiuto. E Sinatra avrebbe subito contattato gli amici degli amici perché gli dessero una lezione, e possibilmente lo facessero fuori. Una storiella inverosimile e priva di riscontri. Dicerie riferite in un altro libro come clamorose (David Evanier Woody: the Biography), di recente pubblicazione. Il Daily Mail ha riportato una anticipazione. Evanier si dichiara un ammiratore di Woody Allen e afferma di avere avuto accesso a testimonianze raccolte in ambienti vicini alla mafia nonché tra attori e registi di Hollywood. Tutto e niente, insomma. Quanto a Mia Farrow, in tribunale per la denuncia contro Allen per le molestie a Soon-Yi, aveva asserito che «un suo ex marito» aveva chiesto di spezzare le gambe al regista, ma non aveva chiarito se si trattasse di Frank Sinatra o del compositore André Previn, con il quale aveva adottato la bambina coreana. E subito dopo, aveva comunque detto al giudice che «si trattava solo di uno scherzo». Appunto. Che Sinatra odiasse Woody Allen con tutto il cuore è certamente certo, ma è tutt' altro che dimostrato che realmente volesse eliminarlo... Inoltre Mia Farrow ha sempre descritto Frank Sinatra come un sentimentalone, che nascondeva un carattere dolce dietro a una maschera da duro. Lo definiva un campione della «Sicilian propriety», la decenza e il decoro siciliani che si fondano su di un particolare senso della giustizia e non sopportano gli oltraggi (spesso a parole...). Nel suo libro, Evanier cita la testimonianza di Len Triola, un produttore di concerti, che ripete a sua volta quanto gli aveva detto il cantante Frankie Randall: «Il suo grande amico Sinatra ripeteva in continuazione che desiderava di vedere Woody "rubbed out" (cancellato, ucciso, nel gergo della criminalità, ndr) e "clipped" (tagliato, eliminato, ndr)». Frank era furibondo per come Woody Allen si era comportato e per le foto pornografiche Polaroid di Soon-Yi che la Farrow diceva di avere trovato nel suo studio. Di più: aveva sempre sospettato che Woody avesse voluto prendersi gioco di lui con il personaggio di Lou Canova, il cantante vicino alla mafia protagonista del film (1984) Broadway Danny Rose. Vero anche che, pur avendo divorziato vent' anni prima, Frank era legatissimo a Mia Farrow. Ogni giorno telefonava a tre persone: a sua moglie, a sua figlia Nancy e a Mia. E, secondo la storiella, Frank avrebbe chiamato i vecchi amici di Las Vegas... ma i nuovi boss non erano disponibili a un' azione clamorosa che avrebbe portato solo guai. Altra storia molto gossipara... Sinatra subì e sopportò il tradimento di Marilyn Monroe, con cui aveva avuto una relazione, ma non uno sgarbo del presidente John Kennedy. Anzi! Perse la testa e si mise a spaccare tutto con un' ascia, quando seppe che l' amico John preferiva passare la notte con l' attrice nella casa di Bing Crosby piuttosto che nella sua residenza di Palm Springs, sistemata alla perfezione per l' illustre ospite. A raccontare l' episodio - che sarebbe avvenuto il 24 marzo 1962, ovvero due mesi prima che Marilyn cantasse il famoso Buon compleanno, presidente alla festa di Jfk e quattro mesi e mezzo prima del presunto suicidio dell' attrice - è Keith Badman in The final Years of Marilyn Monroe, l' ultima biografia dedicata alla grande e infelice attrice. Gossip senza fine, che però risultava interessante per mezzo mondo. Perfino l' agenzia Ansa rivelò un memorandum dell' Fbi: nel 1965 l' agenzia federale indagò su possibili festini sessuali avvenuti, in diverse occasioni, in un appartamento del Carlyle Hotel di New York con la partecipazione dei tre fratelli Kennedy, di Frank Sinatra, Marilyn Monroe, Sammy David Jr., Peter Lawford e sua moglie Patricia Kennedy. Secondo l' Fbi all' origine di queste voci c' era Jacqueline Hammond, ex moglie di un ambasciatore americano in Spagna, molto ricca e proprietaria della suite al Carlyle che avrebbe ospitato i festini. Ma l' Fbi - guarda caso, ancora una volta - non riuscì a confermare i sospetti, le voci e le indiscrezioni. Anche gli amori di Sinatra furono (e sono ancor oggi) chiacchierati e al centro di infinito gossip. Lui non solo si sposò quattro volte, ma molti furono i flirt con donne belle e famose: Lauren Bacall, Grace Kelly, Angie Dickinson e Victoria Principal. Si scrisse anche di una sua relazione con Raffaella Carrà, la quale apparve in una piccola parte nel film Il colonnello Von Ryan (1965), con Sinatra protagonista. Frank fece avance anche a un' altra attrice italiana, Virna Lisi (sua collega di set nel film U-112 Assalto al Queen Mary, 1966), ma l' attrice, all' epoca già sposata, le respinse nettamente. La prima moglie fu Nancy Barbato, con la quale si conosceva già da ragazzo. Dal loro matrimonio, durato dal 1939 al 1951, nacquero i tre figli di Sinatra: Nancy (1940), Frank Jr. (1944-2016), protagonista anche di un sequestro lampo nel '63 messo in atto da un ex compagno di scuola del ragazzo, il quale chiese a Sinatra un riscatto di 240.000 dollari (Frank Jr. venne rilasciato dopo due giorni passati nel baule di una macchina); e Christina (1948). Il 7 novembre 1951, appena nove giorni dopo avere ottenuto il divorzio dalla Barbato, Sinatra si sposò con Ava Gardner, con la quale viveva già da un paio d' anni e che era stata la causa della rottura del suo matrimonio. La loro unione, costellata di violenti litigi e tradimenti reciproci, non durò molto a lungo: si separarono poco tempo dopo, nel 1953, e divorziarono nel 1957. Ma i due restarono legatissimi. La terza moglie, come detto, fu Mia Farrow. I due si sposarono nel 1966, ma divorziarono due anni più tardi a causa di un film che la Farrow non aveva ancora finito di girare e che quindi non le consentiva di far parte del cast del film che Sinatra avrebbe dovuto girare con lei. L' avvocato arrivò sul set dove la Farrow stava girando con i documenti del divorzio, che Mia firmò incredula e sbigottita, senza una parola. Secondo dichiarazioni della Farrow, ripresero a frequentarsi anche anni dopo, tanto che Ronan, figlio di Mia e Woody Allen, nato nel 1987, potrebbe in realtà essere figlio di Sinatra e non del regista newyorchese. Nel 1976 Sinatra infine sposò la sceneggiatrice Barbara Blakely (1927-2017), ex moglie di Zeppo Marx, e il loro matrimonio durò oltre vent' anni, fino alla morte di Sinatra. Era nato il 12 dicembre 1915, ad Hoboken, nel New Jersey. Morì il 14 maggio 1998, al Cedars-Sinai Medical Center, a Los Angeles. Oriana Fallaci ha descritto così il grande interprete di My Way, una delle più importanti canzoni nella storia della musica: «Da cosa nasca il successo di quest' uomo capriccioso nemmeno gli psicanalisti riescono a dirlo. È gracile, già mezzo calvo, sembra gobbo: una cicatrice profonda gli deturpa la mascella sinistra restando visibile nonostante il cerone. Nessuno negherebbe a cuor leggero che è brutto».

·         Audrey Hepburn: colazione da Hitler.

Audrey Hepburn, storia di un mito che oggi avrebbe compiuto 90 anni. Il 4 maggio 2019 Audrey Hepburn avrebbe compiuto 90 anni, e il suo fascino resta immutato. È lei la diva più amata, ammirata ed elegante di sempre, ancora oggi copiatissima dalle giovani. Ecco un dossier che racconta a tutto tondo lo stile Audrey, tra moda e bellezza. Anche solo per ripercorrere le sue mise più celebri e capire, ancora una volta, l'importanza che lo stile dell'attrice ha avuto sulla moda contemporanea. Serena Tebaldi il 4 Maggio 2019 su La Repubblica. Come succede nelle storie più belle, tutto è iniziato con un equivoco. Hubert de Givenchy, giovane couturier in piena ascesa, nel 1953 viene contattato per vestire in un film in lavorazione una diva, “la Hepburn”. Vestire Katherine Hepburn, la più brava, la più grande di tutte? Un colpo gobbo per lui, che ancora sta scalando la piramide della fama: è qualcosa che non avrebbe osato sperato nemmeno nei suoi più scatenati sogni di gloria. Dunque, lui si mette a disposizione della produzione, che fissa un primo incontro tra i due nell’atelier parigino del sarto; all’ora fissata per l’appuntamento, è lui stesso ad andare ad aprire la porta, entusiasta ed emozionato di trovarsi davanti a un simile gigante di Hollywood… Peccato che, invece della diva, si trovi faccia a faccia con una giovane alta e flessuosa, dai capelli neri e gli occhi da cerbiatto, che comprende immediatamente, di fronte alla sua confusione prima e alla delusione poi (lui ci prova a non lasciar trapelare nulla, ma non ce la fa), cos’è accaduto. «Lei aspettava Katherine, io sono Audrey. Non si preoccupi, succede spesso. Vuole che me ne vada?». È un attimo, Givenchy si riprende subito: lui è prima di tutto un gentiluomo, e ovviamente invita la ragazza a entrare, dicendole che sarà un onore vestirla. I due passano la serata a chiacchierare, ridendo dell’accaduto: da allora lui sarà non solo il suo stilista di riferimento, ma uno degli amici più cari, quello nei cui abiti lei riuscirà sempre a essere se stessa (parole sue). A discolpa del sarto va rilevato che “Vacanze romane”, il film che fece esplodere il fenomeno Hepburn (Audrey, non Katherine) non era ancora uscito, e che la lavorazione di “Sabrina” (perché quello era il film in ballo) era appena agli inizi. Ma non ci aveva messo  molto per capire quale icona in divenire avesse di fronte, e la storia gli ha dato senza dubbio ragione. In un’epoca in cui dominavano le bombe sexy alla Marilyn Monroe, in cui la silhouette femminile doveva essere esplosiva, curvilinea e sensuale e in cui le dive dovevano essere maestose, Audrey Hepburn si era creata un genere a sé stante. Alta, sottile, elegante, la si notava non perché si esibisse, ma perché non si poteva fare a meno di fissarla. Il carisma di cui era dotata aveva una modernità mai vista sino ad allora, e la proiettava al di là della massa. Se c’è un’antesignana delle it-girl di oggi (nel senso migliore del termine), quella è lei: gli uomini se ne innamoravano e le donne la ammiravano senza riserve, soprattutto per quell’idea di eleganza spontanea e non artefatta che l’ha sempre contraddistinta. Non si può fare a meno di pensare che lo stile che lei portava sul grande schermo coincidesse con la vita di tutti i giorni, e in un certo senso è vero: a parte gli abiti da gran sera, che lei indossava solo nelle rarissime occasioni mondane cui partecipava (non è mai stata particolarmente amante del jet-set), il suo gusto è ravvisabile in molte, moltissime scelte. Le ballerine colorate preferite dai suoi personaggi, retaggio del suo passato da ballerina, i cappotti lunghi e morbidi portati in “Sabrina”, le gonne a ruota di “Vacanze romane”, itubini con gli scolli montanti di “Sciarada”, il trench di Burberry di “Colazione da Tiffany”, il pull e i pantaloni neri abbinati coi mocassini e i calzini bianchi di “Cenerentola a Parigi”:  sono tutti “suoi” look, senza ombra di dubbio, e per questo funzionano tanto. La modernità del suo modo di essere è evidente anche nell'influenza che ha sullo stile di oggi. Le mise delle altre dive passate alla storia (e ce ne sono ovviamente) sono spettacolari, ma relegate a poche occasioni speciali. Sono costumi, mentre quello che lei indossava è diventato, immancabilmente, un classico del guardaroba: è vero, sono pezzi basici di per sé, senza tempo, ma riportano comunque alla sua immagine. Il rimando con lei è immediato, e per questo tanto potente. La forza di questo legame, e la presa sull’immaginario comune che la diva ancora esercita si spiegano perfettamente con il successo della grande asta che nel settembre 2017 le ha dedicato la sede londinese di Christie’s.  L’intero guardaroba personale della diva, compresi copioni e oggetti personali, dai beauty-case monogramma agli astucci da cipria è stato battuto per volere dei due figli della diva, Luca Dotti (nato dal matrimonio con il conte e psichiatra Andrea Dotti) e Sean Hepburn Ferrer (avuto dal matrimonio con l'attore Mel Ferrer), che a 25 anni dalla scomparsa della madre (l'anniversario cadeva il 20 gennaio 2018) hanno deciso di tenere per sé solo pochi pezzi del suo guardaroba, cedendo il resto. Un successo scontato visto che tutte vorremmo essere come Audrey. 

AUDREY HEPBURN. COLAZIONE DA HITLER. Dagonews il 6 aprile 2019. Audrey Hepburn viveva nel timore che l'ammirazione di sua madre per Adolf Hitler sarebbe diventata pubblica e avrebbe fatto deragliare la sua carriera hollywoodiana. Nella nuova biografia dell’attrice, “Dutch Girl: Audrey Hepburn and World War II” di Robert Matzen, si racconta come lei fosse terrorizzata dal fatto che i suoi fan scoprissero che la madre, Ella van Heemstra, aveva incontrato il dittatore nel suo quartier generale di Monaco e fosse "al settimo cielo" quando le aveva baciava la mano. Dopo essersi trasferita dall'Olanda all'America e aver recitato in film come “Colazione da Tiffany”, Hepburn schivava spesso le domande sui tedeschi, ritenendole "troppo rischiose per la sua carriera". In particolare non voleva che la gente sapesse che sua madre fosse una simpatizzante che frequentava un ufficiale tedesco e che era stata accusata di avere una bandiera con una svastica nel suo appartamento. La Hepburn era anche spaventata dal fatto che la gente avrebbe scoperto che tra il 1942 e il 1944 aveva presenziato a una serie di balletti ai quali, probabilmente, erano invitati anche soldati tedeschi. «Ha portato la verità nella tomba – ha scritto Matzen – Non voleva che la sua famiglia fosse vista come simpatizzante nazista». Raccontando dell'incontro di Ella con il dittatore, Matzen scrive che quando entrò nella stanza, la donna fissò gli «occhi blu di Hitler e ammirò il suo sorriso enigmatico, pieno di umiltà. Lei fu travolta dal galante e piacevole dittatore che si inchinò e le toccò la mano con le labbra». Matzen scrive anche che Ella riteneva che il modo migliore per sopravvivere all'occupazione nazista fosse lavorare con loro, motivo per cui usciva con un tedesco e si occupava di alcuni eventi legati alla celebrazione di Mozart dopo l'inizio dell'occupazione. La visione di Ella dei nazisti cambiò quando uccisero suo fratello Otto van Limburg Stirum nel 1942 che si rifiutò di cooperare con loro: trasferì la famiglia nella città di Velp, dove Hepburn, che all'epoca aveva 14 anni, sostenne la resistenza organizzando spettacoli segreti per raccogliere fondi per loro.

Audrey Hepburn staffetta partigiana a 14 anni contro i nazisti. Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Corriere.it. Audrey Hepburn è stata una delle attrici più famose di Hollywood, ma ha avuto anche un ruolo che pochi conoscevano: la spia. A rivelarlo è Robert Matzen nel libro `Dutch Girl: Audrey Hepburn and World War II´, pubblicato da GoodKnight Books, dove si conferma che da adolescente Hepburn ha aiutato la resistenza contro i nazisti in Olanda. La futura attrice è nata in Belgio nel 1929 in una famiglia di ceto alto: suo padre lavorava in finanza e sua madre, la baronessa Ella van Heemstra, era una nobildonna olandese. Nel 1935 il padre lasciò la famiglia e se ne andò a Londra, Audrey trascorse alcuni anni in una elegante scuola privata vicino a Dover, in Inghilterra, ma con l’inizio della guerra sua madre pensò che fosse meglio per lei e sua figlia trasferirsi in Olanda. Nonostante il titolo nobiliare, la famiglia non era ricca: «Mia madre non aveva un centesimo - rivelò l’attrice, morta nel 1993 - I miei genitori hanno divorziato quando avevo 10 anni, mio padre è scomparso, non avevamo soldi». Nel 1942 lo zio, Otto van Limburg Stirum, fu arrestato, imprigionato, e fucilato, una tragedia che ha convinto la madre di Hepburn, sostenitrice del nazismo, ad aiutare la resistenza. Fu nell’estate del 1944, quando Hepburn iniziò a fare volontariato per Hendrik Visser `t Hooft, medico e leader anti-tedesco, che si formarono i suoi legami con la Resistenza. Lei mise la danza al servizio degli anti-nazisti, iniziando a esibirsi in eventi notturni illegali, solo su invito, organizzati per raccogliere fondi. Inoltre, ha consegnato un giornale della Resistenza, l’Oranjekrant, e visto che parlava inglese, fu scelta da Visser ´t Hooft per portare messaggi e cibo ai piloti alleati abbattuti nel 1944. Secondo il figlio dell’attrice, Luca Dotti, la guerra era sua storia preferita da raccontare: «Mi ha detto che era elettrizzante per lei». (Ansa)

E. F. per “la Repubblica” il 13 aprile 2019. Perle al collo, tubino nero e aria svampita, è stata un' icona di Hollywood, dal suo indimenticabile ruolo in Colazione da Tiffany al premio Oscar per Vacanze romane. Ma Audrey Hepburn ebbe una parte rimasta finora segreta, non in un film bensì nella vita reale: quella di staffetta partigiana ed eroina della resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Lo rivela una nuova biografia dell' attrice anglo-olandese scomparsa nel 1993, Dutch girl: Audrey Hepburn and world war II, scritta dal giornalista americano Robert Matzen sulla base di conversazioni con Luca Dotti, il figlio nato dal matrimonio di Hepburn con un medico italiano. Nata a Bruxelles da padre inglese e madre olandese, Audrey Hepburn si trovò a vivere in Olanda tra il 1943 e il 1945 sotto l' occupazione nazista. Era una ragazza di 14 anni, studiava da ballerina, ma la resistenza olandese prese accordi con la sua famiglia per nascondere nella loro casa un paracadutista britannico, rimasto disperso dopo la battaglia di Arnhem. Da quel momento l' esistenza di Audrey cambiò. Non solo prese parte alla complicata operazione di celare la presenza del militare nella propria abitazione, ma iniziò a compiere pericolose missioni come staffetta per portare messaggi alle formazioni partigiane e cibo a soldati alleati nascosti altrove. «Un giorno la mamma me lo raccontò con noncuranza», afferma il figlio nel libro. «Era rischioso e capiva che sarebbero stati tutti fucilati se fosse stata scoperta, ma lo fece lo stesso». La conferma della generosità di un' artista che negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla causa dell' Unicef contro la fame nel mondo.

Da Il Messaggero il 29 ottobre 2018. Ha lavorato fianco a fianco con la Resistenza contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. A raccontare il passato segreto di Audrey Hepburn, la star di “Colazione da Tiffany”, è il libro “Dutch Girl: Audrey Hepburn and World Word II”, in uscita in aprile e di cui il New York Post racconta alcuni estratti. A spingere Hepburn a lavorare con la Resistenza era stata la morte di suo zio, il conte Otto van Limburg Stirum, ucciso dai nazisti. Quando la guerra è scoppiata nel 1939, Hepburn si trovava in Inghilterra come aspirante ballerina. La madre baronessa aveva allora deciso di farla rientrare a casa, in Olanda, augurandosi che il paese restasse neutrale. Invece anche l’Olanda venne occupata da nazisti. A raccontare e offrire prove dell’impegno in prima di linea di Hepburn con la Resistenza è lo scrittore Robert Matzen, che ha scoperto un diario di 188 pagine scritto da Otto durante i suoi quattro mesi di prigionia prima di morire. «Quando mia madre parlava di se stessa e di quello che la vita le aveva insegnato, Hollywood era la parte mancante - scrive Luca Dotti, il figlio più giovane di Hepburn nella prefazione del libro -. Invece di nominare posti famosi e Beverly Hills, ci offriva luoghi oscuri e talvolta impronunciabili in Olanda. I ricordi del red carpet erano sostituiti da episodi della Seconda Guerra Mondiale che era stata in grado di trasformare in racconti per bambini». Il libro di Mtazen, aggiunge Dotti, risolve molti misteri. «Capisco ora perché le parole Bene e Male, Amore e Misericordia erano così fondamentali nella sua narrativa. Perché era aperta su alcuni temi e perché ne teneva altri segreti».

RISSONE DA TIFFANY. Estratto dell'articolo di Alessia Grossi per il Fatto Quotidiano del 21 dicembre 2017. Eterna nel ricordo dei suoi fan, si fatica anche solo a immaginare che siano passati già 24 anni dalla sua morte, figuriamoci riuscire a immaginare che fine abbiano fatto gli oggetti di culto che sono appartenuti a una delle donne più eleganti che il cinema abbia mai conosciuto. O che la sua stessa immagine possa essere contesa tra i figli (…), Sean Hepburn Ferrer e Luca Dotti. Il primo, ex presidente della Fondazione per bambini fondata dalla famiglia, il secondo attuale capo dell' ente a suo nome. Oggetto del contendere sono proprio i diritti sul nome dell' attrice, che - a detta del figlio maggiore Sean - spettano in parti uguali a lui e al fratello minore, che lui, stando al testamento materno, sarebbe stato delegato a rappresentare. Ma che l' ente benefico si sarebbe attribuito illegalmente dal 2012 a oggi, da quando, cioè, Sean Hepburn ha lasciato la presidenza della Fondazione perché "deluso dalla piega che avevano preso le cose", nello specifico dal fatto che la maggior parte dei membri usasse i fondi soprattutto per pagare i propri stipendi e non per scopi umanitari. Peccato che a raccogliere la sua eredità, nel 2013, dopo 20 anni sia subentrato suo fratello Luca. Ma questo non è bastato al maggiore dei figli dell' attrice per convincersi che la fondazione potesse continuare a usare il nome di sua madre. E, anzi, l' ha portata in tribunale, ribadendo che - stando al testamento e fino a prova scritta contraria, è lui a decidere anche per suo fratello Luca Dotti. Dal canto suo, intanto, la fondazione ha citato Sean Hepburn Ferrer per aver minato l' immagine dell' associazione e aver così fatto diminuire le donazioni. Per sciogliere il nodo è stato necessario visionare il testamento. E così, mentre la saga iniziata nel 2013 procede a colpi di avvocati e l' ente di beneficenza si appresta a dover pagare le royalties del caso, a noi non resta che lasciarci sorprendere dall' elenco dei lasciti della diva, e soprattutto, ripassare, scritti nero su bianco i suoi oggetti. (...) Esclusi ovviamente quelli ereditati dai figli e quelli già messi all' asta lo scorso 27 settembre dai due eredi, tra cui pezzi di Hollywood, come i suoi migliori abiti di scena, e il bocchino di My Fair Lady. Un lotto che comprendeva 500 oggetti e che i figli hanno voluto mettere a disposizione dei fan: dalla valigia con cui l' attrice partì per Londra nel 1948 per sfondare nel mondo dello spettacolo, ai copioni originali con le note della Hebpurn a margine, primo, quello di Colazione da Tiffany, venduto a 520 mila sterline. Ma i fortunati avventori dell' asta di Christie' s si sono potuti aggiudicare anche piccoli cimeli come accendini e portacipria con le sue iniziali, o le lettere scritte direttamente da lei, o la sua telecamera portatile con cui amava riprendere la sua vita. Ma il prezzo più alto l' hanno raggiunto tre abiti da cocktail di Givenchy aggiudicati rispettivamente per 3 mila, 48 mila e 10 mila sterline. In effetti, restava da litigarsi solo il nome.

·         Marlene Dietrich.

MARLENE DIETRICH SECRETS. Cesare Lanza per “la Verità” il 21 giugno 2019. Dietro al sensuale «Angelo azzurro» si celavano un pessimo carattere, varie fobie, alcolismo, pesanti ritocchini estetici, omosessualità, molti amanti e un poco raccomandabile spirito materno. Maria Riva, figlia unica della grande cantante e attrice Marlene Dietrich, in un libro rivela che dietro la bellezza sofisticata e sensuale della mamma si nascondevano brutte verità. A 25 anni dalla scomparsa, nel libro Marlen Dietrich: the life, Maria descrive la spietatezza di Marlene per diventare una grande diva.

La Dietrich non era affettuosa, gentile o semplicemente umana, non rideva mai, gli sguardi gelidi erano la sua specialità.

«Era come una regina. Quando parlava tutti l' ascoltavano. Non ha mai fatto una fila in aeroporto, non hanno mai controllato il suo passaporto e rimaneva stupita dalla bruttezza delle persone comuni quando le vedeva in luoghi affollati». Era una «terribile egoista, che parlava raramente con gli altri poiché ciò avrebbe implicato un certo interesse per le loro opinioni», scrive la Riva.

Una madre terribile. Aveva anche fobie: era terrorizzata dai germi, ad esempio, passava al setaccio i bagni, si lavava con forti detergenti e antisettici. La prima cosa che faceva in una stanza, anche se si trattava dell' hotel Ritz, era inginocchiarsi a strofinare il bagno, per pulirlo alla perfezione. Tra gli aspetti meno noti c' è il suo alcolismo. Spiega la figlia: «Quando cessa l' effetto dell' alcol si è depressi e furiosi. È la tragedia dell' alcol, la tragedia di mia madre. La sua fine è stata una vera tragedia». Marlene Dietrich è morta per un attacco cardiaco. Non si era mai fidata dei medici. Aveva ragione... Mezz' ora prima della fine un famoso cardiologo l' aveva visitata complimentandosi: «Lei ha il cuore di una ragazza, Marlene». Come madre, Marlene era terribile; non voleva che la figlia avesse amici o si avvicinasse a un cane. L' attenzione doveva essere tutta per lei, anche quando Maria, da adulta, attraversava una fase di alcolismo, zero autostima e disperazione. Il nipote David descrive Marlene come una donna incapace di proteggere sua figlia dalle molestie sessuali di una tata lesbica che violentò Maria, quando aveva solo 13 anni. La ragazzina corse a raccontare il fatto alla madre (omosessuale) che rispose: «Bè, non sei morta. Facci pace». Secondo Il Foglio, era anche una scialacquatrice: appena metteva le mani su una mazzetta di banconote, la polverizzava comperando di tutto, per sé ma anche per gli altri e in particolare per la figlia Maria, con la quale aveva un rapporto tempestoso: non la incontrava per anni, quando le parlava per telefono o le scriveva la copriva di insulti (ricambiati). «Maria mi esecra. Non mi perdona di essere stata la testimone della mia giovinezza incosciente, delle mie follie». Diceva anche di amarla. «Non posso lasciarle soldi né immobili né altro. Ma le lascerò l' esclusiva dei miei eccessi. Potrei ricavare un sacco di quattrini dal racconto di quel mucchio di letame che ho sempre tenuto nascosto. Se è furba potrà arricchirsi».

Ancora: i ritocchini. La super diva degli anni Trenta, per avere il suo aspetto da sensuale e tenebrosa femme fatale, ricorreva a diversi espedienti. Per avere lo zigomo più esposto e un viso più scavato si fa estrarre i denti molari (come Joan Crawford) e ricorre a un marcato uso del contouring (l' effetto ottenuto sfumando una terra scura nel solco sotto lo zigomo). Durante le riprese del film Kismet del 1944 Marlene ha 43 anni e decide di farsi fermare alcune ciocche di capelli con delle spille in modo che tirassero molto la pelle, per una sorta di effetto lifting (certe volte però provocando dolorosi sanguinamenti). E Marlene è anche una delle prime a ricorrere al nastro chirurgico per tirare indietro la pelle del viso, nascondendolo fra i capelli o sotto una parrucca, e lo usa anche per indossare abiti senza spallini per creare una sorta di reggiseno. Quando di anni ne ha 50 arriva addirittura a indossare una sottile catena d' oro che le passa sotto il mento e dietro le orecchie, nascondendosi tra i capelli, per tirare su la pelle del collo. Pochi sanno che Marlene Dietrich non aveva molti capelli. E quindi spesso, soprattutto sul set, utilizzava provvidenziali parrucche. Ma aveva un trucco: usare della polvere d' oro puro per far sembrare la chioma irresistibile.

Gli amori scabrosi. Infine, lo scabroso capitolo degli amori bisessuali. Dichiaratamente atea e bisessuale, ebbe molti amanti famosi: Hemingway, John Wayne, Kirk Douglas, Frank Sinatra, Greta Garbo ed Edith Piaf. Ebbe anche molti amici tra gli omosessuali: le donne erano affascinate da lei e gli uomini ammaliati dal suo fascino. Sedusse Greta Garbo, che considerava la segretezza come l' essenza del sesso, nei camerini della Compagnia del teatro di Berlino di Max Reinhardt «usando solo la bocca», per poi mettere in giro la voce che la Garbo «era grande lì sotto» e che portava biancheria poco pulita. Fu legata anche allo scrittore Erich Maria Remarque, il cui amore non era tuttavia ricambiato. Lo scrittore era molto geloso di Jean Gabin, reduce da una lunga relazione con l' attrice; nonostante ciò Remarque e la Dietrich ebbero anche in seguito una lunga corrispondenza. Si sposò solo una volta, nel 1923 con il produttore statunitense Rudolf Sieber. Gli restò in qualche modo legata fino alla sua morte, avvenuta nel 1976. Sieber non divorziò mai dalla Dietrich, nonostante tutte le sue infedeltà, perché, a quanto pare, sopportava le relazioni extraconiugali della moglie.

«Incantevole e fredda». E cosa hanno detto di lei, quali testimonianze sono state raccolte? David Riva, suo nipote: «Era fredda, emotivamente distaccata. Dormiva con chiunque trovasse attraente, per lei l' intimità era un modo di esercitare potere».

Goffredo Fofi, prestigioso critico teatrale e cinematografico: «Fu spiritosa e alla mano, dopo essere stata distante e aureolata, ma restò tuttavia diva, un ideale di donna con una classe conquistata con sforzo, partendo da una calorosa volgarità cui aveva rinunciato per Sternberg, ma cui mai aveva rinunciato del tutto».

Ernest Hemingway: «Non avesse altro che la voce, così roca e inquietante, basterebbe solo quella a far strage di cuori. Ma la incantevole Marlene dispone di altri tesori: due gambe stupende, la vigorosa perfezione di un volto che sembra scolpito per l' eternità».

Jean Cocteau: «La tua voce, i tuoi sguardi sono quelli di una maga incantatrice. Ma le maghe sono pericolose, quasi sempre nefaste per gli uomini che cadono nella rete dei loro incantesimi. La frustata di quel tuo cognome, così duro da pronunciare, si stempera nella carezza di un nome dolcissimo». Di sé invece lei ha detto: «A qualunque donna piacerebbe essere fedele. Difficile è trovare un uomo a cui esserlo». «Chiunque sia stato sedotto voleva esserlo». «Il bene più prezioso di una donna: il campo magnetico nel quale l' uomo viene attratto». «Quando l' amore è finito, gli alimenti colmano il vuoto». «Soltanto le checche sanno come si fa a sembrare una donna sexy». «È un privilegio femminile essere insensata».

Era nata il 27 dicembre 1901, a Schöneberg, Berlino, Germania. Morì il 6 maggio 1992 a Parigi. Era figlia dell' ufficiale di polizia militare Louis Erich Otto Dietrich e di Elisabeth Josephine Felsing. Il padre muore quando lei ha undici anni e la madre si risposa con Eduard von Losch, un tenente di cavalleria che la adotta. Amante della musica, suona discretamente il violino e il piano e nel 1921 si iscrive all' Accademia di Max Reinhardt per studiare recitazione. Fino alla fine degli anni Venti lavora con successo nel cabaret e contemporaneamente ottiene piccole parti al cinema.

La carriera. Nel 1930 Joseph von Sternberg decide di farle interpretare il ruolo della cantante Lola Lola nel film L' angelo azzurro. La prima del film si tiene il 1° Aprile al Gloria Palast sulla Kufüstendamm di Berlino e segna l' inizio esplosivo del mito della Dietrich. L' attrice diventa il simbolo di una femminilità misteriosa, carnale, ma allo stesso tempo ironica e sfrontata. Hollywood la chiama e lei ottiene un contratto con la Paramount, che in quel periodo cercava un' attrice da contrapporre alla divina Garbo della Mgm. Tra il Trenta e il Trentacinque gira sei film con Sternberg, di cui diventa nel frattempo l' amante nonostante nel 1924 si sia sposata con Rudolf Sieber e abbia avuto la figlia, Maria, nata nel 1925. Con il suo primo film americano, Marocco al fianco di Gary Cooper, ottiene la candidatura all' Oscar e diventa la più pagata tra le attrici del suo tempo. Nel 1937 diventa cittadina americana e durante la Seconda Guerra Mondiale gira l' Europa e il Nord Africa per intrattenere le truppe statunitensi (per questo le viene conferita la Medaglia della Libertà). Goebbels la invita più volte a tornare nella Germania di Hitler, ma lei rifiuta e, viste le sue attività antinaziste, nel 1950 la Francia le conferisce la Legion d' onore. Negli anni Cinquanta i suoi impegni cinematografici sono sempre più rari e l' attrice si dedica al teatro con recitals di canzoni a Las Vegas, Broadway e Parigi. La sua ultima apparizione sul grande schermo è del 1979 in Gigolò di David Hemmings. Durante la sua ultima performance dal vivo si rompe una gamba per una caduta dal palcoscenico dovuta probabilmente alla sua dedizione all' alcool. Passa così i suoi ultimi 13 anni costretta in casa, lontana dalla vita di società, ma sempre in contatto con i suoi amici sparsi per il mondo, per telefono o per lettera. Maximilian Schell, gira con lei Marlene, un lungo documentario di montaggio attraverso schegge di film con un' intervista fuori campo, uscito nel 1984. Muore il 6 maggio 1992. È sepolta al cimitero Friedhof III di Berlino, accanto a sua madre. La figlia Maria Riva ha venduto tutti i suoi documenti, diari, lettere e ricordi al municipio di Berlino e nel 1993 ha pubblicato una biografia impietosa dal titolo Marlene: an intimate memoir. La Dietrich ha scritto due libri: Marlene Dietrich ABC (titolo italiano: Il diavolo è donna, dizionario di buone maniere e di cattivi pensieri) nel 1961, e un' autobiografia: My life story, nel 1979.

·         Ava Gardner.

Maurizio Acerbi per il Giornale il 27 agosto 2019. Sono praticamente al verde. Non mi resta che scrivere un libro o vendere i gioielli. Ai miei gioielli sono molto affezionata e poi sono certa che i miei vizi e i miei scandali si vendano meglio delle pietre preziose». È il 1988 e Ava Gardner decide di confidare i segreti della sua vita al giornalista Peter Evans. Lui raccoglie meticolosamente ogni aneddoto e ricordo in Ava Gardner: The Secret Conversations. Come quella su Mickey Rooney, sposato nel 1942: «Quando lo sposai avevo 19 anni ed ero vergine. Beh, debbo dire che mi sono rifatta abbondantemente in seguito. Mickey era un donnaiolo impenitente e mi tradì persino quando ero in ospedale per sottopormi ad una appendicectomia. Le donne dinanzi a lui si scioglievano come il burro attraversato da un coltello caldo. Lana Turner, che era stata a letto con lui, lo chiamava Sempreduro e non aveva tutti i torti». Dopo il divorzio, si invaghisce del miliardario Howard Hughes, al quale si sente debitrice per averle pagato le cure mediche della madre, anche se «era un maledetto razzista. Se un nero avesse preso fuoco non gli avrebbe nemmeno pisciato addosso per spegnere le fiamme». Altro matrimonio, nel 1945, con il clarinettista Artie Shaw, uno che la convince di essere un' idiota, tanto da sottoporsi a un testo per valutare il suo quoziente di intelligenza: «Quel bastardo mi spezzò il cuore. Certo nella mia vita sentimentale c' è stata una costante: ho sempre scelto l' uomo sbagliato nel momento sbagliato». Il vero amore, però, della sua vita è Frank Sinatra. I due si incontrano, la prima volta, nel 1943 quando Ava stava con Rooney. Lui prende subito una cotta per quella meravigliosa donna che, invece, non gli dà attenzione, considerandolo «troppo arrogante, prepotente e pieno di sé». Quando si rivedono lui non ha occhi che per lei: «Sei più carina dall' ultima volta che ci siamo visti». L' occasione è data dalle nozze d' argento della MGM. Ava, a bordo della sua Cadillac, passa davanti a Sinatra che, per attirare l' attenzione, si solleva il cappello. Questa volta, lei non rimane insensibile: «Era così affascinante, con il viso sottile da ragazzino, gli occhi azzurri luminosi e quel sorriso fantastico. Ed era così entusiasta e rinvigorito, chiaramente soddisfatto della vita in generale, di se stesso in particolare, e, in quel momento, di me». Frank, nel 1939, si era sposato con Nancy Barbato, per la quale, un anno prima, era stato arrestato per qualche giorno con l' accusa di molestie. La coppia ha tre figli quando, nel 1949, scoppia la passione con Ava, che lo definisce «un dio arrogante, che puzzava di sesso». In realtà, entrambi avevano anche il vizio del bere. Infatti, in una notte dove, oltre al sesso, i due avevano dato fondo anche alle bottiglie a disposizione (lei, aveva preso a bere Martini dry, durante il matrimonio con Shaw, in particolare, in compagnia della sua amica Lana Turner), Ava pretende da lui una prova d' amore per dimostrarle che non era l' ennesima conquista della quale vantarsi anche perché la sua fama era di non poter «stare senza una donna; negli ultimi cinque anni ne ha avuta una a notte». Detto, fatto. Lui va verso il suo cancello di casa, suona al citofono e chiede alla moglie: «Nancy, puoi per favore dire ad Ava che ho chiesto il divorzio?». «Frank, sei fuori di testa. Non posso tollerare tutto questo. E lei è una vera puttana», risponde, incavolata, la povera Barbato. Ava non era inusuale nei panni della sfasciafamiglie, visti i numerosi flirt con attori maritati, come Robert Taylor e Fred McMurray (la cui moglie, Lillian Lamont, era ammalata). Un' altra notte, sempre ubriachi, i due alle tre del mattino vanno in giro a sparare alle vetrine dei negozi di Los Angeles, galera evitata grazie a una bustarella di 20mila dollari. Nancy capisce che sta per perdere il marito, come ricorda Ava: «Era stata una buona moglie, la madre dei suoi figli. Aveva diritto di combattere per lui, per il matrimonio. È legata a Frank nella buona e nella cattiva sorte». Però, all' amore non si comanda, anche se lei finisce a letto con il torero Mario Cabré: «Ero ubriaca e ci finii a letto.Era carino, ma fu un terribile errore. E ancora più stupido fu raccontarlo a Frank. Non mi perdonò mai. Ad ogni lite ritirava fuori il fottuto torero. Lo voleva ammazzare. Mi faceva paura anche perché quando Frank si arrabbiava sul serio i suoi occhi da azzurri che erano diventavano neri come il carbone». Sinatra divorzia (e Nancy le porta via praticamente tutto) per sposare, a Philadelphia, il 7 novembre del 1951, la sua Ava, nonostante l' avvertimento dell' amica Lana Turner: «Ci sono passata, tesoro (aveva avuto una storia con il cantante, ndr), lascia perdere». Fanno la luna di miele a Cuba e Miami e tutto sembra filare liscio. Rientrati a casa, Sinatra capisce che la sua stella artistica è in declino. Non lo chiamano a fare film e rischia di saltare il suo The Frank Sinatra Show. Ava, invece, lavora che è un piacere. Gira Le nevi del Kilimanjaro, anche per sottrarsi al cattivo umore del marito, depresso cronico. Per Sinatra le cose precipitano. Columbia Records e MCA lo abbandonano ed è Ava a portare a casa la pagnotta mantenendo entrambi. Lei rimane incinta, ma, prima di Natale, va ad abortire. Non che sia contraria ad avere figli, ma non in una situazione simile, con selvagge liti, botte, tradimenti e focose riappacificazioni. Sinatra, più tardi, confesserà che, in realtà, gli aborti furono due. Lo stress lo porta, più volte, a tentare il suicidio. I due si amano ma insieme non funzionano, divisi da gelosie non solo sentimentali ma anche professionali, dopo la rinascita artistica di Frank, una sorta di seconda vita. Inevitabile il divorzio che sancisce, nel luglio del 1957, la fine di un rapporto profondo. «Erano troppo simili», afferma Tina Sinatra. «Erano molto amici, si amavano profondamente, ma a quel punto contavano solo le loro carriere». «Frank e io siamo diventati amanti per sempre, per l' eternità. Parole grosse, lo so, ma sentivo davvero che, indipendentemente da quanto fosse accaduto, noi saremmo stati innamorati per sempre», confessa Ava, morta a 67 anni per una polmonite. Lui la seguirà otto anni dopo per un tumore.

·         Greta Garbo.

LESBICA CON GARBO. Cesare Lanza per ''la Verità'' il 19 maggio 2019. Il ritiro improvviso e prematuro dalle scene distingue per sempre la Divina, nella storia del cinema. Scelse il silenzio. Famosa per i ruoli da femmina fatale e per il suo stile androgino seducente, con un temperamento indipendente. E pochi conoscono le sue tendenze saffiche, con varie relazioni e la passione segreta per Marlene Dietrich. A 36 anni decise di abbandonare Hollywood: teneva più alla libertà che al successo e così visse per il resto della sua lunga vita nell' esilio mediatico che si era autoimposta. Nessuna apparizione pubblica, nessuna intervista, nessuna foto posata, nessuna dichiarazione, nessuna partecipazione a feste, eventi, premi. Niente di niente! Greta Garbo visse per mezzo secolo la sua seconda vita, fino alla morte, a 85 anni, come una donna qualunque. Proprio lei, che non lo era mai stata. Affascinante più di ogni altra star di Hollywood di quel periodo, con il suo accento nordico (era di origine svedese) e il corpo maschile, le spalle larghe, il volto dall' incarnato lunare, le sopracciglia sottili, la Garbo è stata l' attrice più amata del cinema muto degli anni Venti e di quello sonoro degli anni Trenta. È ricordata fin da subito, quando era una ragazza ventenne non pienamente consapevole della sua presenza scenica, per il suo gusto istintivo per le stravaganze di classe. Cambia il suo cognome in Garbo, che riecheggia quello di Bethlen Gàbor, un importante sovrano ungherese del Seicento, e si veste in modo insolito...Insolito per le abitudini del tempo s' intende: pantaloni, camicia accompagnata da cravatta, giacche maschili. La sua sensualità è esplosiva, non solo per gli uomini. A metà degli anni Venti, grazie a La vita senza gioia di Georg Pabst diventa famosa in Europa e ottiene un buon contratto con la Mgm. E presto diventa la Divina. Con questo soprannome interpreta per un decennio, dal 1927 al 1937, una ventina di ruoli sovrapponibili: è la donna fatale, la tentatrice o comunque l' amante, la vamp provocante, la seduttrice senza scrupoli né morale. Le piace? No, affatto. Vorrebbe altro. Desidera fortemente ruoli diversi, eventualmente anche comici. Dovranno passare tante fatali pellicole - quelle che costruiranno il mito della Garbo - prima che venga proposta come protagonista di un film sonoro. S' intitola Anna Christie e viene lanciato con lo slogan «Greta Garbo parla!» (Hollywood diffidava parecchio della sua cadenza mitteleuropea). Dopo qualche anno, nel 1939, il regista Ernst Lubitsch prende una decisione azzardata, che si rivela azzeccata: in Ninotchka la Garbo «ride per la prima volta» e si rivela una brava e versatile attrice. Il pubblico e i critici sono però volubili: passano pochi anni e Non tradirmi con me viene accolto con freddezza. Greta Garbo ne soffre molto e forse questa delusione, unita all' insofferenza sempre più forte verso i fotografi che non le danno tregua, la spingono a compiere un taglio drastico. Stop al cinema, stop ai paparazzi, stop al set e al pazzo mondo di Hollywood. Greta Garbo ha solo 36 anni, ma non tornerà più sui suoi passi. Greta Garbo e Marlene Dietrich avrebbero avuto una torbida relazione saffica. È quanto sostiene un libro di Diana McLellan. Secondo l' autrice, l' attrazione tra la Divina e l' Angelo azzurro si accese nel 1925 sul set del film La vita senza gioia in cui Greta era coprotagonista e Marlene una semplice comparsa. «Dietrich all' epoca aveva 23 anni. Era una giovane madre, audace, esperta del mondo, sessualmente vorace e anche troppo contenta di pilotare Greta in un' esplorazione del nuovo mondo dei bar per gay e lesbiche, dei cabaret e dei circhi sessuali, e di introdurla a una sessualità senza inibizioni», scrive McLellan. Ma il rapporto tra le due dive fu di breve durata e le due donne finirono per avere rapporti così tesi che a un certo punto - e per anni - negarono di essersi mai conosciute. «Marlene scoprì che Greta era una provinciale di vedute ristrette. E non le andava a genio che la futura Divina avesse la spiacevole abitudine di portare biancheria sporca». Un fatto, quest'ultimo, che Dietrich non avrebbe mancato di rinfacciare all' amante lasciandola «traumatizzata e piena di vergogna». Il fascino della Garbo proveniva anche dalle ferite che, chiaramente, le erano state inferte dalla Dietrich. Per Greta, che considerava la segretezza come l' essenza del sesso, ecco Marlene, la donna capace di sedurre Greta diciannovenne nei camerini della Compagnia del Teatro di Berlino di Max Reinhardt, «usando solo la bocca», per poi mettere in giro la voce che la Garbo «era grande lì sotto». La Divina mandò la sua amante di mezza età Salka Viertel - già amante anche della Dietrich a Berlino - a dire che se la Dietrich si fosse lasciata sfuggire a Hollywood anche una sola parola sul loro legame, lei le avrebbe distrutto la carriera. La voracità sessuale di Marlene era vistosa tanto quanto la solitudine della Garbo. Tra le altre conquiste femminili della Divina vi è anche la poetessa aristocratica, di origini spagnole, Mercedes de Acosta, con la quale organizzò fantomatiche e comunque leggendarie «gite a seno nudo» in Sierra Nevada. La relazione è stata descritta come «l' amore della sua vita», per la poetessa. Tuttavia le testimonianze del tempo non riescono a chiarire se la Garbo ricambiasse i sentimenti amorosi della de Acosta: era Greta ad avere il controllo della relazione, le due stavano insieme per lunghi periodi, poi distanti per altri, secondo i capricci della Garbo. Nel 1944 Greta decise infine di interrompere la burrascosa relazione, chiedendo alla de Acosta di smettere di inviarle poesie e lettere dove celebrava il suo amore. L' ultima poesia conosciuta scritta dalla de Acosta per la Garbo risale a questo periodo. Negli anni Sessanta la Divina però fu ricattata dall' ex amante lesbica, che minacciava di vendere al migliore offerente delle lettere compromettenti. A rivelarlo, in un' intervista pubblicata dal settimanale britannico Sunday Telegraph, è Sam Green, che fu per quasi vent' anni amico e confidente della diva. L' ex amante era malata e si trovava in difficoltà finanziarie: fece sapere a Greta che aveva urgente bisogno di denaro e che per averlo era pronta a vendere le loro lettere d' amore. Erano cinquantacinque missive, scritte a partire dal 1932, quando era cominciata la relazione, durata alcuni anni, prima che si trasformasse in amicizia. Un legame che s' interruppe soltanto con la pubblicazione dell' autobiografia di Mercedes de Acosta, omosessuale dichiarata, che si vantava di poter andare a letto, a Hollywood, con qualsiasi donna le piacesse. Greta Garbo non accettò il ricatto, malgrado alcuni amici, come il grande fotografo britannico Cecil Beaton, le consigliassero di pagare. Tuttavia, ricorda Sam Green, qualcuno (rimasto anonimo) saldò le spese mediche di Mercedes de Acosta fino al 1968, quando la donna, dopo una lunga malattia, morì. La poetessa mantenne fede alla parola data e non vendette le lettere compromettenti, malgrado avesse ricevuto cospicue offerte. Per tentare di comprendere l' inquieta, e segreta, personalità di Greta Garbo, è utile riflettere su alcune sue esternazioni. «Un momento ero felice e l' attimo dopo molto depressa: non ricordo di essere stata davvero bambina come molti miei altri coetanei. Ma il gioco preferito era fare teatro: recitare, organizzare spettacoli nella cucina di casa, truccarsi, mettersi addosso abiti vecchio stracci e immaginare drammi e commedie». «Non c' è nessuno che mi vorrebbe... Non so cucinare». «Chiunque ha un sorriso continuo sul volto nasconde una durezza quasi spaventosa». «Non ho mai detto: "Voglio essere sola". Ho detto: "Voglio essere lasciata in pace". C' è un mondo di differenza». «Vivo come una monaca: con uno spazzolino da denti, un pezzo di sapone e un vasetto di crema». «Hollywood? Qui tutto è noioso, incredibilmente noioso, così noioso che non posso credere sia vero». Utili sono anche le valutazioni di coloro che l' hanno conosciuta bene, o anche osservata è studiata, nella vita e nel lavoro. Per prima, Marlene Dietrich: «Greta Garbo? Il suo grosso limite è stato di prendersi troppo sul serio. Ha creduto davvero, a un certo punto della carriera, di essere una Divina sul pianeta Terra e ha piantato tutto». Roland Barthes: «La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura. Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo della bellezza, l' essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza». Truman Capote: «Greta Garbo ha portato al cinema un senso di poesia che nessun altro ha mai saputo raggiungere. Forse, solo Charlie Chaplin». Era nata a Stoccolma il 18 settembre 1905, morì a New York il 15 aprile 1990 (Greta Lovisa Gustaffson, il suo vero nome). La sua famiglia viveva nella povertà a Södermalm, un quartiere popolare. Ancora quindicenne, alla morte del padre, abbandonò la scuola per contribuire al sostentamento della famiglia come commessa. Fu notata per la sua avvenenza e le fu chiesto di posare come modella e di apparire in due brevi cortometraggi pubblicitari. Si trovò così, a 16 anni, a passare dal lavoro di commessa a quello di comparsa in un film comico. E debuttò come protagonista nel film La leggenda di Gösta Berling del 1924. Subito diede prova di quel talento drammatico che le procurò grandiosi successi nella stagione d' oro degli anni Trenta, in film come Anna Christie, Romanzo, Margherita Gauthier, Ninotchka (che le valsero altrettante nomination agli Oscar) e Anna Karenina. Ebbe l' Oscar alla carriera nel 1955. Si spense al Medical center di Manhattan il 15 aprile del 1990, nascosta nel totale anonimato che aveva voluto. Greta Garbo era nota anche per la professionalità. Si presentava sul set alle 9 in punto, già truccata, pettinata e vestita per la prima scena in programma. Allo stesso modo, era rigida sulla fine dell' orario di lavoro, alle 18 in punto. Leggendaria la sua estrema riservatezza. Non si presentava mai alle prime dei suoi film, disdegnava le passerelle. Ma alcuni testimoni raccontano di averla incontrata, in cinema di periferia, ad assistere da sola ai suoi lavori, in posti ordinari, senza farsi riconoscere. La sua era un' esistenza spartana. Secondo la testimonianza del regista Albert Lewin, Greta Garbo avrebbe voluto recitare nel ruolo di Dorian Gray nella trasposizione cinematografica del capolavoro di Oscar Wilde, unico ruolo per il quale sarebbe stata disposta a tornare in scena. Nonostante gli sforzi del regista tuttavia, la produzione fu contraria. Per la sensibilità dell' epoca, l' idea che una donna potesse recitare in un ruolo maschile, per di più in un film già potenzialmente scandaloso, all' epoca era impensabile.

·         Grace Kelly, la favola triste.

Grace, la favola triste della principessa prigioniera di due auto. Benny Casadei Lucchi, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. «Yes». A volte un «sì» diventa il più importante dei «no». Grace lo pronunciò con un filo di voce. Stanca. Preoccupata. Non era abituata ai copioni senza un finale già scritto. La truccatrice aveva impiegato un'ora per nasconderle le occhiaie. La sarta molto di più. Aveva rimesso mano al vestito da sposa. In pochi giorni, dall'arrivo a Monte Carlo, Grace aveva perso due chili. Troppi per il suo corpo slanciato. Colpa di quel malessere che prende quando qualcosa non torna o troppe cose tornano tutte assieme. Le feste, i sorrisi, le interviste, le riprese, le finzioni e infinite mani da stringere. Troppo tutto anche per lei regina di Hollywood destinata a un principe per nulla azzurro. «Principe triste» lo chiamavano. Ranieri III Grimaldi era andato ad accoglierla con il proprio yacht all'arrivo del transatlantico nella baia di Monte Carlo. Lei era scesa, lui impacciato le aveva preso la mano, una stretta veloce, come fra due funzionari. Neppure un bacio alla donna che pochi giorni dopo sarebbe diventata sua sposa. «Yes», disse Grace nel vuoto della cattedrale piena di teste coronate e invitati scelti. Fra i presenti anche lui, Cary Grant. Grace pensò che erano trascorsi solo due anni da quella prima auto, l'Alpine Sunbeam MK1 spider color zaffiro ferma sulla piazzola lungo la Moyenne Corniche. L'auto su cui aveva scoperto Monte Carlo. Lei al volante, lui accanto, la baia di Monaco sotto di loro, le cineprese tutt'attorno. Non poteva sapere che poco più sopra, ventisei anni dopo, sarebbe salita su quell'ultima auto, la rassicurante Rover P6 3500 otto cilindri color del bronzo. Lei ancora al volante, sua figlia Stéphanie accanto, poi la discesa, poi il malore, poi il volo, lo schianto, il silenzio. Fatali entrambe, le due vetture. La prima perché diede il via a una favola e a una storia d'amore e di doveri; la seconda perché alla favola mise tragicamente fine. Curioso, tragico che la vita di una principessa si possa racchiudere fra i confini di lamiera di due automobili.

«Yes», sussurrò Grace Kelly sorprendendo tutti, compreso il principe triste con l'anello in mano nel cuore della cattedrale. Quando un «sì» nasconde un «no» è sempre figlio di labbra prestidigitatrici. E quelle labbra lasciarono il mondo a bocca aperta. Come sul set, come a Broadway, come a Hollywood, come quando Grace decideva che il momento dell'incantesimo era arrivato e attori, registi, pubblico non avrebbero avuto scampo. «Ghiaccio bollente» amava definirla Alfred Hitchcock. Alludeva al modo sapiente con cui Grace viveva e recitava, alternando distacco, freddezza e sensualità. Perché comandava lei, con un impercettibile tocco di lingua che inumidiva le labbra. Comandava lei, con un sorriso avvolgente che all'improvviso le scoppiava in volto, infuocando là dove un attimo prima c'era solo il gelo. Comandava lei, con le sue mani lunghe ed eleganti sempre in bilico tra il portare verso sé e tenere a distanza da sé. Comandò anche quella mattina di aprile del 1956 nella cattedrale di San Nicola, quando con la curiosità del mondo addosso, un futuro marito accanto e un arcivescovo davanti, rispose «yes, lo voglio». In inglese, però. Evitando il «oui» d'obbligo in un rito celebrato in francese. Un affronto. Un avvertimento. Sarò così, disse senza dire, devota ma libera.

«Yes, mi piacerebbe proprio visitarli... Di chi sono quei giardini laggiù?». È la tarda primavera di due anni prima, è il 1954, la troupe sta girando alcune scene lungo la Moyenne Corniche sopra Monaco, Grace Kelly osserva il paesaggio e in lontananza nota dei giardini fioriti. «Sono splendidi» dice a Cary Grant. C'è feeling fra le due star. Hitchcock l'ha voluta per Caccia al ladro. È la storia di un furfante redento e di una giovane miliardaria in vacanza. Sarebbe una biografia se non fosse che Cary non ha mai rubato un dollaro. Grace invece miliardaria lo è davvero. Non per i film girati, undici in poco più di cinque anni di carriera, non per l'Oscar che vincerà nel 1955 per La ragazza di campagna. È ricca da sempre grazie a papà John, insopportabile ex campione olimpico di canottaggio che da Philadelphia ha fatto fortuna vendendo mattoni per grattacieli. Grace ha 26 anni, e il rapporto con quel padre ingombrante rappresenta il ring che l'ha allenata alla vita.

«Yes, è Monte Carlo, e quelli che vede sono i giardini del Palazzo dei Principi», le spiega un tecnico della troupe. Grace e Cary stanno appoggiati agli schienali color crema della decapottabile inglese. L'Alpine Sunbeam è il modello glamour di un marchio inglese. Grazie al film entrerà nell'immaginario di generazioni come sinonimo di estate, costa, mare e ricchezza. Nessuno ricorderà il modello, tutti ricorderanno Cary Grant passeggero, Grace con i capelli al vento e il sorriso incandescente che accelera per seminare gli inseguitori fra i tornanti mentre la costa scorre e per la prima volta presenta se stessa e la propria bellezza al mondo di tutti, non più solo al mondo di pochi. Nasce in quel momento la Costa Azzurra come siamo abituati a intenderla. Monte Carlo, invece, non è ancora veramente nata. Per questo il principe sembra sempre triste. Non lo è. Ranieri è solo tanto preoccupato. Lo è dall'incoronazione, avvenuta pochi anni prima, da quando ha scoperto i conti dello Stato e visionato i pochi progetti per il futuro. Sa che il Principato rischia di morire. Peggio: di diventare Francia. In fondo è solo un lembo di terra abitato dagli eredi di vecchie famiglie piemontesi e genovesi, senza spiagge, con pochi hotel, un Casinò in parte in mano all'armatore Aristotele Onassis, e un Gp d'auto che non basta ad alimentare il turismo. Per salvarlo serve qualcosa. Un'idea. Una principessa ma non una semplice principessa. Serve una regina del mondo.

«Yes, ci andrò». Un anno dopo le riprese di Caccia al ladro, nella tarda primavera del 1955, Grace Kelly è a Cannes. Ha appena vinto l'Oscar. Un amico fotografo le propone un servizio a Monte Carlo. Le tornano in mente i giardini. Accetta. Dietro al fotografo c'è il cappellano del principe, Francis Tucker, è americano, è un abile diplomatico. La regina di Hollywood e il principe di Monaco s'incontrano, restano soli mezzora, «troppo timido» dirà Grace. Lei torna in America, lui a Cap Ferrat. Le scriverà ogni settimana e ogni settimana uscirà in incognito per cercare a Nizza, Mentone e Sanremo un cinema che proietti Caccia al ladro. È amore, è interesse di Stato, è amore. Lei regina di Hollywood abdica per diventare principessa di un paese sul mare. Lui principe riservato abdica alla tranquillità per salvare il suo piccolo regno.

«Yes», pensò, «il vestito si stropiccerà se non lo stendo per bene sui sedili di dietro». Quella mattina di metà settembre del 1982, poco fuori la residenza di Roc Agel, Grace guardò il mare, la costa e la sua Monte Carlo. Quanto era cambiata. Ora non c'era persona al mondo che non conoscesse il Principato. Accanto non aveva Cary Grant come ventisei anni prima, c'era Stéphanie. La sua terzogenita. Disse all'autista «col vestito steso in tre non ci stiamo, guido io, tu resta qui» e salì in auto con la figlia. Accese il motore. Il rombo della vecchia Rover 3500 la rassicurava. Inserì la marcia e iniziò a scendere. Verso il palazzo. Verso i suoi giardini. Benny Casadei Lucchi 

·         Ricordando Farrah Fawcett.

Ricordando Farrah Fawcett. Maria Luisa Agnese per “Sette” il 24 giugno 2019. I ragazzi di fine anni Sessanta avevano capito che la loro compagna Farrah Fawcett annunciava i tempi che venivano e che in qualche modo rappresentava la donna indipendente e controversa, anche qui un po’ femminista e un po’ no. Un produttore potente e di talento come Aaron Spelling la volle per una serie che stava per lanciare: tre donne poliziotto libere e belle che risolvevano delitti come gli uomini. Charlie’s Angels diventò subito qualcosa di più di una serie, un caso non solo americano, modello anticipatore di come la tv può dire la sua sul cambiamento sociale come il cinema, a volte di più. Le femministe storsero il naso per quei modelli troppo da donne in carriera e meno ideologici, senza avvertire che in qualche modo anche loro interpretavano spiriti di innovazione e di voglia di vivere al di fuori degli stereotipi. E Farrah Fawcett divenne l’icona pop di tutto ciò, celebrata sulla copertina di Time. Lei, che pure qualche dote di attrice l’aveva, ma era dotata di grande ironia, dette un giudizio definitivo sul fenomeno in un’intervista all’americano Tv Guide nel 1977: «Quando Charlie’s Angels incominciò ad avere un primo successo pensai che fosse grazie alla nostra bravura ma, quando ebbe un tale successo internazionale, capii che ciò era dovuto al fatto che nessuna di noi portava il reggiseno». Le altre sue compagne di trionfi erano Kate Jackson e Jaclyn Smith, un trio vincente che lei inaspettatamente abbandonò dopo la prima serie, accendendo le ire di Spelling che a lungo la osteggiò con altre produzioni. Poco male, la leggenda Fawcett volava nel mondo con quel poster in costume rosso che scivolava sul suo corpo, firmato Norma Kamali, che vendette 12 milioni di copie e con la Barbie ricalcata dal poster che ancora oggi è oggetto di collezione. Dovette faticare per risalire la china ma lavorò con Robert Altman (Il dottor T e le donne) e Robert Duvall (L’apostolo) e fu protagonista di Oltre ogni limite, storia di una donna che sequestra il suo stupratore che le valse un Golden Globe come migliore attrice. Intanto la bionda Farrah bruciava altri record, la copertina di Playboy per cui accettò di posare a 50 anni con corpo intatto fu la più venduta di tutto il decennio e lei dichiarò soddisfatta che considerava quell’esperienza «una vera rinascita. Non sento più restrizioni nella mia vita, dal punto di vista emotivo, artistico, creativo. Non sento più i limiti che sentivo una volta». Anche quando arrivò la malattia, nel 2006, un cancro al colon che le aveva invaso il fegato e l’ aveva ridotta in sedia a rotelle facendole cadere anche l’ultimo ricciolo, decise di viverla senza limiti. Voleva che fosse di aiuto il suo esempio, nella lotta contro il cancro. Ma si attirò anche accuse di strumentalizzare il suo male quando girò un documentario sulla sua malattia, filmato dalla produttrice Alana Stewart. Fino a quel matrimonio annunciato e non avvenuto con Ryan O’Neal, tormentato amore di una vita errabonda e padre di suo figlio Redmond. Farrah aveva detto sì alla proposta di matrimonio che in articulo mortis le aveva fatto l’attore: avrebbero dovuto sposarsi, lei e Ryan, in ospedale in diretta tv appena lei avesse ritrovato un briciolo di forze, lui raccontava di aver già comprato l’abito da cerimonia; ma Farrah morì prima, il 25 giugno. Finale strappalacrime ma confortante, se non fosse che lui al funerale della sua Farrah incontra una bella ragazza e comincia a parlarle galante e quella dice «Ma papà non mi riconosci? Sono Tatum».

·         Marlon Brando. Malato di Sesso.

MARLON BRANDO. MALATO DI SESSO. Cesare Lanza per la Verità l'1 giugno 2019. Insaziabili appetiti sessuali, carattere pessimista, infanzia difficile, un figlio accusato e condannato per omicidio. Spinto dal suo esagerato appetito sessuale, Marlon Brando si portò a letto le più grandi star di Hollywood (uomini e donne), senza mai pentirsene. L' attore era il sex symbol d'America, fra le sue lenzuola si alternarono Cary Grant e Rock Hudson, James Dean e Laurence Olivier, Marilyn Monroe e Marlene Dietrich, Grace Kelly e Jackie Kennedy e decine (centinaia?) di altri. Marlon però era anche selettivo, e rifiutò Liz Taylor «perché aveva un culo troppo piccolo» e Sophia Loren perché «il suo alito era peggio di un dinosauro». Nella sua biografia scrisse che l' ossessione del sesso gli nacque a quattro anni, quando dormiva nudo con la sua domestica Ermi, spiandole i seni e sognando un giorno di sposarla. Quando lei se ne andò, lui non riuscì a rimuovere quel senso di abbandono. Listen to me, Marlon è il documentario realizzato dal regista britannico Stevan Riley dopo la scoperta di più di 200 ore di registrazioni inedite, effettuate dallo stesso Brando. Oltre alle sessioni di autoipnosi, l' attore registrava conversazioni private (piazzava microfoni in tutte le stanze di casa), prove per i film, nonché meditazioni e pensieri sui suoi colleghi. Nel documentario, Marlon Brando distrugge la sua immagine da star e definisce il suo talento niente più che «bugie per vivere»: «Non ho fatto nessun capolavoro. Non ci sono artisti tra gli attori, siamo solo commercianti, non c' è arte. È tutta merda.

Soldi, soldi, soldi. Se pensate che si tratti di qualcos'altro vi sbagliate». Brando parla anche della sua incredibile carica sessuale che lo portò ad avere 12 figli (più tre adottivi), tre matrimoni e innumerevoli amanti. E dice di essere stato una «bestia che faceva entrare le donne dalla porta e le faceva uscire dalla finestra... Dopo il successo di Un tram che si chiama Desiderio sempre più ragazze hanno iniziato ad avvicinarmi. Ero giovane e destinato a spandere il mio seme in lungo e in largo. Il mio pene iniziò ad avere la sua agenda personale, a prendere decisioni al posto del cervello». James Dean, tra gli altri, ebbe una relazione intensa con Marlon Brando. Brando obbligava Dean a lunghi incontri di sesso violento e sodomizzazione, lo ustionava con le sigarette e lo costringeva a guardarlo mentre faceva sesso con estranei. La segreta relazione sadomaso è stata rivelata dal Daily Mail. Secondo vari testimoni, Marlon non ricambiò mai l' amore di James, definito un «cucciolo di cane» che rimaneva ore e ore fuori dall' appartamento di Brando, al freddo, sperando disperatamente di essere invitato a entrare. Si erano incontrati per la prima volta quando il giovane Dean andò a seguire una conferenza di Brando, già celebre, a New York. Era il 1949. Brando raccontò che lo sguardo intenso di Dean gli fece «bruciare la pelle». Dean si presentò come un «grande fan». Disse che era confuso su molte cose, «ma non sulla mia ammirazione per te». E Brando lo baciò. In seguito, Dean confessò che Brando lo dominava: «Mi comandava sempre mentre facevamo l' amore». Diventarono inseparabili. Dean iniziò a indossare solo camicie e jeans, imitava il suo idolo in tutto. La vedova di Richard Pryor, Jennifer Lee, ha confermato le voci diffuse dal produttore Quincy Jones sulla bisessualità del comico: aveva svelato che Pryor e Marlon Brando, negli anni Settanta, erano amanti. Il produttore musicale disse: «Brando era l' uomo più affascinante che chiunque potesse incontrare. Faceva sesso con ogni cosa. Avrebbe fatto sesso anche con una cassetta della posta». Il successo esplose con Un tram che si chiama Desiderio, il film del 1951 diretto da Elia Kazan, protagonisti Vivien Leigh e Marlon. Scrissero: «Uno Stanley Kowalski (il personaggio principale, ndr) così insolente, che dopo non ce ne sono stati più. Perché, dopo Brando, tutti gli altri sono repliche fallite». E celebrazioni a raffica. «Sei la bestia che grida e diverte, con la risata cruda del maschio polacco...»; «Hai tentato di eclissarti nei film, eri Marco Antonio, Sky Masterson, Zapata, Fletcher Christian, Napoleone! Eri Vito Corleone ed eri quel ciccione calvo e garrulo di Kurtz in Apocalypse Now quando mormora e balbetta nel buio, la pazzia americana piena di sé. Fino a Ultimo tango a Parigi, nel quale hai scoperchiato la tua anima malata in una brillante devastazione. Stordito dal cadavere di quella moglie bellissima incorniciata da fiori grotteschi, riuscivi a malapena a parlare, fino a quando non hai parlato troppo. Eri istupidito dal dolore, non riuscivi a perdonare. E nonostante l' ebbrezza hai ballato con grazia imprevista...Eri così agile e luminoso in quella parodia alcolica del tango, un clown che sbeffeggia le emozioni esasperate e la tensione sessuale del ballo - perché come avevi detto da ragazzo volevi essere superficiale, volevi intrattenere. L' attore non esiste se non è al centro dell' attenzione, il cuore dell' attore è un vuoto che nessuna adulazione può riempire. Dopo quel tango demenziale sei rimasto sdraiato, piegato nella spossatezza e nel silenzio del dolore, un cadavere fetale su un balcone nelle grigie luci di Parigi. All' inferno, si balla il tango. Hai fatto del disprezzo di sé un vezzo artistico. Quel che c' era di buono in te, la tua coscienza sociale, la tua propensione verso le cause progressiste, è stato ingoiato dal resto. Ti sei svenduto in una serie di film stupidi, come a sfidare il tuo talento e le nostre aspettative su questo talento», «Quando sei morto, abbiamo capito che eri morto da tempo. Non potevamo perdonare colui che aveva sperperato la grandezza». Il padre di Brando, Marlon senior, era un operaio chimico, sua madre, Dorothy Julia, una casalinga. Ebbero un' influenza negativa su di lui: il padre era molto violento, facendo crescere nel piccolo un senso fortissimo di insicurezza e un complesso di inferiorità che (nonostante il successo) lo accompagnò per tutta la vita. La madre, un' alcolista. Marlon confessò in varie interviste che la paura di essere abbandonato influì pesantemente sulla sua vita sentimentale, inducendolo a distruggere le relazioni, proprio per la paura di uscirne ferito o solo. La sera del 16 maggio 1990, Dag Drollet, fidanzato polinesiano della figlia di Brando, Cheyenne, venne ucciso dal primogenito dell' attore, Christian, nella villa di famiglia. Christian, trentunenne, sostenne di essere stato ubriaco e che l' omicidio fu accidentale. Dopo il procedimento cautelare, però, confessò di essere colpevole e di aver usato una pistola per uccidere Dag.

Al processo, Brando si rifiutò di giurare dichiarandosi ateo. Chiamato però a testimoniare, parlò per un' ora dicendo che lui e la moglie Anna Kashfi avevano fallito, con il loro figlio. E si rivolse ai membri della famiglia di Dag, dicendo: «Mi dispiace... Forse non mi crederete, ma io volevo bene a Dag. Sono pronto per le conseguenze». Christian fu condannato a 10 anni, ma ne scontò solo 5 per buona condotta. Nell' ottobre 1991 fu emesso un mandato di cattura anche nei confronti di Cheyenne, accusata di complicità nell' omicidio, dopo che era sparita dalla clinica psichiatrica di Parigi, dove era ricoverata per aver tentato due volte il suicidio. La vicenda si concluse tragicamente nel 1995, quando Cheyenne, ancora depressa per l' omicidio del suo fidanzato, si suicidò, impiccandosi nella casa della madre a Tahiti. Christian morì di polmonite il 27 gennaio 2008. Ecco alcune riflessioni e dichiarazioni fatte da chi lo ha conosciuto bene.

Ford Coppola: «Con Marlon non è mai stato difficile lavorare. Il suo comportamento era un po' eccentrico sul set. Come un cattivo ragazzo, faceva quello che voleva. Ma come attore non è mai stato difficile». Katharine Hepburn: «Credo che sia un attore molto dotato. Anche se temo che possa essere una persona limitata». John Huston: «Brando aveva qualcosa di diverso, qualcosa di esplosivo... un fuoco senza fiamma, pericoloso, in procinto di accendersi, a volte. Era come una porta del forno che si apre... il caldo veniva fuori dallo schermo. Non conosco un altro attore in grado di farlo».

Marilyn Monroe: «È molto dolce e tenero».

Jack Nicholson: «Gli attori non vanno in giro discutendo su chi sia il migliore attore del mondo, perché è ovvio... è Marlon Brando. Non c' è nessuno, né prima né dopo come Marlon Brando. Ero al liceo quando ho visto Il selvaggio. Ha cambiato la mia vita per sempre. Un artista monumentale, non c' era modo di seguire le sue orme, troppo grande, ha veramente scosso il mondo». Al Pacino: «Ogni volta che mi imbatto in Marlon Brando sul set, il mio viso diventa rosso, hai idea di quello che è stato per me fare una scena con Brando? Mi sono seduto nei cinema quando ero un bambino guardandolo in Un tram chiamato Desiderio e Viva Zapata!. L' ho amato.

Era sensibile. Ha visto le difficoltà che ho avuto sul set del Padrino e credo che abbia visto un po' di sé stesso quando era giovane. Ero in soggezione». Shelley Winters: «Aveva una carica elettrica e un profumo animale che rendeva impossibile per il pubblico pensare o guardare gli altri interpreti. L' unica volta che ho avuto una reazione simile, quando ho visto Elvis Presley suonare a Las Vegas». Infine, l' unica voce fuori dal coro, Frank Sinatra: «È l' attore più sopravvalutato del mondo».

Era nato a Omaha, nel Nebraska, il 3 aprile 1924, morì a Westwood, Los Angeles, il primo luglio 2004. Ha vinto cinque Golden globe, nominato otto volte all' Oscar con due statuette: si rifiutò di ritirare la seconda per protesta contro le ingiustizie verso le minoranze etniche, arrivando a donare agli indiani alcuni terreni a Santa Monica, in California. È stato un convinto attivista sostenendo molte cause, come quella del movimento afroamericano, partecipò alla marcia su Washington nel 1963. Brando è stato uno dei soli tre attori, insieme con Charlie Chaplin e Marilyn Monroe, a essere nominato da Time, nel 1999, come uno dei cento personaggi più influenti del secolo. L' American film institute lo ha inserito al quarto posto tra le più grandi star della storia del cinema.

·         Un Salvacondotto per Bertolucci.

Federico Pontiggia per il Fatto Quotidiano il 13 ottobre 2019. "Pasolini era incazzato da morire. Penso fu una delle cose più brutte della sua vita, quella partita, e infatti non ne parlava mai". Non che ebbe tanto tempo per farlo: neanche otto mesi, tra quel 16 marzo alla Cittadella di Parma e il 2 novembre all' Idroscalo di Ostia. 1975, Pier Paolo Pasolini ha 53 anni, muore dietro una porta da calcio, fuori dal gioco della vita, ancora dentro una passione: "Un bravo calciatore", risponde due anni prima al 'che cosa le sarebbe piaciuto diventare?' di Enzo Biagi.

"Dopo la letteratura e l' eros, per me il football è uno dei grandi piaceri".

La declinazione è rossoblu, l' idolo Biavati e il doppio passo che proverà a imitare con successo, la denominazione d' origine i Prati di Caprara, "i pomeriggi che (ci) ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita". I colori del Bologna se li tiene addosso anche in trasferta, in quella domenica di primavera sottratta alla provincia e riguadagnata al mito: "Sarà una partita epica, leggendaria nei racconti della gente di cinema che vi partecipò, ma praticamente sconosciuta al pubblico", osserva il regista Alessandro Scillitani. Partita larger than life, già numericamente: non si affrontano i canonici undici contro undici, bensì Centoventi contro Novecento. Uno scazzo - lo scarso apprezzamento di PPP per Ultimo tango, vai a sapere - val bene una partitella riparatoria, anzi, la madre di tutte le partite: la rappresentativa della troupe di Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini affronta l' omologa di Novecento di Bernardo Bertolucci. I set sono vicini, l' amicizia tra PPP e BB antica, la pasoliniana - e fascista nell' affresco di Bernardo - Laura Betti apparecchia la singolar tenzone: Centoventi contro Novecento, l' icastico titolo del documentario di Scillitani, scritto da Alessandro Di Nuzzo "ricostruendo minuziosamente la storia di quella domenica e la memoria ancora viva dei protagonisti". Un film ricchissimo, quello "dei capelloni", l' altro povero, "con i ragazzi di strada", l' utopia di BB , tesa "all' emancipazione dell' uomo" e rischiarata dal "sol dell' avvenire", e la distopia di PPP , concentrazionaria e sadiana: le due anime del secolo breve a rincorrere il pallone e cercare il goal. Così lontani, così vicini, Bernardo e Pier Paolo: il primo osserva dalla panchina, si ritaglia il ruolo dell' allenatore e fa tagliare alla costumista Gitt Magrini casacche viola con banda gialla "novecentesca" e, addirittura, calzini arcobaleno psichedelici per disorientare l' avversario; il secondo tiene fede a se stesso, che a Parma come a Bologna, la borgata Donna Olimpia e Ciampino in campo ritorna bambino, che per qualcuno giocava "ala sinistra e correva sempre", per altri "ala destra ed era una farfalla", per tutti "anche due contro due voleva vincere". Triste solitario y final solo all' Idroscalo, prima nel calcio, da lui inteso quale "l' ultima rappresentazione sacra del nostro tempo: è rito nel fondo, anche se evasione", Pasolini si trasfigura, il suo volto abitualmente atteggiato a "pugno si fa carezza". Eppure, il 16 marzo 1975 non basta per vincere: i valori in campo non direbbero, giacché PPP "sembra Maradona" e la sua compagine "il Brasile", ma Centoventi contro Novecento non raddrizza le sproporzioni oltre il due a cinque goal. Pasolini esce per infortunio - intenzionale entrata omicida di un armadio chiamato Barone - e subito i bertolucciani recuperano i due gol di svantaggio: l' arbitro del secondo tempo è di Salò, ma la prospettiva di lavorare con i "ricchi" alletta, sicché fischia due rigori inesistenti per il team di Novecento. C' è di più: l' animus pugnandi che i parmensi rivendicano viene rinforzato alla bisogna con qualche elemento professionistico, non troupe cinematografica, ma giovanili calcistiche. Tre, quattro virgulti di talento per volgere a proprio favore le sorti dell' incontro, e tra questi - udite, udite - più di qualcuno annovera Carlo Ancelotti, all' epoca quindicenne del Parma: che l' attuale allenatore del Napoli, già centrocampista sopraffino Roma e Milan, sia stato l' uomo in più per Bertolucci, e in meno per Pasolini, be', bella storia. Presente o meno in quella Cittadella agonistica, Carletto non bevve dalla coppa dei vincitori: Bertolucci la fece riempire di Dom Perignon e la offrì ai vinti. Molti dei Centoventi declinarono l' offerta, "il rosicamento era generale". Ma la torta, quella sì, la mangiarono tutti, con le mani, a centrocampo. Anche Pasolini: era il 16 marzo del 1975, era il trentaquattresimo compleanno del suo amico Bertolucci.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 7 ottobre 2019. Hanno condiviso venticinque anni di luci e ombre, colori e sentimenti: Vittorio Storaro è il custode della memoria cinematografica di Bernardo Bertolucci. Parma, capitale della cultura nel 2020, gli ha affidato una mostra con le immagini di nove film, un libro fotografico e tre masterclass legate ad altrettanti periodi visivi: la luce, i colori, gli elementi. Ma il cuore del progetto (patrocinato da CICT-Unesco e realizzato da Tecnoitalia) è la conservazione delle opere del maestro scomparso dieci mesi fa: ogni film restaurato viene trasferito su un moderno supporto digitale (DOTS), capace di conservarne l' integrità per secoli. «Bernardo voleva che le sue creazioni abitassero a Parma». Raccontando di Bertolucci, Vittorio Storaro, celebre direttore della fotografia, si immerge in un mondo che, si capisce, ha visitato e visita ancora spesso.

Il primo incontro?

«Sono figlio di un proiezionista della Lux, a dodici anni già studiavo fotografia e lavoravo, professionalmente sono cresciuto in fretta ma a vent' anni restai fermo per due anni. Il mio amico Camillo Bazzoni mi disse: "Basta stare in casa, vieni a Parma con noi a fare un film con un giovane interessante". Significava tornare a fare l' assistente ma accettai con umiltà. Quel giovane era Bernardo Bertolucci».

Che impressione le fece?

«Aveva 22 anni, uno meno di me.Scriveva con la macchina da presa, disegnava nella sua mente un' inquadratura e poi chiamava il macchinista. In certi giorni, se per caso non trovava l' idea, si fermava. Il set di Prima della rivoluzione fu uno choc. Dopo quel film girai con altri registi, un giorno arrivò una telefonata, la voce calda e la erre arrotondata: "Vittorio ti ricordi di me? Sono Bernardo". Certo che mi ricordo, risposi, ti sogno. Mi raccontò che aveva avuto un periodo difficile, era stato in analisi, certi film che lui aveva fatto non erano stati compresi, erano passati sette anni. "Sto ricominciando, giro per la tv, Strategia del ragno ". Da lì sono partiti 25 anni di collaborazione, fino a Il piccolo Buddha».

"Strategia del ragno" fu un set in stato di grazia.

«Eravamo giovani. Bernardo mi fece vedere un libro di Magritte, "vorrei un' atmosfera come questo tipo di dipinto". Io la trovavo una cosa complessa. Proposi i pittori naif primitivi di cui mi ero innamorato girando un film in Jugoslavia: dipingevano nell' inverno sui vetri delle case, quelle immagini avevano un' aggressività cromatica che per me, cresciuto nella periferia grigia di Roma, era dirompente. In Italia scoprii che c' era Ligabue, proprio vicino Parma. A Bernardo piacque l' idea di raccontare L' eroe e il traditore di Borges come una messa in scena, usando Tara/Sabbioneta come un teatro. Giravamo solo all' imbrunire, quando la luce era blu. Di giorno preparavamo le inquadrature e poi ci scatenavamo dalle 18 alle 19. È una cosa che si può fare solo a una certa età».

"Il conformista" è arrivato subito dopo.

«Sì. Non mi arrivò mai la Mitchell piccola ordinata dagli Usa, girammo con una macchinetta per documentari, quando lo racconto in America non ci credono. Il suono non fu in presa diretta - attori di nazionalità diversa - ma c' era grande fantasia nella visione. Ad esempio l' appartamento di Stefania Sandrelli. Bernardo e lo scenografo Scarfiotti pensavano di mettere fuori dalle finestre dipinti e foto, un orizzonte finto, perché il fascismo non aveva all' epoca una struttura reale e si presentava in immagini. Ma non si poteva perché il marciapiede era piccolo. Ebbi l' idea delle tapparelle che ingabbiassero il film tra luci e ombre».

Avevate coraggio.

«Ogni cosa che scoprivamo la mettevamo, senza paura di sbagliare. Al New York Film Festival Coppola chiese una copia di Il conformista da 16 mm da proiettarsi a casa. Lo fece vedere a Gordon Willis, il direttore della fotografia e alla troupe e disse: questo è lo stile che vorrei per Il padrino ».

Ancora Parigi, Ultimo Tango.

«Un anno dopo, mentre lavoravo con Giuseppe Patroni Griffi, mi chiamò Bernardo per Ultimo tango .Facendo i sopralluoghi, scelsi l' arancio perché guardavo alla luce artificiale, una città sempre accesa, diversa dall' azzurro de Il conformista . Bernardo vide una mostra di Bacon, "ci sono dipinti che sembrano il manifesto del nostro film". È stato un momento di grande tensione creativa. In molti ci sconsigliavano Brando, ma con noi fu fantastico. Il primo giorno Bernardo dice "andiamo a salutare Marlon". Arriviamo e vedo Brando con un colore magenta in faccia. Sussurro a Bernardo: mio dio, è truccato in modo orrendo, sembra che abbia due dita di cerone. E lui: "Vittorio stai calmo, è il primo giorno". Vado dal truccatore americano, mi racconta che sul set di L' ammutinamento del Bounty avevano fatto notare al divo che la sua faccia era la più scura di tutte e lui aveva risposto "ritruccate loro". Mi faccio coraggio: "Brando, capisco che lei con le potenti luci hollywoodiane abbia bisogno di tono ma qui a Parigi il cielo è nuvoloso e io ho una padellina di luce...". Prende un tovagliolo bianco e se lo toglie: "Va bene così?"».

Poi arriva "Novecento".

«La summa simbolica dei tre primi film fatti insieme. L' idea che io seguii sul piano figurativo fu di mettere in sintonia la vita degli uomini con le stagioni della natura. E così aspettavamo i periodi giusti per girare, senza fretta né pressione. Il successo di Ultimo tango aveva regalato a Bernardo il senso di immortalità, di poter fare qualunque cosa. Lessi il copione e dissi: le scene sono lunghe, questo film durerà cinque ore. E Bernardo: "Spero che sia così bello che non ce lo tocchino". Aveva sofferto nel periodo in cui non gli facevano fare film. Ma per Novecento ebbe carta bianca: e d' istinto disse "faccio tutto"».

 Franco Giubilei per “la Stampa”l'8 ottobre 2019. Lo spettatore che diede il via all' odissea giudiziaria di "Ultimo tango a Parigi" era un 32enne della provincia di Bologna che vide il film al cinema Kursaal di Porretta Terme, dove veniva proiettato per la prima volta. Era il 15 dicembre del 1972 e il giovane, choccato da quel che aveva visto, corse in procura e mise nero su bianco: «Singole scene e sequenze hanno offeso la mia sensibilità morale e le mie aspirazioni ideali di cittadino (…) Scene che turbano il senso morale di un onesto cittadino». Cominciava così un' altalena di sequestri, ricorsi e dissequestri, con la gente che intanto riempiva le sale approfittando delle temporanee riapparizioni del film. E il dibattito pubblico assumeva toni da crociata: sui muri fiorivano scritte spray come quelle comparse a Firenze che bollavano come "porci" autore e protagonisti. Queste foto, con tutti gli atti del processo all' opera-scandalo di Bernardo Bertolucci - finito a giudizio insieme con Marlon Brando e Maria Schneider, il produttore Alberto Grimaldi e il distributore Ubaldo Matteucci -, stanno per essere rese pubbliche in versione digitale. L' Archivio di Stato di Bologna, su sollecitazione del tribunale che custodiva i due faldoni del processo con circa duemila carte, ne ha completato il restauro e dalla fine di ottobre saranno consultabili. Il clima di quegli anni riecheggia nelle denunce che la restauratrice Rita Capitani ha salvato dal deterioramento della carta: «E' un manuale di pornografia e di immoralità - si legge in un esposto -, il pubblico che come me aspetta ben diversa storia rimane senza parole». E poi ci sono le raccolte di firme per ottenerne il bando: «Detto spettacolo offende la nostra dignità di uomini, di cattolici e di cittadini italiani». Le petizioni di gruppi di ragazzi: «Di fronte all' impressionante "porno-escalation" che ha vanificato i valori culturali e artistici, noi giovani dichiariamo apertamente il nostro dissenso e la più ferma condanna». "Ultimo tango", vietato ai minorenni, era stato presentato senza problemi a Parigi e New York. Ma in Italia la musica era diversa: il pm bolognese Gino Paolo Latini lo descrive così: «Un film di contenuto osceno in quanto offensivo del pudore, inteso a sollecitare i deteriori istinti della libidine, dominato dall' idea dell' eccitamento e dello sfrenato appetito dei piaceri sessuali, da un linguaggio scurrile e triviale, con crude, ributtanti e veristiche rappresentazioni di congressi carnali, anche innaturali, con descrizioni continue e compiacenti di masturbazioni, atti libidinosi, lubriche nudità, accompagnate da gemiti, sospiri e urla di godimento». «La procura di Bologna aprì le indagini per oscenità, un pm romano ne dispose il primo sequestro - dice l' archivista Francesca Delneri -. Il processo per direttissima si concluse con l' assoluzione». Come il linguaggio dell' accusa riflette la ripugnanza dell' Italia più bacchettona, la sentenza di primo grado esprime una sensibilità opposta: «Nessuna delle tre sequenze sembra offensiva del comune sentimento di pudore in questo determinato momento storico di evoluzione culturale anche della media società italiana». Quindi il giudice si lancia in una dissertazione da cinéphile: «Ultimo tango a Parigi è la traduzione in immagini di una ricerca rivelatrice verso l' inesplorato dell' uomo; trattasi di una indagine antologica, per cui non a caso il film evoca una Parigi degli anni Trenta dove fervevano, sulla riscoperta di De Sade, i Georges Bataille e Louis-Ferdinand Céline, dov' erano concentrati i surrealisti e tutti gli umori della cultura europea». Il pm però non si arrende e ricorre in appello, che il 4 giugno 1973 ribalta la decisione del tribunale: macché De Sade, Bataille o Céline, «l' uomo comune non è tenuto a leggerli». Ma per la Cassazione è tutto da rifare e così, nel settembre del 1974, la corte d' appello di Bologna condanna tutti a due mesi di carcere e a 30mila lire di multa. La situazione precipita nel gennaio 1976: condanna confermata in Cassazione e perdita dei diritti civili per 5 anni per il regista, con distruzione di tutte le pellicole. Bertolucci scrisse all' allora presidente Leone per ottenere la grazia. Un decreto del ministero della Giustizia risparmiò tre copie dalle fiamme, perché venissero conservate presso la Cineteca nazionale. Undici anni dopo, la riabilitazione: oggi "Ultimo tango" è il secondo film italiano più visto di sempre.

 “Ultimo Tango a Parigi” è il capolavoro sovversivo di Bertolucci (e se pensate al burro, non avete capito nulla), scrive il 27 novembre 2018 L’Inkiesta. La scena della sodomizzazione, per molti motivi, ha occultato la vera carica scandalosa del film di Bertolucci. Che sta in un modo inedito di trattare la sessualità maschile. E nel modo provocatorio di parlare della (sempre sacra) famiglia. Domenica scorsa Cristiano Ronaldo è sceso in campo con uno sbaffo di rossetto rosso sulla guancia, in segno di omaggio alla Giornata contro la violenza sulle donne. Si tratta dello stesso Ronaldo indagato per lo stupro di una ragazza nel 2009. Nella fattispecie, dicono le carte, una penetrazione anale non consensuale, e senza nemmeno un filo di burro, probabilmente introvabile nei frigobar degli alberghi salutisti e vegan-friendly di Las Vegas. Ma a quanto pare quella effrazione sessuale se la sono dimenticata in molti, a cominciare da Ronaldo, che non solo continua a giocare e a segnare, venerato ed esaltato dalla squadra e dai fan, ma si sente autorizzato a solidarizzare pubblicamente con le vittime di stupro, che è un po’ «come vedere Hitler a una marcia per la pace», ha osservato qualcuno su Twitter. Invece una sodomizzazione simulata, quella di Ultimo tango a Parigi - con una Maria Schneider vestita e un Marlon Brando altrettanto vestito – nessuno è riuscito a levarsela dalla testa dopo quasi cinquant’anni, anche se ne ha solo sentito parlare. Tanto che ieri in nessun servizio sulla morte di Bernardo Bertolucci è mancato un riferimento, un box, una rievocazione della famosa scena che ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere sia il burro che Bertolucci. È come se tutta la carriera e la filmografia del maestro di Parma girassero intorno a quell’Ultimo tango, come satelliti in un sistema solare. Difficile stabilire se Mercurio è Il conformista, Marte Strategia del ragno, Saturno l’Ultimo imperatore e Giove Novecento, ma sul Sole non ci sono dubbi: è il film del 1972, la pellicola italiana più vista di tutti i tempi, bruciata e risorta, censurata e dissequestrata, maledetta e venerata, Ultimo tango a Parigi. E il nucleo centrale di questo sole di celluloide, da cui emanano ancora radiazioni termonucleari (e che, più materialmente, assicurò a Bertolucci la credibilità e le risorse finanziarie per i successivi filmoni da Oscar) sono quei pochi minuti a partire da quando Paul dice a Jeanne «portami il burro, voglio farti un discorso sulla famiglia» e lei lo guarda sorpresa. Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Sorpresa genuina, perché nel copione di Maria Schneider c’era l’aggressione sessuale, ma non nessuna traccia del burro. Oggi sappiamo che era una variazione escogitata a colazione da Brando e subito approvata da Bertolucci: un accordo segreto, tutto al maschile, fra il primattore e il regista, all’insaputa della giovanissima attrice, per estorcerle un’espressione realmente scioccata e umiliata. «Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio», ha rivelato qualche anno fa Bertolucci, ammettendo di sentirsi in colpa verso Schneider, morta di tumore a 58 anni. Parole che, un anno prima di #MeToo hanno scatenato l’ira di molte star di Hollywood, da Chris Evans a Jessica Chastain. Qui da noi, tutti zitti. Forse perché crediamo che in fondo l’arte giustifichi certi machiavellici espedienti e crediamo ancora all’aneddoto di De Sica che infila di nascosto i mozziconi di sigaretta in tasca al piccolo Enzo Staiola, il bimbo di Ladri di biciclette, per poi mortificarlo e farlo piangere con sufficiente realismo. Fake news smentita dallo stesso Staiola, oggi 79enne: «A quei tempi tutti andavano per cicche, figuriamoci se mi vergognavo. Ti mettevano delle gocce negli occhi e dopo due minuti piangevi.») È da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto. Ma la potenza termonucleare di quella scena è proprio nella faccia autenticamente umiliata e spaventata di Schneider mentre subisce la violenza di Brando, e intanto è costretta a ripetere una preghiera antifamilista che oggi suona sacrilega come e più di allora: «Santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini, dove i bambini vengono torturati finché non dicono la prima bugia, la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo.» Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Ed è un peccato che la sequenza del burro sia così detonante, perché copre la forza eversiva di altri momenti del film. Paul che chiede a Jeanne di penetrarlo a sua volta con le dita. Paul che le dice con dolcezza «non è la maniglia della porta,» quando lei gli manipola meccanicamente genitali. Paul e l’amante della moglie defunta, che rievocano la morta indossando le sue vestaglie. Ultimo tango, per quanto pensato e girato con metodi prevaricatori e sessisti, annunciava una possibile rivoluzione sessuale al maschile. Il divo più carismatico e macho della sua epoca dava voce e volto a una virilità fragile, sgualcita, traumatizzata, che si interrogava su se stessa, che rideva amaramente dei feticci patriarcali, e si faceva schifo da sé nella propria violenza. Quell’intuizione del giovane Bertolucci sembra caduta nel vuoto: troppo scandalosa e difficile da accettare per i maschi, e non c’è burro che possa renderla meno scomoda e urticante. Eppure è da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto.

Marco Consoli per “la Stampa” il 5 dicembre 2019. «Io e Bernardo Bertolucci arrivammo nella Città Proibita a Pechino per la scena in cui l'Imperatore bambino esce dal palazzo e trova una folla di persone che gli rendono onore. Lui scese dalla macchina e quando vide le 5mila comparse le sue mani iniziarono a tremare. Poi si rivolse a me e mi disse: come faccio a girare questa scena in un solo giorno?». Jeremy Thomas, 70enne produttore londinese di L'ultimo imperatore, e collaboratore di numerosi altri maestri del cinema come Wim Wenders, David Cronenberg, Nagisa Oshima e Takeshi Kitano, ricorda al festival di Marrakech uno dei momenti più delicati delle riprese del film che fruttò 9 premi Oscar. Dal 1988 in poi nulla sarebbe stato più come prima: «È iniziata allora la mia straordinaria storia di amicizia con Bernardo, durata fino alla sua triste scomparsa di un anno fa: abbiamo viaggiato per il mondo, ci siamo divertiti, abbiamo litigato con chi non ci voleva finanziare i film, ma mai tra di noi, anche perché lui era un regista che aveva bisogno di un produttore al suo fianco. Mi mancano soprattutto il suo punto di vista sulle cose e sulla vita e il suo fiero pragmatismo di sinistra».

Come fece Bertolucci a superare l' impasse di quella sequenza?

«Alla vista di tutte quelle persone era pietrificato. Ma poi come per magia salì sul dolly e quando il carrello e la gru iniziarono a muoversi fu come vedere un pittore che dava pennellate con la macchina da presa. Aveva questo straordinario potere di vedere le inquadrature con la sua mente prima di girare, ed era l' uomo più felice del mondo quando poteva fare una carrellata o salire sul dolly».

Poi avete girato insieme Piccolo Buddha, Io ballo da sola e The Dreamers: sicuro di non avere mai avuto screzi con lui?

«Mai, anche perché quando mi metteva in difficoltà, sapeva come recuperare. A volte mi diceva: oggi non posso andare sul set. E io gli facevo presente che avremmo tardato sul piano di produzione. Ma quando uno o due giorni dopo, girava, comprimeva due o tre scene con un solo movimento delle cinepresa».

È stato difficile finanziare i suoi film?

«È sempre arduo trovare i soldi. Ma a volte avvengono miracoli. Ero al festival di Cannes quando fui invitato nella villa di Cap Ferrat da Francis Bouygues, tra gli uomini più ricchi di Francia. Il suo avvocato mi disse che voleva aprire un giardino dedicato alla settima arte e che il primo fiore sarebbe stato Piccolo Buddha. Gli chiesi 40 milioni di dollari e ce li diede senza difficoltà. Ma le cose non sono sempre così facili. A volte devi inventarti delle soluzioni».

Ad esempio?

«Una volta volevo girare un film su Darwin e i creazionisti. Chiesi a un amico se conosceva qualcuno molto ricco innamorato di Darwin. Me lo trovò, e dopo una settimana avevo 10 milioni in banca. Così girammo Creation».

Ha ragione Martin Scorsese a dire che è più difficile oggi girare film audaci?

«Condivido. Dagli anni Settanta ai Novanta, vivevamo in una società multiculturale influenzata dagli effetti della controcultura, mentre oggi la società è monoculturale. Nessuno finanzierebbe più un film come Crash di Cronenberg, perché la gente si scandalizza facilmente, vuole solo film omogeneizzati e pastorizzati».

All' epoca però il film creò grande scandalo.

«È vero, dissero che eravamo dei pornografi. Un giorno ero in un bar con Phillip Noyce (regista di Giochi di potere e Il collezionista di ossa, ndr.), tre donne mi videro e gridarono che dovevano impiccarmi. Eppure c'era lo spazio per quei film, mentre oggi i soldi non si trovano più».

Per fortuna avete trovato però quelli per Pinocchio di Matteo Garrone, che uscirà il 19 dicembre e di cui lei è coproduttore.

«Sono felice di tornare a lavorare con Matteo dopo Il racconto dei racconti e Dogman. Il libro di Collodi è molto italiano e Matteo, anche se è un regista internazionale, incarna una personalità molto italiana. È molto diverso da Bertolucci, perché è anche produttore, quindi ha il perfetto controllo del film. Che è bellissimo, perché come sempre Matteo è capace di infondere i suoi personaggi, positivi e negativi, di una grande umanità».

Pensa che il film potrà avere successo negli Usa? Persino Benigni dopo il successo di La vita è bella fallì col suo Pinocchio.

«Avere successo negli Usa è difficilissimo, soprattutto perché non esiste un vero mercato per i film in lingua originale con i sottotitoli. Ma è possibile, come dimostra l' ottimo box office di Parasite. Ci vuole fortuna, ma credo Matteo possa farcela. In ogni caso io non ho mai prodotto i film per incassare, ma per vederli realizzati sul grande schermo».

È morto Bernardo Bertolucci, l'ultimo grande maestro del Novecento. Il regista aveva 77 anni. Ha attraversato la storia del cinema mondiale con capolavori come "Novecento" e "Ultimo tango". "L'ultimo imperatore" ha vinto nove Oscar, compreso miglior regia e sceneggiatura, scrive Irene Bignardi il 26 novembre 2018 su "La Repubblica". Se non fosse davvero esistito, il personaggio Bernardo Bertolucci – poeta, documentarista, regista, produttore, polemista, autore per eccellenza del cinema italiano, star del cinema internazionale - prima o poi, questo personaggio più grande che natura l’avrebbe inventato qualcuno, per raccontare, in maniera romanzesca ed esemplare, quello che ha attraversato il cinema nella seconda metà del secolo scorso, dallo sperimentalismo al cinema d’autore, dalla cinefilia alla grandeur, dai low budget alle mega produzioni, dal provincialismo alla visione internazionale. Il regista di capolavori come Novecento, Ultimo tango a Parigi, Il té nel deserto, Piccolo Buddha e L'ultimo imperatore, il film da nove Oscar, è morto questa mattina alle 7 nella sua casa di Trastevere, a Roma, circondato dall'affetto della moglie Clare Peploe. Malato da tempo, costretto su una sedia a rotelle, aveva 77 anni. La camera ardente sarà allestita martedì 27 novembre, dalle ore 10 alle 19, in Campidoglio, Sala della Protomoteca. Lo comunica la famiglia, che ringrazia il Comune di Roma per la disponibilità. In data da definire seguirà una cerimonia di commemorazione aperta al pubblico, di cui verrà data comunicazione a breve.

Il figlio del poeta e la natia Parma. Bernardo Bertolucci, in queste avventure e capovolgimenti era sempre lì, da protagonista o da testimone del secolo. Così italiano e così internazionale. Così sofisticato e così nazional-popolare. Così letterario e così visuale. E non si può non restare stupefatti di fronte a una vicenda umana e a una carriera cinematografica che si sono aperte nell'Appennino di Casarola di Parma, la casa di famiglia dei Bertolucci, e hanno percorso le strade del mondo per viaggiare sempre, però, nello Zeitgeist, nello spirito del tempo, quello spirito che Bernardo, con antenne da vero artista, ha saputo identificare, interpretare, raccontare. Della favola, a tratti amara, sempre avventurosa che è stata la vita di Bernardo Bertolucci, ricordiamo l’inizio veramente da favola. Quando il bel ragazzo ventenne, figlio di un grande poeta come Attilio Bertolucci, amico di Pier Paolo Pasolini, amato da Moravia, vicino a Elsa Morante, a Cesare Garboli, a Enzo Siciliano, a Dacia Maraini, vince a vent’anni il Premio Viareggio per la poesia con Il cerca del mistero. Da questo laboratorio culturale – in cui a tempo debito si muoveranno anche la sua bella moglie inglese Clare Peploe e il fratello più giovane di Bernardo, Giuseppe -, dalla tradizione letteraria e musicale della sua natia Parma, discendono, oltre all’amore di Bernardo Bertolucci per i testi letterari, il gusto per il melodramma, l’amore per le scene madri, l’approccio mitico e popolare, la tendenza postmoderna a costruire con materiali preesistenti – quelli che, direbbe Violeta Parra, formano il suo canto. E quindi, su una filmografia di sedici film, a realizzare ben cinque film di origine schiettamente letteraria pur restando un autore straordinariamente visivo.

L'incontro con PPP e la nascita della Nouvelle Vague italiana. È un percorso cinematografico affascinante. Bernardo lavora come assistente di Pasolini, gira documentari, affronta il primo film, La commare secca, su un'idea di PPP e con atmosfere tipicamente pasoliniane. Poi un secondo, Prima della rivoluzione, nel 1964, una riscrittura a chiave di La Certosa di Parma, che diventa il suo manifesto cinematografico, annuncia il suo lato cinefilo ("Non si può vivere senza Rossellini" è la citazione imperdibile) e lo promuove autore e cantore della borghesia di fronte ai cambiamenti drastici che segnano gli anni ’60. E se inizialmente il film viene accolto con freddezza dal pubblico e dalla critica italiana (ma, a Venezia, c’è chi gli consiglia di tornare a fare il poeta), e giusto un po’ meglio dai francesi, in compenso Pauline Kael, la dea della critica americana, assieme a un gruppo di "miracolosamente talentuosi ragazzi francesi" celebra anche Bernardo Bertolucci e il suo film, "stravagantemente bello per i suoi eccessi", dove si racconta la bellezza della vita "prima" della rivoluzione. Alberto Moravia, in una sua accesa recensione, equivocherà e parlerà di "dopo" la rivoluzione, reinterpretando il film secondo l'equivoco. Poco importa. Quello che conta è che dalla cinefilia e dalla poesia è nata una stella, a cui si affiancherà, un anno dopo, a costituire il nucleo della Nouvelle Vague italiana, Marco Bellocchio con l'eversivo I pugni in tasca.

Tra il '68 e Ultimo Tango. Nel fatidico '68 Bertolucci gira un film tipicamente sessantottino, Partner. Poi nel 1970, per la Rai, quello che all’epoca colpì tutti come un piccolo, sofisticato gioiello, Strategia del ragno, ispirato a Borges. Per darci nel 1970, ancora, quello che resta forse il suo film più compiuto, maturo, personale, Il conformista, che trasforma ed è al tempo stesso fedele al testo di Moravia. Un film che se non riuscì all'epoca a farsi amare dal pubblico italiano, di nuovo venne amato dalla Kael, che lo definì "un'esperienza sontuosa, emotivamente piena"- e che a tutt’oggi di Bertolucci resta il film più riuscito, concluso, coerente. Ma il fenomeno internazionale B.B. esplode con Ultimo tango a Parigi, e la complessa vicenda giudiziaria/ censoria che seguì, e che rende difficile giudicare il film fuori dal suo contesto di scandalo. Uno scandalo paragonato dalla solita Kael allo shock culturale prodotto da Le sacre du printemps. E il fatto che Bernardo Bertolucci ogni tanto sia ritornato sulle sue responsabilità (o meglio sarebbe dire sulla sua irresponsabilità) nell’imporre scene e atmosfere brutali a Maria Schneider, non fa che rinnovare negli anni lo shock prodotto a suo tempo e a rendere più difficile un giudizio. Che all’epoca a taluni è sembrato semplice: intense le scene in interni, con un superbo Marlon Brando invecchiato e dolente, imbarazzanti le parti con Schneider e Leaud, appassionante (nonché discutibile) il tema della trasgressione e del sesso come unico valore.

I nove Oscar de "L'ultimo imperatore". La storia delle vicende giudiziarie di Ultimo tango è un romanzo in se stesso, un po' grottesco un po' horror, tra condanne alla perdita dei diritti civili e roghi medievali di pellicola. Ma è la storia che ha creato la fama internazionale di B. B. e che gli consente nel 1976, sempre sensibile agli umori del tempo e ad anni di cultura di sinistra dominante, di girare Novecento, un’epica grandiosa e “hollywoodiana”, piena di grandi nomi del cinema nostro e internazionale, che racconta cinquant’anni di storia padana, a tratti potente e commovente, a tratti retorica e manieristica, sempre audace per le dimensioni e le ambizioni. Dopo la ricezione tiepida, nel 1979, di La luna, che racconta l’ambiguo e difficile rapporto , ai confini dell’incesto , di una madre e di suo figlio adolescente, dopo La tragedia di un uomo ridicolo ( 1981), una storia di avidità provinciale e rapimenti, che conquista a Tognazzi un premio a Cannes ma ha un risposta modesta dalle sale, nel 1987 Bertolucci conquista a sorpresa nove Oscar con un film veramente epocale, un trionfo di diplomazia e creatività, di gusto scenografico italiano e di abilità narrativa, L'ultimo imperatore, un grande successo a livello mondiale che apre le porte del mondo cinese e consacra Bernardo Bertolucci come un grande regista internazionale.

L'ultimo Bertolucci dal Té nel deserto a Io e te. Tornato in Italia dopo un lungo periodo a Londra, sua seconda patria, Bertolucci, con Io ballo da sola, da un racconto di Susan Minot, esalta la bellezza del Chiantishire e il piacere di vivere "dopo" la rivoluzione. Con Il té nel deserto (1990) riscopre l'opera di Paul Bowles e il mondo tragico ed elegante degli “expat”. Quindi si muove, nel 1993, verso il Nepal, per raccontare la storia di Piccolo Buddha e aprire alle culture orientali. Nel 1996, tornato a Roma, dirige tutto in interni la storia di un'ossessione amorosa, L’assedio. Mentre nel 2003 ritorna all’amato, mitico '68 con la storia di tre ragazzi che intrecciano scoperte erotiche, politica e cinefilia in The Dreamers, un film di scoperto voyeurismo e di scoperta nostalgia che per molti versi riconduce alle atmosfere di Ultimo tango. Ma la malattia che da anni lo assedia, sta avendo il sopravvento. Bertolucci non riesce a "montare" il suo Gesualdo da Venosa, un film a cui pensa da tempo. Gli restano le storie intime e private, e gira, praticamente sotto casa, un intenso incontro scontro tra fratello e sorella in Io e te (2012), dal romanzo di Niccolò Ammaniti. È la fine della bella favola. Ma Bernardo Bertolucci, il ragazzo poeta, il regista, la star, il premio Oscar, se ne va lasciando un segno che resta.

Bertolucci, comunista e grande intellettuale che seppe raccontare il Novecento, scrive il 26 novembre 2018 su Rifondazione.it. «Con Bertolucci – ha dichiarato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – l’Italia perde un grande artista e intellettuale internazional-popolare che ha saputo raccontare il fascismo, la Resistenza, il movimento operaio e contadino, il comunismo, il Sessantotto, il desiderio di cambiare il mondo e la vita, la trasgressione dei valori tradizionali, le altre culture, le rivoluzioni, la grande storia e la vita quotidiana. Fu capace di conquistare con le bandiere rosse Hollywood e di ispirare il nuovo cinema cinese. Noi vogliamo ricordarlo come compagno che non rinunciò mai a dirsi comunista nè mai rinnegò il sogno che ha attraversato il Novecento».

Sesso e rivoluzione. In memoria di Bertolucci, scrive il 27-11-2018 La Nuova Bussola Quotidiana. Bernardo Bertolucci rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Ha sempre caratterizzato le sue pellicole con due ingredienti essenziali: sesso e rivoluzione. Dall'elefantiaco Novecento, sino al suo penultimo film The Dreamers è questa la sua firma. Ma il mondo lo ricorda soprattutto per l'erotico Ultimo Tango a Parigi. «Nel ‘64 con Prima della rivoluzione mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo». Così diceva Bernardo Bertolucci in un’intervista al Quotidiano.net del 6 maggio scorso. Come Fabrizio De André nell’album Storia di un impiegato, rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Se De André era anarchico, Bertolucci era comunista, sempre stato. Può essere, questo, il vecchio vizio dei cineasti italiani, che l’attore Gérard Depardieu chiamava «tutti comunisti con le case», intendendo per case le ville sfarzose di quelli che sarebbe più preciso chiamare radical chic. Sesso & rivoluzione, la cifra stilistica di molti suoi film, fino al penultimo, The Dreamers, dove i protagonisti giocano al dottore in una Parigi sconvolta dal maggio sessantottardo. Nell’elefantiaco Novecento si comincia con un vecchio Burt Lancaster che fa il padrone della terra e un altrettanto vecchio Stirling Hayden (i più anziani lo ricorderanno come Johnny Guitar insieme a Joan Crawford) che fa un suo lavorante: il primo offre di brindare alla nascita del suo nipotino e il secondo si rifiuta per odio di classe. La scena successiva vede il padrone fare avances esplicite con una ragazzina figlia di suoi dipendenti. Poiché la piccola lo ridicolizza maliziosamente, ecco che il padrone si impicca: la vita senza sesso non vale la pena di essere vissuta, grettezza padronale. Più avanti, il ricco Robert De Niro (che non a caso diventerà fascista) e il povero Gérard Depardieu sono nudi sul letto della squillo Stefania Casini, un rapporto a tre mostrato tutto esplicitamente. Il chilometrico film è un peana alle prime lotte operaie dell’Italia novecentesca. Su diciassette film al suo attivo, il più notevole era senz’altro L’ultimo imperatore, che infatti fu premiato con ben nove Oscar. Ma il regista è passato alla storia del cinema soprattutto per il famigerato Ultimo tango a Parigi, che gli costò anche una condanna per oltraggio al pudore e che fu per qualche anno sequestrato, cosa che, al solito, indusse quelli a cui era sfuggito a correre nelle sale per vederlo. La scena della sodomia al burro divenne così popolare che, ai ricevimenti di matrimonio, invalse l’uso (di pessimo gusto) di regalare panetti di burro infiocchettati agli sposini. L’attrice, l’allora diciannovenne Maria Schneider, figlia dell’attore francese Daniel Gélin (quello che, vestito da arabo, viene pugnalato a morte all’inizio dell’hitchkockiano L’uomo che sapeva troppo), dichiarò in seguito di essere rimasta segnata negativamente e per sempre da quel film, nel quale appariva senza veli. E’ morta nel 2011 a cinquantotto anni senza aver lavorato a più niente di significativo. Per Marlon Brando, invece, quel film fu un insperato rilancio di carriera, fino a quel momento malinconicamente declinante. Infatti, prima di lui Bertolucci aveva pensato a Jean-Paul Belmondo e Jean-Louis Trintignant. Questi due rifiutarono uno dopo l’altro e il regista ripiegò su Brando. Bertolucci, comunista nel cuore (esordì come aiuto regista di Pasolini), prese la tessera del Pci nel 1969, ma, disse in un’intervista al Giornale.it, «si è andata via via scolorendo… Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui». Infatti vennero i film Un tè nel deserto e Piccolo Buddha. Nel 2007 ricevette il Leone d’Oro alla carriera a Venezia, lo stesso a Cannes, Palma d’Oro. L’anno seguente, una stella a lui intestata venne posta nella Walk of Fame di Hollywood Boulevard a Los Angeles. Una vita ricca di soddisfazioni, la sua. Ma, diciamolo, è triste restare nell’immaginario collettivo per un tango al burro.

Bertolucci, quando il Pci non capì Novecento, scrive Mario Lavia il 26 novembre 2018 su Democratica. I vecchi capi non accettavano la durezza che Bertolucci raccontò a proposito della Resistenza dei contadini. Ai comunisti Novecento non piacque. In particolare, non piacque ai vecchi capi del Pci. Giorgio Amendola, che in quegli anni conduceva una personale ricerca storica che inevitabilmente si intrecciava con la sua biografia, bollò negativamente il capolavoro di Bertolucci in una fortunata trasmissione di allora, Ring. Anche Giancarlo Pajetta, allo stesso modo, rifiutò la lettura bertolucciana di quello che poi si chiamò secolo breve. Il Pci, in quegli anni, era durissimamente impegnato a ricostruire un racconto tutto evolutiva della vicenda italiana, al riparo da orrori e nefandezze o anche solo da spiriti primitivi di vendetta. La lettura della storia italiana era un susseguirsi di avanzamenti e conquiste, tassello decisivo dell’accreditamento del Pci come partito nazionale di governo. L’antifascismo, nel racconto dei comunisti italiani, era non solo una pagina gloriosa, di riscatto morale e avanzamento politico, ma anche una elegia eroica, affratellante e profondamente umana, ai limiti della redenzione cristiana. Non potevano perciò sopportare, i grandi capi antifascisti, che ne venisse fornita una rappresentazione elegiaca sì ma cruda, eroica ma tragica, persino crudele come quella che Bernardo Bertolucci, comunista fuori dagli schemi comunisti, aveva dato con l’epica di Novecento, uscito nelle sale proprio nel 1976, l’anno della legittimazione del Pci come partito di governo. Probabile che Bertolucci vi rimase male. Per lui il Pci era quello che era per milioni di italiani: un padre, o una madre. Una scuola, o una chiesa. Il “grande albero sotto cui ripararsi”, come scrisse il nume di Bernardo, Pier Paolo Pasolini. Amendola, Pajetta… Come dire i maestri di politica. E meno male che Togliatti era morto da anni, lui Novecento lo avrebbe stroncato, un film così fuori dagli schemi propagandistico-zdanoviani cui era legato. Quando mai – avrebbe detto il Migliore – i contadini hanno processato gli agrari, dove mai il popolo fece a pezzi il vecchio fascista (Donald Sutherland), com’è possibile che un ragazzo antifascista (Gerard Depardieu) fosse amico di un rampollo dei ricchi (Robert De Niro)? La Resistenza non era stata questo! E invece Bertolucci, nel quadro magnifico della resistenza morale e della Resistenza politica, queste cose ce l’aveva messe. Aveva ragione, sul piano storico. Soprattutto, su quello letterario e poetico (l’influenza del padre, il grande poeta Attilio): perché l’epos del Novecento non sarebbe stato tale se non fosse stato – anche – un groviglio di passioni e contraddizioni e se il soggetto italiano per antonomasia, i contadini, non fossero stati portatori di una “cultura” ferina e passioni primitive, come ben aveva visto, ancora una volta, Pasolini. Ma c’è da dire infine che il mondo comunista non era solo quello dei vecchi capi. Dietro di loro veniva avanti una nuova generazione che la Resistenza l’aveva sentita raccontare o letta sui libri, giovani che amavano Pasolini, Bertolucci, Godard più che Rossellini e De Sica. Ha raccontato Walter Veltroni: “Ho ancora in mente la proiezione con Amendola e Pajetta. Appena terminata ci fu una discussione molto dura, soprattutto Pajetta espresse un giudizio negativo, le cose che a lui non erano piaciute erano proprio quelle per cui noi avevamo amato il film. E cioè il fatto che mescolasse la dichiarazione di fede politica con l’ispirazione poetica, la struttura del romanzo popolare con l’allegoria, con il melodramma…Pajetta contestava il modo in cui il film raccontava la Liberazione, diceva che i fatti non erano andati esattamente così”.  Forse, nel Pci, Pietro Ingrao, grande cinéphile, era il più sensibile al nuovo racconto cinematografico. Anche su questo terreno ci fu una lotta culturale e politica che si intrecciava con quella più grande della modernizzazione del Pci. Bernardo Bertolucci anche in questo senso rappresentò una svolta innovativa e un nuovo modo di pensare la storia italiana.

Cinema, morto il regista Bernardo Bertolucci. È scomparso oggi Bernardo Bertolucci, regista di Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, scrive Francesco Curridori, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". L’ultimo dei grandi maestri del nostro cinema, Bernardo Bertolucci, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, ci ha lasciati per sempre. Di lui ci resteranno dei capolavori come Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore.

L’infanzia, l’amicizia con Pasolini e l’esordio al cinema. Bernardo, figlio del poeta e critico letterario Attilio Bertolucci, nasce nel 1941 vicino a Parma, a pochi chilometri dalla casa dove abitò Giuseppe Verdi ma, all’età di 12 anni, si trasferisce con la famiglia a Roma. Del padre ricorda che, appena tornato dal vedere un film, chiamava il giornale e dettava allo stenografo la sua recensione per telefono “senza averla scritta prima. Dopo se la faceva rileggere e cambiava al massimo due parole”. A soli 15 anni gira i suoi primi cortometraggi con una 16 mm presa in prestito: La teleferica, storia di tre bambini che si perdono nella foresta, e Morte di un maiale, ambientato all’interno di un mattatoio. A Roma si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne (che lascerà ben presto) e nel 1962 vince il Premio Viareggio Opera Prima per il libro in versi In cerca del mistero ma il primo amore resta il cinema. In questi anni Bertolucci vive in via Carini, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Qui conosce un suo vicino di casa molto importante, Pier Paolo Pasolini, che lo introduce nel mondo della settima arte scegliendolo come assistente alla regia per la sua prima opera, Accattone. L’anno successivo è Bertolucci a dirigere il suo primo film, La commare secca, da un soggetto di Pasolini. Del 1964 è Prima della rivoluzione che anticipa chiaramente il ’68 e dove il protagonista è un giovane borghese iscritto al Partito comunista che si invaghisce di sua zia. Nel 1967 sarà chiamato da Sergio Leone come autore del capolavoro C’era una volta il west, mentre sei anni più tardi girerà Il conformista tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia con protagonista Jean-Louis Trintignant. Bertolucci, con questo film, vince il suo primo David di Donatello e riceve la prima nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

I primi successi, Ultimo tango a Parigi e Novecento. Il primo vero grande successo arriva nel 1972 con Ultimo tango a Parigi per la scena in cui Marlon Brando usa il burro per favorire una penetrazione anale in Maria Schneider. Bertolucci, a tal proposito, dopo la morte dell’attrice, rivelò: “L’idea è venuta a me e a Brando mentre facevamo colazione, seduti sulla moquette. A un certo punto lui ha cominciato a spalmare il burro su una baguette, subito ci siamo dati un’occhiata complice. Abbiamo deciso di non dire niente a Maria per avere una reazione più realistica, non di attrice ma di giovane donna. Lei piange, urla, si sente ferita. E in qualche modo è stata ferita perché non le avevo detto che ci sarebbe stata la scena di sodomia e questa ferita è stata utile al film”. Ma poi aggiunse: “La sua morte è arrivata prima che potessi riabbracciarla e chiederle scusa”. Il film ottiene un enorme successo al botteghino e viene premiato con un David di Donatello, un Nastro d’argento e una nomination all’Oscar, ma entra subito nel mirino della censura. Nel 1976 la magistratura ordina la distruzione della pellicola che solo nel 1987 riceve la riabilitazione. Un altro suo grande capolavoro è Novecento, un film con Robert De Niro, Stefania Sandrelli e Gerard Depardieu, in cui Bertolucci racconta la storia di una famiglia dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna fino alla Liberazione. “Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. Paese Sera, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare”, ricorderà in seguito Bertolucci che ringrazierà soltanto Walter Veltroni, all’epoca leader della Fgci, per averlo sostenuto. “Da allora, - dirà con rammarico - la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l’estremismo filocinese dell’estrema sinistra, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del Manifesto, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui”.

L’Ultimo Imperatore, l’apice del successo. Nel 1988 Bertolucci gira L’Ultimo Imperatore, un kolossal girato in Cina che ottiene un enorme riscontro sia di pubblico sia di critica. I premi vinti sono numerosissimi, soprattutto agli Oscar con 9 nomination ricevute e 9 statuette portate a casa, tra cui quelli come miglior regia e miglior sceneggiatura. Poi ci sono 9 David di Donatello, 4 Golden Globe, 4 Nastri d’Argento e 3 premi Bafta. Il film nasce per il grande amore per l’Oriente che Bertolucci scopre negli anni ’80 dopo aver girato vari Paesi come la Thailandia, il Giappone e la Cina. “Tempo dopo - racconterà in una delle sue tante interviste - il produttore Franco Giovalè mi diede da leggere il libro Da imperatore a cittadino, autobiografia presunta dell’ultimo imperatore cinese. Io avevo appena riletto La condizione umana di Malraux che si svolge nella Shangai del ’27. Con questi due progetti volai nell’84 in Cina: primo impatto con la città proibita, e da lì innamoramento assoluto". "Negli anni ’80 – aggiungerà - avevo deciso di allontanarmi da un’Italia che mi sembrava iniziasse a essere molto corrotta. La Cina è stata un altrove in cui ho amato perdermi, e subito dopo venne l’altrove del Sahara di Il tè nel deserto (1990 ndr), e l’altrove del buddismo e dell’India di Piccolo Buddha (1993). Questi tre film sono legati dal bisogno di evadere dalla realtà del mio paese che in quel momento non mi piaceva”.

Gli ultimi anni di vita. Prima dei gravi problemi di salute che lo costringeranno a passare gli ultimi anni della sua vita in sedia gira Io ballo da sola e L’assedio. Nel 2000, infatti, subisce una serie di interventi per un’ernia del disco e trascorre un intero anno a letto ma, alla fine, riesce a superare la grave depressione che lo aveva assalito. “Ho imparato ad accettare questa mia nuova condizione. Da allora è diventato tutto più facile. E ho ripreso a fare film. E ho capito che fare film è la sola terapia”, disse dopo aver girato The Dreamers (2003) e Io e te (2012). Bertolucci, nel 2014, gira un documentario a Trastevere per testimoniare come sia difficile per un disabile girare in una Capitale come Roma. "Questa - dice - è una città segnata come unfriendly per i portatori di handicap. Lo sanno tutti, tranne il Comune. Ma non mi meraviglio, fa parte della nostra cultura, non siamo storicamente attenti al mondo di chi non è autosufficiente, non ci sono leggi di garanzia, noi preferiamo una sorta di manutenzione per i disabili, che è una via d'uscita mediocre". Gli ultimi premi arrivano nel 2007 quando, a Venezia, riceve un super Leone d’oro, mentre nel 2011, a Cannes, gli viene consegnata la Palma d’oro alla carriera. Dal 2008 una “stella d’oro” "brilla" sul marciapiede delle star, la Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard di Los Angeles.

Il regista di provincia che vinse nove Oscar. Era forse il maggior talento visivo del cinema europeo. Quando lasciò il maoismo, arrivò il successo mondiale, scrive Claudio Siniscalchi, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Alla morte di Luchino Visconti, avvenuta nel 1976, un solo regista italiano poteva raccoglierne l'eredità: Bernardo Bertolucci. Certo si trattava di un figlio illegittimo. Ma comunque figlio, almeno per quattro ragioni: la polemica antiborghese, la raffinatezza estetica, la cultura aristocratica, il dichiararsi di sinistra. Di fatto dal 1943, anno di esordio con Ossessione, questo era stato Visconti: un antiborghese, un esteta, un aristocratico e un intellettuale di sinistra. Bertolucci, nato a Parma nel 1941, figlio del poeta Attilio, esordisce nella regia cinematografia all'ombra di Pier Paolo Pasolini con La comare secca (1962). Ma non è un tardo neorealista. Si muove nella cultura del proprio tempo. L'ispirazione non va a cercarla nelle borgate romane, ma nella Parigi della Nouvelle Vague, in particolare nella nervosa insofferenza del rivoluzionario Jean-Luc Godard. Anche per Bernardo un movimento di macchina è un affare dalle implicazioni morali. L'uscita di Prima della rivoluzione (1964) anticipa i tempi: il Sessantotto è alle porte, e Bertolucci ne incarna l'essenza intellettuale e cinematografica. Odia la borghesia, come Visconti, quella borghesia di cui sono stati entrambi figli minori, in quanto aristocratici. Occorre uccidere il padre. Ed ecco Partner (1968). La morte del Padre in tutti i sensi. Bertolucci segue ancora Godard. Come lui si è perfino infatuato del maoismo parigino. Bernardo è un esteta. Marx, Mao, la lotta di classe, la rivoluzione culturale. Va tutto bene. Però è roba che invecchia con rapidità. Ferraglia pesante. Bertolucci avverte l'esigenza di una svolta: il Sessantotto è stato uno sconquasso totale. Ma non sul piano politico. Sotto le lenzuola. Prende congedo dal «Mao pensiero» con un'opera di grande bellezza visiva e fascino inquietante: Il conformista (1970), tratto da un controverso romanzo di Moravia. Il vero punto di svolta della carriera di Bertolucci. Sullo sfondo c'è la Parigi livida dei tardi anni Trenta, all'epoca dell'assassinio dei fratelli Rosselli. Il senso della morte aleggia pesante, accanto a quello della dissoluzione sessuale. Bisogna un po' morire per poter rinascere. È il senso del film successivo, Strategia del ragno (1970). Un racconto di Borges sull'intreccio di finzione e realtà, eroismo e tradimento. E poi la sua terra. Romagnola, parmigiana. Spira ancora il vento della Resistenza. Ma è un refolo. E trasporta odori poco rassicuranti. Occorre ripartire. Destinazione Parigi. Lì Bertolucci sta per diventare il più noto regista italiano e una celebrità internazionale. Ha fra le mani una storia drammatica e incandescente. E un immenso attore: Marlon Brando. Gli serve solo una giovane attrice capace di mettere assieme attrazione fisica e ingenuità. La scova in Maria Schneider. Nasce Ultimo tango a Parigi (1972). È una bomba. Macché! È un'esplosione nucleare. Il film rompe ogni argine. Al botteghino tracima. La magistratura al soldo della Democrazia cristiana pensa alla ghigliottina. Anzi, un bel falò. Dopo che l'hanno visto tutti, ma proprio tutti, esce la bolla di scomunica. Mai più pubbliche proiezioni e negativo al rogo. Come se un film si potesse far sparire, bruciando il negativo italiano. E quello francese? E quello americano? Scemenza colossale. Ultimo tango a Parigi evidenzia la morte: del cinema di ieri e di oggi, della famiglia, del matrimonio, dei sentimenti, della coppia, dell'erotismo, dell'intimità. Lo sguardo di Bertolucci è angosciante, oscuro. La decadenza ci sta azzannando la giugulare. Ma nessuno lo capisce. Lo ritraggono come un pornografo. In realtà è un artista aristocratico e decadente, al quale non sfuggono i segni inquietanti dei tempi. Li cattura nella Parigi capitale della decadenza occidentale, quarant'anni in anticipo rispetto ai romanzi di Michel Houellebecq. Dopo essere stato Nietzsche, ponendosi «al di là del bene e del male», Bertolucci decide di diventare Spengler. Nasce così l'«opera totale», il fiume di immagini di Novecento (1976). Trecento sontuosi minuti con un solo drammatico limite: l'ideologia marxista. La rivoluzione si inceppa nella vuota retorica del fascismo male totale, nel fascismo degenerazione del capitalismo, nel fascismo pagato dagli agrari con la pelliccia per bastonare i contadini, nel fascismo vigliacco che non sa trovare la dignità della morte. Novecento però fuga ogni dubbio: Bertolucci è il regista esteticamente più dotato della sua generazione. Ma come proseguire? Ci prova con il piccolo La luna (1979) e con l'altrettanto piccolo Tragedia di un uomo ridicolo (1981). Poi capisce. Vira a Oriente e realizza il mastodontico L'ultimo imperatore (1987). Il figlio del poeta di Parma, l'amico del poeta dei ragazzi di vita, l'allievo di Godard stupisce tutti. E chi l'ha detto che un regista italiano non sappia misurarsi con Hollywood? Bertolucci dimostra che si può. Nove Oscar. Meglio ripeterlo: nove statuette dorate. L'ultimo imperatore è Il gattopardo di Visconti nell'poca della globalizzazione, quando ancora di globalizzazione non parlava nessuno. Cosa fare ancora? Niente. Il resto della filmografia di Bernardo Bertolucci è un riempitivo di lusso: il trascurabile Il tè nel deserto (1990), il più trascurabile Piccolo Buddha (1993), i più trascurabili ancora Io ballo da sola (1996) e L'assedio (1998). Un po' di freschezza sprizza nell'apertura de I sognatori (2003), rivisitazione del Sessantotto. Poi solo stanchezza, che si trascina in Io e te (2012). In conclusione si può affermare che in Bertolucci si riflette al meglio l'avventura italiana del secondo Novecento. Per diventare veramente grande - il più grande di tutti - Bertolucci avrebbe dovuto liberarsi dell'ossequio alla cultura dominante (fardello che neppure Visconti è stato capace di gettare alle ortiche). Dopo L'ultimo imperatore avrebbe dovuto girare di nuovo Novecento, senza bandiere rosse, senza vinti e vincitori, senza superiorità morali. Ma è un dettaglio. Bernardo Bertolucci è stato il maggior talento visivo del cinema europeo tardo novecentesco.

Bertolucci, l’ultimo tango si è spento. È morto ieri il grande regista Bernardo Bertolucci, aveva 77 anni e ha scritto tra le più belle pagine di cinema del 900. Con lui se ne va anche un’epoca fatta da grandi personaggi, grandi idee, grandi passioni, scrive Angela Azzaro il 27 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il Novecento non solo lo ha raccontato in uno dei più bei film della storia del cinema italiano, ma lo ha rappresentato, incarnato, vissuto, reso cinema. Bernardo Bertolucci, morto ieri all’età di 77 anni dopo una lunga malattia, era questo, è stato questo. E’ questo: lo spirito del Novecento, le sue spinte al cambiamento, le sue rivoluzioni, i suoi protagonisti e la sua immensa, soprattutto se guardata col senno dell’oggi, cultura, sensibilità, conoscenza. Sì, con Bertolucci si ha la sensazione che si chiuda in maniera definitiva, categorica, triste, la storia di un secolo che ha portato grandi trasformazioni, in cui si credeva, ci si credeva davvero, che la cultura potesse cambiare il destino della società e dei singoli. La sua vita è un film. Nato a Parma nel 1941, il padre è il famoso poeta Attilio, la cui passione per i versi contagia entrambi i figli, Giuseppe e Bernardo, anche quest’ultimo infatti esordisce con un libro di poesie. A vent’anni si reca a Parigi, la Nouvelle vague è appena esplosa e si fa contagiare da quel fervore che attraverso le immagini anticipa l’incedere del movimento studentesco. Godard, Truffaut, Chabrol lo dicono prima, lo dicono con forza: basta col cinema di papà, basta con la tradizione, vogliono la rivoluzione. Bertolucci li osserva, si fa contagiare. La sua strada è segnata. Ma, come tutta la sua carriera, la via non è lineare: è contorta, un su e giù continuo, uno sperimentare nella contraddizione. Il suo esordio avviene infatti nel segno di una sorta di “padre nobile”, anche se un padre speciale, unico: Pier Paolo Pasolini. Amico del padre, abitano nello stesso palazzo e Ppp lo sceglie per fare da assistente al suo primo film, L’accattone. Racconta Bernardo: «Gli dissi che non avevo mai fatto l’assistente e lui mi rispose che anche lui non aveva mai fatto il regista». Subito dopo c’è la prima volta dietro la macchina da presa: da un progetto sempre di Pasolini gira La Commare secca (1962), ma è con Prima della rivoluzione che dà il via, in maniera decisa, alla sua poetica in cui è centrale l’attenzione per la borghesia, i suoi compromessi, i suoi tabù, le sue speranze, le sue ipocrisie. Seguono Partner (1968), Strategia del ragno ( da Borges) e Il Conformista ( 1970) dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Prima di andare avanti con il racconto incredibile della sua carriera, fermiamoci un momento. Pensiamo a questo scorcio di secolo e di relazioni. Ci sono il papà Attilio, Pasolini, Moravia, Laura Morante, Laura Betti. E’ tutto un frullare di idee, passioni, contagi. Il cinema, più che mai, si trova al centro della sperimentazione di nuovi linguaggi. Ci sono Antonioni, Fellini, Bellocchio, i Taviani, Cavani, Ferreri. Ognuno con la sua poetica, ma con una caratteristica che li accomuna: la stessa temperie, la stessa voglia di usare lo schermo o la pagina di un libro per uscirne. Non è neorealismo, anzi è il suo superamento, è l’attenzione spostata sui soggetti, sulla dimensione umana e sociale, sull’urgenza di mettere in discussione tutto. La sera si va a cena insieme e si discute, si litiga. Nasce in questo contesto di rotture L’ultimo tango a Parigi. Il film esce nel 1972 ed è un successo. Con Marlon Brando, Maria Schneider, Jean Pierre Léaud, Massimo Girotti, è ambientato a Parigi ed è famoso e discusso ancora oggi per le scene di sesso. Il film viene censurato e sequestrato nel 1976, Bertolucci viene condannato per offesa al comune senso del pudore. Tornato nelle sale nel 1986, il film è diventato un caso dopo le accuse, confermate dallo stesso regista, di Maria Schneider. L’attrice ha infatti accusato Bertolucci e Brando di averla tenuta all’oscuro della scena di sesso più clamorosa e di aver subito per questo una violenza. Da quel momento l’opinione pubblica si è divisa: c’è chi considera il regista colpevole e L’ultimo tango a Parigi un brutto film e chi invece tende a separare i due piani. Il film più trasgressivo e per alcuni versi libertario del regista è diventato, secondo molti, l’emblema della violenza sulle donne, di un cinema sessista oggi travolto dalla battaglia del movimento # metoo. Ma è difficile per chi conosce e ama il cinema di Bertolucci chiuderlo nel ruolo di maschilista. Nel suo cinema c’è il cambiamento e in quel cambiamento anche i mutati rapporti uomo donna. Questa polemica arriva dopo. In quegli anni, anche se L’Ultimo tango a Parigi è stato censurato, Bertolucci è nel suo momento d’oro. Nel 1976 esce nella sale Novecento, un grande affresco che va dai primi anni di inizio secolo alla seconda guerra mondiale. Il cast è spettacolare. Ci sono Robert De Niro, Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda e gli italiani Stefania Sandrelli, Alida Valli, Laura Betti, Romolo Valli e Francesca Bertini. Due amici nascono lo stesso giorno: uno è figlio dei ricchi proprietari, l’altro è figlio illegittimo di una contadina. La loro amicizia fa da sfondo alla Storia: nel film ci sono la prima guerra mondiale, l’ascesa del fascismo, la seconda guerra mondiale, la lotta partigiana. Ma tutto questo è raccontato sempre attraverso lo sguardo dei protagonisti, attraverso la lotta degli ultimi. E’ famoso l’utilizzo, nei titoli di coda, del dipinto Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Prima di arrivare ai grandi successi da Oscar, vale la pena ricordare il film La Luna (1979) che racconta in maniera delicata ma coraggiosa un rapporto incestuoso madre figlio. Segue La tragedia di un uomo ridicolo (1981) con Ugo Tognazzi e nel 1987 arriva finalmente L’ultimo imperatore, un grande successo internazionale che gli fa vincere ben 9 premi Oscar, tra cui quello come miglior film e migliore regia. E’ l’unico regista italiano ad aver vinto questo riconoscimento. E’la fase delle grandi produzioni internazionali, film molto ben costruiti ma che perdono, nella loro perfezione, quella carica poetica tipica del cinema di Bertolucci. Nel 1990 esce Il tè nel deserto da un romanzo di Paul Bowles, nel 1993 Il piccolo Buddha con Keneau Reeves. La carica umana e linguistica degli inizi ritorna in parte nell’ultima fase con Io ballo da sola, L’assedio, The Dreamers – I sognatori, Io e te, l’ultimo film realizzato e uscito nel 2012. Sono anni di riconoscimenti (nel 2007 vince il Leone d’oro alla carriera, nel 2011 la Palma d’oro a Cannes sempre alla carriera), di incontri con gli studenti, di amarezze per le polemiche sull’Ultimo tango a Parigi. Anni di malattia e di vita appartata, di interviste, forse di tanti, troppi ricordi. Oggi che è andato via, ne restano tanti anche a noi, spettatori e spettatrici del suo cinema, ricordi legati ai suoi bellissimi film, alle discussioni e alle passioni che il cinema prima suscitava e oggi forse non suscita più. E’ la nostalgia per un cinema che rendeva vivo il sogno più bello, quello di chi credeva nella rivoluzione.

Urge salvacondotto per Bernardo Bertolucci, scrive Camillo Langone il 6 Dicembre 2016 su "Il Foglio". Papa Paolo III, grande mecenate e per giunta, prima di salire sul soglio di Pietro, vescovo di Parma, tu che concedesti un salvacondotto al pluriomicida Cellini dicendo che “gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere obbligati alle leggi”, aiutami a far ottenere analogo documento al nostro geniale concittadino Bernardo Bertolucci che, senza avere mai ucciso, ha forzato Maria Schneider sul set di “Ultimo tango a Parigi”. Suo padre, il poeta Attilio, era chiamato “il divino egoista”. E divinamente fu egoista il figlio su quel set epocale, quando in combutta con Marlon Brando escogitò un uso anomalo del burro senza avvisare l’attrice. (Io lo dico sempre ai miei eccellenti pittori: siate egoisti! Mettete la vostra arte davanti a ogni altro pensiero. Oppure segnalatemi il nome di un eminente artista che abbia dato priorità a mogli, figli, consuetudini, leggi…). Eccitate da nuove rivelazioni, dopo 44 anni le iene femministe si sono avventate sul vecchio regista esigendo censura e galera: Papa Paolo, il salvacondotto urge!

Ultimo Tango a Parigi – Bertolucci, Brando e l’uso improprio di Maria Schneider, scrive su Donne di Fatto il 20 settembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano" Lorella Zanardo, Autrice e blogger. “Sodomizzami!” implorava una fantastica Mariangela Melato ad un selvaggio e perplesso Giancarlo Giannini che sicuramente avrebbe gradito l’invito se avesse compreso il significato di quel termine. Il film di Lina Wertmueller “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” proponeva il naufragio su un’isola deserta di una ricca e viziata milanese con il mozzo della sua barca. E scoppiava la passione. Entrambi consenzienti si godevano l’isola deserta liberando i propri corpi. Beati loro. Negli ultimi giorni si è molto discusso intorno ad un’intervista rilasciata dal regista Bertolucci in cui racconta come la famosa scena in “L’Ultimo Tango a Parigi”, in cui Brando sodomizza Maria Schneider aiutandosi con un po’ di semplice burro che scatenò le fantasie italiche, non sarebbe stata concordata prima con l’attrice, tanto che questa serbò rancore al regista per tutta la sua breve vita. Marina Terragni ne ha fatto un post molto dibattuto, anche Loredana Lipperini ne ha scritto. Sulla rete trovate diverse opinioni. Il punto che mi pare importante discutere in modo divulgativo è se l’arte può giustificare la violenza. Un critico d’arte che conosco mi ha risposto infastidito “Sì, certo, l’arte giustifica tutto o quasi. Se Bertolucci avesse avvisato l’allora ventenne Schneider dell’intenzione di trasformare una scena che prevedeva un amplesso con una scena di sodomia, questa forse si sarebbe rifiutata o avrebbe “recitato”. Invece, attraverso il pianto dovuto alla sorpresa dell’attrice, abbiamo ottenuto un capolavoro”. Ah. Ma è proprio così? Non vorrei ci lanciassimo qui in una lapidazione del regista per la sua mancanza di totale di rispetto verso una persona. Credo questo sia evidente. Ma mi lascia basita la dichiarazione di Bertolucci che non considera che le attrici recitano, e che compito di un regista è dirigerle. Se così non fosse il cinema avrebbe seminato morti e feriti da decenni. Una guerra: meglio se ammazzi veramente, è più credibile. Un’amputazione in un film horror? Pure. E così via. Il mitico Actors’ Studio di New York si basa sul metodo Strasberg, un lungo training praticato da mostri sacri come Pacino, che prevede di sviluppare la capacità fisica mentale ed emotiva di far rivivere sullo schermo il personaggio che si sta interpretando. Non dunque rappresentarlo bensì “viverlo”. Funziona se si è bravi. E la storia del cinema è ricca di esempi di attori che “rivivono” in scena la vita di personaggi e storie reali. Anna Magnani è assolutamente credibile e giganteggia nel monologo L’Amore di Cocteau, ma non per forza per risultare credibile la scena di Anna doveva prevedere che lei realmente fosse state abbandonata dall’amante. A volte può accadere che un’attrice utilizzi la sua esperienza personale a scopi artistici, ma non è la norma. E dunque il problema è un altro. Bertolucci con molta probabilità, aveva scelto la giovanissima Schneider in base al suo aspetto fisico, e non alle sue doti artistiche, e dunque non riteneva che la giovane donna potesse “interpretare con verità” ciò che invece lui riteneva indispensabile. Che fare? La soluzione deve essere parsa facile sia al regista che a Brando: sorprendere Maria, non avvisandola delle loro intenzioni ed ottenendo così ciò che entrambi volevano. E’ dunque evidente come Schneider sia stata usata con violenza e senza rispetto. Però, è bene specificare, non in nome dell’arte. Per pigrizia forse. Per non dovere impiegare tempo a spiegare ciò che si voleva ottenere. Per noncuranza. Tutte motivazioni inaccettabili.

Non solo Bertolucci, da Hitchcock a Kubrick a von Trier: quando la crudeltà dei registi diventa arte. Il tira e molla etico attorno ad Ultimo tango a Parigi ricrea una sorta di atmosfera torbida sul set di quello che divenne comunque il secondo film più visto nella storia del cinema italiano con 15.632.773 spettatori; quando invece in fatto a crudeltà da set, nel dietro le quinte oltre la pellicola montata, possiamo annoverare ben altri “casi”, scrive Davide Turrini l'8 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “È consolante e desolante che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo”. Bernardo Bertolucci è tornato a parlare della scena di sesso, con burro, di Ultimo tango a Parigi qualche giorno fa. A far correre in rete alcuni tweet indignati di giovani e celebri star hollywoodiane – la regista Ava DuVernay, le attrici Anna Kendrick, Jessica Chastain e la protagonista di Westworld, Evan Rachel Wood – è stato un articolo di Elle dove si è recuperato un video del 2013 in cui il regista italiano raccontava la sequenza incriminata. Lui e Marlon Brando si erano accordati per girare la scena esplicita di sesso anale adoperando qualcosa che non era previsto in sceneggiatura: un panetto di burro. “Volevo che Maria sentisse la rabbia e l’umiliazione di quella scena”, racconta il maestro parmigiano nel video, “per questo non le ho detto cosa stava succedendo perché volevo la sua reazione da ragazza, non da attrice”. Il caso è montato online con la Chastain che parla di “violenza sessuale di un 48enne su una 19enne”; e una collega, Jenna Fischer chiede perfino il “rogo” per Ultimo tango a Parigi (ciò che peraltro avvenne il 29 gennaio ’76 su sentenza della Cassazione ndr). Bertolucci è intervenuto nelle scorse ore affermando: “Forse non sono stato chiaro. Ho deciso insieme a Marlon Brando, di non informare Maria che avremmo usato del burro. Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio. L’equivoco nasce qui. Qualcuno ha pensato, e pensa, che Maria non fosse stata informata della violenza su di lei. Falso! Maria sapeva tutto perché aveva letto la sceneggiatura, dove era tutto descritto. L’unica novità era l’idea del burro. È quello che, come ho saputo molti anni dopo, offese Maria, non la violenza che subisce nella scena e che era prevista nella sceneggiatura del film”.

Durante le riprese di Dancer in the dark nell’autunno 1999, dopo una recitazione martellante sequenze su sequenze, dodici ore al giorno, tutti i giorni per mesi, la cantante islandese Bjork non ne poté talmente più della presenza invasiva, frastornante, totalitaria di Von Trier, tanto da definirlo “un pornografo emozionale”, che all’improvviso senza dir nulla scomparve dal set. Alcuni emissari della produzione danese la ritrovarono dopo quattro giorni, ma fu necessario un contratto scritto con ciò che Lars poteva fare e cosa no per continuare le riprese del film. Soprattutto, e questo l’ha raccontato Bjork dopo qualche anno, Von Trier e i suoi non si potevano più permettere di ritoccare il tema del film, Selmasongs, composto dalla cantante. Von Trier accettò e il set si concluse. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2000.

La “verità estatica” cercata negli esterni, spazi realistici dei suoi film, da Werner Herzog è concetto noto. I limiti di questa titanica espressività sono riassunti nel blocco centrale di Fitzcarraldo (1982), quando centinaia di veri indios vennero ingaggiati per trasportare un’enorme nave, senza effetti speciali e mettendo a repentaglio la loro vita, oltre un’alta collina che collegava due fiumi. Si racconta che il crudele Werner fece costruire tre navi, di cui una da decine di tonnellate per farle valicare realmente l’imponente collina trascinata dalle comparse, grazie ad un argano progettato da un ingegnere francese che però prevedeva una pendenza solo di 20 gradi, e non di 40 come avvenne in realtà. La sequenza in cui la nave scivola sulle traversine di legno arrabattate sul set è vera. Alcune fonti dell’epoca parlano di due morti tra le comparse, ma di verificato ci sono soltanto, o comunque, diverse decine di feriti. Anche il rapporto tra Herzog e l’amato/odiato Klaus Kinskirivela l’intima crudeltà del regista tedesco nel portare all’esasperazione il realismo recitativo dei propri attori. Se Herzog fece rimanere per ore e giorni Kinski su una zattera in balia delle correnti in Aguirre furore di Dio (1972), le reazioni isteriche e folli di Kinski non si fecero attendere, come del resto era già successo in Fitzcarraldo. Reazioni talmente eclatanti che un manipolo di indios peruviani, comparse in Aguirre, si offrirono al regista per uccidere Kinski. Herzog ci pensò a lungo, almeno raccontano i suoi biografi, ma rispose di no. 

Questa notizia non è mai stata smentita dai diretti interessati, quindi la prendiamo per vera. Tippi Hedren oggi 86enne, attivista animalista, madre di Melanie Griffith, fu corteggiata apertamente da Alfred Hitchcock prima e durante l’inizio delle riprese de Gli Uccelli (1963). Il maestro del brivido era letteralmente “cotto” della Hedren, ma lei non si voleva concedere. Nella sua recente biografia l’attrice ha parlato di avances ripetute sulla limousine di Hitch, in qualche angolo buio del set, tentativi di baci e palpeggiamenti. Quando il regista capì che non ci sarebbe stato nulla da fare, scatenò l’inferno sottoponendo l’allora 33enne affascinante star ad un trattamento da denuncia culminato nella sequenza in cui la donna viene assalita in casa, davanti e dentro la camera da letto, da verissimi e beccuti uccelli, per ben cinque giorni di set. Risultato: una settimana di stop a curare una ferita profonda vicino all’occhio procurata da un terribile corvaccio.

La maniacalità kubrickiana per girare ogni scena è storia del cinema. Tantissimi i ciak per ogni singola inquadratura, spesso per un’intera giornata. Vittima illustre del perfezionismo di Kubrick fu sicuramente Shelley Duvall sul set di Shining (1980). Partiamo dalla durata monstre delle riprese in Inghilterra di un anno, con nove mesi di set filati per la Duvall e giornate intere a recitare le sequenze di pianto, fino alla celebre sequenza del colpo inferto a Jack Nicholson con la mazza da baseball. Ebbene documentaristi e biografi segnalano che quell’inquadratura venne ripetuta 127 volte. “Le recensioni del film, anche dopo anni, parlano solo della meticolosità e del lavoro di Kubrick, mai una volta che segnalavano il lavoro che ho fatto, nessuna parlava di me”, spiegò l’attrice che tornata negli Stati Uniti si curò per un forte esaurimento nervoso. 

Addio a Bernardo Bertolucci: le 3 colonne sonore cult dei suoi film. Da Ennio Morricone a Ryuichi Sakamoto, al leggendario sax di Gato Barbieri in Ultimo tango a Parigi, scrive Gianni Poglio il 26 novembre 2018 su "Panorama". Hanno avuto un ruolo importante, a volte fondamentale, le musiche scelte da Bernardo Bertolucci come commento musicale dei suoi film. Scorrendo la filmografia del grande regista ne abbiamo selezionate tre che sono passate alla storia. Della musica e del cinema. 

Ultimo tango a Parigi - 1972. Un match perfetto con le atmosfere della pellicola, il commento sonoro ideale per l'immaginario erotico messo in scena da Marlon Brando e Romy Schneider. Autore delle musiche fu il geniale sassofonista di origini argentine Gato Barbieri che per il tema principale della soundtrack ricevette una nomination ai Grammy Award. 

L'ultimo Imperatore - 1987. Un capolavoro premiato con il Premio Oscar nel 1988. Frutto di una straordinaria ed ispirata sintonia tra musica ed immagini. Per realizzare l'album vennero coinvolti tre geni della musica contemporanea: David Byrne (leader dei Talking Heads), il musicista giapponese Ryiuchi Sakamoto e il compositore cinese Cong Su. 

Novecento - 1976. Un film straordinario e una colonna sonora eccezionale. Un commento sonoro intesnso ed altamente cinematico realizzato da Ennio Morricone. Tra le perle, il suono avvolgente degli archi nei sei minuti di Apertura della caccia e le suggestioni sinfoniche che caratterizzano Tema di Ada.

Bertolucci, Michael Douglas e le contraddizioni del #MeToo. Alcune scene di sesso di "Ultimo tango a Parigi" forse non potrebbero essere fatte oggi. Ecco l'effetto boomerang del movimento femminista, scrive Simona Santoni il 29 novembre 2018 su "Panorama". Ultimo tango a Parigi è uno dei film più trasgressivi, amati e discussi di Bernardo Bertolucci, il regista di Parma e del mondo morto il 26 novembre. Storia di amplessi e seduzione tra sconosciuti, ma anche di libertà sessuale, la sua data di uscita è il 1972 e fu un successo: a tuttoggi è il film italiano più visto di tutti i tempi in Italia. È anche l'unico film italiano condannato al rogo, nel 1976 (furono salvate alcune copie conservate presso la Cineteca Nazionale). La riabilitazione dalla censura giunse nel 1987. Eppure, probabilmente oggi, 2018, nell'epoca del #MeToo, Ultimo tango a Parigi non potrebbe essere girato, così com’è. La prevaricazione fisica di Marlon Brando, quarantottenne e bolso, su Maria Schneider, diciannovenne di beltà ingenua, la famosa scena in cui le pratica la sodomia aiutandosi col burro, alzerebbe flutti di proteste sulla scia del movimento di matrice femminista, come già in parte è stato, con Bertolucci accusato di cinema maschilista, lesivo della dignità della donna. Non a caso l'associazione italiana Non una di meno, che riunisce diverse realtà femminili, invece di compiangere Bertolucci in questi giorni omaggia Maria Schneider. Su Twitter scrive: "Complicità tra maschi, sopraffazione fisica e psicologica, abuso di potere... la storia della scena di Ultimo tango a Parigi è quella di uno stupro. Oggi ricordiamo #MariaSchneider che rimase per sempre segnata da quella violenza. #BernardoBertolucci". Maria Schneider, infatti, trent'anni dopo l'uscita di Ultimo tango a Parigi in un'intervista accusò pesantemente sia Brando che Bertolucci: dichiarò di essersi sentita umiliata e abusata in quella sequenza, soprattutto per il particolare del burro di cui non era a conoscenza. Sulla sceneggiatura c'era tutto il resto, ma non la presenza del burro da usare come lubrificatore, che le sembrò svilente e la ferì indelebilmente (il sesso sul set fu ovviamente fittizio; ma a mortificarla fu quel particolare aggiunto al momento del ciak, che Bertolucci le omise perché voleva che avesse una reazione stupita e spontanea sul set). Bertolucci successivamente si scusò con Maria Schneider, anche se ammise che lo avrebbe rifatto: l'amore per l'arte sopra tutto?

Le accuse contro Michael Douglas. Nella scia di contraddizioni che si porta dietro il #MeToo c'è finita anche Catherine Zeta Jones. Suo marito Michael Douglas è stato accusato di molestie da una sua ex assistente, molestie risalenti a circa trent'anni fa, quando l'attore era all'apice del suo sex appeal e della popolarità: nel 1989, secondo l'assistente, si sarebbe masturbato davanti alla donna. Poi le accuse sono svaporate, ma la famiglia Douglas-Jones ha vissuto mesi critici. Al Times l'attrice gallese ora ha riportato tutta l'angoscia vissuta: "Io e i miei figli siamo stati devastati da quelle accuse. Ed ero spaccata in due su dove fosse la mia morale assoluta", ha raccontato. "Questa donna è emersa dal nulla e ha accusato mio marito. Ho avuto una conversazione molto aperta con lui, con i ragazzi nella stessa stanza, e gli ho chiesto se si rendeva conto se qualcos'altro poteva venire fuori…"

Ed ecco l'affondo al #MeToo: "(Michael) ci ha detto che non c'era nessuna storia e che il tempo avrebbe chiarito tutto. Così è stato. Nulla ha confermato le accuse. E per ogni accusa che non ha conferma, il movimento torna indietro di 20 anni".

Il boomerang del #MeToo. Sorto in seguito al vaso di Pandora aperto dalle denunce di molestie contro il potente produttore cinematografico Harvey Weinstein, il movimento #MeToo (traduzione: Anche io) prende il nome dall’hashtag usato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke. Premiato dal Time come "Persona dell'anno 2017", il movimento unisce le "silence breakers", le donne che hanno rotto il silenzio e denunciato le molestie subite negli anni sul posto di lavoro. Nel tempo però ha assunto sfumature contraddittorie. Si sono susseguite innumerevoli denunce, testimonianze difficili da fare, riportate a giornali e tv, ma spesso alcun accertamento in tribunale. Probabilmente è anche difficile dimostrare l'accadimento di fatti avvenuti per lo più molti anni prima. Intanto nel febbraio scorso Jill Messick, ex produttrice della Miramax che aveva lavorato nella società di Weinstein, si è suicidata: secondo i famigliari a spingerla al gesto estremo sono state le accuse di Rose McGowan (l'ex amica di Asia Argento paladina del #MeToo) di non essere stata solidale con le donne molestate e la conseguente gogna della stampa. Anche l'attore svedese Benny Fredriksson, ex capo del centro artistico Kulturhuset Stadsteatern di Stoccolma, a marzo si è suicidato dopo le accuse - alcune anonime - di molestie verso molte attrici; nessuna indagine ha provato la sua colpevolezza. La stessa Asia Argento, insieme alla McGowan voce forte del movimento, ha vissuto sulla sua pelle il boomerang del #MeToo: da presunta molestata è diventata presunta molestatrice. E ora si è sfilata dal gruppo femminista. Il rispetto delle donne, come degli uomini, della dignità umana in genere, va prima di tutto. E proprio in tal senso va anche il garantismo, che non dovrebbe essere calpestato. Lo si deve anche e proprio alla causa stessa delle donne veramente molestate, oltraggiate e schiacciate da un sistema di potere spesso in pantaloni. 

·         James Dean.

AMORI CHE BRUCIANO. Cristiano Sanna per "spettacoli.tiscali.it" il 3 ottobre 2019. Jimmie e Pier, il loro amore fragile e maledetto. Due strade che si incrociarono in maniera luminosa e al contempo oscura dentro quella Hollywood talmente "oltre" da apparire di un altro pianeta. Una Hollywood diversa da quella di oggi, resa più vicina al pubblico per effetto dei social. Pier Angeli, come amavano chiamarla all'estero (e così venderla meglio a produttori e registi) si chiamava Anna Maria Pierangeli, nata e cresciuta a Cagliari da famiglia marchigiana. Seducente e incostante ma irresistibile, esattamente come era suo padre Luigi, architetto, bella come era sua madre Enrica, tentata dalla carriera di attrice ma stroncata nella sua ambizione dal marito, una storia simile a quella che vide la giovanissima Sophia Loren denunciata come prostituta dal padre che non ne accettava le vittorie ai concorsi di bellezza e i ruoli per il grande schermo. Cresciuta fra le maceria della guerra e col trauma di aver visto, ancora bambina, un uomo ucciso di fronte a lei. Poi, l'incontro che le cambiò la vita. Per sempre.

"Posso guardarla?" La vita della quindicenne sarda Anna Maria Pierangeli cambia mentre cammina nella Via Veneto romana celebrata da tanti film e libri. Un signore elegante e attempato la nota e le dice: "Posso guardarla?". La trova perfetta per il suo nuovo film. Lui si chiama Vittorio De Sica e Anna Maria viene lanciata nel mondo del cinema. Ai tempi in cui Cinecittà rivaleggiava con Hollywood o ne era complementare.  Domani è troppo tardi uscì e fu immediato successo, talmente grande da far vincere alla debuttante Pierangeli il Nastro d'argento come migliore attrice, qualcosa di unico. Da lì a Hollywood il passo fu brevissimo, fu il grande Silvio D'Amico (fondatore poi della prestigiosa accademia per aspiranti attori) a segnalarla allo sceneggiatore americano Stewart Stern che ne rimase folgorato. Anna Maria non era una bellezza tutta porcellana come la Lollo, non aveva le grandi forme e la femminilità quasi animale della Loren, ma possedeva un garbo, una bellezza innocente e una luminosità speciali. Aveva solo 19 anni quando, nel 1951, venne presentato al pubblico il suo primo film americano, Teresa, diretto dal premio Oscar Fred Zinnemann. Hollywood era ai suoi piedi, i contratti si moltiplicavano: girò tra gli altri Calice d'argento e Lassù qualcuno mi ama con Paul Newman, sfiorò un Romeo e Giulietta con Marlon Brando, ebbe la nomination al Bafta per La tortura del silenzio. Nel 1954 l'incontro che la segnò per sempre. Il punto di non ritorno: James Dean.

L'amore folle tra due travolti dalla vita. Si è molto detto e scritto sulla relazione fra Anna Maria Pierangeli (diventata già la stella internazionale Pier Angeli) e James Dean. L'uomo che segnò l'immaginario di quella generazione e, da allora, di quelle che arrivarono dopo, pose e look che ancora vengono saccheggiati a piene mani da divi, divetti e pubblicità varie. Era l'estate del 1954 quando si incontrarono: lui era fragile e disadattato, amava le auto, la velocità, il rischio, lei era rimasta travolta da tutta quella fama improvvisa. Lui avrebbe voluto sposarla, fra una passeggiata sotto la Luna, una corsa insieme e una cena a lume di candela a Santa Monica. La famiglia di Anna Maria osteggiò quella unione in tutti i modi possibili. Si è molto parlato di questo amore, c'è chi lo ha ridimensionato, come la madre della Pierangeli, Enrica, e sua sorella gemella Marisa. Chi lo ha esaltato, come il regista Anton Corbjin che ha girato sulla vicenda il film Life, protagonista Alessandra Mastronardi, e come la scrittrice Jean Allen, autrice della ricca biografia dell'attrice Una vita fragile. Oriana Fallaci sottolineò in un magistrale articolo come lo strappo con Anna Maria avesse dato nuova furia autodistruttiva a Dean. Il 30 settembre del 1955 James Dean morì nello scontro frontale fra la sua Porsche e una Ford Custom Tudor coupé bianca e nera del 1950, guidata dallo studente ventitreenne Donald Gene Turnupseed. Non resse alle fratture e alla rottura del collo. Fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell'auto di Dean c'era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli.

Niente è più stato come prima. Lei dopo un flirt con Kirk Douglas sposò il cantante Vic Damone, padre di suo figlio Perry con cui poi fu divorzio e dura battaglia per l'affidamento del bambino. Cominciò la deriva. Il ritorno in Italia non migliorò le cose. La carriera cominciò ad andare a picco. Le storie d'amore con l'attore Maurizio Arena e il grande compositore (più anziano di lei) Armando Trovajoli non migliorarono le cose. Gli anni Sessanta trascorsero fra due matrimoni falliti, nuove guerre per la gestione dei figli, problemi col fisco, difficoltà economiche, ruoli cinematografici minori. Anna Maria Pierangeli era a pezzi, cadde in grave depressione e fu ricoverata in una clinica psichiatrica. Di quell'amore perduto per Dean, la cui morte la sconvolse per sempre, parlò a lungo. Alla madre Enrica disse: "Voleva che lo amassi incondizionatamente, l'ho amato come nessun altro, ma lui non era in grado di ricambiare quell'amore". Helena Sorell, grande coach di attori della Hollywood classica, sentenziò: "Erano incompatibili. Anna Maria amava sedurre e se non era al centro dell'attenzione si metteva a flirtare. Jimmy era capriccioso e irascibile". E a lungo si è parlato e scritto della sospettata omosessualità/bisessualità di lui. Ma dopo, niente è più stato come prima. Trovarono Anna Maria Pierangeli senza vita nella sua villa di Beverly Hills, per overdose di farmaci. Aveva 39 anni, era il settembre 1971, quindici anni dopo la scomparsa di Jimmy Dean. 

SPACCONE A CHI? Cesare Lanza per “la Verità” 9 giugno 2019. E chi l'avrebbe detto? Era un omosessuale succube, nella storia tormentatissima con Marlon Brando addirittura schiavizzato. Ebbe una relazione perfino con un sacerdote, ma anche una romanticissima e incompiuta storia d'amore con Anna Maria Pierangeli. La sua leggenda è legata al successo di tre soli film e alla morte che lo portò via giovanissimo, a soli 24 anni: a Cholame in California, il 30 settembre 1955 (era nato l' 8 febbraio 1931 a Marion, in Indiana). L'omosessualità di James Dean è esplosa pubblicamente soprattutto dopo l' uscita di due libri che sono andati al di là del suo mito, indagando senza tanti scrupoli nella sua vita privata. Sono quello di Joe Hyams, dal titolo James Dean: Little Boy Lost, e quello di Paul Alexander, Boulevard of Broken Dreams. Più affidabile è Hyams, che conobbe realmente Jimmy e forse ne fu lui stesso amante. La sua tesi è la bisessualità: Jimmy sarebbe entrato nel letto di molti uomini con dissoluta nonchalance, solo per necessità economica o per fare carriera. E da anziano benpensante aggiunge: «Jimmy aveva sufficiente senso religioso per convincersi che ciò che stava facendo era sbagliato». Diversa invece la tesi di Paul Alexander. Secondo lui Jimmy era completamente omosessuale, ma il peso della cultura, della morale e della religione dell' epoca lo tormentava a tal punto da renderlo depresso e nevrotico, dedito anche al gentil sesso nella ricerca di una identità eterosessuale più accettabile. Nel 1949, a 18 anni, Dean a Los Angeles viveva col padre e frequentava l'università. Qui fu cacciato dal dormitorio della comunità di Sigma Nu perché considerato omosessuale. Andò allora a vivere con l'amico e amante Bill Bast. Ebbe poi una relazione sessuale che lo portò a diventare il protetto di Clifton Webb, attore cinematografico di fama mondiale, che all' epoca aveva già cinquantotto anni. Secondo Alexander, Dean, dopo aver interpretato uno spot della Pepsi Cola, ebbe una liaison con Alfredo de La Vega, rampollo di una ricca famiglia californiana, e con un regista di film commerciali (di cui però non fa il nome). Sappiamo da Hyams che Jimmy per sopravvivere fu ingaggiato dalla rete televisiva Cbs come posteggiatore al parcheggio dei Vip. Il guardiano era l'attore disoccupato Ted Avery. Ted lo presentò a tutti i produttori e registi che arrivavano al parcheggio. Per l'opportunista e ambizioso Dean fu come vincere un terno al lotto: fu abbordato dall' omosessuale Roger Brackett, un pubblicitario e regista trentenne che lavorava per una grande agenzia di New York. Allora, come oggi, c'erano molti gay a Hollywood che occupavano importanti posizioni nell'ambiente cinematografico. Uno dei capi era il celebre Henry Willson, agente di Rock Hudson e di tanti altri «belli» dello schermo accondiscendenti ai suoi voleri. Non a caso Brackett portò Jimmy come magnifico «trofeo» da Willson. Qui Dean conobbe anche il press agent Dick Clayton, intimo dei sex symbol dell'epoca Tab Hunter e George Nader, entrambi omosessuali, entrambi grandi amici di Rock Hudson. Nel 1955 Rock Hudson (che cercava di sviare i sospetti sulla sua omosessualità) e James Dean si ritrovarono sul set de Il gigante, ma tra i due non ci furono rapporti facili. Furono giorni di riprese e di litigi nel caldo insopportabile del Texas finché, il 30 settembre, James Dean morì in un incidente stradale. Solo due notti prima, secondo i suoi implacabili biografi, Jimmy avrebbe fatto a pugni con un amante in un locale gay perché questi aveva alluso al fatto che l'attore si facesse fotografare in pubblico con attrici quali Ursula Andress o Terry Moore, per sviare i sospetti della stampa. Nell' estate del 1953, Dean incontrò per caso in un drugstore l' ex bambino prodigio Jonathan Gilmore. Fu Gilmore che per primo parlò pubblicamente delle tendenze omosessuali di Jimmy nel suo libro The Real James Dean. Nessuno gli credette e lo etichettarono come uno sporco profanatore di tombe. Sia Hyams che Alexander danno invece molto credito alle sue rivelazioni e ne riportano i punti salienti. Più giovane di qualche anno, Jonathan ebbe un rapporto intenso di ben tre mesi con Jimmy, molto di più di quanto la futura star hollywoodiana non concesse mai a qualsiasi donna. Sempre attraverso la biografia scritta da Paul Alexander: durante le riprese di Gioventù bruciata, James Dean condivise l'appartamento nel West Hollywood, nota area della colonia gay locale, con l'aspirante attore Jack Simmons. Erano inseparabili. Simmons lo guidò tra i locali gay della città, dove potevano circolare anche i travestiti. La storia più nota è quella con Marlon Brando. Marlon obbligava Dean a lunghe sessioni di sesso violento, lo bruciava con le sigarette e lo costringeva a guardarlo mentre faceva sesso con estranei. Brando non ricambiò mai l' amore di Dean, un «cucciolo di cane» che rimaneva ore e ore fuori dall' appartamento dell' amante, al freddo, sperando disperatamente di essere invitato a entrare. Marlon amava solo sé stesso, James ammise di esserne dominato; «Mi comandava sempre mentre facevamo l' amore». Hyams racconta che nel 1948 il giovane James Byron Dean era un idolo sportivo del suo liceo e scoprì di avere un effettivo talento per la recitazione, che lo fece diventare presidente della compagnia teatrale scolastica. All' epoca Jimmy iniziò a considerare il sacerdote De Weerd l'unico che capisse i suoi tormenti esistenziali. A lui confidò: «Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta e mio padre non m' avrebbe abbandonato». Durante la seconda guerra mondiale De Weerd era stato cappellano militare e dal fronte tornò con una medaglia al valore e con il petto pieno di cicatrici. Per Jimmy rappresentava tutto ciò che lui avrebbe voluto essere. De Weerd, non ancora quarantenne, era robusto e bello, con una risata allegra, occhi blu. La sua conversazione era brillante e ricca di consigli morali. I due cenavano al lume di candela con tovaglia di lino bianco e posate d' argento, ascoltando musica e parlando di poeti o filosofi. Un' atmosfera così elegante Jimmy non l' aveva mai vista se non nei film. Adottò il reverendo come figura paterna, iniziò ad amare le corride guardando i filmati che il pastore aveva girato durante i suoi viaggi in Messico. Spesso facevano lunghe corse per la regione con una decappottabile. Durante una di queste gite De Weerd raccontò a Jimmy della sua ferita di guerra e gli chiese se gli sarebbe piaciuto toccarla. Il contatto ravvicinato turbò e spaventò il ragazzo. In seguito, secondo la testimonianza di Hyams, nacquero intimità sempre più personali finché ci fu un legame che a Jimmy fu imposto di non rivelare mai: il ragazzo era stato sedotto da un uomo di Chiesa, molti sarebbero rimasti inorriditi. Oriana Fallaci scrisse: «Dean era la Sagan tradotta in americano, l' adolescente pazzo per noia romantica, più vicino all' europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano nei romanzi americani". E Ronald Reagan: «Quando lavoravo con lui in Tv, l' ho trovato un giovane attore intelligente che sembrava vivere solo per il suo lavoro.

Era timido, ma poteva tenere una buona conversazione su molti argomenti di ampio respiro». Illuminante ciò che Jimmy disse di sé: «Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai... Credo ci sia una sola forma di grandezza per l' uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand' uomo. Per me l' unico successo, l' unica grandezza, è l'immortalità». Era molto miope, non riusciva a leggere senza occhiali, Il suo libro preferito era Il piccolo principe. Soffriva tremendamente di insonnia. A volte Dean era anche spudorato, gli piacevano le provocazioni. Dichiarò che per evitare di essere reclutato per la guerra di Corea aveva baciato il medico di leva. Durante il film La valle dell' Eden gli fu imposto (da Kazan, il regista) di vivere assieme a Richard Davalos. Risultato? La tensione sessuale che i due trasmettevano era così incredibilmente vera che l' ultima scena del film fu tagliata perché giudicata troppo d' umore omosessuale. Una notte il giovane musicista Leonard Rosenmann, compositore delle colonne sonore di ben due film con Dean, dopo alcuni drink s' esibì in una fellatio con James, mentre questi guidava a tutta velocità la sua spider lungo Mulholland Drive. Sul set de La valle dell' Eden, giocò uno scherzo pesante al molto religioso Raymond Massey, impegnato nel ruolo di suo padre. Jimmy doveva declamargli la frase della Bibbia: «Dio è la mia guida, non andrò dove lo vieterà». Ma alla fine la trasformò in «Dio è la mia guida, non andrò a succhiar cazzi», causando un trambusto tale che le riprese furono interrotte per ore. Nel 1954 interpretò il ragazzo arabo in L' immoraliste di André Gide, notato sia dal pubblico sia dalla critica: vinse il premio David Blum come miglior attore esordiente. Anche il regista Elia Kazan ne rimane colpito, tanto da scritturarlo per La valle dell' Eden del 1955. «Jimmy era l' ideale, provava un profondo rancore per tutti i padri. Era vendicativo, soffriva di un senso di solitudine e di persecuzione», ha detto il regista per spiegare la scelta. Il successo arriva immediatamente, Jimmy è uno dei pochi attori a ricevere una nomination all' Oscar al suo primo film. Tre film di successo in un anno, milioni di giovani americani che si identificano in lui e nei suoi personaggi. Ma il 30 settembre 1955, verso le cinque del pomeriggio, sulla statale 446 per Salinas, una Plymouth nera gli taglia la strada mentre è a bordo della sua Porche Spyder. Dean morì a soli 24 anni in conseguenza dello scontro. È sepolto al Park Cemetery di Fairmount, in Indiana. L' unico vero amore della sua breve vita fu per la nostra attrice Anna Maria Pierangeli. Aveva deciso di sposarla, ma la madre di lei fece pressioni perché la loro relazione finisse, visto che Dean non era cattolico. Il giorno delle nozze della Pierangeli con Vic Damone, Jimmy rimase per tutta la durata della cerimonia in sella alla sua moto, davanti alla chiesa. Anna Maria morì suicida molti anni dopo e prima di togliersi la vita scrisse una lettera in cui dichiarò che James Dean era stato l'unico uomo da lei veramente amato.

·         Dieci anni senza Patrick Swayze.

Dieci anni senza Patrick Swayze, Demi Moore: "Equilibrio perfetto tra forza e tenerezza". Repubblica tv il 13 settembre 2019. Dieci anni senza Patrick Swayze. Sabato 14 settembre alle 21.15 Sky Arte (canale 120 e 400 di Sky) un omaggio all'attore di Dirty dancing e Ghost con il documentario I am Patrick Swayze diretto da Adrian Buitenhuis. Il film racconta il rapporto con la sua famiglia, ricostruisce la fatica e il lavoro che l’attore ha dovuto fare per scalare un successo tutt’altro che scontato, la sua capacità di scegliere negli anni ruoli sempre diversi in grado di renderlo un artista completo e duttile e la sua passione per la danza e le arti marziali. E poi la semplicità di un’artista che ha lottato contro i suoi demoni interiori e che alle luci della ribalta ha sempre preferito l’autenticità della vita del cowboy e la bellezza del suo ranch. Un ritratto autentico e personale dell’attore arricchito da tante esclusive interviste: la moglie Lisa Niemi, il fratello Don Swayze, la manager Kate Edwards, il regista Roland Joffe e i colleghi Sam Elliott, Jennifer Gray, C. Thomas Howell, Rob Lowe, Kelly Lynch, Demi Moore, Lori Petty e Marshall R. Teague.

·         Robin Williams, 5 anni senza.

Robin Williams: 5 anni fa moriva l’attore de «L’attimo fuggente». Pubblicato domenica, 11 agosto 2019 da Maria Luisa Agnese su Corriere.it. È il 1989 e un professore visionario e innamorato di Shakespeare sale in piedi sulla cattedra per ricordare a sé stesso e ai suoi giovani alunni che bisogna sempre guardare alle cose da angolazioni diverse. «È proprio quando pensate di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Salite su con me. Ci dovete provare, figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto. Non rassegnatevi. Osate cambiare. Cercate nuove strade». Il professor Keating, alias Robin Williams allertava i ragazzi a cogliere l’attimo fuggente, a coltivare i propri sogni, a mettere la propria vita su binari scelti in autonomia e non indicati da altri. Solo un altro visionario come Steve Jobs avrebbe bissato 16 anni dopo quell’emozione nelle menti degli studenti in un altro discorso altamente carismatico, questa volta non di un eroe letterario, ma di un manager in carne e ossa che sfidava i giovani accorsi a sentire la sua storia di successo con il suo Siate affamati, siate folli. Ci sono film che cambiano la vita di chi li fa e di chi li vede, e l’Attimo fuggente - ambientato dal regista Peter Weir in un cupo collegio del Vermont degli anni ‘50 - è uno di questi, anche se qualche critico saputello ai tempi ha voluto bollarlo come mieloso («Ero così commosso che alla fine volevo vomitare» ha scritto Roger Ebert). «C’era qualcosa che portava la persone oltre il film stesso», avvertiva invece da subito il suo interprete principale Robin Williams. «Avevo notato che c’era qualcosa nell’aria perché durante le riprese dell’ultima scena, quella in cui i ragazzi salgono sui banchi per salutare il professore, uno dei camionisti della troupe, uno pieno di tatuaggi, persino sulle palpebre, si era messo a piangere come un vitello», ha detto l’attore. L’Attimo fuggente parla di passione e creatività e, come raccontava Williams, contagiava le persone che avevano la fortuna di incontrarlo sulla loro strada. Anche tutta la lavorazione del film è stata un’esperienza coinvolgente e totalizzante, con i ragazzi coinvolti dal regista a vivere insieme e Robin che grazie alle sua lunga passione teatrale e alla gavetta nelle commedie stand up improvvisava almeno il 15% delle battute. Anche la celebrata sequenza su Shakespeare è stata suggerita e poi improvvisata da lui. «Lavorare con lui è stato meraviglioso» ha detto Weir il regista. «Credo che ogni artista debba avere un pizzico di insicurezza...». E Robin di insicurezze ne aveva tante. Nonostante la nascita in una solida e benestante famiglia di Chicago, i buoni studi e la precoce scoperta di un talento attoriale straordinario, è sempre stato tormentato da dubbi su di sé e le sue potenzialità, uno strano caso di scarsa autostima al maschile. Bipolare, vittima di alcool e droghe per lunghi periodi della vita, anche se pure nei momenti più bui non perdeva l’ironia e se ne usciva con battute alla Woody Allen: «La cocaina è il modo che Dio usa per dire che stai facendo troppi soldi». Per una specie di contrappasso al cinema ha spesso interpretato personaggi guida, professori, come quello de L’attimo fuggente o come lo psicologo di Genio ribelle che gli è valso l’Oscar. O ancora il “mammo per sempre” di Mrs. Doubtfire, che nel 1993 ha anticipato il filone dei nuovi padri, tutto giocato sul doppio binario della comicità pop e dell’intensità interpretativa, e dove il dolore di Williams rimane nel cuore. «Capita nella vita, di essere bravi insegnanti, anche se a me accade più spesso sullo schermo, ma di non saper poi scegliere per sé stessi la strada giusta», ha raccontato nel 2004 a Giovanna Grassi, parlando sul Corriere delle sue dipendenze e dei suoi demoni di attore e di uomo. Anche se allora stava ancora ufficialmente bene. Poi è venuta la diagnosi del morbo di Parkinson e di altre malattie neurodegenerative. E poco dopo, nell’agosto 2014, Robin se n’è andato, forse suicida, forse piegato dalla sua infelicità di comico triste.

Robin Williams. 5 anni senza e 5 suoi segreti (vedi l’ultima folle notte con John Belushi). Cinque curiosità su Robin Williams, che deve tutto a «Star Wars» senza avervi mai recitato. Pubblicato domenica, 11 agosto 2019 da Alessio Lana su Corriere.it. È stato uno dei più grandi attori degli ultimi anni, un uomo fragile, complesso, capace di far ridere e piangere allo stesso modo. Robin Williams è scomparso ormai cinque anni fa e oggi viene celebrato con una programmazione a tema su Sky Cinema 2, Canale 5 e La7, mentre qualche tempo fa un documentario ha messo in luce alcune curiosità sulla sua vita. Presentato in anteprima al Sundance e andato in onda negli Stati Uniti, Robin Williams: Come Inside My Mind, è un film che miscela interviste a celebrità come Steve Martin e Billy Cristal (nella foto con williams) a foto d’archivio, riflessioni sulla fragile personalità del protagonista di Mork & Mindy, Good Morning, Vietnam e Will Hunting – Genio ribelle a spezzoni di irrefrenabile ilarità. Lungo 120 minuti, la regista Marina Zenovich riesce a raccontare anche alcuni aspetti poco conosciuti dell’attore nato a Chicago nel 1951 che pose fine alla sua vita nel 2014 spinto forse da una malattia degenerativa che gli era stata diagnosticata poco tempo prima. Una prima curiosità è di natura tecnica. Vista l’esuberante personalità di Williams, durante le riprese della serie comica Mork & Mindy fu aggiunta una quarta telecamera alle classiche tre che si usavano per le sitcom. Nell’estasi creativa infatti l’attore non riusciva a fermarsi nei punti designati, improvvisava continuamente e i cameramen non riuscivano a seguirlo perdendo spesso i suoi sketch. Per questo fu inserita una quarta telecamera solo per lui, che lo inquadrava continuamente senza lasciarlo mai. Da quel momento in poi quattro telecamere divennero lo standard per ogni sitcom. È stato uno dei più grandi attori degli ultimi anni, un uomo fragile, complesso, capace di far ridere e piangere allo stesso modo. Robin Williams è scomparso ormai cinque anni fa e qualche tempo fa un documentario ha messo in luce alcune curiosità sulla sua vita. Presentato in anteprima al Sundance e andato in onda negli Stati Uniti, Robin Williams: Come Inside My Mind, è un film che miscela interviste a celebrità come Steve Martin e Billy Cristal (nella foto con williams) a foto d’archivio, riflessioni sulla fragile personalità del protagonista di Mork & Mindy, Good Morning, Vietnam e Will Hunting – Genio ribelle a spezzoni di irrefrenabile ilarità. Lungo 120 minuti, la regista Marina Zenovich riesce a raccontare anche alcuni aspetti poco conosciuti dell’attore nato a Chicago nel 1951 che pose fine alla sua vita nel 2014 spinto forse da una malattia degenerativa che gli era stata diagnosticata poco tempo prima. Una prima curiosità è di natura tecnica. Vista l’esuberante personalità di Williams, durante le riprese della serie comica Mork & Mindyfu aggiunta una quarta telecamera alle classiche tre che si usavano per le sitcom. Nell’estasi creativa infatti l’attore non riusciva a fermarsi nei punti designati, improvvisava continuamente e i cameramen non riuscivano a seguirlo perdendo spesso i suoi sketch. Per questo fu inserita una quarta telecamera solo per lui, che lo inquadrava continuamente senza lasciarlo mai. Da quel momento in poi quattro telecamere divennero lo standard per ogni sitcom.

Robin Williams, 5 anni senza: 5 film belli per ricordarlo. L'11 agosto 2014 l'attore ci lasciava in maniera tragica. Lo riviviamo in 5 interpretazioni emozionanti. Simona Santoni il 9 agosto 2019 su Panorama. Cinque anni fa, l'11 agosto 2014, Robin Williams ci lasciava in maniera tragica, a 63 anni. Abituati al suo sorriso prodigo e contagioso e alla sua comicità briosa e fisica, il suo suicidio è stato uno shock. Oggi lo ricordiamo con cinque film da vedere o rivedere e altrettante battute pronunciate dai suoi personaggi.

1) Will Hunting - Genio ribelle (1997) di Gus Van Sant. Robin Williams interpreta l'illuminante psicologo Sean Maguire che instaura un bel rapporto profondo e franco con Will Hunting, il ragazzo prodigio incarnato da Matt Damon, talento sregolato che ha non pochi problemi nelle relazioni con gli altri. Tra i due dialoghi intensi. Oscar a Williams come attore non protagonista e Oscar alla sceneggiatura scritta dallo stesso Damon insieme all'amico Ben Affleck. Maguire a Will: "Non sai cos'è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami qualcosa più di te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto".

2) Insomnia (2002) di Christopher Nolan. Remake dell'omonimo film norvegese di Erik Skjoldbjærg del 1997, vede accanto Robin Williams e Al Pacino in un dramma psicologico ad alta tensione. Pacino è il detective Dormer, inviato in una cittadina dell'Alaska per indagare sull'omocidio di una ragazza. Williams si diverte nei panni del cattivo, lo scrittore locale Walter Finch, adorato dalla vittima, personaggio ambiguo che sembra tenere il poliziotto in pugno e lo tormenta nelle reciproche notti insonni. C'è anche una Hilary Swank ventottenne. Finch a Dormer: "Per me questo è il momento peggiore della notte. Troppo tardi per ieri, troppo presto per domani".

3) Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson. Uno dei regali cinematografici più fulgenti lasciatici da Robin Williams. In un film dal giusto mix di commedia e dramma, l'attore statunitense interpreta Adrian Cronauer, aviere e disc jockey dell'Aviazione degli Stati Uniti d'America insediata a Saigon, durante la guerra del Vietnam. È cult il refrain "Good Morning, Vietnam" con cui apre con vivacità il suo programma radio. La sua irreverenza lo fa amare dai soldati, ma attira i malumori dei superiori. Cronauer: "Il clima nella zona è oggi caldo e merdoso e continuerà a essere caldo e merdeggiante nel pomeriggio. Domani caccosità intermittente alternate a pisciatine di provenienza nordica e farà più caldo che nel culo di una vacca sacra a Calcutta".

4) L'attimo fuggente (1989) di Peter Weir. Film cult, con Robin Williams altamente ispirato nei panni del professore John Keating, il "capitano, mio capitano" che sprona i suoi alunni a seguire la propria strada, con coraggio, distinguendosi dagli altri. A bere con sete forsennata i suoi insegnamenti controcorrente c'è lo studente interpretato da un giovanissimo Ethan Hawke. John Keating: "Carpe diem, cogliete l'attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita".

5) La leggenda del re pescatore (1991) di Terry Gilliam. Una miscela bizzarra ma coinvolgente di dramma, commedia e fantasy. L'universo tipicamente fuori dal normale di Terry Gilliam si amalgama bene alle interpretazioni emozionanti di Robin Williams e Jeff Bridges, uno nei panni di Parry, un senzatetto intelligente ma allucinato, l'altro in quelli di Jack, ex deejay disperato.  Nel cast anche Amanda Plummer, che è Lydia, la giovane di cui è innamorato Parry.  Parry a Lydia: "Io ti desidero: il mio desiderio è così grande che sembra la Florida".

Ecco cosa ha ucciso (davvero) Robin Williams. La biografia scritta da Dave Itzkoff racconta gli ultimi giorni di vita del Peter Pan che non ha mai voluto abbandonare l'Isola che non c'è. Barbara Massaro l'11 maggio 2018. Il momento più difficile, nella vita di un attore, è quando le luci della ribalta si spengono e lui, ancora sudato e con l'eco degli applausi del pubblico nelle orecchie, si trova da solo davanti allo specchio. E' quello il momento in cui deve togliersi il trucco e tornare a essere l'uomo dietro la maschera.

Il dramma dell'attore. Robin Williams quel momento l'ha sempre negato, incapace di trovarsi faccia a faccia con se stesso. Chi lo ha conosciuto ricorda quanto fosse difficile avere una conversazione seria con lui, quanto i suoi mille volti esplodessero in un fracasso di creatività ogni volta che il guizzo del guitto s'impossessava di lui. Quando però la malattia ha ucciso il fool shakespeariano che c'era in lui è rimasto l'eroe tragico che non ha retto al peso del suo destino. E' un quadro drammatico quello che emerge dalle pagine della biografia di Robin William in uscita in Italia il 18 maggio, scritta da Dave Itzkoff che cita testimonianze di amici, colleghi e della terza moglie dell'attore morto suicida nel 2014.

Cosa rivela la nuova biografia. Tutti riferiscono di un Robin triste, depresso, incapace di accettare gli effetti della malattia che lo aveva colpito. "Ogni fine giornata, singhiozzava tra le mie braccia. È stato orribile", afferma nel libro la truccatrice Cheri Mins sul set di Una notte al museo 3 con Williams "Non avevo la capacità per affrontare ciò che gli stava accadendo", ha aggiunto. Secondo quanto riporta il libro Robin soffriva della demenza a corpi di Lewy, una forma invalidante di degrado della corteccia cerebrale che ha come sintomi fluttuazioni delle capacità cognitive e dello stato di vigilanza, tremori, disturbi del movimento, allucinazioni visive, disturbi del sonno, disturbi dell'umore (depressione) e altri sintomi neuropsichiatrici (delirio, paranoia, ansia, panico). 

La testimonianza della moglie. La terza moglie dell'attore, Susan Schneider ricorda gli ultimi giorni di vita di Robin e riferisce: "Aveva un'andatura lenta e strascinata. Odiava non riuscire a trovare le parole, quando conversava. A volte si bloccava in una posizione, incapace di muoversi: la cosa lo frustrava. Iniziava ad avere problemi di vista, non riusciva a valutare distanza a profondità. Era sempre confuso. Ho pensato: mio marito è ipocondriaco? Abbiamo indagato e provato qualsiasi cosa, ma non cerano risposte". Aver perso il controllo dello stesso strumento con cui aveva incantato milioni di persone nel corso di una carriera brillante è stato quello che Williams non è stato capace di accettare. 

Cos'é la demenza a corpi di Lewy. La demenza a corpi di Lewy è meno diffusa della sindrome di Alzheimer, ma colpisce almeno il 10-15% delle persone affette da demenza nel mondo. Solitamente insorge in pazienti di età superiore ai sessant'anni e sebbene una cura risolutiva non esista ancora, se diagnosticata in tempo, la patologia può essere trattata con gli psicofarmaci. Per Robin, però, tutto questo non aveva più senso perché prima che la sua stessa mano uccidesse l'uomo la malattia gli aveva portato via il personaggio e per lui che davanti allo specchio proprio non ci sapeva stare è stato un dolore troppo grande per poterlo affrontare in questa vita.

·         Sergio Leone: “…Uno stronzo!” 

SERGIO LEONE. “CLINT EASTWOOD LO CONSIDERAVA UNO STRONZO”. Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo per "Il fatto Quotidiano"  il 27 aprile 2019. Sul set insieme, Cinecittà o la Spagna, anche mesi senza discontinuità nel ciak ("Era un perfezionista mai contento"); le lunghe stesure dei copioni, le battute limate, le litigate non si evitavano ("spesso ci mandavamo a quel paese. Che caratteraccio"), così come il ritrovarsi e via con un nuovo progetto insieme, e via ancora con un altro pezzo di storia del cinema. Sergio Leone è cinema ("il suo ambiente, era perfetto solo sul set"). Il 28 aprile sono trent' anni dalla sua morte, e Sergio Donati è lo storico sceneggiatore dei suoi capolavori western. E come lui lo conoscono in pochi.

Come arriva a Leone?

«A 22 anni ero già riuscito a pubblicare tre romanzi come Gialli Mondadori e grazie al direttore di allora, quel fenomeno di Alberto Tedeschi».

Perché i gialli?

«Era l' argomento più semplice, meno rischioso, e andò bene tanto che sono stati acquistati all' estero. Insomma, dei piccoli successi editoriali. Quindi Dopo il terzo mi cerca Sergio Leone, due chiacchiere al telefono, poi fissiamo un appuntamento. "Te devo parlà di un proggetto"».

Western?

«No. Mi illustra l' idea di un thriller ambientato sulle montagne del Sestriere. Lo ascolto. Prendo appunti. Ci salutiamo e dopo una decina di giorni mi presento con un soggetto di una ventina di pagine».

Immediato.

«Non ho mai impiegato molto, per C' era una volta il west sono bastati venti giorni».

Torniamo all' incontro.

«Lo legge. Alza gli occhi, mi guarda e segna la strada: "Bravo, mi piace, ma tutta la parte che si svolge nella sperduta baita di montagna in realtà va ambientata in questo albergo del Sestriere". Scusa, e perché? "Il proprietario della struttura mette i soldi, e magari durante le riprese si vuole scopare pure qualche attrice"».

Uomo pratico.

«Assolutamente! Lui puntava diritto all' obiettivo, e non solo con la macchina da presa: se aveva un' idea, non si fermava, annusava la direzione da prendere e non mollava mai.

La sua reazione?

«Mi prende un colpo, dentro di me penso: "Oddio, ma è questo il cinema?". Così saluto inorridito, e decido di abbandonare il sogno, e di puntare sulla pubblicità: entro in una grande società di Milano. E lì costruisco un' ottima carriera».

Fino a quando?

«Anni dopo squilla il telefono, era Sergio: "Ma che cazzo stai a fa' al Nord?". Lavoro. "Ma che è un lavoro? Lascia perdere, sto realizzando un film, però non mi convince, ho bisogno di un tuo trattamento"».

Cede.

«Torno a Roma a spese sue e mi affida la revisione prima di Per qualche dollaro in più e poi del Il Buono, il Brutto e il Cattivo; in particolare quest' ultimo era più lungo di mezz' ora, allora lo taglio e rimonto».

Ufficialmente non lo ha firmato.

«No, solo Age, Scarpelli e Vincenzoni».

Il suo rapporto con Leone?

«Grande stima ma caratteri molto diversi, a volte inconciliabili, ancora oggi a volte mi stupisco di come siamo riusciti a concludere insieme così tanti film».

Com' era Leone?

«Un talento smisurato, un fenomeno, uno che già prima di iniziare le riprese aveva chiarissimo il prodotto finale e sapeva conquistarsi il suo sogno, con ogni mezzo. Poi a questo associava un carattere difficile, molto egocentrico».

Arriva a Roma.

«Lo incontro e esordisce con tutta la sua sicurezza, di modi e parole: "Sto a fa' un film gajardo. Un western". Un western in Italia? "Sì, fidate". Leggo la sceneggiatura ed era identica a un lungometraggio di Kurosawa (La sfida dei samurai del 1961)».

Lo ha detto?

«Certo, e la sua risposta è stata: "Tranquillo, se questo film arriva a Caltanissetta, è già un miracolo. Non se ne accorgerà nessuno"».

Previsione perfetta.

«Non aveva tutti i torti, prevedere quel successo era quasi impossibile, e poi il budget assolutamente limitato, anzi bassissimo, per questo presero Clint Eastwood, invece di Cliff Robertson, enormemente più caro: "Non ce lo possiamo permettere", mi disse Sergio».

Tra Leone ed Eastwood?

«Nessuna cordialità, Clint stava sempre da una parte, sempre per cacchi suoi, era un po' ombroso come nei film; e anni dopo non perdonò a Sergio la storica battuta su di lui: "Eastwood ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza"».

Feroce.

«Sergio non lo stimava, lo definiva uno "stronzo" o un "manichino" in grado solo di eseguire le indicazioni, e anche io non credevo molto nelle sue qualità; mi sono stupito della grande carriera da regista».

Ma Leone era geloso di Eastwood?

«Lo considerava una sua creazione, e si incazzò moltissimo quando per Il Buono, il Brutto e il Cattivo pretese un cachet da vera star hollywoodiana; per Sergio fu un affronto personale: "L' ho creato io e questo si permette pure di rompere"».

Però ha ceduto.

«Per forza, era obbligato dalle major statunitensi, ma con un piccola vendetta: non poteva più ridurre la sua parte, il copione oramai era stato approvato, quindi nel film lasciò amplissimo spazio alle controscene di mimica e smorfie del grande Eli Wallach».

Eastwood l' avrà presa bene.

«Anche Clint pensava di aver contribuito alla fortuna di Sergio, almeno in questo erano d' accordo, solo da lati opposti.

"C' era una volta il west". (Si alza dalla sedia ed estrae un tomo enorme). È la stesura originale».

Proprio lei.

«Prima di iniziare le riprese dissi a Sergio: "Occhio che è troppo lungo". E lui: "Non ti preoccupare, alcune scene le giro più brevi". Impossibile, pensai».

Impossibile in assoluto o per uno come Leone?

«Tutte e due, forse più per lo stile di Sergio. Comunque dopo poco tempo mi chiama agitato: "Per favore vieni qui in Spagna, in Almeria, c' è da tagliare". Quindi ho caricato in macchina moglie, figlio di tre anni e baby sitter e siamo rimasti lì per oltre un mese.

Un mese, come.

«Di lavoro folle e bello, di solite discussioni su come e dove tagliare, sulle battute, di rapporti con gli attori. In particolare, con Ricordo benissimo Charles Bronson, mi inseguiva per studiare insieme, "voglio capire bene la parte", mi diceva».

Non era così?

«Ogni tanto provava a correggere qualcosa, e a un certo punto un accenno di fastidio lo ho anche dimostrato, della serie "io sono lo sceneggiatore e tu l' attore"; poi all' improvviso ho capito: all' improvviso ho capito che il suo problema erano le parole con la "esse", aveva la classica zeppola».

Però non lo diceva.

«Fingeva di no, così quando gli ho rivelato la mia scoperta, si è rabbuiato, come se lo avessi offeso. Avevo sottovalutato il suo complesso nel particolare e nel generale».

Nel generale?

«In mezzo a un cast di fenomeni si sentiva una mezza cartuccia, per questo si atteggiava».

Henry Fonda.

«Con lui Sergio mi ha fatto morire».

Cosa ha combinato?

«Fonda era un vecchiotto».

No!

«Prima della Spagna la preparazione è stata realizzata a Cinecittà. Un giorno attendiamo proprio Fonda, con un po' di emozione, almeno da parte mia. A un certo punto arriva una macchina della produzione, si ferma a due metri da noi, e scende la signora Fonda con al polso due orologi, uno con l' ora italiana, l' altro con quella statunitense; dopo un paio di secondi si apre l' altro sportello e ci troviamo di fronte un vecchietto malmesso».

Fonda.

«Sergio assiste alla scena e va in crisi, bestemmia: "Che ce famo co' questo?". Tentiamo di calmarlo, macché, non sentiva nessuno. Per fortuna ascolta il direttore di produzione: "A Se', aspetta, non è come appare". Allora porta Fonda nel camerino e gli dà il costume di scena. Lui si veste. E alla fine ci raggiunge sul set tutta un' altra persona: era Henry Fonda. E il bello è che seguiva entusiasta tutte le indicazioni di Sergio, non protestava mai».

Magia del cinema.

«Fuori dal ciak tornava il vecchietto che dicevo prima, e il pomeriggio lo passava accanto a mio figlio per vedere i cartoni animati. Un pensionato. Sergio scuoteva la testa, non poteva crederci».

Il rapporto degli attori con Leone?

«Lo rispettavano, anzi lo temevano, perché Sergio sapeva girare, sapeva comunicare, era uno nato sul set e che viveva di set; non dimentichiamoci che era figlio di un regista e di un' attrice. Nato sul set Pane e cinema, e si vedeva dalla sicurezza; certi atteggiamenti sono innati, non si acquisiscono ma si possono solo perfezionare con il passare del tempo. Tra i suoi attori anche Mario Brega Insieme erano due di Trastevere, parlavano la stessa lingua, la ricerca ossessiva del popolare, quando il cinismo e l' ironia si inseguivano, e per Brega il confine tra legale e illegale non sempre veniva rispettato».

In "C' era una volta il west" c' è una battuta rivolta alla Cardinale che oggi verrebbe giudicata sessista. "Se qualcuno ti tocca il sedere, tu fai finta di nulla".

«(Scoppia a ridere). Davvero la trovate sessista? Sergio era un po' maschilista, e la Cardinale con lui spesso si ritrovava smarrita perché massacrata dai ripetuti ciak, anche 35 per una scena sola».

35 sono tanti.

«Era così in assoluto, un perfezionista, non si accontentava, e gli altri zitti. Lui era il padrone e il produttore; per questo non aveva rapporti affettuosi con gli attori».

E tra di voi?

«Alla fine ci limitavamo sempre e solo al set, un po' per evitare discussioni e un po' perché gran parte della nostra vita era lì. Ah, si scocciava per l' età Cioè? Sergio aveva solo quattro anni più di me, ma quando uscivamo insieme, magari negli Stati Uniti, ci scambiavano per padre e figlio e lui sistematicamente si incazzava».

Tra Leone e Verdone?

«Li ho presentati io: una sera vado in un teatrino vicino a San Pietro e assisto allo spettacolo di un giovane comico. Il giorno dopo chiamo Sergio: "Devi vedere questo ragazzo, bravissimo". E da lì sono partiti».

Con lui il legame c' era realmente?

«Credo di sì, con lui sì. E poi Carlo è una persona rara per carattere e talento».

Insomma, tra di voi.

«Dopo Giù la testa avevamo molti progetti insieme, ma lui cercava sempre il capolavoro, era ossessionato. Per questo a un certo punto ci siamo allontanati, ho deciso di guardare altrove».

Litigavate.

«Ci sfanculavamo».

Attualmente lei vive quasi solo negli Stati Uniti. Lì com' è valutato Leone?

«Attenzione: bisogna saper scindere il giudizio umano da quello professionale e Sergio è uno dei grandissimi del cinema, anche oltreoceano lo sanno, e lo giudicano giustamente un maestro da studiare».

Insieme dovevate anche realizzare un film sull' assedio di Leningrado.

«Eccome! Per questo motivo una sera usciamo con un regista russo molto importante, alla fine degli anni Cinquanta aveva girato Quando volano le cicogne (Mikhail Kalatozov). Durante la cena Sergio chiede del film, il russo tutto soddisfatto replica: "Davvero lo ha visto?". "Certo, e ho apprezzato molto i grandi scenari, le prospettive ampie". A quel punto cala il silenzio. E il russo freddamente risponde: "In realtà è girato e ambientato in due stradine". Insomma, non lo aveva visto, bluffava».

Bugiardo?

«Diciamo creativo, si ingegnava per arrivare a meta. Ma il cinema vero è anche questo».

Un aggettivo per Leone?

«Leone (Perché "quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto")»

C’ERA UNA VOLTA SERGIO LEONE. Gloria Satta per “il Messaggero” il 30 aprile 2019. «È il più bel regalo che potessimo fare a papà, il modo migliore per celebrarlo nell' anno del doppio anniversario: i 30 anni della morte e i 90 della nascita», dice Raffaella Leone, la figlia produttrice (in tandem con il fratello Andrea) del grande Sergio che il 30 aprile 1989 se ne andava ad appena sessant' anni, dopo aver consegnato alla storia del cinema sette film rimasti mitici: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il Buono il Brutto il Cattivo, C' era una volta il West, Giù la testa, C' era una volta in America. E il regalo di cui parla Raffaella è Colt, il western concepito dal regista e mai realizzato: a Cannes, in pieno Festival (14-25 maggio), verrà annunciato al mondo che il film finalmente si fa, finanziato da capitali internazionali, dopo anni di tentativi andati a vuoto, entusiasmi, ostacoli, speranze. Protagonista è una pistola che passa di mano in mano e dietro la cinepresa ci sarà Stefano Sollima, anche sceneggiatore con Luca Infascelli, Massimo Guadioso e un professionista americano. «Papà ebbe l' idea di Colt molti anni prima di morire, quando noi figli eravamo ancora piccoli», rivela Raffaella, «e a dire la verità non voleva farne un film: molto in anticipo sui tempi, pensava ad una serie tv». Perché proprio Sollima? «È l' erede di Sergio. Ha il suo stesso gusto del racconto epico e concepisce il cinema come qualcosa di grande, di mitico. Il suo stile crudo, realistico e sempre accompagnato dall' ironia, è affine a quello di mio padre. Ma Stefano saprà stravolgere il progetto originale e farlo totalmente suo». Leone nacque a Roma il 3 gennaio 1929 e in occasione del novantesimo anniversario della nascita un altro grande evento celebrerà il suo talento: la grande mostra C' era una volta Sergio Leone che, dopo il debutto alla Cinémathèque Française di Parigi nell' ottobre scorso, il 12 dicembre approderà a Roma, all' Ara Pacis, per rimanervi fino a Pasqua 2020. «In Francia abbiamo registrato 60 mila presenze, più di quelle che erano state contate all' esposizione su François Truffaut. Sinceramente, non mi aspettavo un entusiasmo così grande da parte del pubblico», spiega Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna (che nel 2014 ha restaurato Per un pugno di dollari) e curatore della mostra, organizzata da Equa di Camilla Morabito. «Il talento di Leone è ancora conosciuto e amatissimo». La mostra si snoderà attraverso la retrospettiva completa dei film del regista (anche quelli da lui prodotti, come i cult di Carlo Verdone Un sacco bello, Grande grosso e Verdone, Troppo forte) fotografie, documenti, documentari, conferenze, oggetti, un libro. E, rispetto all' evento di Parigi, a Roma ci sarà una sezione nuova di zecca: «Sarà dedicata all' influenza esercitata da Leone sull' immaginario collettivo e sul lavoro degli altri registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Ang Lee, Guillermo Del Toro e tanti altri», anticipa Farinelli mentre il BiFest di Bari si prepara a celebrare il padre di Sergio, il regista Roberto Roberti (nome d' arte di Vincenzo Leone). Una chicca: all' Ara Pacis verrà proiettato un filmato, mai visto, in cui Leone appare impegnato nella post-produzione di un suo film nel ruolo di rumorista. In epoca pre-digitale, era lui stesso a curare il sonoro: per rendere il galoppo dei cavalli indossava uno zoccolo sulla mano e la sbatteva sul tavolo, per rendere lo scorrere del fiume svuotava una bacinella d' acqua con il bicchiere. «Per lui il cinema era artigianato», dice il direttore della Cineteca di Bologna. È d' accordo anche Carlo Verdone: «Mentre il cinema spesso dimentica i suoi maestri, ancora oggi tutti amano Sergio», spiega il regista romano. «Ha avuto il merito di reinventare un genere, il western. Ha messo il mito al centro di ogni sua storia e creato la maschera di Clint Eastwood, ha sempre pensato in grande: gli si rizzerebbero i capelli, se sapesse che i film oggi vengono visti sugli smartphone...». Aggiunge: «Io gli devo tutto. Se Sergio non mi avesse portato dai produttori Puccioni e Colajacomo non sarei mai esistito. E non avrei imparato ad essere sceneggiatore, regista e protagonista dei miei film». Quale cinema amerebbe, oggi, Leone? «Adorerebbe Tarantino», risponde Raffaella, «e le serie tv: hanno i tempi lunghi dei suoi capolavori. L' assedio di Leningrado, l' imponente progetto che aveva in mente prima di morire, l' avrebbe realizzato a puntate».

Dal profilo Instagram di Carlo Verdone. Ponte Sisto.Il ponte dei miei ricordi più belli perché la mia casa paterna era parallela alla sua destra. Su quel ponte Il mio primo bacio ad una ragazza, mia madre che lo attraversava quando tornava dalla scuola dove insegnava, il mio primo complimento ad un attore che camminava davanti a me (Gian Maria Volonté). Il ponte dove si suicidava di tanto in tanto qualcuno e si formava un capannello di gente dove ognuno dava un' informazione sbagliata sulla persona e sul movente. Il ponte che mi ispiro' la scenetta dei " due cervi a Ponte Sisto". Il ponte dal quale gettai nel 1985 un anello che avevo comprato per la mia ragazza che poco prima mi confessò di avere un' altra storia con uno. Il ponte che Sergio Leone mi fece attraversare per fare due passi al fine di calmarmi la notte precedente all' inizio di "Un Sacco Bello". Il ponte dei ragazzi di vita che venivano rimorchiati per finire sotto la scala che portava alla banchina da uomini grandi. Il Ponte che univa Trastevere a Campo de' Fiori.  Bello il mio ponte, immagine degli anni migliori. Buona serata a tutti voi. 

·         Henry Fonda.

Cesare Lanza per “la verità” il 15 agosto 2019. Il 12 agosto di 37 anni fa moriva Henry Fonda. Un protagonista del mondo del cinema, una figura controversa e descritta, anche dai figli, con parole contraddittorie. Era un uomo molto riservato, poco incline a parlare di sé e della sua via privata. Di certo, si sa che ha avuto una vita sentimentale molto intensa: matrimoni ufficiali, amanti segrete e relazioni extraconiugali. È considerato tra gli attori di Hollywood più seduttivi e chiacchierati, nel mirino dei gossip dell' epoca. Andiamo per ordine: cinque matrimoni con vari divorzi, inizialmente con Margaret Sullavan (nome d' arte di Margaret Brooke Sullavan Hancock, Norfolk, 16 maggio 1909 - New Haven, 1º gennaio 1960), un' attrice cinematografica e teatrale statunitense, dalla quale si divise dopo soli due anni. A seguire le nozze con l' aristocratica Frances Ford Seymour Brokaw, deceduta nel 1950: una donna che era stata violentata quando aveva otto anni, con conseguenze psicologiche mai rimarginate, fino al suicidio quando aveva solo 42 anni. Da lei ha avuto i due figli, noti attori, Jane e Peter. In seguito ha sposato la produttrice teatrale e attrice Susan Blanchard (una figlia adottata, Amy). La quarta fu la contessa italiana Leonarda Afdera Franchetti, infine la documentarista televisiva Shirlee Mae Adams. Più intrigante, con molte smentite e indirette ammissioni, la sequenza delle sue amanti famose: Barbara Stanwyck, Gene Tierney, Patricia Farr, Tallulah Bankhead, Dorothy McGuire, Shirley Ross, Joan Crawford. Un episodio sgradevole e poco chiaro riguarda le botte alla quarta moglie, secondo il racconto, non si sa quanto affidabile, ricavato da un' intervista ad Afdera Franchetti, dalla quale era separato da tempo. Afdera, una vulcanica baronessa, «protagonista dei più grandi balli novecenteschi», e di molti clamorosi amori: è stata immortalata da Oriana Fallaci tra i suoi «antipatici» e trasformata nella protagonista del romanzo Penelope alla Guerra. («Un buon libro, contenente un sacco di palle», ha detto la baronessa). Afdera ha sposato, e lasciato, Henry Fonda. La sua storia è molto interessante: miliardaria, figlia di un mercante ed esploratore ebreo, che diede a tutti i suoi figli nomi africani (Afdera significa vulcano di Etiopia). Amica di Marylin Monroe, Gary Cooper, Luchino Visconti, Stanley Kubrick e Billy Wilder, e di Ernest Hemingway. Insomma, all' epoca, una vera regina del jet set. Quattro giorni in carcere, a Rebibbia, per aver portato tre sigarette di marjiuana al pittore Mario Schifano, suo grande amico. E Fonda, come l'aveva conosciuto? «A Roma, era il 1956, passeggiavo in via del Babuino con Audrey Hepburn ed entrammo in una galleria dove avevamo visto due strani dipinti, alcune monache che giocano a tennis. Dissero che un americano li aveva prenotati, ma io pagai cash e li presi. Qualche giorno dopo, a un party a casa mia, arrivò Fonda che stava girando Guerra e Pace con Audrey. Si stupì di trovare a casa mia i quadri che aveva prenotato. Nacque un bel rapporto, segreto all' inizio. Eravamo andati, una volta, un gruppo di amici, a fare una gita a Pamplona e lì incontrammo Ernest Hemingway che era molto amico di mio fratello Nanuk e glielo andò subito a riferire... Ed Henry, appena tornati a Venezia mi riempì di botte. Avevo 25 anni, Fonda 48. Pensò solo che era troppo vecchio... E mi menò». Un' altra storia controversa: Henry Fonda non ha mai amato i figli. Se ne è parlato tanto, c' è una terribile e recente testimonianza nel libro di un suo figlio. Ma si stenta a crederlo... Con questa inattesa «rivelazione» un altro degli ultimi miti americani, rimasto quasi immune da scandali e pettegolezzi, finisce nell' elenco delle star oscurate da vizi più o meno gravi. A rivelare i segreti della vita privata di uno dei più amati attori per famiglie è Peter Fonda, figlio minore di Henry e ammirato protagonista di Easy Rider. In un libro uscito negli Stati Uniti: si intitola Don' t tell Dad (Non dire Papà) e si sofferma sullo scarso affetto che Henry aveva per i figli. In particolare, Peter ricorda di quando sua sorella maggiore Jane si ferì da bambina alla schiena mentre nuotava. Tornando in casa, Jane iniziò a lamentarsi per il dolore, ma la reazione del padre fu freddissima: «Continuò ad occuparsi dei propri affari», ricorda Peter, «e poi, stufo di ascoltare il pianto di Jane, uscì di casa seccato». Il libro è pieno di veleno... Peter racconta anche di essere stato totalmente devastato, all' età di dieci anni, quando, rimasto orfano della madre, venne a sapere che suo padre aveva una relazione con un' altra donna. La notizia sarebbe arrivata al piccolo Peter in modo talmente brutale che, per il dolore, il bambino cercò di spararsi un colpo di pistola allo stomaco. Nella biografia, Peter Fonda parla anche dei suoi problemi con la droga, legando anche questi alla carenza di affetto con il padre. Alla fine c' è comunque un ricordo tenero di Peter per il padre: poco prima di morire, Henry lo chiamò e gli sussurrò: «Ti amo molto, ragazzo, voglio che tu lo sappia». Henry Fonda, come attore, sembrava nato per il genere western. Ci sono un ventina di titoli nel suo curriculum: Alba fatale, Sfida infernale, Il Massacro di Fort Apache di John Ford, C' era una volta il West di Sergio Leone, Il mio Nome è Nessuno. Diede il suo volto a Lincoln, Roosevelt, Nimitz, MacArthur, Wyatt Earp, ma anche a Tom Joad, Mr. Davis, giurato n°8 di La Parola ai Giurati, a Manny Balestrero di Il Ladro. Di sé stesso e della sua vita di attore Henry ha detto: «Diventare un attore può essere imbarazzante perché devi piangere o apparire nudo di fronte a tutti. La recitazione può essere anche considerata una sorta di confessione virtuale sulla tua infanzia disturbata o sulle tue crepe emotive». In contraddizione con quanto scritto dal fratello Peter nel suo libro acidissimo, ecco invece la versione della figlia Jane: «Mio padre è stato un grande uomo prima che un attore. Antirazzista e coraggioso, amava scrivere e leggere, mai si è sentito una star». E a proposito delle riprese del film Sul Lago dorato, in cui recitarono insieme: «A mio padre, che amava la perfezione, non piaceva niente che non fosse stato provato: la mia scena era quella in cui vado a parlargli per dirgli: "Voglio essere tua amica", anche perché non eravamo stati mai tanto vicini. Quindi c' era un primo piano suo e io ho aspettato fino all' ultimo momento, prima di fare una cosa non programmata, ciò che mio padre non amava affatto, quando gli ho detto: "Voglio essere tua amica", gli ho toccato la mano e a lui sono venute le lacrime al volto». Anche Peter, al di là del libro, lo ha ricordato - in altre occasioni - con tenerezza: «Mio padre Henry non parlava mai, ma ha insegnato tutto a me e Jane, con il suo esempio. Quando il suo Paese ha avuto bisogno di lui, ha rischiato la vita. Non approvava la guerra, ma lui ha lasciato una vita bella e comoda, perché lo riteneva giusto. E anche in famiglia, pur con tutti i suoi difetti, le difficoltà generazionali e di comunicazione, ci ha insegnato valori come l' onestà, la sincerità, l' impegno civile, la giustizia. Il male e il bene spesso nascono in famiglia». Il suo nome completo era Henry Jaynes Fonda (Grand Island, 16 maggio 1905 - Los Angeles, 12 agosto 1982). Nacque nel Nebraska dal pubblicitario William Brace Fonda e da Herberta Krueger Jaynes. La famiglia Fonda, da parte paterna, era di origine olandese, pur avendo come capostipite un italiano immigrato da Genova nei Paesi Bassi, in un' epoca non ben determinata del XV secolo. Nel 1642 alcuni membri della famiglia emigrarono in America e furono fra i primi colonizzatori olandesi che si trasferirono nell' attuale Stato di New York, dove fondarono la città che da loro prese il nome di Fonda. La bisnonna, Harriet McNeill, era un' immigrata irlandese. La sua identità di attore è stata quasi sempre l' americano democratico e non violento, ha confermato anche sullo schermo i suoi ideali libertari e pacifisti. Spesso, con iniziative personali, si è battuto in campagne politiche a favore di candidati del Democratic party. Dopo aver studiato teatro e recitazione, si laureò in giornalismo all' Università del Minnesota. Debuttò a Broadway con grande successo e, subito ingaggiato dal produttore Darryl Zanuck, firmò un contratto quinquennale con la Fox ed esordì nei primi Technicolor dell' epoca. È stato il solo attore americano presente in tre film sulla seconda guerra mondiale: Il Giorno più lungo, La Battaglia dei Giganti' e Midway. Inoltre è apparso in Mussolini: ultimo Atto (1974), un film più storico che bellico. Sul Lago dorato (1981) è stato il suo ultimo film, l'unico Oscar vinto. Malgrado uno curriculum intenso e progressivo, si è fermato nel cinema dal 1948 al 1955, per ritornare al teatro, ma con risultati altalenanti. È considerato il patriarca di una stirpe di celebri attori, oltre ai suoi figli Jane Fonda e Peter Fonda, anche i suoi nipoti Bridget Fonda e Troy Garity. Nonostante l'importanza (sul set per oltre 45 anni) e il valore riconosciuto delle sue interpretazioni cinematografiche, Fonda ha atteso fino al 1981 per un Oscar alla carriera e l' anno successivo per l' Oscar come miglior attore protagonista (singolare curiosità), nel ruolo del professore in pensione, dell' amaro Sul Lago dorato con Katharine Hepburn. C' è poco da stupirsi tuttavia. Disprezzava apertamente l'ambiente del cinema in generale e quello di Hollywood in particolare: il suo unico, vero grande amico era James Stewart, che gli è stato vicino fino al giorno della sua morte, a 77 anni, per infarto.

·         Florence, che 68 anni fa fermò il tempo nuotando sulla Manica.

Florence, che 68 anni fa fermò il tempo nuotando sulla Manica. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Corriere.it. Ci sono campioni e campionesse che vincono tanto, tantissimo. Poi ci sono loro: «miti» che sfondano muri, superano ostacoli impensabili, tracciano percorsi che, solo dopo, altri affronteranno. Eroici come delfini nell’acqua gelida di un canale insidioso. Florence May Chadwick da San Diego (1918-1995) — nuotatrice che aveva sulla pelle la salsedine di certe spiagge californiane e negli occhi solo «quel braccio di mare» franco-inglese — divenne un mito l’11 settembre 1951. Quando la sua bocca ansimante, il suo incarnato algido, i suoi arti affaticati ma ancora reattivi toccarono le sponde francesi della Manica. In quell’attimo questa ragazza possente e agile che si sarebbe sposata due volte senza avere figli aveva stabilito un record irripetibile. Era diventata la prima donna ad attraversare il Canale nei due sensi. Come un muro del gran fondo che crollava sotto le lunghe bracciate di una donna votata al nuoto. Florence Chadwick partecipava a gare di nuoto dai sei anni; già a dieci anni arrivava ai margini del podio in una gara «open» in mare aperto sui 4 km e un anno dopo cominciava a vincere gare su gare nell’oceano di casa. Impacciata e lenta nelle sfide più corte in piscina, Florence scoprì ben presto la sua vera vocazione: la competizione sulla media e lunga distanza. Eliminata alle selezioni della Nazionale Usa per l’Olimpiade di Berlino 1936, si specializzò sempre più sulle distanze «siderali». Misure che si confacevano con le sue straordinarie doti di resistenza e di velocità al «lungo». Ma naturalmente — come ogni nuotatore di gran fondo sa bene — il segreto era nella testa. Una capacità di concentrazione e di determinazione fuori dal comune la rendevano in grado di estraniarsi e di perseguire solo il proprio obiettivo. Bracciata dopo bracciata.

Già l’8 agosto 1950 la Chadwick aveva realizzato una prima impresa da storia del nuoto: aveva attraversato il Canale della Manica dalla Francia all’Inghilterra, da Cap Gris-Nez a Dover, in 13 ore e 23 minuti, frantumando il precedente record della connazionale Gertrude Ederle, vecchio di ventiquattro anni. Il percorso era il tratto di Manica più stretto: di soli 34 km. Altre undici atlete (la stessa Chadwick compresa), prima e dopo Ederle, avevano compiuto la traversata. Ma nessuna era riuscita a migliorare il primato. Un anno dopo, il vero capolavoro: l’11 settembre 1951 Florence Chadwick compì la traversata in senso opposto, da Dover a Sangatte (vicino a Calais), nuotando in 16 ore e 22 minuti. Fu così la prima donna ad attraversare lo stretto in entrambe le direzioni. E s’incarnò nel «mito» facendo del suo nome un sinonimo di successo e resistenza al femminile. Ma la sua carriera non si sarebbe chiusa lì: nel settembre del ‘52 fu la prima donna ad attraversare a nuoto lo stretto di Catalina — tratto di mare fra la California e l’isola omonima — con un nuovo record (maschile e femminile) di 13 ore, 45 minuti e 32 secondi. Nel 1953 di nuovo la Manica, dall’Inghilterra alla Francia, col nuovo primato femminile di 14 ore e 42 minuti; quindi lo Stretto di Gibilterra (in 5 ore e 6 minuti, record assoluto). E la Turchia, con la traversata del Bosforo (in un solo senso) e dei Dardanelli (andata e ritorno). Nel 1955 ancora la traversata della Manica dall’Inghilterra alla Francia, con un nuovo record: 13 ore e 55 minuti. Unico «cruccio»: il Canale del Nord nel mare d’Irlanda, che cercò di attraversare tre volte ma senza successo. Prima di abbandonare l’attività di gran fondo nel 1960 — a 42 anni — e dedicarsi alla promozione del nuoto in tv e radio e con centinaia di apparizioni pubbliche e film con Esther Williams. Nel 1969 diventò intermediario finanziario e nel 1970 fu inserita nella International Swimming Hall of Fame. Perfino la sua morte fu un dolce omaggio nell’ambiente a lei più caro: l’acqua. Scomparsa per una leucemia nel 1995, le sue ceneri furono sparse nell’Oceano Pacifico.

·         Valentino Mazzola.

Valentino Mazzola e Fausto Coppi: domenica il centenario di due eroi tragici dello sport italiano. Pino Farinotti su Libero Quotidiano il 12 Settembre 2019. Il 1919 non appartiene solo a Coppi e a Brera, il 26 gennaio di quell' anno, a Cassano d' Adda, città metropolitana di Milano, nasceva Valentino Mazzola, considerato da buona parte dell' opinione tecnica, forse il più grande calciatore italiano di sempre. Il primato se lo giocherebbe con Peppino Meazza. C' è anche chi cita Gianni Rivera e chi, ma è in minoranza, Roberto Baggio. Valentino Mazzola e Fausto Coppi, due campioni-eroi. Legati da quell' anno e da un destino cattivo. Il destino che Brera chiamava «diavolo». Coppi morì a 40 anni di «una volgare tossicosi africana» (Brera), Mazzola a 30, in quell' aereo che si schiantò sulla collina di Superga. Coppi e Mazzola erano legati dall' enorme popolarità che sfiorava il mito quando erano ancora vivi, e da vicende private che si toccavano: entrambi avevano rotto il primo matrimonio per risposarsi, in anni in cui azioni del genere erano colpa e reato. Posso dire di aver "conosciuto" Valentino per interposto figlio. Sandro Mazzola era il maggiore, classe 1942, Ferruccio il minore (1945). Si trasferirono a Milano dopo la morte del padre. Erano contesi dalla madre naturale, Emilia e dalla seconda moglie Giuseppina. Sandro è sempre stato molto prudente, anzi, silenzioso, su questo argomento. Abitava in via Arena, Porta Ticinese, frequentava la scuola media di via Campo Lodigiano e l' oratorio di San Lorenzo. Erano la mia scuola e il mio oratorio. Se passi lì davanti, oltre la cancellata, puoi vedere quel campetto di cemento e le porte semidistrutte, che sono ancora quelle di quegli anni, i Sessanta. I fratelli giocavano lì. Ferruccio era il più tecnico, è sempre stato lo stesso Sandro ad ammetterlo. Erano più grandi di me ma qualche volte riuscivo a infilarmi nelle partitine. Nel campionato 1960-61 si ricorda quello Juve-Inter, quando Herrera mandò in campo la Primavera per protesta dopo l' ennesimo sopruso della Juve, che era riuscita a far annullare un 2-0 a tavolino a favore dell' Inter. La squadra di Torino, solito duro spirito sabaudo, giocò sul serio umiliando i ragazzini 9 a 1, e il gol nerazzurro, su rigore, lo fece Mazzola. Da lì, decollò. Sappiamo. Ricordo che il ragazzo Mazzola invitava a casa alcuni amici. Un paio di volte c' ero anch' io. E ricordo che il racconto su Valentino scorreva, con particolari. Alla morte del padre Sandro aveva 7 anni, un' età buona per ricordare. Gli piaceva mostrare le fotografie col papà che lo teneva in braccio o gli faceva dare un calcio al pallone. Fra quelle immagini ce c' erano alcune dove con Mazzola appariva anche Coppi. Del resto, due così, come potevano non conoscersi, magari frequentarsi. Dopo la premessa, Valentino Mazzola. Dopo una breve militanza nel Venezia, nel 1942 entrò nel Toro, che, casualmente, non perse più un campionato, con quel filotto leggendario di 5 titoli consecutivi. Il calciatore era tecnicamente completo, al massimo livello. Capace di salvare un gol sulla linea di porta, di dettare le geometrie del centrocampo, di partire in velocità sulle fasce e di offrire l' ultimo assist in area. Con qualcosa in più che non era un dettaglio, i gol. Ne ha fatti 139, un numero da centravanti puro. Ed era ancora giovane. Secondo gli addetti era molto simile ad Alfredo Di Stefano, considerato, con Pelé, il più grande di tutti i tempi. Era amato e rispettato da tutti, in patria e altrove. Era uno uomo generoso. Quando era già famoso, emerse che, decenne, si era gettato nell' Adda per salvare un bambino, Andrea Bonomi, futuro calciatore del Milan. Era uomo lontano dalla mondanità. Se a quel tempo ci fossero stati selfie e social Valentino li avrebbe evitati. E certo la sua popolarità ne avrebbe fatto un soggetto da milioni di follower. Alle 9.40 di quel mercoledì 4 maggio 1949 il trimotore Fiat G. 212 decolla da Lisbona, prende terra a Barcellona, riparte alle 14.50 destinazione aeroporto di Torino-Aeritalia. Comanda il tenente colonnello Meroni. A bordo l' intera squadra del Toro - che poi è, esattamente, la nazionale - che ha giocato un' amichevole col Benfica, accompagnata da dirigenti e tre noti giornalisti, Casalbore, Tosatti e Cavallero. Alle 17,03 l' aereo si schianta contro il terrapieno della basilica di Superga. Tutti i passeggeri finiscono schiacciati in pochi metri cubi. Pino Farinotti

·         Il campione Girardengo ed il bandito Sante.

Eppure il campione Girardengo alla fine liberò il bandito Sante. Damiano Aliprandi il 2 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Sante Pollastri e Costante Girardengo erano entrambi di Novi Ligure. Il primo fuoriclasse della bici, il secondo anarchico per rabbia e recluso a Santo Stefano. Finché non ottenne la grazia per merito del ciclista. Cespugli alti mezzo metro, ruggine che sta finendo di divorare le porte delle celle. Tutto intorno, palazzine diventate ormai dei ruderi e segnali di pericolo. Insomma se il governo non interviene, con i soldi già stanziati, sta letteralmente crollando un pezzo di memoria del Paese. Parliamo dell’ex carcere nell’isola di Santo Stefano – territorio di Ventotene, provincia di Latina – dove venivano reclusi banditi e dissidenti politici fin dall’epoca borbonica. Tanti i detenuti eccellenti a Santo Stefano. Dall’anarchico Gaetano Bresci che non ne uscì vivo perché si suicidò, a Sandro Pertini che fortunatamente se ne andò dopo 14 mesi solo perché ebbe la fortuna di ammalarsi. In quel carcere, per ben 36 anni, fu recluso anche Sante Pollastri. Quest’ultimo, insieme a Costante Girardengo, è protagonista della famosa canzone di Francesco De Gregori “Il bandito e il campione”. Canzone che peraltro secondo molte ricostruzioni storiche enfatizza il reale rapporto che i due abitanti di Novi Ligure ebbero. Oggi, se De Gregori non avesse scritto quella canzone, Sante Pollastri sarebbe quasi dimenticato. Negli anni venti avrebbe infiammato le cronache dei giornali se il regime fascista non avesse imposto più di una censura sulle sue gesta. Figura in bilico tra mito e realtà, Sante, secondo racconti popolari, divenne bandito per vendicare l’onta subita dalla sorella, stuprata da un carabiniere, e per sfamare la famiglia poverissima. Sante Pollastri, durante il fascismo, era anche un anarchico. D’altronde aveva soltanto 14 anni quando a Novi Ligure cominciava a circolare il giornale anarchico Gli Scamiciati: la cittadina piemontese divenne uno dei centri più attivi di tutta Italia nella lotta antimilitarista contro la prima guerra mondiale. Sante, cresciuto in un ambiente fortemente libertario, anche se militante anarchico non era, ebbe comunque già in odio l’autorità e lo Stato. Ed è per questo che preferirà disertare quando sarà chiamato al fronte. Non è ben chiaro quando si sia avvicinato all’anarchia, tuttavia – secondo una versione l’appellativo di anarchico se lo sarebbe guadagnato quando, uscendo da un bar, una sera del 1922, avrebbe sputato una caramella amara al rabarbaro. Questa sarebbe caduta vicino agli stivali di due carabinieri, i quali, interpretandola come una sfida, l’avrebbero selvaggiamente aggredito. Resta il fatto che, come alcuni anarchici di allora, coltivava la sua idea con una pratica fuori legge: compiendo rapine. Sì, Sante era un bandito. Per il fascismo divenne una vera e propria spina nel fianco, tanto da definirlo il nemico pubblico numero uno. Più volte gli uomini del regime, servizi segreti compresi, arrivarono a un soffio dal catturarlo, ma Sante sembrava imprendibile, così scaltro da farsi credere morto, salvo poi ricomparire Oltralpe e riprendere la sua attività a mani basse. Nello stesso tempo aveva la passione per il ciclismo ed era fan del campione Costante Girardengo, suo compaesano e più grande di nove anni. Quest’ultimo vinse tantissime gare in Italia. Nel 1923, l’ideatore e organizzatore del Tour de France, Henri Desgrange, dichiarò che per essere davvero il più forte, Girardengo avrebbe dovuto vincere anche all’estero. Il campione italiano rispose con una lettera alla Gazzetta dello Sport: «Invito tutti i corridori del mondo a incontrarsi con me in una corsa a cronometro di 300 chilometri. Ad esempio sul percorso Milano- Sanremo. Se si ritiene che le strade italiane mi siano favorevoli, accetto anche di correre su strade in suolo neutro». All’inizio nessuno accettò, poi si organizzò per il Natale del 1923 una gara, al velodromo d’inverno di Parigi, tra lui e Henri Pélissier, il francese più forte di quegli anni. E fu lì che Sante il bandito, ricercato dalle autorità fasciste, ebbe la possibilità di incontrare Girardengo mentre stava per apprestarsi a partecipare alla gara. In quella gara Girardengo vinse. Si narra che Sante venne riconosciuto prima di tutti dal massaggiatore Biagio Cavanna, quello che sarà insieme a Fausto Coppi in tutta la sua incredibile carriera, anche lui di Novi Ligure. Lo riconobbe da un fischio. Di sentire qualcuno fischiare, in un velodromo, capita talmente spesso che non c’è neanche da farci caso. Però quel fischio Cavanna lo conosceva. Perché? Era particolare. Quel fischio si chiamava “cifulò”, ed era prerogativa dei novesi. A quei tempi, se uno di Novi voleva farsi riconoscere da un compaesano in “terra straniera”, faceva appunto il “cifulò”. Il massaggiatore non ci mise molto a capire chi era il novese a Parigi. Sante e Girardengo pare che si fossero incontrati proprio lì, ma un incontro fugace, giusto un saluto. D’altronde come dice la canzone di De Gregori, parliamo di «una storia d’altri tempi, di prima del motore. Quando si correva per rabbia o per amore. Ma fra rabbia ed amore, il distacco già cresce». Ma proprio lì, a Parigi, Pollastri venne preso dai gendarmi mentre era alla stazione metropolitana parigina della Nation. Estradato in Italia venne rinchiuso nel famigerato carcere di Santo Stefano per scontare l’ergastolo. Per Sante sarebbero seguiti decenni di giorni identici l’uno all’altro e sempre con la percezione di essere visto perennemente dal secondino. D’altronde quella è la funzione della struttura carceraria che si rifaceva al Panopticon ideato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Come se non bastasse, Sante doveva vivere come ulteriore punizione cinque anni di ‘ segregazione cellulare’ in un cubicolo sotterraneo provvisto di lettino da contenzione e un buco per urinare e defecare. Rimase in quel carcere per decenni, perfino quando sbarcarono gli americani e raggiunsero anche il penitenziario di Santo Stefano liberando diversi detenuti politici, comunisti compresi. Sante era un anarchico, ma anche un bandito: quindi era considerato un delinquente comune e non un detenuto politico. Rimase lì. Poi fu trasferito nel carcere di Parma. A sua insaputa, una suora inoltrò la richiesta di grazia per lui. Se ne occupò anche un giurista francese che inviò diversi rapporti, raccontando di come Sante si fosse comportato bene durante la prigionia, tanto da aver salvato un agente penitenziario durante una rivolta dei detenuti. Ma fondamentale fu la testimonianza a suo favore del campione di ciclismo Costante Girardengo. Alla fine Sante Pollastri venne graziato nel 1959 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Quando uscì dal carcere di Parma, era provatissimo e invecchiato visto che aveva trascorso metà della vita in un indicibile penitenziario. Aveva comunque voglia di lavorare per rifarsi una vita, «anche se alla mia età e col mio passato non sarà facile», come dichiarò all’unico giornalista che lo aspettava fuori dal portone. Alla fine il lavorò lo trovò. Assieme al fratello Luciano si dedicò alla vendita di articoli di merceria. Si ricostruì una vita facendo l’ambulante. Girava, naturalmente in bicicletta, con il cestino pieno di cianfrusaglie, e la gente gliele comprava perché in quel modo poteva dargli una mano e perché tutti, in paese, hanno sempre pensato che diventò un bandito per vendicarsi di un carabiniere che le stuprò la sorella. Sante visse così gli ultimi anni della sua vita nel suo paese di origine, a Novi Ligure. Muore nel 1979, un anno dopo la morte della sua compagna più giovane. Ma anche un anno dopo la morte del campione Costante Girardengo.

·         «Mio padre Fausto Coppi è il ciclismo che vive nel mio cuore».

Coppi, Bartali e gli altri: sei canzoni (che forse non ricordavate) sul ciclismo e il mito. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 da Corriere.it. Oggi Fausto Coppi avrebbe compiuto 100 anni. Purtroppo, invece, è morto quando ancora era giovanissimo, proprio com’era successo a suo fratello Serse. Aveva 41 anni non ancora compiuti quando mancò alle nove meno un quarto di una mattina di inizio gennaio - era il 1960 - dopo essere entrato in coma a seguito di una febbre altissima e indecifrabile agli occhi dei diversi medici che nelle poche ore di malattia che avevano preceduto la sua morte, lo avevano visitato. Non si erano accorti che quella febbre altissima non era una semplice influenza più grave delle altre ma un sintomo evidente della malaria, contratta poco prima durante un viaggio in Burkina Faso. Conoscere la storia di Serse e di Fausto Coppi significa entrare in contatto con una vicenda italiana tragica e romantica, tra gli ultimi a raccontare Fausto, spingendo nella struttura narrativa sui tanti elementi emotivi ed extra ciclistici della sua storia, c’è Maurizio Crosetti, che in Il suo nome è Fausto Coppi (Einaudi, 2019), ha costruito un romanzo a molte voci facendo raccontare la vita di Coppi a tutti coloro che l’hanno abitata. In qualche modo un magnifico e sorprendente seguito di Coppi e il Diavolo, il libro del 1981 in cui Gianni Brera raccontava ciò che si nascondeva dietro la storia sportiva del Campionissimo, dedicandosi in modo particolare all’aspetto umano e a tutte le vicende personali di Coppi: dalle origini alla Dama Bianca. Ancor più dei libri, però, a occuparsi delle vicende personali di Coppi e di tempi in cui il ciclismo portava in pista vicende struggenti e ulta umane, è stata la musica, sono state le canzoni.

Coppi, un mito che resiste al tempo (anche grazie a Bartali). Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. A cento anni dalla nascita, Rai Cultura dedica al Campionissimo un documentario di Gianluca Miligi e Marco Orlanducci. Con una pastiglia di chinino l’avrebbero salvato. La morte di Fausto Coppi sarebbe oggi rubricata come un caso di malasanità: medici presuntuosi e incapaci si rifiutano di accettare un suggerimento che arrivava loro dal fratello di Raphaël Géminiani: «Guardate che è malaria». Ma quel sacrificio sembra rientrare in un processo ben più complesso: quella morte era la condizione indispensabile perché Coppi entrasse nel mito. Di lui dovevano rimanere le imprese, non il lento declino, le comparsate in televisione, le inevitabili ricorrenze in vita. A cento anni dalla nascita, alcune pagine meno conosciute e aneddoti — tra cui il suo avventuroso ritorno a casa nel 1945 — meritano di essere ripercorsi e approfonditi in un racconto biografico legato anche alle vicende storiche del suo tempo. È quanto ha fatto il documentario «Fausto Coppi» di Gianluca Miligi e Marco Orlanducci che Rai Cultura ha dedicato al mito del Campionissimo (Rai Storia, martedì, ore 21.59). Il mito resiste al tempo perché è continuamente alimentato dal racconto (sono intervenuti i figli Marina e Faustino), si rinnova con mille varianti (la prigionia in Africa), con nuove storie, vere o presunte tali non importa, intessute con quelle più antiche. Nel 1949 la consacrazione: Coppi è il primo ciclista ad aggiudicarsi Giro e Tour de France nello stesso anno ed è ormai per tutti il Campionissimo. Collezionerà tante vittorie nelle classiche, nelle corse a tappe e il titolo di campione del mondo su strada a Lugano. Coppi, uomo solo al comando, baciato dalla grazia, morto giovane e caro agli dei. Ma senza Gino Bartali non ci sarebbe stato Coppi, e viceversa. Il campione che divide le folle ha bisogno del deuteroagonista; si nasce Coppi o si nasce Bartali. Ma tutt’e due sono indispensabili perché l’impresa sportiva diventi ciò che può diventare: letteratura e vita, azzardo e vertigine, giorno e notte.

I 100 anni di Fausto Coppi, l'uomo solo al comando. Classe, potenza e sofferenza. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. Le mille facce del diamante. Coppi è carne e sangue, gloria e polvere, cuore e cervello. È epica leggendaria, cronaca di una fine assurda. Se si potesse scegliere un solo luogo dove celebrare domani i cento anni di Fausto Coppi, allora dovrebbe essere la Casse Déserte dell’Izoard, subito dopo il confine tra Francia e Italia, ma anche sul crinale fra la terra e la luna, tra la cronaca e la storia, con una naturale vocazione alla leggenda, tra quelle pietre e quei ghiaioni rimasti immutati, come una quinta teatrale di una rappresentazione che si ripete, ma non sarà mai potente come l’originale. Perché Coppi, che su quella salita mitica passò per primo sia al Giro che al Tour, è stato questo e lo è tuttora: l’alba che dà luce a tutto il resto e che non conosce il tramonto. Lo dimostrano, tra le altre cose, i quasi duecentocinquanta libri che sono stati scritti su di lui: non un esercizio retorico o il tributo impolverato a una memoria sempre più lontana, ma le mille facce di un diamante che cambia tonalità continuamente, senza svilirsi mai, anzi. Diventa sempre più prezioso. Se si potesse scegliere una frase da appendere alla parete per festeggiare il secolo coppiano, allora dovrebbe essere la sintesi lasciata da Jacques Goddet, patron dell’Équipe che ha cavalcato l’ammiraglia dietro a quei due purosangue e a mille altri, ammirandone la classe, la potenza, la capacità di soffrire: «Coppi è il più grande, Merckx è il più forte». Tanti anni dopo non c’è motivo di mettere in dubbio quella sentenza, ma è giusto anche rivedere con la prospettiva di oggi il suo significato: perché Coppi è stato qualcosa più di un pioniere andato incontro alla modernità sempre avanti a tutti per arrivare primo sotto allo striscione del traguardo. Con quella sua faccia antica come le radici che lo hanno innervato, era lui stesso la modernità e ha trainato lo sport, non solo il ciclismo, verso nuovi confini. «Il grande segreto di Coppi che lo rende un campione più vicino alle folle di qualsiasi altro campione internazionale — scriveva Curzio Malaparte — è la qualità tutta moderna del suo fisico e del suo morale. Tra Bartali e Coppi esiste la medesima differenza che c’era tra una Fiat e una Bugatti, la stessa che corre oggi tra un aereo a elica e un aereo a reazione». Il volo dell’Airone è stato collettivo, perché Coppi è stato un fenomeno sportivo, ma anche sociale e di costume, negli anni in cui il ciclismo era il primo sport d’Italia e aiutava il Paese a scoprire se stesso, i propri limiti e sogni: la guerra che inizia subito dopo la sua prima grande vittoria al Giro del 1940, la prigionia in Africa, il ritorno in Italia (celebrato in questi giorni con la Caserta-Castellania), i trionfi al Giro, al Tour, al Mondiale, i duelli con Bartali, la morte del fratello Serse, la storia tormentata, da uomo sposato con la Dama Bianca. Coppi è carne e sangue, gloria e polvere, cuore e cervello. È epica leggendaria, ma anche cronaca di una fine assurda. È un mito solo al comando. «E in attesa del secondo — come disse alla radio Nicolò Carosio dopo la vittoria di Coppi alla Sanremo del 1946 — trasmettiamo musica da ballo». Se si potesse scegliere una persona da invitare per ricordare Coppi, al di là delle facce più note, potrebbe anche essere Meo Venturelli, che Fausto prese sotto la sua ala negli ultimi anni, designandolo come suo erede. Il nuovo Coppi non c’è mai stato e Venturelli non ha nemmeno fatto finta di esserlo «perché la vita è una e va vissuta» senza spremere il meglio in equilibrio su quella bicicletta. Ogni 2 gennaio, finché ha potuto, Meo è però salito sulla collina di Castellania per ricordare l’amico, l’idolo, il maestro. Stretto addosso, anche cinquanta anni dopo, aveva il cappotto che Fausto gli aveva regalato. In mano, un mazzo di fiori e un biglietto: «Il tuo allievo mancato». Negli occhi ancora vivo il rimpianto e lo sgomento per quell’addio così assurdo, per quella malaria non curata come tale. Lo stesso di un popolo intero.

Il figlio del Campionissimo: «Mio padre Fausto Coppi è il ciclismo che vive nel mio cuore». Mia madre viveva esclusivamente nel suo ricordo. Quando mio padre Fausto Coppi è mancato è stato per lei un colpo terribile. Franco Insardà l'1 giugno 2019 su Il Dubbio. «Lo sa che sua madre e mia madre erano amiche?». Inizia così la chiacchierata con Faustino Coppi, figlio del campionissimo e di Giulia Occhini, alla vigilia dell’ultima tappa del Giro d’Italia che si concluderà domani a Verona. «Ma davvero? Mi spieghi questa cosa», risponde. «Sua madre da ragazza ha vissuto per alcuni anni con la famiglia a Montoro Superiore, in provincia di Avellino, e lì tra le sue amiche c’era mia madre. Conservo gelosamente una foto con dedica. Mi ha sempre raccontato che con suo padre ritornò a trovare gli amici». E Faustino a questo punto mi chiede: «Me la manda quella foto?».

Finito il siparietto amarcord ritorniamo al Campionissimo. Portare il cognome Coppi è complicato, le ha mai pesato?

«Assolutamente no. Con il passare degli anni è sempre stato un piacere e un onore per me avere questo cognome, che evoca sentimenti, ricordi e ammirazione nelle persone che incontro».

Il mito di suo padre vive quotidianamente con lei?

«Abito nella casa di Novi Ligure, dove lui ha vissuto con mia madre. Ogni cosa mi parla di lui. Ci sono i suoi cimeli, le sue cose: le foto, le coppe, i trofei. In particolare mi piacciono molto le foto con le dediche scritte a mano che inviava quando era lontano per gareggiare. Tutto mi parla di lui, è un ricordo continuo, malgrado siano passati tanti anni dalla sua morte. Il mio primo ricordo che ho di lui è di quel giorno che lo portarono in ospedale in barella. Davanti alla porta di casa mi disse: “papo, fai il bravo, ubbidisci alla mamma”. Poi più nulla. Quando vado in giro nelle manifestazioni sportive ci sono tante persone che me ne parlano e la cosa mi fa enormemente piacere».

Il nome di suo padre è legato in maniera indissolubile a quello di Gino Bartali. Ha conosciuto “Ginaccio”?

«L’ho visto varie volte in qualche manifestazione sportiva alla quale eravamo stati invitati, ma non c’è mai stata occasione di parlargli. Lo ricordo a un Giro d’Italia, quando era già avanti con gli anni, alla guida di un maggiolino decappottabile con la scritta Cicli Bartali: ha seguito tutta la corsa tra l’entusiasmo dei tanti appassionati. Aveva una tempra incredibile e un fisico eccezionale. In seguito ho avuto modo di fare per due volte il Giro con suo figlio Andrea, che purtroppo è scomparso. Con lui abbiamo parlato delle cose che raccontava il suo papà, episodi sportivi ma anche di vita quotidiana. Ha avuto la fortuna di stargli accanto di più rispetto a me».

Qualche giorno fa nella tappa sul Mortirolo c’è stato un altro scambio di borraccia che qualcuno ha paragonato a quello tra Coppi e Bartali.

«Direi che sono queste le cose che fanno grande il ciclismo e che rimangono nella mente dei tifosi. Anche l’atteggiamento del giovane ciclista che ha vinto proprio la tappa del Mortirolo ( Giulio Ciccone, ndr.) è un altro episodio molto bello. Moriva di freddo, batteva i denti, ma è riuscito ad arrivare fino in fondo e a vincere. Si è infilato la giacca e si è coperto con un foglio di giornale. Mi ha fatto pensare a tante belle immagini del ciclismo del passato».

Che cosa rappresenta per lei il ciclismo?

«È la vita della mia famiglia e un po’ la mia, anche se non mi occupo di ciclismo ma di costruzioni. Il ciclismo per me è passione, ricordi: è una questione di cuore».

Suo padre lo ha perso quando aveva 4 anni nel 1960, ha vissuto con suo madre. Che cosa può dire di lei?

«Lei viveva esclusivamente nel suo ricordo. Quando è mancato è stato per lei un colpo terribile. Aveva dato tutto per vivere con lui e improvvisamente se l’è visto portare via. Per pochi anni vissuti insieme a mio padre ha rivoluzionato la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Mia mamma mi raccontava soprattutto la vita del mio papà in famiglia, piuttosto che quella sportiva. Lei, tranne che andare a qualche premiazione, non si intrometteva mai nella sua attività sportiva».

Le ha mai detto che cosa l’ha fatta innamorare di Fausto Coppi?

«No. Mi raccontò che gli chiese un autografo e lui le rispose di rivolgersi alla sua segretaria. Lei allora replicò: “Se avessi voluto l’autografo della sua segretaria l’avrei chiesto a lei”. Forse è stata questa risposta a colpire mio padre e l’ha spinto a interessarsi a lei».

Chi lo sa?

«In questo rivedo le cose che mia madre mi ha detto della sua amica Giulia: soprattutto la sua determinazione».

Confermo. Era donna molto decisa, con un carattere forte.

«Alessandra De Stefano, la giornalista Rai che ha seguito per anni il Giro d’Italia, ha scritto nel 2011 “Giulia e Fausto: la storia segreta dell’amore scandaloso che spaccò l’Italia”. Ha fatto un bel lavoro, preciso e documentato. Restituendo bene il rapporto tra mio padre e mia madre. Anche lei in quel libro ci ha messo il cuore».

Dopo Fausto Coppi c’è stato o ci sarà un altro come lui?

«Per le emozioni che ha regalato ai tifosi e anche a me forse Marco Pantani: è stato un campione che poteva far sognare gli italiani. È stato protagonista di imprese memorabili che sono rimaste nella memoria di tutti quelli che amano il ciclismo».

Fausto Coppi, il segreto dell'Airone era il fratello Serse: morto lui, è iniziato il declino. Fabio Rubini su Libero Quotidiano il 9 Luglio 2019. Si dice che dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna. Non è stato così per Fausto Coppi, che di donne ne ebbe due, entrambe, a loro modo, inadatte. La prima moglie, Bruna Ciampolini, era di vedute troppo limitate per comprendere le esigenze di un campione conosciuto in tutto il mondo; la seconda, Giulia Occhini la "Dama Bianca", era troppo presa dal Fausto "personaggio" per capire fino in fondo il Fausto uomo. Così ad aiutare l' Airone di Castellania a reggere il peso della fama, dei sacrifici e dei momenti difficili (che a dispetto della leggenda, non furono pochi) è stato un uomo: suo fratello minore Serse. Di lui racconta il giornalista Sky Lucio Rizzica nel bel libro Serse Coppi, l' angelo gregario. Fratello di sangue e di vento (Infinito edizioni, pp 228, 14 euro). Di quattro anni più giovane Serse Coppi inizia come tutti i suoi fratelli a faticare nella vigna di famiglia. Con le mani zappa e rassoda la terra, ma con la mente e le gambe sogna la bicicletta, non solo o non tanto come attrezzo sportivo, ma soprattutto come mezzo d' evasione dalla piccola Castellania. Rispetto al fratellone, Serse è più gioviale, gli pace far tardi la sera, vestirsi alla moda e, soprattutto, ama le donne. La sua teoria, che nella società del politicamente corretto di oggi lo porterebbe certamente alla sbarra, è che «Se la donna è brutta... è meno sfruttata...». E nei paesi del Tortonese lui prova a non farsene scappare nessuna. Le scappatelle - Fisicamente Serse è più basso rispetto al fratello, forse anche più gobbo ma, come dicono i compagni di doccia, anche ben fornito nei punti giusti. E poi ci sa fare, oh se ci sa fare. Per evadere Serse se ne inventa di tutti i colori. Una volta decide che deve andare a trovare una ragazza appena conosciuta a Villalvernia, ma in casa Coppi c' è il coprifuoco. Così subito dopo cena si offre di andare a controllare che gli animali nella stalla siano pronti per la notte. Scende, fa il suo dovere, poi in gran silenzio sfila la scala dalla stalla e la posiziona proprio sotto la finestra della sua camera. Nel rientrare in casa fa un baccano pazzesco: sale le scale trascinando rumorosamente i piedi e sbatte la porta della sua camera non prima di aver urlato a squarciagola la buonanotte a tutta la famiglia. Una volta in camera si veste di tutto punto, si cala dalla finestra usando la scaletta e via dalla sua bella. Quando giunge a destinazione tira un sasso alla finestra e scala la facciata della casa per strappare un bacio. Un vicino, però, lo scambia per un ladro e per poco Serse, invece del bacio, rimedia una schioppettata. Un' altra volta, sempre per andare a fare festa, si fa aiutare dal cugino Egidio a spingere la sua nuova motocicletta, una Gilera Saturno 500, fuori dalla porta di casa, col motore spento. Ma Fausto, che lo conosce bene, se ne accorge e appena mette il parafango fuori dalla porta, apre la finestra e investe il fratello con una serie di moccoli irripetibili. E Serse? Guarda l' amato Fausto, gli sorride e poi via, a caccia d' avventure...

Cacciatore per ridere - E a proposito di caccia, anche nelle battute è sempre al fianco del fratello, solo che mentre Fausto prende la mira e implacabilmente abbatte la preda, Serse spara a vuoto per far scappare gli uccellini. Accanto al Serse "demone" c' è però anche il Serse "angelo custode" del fratello. Il ciclista che sa che non diventerà mai un campione, ma che sa pure che deve stare al fianco del fratello come un fedele scudiero. Per questo Fausto prova a dargli una disciplina. Come quando lo porta a Tortona al Collegio di Biagio Cavanna, il mitico massaggiatore cieco che al solo tocco dei muscoli capisce se sei un campione o un brocco. Serse ci va un po' di malavoglia, si siede sul lettino, si fa palpare, poi Cavanna inizia a snocciolare le regole della casa (sveglia alle cinque mezzo, 60 km a cronometro, colazione, altri 120 km, poi massaggi, cena frugale e a letto presto, tutti i giorni...), ma non fa in tempo a finire l' elenco che Serse ha già infilato la porta. No, l' accademia di Cavanna proprio non fa per lui. Nonostante questo suo temperamento guascone, Serse si rivelerà essere un buon corridore, capace di guadagnarsi la fiducia dei compagni di squadra. Tecnicamente se Fausto predilige le corse a tappe, le cronometro e le grandi salite, Serse è bravo a ricucire le fughe ed un rapinatore da volata, con uno scatto felino che spesso gli consente di regolare il gruppo sotto il traguardo. Come alla Parigi-Roubaix del 1949, la sua unica grande vittoria da professionista. E anche questa non poteva certo essere banale: il terzetto di testa, che era in fuga, sbaglia strada all' ingresso del velodromo. Il francese André Mahé taglia il traguardo per primo, ma accorciando il percorso, mentre alle sue spalle Serse regola in volata il gruppo. Il dopo gara è un susseguirsi di verdetti ribaltati: «ha vinto Coppi», «no ha vinto Mahé». Ne nasce un intrigo internazionale che verrà dipanato sei mesi più tardi con la salomonica decisione di dare ai due la vittoria pari merito. Intanto lui continua a pedalare a fianco del fratello. Fino al 1951 e a quel maledetto giro del Piemonte. È il 29 giugno, Fausto sta preparando il Tour dove, per la prima volta, vorrebbe venisse convocato anche Serse (allora si correva con le squadre nazionali). Per questo il più piccolo dei Coppi ci tiene a fare bella figura. Ma il destino gli è avverso: a Torino la ruota della sua bicicletta s' incastra in una rotaia del tram, Serse cade e batte violentemente la testa. Sulle prime sembra non essere successo nulla, tanto che rimonta in sella e un po' acciaccato raggiunge il traguardo. Poi va in albergo, si fa una doccia calda e inizia a star male. Dopo ore di agonia Serse viene trasportato alla clinica Sanatrix, dove gli specialisti che si avvicendano al suo capezzale non possono far altro che diagnosticare una emorragia cerebrale in fase avanzata e dunque inarrestabile. Serse muore nella notte e con lui se ne va forse anche la parte migliore di Fausto. Come spesso accade, l' importanza di Serse si comprese appieno solo dopo la sua morte. Senza il fratello minore capace di mediare con la moglie Bruna e la figlia Marina, Fausto resta come privo di bussola. S' infila in una serie di decisioni sbagliate o quantomeno discutibili che lo porteranno a diventare l' ombra di se stesso. Sono in molti tra gli Angeli custodi di Fausto a sostenere che con Serse in vita anche il suo destino sarebbe stato radicalmente diverso.

Parola di Buzzati - Uno dei pochi che capì in anticipo l' importanza di Serse nella vita di Fausto fu Dino Buzzati che, inviato dal Corriere della Sera a seguire il Giro del '49, scrisse in una lunga corrispondenza: «Se Serse abbandonasse il ciclismo può darsi che d' incanto cada e Fausto si trovi all' improvviso molle come un cencio. Complici, dunque, e perciò sono tanto legati che l' uno senza l' altro non può vivere. È Serse che in realtà vince perché senza di lui Fausto sarebbe scoppiato cento volte».

Serse Coppi lascia Fausto ad appena 28 anni (l' altro se ne andrà nove anni dopo). Ora i due fratelli riposano assieme, uno a fianco all' altro, come in corsa, nel mausoleo di Catellania-Coppi. Fabio Rubini

·         25 anni fa la morte di Ayrton Senna.

25 anni fa la morte di Ayrton Senna. Edoardo Frittoli 30 aprile 2019 su Panorama. Alla curva del Tamburello del circuito di Imola sono le 14:18 quando uno schianto improvviso cambierà la storia della Formula1, portandosi via la vita del campionissimo brasiliano Ayrton Senna. La sua Williams-Renault andava a sbattere dritto contro il muretto laterale di destra a 300 all'ora. La monoposto, praticamente spezzata in due, intrappolava il pilota privo di sensi. Poi gli inutili tentativi di rianimazione ed il volo in elicottero fino al Maggiore di Bologna. Ayrton Senna cessava di vivere poco dopo le 18:00 di quella maledetta domenica 1 maggio 1994.

Quel weekend di sangue. Il Gran Premio di San Marino del 1994 ed il sabato di prove furono una vera e propria carneficina.

Poco dopo le 13:00 di venerdì 29 aprile nei pressi della Variante bassa la Jordan di Rubens Barrichello, allora agli inizi della carriera, decollava a quasi 250 all'ora, impattando capovolta sull'asfalto. Si temette il peggio, ma fortunatamente il giovane pilota brasiliano se la cavò con qualche contusione.

Esattamente 24 ore dopo l'incidente di Barrichello, alle 13:15 di sabato 30 aprile, la Simtek-Ford di Roland Ratzenberger affrontava per l'ultima volta la curva Villeneuve. La monoposto del pilota austriaco perdeva improvvisamente un'ala anteriore e in pochi istanti impattava a 315 all'ora contro il muretto,disintegrandosi. Tra le lamiere la gravità della situazione fu subito drammaticamente chiara: Ratzenberger giaceva immobile con il casco reclinato verso il basso. Trasportato a Bologna, morirà pochi minuti dopo il ricovero. Aveva 34 anni ed era alla sua prima stagione in Formula 1.

Al semaforo verde del Gran Premio, scattato alle 14:00 di domenica 1 maggio 1994, la Benetton di Lehto rimase ferma. Mentre un gruppo di vetture riuscì a evitare l'impatto, la Lotus di Lamytamponò violentemente la vettura ferma in mezzo alla pista. Nell'impatto volarono quattro ruote che, schizzando via come razzi impazziti, colpirono quattro spettatori. Uno di loro finirà in coma. Poco più di 15 minuti dopo, la sorte peggiore toccherà al campione ed eroe nazionale Ayrton Senna, la cui sfolgorante carriera si arrestava contro un muretto di protezione di una delle curve più veloci del circuito di Imola, a causa del cedimento del piantone dello sterzo della sua Williams, modificato il giorno precedente su richiesta dello stesso campione brasiliano. In attesa di avere notizie sulle condizioni di Senna la gara, nonostante i 4 incidenti gravissimi a bilancio, riprese.

Alle 16:00 Michele Alboreto cambiava le gomme alla sua Minardi. Durante il rientro in pista perdeva la ruota posteriore che colpiva di striscio tre meccanici Ferrari investendo successivamente un tecnico Lotus, che rimase seriamente ferito.

La bandiera a scacchi, una delle più tristi della storia dell'automobilismo mondiale, vedrà passare per prima la Benetton di Michael Schumacher. Ma gli occhi del mondo intero rimasero puntati sulle tv in attesa di notizie sulla sorte di Senna. Alle 18:17 le speranze dei tifosi si spensero quando la Dottoressa Maria Teresa Fiandri annunciava alla stampa l'avvenuto decesso del campione.

Il tragico weekend di Imola cambierà i regolamenti della F1 per il pesante strascico polemico seguito alla morte di Senna e Ratzenberger, soprattutto riguardo la sicurezza dei tracciati (modifica delle curve più veloci e pericolose e introduzione di maggiori vie di fuga) e fece da propulsore all'introduzione del limite di velocità all'uscita dai box.

La carriera di un campione indimenticato. Nato a San Paolo (Brasile) il 21 marzo 1960 da una benestante famiglia di origini italiane, Senna inizia con i kart 100cc all'età di 13 anni. Dopo le prime vittorie, nel 1980 si trasferisce in Inghilterra per correre in Formula Ford. Sempre nel Regno Unito passerà alla Formula 3, dove la sua carriera avrà un'impennata con la vittoria del Campionato nel 1983. Il salto alla Formula 1 avviene l'anno successivo, ingaggiato dalla scuderia Toleman dopo un iniziale interessamento da parte della Brabham. Durante la prima stagione entusiasmante nonostante i limiti della vettura, iniziò la rivalità con il campione francese Alain Prost. Nel 1985 Ayrton Senna passa al team Lotus, con cui ottiene la prima vittoria in F1 all'Estoril, replicata subito dopo sotto la pioggia battente del circuito cittadino di Montecarlo.

Nel 1987 Ayrton Senna è sulle Lotus motorizzate Honda, stagione che conclude al terzo posto della classifica piloti. I trionfi arriveranno con il passaggio alla Mc Laren, dove il brasiliano rimarrà dal 1988 al 1993 assieme al rivale di sempre Alain Prost. Memorabili le loro manovre spericolate e le relative polemiche a fine gara, mentre la stagione terminò con il primo titolo mondiale di Senna. L'anno successivo esplodeva definitivamente la guerra tra i due rivali della McLaren con l'episodio famoso dello svernamento di Senna a Prost durante la terzultima prova in Giappone. Il mondiale sarà vinto all'ultima gara dal francese, con Senna che minacciò il ritiro dalle corse. Nel 1990 la situazione si invertì con Senna trionfatore davanti a Prost, passato da quella stagione alla Ferrari. Nel 1991 Senna vincerà il terzo titolo incalzato dall'astro nascente della Williams pilotata da Nigel Mansell. Nel 1992 la lotta sarà con il tedesco Michael Schumacher in una serie di episodi controversi durante i quali i due vennero quasi alle mani, mentre l'anno successivo (l'ultimo con la McLaren) terminerà secondo dietro all'eterno rivale Prost. L'ultimo mondiale vedrà Senna ingaggiato dalla Williams, purtroppo non più competitiva come le vetture degli anni precedenti per il divieto di utilizzo dei dispositivi elettronici deciso dalla Federazione. La monoposto dà molti problemi al campione paulista in termini di affidabilità, fino all'ultima rottura dello sterzo costato la vita al brasiliano volante quel maledetto pomeriggio di 25 anni fa.

Ayrton Senna, l’ultima gara: su quel letto il sonno difficile. Lealtà, coraggio e incoscienza. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 su Corriere.it. «Suite 200 - L’ultima notte di Ayrton Senna» il libro di Giorgio Terruzzi da oggi in edicola per un mese con «Corriere della Sera» e «Gazzetta dello Sport» (8,99 euro): l’estratto del capitolo scelto raccoglie emozioni, paure, sensazioni di una notte, l’ultima, del campione. Pensieri intimi del più grande pilota della storia della Formula 1.Le luci nella suite sono spente, si è infilato sotto le coperte. Si prepara a prendere sonno, ma è completamente sveglio, con la testa occupata a ricomporre schegge di conversazioni mentre compaiono solo i gesti della guida, il suono del motore attutito dal casco, il profumo dell’adrenalina. È un rifugio temporaneo ma caldo e attrezzato. Il muso della macchina che punta a destra e poi a sinistra. Procede e scova la linea giusta. Sobbalzi sempre meno marcati, piallati dall’accelerazione. Il panorama tagliato a una velocità crescente sino a diventare una successione di tratti colorati. Riflessi. Lampi di luce, oggetti metallici colpiti dal sole. In macchina, in pista. Le cinture strette con forza dai meccanici mentre caccia fuori l’aria dai polmoni, la cassa toracica aspirata. Il sedere, i fianchi, la schiena fusi con il telaio. Le giunture dell’asfalto come briciole di pane dentro il letto, individuate una per una, localizzate, segnate, memorizzate anche quelle sulla sua mappa, la mappa del tesoro. Dita come estremità meccaniche, ogni tocco calibrato, svelto, artigli ad alta precisione. Spigoli dolci di cordoli, colpi secchi, gomme pizzicate come corde di violino, il polso rigido, mai un’esitazione e la musica, la musica che bolle, ribolle, divampa. Un’orchestra gonfia. Percussioni, zoccoli di purosangue, tamburi, la batteria di una scuola di samba che pompa, insiste, scuote. Sberle, colpi, calci nel culo, nelle reni, scanditi da una ritmica decifrata, come note di una partitura memorizzata per l’eternità. Un sasso scagliato dalla fionda. Il nido dei vantaggi, colto in segreto, centrato in pieno. Millesimi di secondo raccolti, presi su, a bordo, come pepite, messi via, in tasca, sino ad avvertirne il peso, sempre più rilevante, curva dopo curva, giro dopo giro.

Occhi e scacchi, il muso: un becco. Il caos per fare pulizia. Ordine? Eccolo, eccolo qui. Una meraviglia. Questo sapeva fare. Questo sì. Questo aveva fatto, soprattutto, sin lì. Il senso non stava in alcuna vetrina. Stava in una natura, la sua, che per un solo verso, un unico canale, riceveva linfa, appagamento, un’oscura compiutezza. Il senso stava in un conforto privato, in una grandezza svelata, non dichiarabile eppure capace di sorprenderlo ancora, di sedare un’inquietudine perennemente allertata, di rilanciarlo in un luogo dove nessuno sarebbe approdato mai. Nessuno, mai.

Dormire proprio no, non ancora. Si ritrova seduto di nuovo, con la schiena appoggiata alla testata del letto. Agguanta un secondo cuscino per stare più comodo e si accorge di aver assunto una postura simile a quella che tiene dentro l’abitacolo. Sul grande letto disfatto ha ormai accumulato le immagini dei suoi atti mancati, sbagliati, i nodi del passato, i grumi del suo presente denso. Ma adesso, su quel pianale morbido, può esporre dell’altro. Un conforto. Gli ingranaggi della propria felicità. Di quale patrimonio disponesse, nascosto nel cuore, nel cervello, l’aveva scoperto prestissimo. Una rivelazione accudita e poi allevata con una cura da maniaco, con la voglia di rivelarla a rate sempre più massicce. Di trasferire in pista il proprio oro non si era mai accontentato. Preso com’era da un’idea di giustizia, aspirava a una dimensione più alta, verso la quale muoversi seguendo un sistema etico, autarchico e perentorio. Un sistema nel quale aveva sguazzato come un discepolo sempre più scaltro e, al contempo, soggetto a obblighi di lealtà. Lealtà e coraggio, per l’esattezza. Da valutare, ora se ne rende conto, con strumenti infantili, qualcosa che dai fumetti, dai propri desideri acerbi, non voleva per nessuna ragione distanziarsi.Anche quello era stato utile. Nelle sue macchine trovava sempre posto l’incoscienza di un bambino, il candore intatto della propria infanzia. Era un additivo per osare senza alcun timore, ma era anche un mezzo trucco nel momento del bilancio, quando aveva bisogno di perdonare se stesso...

Ayrton Senna, il mito è sempre fra noi. A 25 anni dalla scomparsa il leggendario e amatissimo fuoriclasse brasiliano continua a far piangere i tifosi di mezzo mondo. Una presenza fortissima, non solo nel mondo dello sport. Vincenzo Borgomeo il 30 aprile 2019 su la Repubblica. #sennasempre: uno degli hastag più cliccati di sempre vale più di mille parole sulla presenza fra noi del leggendario pilota brasiliano. Un mito che a 25 anni della scomparsa, da quel tragico primo maggio di Imola, resiste con una forza inaudita. Senna sembra infatti davvero ancora fra noi, una cosa mai vista prima non solo nel mondo dell'auto, ma in assoluto. C'è una cosa, un dettaglio, che pochi conoscono ma che fa capire il discorso: quando la salma di Ayrton doveva tornare in patria per il funerale, la famiglia si oppose a farla viaggiare nel vano di carico dell'aereo, "come fosse un pacco postale". Pretesero che viaggiasse in prima classe, così per far posto alla bara smontarono mezzo aereo, perché Ayrton era sentito come una presenza fisica, quasi non fosse mai morto. Poi lo straziante funerale con un milione di persone che a San Paolo del Brasile sfilarono in processione per 17 chilometri, la distanza dal palazzo del Parlamento, dove era stata allestita la camera ardente, fino al cimitero di Morumbi, dove Senna è stato seppellito. Con lo stesso sentimento comune: #sennasempre come poi diventerà virale la sua immagine sui social, allora non ancora inventati. Di Senna si è scritto e detto di tutto. Parlava con Dio, era capace di una concentrazione assoluta: la leggenda si era già impadronita di lui, anche da vivo.  Il concetto ce lo spiega bene Enzo Ferrari, che allora si riferiva a Nuovolari, ma calza a pennello anche per Ayrton: "Succede del resto sempre così - scrisse il Drake - quando un uomo arriva ai limiti dell'impossibile: si impadronisce di lui il mito e, allora, se faceva il pugile, si racconta che sapeva uccidere un toro con un pugno, e se faceva il pilota, che percorreva le curve su due ruote". E i limiti dell'impossibile Senna li aveva raggiunti più volte. A partire dalla magica giornata di Donington Park quando nel 1993 sotto una pioggia torrenziale colse quella che è probabilmente la sua più bella vittoria della carriera mandando in scena una delle rimonte più veloci e spettacolari mai viste in tutta la storia della F1. Senza poi dimenticare l'impresa con la Toleman sotto il diluvio, i duelli con Prost e burrascoso rapporti con la sua amata-odiata McLaren: Ayrton non si decideva a firmare il contratto, ma la stagione era già cominciata, così si andava avanti con un ingaggio "volante" di un milione di dollari a gara (all'epoca cifra astrale). Vinse il mondiale e divenne di certo il precario più pagato di sempre. Già Prost: con lui si sono odiati a morte, ma la grandezza del francese - uno dei piloti più forti di sempre - faceva splendere ancor più la stella di Ayrton: quando all'apice delle polemiche Alain accusò apertamente la Honda di dare ad Ayrton motori più potenti (erano i propulsori che usava la McLaren), i giapponesi si offesero e per la prima volta nella storia resero pubblica la telemetria di tutte le gare disputate nell'anno.  Beh, incredibile a dirsi, ma Senna riusciva a tirare fuori sempre dal motore più giri di quelli che spremeva Prost. 100 di qua, 200 di là, 170 da un'altra parte. Insomma, Ayrton riusciva ad aprire di più il gas. E quindi ad andare più forte. Oggi Ayrton è, come dicevamo, più presente che mai: fondazioni, siti, fumetti, trasmissioni Tv, auto speciali (la Mclaren ha appena lanciato la "Senna", supercar estrema che porta su strada la filosofia del pilota). Ma una cosa è certa: dopo Senna la F1 non solo non è stata più la stessa, ma non sarà mai più la F1 che ha fatto innamorare intere generazioni di tifosi. Il mondo cavalleresco ed eroico delle corse se ne è andato per sempre, lasciando un vuoto incolmabile.

Venticinque anni senza Ayrton. Pubblicato mercoledì, 01 maggio 2019 su Il Tempo. «È gravissimo, è gravissimo!». Il labiale dell’inviato Rai Ezio Zermiani fu chiaro, netto, senza possibilità di interpretazioni. Nel silenzio assoluto di un collegamento d’altri tempi si cercava di capire cosa fosse successo al fenomeno, al più forte di tutti, all’uomo che con la sua personalità aveva monopolizzato il mondo della Formula Uno. Quel «dritto» inspiegabile su una curva percorsa altre mille volte, era stato così innaturale da non far pensare al dramma nonostante lo schianto terribile, quasi frontale, che fece rimbalzare la monoposto come una pallina in un flipper infernale. Con l’incidente del povero austriaco Roland Ratzenberger, morto sempre lì il giorno prima, che sembrava già lontano anni luce. Ma tornò tutto assieme, come il botto clamoroso che fermò il talento brasiliano sul guardrail. Ayrton era lì dentro, nell’abitacolo della sua Williams che era stato costretto a «strapazzare», a portare oltre il possibile, perché aveva alle spalle quell’altro fenomeno che premeva, smaniava: l’astro nascente del momento. Quel Michael Schumacher che se non prese poi il suo posto nell’immaginario collettivo, fece comunque da degna staffetta nel portare la fiaccola del talento fin sotto il tripode della gloria. Ma è un’altra storia e pure questa non è finita benissimo. Lì dentro c’era Senna, con il mondo fuori a domandarsi cosa fosse successo. Perché il «fenomeno» non si muoveva più e dopo il labiale di un signore oggi ormai quasi ottantenne e che all’epoca fu un grado di «stare sul pezzo» tra la disperazione generale e gente che piangeva da tutte le parti, fu subito chiaro che tutto sarebbe cambiato da lì in avanti. La tv non era ancora così invasiva, non riusciva ancora a cogliere l’attimo, spaccare il centimetro come fa oggi, costringendo gli attuali protagonisti a coprirsi la bocca per non rivelare le proprie sensazioni. Era più grezza, spartana come la sicurezza di monoposto d’altri tempi. Una lunga causa giudiziaria alla fine stabilì che si trattò della rottura del piantone dello sterzo: una saldatura non fatta a dovere. Ma la cosa a quel punto interessò solo le orde di avvocati che si accapigliarono per anni in una querelle giudiziaria fatta di accuse, scarichi di responsabilità e milioni «pacificatori» finali. Alla gente interessava solo che Ayrton Senna non c’era più e tutto quello che è successo nei venticinque anni successivi sta lì a dimostrare quanto fosse forte e amato questo campione triste. Qualcuno disse che nel suo sguardo c’era la premonizione del destino, ma da quel punto in poi si è potuto dire di tutto e di più. Resta la classe cristallina di un campione che ha saputo infiammare le platee di tutto il mondo e fare appassionare a questo sport a tratti noioso, anche gente che non ne aveva mai sentito parlare. Perché quando c’era lui in pista poteva davvero succedere qualsiasi cosa e resta a tutt'oggi l’unico campione del mondo morto durante una gara di Formula Uno. Il destino aveva scelto questo per lui dopo sessantacinque pole position conquistate, tre mondiali vinti con la McLaren e un ultimo tentativo con una Williams meno competitiva a causa della modifica del regolamento che escludeva tutti gli «aiuti» elettronici. Non ebbe tempo per farlo, ma agli appassionati di Formula Uno è bastato anche quello che aveva fatto fin lì consacrandolo il più forte di sempre. Discorso generazionale? Forse, e questo riapre vecchi dibattiti che rimbalzano dal calcio e arrivano fin sotto le quattro ruote da corsa: quelle nelle quali Senna era davvero il numero uno. Almeno per noi!

COME VIVERE (E MALE) SENZA SENNA. Dario Falcini per Rollingstone il 2 maggio 2019. Ayrton Senna, nato 34 anni fa a San Paolo, se ne è andato il primo maggio del 1994. Alle 14 e 18 di quel giorno, alla curva del Tamburello del circuito di Imola, la sua Williams-Renault andava a sbattere contro un muretto laterale a 300 all’ora. Poco dopo le 18 moriva all’ospedale di Bologna. 25 anni dopo è ancora il più grande di sempre. Nemmeno in una disciplina rivoluzionata ogni decade dal progresso tecnico, una simile affermazione rischia di andare incontro a smentite. Ma è stato anche il più umano in pista e il più affascinante. Persino per chi rimane indifferente al rombo di motore. «Quell’uomo lì era diverso», dice al telefono Giorgio Terruzzi. Sempre così lo chiama, “quell’uomo lì”, con la parlata che dalla Milano di Beppe Viola fino a oggi non ha perso un granello della sua capacità di conquistarti. Giornalista sportivo, ha seguito la parabola di Senna fin dall’inizio e fino a diventarne qualcosa di molto simile a un amico. Ora sta tornando dall’Emilia, perché ieri sera, quella dell’ultima notte passata in vita da Ayrton 25 anni, è stato nella stanza 200 dell’Hotel Castello di Castel San Pietro Terme. Qui il pilota brasiliano soggiornava sempre in occasione del Gran Premio di San Marino, qui Terruzzi ha ambientato un libro meraviglioso, Suite 200, il racconto di un uomo – e di un campione – alle prese con le profondità del suo io.

«Sono stato con la signora Tosoni, la proprietaria, che è davvero carina», esordisce, prima di parlare del “suo” Senna.

Quanto è presente nella tua vita oggi?

In qualche modo quell’uomo è sempre qui, è come se fosse morto ieri. Mi avranno telefonato in duecento persone in questi giorni, mi scrivono in tanti, anche gente che non c’entra nulla con le corse. Mi hanno pure ripubblicato il libro, e sono passati 25 anni.

Com’è possibile?

Perché era un figo morto in circostanze tragiche, ovviamente. Ma, soprattutto, credo che un po’ come Pollicino negli anni Ayrton abbia seminato qualche grano di anima, e la gente lo avverte. I campioni, per definizione, fanno cose a noi precluse. Se all’improvviso ne trovi uno che ti somiglia, che manifesta i tuoi stessi impacci e turbamenti, succede qualcosa di particolare.

Nei tuoi racconti ti sei sempre soffermato molto sulle ombre di Senna. Perché?

Perché in lui erano esposte tanto quanto la luce. Manifestava le contraddizioni del vivere allo stesso modo in cui rendeva palese il suo talento e la sua ferocia agonistica. Così ha segnato un itinerario unico e ha toccato delle corde nei sentimenti degli altri.

Che rapporto avevi con lui?

A me non piace quando un giornalista dice di un personaggio famoso “era mio amico”. L’amico è quello con cui vai in vacanza o a cui telefoni di notte perché hai i cazzi tuoi da dirgli. Però diciamo che ho avuto degli accessi intimi alla sua persona: tra noi c’era un capitolo due, nato un po’ per caso, che andava oltre il lavoro.

Com’è nato questo capitolo 2?

Nel 1984 il mio amico del cuore era andato a vivere in Brasile e io andai a trovarlo. Sapevo che Senna, al primo anno in Formula Uno, era tornato a casa per le vacanze di Natale. Lo chiamai e lui mi invitò nella sua casa di San Paolo, fu una bellissima giornata.

Poi come è proseguito il rapporto?

Una volta, per una botta di culo clamorosa, spostarono il mio viaggio da San Paolo a Milano in business, perché c’era stato overbooking. Mi fecero sedere accanto a lui. Io in aereo non dormo mai, e abbiamo iniziato a parlare. Finii per fargli delle confidenze che riguardavano la mia vita, e che non avevo detto a molte persone. A un certo punto mi sono sentito un coglione: stavo dicendo i cazzi miei a Senna. Lui mi prese un braccio e mi disse di andare avanti. Ci siamo fatti un viaggio notturno insonne a chiacchierare, e quella cosa ha lasciato una traccia. Spesso in seguito, quando ci incrociavamo nel circuito, in un parcheggio o dietro un camion, ci prendevamo del tempo per parlare di come si sta al mondo.

Qual è la cosa che più ti colpiva di lui?

La sua ossessione di restituire agli altri quello che aveva ricevuto in termini di opportunità. Era fissato con questa cosa, infatti poco prima di morire ha lanciato una fondazione con sua sorella per dare una mano ai ragazzini delle favelas. Diceva sempre “quelli potrebbero essere dei bravi medici o architetti, e non potranno mai mettere alla prova le loro abilità”. Aveva sempre davanti a sé questa idea.

Una sorta di eterno senso di colpa. Lo ha condizionato, secondo te?

Be’, di certo non è che abbia fatto una gran vita da un punto di vista degli svaghi. Era una specie di monaco delle corse e aveva un rapporto con la fede quasi divertente: era così severo con se stesso, che quando parlava con Dio questo finiva sempre per dargli ragione. Quando ha buttato fuori Prost a Suzuka deliberatamente, una cosa da pazzo scatenato, era convinto di aver fatto un atto di giustizia, e che Dio fosse dalla sua parte. Dopo il primo titolo del 1988 in Giappone disse di aver visto Dio a figura intera in fondo al rettilineo: sembrava un matto, ma non lo era. Semplicemente con quell’uomo lì era tutto diverso, speciale.

Ricordi qualche intervista in particolare?

Una volta davanti al microfono mi disse “non capisco gli uomini che non piangono, perché le lacrime sono la benzina dell’anima”. Era complesso, attraversato dalla vita. Ed è questo che resta di lui, più che le pole position e le vittorie.

Di lui in pista, invece, cosa resta?

A volte nella Formula Uno la macchina maschera le prestazioni, con lui non accadeva mai: era tutta roba sua. Ho perfettamente in mente quanto facesse spavento sull’acqua. E poi una serie di dettagli che rendono l’idea del suo modo di vivere la sua professione. Si faceva stringere le cinture della monoposto fino alla sofferenza fisica, per aumentare il grado di sensibilità in pista. Una volta disse ai meccanici giapponesi della Honda, con cui condivideva la maniacalità per il lavoro, “guarda che in quella curva tra la terza e la quarta perdiamo 500 giri con questa macchina”. Pareva una follia, una cazzata. Poi provò, e aveva ragione lui.

Come preparava le gare?

Durante le prove io stavo sempre davanti al suo box, perché mi divertiva vederlo lavorare. Passavo lì delle ore, poi, quando lo incontravo la sera, lui mi chiedeva dove fossi stato. Avevo trascorso il pomeriggio a due metri da lui e non si era accorto di me. Lo dico sempre alle mie figlie: se uno con il suo talento non si sedeva mai, quando vi capita un’occasione – e a voi succede, a differenza di tanti altri – sfruttatela, cazzo.

Hai un ricordo molto dolce di lui. Ma è sempre stato così?

Io ho chiuso tutto in un cassetto per 20 anni. Quando mi hanno proposto il libro ho detto no, quattro giorni dopo ho fatto un sogno in HD in cui ero a Rio con Senna e ho deciso di riprendere in mano tutto il materiale che avevo messo da parte su di lui. Ho ricordato com’erano i giorni con quell’uomo lì e mi sono commosso. Alla fine è sempre una questione di sconfiggere la solitudine nella vita, e lui per me è stato un compagno. Mi ha fatto capire delle cose di me stesso, e io gli sarò per sempre grato.

SENNA E L'AMORE SEGRETO PER CAROL ALT. Annalisa Grandi per corriere.it il 2 maggio 2019. Lui, Ayrton Senna, era l’idolo degli appassionati di Formula 1. Lei, Carol Alt, modella e attrice dagli occhi di ghiaccio, incantava il mondo. Si sono amati, lontano dai riflettori. Si sono amati fino al giorno di quel tragico schianto a Imola.

«L’ho amato profondamente». Una storia d’amore clandestina, finita ugualmente sulle copertine perché non poteva essere diversamente. Un grande amore, iniziato nel 1990, quando lei aveva 30 anni, e finito in quel 1 maggio del 1994. Lei era sposata con Ron Greschner, giocatore di hockey su ghiaccio. Una relazione fatta di liti e gelosie, fino al giorno in cui, racconta Carol: «Per me si aprì un’altra porta, una porta bellissima». Quella porta, spiega nell’intervista a «Gq Italia», aveva un nome famoso: Ayrton Senna. «Era carino, pieno d’attenzioni. Mio marito non m’aveva mai fatto neppure un regalo di compleanno, lo sa? E io ero così giovane, e lavoravo così tanto, che quasi non ci facevo neppure caso» confessa. Si incontravano di nascosto, «mi raggiungeva su un’isola, a una sfilata, l’ho amato profondamente» dice lei.

«Il giorno della sua morte decisi di lasciare mio marito». «Ricordo una fuga notturna, nelle campagne di Novara, sulla sua Ferrari - racconta ancora - A un certo punto Ayrton si gira verso di me e fa: Carol, è finita la benzina. E io: ma sei serio? Dove lo troviamo un distributore adesso? Per miracolo, in mezzo al nulla, apparve questa stazione di servizio. E ricordo Ayrton scendere dall’auto e iniziare ad armeggiare con la pompa. Finché a un certo punto mi bussa al finestrino e dice: Carol, hai idea di come diavolo funzioni? Per fortuna si fermò un’auto e ci salvò: la scena di questa madre di famiglia che aiuta Senna a fare rifornimento, non la dimenticherò mai». Ayrton e Carol si sono amati per quattro anni, seppur in modo clandestino, e si amavano anche quel giorno, quello dello schianto a Imola, quello che ha spezzato i loro sogni e la vita di Senna. «Il giorno della sua morte decisi di lasciare mio marito» svela oggi lei.

«Ayrton è il mio unico rimpianto». Carol il giorno successivo avrebbe dovuto ricevere proprio dalle mani del pilota il Telegatto, a Milano. «So dove ero nel momento dell’incidente, cosa stavo facendo. E che mi crollò il mondo addosso.- spiega a «Il Fatto Quotidiano» - Poi il giorno dopo sarebbe accaduta una cosa che per me sarebbe stata speciale, avrei ricevuto il Telegatto a Milano e a consegnarlo doveva essere lui. Purtroppo non arrivò mai. Non ricordo chi fece la premiazione, ma per me è uno dei momenti più dolorosi della vita. Ho ricevuto il premio, Ayrton che doveva portarlo sul palco non c’era più. Quel giorno la mia vita ha preso un’altra direzione. Piango ancora oggi. È una mancanza enorme, se ne andò una parte di me». Un dolore che non da quel primo maggio non è mai svanito: «Ayrton è il mio unico rimpianto, mi manca ogni giorno».

·         Formula 1, 25 anni senza Roland Ratzenberger.

Formula 1, 25 anni senza Roland Ratzenberger: l’«altra vittima» del weekend maledetto di Imola. Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 da Corriere.it. Cinquantatré giorni di Formula 1, una fatica mai vista per qualificarsi, per andare in corsa con la Simtek, mica con la Ferrari, la McLaren o la Williams. Roland Ratzenberger pagava per correre, bel ragazzo, alto tanto per cominciare, quindi non portato a inscatolarsi in quelle macchine che vanno a 300 all’ora, più tendenti ad accogliere massimo il metro e sessantacinque, massimo settanta, misura tipica di chi fa il pilota. E a 314, 9 km all’ora si è schiantato in un sabato pomeriggio maledetto, 30 aprile 1994, qualifiche del Gp di Imola, il giorno prima che se ne andasse via per sempre il re della Formula 1, Ayrton Senna. Educato, parlava con un filo di voce, Ratzenberger sapeva bene che con quella macchina, la Simtek, non poteva andare lontano. Il suo distacco non si misurava in millesimi, centesimi, nemmeno in decimi, ma addirittura in secondi. Però, si impegnava, lottava, la Formula 1 era un sogno realizzato, poteva svanire da un momento all’altro, temeva che la Simtek potesse rivolgersi ad un altro pilota, appiedato sì, ma magari più esperto di lui e sicuramente con un portafoglio di sponsor più ricchi e danarosi. Ratzenberger era uno di quei piloti con la valigia, il cui presente si costruisce gara dopo gara: alla fine si tiravano i conti, in tutti i sensi. Consapevole dei rischi che il suo mestiere comportava, ma un pilota corre senza paura, una compagna che non può far parte della sua vita, altrimenti non indossi il casco e non sali neppure su quei portenti della tecnologia a quattro ruote. Non pensava certo che il destino si accanisse contro di lui. Un destino che nasce dall’uomo per sconfinare nella tecnologia. Un’aletta aerodinamica si stacca dalla Simtek, la macchina di Ratzenberger non decolla, potrebbe accadere in quelle condizioni mutilate, ma impazzisce, non accetta più comandi, la aspetta un muretto. Non c’è niente da fare, un impatto tremendo, mortale, per quel bel ragazzo dai modi gentili che voleva a tutti i costi correre in Formula 1. Senna sta lavorando, sta girando con la sua Williams, le qualifiche vengono fermate, lo show non può continuare, il fuoriclasse brasiliano guarderà quello schianto di Roland poi ai box, in tv. Si vede che è choccato, si precipita dal medico della Formula 1 che gli spiega tutto, gli svela il dramma della morte. Ventiquattr’ore dopo toccherà a lui la stessa fine. Tutto il mondo parlerà della scomparsa del campione, di Senna, già mito, quella di Roland va in secondo piano, scivola nei titoli di coda. Un po’ come tutta la vita da gregario di Roland Ratzenberger: aveva 34 anni, gli stessi di Ayrton Senna.

·         Pietro Mennea, 40 anni dal record del mondo.

Mennea, a 40 anni dal record i numeri e le curiosità sul barlettano che ha cambiato la storia della corsa. Il 12 settembre vinse la medaglia d'oro alle Universiadi. Giuseppe Dimiccoli il 12 Settembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. 12 Settembre 1979. 12 Settembre 2019. Giornata che da 40 anni è sinonimo di emozione. A scrivere questa pagina il barlettano Pietro Mennea. Infatti «Pietro lo Zar» vinse la medaglia d’oro a Città del Messico entrando nella storia della velocità con il suo indimenticabile 19 secondi e 72 centesimi sui 200 metri piani. Un record del mondo che la nostra «Freccia del Sud» ha mantenuto per 17 anni fino al 1996 allorquando fu soppiantato da Michael Johnson autore di un incredibile 19"66. Attualmente il record appartiene al giamaicano Usain Bolt che ha percorso la distanza in 19 secondi e 19 centesimi ai Mondiali di Berlino il 20 agosto 2009 migliorando di 11 centesimi il suo precedente primato. Chi scrive è stato testimone a Parigi dell’inchino di Carl Lewis, il «Figlio del vento», a «Pietro lo Zar». Tuttavia è bene ricordare che sebbene siano passati quaranta anni tondi tondi quel 19.72, corso alle Universiadi, continua ad essere il primato d'Italia e d'Europa del mezzo giro di pista. In quella circostanza non passò in osservata la circostanza che il pettorale di Mennea metteva in bella mostra il numero «314». Un segno dei numeri, Quel «Pi greco» delle meraviglie che governa l'universo con Pietro che dimostrò di governare il cronometro a suo piacimento. Intanto oggi si celebra il «Mennea Day». Giornata curata dalla Fidal - Federazione Italiana di Atletica - con la specifica vocazione di evidenziare i valori della «Freccia del Sud». Pietro, infatti, seppe dare un volto all’onestà, alla fatica, al rispetto per gli avversari e alla lotta al doping anche dall’Aula Blu del Parlamento europeo di Bruxelles (vi approdò nel 1999, ovvero venti anni fa) con le sue battaglie e la «Relazione di Helsinki sullo sport». Uno scrigno di valori sportivi portati avanti dalla Fondazione Pietro Mennea Onlus, organizzazione attiva sul versante della solidarietà sociale. Il «Mennea Day 2019» troverà un posto a Matera, Capitale europea della cultura, alla presenza del presidente Fidal Alfio Giomi e della moglie di Mennea, Manuela Olivieri. Nel centro della città, in piazza Vittorio Veneto, sarà posizionata una pista d’atletica sulla quale correranno i giovani atleti della Puglia e della Basilicata. Oggi Napoli sulla rinnovata pista d’atletica dello Stadio San Paolo, rende omaggio al grande Pietro Mennea con una serie di manifestazioni sportive e la corsa dei duecento metri. Da Barletta, città di nascita del Campione, silenzio assoluto. Pietro è nato il 28 giugno 1952 ed è morto a Roma il 21 marzo 2013. Si è qualificato per quattro finali olimpiche consecutive (dal 1972 al 1984) e si è laureato quattro volte.

Pietro Mennea, 40 anni dal record del mondo: un 19”72 che diede ossigeno all’Italia in balia del terrorismo. Pietro Mennea: 40 anni dal record del mondo che aiutò l’Italia in balia del terrorismo. L’amico e compagno Lazzer: «Il suo mito è durato per cinque Olimpiadi, passando dall’oro di Mosca ‘80, ed è vivo anche nel 2019». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Gaia Piccardi su Corriere.it. È bianco. È italiano. È l’uomo più veloce del mondo. Il 12 settembre 1979 è un mercoledì. Mentre sei turisti muoiono sull’Etna travolti da un’eruzione improvvisa e un pirata dell’aria tiene in ostaggio all’aeroporto di Colonia 120 passeggeri di un Boeing 727 Lufthansa, a Città del Messico il vento partorisce il suo figlio di Barletta, Pietro Paolo Mennea, maglia 314 come il Pi greco, la costante matematica con cui decodifica il mezzo giro di pista, il rebus — né sprint purissimo né giro della morte — che insieme al professor Vittori studia a Formia, nella fabbrica dei campioni, facendosi lanciare in avanti da un gigantesco elastico teso all’altezza dei reni. Universiade, finale dei 200, stadio olimpico, 2240 metri sopra il livello del mare, vento +1,8 m/s. Ha corso la semifinale lento (20”04), si lamenta: Nazareno Ronchetti gli ha accarezzato i muscoli di velluto senza lesinare olio canforato. Bang, si parte. Quarta corsia, il danese Jens Smedegaard come punto di riferimento. Reazione perfetta, curva composta, progressione sul rettilineo entusiasmante. Il più vicino dei cacciatori della lepre albina, il polacco Leszek Dunecki, è a cinque metri. «Sono sul traguardo, trattengo il respiro tra Giovanni Agusta, quello degli elicotteri, e Luca di Montezemolo. Oro. Guardiamo il tabellone: 19”72. Impallidiamo. E esplodiamo». Gianfranco Lazzer, veneto di San Stino di Livenza, classe 1955, c’era. Velocista italiano, in quella Universiade conquisterà l’oro nella 4x100 con Mennea, Grazioli e Caravani; poco dopo, ai Giochi del Mediterraneo di Spalato, sarà argento nei 100 dietro Pietro. Colleganza virile, amicizia vera. «Nel momento più importante della nostra vita, quando eravamo i più forti d’Europa, io ero la persona più vicina a Mennea. Tipo schivo, allegro in compagnia, buono come il pane. Non è vera la leggenda del monaco sempre in astinenza: Pietro sapeva vivere». E anche morire: «Venti giorni prima di andarsene, il 21 marzo 2013, mi ha telefonato e non mi ha detto niente. Della malattia, delle cure, niente di niente». E lei non si è arrabbiato, Gianfranco? «No. Pietro era così. Come se dise? Riservato fino alla fine. La fiction Rai, i premi, gli onori. Di Mennea oggi sopravvive tutto ma è un peccato che i giovani non lo conoscano. E Filippo Tortu sbaglia: è Pietro non Berruti da valorizzare perché Livio è un mito ma è stato una parentesi e Mennea invece è durato cinque Olimpiadi, passando dall’oro di Mosca ‘80, ed è vivo anche nel 2019, a quarant’anni da quel leggendario record». Undici anni dopo il pugno (guantato) in faccia al mondo della pantera nera Tommie Smith, 19”83 nella finale dei Giochi ‘68 su quella stessa pista, un viso pallido nato sotto il segno del Cancro, 27 anni, arrivato all’atletica per ripicca nei confronti di un certo Pallamolla, il compagno che a scuola lo batteva puntualmente, abbassa di 11 centesimi il primato del mondo ridando fiato a un’Italia cianotica per la violenza neofascista e il terrorismo. Saronni vince il Giro d’Italia, il Milan lo scudetto, Panatta ha già dato il suo meglio, Mennea è uno strano esemplare di bipede disposto a sacrificarsi 365 giorni all’anno, Pasqua, Natale e Capodanno inclusi, rabbioso e perennemente insoddisfatto. Velocissimo. Il 19”72 di Città del Messico avrà la resistenza alla fatica del suo padrone: passeranno sedici anni e 324 giorni prima che ai Trials americani di Atlanta un fenomenale texano di colore con il sedere basso, la schiena rigida e le gambe a mulinello, Michael Johnson, lo batta (19”66), ritoccandolo 38 giorni più tardi nella sede più nobile: la finale olimpica dell’Olimpiade ‘96 (19”32). Il nuovo record durerà fino al 20 agosto 2008, Giochi di Pechino, quando sul tartan atterrerà un terzo marziano, uscito dalle piantagioni di sprint della Giamaica: Usain Bolt (19”30, poi fissato a Berlino 2009 in 19”19, questa volta — forse — per sempre). Le pietre miliari sulla strada dei 200 sono per pochi. «Di molto speciale Pietro aveva la volontà — chiosa Lazzer —. Trasgrediva solo con me, bevendo birra. I bambini dovrebbero studiarlo a scuola». 19”72 non si arrende: è ancora record europeo.

Pietro Mennea, a quarant'anni dal mito: così nel settembre '79 entrò nella leggenda dell'atletica. Gianvito Rutigliano il 12 settembre 2019 su La Repubblica. Quarant'anni dal mito. Con la sua gara che gli valse la medaglia d'oro a Città del Messico il 12 settembre 1979 Pietro Mennea entrò nella leggenda dell'atletica, segnando il record mondiale sui 200 metri piani. I suoi 19"72 consegnarono la Freccia del Sud agli annali, grazie a un tempo rimasto in cima alle classifiche di tutti i tempi fino al 1996, con l'avvento di Michael Johnson, autore di una performance da 19"66. Ma la travolgente corsa dell'atleta di Barletta resta indelebile negli occhi degli appassionati e di un'intera nazione. In quell'occasione Mennea cambiò anche la storia dei 100 metri grazie al suo tempo di 10"01, record europeo di categoria. A migliorare quella performance come primato italiano di sempre ci pensò, 39 anni dopo, Filippo Tortu con un incredibile 9"99.

Emanuela Audisio per la Repubblica il 12 settembre 2019. Era l'uomo che sussurrava ai muscoli di Mennea. Il suo confessore, il suo manipolatore. Nazareno Rocchetti, 72 anni, nato a Filottrano, capelli bianchi, volto da dio greco, oggi anche scultore e artista, c' era 40 anni fa a Città del Messico quando il 19"72 di Mennea illuminò il mondo. E ancora oggi in Europa resta un confine invalicabile: l' azero-turco Ramil Guliyev è distante 4 centesimi, l' azzurro Fausto Desalu 41.

Come iniziò quel giorno?

«Male. Pioveva, c' era un forte temporale. Pietro era malmostoso, di cattivo umore, non voleva correre. Gli capitava spesso di essere così, contro tutto e tutti. Mi spazientii, gli dissi: io vado, fai come ti pare, e mi avviai al bus. Allora lui: aspettami, Rocky, faccio la sacca. Arrivammo allo stadio e non c' erano i suoi blocchi, venne inviato di corsa Sandro Giovannelli a prenderli in magazzino. Tutto al pelo, tutto all' ultimo minuto. Lo aiutai a fare stretching, Carlo Vittori, il suo allenatore, si sistemò sui gradoni».

Come s' era guadagnato la fiducia di Pietro Mennea?

«Semplice. In me riconobbe uno come lui. Un poveraccio. Venivo dalla campagna, a Imbrecciata, una frazione di Filottrano, dove sono nato, facevamo la fame. A casa, eravamo in quattro, mangiavamo a giorni alterni, mio fratello è andato in seminario per avere tre pasti al giorno, poi ha lasciato. Chi tornava dagli Usa, dopo essere emigrato, diceva che qui si stava male come nel Bronx. In Pietro riconobbi un vitello marchiato del sud, ragazzo segnato dal complesso di inferiorità, quello di appartenere a una terra che non valeva niente. Soffriva molto per questo, non glielo feci mai pesare».

Vero che lui non subiva infortuni?

«In 20 anni si sarà fatto male non più di 5 volte. E sempre sciocchezze. Sì, aveva muscoli di seta, ma senza esagerare. Il suo fisico non era straordinario, molto meglio quello di Pavoni e Sabia. Ma la testa era formidabile. È sempre quella che fa la differenza, il suo cervello produceva più delle gambe. E sopportava carichi di lavoro pazzeschi, tutti gli altri per seguirlo si sono rotti. Mi ero occupato anche di Panatta, di Borg, e a Reggio Emilia per il "Don Chisciotte" avevo trattato Rudolf Nureyev che aveva mal di schiena. Potevo fare paragoni».

Nureyev ballava, Mennea correva.

«Si, ma Rudolf aveva un corpo scultoreo. Era la perfezione, sembrava volare in scena. Gli feci due trattamenti e lo rimisi in piedi. Voleva che lo seguissi in esclusiva, il prezzo lo avrei deciso io, ma rifiutai. Gli chiesi solo: come si diventa Nureyev? Mi sorrise e con il suo russo-italiano, con molta dolcezza, mi disse: Nureyev si nasce. La differenza? Mennea venne a casa mia nelle Marche, subito dopo il record, a conoscere la mia futura moglie e mio suocero commentò: quello lì sta male, è gobbo, cammina storto. Pietro in pista si trasformava, ma a vederlo non gli davi una lira».

Però il suo record mondiale, 19"72 mondiale, è durato 16 anni e nove mesi: più di quello di Owens e di Michael Johnson.

«E chi se lo aspettava? Noi a Città del Messico, no. Sapevamo che era in forma, che aveva fatto buoni tempi, ma non che accendesse i razzi così. Abbiamo iniziato a capire la meraviglia quando è uscito dalla curva. Ha corso la seconda metà in 9"38 e la prima in 10"34. Vittori aveva il cronometro in mano, ma andò in confusione, mi prese in braccio e gli venne l' ernia. Pietro venne subito da me, mi accarezzò il volto. Ho ancora la foto. E iniziò a sproloquiare: "Ecco un italiano di Barletta". E io: che stai a dire? Barletta è in Italia. Ma forse ha avuto ragione lui: se la sua città è famosa nel mondo è per Mennea».

Lei ci andava d' accordo?

«Ho amato Pietro, sono stato in difficoltà con Mennea. Per lui facevo il buffone e da parafulmine, assorbivo le sue paure, i tormenti, le angosce. Lo convincevo come quel 12 settembre a Città del Messico: smetterà di piovere, uscirà il sole, non ci sarà vento, scapperai come una lepre, li distruggerai. Ma lui ti prosciugava con i dubbi e le insicurezze, ti incupiva il cielo, io sempre lì a spazzargli ombre e temporali. A Praga nel '78 lo trovarono accasciato per strada, pieno di acido lattico, che urlava dai crampi. Lo trattai dalle 8.30 del mattino fino a mezzanotte, Pietro aveva paura che il dolore tornasse e mi costrinse a dormire con lui per tre giorni. In due su un letto singolo».

Riusciva anche a farlo ridere.

«Sì. Facevo finta di parlare inglese con le ragazze, dicevo stupidaggini. Lui con me si divertiva. E si fidava: perché le sue confidenze le ho sempre tenute per me. Era riservato, se solo ti scappava qualcosa con lui avevi chiuso. Ma era anche uno che voleva avere ragione. Dovevi sempre accontentarlo».

Quel giorno Pietro pensò di essere andato molto oltre?

«Basta guardare i suoi occhi e quelli di Vittori. Lucidi e finalmente sereni, in tutte le foto. Come di chi ha raggiunto la pace. Vittori ha sempre detto che quel Mennea valeva 19"60, ma nessuno pensò a ritornare in altura. Pietro era soddisfatto, gliela aveva fatta vedere al mondo, lui uomo del sud. Non c' era niente da fare: aveva quel pensiero fisso. Ma si sacrificava tanto: tra lui e Vittori c' è stato un rapporto odio-amore che ha portato alla bellezza, ma con troppa violenza dentro. C' era bisogno di darsi del lei per tutta la vita, di mantenere le distanze, di essere vittima a carnefice? Per me, no».

Lei era il fisioterapista della nazionale?

«Si. Ho massaggiato Pietro dopo ogni allenamento, ogni sera, per 40'-50'. Avevo iniziato a 7 anni, da bambino, a curare le bestie: le galline azzannate dalle faine, le pecore, i vitelli spallati. Trattavo solo animali, mai toccato un corpo umano. Per sfuggire a quella miseria mi sono arruolato nei carabinieri a 16 anni, per andare a Roma ho preso per la prima volta il treno, poi sono entrato nel gruppo sportivo a Bologna arrivando terzo in una gara dei 5 mila, io che avevo corso solo per rubare la frutta dagli alberi dei contadini. Non ero fatto per lo sport, iniziai a frequentare le lezioni del professor Boccanera, affascinato da muscoli, tendini, sarcolemma, li avevo già visto nei maiali quando li ammazzavano. Chirurgia non mi interessava, avevo visto nascere un neonato di 8 mesi da una donna morta. Avevo 21 anni, mi è bastato. A Pietro invece le mie rassicurazioni non bastavano mai. Ma le mani assorbono e Mennea era pieno di energie negative. Per farle diventare positive, mi stremava. A lui la rabbia serviva per costruire capolavori».

L' ultima volta che l' ha visto?

«A una cerimonia a Jesi, tre mesi prima che morisse. Era gonfio e giallo. Cos' hai, gli chiesi. 'Un po' di ittero', sussurrò. Protestai: mi prendi per cretino? Farfugliò qualcosa e gli scese una lacrima. Era la seconda volta che lo vedevo piangere, la prima era stata dopo un rimprovero violento di Vittori. Gli mandai un messaggio: ricordati che hai avuto una grande vita e che quello che hai fatto resterà. Non rispose. Era fatto così: lui non poteva stare male, non l' avrebbe mai ammesso, lui ce l' avrebbe fatta perché era nato per combattere e vincere. Ma con quella malattia non si gareggia così. Ho avuto un solo regalo da lui, dopo otto anni: un orologio di seconda mano. Ma dentro mi resta molto di più. Come al mondo».

Mennea, la leggenda vive oltre il record. L'impresa nell'anno nero dell'Italia, nel giorno in cui l'Etna fece morti e feriti. Riccardo Signori, Giovedì 12/09/2019 su Il Giornale. «Cristo!», sfuggì dalle sue labbra mentre Primo Nebiolo lo avvolgeva come un polpo la vittima. «Pietro, 1972! Record del mondo!». Gli occhi di Mennea si allungavano in un cono di vuoto, come non avessero compreso. Aspettava lui: un urlo, un applauso. Aspettavano loro. Ci volle qualche attimo ancora perché la testa finalmente si sbarazzasse di ogni tormento. In Italia era già ora del sonno: 23,15. In Messico, 2248 metri sul livello del mare, l'ora della siesta, le 15,15 di un mercoledì pomeriggio: mercoledì 12 settembre 1979. «Cristo!» ,un' invocazione nel bello e nel brutto. «Cristo! Ma oggi cosa succede?», si domandò tutta Italia. L'Etna sul far della sera aveva ruggito: una colonna di cenere si levò dalla Bocca nuova e furono morti, nove, feriti, disperazione per 150 turisti affacciati sul cratere. Poi ci fu il lampo: Mennea che sfreccia sul cocuzzolo di Città del Messico. Non più polvere e lapilli, ma meraviglioso senso dell'impresa, 200 metri di orgoglio e fierezza, il segnale che l'umano, per qualche attimo, ha lasciato posto al sovrumano. Destino di ogni grande record. Così fu per Tommie Jet Smith, che si era costruito il suo 1983 proprio su quella pista 11 anni prima. Tommie l'uomo dal pugno chiuso sul podio olimpico di Mexico city. Pietro allora aveva 16 anni, correva per l'Avis Barletta. Adesso era un atleta fatto, che sarebbe stato tutta la vita sempre pronto ai blocchi di partenza. Stessa tensione, stessa voracità nel divorare la pista e le voglie esistenziali, stessa caparbia determinazione da far transumare nell'esaltazione. Serviva il sorriso smunto, faticoso, di Mennea, i suoi occhi sgranati per un Paese devastato da un anno inquietante. Era l'anno di Apocalypse now, titolo perfetto se Pietro non ci avesse allungato un prodigio di sensazioni ed emozioni distillato in secondi. Una vigilia vissuta tra sguardi e tensioni con Vittori, Nazareno Rocchetti il prezioso massaggiatore preparava il solito doping: spaghetti e bistecca. Mennea e il professore avevano deciso di puntare sulle Universiadi, dopo la semina e raccolto del 1978. La settimana in altura, prima dei giochi Universitari, era stata fruttuosa: due temponi, un 198 manuale nei 200 e il record europeo nei 100 (1001). Eliminatoria e semifinale dei 200 in saliscendi: Mennea elettrizzante in batteria, con il record europeo (1996) strappato a Valery Borzov, più umano in semifinale (2004). Qui ci giochiamo tutto, si dissero Pietro e Vittori. L'allievo allungò la mano al tecnico: non capitava mai. E strizzò l'occhio. Mennea prese in contropiede anche le nubi e la voglia d'acqua che imperversava su Città del Messico. Lo stadio mezzo vuoto, lui attovagliato sulla 4a corsia, la preferita, maglia azzurra numero 314. Fece subito il vuoto, non c'è limite a certa grandezza. Scrissero: lucertola sbiadita che sapeva sfidare anche le auto da corsa, se fosse stato necessario. Il polacco Dunecki (poi 2°), sembrava un'utilitaria dietro all'accelerazione dei primi 50, e così l'inglese Bennett, il brasiliano Silva de Araujo (in ordine di arrivo): 1038 per i primi 100, 938 nei secondi. Smith fece record passando i 100 in 1052 e gli altri in 931: una sorta di spalla a spalla. Il vento filava a favore (1,8 m/s), Pietro aprì il turbo dopo la curva, come in stato di ebbrezza fisica e mentale. E la sua corsa si allungò ben oltre il traguardo a prolungare la sensazione del volo. Poi Nebiolo, presidente dalla bacchetta dorata, che sbucò sulla pista, il mondo che cambiava, la leggenda che si alzava. Ci vollero 16 anni e 9 mesi perché arrivasse Michael Johnson a dirgli: fatti più in là. Ma le leggende non muoiono mai. Ne parliamo ancora dopo 40 anni, ne parleremo sempre.

·         Luciano Re Cecconi.

Il '68, la politica e la scoperta di un nuovo eroe: Luciano Re Cecconi. Marco Ruffolo il 30 settembre 2019 su La Repubblica. 30 dicembre 1973, la Lazio batte il Milan e lo scudetto diventa un traguardo di cui la squadra allenata da Maestrelli è consapevole. "...Lo vedo ancora con gli occhi dei ragazzini alle prese con le figurine dei loro miti. Ma non me ne vergogno affatto..." Devo ammetterlo: il mio pur piccolo e adolescenziale Sessantotto mi aveva malinconicamente allontanato dallo stadio, appuntamento forse troppo disimpegnato per il clima di quei tempi, segnato dalla spasmodica attesa che qualcosa di sconvolgente stesse per smuovere la grande palude della politica, non solo in Italia. Mi limitavo così a seguire la Lazio tramite le voci familiari di Ciotti e Ameri, da solo, sul divano dell’ingresso di casa dei miei nonni, mentre genitori e parenti smaltivano tra chiacchiere e pennichelle il sovrabbondante pranzo domenicale. Eppure il mio esordio a un passo da quel verde abbagliante che si apriva come un palcoscenico irreale mentre salivo la gradinata della Tevere, in un freddo Lazio-Bologna del ’67,  mi aveva letteralmente stregato. Accompagnato da mio padre (laziale per via di Piola e dei colori olimpici) andavo a vedere una squadra esile esile, con Cei, Pagni, Zanetti e il Gaucho Morrone, che tuttavia riuscì incredibilmente a battere il grande Bologna, per la verità un po’ ammaccato dalla umiliante batosta coreana: ai Mondiali dell’anno precedente i bolognesi costituivano infatti il fulcro della Nazionale. Non a caso, “Ah coreani!” era l’insulto più frequente che si sentiva in quell’Olimpico sbandierante di celeste, fatto di padri con cappelli da muratore e sfilatini con mortadella. Ma non fu quella la mia partita della vita. Dal ginnasio al liceo, vedevo intanto lo spirito del Sessantotto svanire rapidamente, la confusa allegria libertaria soppiantata dal catechismo dottrinario del gruppi extraparlamentari. La fantasia sostituita dalla liturgia. Nello spazio lasciato dalla delusione politica tornò a scalpitare in me - questa volta definitivamente e in misura sempre più preoccupante - la sciocca, nobile, demenziale, autentica, masochistica passione del tifoso. Aiutato, in questa metamorfosi, da una Lazio completamente rifondata, che nel ’72-73 salì in serie A e arrivò a un passo dallo scudetto, giocando “all’olandese”.  Quell’estate, dopo la maturità, convinsi il mio amico di infanzia Fabrizio, che per il calcio non mostrava in realtà alcun particolare interesse, a venire con me qualche volta allo stadio. E lui, che aveva bisogno ancora più di me di disintossicarsi dopo una lunga esperienza a Lotta Continua, accettò. Vedemmo insieme un Lazio-Novara di Coppa Italia, dove per qualificarci avremmo dovuto vincere con almeno quattro gol di scarto: era la prima volta che vedevo giocare il pazzo squadrone di Maestrelli. Vinse sei a zero, uno spettacolo che non avevo mai visto. Mi colpì la forza trascinante di una mezzala dalla chioma bionda. E il mio tifo diventò euforia. Euforia solo momentaneamente interrotta dalla follia di Lazio-Ipswich, partita falsata da un arbitro visibilmente ubriaco e macchiata dalla finale “caccia all’inglese” dei giocatori laziali. Il 30 dicembre ‘73, eccomi ancora lì sugli spalti della Tevere a seguire una squadra già in testa alla classifica ma alla quale manca ancora uno strappo, un balzo in più, per fare credere veramente nello scudetto. Piove ma non troppo. Lo stadio si riempie fino all’inverosimile e tra quegli ottantamila c’è la consapevolezza che questa può essere la partita della svolta. Si sta più in piedi che seduti. La Lazio macina il suo gioco: la mobilità di tutti nessuno escluso, avanti e indietro, una specie di coreografia che disegna sul campo rapide traiettorie, improvvisi triangoli. E’ l’anticipazione di un gioco molto poco italiano. Quattro difensori dinamici davanti a un portiere che ispira sicurezza, e al centro una solidissima cabina di regia con Frustalupi e Nanni. In attacco: la classe di D’Amico, l’agilità di Garlaschelli e l’ariete Chinaglia. Ma poi c’è lui, l’uomo-ovunque, Cecco il saggio, “l’anti-eroe silenzioso”, come lo chiamerà Carlo D’Amicis, appassionato autore di “Ho visto un Re”. Luciano Re Cecconi è davanti a me, e io, che ho già compiuto diciott’anni e dovrei dare prova di quella maturità che ho appena acquisito, lo vedo ancora con gli occhi dei ragazzini alle prese con le figurine dei loro miti. Ma non me ne vergogno affatto. Lui corre con i suoi tre polmoni. Forza e tecnica. E’ dappertutto. Davanti a lui c’è un altro macinatore di gioco, Romeo Benetti. D’Amicis racconta che nell’intervallo di un successivo Milan-Lazio, dovettero portargli la bombola d’ossigeno perché non riusciva a stare dietro al maratoneta biancoceleste. La partita non ha attimi di tregua. Rivera e compagni soffrono la manovra corale della Lazio, e  rispondono con pericolosi contropiedi. Ma a fermare Bigon ci pensa Pulici. Tira Chinaglia, tira Nanni, e trovano un Vecchi formidabile tra i pali milanisti. Manovra corale, sì, ma il mio sguardo va permanentemente a cercare quella chioma chiara in perenne movimento, che non può non risaltare sul prato di un Olimpico appesantito dalla pioggia. Sento che potrebbe essere lui a scardinare la difesa rossonera. Ma forse il mio è solo l’ingenuo wishful thinking di un ragazzino che cerca di imporre il suo Mito, quello di un campione sobrio e silenzioso, assai diverso dalla lazialità arrembante del suo opposto: lo sfrontato Chinaglia, quello che dopo il gol corre verso la Sud con l’indice sfidante. Ma lui, Luciano, non sembra darmi retta. E poi non è lui a dover finalizzare le azioni. Fa tutto il resto e lo fa con un’energia inesauribile: dispensa passaggi, sradica palloni, rientra, torna avanti, taglia il campo decine e decine di volte. Questo, in fondo, è quel che gli si chiede.  Inoltre lo zero a zero non è affatto un brutto risultato e al novantesimo sembra ormai acquisito. Poi… Poi maturano improvvisamente quegli eventi che hai immaginato mille volte nei tuoi sogni infantili ma che a quel punto non ti aspetti più. Maturano senza particolari segnali premonitori, non come la misteriosa cabala del nubifragio di Perugia che ventisette anni dopo schiuderà la strada al secondo scudetto laziale. Un comune fallo sulla trequarti di Anquilletti, una trequarti versante Montemario, dunque difficile da inquadrare dalla Tevere. Aguzzo la vista. Quell’azione, che seguo confusamente da lontano, la rivedrò decine di volte in tv, studiandola con meticolosità, squadernandola in tanti preziosi fotogrammi. Chinaglia cede la palla a Frustalupi e il regista la lascia scorrere un po’ avanti prima di battere la punizione. Sguardo alto a fotografare l’area milanista. Davanti a lui c’è Rivera che però non marca nessuno, forse si prepara a ribattere in contropiede la punizione. Ma subito alla destra di Rivera c’è lui, Re Cecconi. Passeggia quasi solitario a pochi centimetri dalla lunetta. Guarda Frustalupi e tra i due scatta l’intesa. Luciano trasforma improvvisamente la sua sorniona passeggiata in uno scatto bruciante, sette magiche falcate (le conterò successivamente davanti al ralenti dell’azione) mentre il regista gli detta un perfetto passaggio filtrante, e con l’ultimo passo libera il destro, quasi di punta, per l’infilata imparabile sul primo palo. Nel momento in cui mi unisco all’urlo possente degli ottantamila, mi sembra di aver cambiato da solo in quella manciata di secondi  il verso della Prevedibile Realtà. Come lo avessi preparato per tutta la partita, con un lavorio dell’animo, silenzioso ma determinato come il maratoneta di Nerviano. Mai sentito un boato così. Ed è così, con quell’interminabile urlo di gioia collettiva, che voglio ricordare Cecco, attraverso la mia (e la sua) partita della vita, mentre salta con le braccia al cielo, niente a che fare con i gestiti isterici, aggressivi e rancorosi di molti campioni di oggi. Lo voglio ricordare mentre piange (lui che non si commuoveva mai) e consegna alla Lazio la certezza che le mancava: questa volta sì, il primo scudetto della sua storia è finalmente a portata di mano, è quasi già scritto, e quel gol a sei secondi dal fischio finale è più forte di tutti i possibili perfidi scherzi del destino. Da allora ho fatto in modo con tutte le mie forze che il ricordo del dolore che quattro anni dopo mi avrebbe stampato addosso la notizia della sua morte assurda, scolorisse rapidamente per ridare la precedenza a quell’attimo magico e irripetibile. Per la cronaca, il mio amico Fabrizio balzò in piedi insieme a me urlando, prima e ultima volta. Il calcio, evidentemente, non fa per lui. E quando durante un successivo derby venne allo stadio e si mise a leggere il giornale durante la partita, decisi che non lo avrei più portato. Ma, viste le “sofferenze” a cui ti sottopone il tifo, forse - anzi sicuramente - ha ragione lui.

·         Di Bartolomei, 25 anni dalla morte di «Ago».

Di Bartolomei, 25 anni dalla morte di «Ago», capitano della Roma «dimenticato» dal calcio. Pubblicato mercoledì, 29 maggio 2019 da Fiorenzo Radogna su Corriere.it. Ci sono uomini che entrano nell’immaginario collettivo e segnano un’epoca. Così, mentre una Roma «coi lucciconi» si arrovella sul dopo-De Rossi (e un dopo-Totti ancora non è stato metabolizzato) ecco che il calendario «ripropone» la storia di uno degli eroi calcistici giallorossi più amati. A cavallo fra anni ‘70 e ‘80. È la vicenda di Agostino Di Bartolomei. Di professione «regista calcistico della Roma» (solo dopo centrocampista del Milan). Un capitano vero, «romano de Roma», che proprio un 30 maggio – di 25 anni fa esatti – decise di «salutare» ed andarsene, concedendosi il solo rumore di un botto. Come una porta che sbatte serrandosi. Sulle bruttezze di una vita diventata troppo pesante da vivere, che pure gli aveva riservato successo, fama, soldi e grandi affetti. Un addio di mattina presto con una Smith &Wesson calibro 38 in mano (e che ha spinto il figlio Luca a scrivere un libro contro le armi). Sotto una veranda aperta sul mare di Castellabate. È il 30 maggio 1994 il giorno scelto per andarsene: una data importante. Esattamente dieci anni prima Agostino Di Bartolomei (classe 1955) era sceso in campo da capitano giallorosso per la partita più importante della sua vita: la finale della Coppa dei Campioni 1984 all’Olimpico. Avversario quel Liverpool che poi avrebbe «strozzato l’urlo in gola» del popolo giallorosso (dopo l’1-1 dei supplementari) vincendo ai calci di rigore. Dopo la sua morte fu trovato un biglietto in cui il calciatore spiegava il suo gesto: «Mi sento chiuso in un buco» c’era scritto. Forse un riferimento a quel modo del calcio che sembrava averlo troppo presto dimenticato. Grande visione di gioco, raffinato tocco di palla, DiBa diede il massimo con Nils Liedholm allenatore. Giocatore sostanzialmente lento, ma in grado di pensare in anticipo rispetto all’avversario, giocò anche da centrale difensivo portatore di palla. Non giocò mai in nazionale. «Chiuso» da Rivera prima e Antognoni poi. Al di là dei lanci precisi al millimetro e della capacità di comandare difesa e mediana, ad «Ago» Di Bartolomei era riconosciuta una grande prerogativa. La capacità di andare in gol su punizione dal limite. In un modo tutto suo: tirando secco, dritto vero la barriera, nel tentativo (spesso riuscito) di «forarla». Era la «punizione alla Di Bartolomei», tutta un’altra cosa rispetto al raffinato «tiro a giro» di Platini e qualcosa di addirittura più «violento» rispetto alle (contemporanee) punizioni di Antognoni. Altra caratteristica era il rigore calciato «secco», centrale, sotto la traversa. Agostino cominciò fra Tor Marancia e Omi (satelliti dell’As Roma). Inevitabile (dopo il rifiuto al Milan) il passaggio in giallorosso, dove affrontò tutta la trafila fino alla prima squadra. Il 22 aprile 1973 a 18 anni appena compiuti ecco l’esordio in A con allenatore Trebiciani: Inter-Roma 0-0. La stagione successiva il primo gol (al Bologna), quindi (1975-76) il prestito al Vicenza in B. Un solo anno in Veneto, prima di diventare titolare giallorosso con Scopigno allenatore. In totale: 311 gare con la Roma e 69 reti dal 1972 al 1984 (salvo l’annata vicentina). Dal 1984 al 1987 eccolo al Milan di Liedholm e Capello (in totale 123 presenze e 14 reti). A San Siro, quasi subito, segnò anche un gol rabbioso alla «sua» Roma che lo aveva scaricato. Quell’esultanza non fu dimenticata e, al ritorno, tifosi ed ex compagni lo «attesero al varco». Al Milan non vinse nulla, ma fu sempre titolare. Nel 1987 il passaggio al Cesena (25 presenze, 4 reti) per un’ultima stagione di A, prima di chiudere con una bella promozione in B della Salernitana (dal 1988 al 1990). Nel suo palmarés lo Scudo 1982-83 con la Roma di Liedholm e Falcao e 3 Coppa Italia (79-80; 80-81 e 83-84). Già nella Hall of Fame giallorossa (2012), a lui si sono ispirati film e sono stati dedicati libri e canzoni. Il personaggio dell’ex calciatore Antonio Pisapia del film di Roberto Sorrentino «L’uomo in più» è ispirato proprio a Di Bartolomei. La sua storia è invece raccontata nel libro del 2010 «L’ultima partita» di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno; il figlio Luca ha scritto una lettera al padre nella prefazione del libro. Nel 2007 il cantautore Antonello Venditti, tifoso romanista e amico di Di Bartolomei, gli ha dedicato la canzone «Tradimento e perdono». Nel 2012 il Campo A del centro sportivo Bernardini di Trigoria è stato intitolato alla sua memoria.

·         Scirea, 30 anni fa la morte.

La moglie: «Noi e quell’auto rosa, vado da lui ogni giorno». Pubblicato domenica, 01 settembre 2019 da Margherita De Bac su Corriere.it. La frase più bella gliela scrisse Marco Tardelli, amico inseparabile: «Noi potremmo vivere una vita con le nostre mogli ma il vostro amore era unico». A trent’anni dalla tragica scomparsa del marito in un incidente stradale, il 3 settembre del 1989, Mariella Cavanna Scirea ricorda la storia meravigliosa col suo Gaetano. Che ancora non è finita e si rinnova ogni giorno, magicamente. Racconta con felicità, come se il suo uomo le fosse accanto. Oggi ha 70 anni, il figlio Riccardo spiccicato al padre, immutata la verve giovanile. Domani viene lanciato in radio (piattaforma streaming e digital download) il brano «Mi chiamo Gaetano» del compositore Giuseppe Fulcheri. Metà dei proventi andranno alla Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro e devoluti all’istituto Candiolo. Mariella, Come conobbe suo marito?

«Era il ‘74, Gaetano appena arrivato alla Juventus. Io lavoravo all’ex Inam, studiavo e vivevo in una pensione il cui proprietario era amico dell’allenatore delle giovanili bianconere. Una sera invitò a cena la squadra e con i ragazzi c’era anche lui. Fu un colpo di fulmine per entrambi. Provo ancora la sensazione di farfalle nello stomaco e il giramento di testa. Dopo un anno ci siamo sposati».

Che persona era?

«Mi colpì il suo sguardo colmo di semplicità e timidezza. Più che timido era riservato. Crescendo accanto a me che sono molto estroversa è migliorato, si è un po’ aperto. Aveva grande ironia e io gli facevo da spalla come fossimo una coppia di comici. Ci prendevamo in giro, sempre complici, unitissimi. Impazziva per le sorprese che gli facevo. Per lui erano linfa. Una volta, mentre era in trasferta a Verona, lo chiamai da Desenzano. Amore sono qui con Riccardo. Il bambino aveva tre anni e mezzo. Assistetti alla partita e tornai indietro».

E lei Mariella, come è riuscita a non soccombere al dolore?

«La Juventus ha fatto moltissimo per me. Non mi ha mai abbandonata. Dopo la disgrazia venne a trovarmi Cesare Romiti, allora presidente della Fiat, e mi raccontò dell’altruismo di Gaetano che quando andava da lui per rappresentare le richieste della squadra non chiedeva nulla per sé ma sosteneva gli interessi dei compagni. Una sola volta accettò un regalo. Tornò a casa a bordo di un’orribile 131 color rosa. Non gli interessavano le Ferrari. Era un uomo essenziale. Finsi di arrabbiarmi, ma come non potevi prenderla almeno di un colore diverso? Salire su quell’auto era altro spunto di allegria».

Quando morì lei aveva quarant’anni. Non ha mai pensato di rifarsi una vita? 

«Mai. Gaetano è rimasto sempre con me e non ha lasciato vuoti. Non ho desiderato altri anche perché avrei fatto sempre paragoni e mi sarebbe mancato ancora di più. In trent’anni non c’è giorno in cui non gli abbia parlato. Lo vado a trovare nel piccolo cimitero di Morsasco nelle colline di Aqui, dove sono nata. Il rito allevia il distacco».

È rimasto nel cuore di tutti, perché?

«Univa la grandezza d’animo all’essere campione. Era un uomo speciale e allo stesso tempo normalissimo. Uno di noi. No, non lo sto idealizzando, non è una favola. Oggi i calciatori fanno i divi, si atteggiano da grandi e gratta gratta sotto non c’è niente».

·         Superga, settanta anni fa: la tragedia italiana in cui scomparve il Grande Torino.

Superga, settanta anni fa: la tragedia italiana in cui scomparve il Grande Torino. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Settanta anni fa. Dopo una sosta tecnica a Barcellona, il G-212 Fiat trimotore-ELCE punta dritto sull’Italia. Il tempo è pessimo; spira un vento di traverso e piove. Scartati gli scali di Milano e Genova, l’equipaggio decide di atterrare a Torino. Il radiogoniometrista del campo di volo dell’Aeronautica riceve un messaggio dall’aereo: «Voliamo al di sotto delle nubi, quota 2.000 metri. Tra venti minuti saremo a Torino». Dal campo di volo parte l’ultimo comunicato: «Nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi 500 metri». Alle 17,05 del 4 maggio il disastro: 31 vittime: diciotto calciatori, dirigenti e tecnici, i membri dell’equipaggio e tre giornalisti. Toccò a Dino Buzzati raccontare per il Corriere la catastrofe del Grande Torino: «Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell’apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17,05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. Non c’erano turisti, pellegrini, non una coppia di sposi in viaggio di nozze». Tocca ora a Giuseppe Culicchia rinnovare il mito degli Invincibili: «Superga 1949. Il destino del Grande Torino, ultima epopea dell’Italia unita» (Solferino). Le figure del mito vivono molte vite e molte morti; e la leggenda del Torino emana ancora una forza prodigiosa, la baldanza di ciò che allontana dal quotidiano e scuote di emozioni il cuore. Raccontando di suo padre Francesco, partito da Marsala per trovare lavoro a Torino, «ragazzo spazzola» in una barbieria nei pressi della stazione di Porta Nuova, innamorato perso del Toro, Culicchia sceglie un angolatura personale per raccontare l’epopea del Grande Torino. E lo fa da tifoso e scrittore, anzi da scrittore e tifoso. Perché la prosa è asciutta e commovente, l’evocazione si trasforma in racconto, i sentimenti diventano personaggi e i nostri eroi rivivono di una furia stupenda, come se il destino tragico non appartenesse loro: «A perdere la vita quel giorno a quell’ora furono nel pieno della loro carriera agonistica e della loro giovinezza, che è bene ricordare sottolineando l’età di ciascuno, i calciatori Valerio Bacigalupo di anni venticinque, Aldo Ballarin di anni ventisette, Dino Ballarin di anni ventitré, Émile Bongiorni di anni ventotto, Eusebio Castigliano di anni ventotto, Rubens Fadini di anni ventuno, Guglielmo Gabetto di anni trentatré, Ruggero Grava di anni ventisette, Giuseppe Grezar di anni trenta, Ezio Loik di anni ventinove, Virgilio Maroso di anni ventitré, Danilo Martelli di anni venticinque, Valentino Mazzola di anni trenta, Romeo Menti di anni ventinove, Pietro Operto di anni ventidue, Franco Ossola di anni ventisette, Mario Rigamonti di anni ventisei, Július Schubert di anni ventisei». Leggere oggi quei nomi è come rivivere un’avventura bruciante, un momento di malìa olimpica: «Atena e Apollo si posarono sull’alta quercia di Zeus e godettero degli uomini, raccolti in ranghi serrati, mentre un brivido increspava gli scudi, gli elmi, i giavellotti». Per un momento, siamo assaliti da infantile tenerezza, spostiamo le pedine di un incanto immobile e senza fine. Il Grande Torino sta ancora giocando, sta vincendo. Il mito è una narrazione di un evento che ha avuto luogo in un tempo lontano, fondativo; il mito ha bisogno di un luogo dove il rito dia forma a quella domanda di profondità che resta per lo più inevasa in fondo al nostro cuore. Il Toro ha due sacrari, il «Fila» e Superga. Il Filadelfia (oggi ricostruito come campo di allenamento) era un vecchio stadio da trentamila posti, gradinate e tribune a un metro dal terreno. Uno stadio dove il Torino non aveva mai perduto per quasi sei anni, dove in cinque campionati le squadre ospiti erano riuscite a portare via appena otto punti. E Superga? «Non so voi — scrive Culicchia —, io a Superga vado da solo nei giorni che precedono l’anniversario, perché è giusto e bello e commovente che ogni 4 maggio il popolo granata si dia appuntamento lì dove una targa ricorda i nostri Caduti, ma ciascuno di noi ha il suo modo di rapportarsi alla morte, credo, e il mio richiede solitudine e silenzio. Poi, il 4 maggio, ogni 4 maggio, rivedo i funerali del Grande Torino su YouTube. Conosco a memoria ogni fotogramma, e le parole del commentatore di quel cinegiornale che raccontò la giornata più triste del Torino e del calcio italiano. Eppure, lo ammetto: ogni volta non riesco a trattenere le lacrime. Il filmato è intitolato La tragedia di Superga e i funerali del Grande Torino, e appartiene alla serie “La Settimana Incom” dell’Istituto Luce». Sì, quel filmato l’abbiamo visto tante volte e tante volte siamo stati sopraffatti dalla commozione. In questi giorni a Torino, presso «Camera. Centro Italiano per la Fotografia», è allestita una mostra dell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo. C’è una foto che data 6 maggio 1949: un bambino con il gesso scrive sul marciapiede «W il Torino». Culicchia dedica il libro «a tutti i bambini del Toro». Con molte fatiche, noi vecchi bambini abbiamo imparato ad amare il Toro come è ora e come sarà domani, non soltanto come era un tempo. Adesso, la domenica, ci sono tanti ragazzini che vestono di granata. Il mito continua; con nuovi sguardi, con nuove parole.

Superga, 4 maggio 1949: storia dell'ultimo volo del Grande Torino. La cronaca del volo che 70 anni fa uccise i campioni granata. L'analisi, le testimonianze e le possibili cause della sciagura che sconvolse l'Italia. Edoardo Frittoli 3 maggio 2019 su Panorama. La storia e la vita dei giocatori del Grande Torino si infrangevano alle ore 17:05 del 4 maggio 1949 contro un terrapieno del lato orientale della Basilica di Superga, sulla cima della collina che sovrasta Torino. L'aereo che li stava riportando a casa dopo la trasferta di Lisbona si era schiantato contro il muro avvolto in quel momento da una fittissima coltre di nebbia e pioggia battente. La squadra più ammirata in Italia ed In Europa, orgoglio del paese che faticosamente si stava scrollando di dosso le macerie della guerra, compresi allenatore, massaggiatori e dirigenza tecnica oltre a tre giornalisti e l'equipaggio. I morti sul colpo sono 31. Ricostruiamo, con l'aiuto delle cronache e delle testimonianze dell'epoca, la storia di quel volo maledetto di 70 anni fa. Aeroporto di Lisbona: ore 9:52 del 4 maggio 1949. Il Grande Torino si trovava in trasferta a Lisbona dove aveva disputato una partita amichevole contro il Benfica con l'obiettivo di raccogliere fondi per la squadra lusitana in gravi difficoltà economiche. Il volo di ritorno era previsto nella mattinata del 4 maggio 1949 dall'aeroporto della capitale portoghese. Sulla pista li attendeva l'aereo noleggiato dai granata alla ALI (Avio Linee Italiane) allora di proprietà della Fiat, che possedeva anche la gestione del vecchio scalo di Torino-Aeritalia. Costruito dal colosso piemontese era anche il velivolo, un trimotore Fiat G.212 seminuovo (era stato consegnato nel 1947) ed immatricolato con le marche I-ELCE. Pilotava l'aereo il Comandante Pierluigi Meroni, un veterano della Regia Aeronautica che si era meritato la Medaglia d'Argento nel 1941 pilotando bombardieri del tutto simili al trimotore di linea che avrebbe dovuto riportare i campioni in Italia. Sui sedili presero posto idoli del calcio italiano Valentino Mazzola, Guglielmo Gabetto, i fratelli Ballarin, Valerio Bagicalupo, Ezio Loik, Mario Rigamonti e lo staff tecnico con il direttore tecnico Egri Erbstein e l'allenatore Leslie Lievesley. Alle 9:52, in perfetto orario, le grandi ruote del G.212 staccavano dalla pista scomparendo nelle gondole motore. Il carrello toccherà di nuovo terra a Barcellona per le operazioni di rifornimento carburante. I giocatori granata scendono a terra ed incrociano i giocatori del Milan, a loro volta diretti a Madrid per un'amichevole. Saranno gli ultimi a vedere i campioni d'Italia in vita. Erano le 13:15. Poco dopo le 14:00, rifornito di carburante, il G.212 decollava nuovamente per la tratta finale con destinazione Torino-Aeritalia. Il volo procedette senza intoppi sopra la costa meridionale della Francia fino al VOR di Savona, dove I-ELCE richiedeva l'attivazione del radiofaro di Novi Ligure per impostare la rotta magnetica di approccio nella fase finale del volo. Il tempo sopra la Liguria non era ottimale, ma neppure pessimo. Tuttavia le condizioni meteo in direzione della pista di Torino erano in rapido peggioramento, situazione che fece decidere all'equipaggio di abbassarsi fino all'altitudine di 2.000 metri, dove per l'ultima volta dai finestrini fu possibile vedere il terreno prima che questo scomparisse nascosto dalla fitta coltre nuvolosa.

Gli ultimi minuti di volo e la tragedia. A circa 15-20 minuti stimati dalla pista di Torino l'equipaggio del trimotore richiedeva nuovamente il rilevamento geometrico ai radiofari di Novi e Savona. Scosso dal vento di libeccio e sferzato dalla pioggia battente, I-ELCE entrato in volo strumentale ricontattava Torino alle 16:55 per avere nuovamente il bollettino meteo. Rispondeva la torre: "Torino: calma, visibilità 1.200 metri. Tempo presente pioggia continua, tempo passato pioggia. Nubi basse 8/8 strati e fractostrati limite 480 metri. In tutte le direzioni sopra le montagne, invisibile stazionario. Superga: cielo invisibile. Vento nord 10 nodi, visibilità 40 metri: tempo presente pioggia continua, tempo passato pioggia: in tutte le direzioni invisibile verso il basso." Condizioni dunque difficilissime per un approccio in sicurezza alla pista. Normalmente, ed in particolare all'epoca dei fatti quando la radionavigazione non disponeva di strumenti tecnologicamente avanzati, si sarebbe optato per quello che in gergo aeronautico è chiamato QCO, ossia la deviazione del volo verso uno scalo più sicuro, in questo caso Malpensa o Linate. Ma l'ordine da Torino non arriverà mai, mentre la prua del G.212 puntava inconsapevolmente contro il colle di Superga nascosto dal manto di nubi. Alle 17:02l'equipaggio chiamava per l'ultima volta la torre di Torino, per avere conferma dell'angolo di approccio alla pista, confermato a 285°. Dopo i saluti del Comandante e del marconista, il silenzio. Erano le 17:05 e la tragedia si era consumata in una frazione di secondo contro il muro di cinta della basilica di Superga.

La testimonianza dall'interno della Basilica di Superga. Don Tancredi Ricca era il cappellano della basilica di Superga. Poco prima delle 17 del 4 maggio 1949 si trovava nel suo studio con lo sguardo alla finestra oscurata dalla pioggia battente e dalla fitta nebbia. Fu allora che udì il rombo di un aereo in avvicinamento, al quale non fece caso più di tanto perché la basilica progettata dallo Juvarra era un punto di riferimento per gli aerei diretti su Torino. Pochi istanti dopo però, il fragore dei tre motori a pistoni si fece assordante e fu seguito pochi istanti dopo da un'esplosione che fece tremare i pavimenti di marmo. Poi un silenzio irreale, rotto di nuovo solamente dal battere della pioggia. Don Ricca non fece in tempo neppure a lasciare la sua stanza che udì una voce squarciare il silenzio: "E' caduto un aereo!", sentì qualcuno urlare dal basso.

Quando uscì nella nebbia scoprì la tragedia. Le fiamme ancora vive avvolgevano i rottami dell'aereo che accompagnava i campionissimi granata, sparsi tra il muro di cinta di Superga e il terrapieno contro il quale era avvenuto l'impatto fatale. Solo la parte di poppa della fusoliera e gli impennaggi di coda erano rimasti quasi intatti, appoggiati sinistramente allo spesso muro di cinta. Dalle ricostruzioni successive delle Autorità si comprese la dinamica dell'incidente. Il trimotore, in volo strumentale a visibilità zero, impattava il terreno a 4 metri dal terrapieno con la semiala sinistra, che si staccava di netto. Imbardando improvvisamente a destra, anche l'altra ala colpiva il terrapieno generando l'incendio mentre in una frazione di secondo (alla velocità di circa 180 km/h e con la prua in cabrata a causa dell'impatto) la fusoliera colpiva il muro di cinta della basilica, disintegrandosi. La cabina di pilotaggio con i suoi occupanti sfondò un portone e penetrò all'interno della basilica, in una delle stanze attigue ad un lungo corridoio. Il motore centrale finì al secondo piano e quindi, sfondato il pavimento, ricadde nella stessa stanza dove saranno ritrovati i corpi di Meroni e del co-pilota Cesare Biancardi. Quando le fiamme cominciarono ad affievolirsi, i primi soccorritori giunti sul posto assieme a don Ricca si accorsero della gravità dell'incidente. I passeggeri, i campioni granata e i loro accompagnatori erano ammucchiati in un'area di appena 2 metri quadrati a causa della violenza dell'impatto, mentre i loro bagagli furono ritrovati quasi intatti nell'orto sottostante protetti dalla poppa rimasta quasi integra.

Le ipotesi sulla sciagura che sconvolse gli Italiani. Le prime ipotesi sulle cause della tragedia di Superga spaziarono dalla scarsa preparazione dell'equipaggio al volo strumentale (contraddetta dalla nota e certificata abilità del Comandante Meroni nel "volo cieco"), quindi da un possibile guasto o errore della rilevazione altimetrica durante l'ultima fase del volo. Anche quest'ultima possibilità sarà contestata dal fatto che il Fiat G.212 era dotato di più altimetri (pilota, co-pilota e marconista) e che un guasto simultaneo a tutti gli indicatori di quota sarebbe stato statisticamente improbabile. Dal recupero degli strumenti dopo l'impatto fu chiaro che anche la taratura degli stessi era risultata corretta nei parametri impostati con le indicazioni da terra sulla pressione atmosferica. Il volo da Lisbona a Torino era un volo "charter", ossia concordato direttamente tra il Torino FC e la compagnia aerea. In seguito al disastro un'ipotetica ragione per la quale fu scelto di non dirottare il volo su Milano nonostante il meteo proibitivo avrebbe potuto essere individuata nelle possibili pressioni sull'equipaggio da parte dei dirigenti della società che avrebbero richiesto con insistenza di atterrare direttamente a Torino dato che la squadra era stanca in seguito ai tanti impegni dei giorni precedenti. Ma l'ipotesi forse più accreditata sembra oggi risiedere nei limiti della strumentazione di bordo e di terra disponibili all'aviazione civile di 70 anni fa. A causa dell'approssimazione della navigazione strumentale e della mancanza di standardizzazione nelle comunicazioni tra la torre e il velivolo, si sarebbe creato un lieve errore di rotta e altitudine (in termini di pochi secondi o poche decine di metri) che avrebbe portato il G.212 in rotta di collisione con la basilica. Bisogna tenere conto che all'epoca del volo fatale il trimotore non era dotato né di radioaltimetro e neppure del radar orizzontale, che avrebbe potuto avvisare in tempo utile l'equipaggio della presenza dell'ostacolo in rapido avvicinamento. Da considerare, secondo gli esperti, anche l'azione del forte vento di libeccio che soffiava sulle alture di Torino e che avrebbe potuto spostare di qualche grado l'angolo di approccio di I-ELCE alla pista, distante appena 9 chilometri in linea d'aria dal punto dell'impatto. Un errore umano dunque, molto probabilmente causato inconsapevolmente per la ridotta sicurezza nel volo strumentale di quegli anni oppure per una errata interpretazione delle carte nel momento in cui la vista del terreno scomparì agli occhi dell'equipaggio. E da quelli dei giocatori del Grande Torino, inconsapevoli del loro tragico destino per tutta la durata di quel volo che riporterà l'Italia nel lutto che sembrava svanito con la fine della guerra.

Il Grande Torino, quel 4 maggio che cambiò la storia granata. Settant'anni fa la tragedia di Superga che spazzò via la squadra più importante del mondo. Emanuele Gamba il 3 maggio 2019 su La Repubblica. Il sole che scintilla su Torino a momenti lascerà il passo alla pioggia, perché quando s'avvicina il 4 maggio c'è sempre un momento in cui il cielo diventa implacabilmente livido e d'improvviso cala il buio, come buio era quel pomeriggio di settant'anni fa quando l'aereo del Grande Torino - all'epoca, la squadra più importante del mondo - si schiantò contro la basilica di Superga. Nessuno sopravvisse. Non un giocatore, non uno tra allenatori medici e massaggiatori, non un membro dell'equipaggio, nessuno dei tre giornalisti al seguito. Fu la tragedia più tragica che abbia mai colpito il mondo dello sport, l'unica che abbia raso al suolo una generazione intera di calciatori, dei migliori calciatori che l'Italia avesse nel dopo guerra, e che abbia cambiato per sempre la storia del club e della gente che lo ama, che da allora si porta dentro i due sentimenti che quell'amore alimentano: la rabbia per la più ingiusta delle ingiustizie possibili e il rispetto della memoria, romantico e doloroso al tempo stesso. Chi nel '49 c'era, ha un ricordo che gli gela la colonna vertebrale, più di ogni altro: seppe della notizia perché qualcuno gli disse, con disperata incredulità, "è morto il Toro". Nessuno immaginava che una squadra potesse morire. Torino in questi giorni ha un fermento particolare. Sono i settant'anni, certo: nelle ricorrenze decennali in genere la partecipazione s'allarga, è come se ogni anno che finisce in 9 richiamasse il passato ancora più bruscamente. Ma non è solo questo: è che c'è una nuova saldatura tra la memoria e il presente, è che il sogno della Champions (il diritto al sogno è ancora più importante di quello all'ambizione, per questa gente) ha restituito la fede nell'utopia, materia di base del popolo granata, è che la squadra ha risfoderato uno spirito molto in linea con quello che Giovanni Arpino definì "tremendismo granata" (poca eleganza e molto furore, in estrema sintesi), offrendo un gioco non spettacolare ma vibrante, come piace a quel pubblico. E poi c'è il derby, che in origine avrebbe dovuto coincidere proprio con le celebrazioni di Superga, perché era in calendario il 4 maggio. Quelli del Torino, a cominciare da Cairo, hanno premuto per spostarlo, invocando la sacralità di quel giorno, ma forse è stato uno sbaglio: molti tifosi granata, quelli per i quali il Toro è più un sentimento che una cerimonia, ritenevano che non ci fosse niente di più sacro di giocare un derby con il cuore in mano, l'anima in spalla e il massimo della dignità per poi salire a Superga a onorare le proprie radici. Invece si è preferita la retorica alla grammatica, parlando di emozioni. Superga è il colle che domina Torino da est. In cima, la vista spazia fino alle Alpi e infatti è sempre stato un punto di osservazione strategico, perché da lì si potevano studiare a distanza le manovre militari di chi tentava l'assedio alla città. La basilica barocca dello Juvarra, progettata nel 1715, venne infatti fatta costruire per un voto del duca Vittorio Amedeo di Savoia, che nel 1706 andò sul colle per valutare l'offensiva dell'esercito franco-spagnolo. Giurò che, in caso di vittoria, avrebbe edificato un monumento alla Madonna, e quel monumento fu la basilica. Per i tifosi del Toro è il luogo del cuore, anche se è contro quei muri che si è consumata l'ingiustizia. Però per molti il 4 maggio non è solamente un lutto ma anche una sorta di data di nascita, segna la venuta al mondo del Toro così com'è, con il suo spirito così particolare, la sua forza di opposizione, l'arzigogolo della retorica e lo snobismo altero verso la banalità della vittoria. In questi giorni si usa salire sul colle a piedi (è una camminata di un'ora e mezza, due ore al massimo), un rito cui vengono sottoposti i bambini, come una sorta di battesimo. E la lapide che ricorda i caduti, i cui nomi verranno letti a voce alta alle 17.03, l'ora della tragedia, dal capitano Belotti, è ricoperta da sciarpe di tifosi di squadre di ogni parte del mondo. C'è una maglia di Astori. C'è la bandiera della Chapecoense, la squadra brasiliana sterminata dall'ultima tragedia dei cieli, nel 2016. E se i granata giocheranno il derby con la dignità che i tifosi chiedono, domani pomeriggio la manifestazione sarà oceanica. E non perché sono settant'anni.

La lezione mancata di onorare una leggenda con il derby in campo. Giocare la sfida nel giorno dell'anniversario sarebbe stato l'ideale per celebrare il ricordo. Tony Damascelli, Venerdì 3/05/2019, su Il Giornale. Le leggende non hanno tempo, non hanno scadenza, non hanno archivio. Settant'anni senza il grande Torino sono una memoria contemporanea, viva, fresca, come il colore granata, russ cume el sang, scrisse Giovanni Arpino che ne riassumeva la forza e la tragedia. Si celebra una scomparsa ma dovremmo commemorare una presenza e un'epoca nella quale la squadra del Torino rappresentava il meglio della gioventù italiana e il Filadelfia il suo teatro, poi violentato e deturpato dall'ignoranza di uomini e istituzioni. Settant'anni dopo, restano cimeli, cippi, fotografie, memorie narrate da chi, quelle gesta e quei gesti, ebbe la fortuna di vedere, senza il filtro furbo, a volte fasullo, della televisione, al massimo con i filmati de L'Unione Cinematografica Educativa, l'Istituto Luce che ne riportava le partite, i gol e rare interviste. Chi non ha visto la basilica di Superga, chi non è entrato al vecchio Filadelfia, chi non ha conosciuto Ossola e Gabetto, Mazzola e Maroso, Tosatti, Cavallero, i loro figli, le loro vedove, non può comprendere e non può spiegare. Non per il dolore o lo strazio ma per il patrimonio storico che il nostro calcio, così arrogante e ignorante, ha smarrito da quel giorno di Maggio del Quarantanove, era mercoledì 4, un pomeriggio avvelenato dalla maledetta nebbia. La memoria è stata onorata lavandosi la coscienza in frettolose rievocazioni e mai dedicando un torneo, un riconoscimento (se non per iniziativa privata), a quella squadra, a quei dirigenti, a quei lavoratori, magazzinieri, massaggiatori e giornalisti che tornavano da Lisbona senza sapere che la nebbia sarebbe stata eterna. La leggenda resta immutata nell'immagine di Valentino Mazzola e di Franco Ossola, di Loik e di Castigliano, in quella degli altri grandissimi granata, nel destino che salvò la vita, per una serie di circostanze fortuite e fortunate, a Nicolò Carosio, a Tommaso Maestrelli, a Vittorio Pozzo, a Sauro Tomà. I tifosi non hanno voluto che si giocasse il derby in questa ricorrenza, eppure sarebbe stata la partita ideale per ricordare e continuare a onorare, con il pallone in campo, due squadre, la città tutta, in doveroso rispetto. Ma gli acidi di fazione, le rivalità, hanno avuto il sopravvento, quasi a dire che nemmeno in una data emotivamente così forte non si possa stare assieme e vivere come sapeva vivere e giocare e vincere quel Torino, unico, irripetibile. Pagine bellissime e mille sono state scritte da poeti e romanzieri, su quella squadra, ma è il popolo, quello vero e sincero, non certo la ciurma della tifoseria ignorante, a conservarne il ricordo e il rispetto anche del nome, non Toro, che fa venire alla mente la corrida e la sfida impari, ma Torino, appunto, una città illustrata dalla squadra di football che Ferruccio Novo, il presidente, aveva voluto affidare a un ungherese di grande sapienza calcistica. Si chiamava Ermo Egri Erbstein, aveva allenato, tra le altre, il Bari, il Cagliari e la Lucchese. Egri, come decise di chiamarsi, cancellando Erbstein, come sua figlia Susanna, ballerina classica di grande successo nella nascente televisione della sede di Torino, Egri, dunque, capì che sarebbe stato opportuno modificare il doppiovuemme, WM, il modulo inglese di Herbert Chapman. Ne scaturì una difesa solida, una protezione altrettanto robusta e il Torino prese a fare cronaca e poi storia. Il Filadelfia diventò il vulcano davanti al quale svanivano i pronostici degli avversari. Nello stanzino a piano terra erano stati conservati gli armadietti, ripiani di legno, a cubo, nei quali i calciatori granata riponevano le scarpe da gioco; in un altro locale, di fianco alla scala che saliva verso la tribuna d'onore, era stata collocata l'enorme ruota in gomma nera del Fiat G 212, il charter di quel giorno nerissimo. Per noi giovani cronisti, frequentatori di quel luogo sacro al football, ogni spigolo, ogni finestra, ogni cimelio, profumava di olio canforato e di epica, provocando un momento di silenzio nel fragore delle risate di Pecci e Cereser, nel vociare di Edmondo Fabbri, nel fumo delle sigarette di Gustavo Giagnoni, negli occhi vivaci di Gigi Radice, c'era il Torino dovunque e comunque, dentro e attorno al Fila che resistette fino al Maggio del Sessantatre, ultima partita, ultimo pareggio contro il Napoli, un gol a uno, quello granata realizzato da un uomo che avrebbe proseguito la storia e la leggenda, Enzo Bearzot. Ecco perché il Torino è ancora presente, non soltanto nelle maglie di Baselli o Belotti, ma nella pelle di chi ama il calcio, di chi ha studiato la sua storia, di chi non dimentica gli uomini, semmai le tattiche. Verranno altri calciatori, verranno altri allenatori ma, settant'anni dopo, restano il Torino, l'urlo della sua folla, il suono del corno di Oreste Bolmida, il vecchio cuore granata. E l'improvviso silenzio di quel giorno di maggio. Eterno, come la squadra.

·         Cent'anni di Brera.

Sarrismo, vegani, selfie e Salvini: a cent'anni Brera la penserebbe così. Gianni Mura il 7 settembre 2019 su La Repubblica. Le parole che il grande giornalista e scrittore non ha avuto il tempo di dirci per interpretare i nostri giorni. Dicono dalla redazione centrale: sai, qui a volte ci chiediamo cosa direbbe Brera di quello che è successo nel calcio e fuori dopo la sua morte. Dico che me lo chiedo anch’io, e non solo Brera. Cosa direbbe Arpino di questa poesia, Veronelli di questo vino, Scirea delle generazioni (o degenerazioni) successive. Cosa direbbe Teresa Strada a Salvini. Cosa direbbe su tante cose e persone mio padre. E mi intrappolo da solo. Bene, dicono, serve proprio un pezzo così. A sus ordenes, con una premessa. Non voglio far ballare il tavolino a tre gambe e ho conosciuto da vicino Brera. Non sarò così scorretto da attribuirgli simpatie e antipatie mie di me (brerismo dichiarato). Se sbaglio, sbaglio di poco. Gli sarebbe piaciuto il Mondiale di Germania, una vittoria basata sulla difesa. Avrebbe goduto per il triplete dell’Inter. Due i motivi: l’amicizia che lo legava alla famiglia Moratti e il fatto che sotto sotto (neanche tanto sotto) tenesse all’Inter. Si definiva tifoso genoano per evitare rotture di scatole (già gli bruciavano il Giorno sotto casa per via di Rivera). Non gli sarebbe piaciuto Mourinho, come mai gli piacque il Mago Herrera, pur abbondante di ego, “Yo” era il titolo della sua biografia, mai però quanto lo Specialone. Gli sarebbe piaciuto Belotti, perché guadagnerà bene ma ha la faccia da povero e si sbatte sempre e comunque. Non è Rombo di tuono né mai lo sarà, ma qualche rovesciata l’ha fatta e ci prova sempre e comunque. Gli sarebbe piaciuto il Sarri di Napoli per quella vena cinghialesca , l’avrebbe accusato di eretismo podistico (come fece con Sacchi), e gli piacerebbe meno quello di Torino. Dal conte di Cavour a Bettega, passando per l’Avvocato, mai ci fu grande feeling tra Gianni e la città sabauda. Ma per tutta la vita viaggiò su Fiat. Non l’ultima notte, ma l’auto non era sua. Gli sarebbe piaciuto Allegri per quel suo non prendere troppo sul serio nulla, nemmeno il calcio, e perché non ha schemi fissi. Ma più di ogni squadra gli sarebbe piaciuta l’Atalanta, da lui definita mirabellissima anche quando non andava in Champions. Avrebbe invitato al club del Giovedì Gasperini, sorvolando sulla sua torinesità e ignorando che mangia poco e beve poco. Gli avrebbe rimproverato, oggi, la scarsa presenza di italiani ma della squadra avrebbe esaltato, citando il suo tripallico Colleoni, quello spirto guerrier ch’entro le rugge, nonché l’accentuata tendenza alla marcatura a uomo. Avrebbe ignorato, boicottato se preferite, iPad, sms, Facebook, palmari e diavolerie del genere. Già non usava il computer («ti cambia le parole in testa»). Tollererebbe forse i selfie, ma facendo linguacce o corna. Quando allo stadio gli gridavano “Brera, sei grande” rispondeva in modo non oxfordiano su quel che può accadere vicino ai forti. Non gli piacerebbe questo governo giallo-rousseau. Di Rousseau, avrebbe detto, conosco solo Jean-Jacques, e l’ho pure letto: “Discorso sull’origine e i fondamenti delle diseguaglianze tra gli uomini”, “Contratto sociale”. Molto meno gli sarebbe piaciuto il governo precedente. Ma non era stato lui a parlare di Padania prima di Bossi? Sì, ma in un altro modo. Lui che era nato povero e aveva studiato non avrebbe sopportato la mancanza di cultura di Di Maio, il disprezzo per la cultura, e di molto altro, di Salvini. Non gli sarebbe piaciuto vedere le piazze del sud, da Rosarno a Napoli, osannanti Salvini, che contro il sud aveva detto di tutto di più. E avrebbe ripiazzato il suo “che se tu fiderai nell’italiani sempre aurai delusioni”, che Guicciardini non ha mai scritto, ma Brera l’ha usato tante volte che ormai è come se. Gli sarebbe piaciuto Camilleri, per la fierezza nell’uso del suo dialetto e perché accanitissimo fumatore. Un coup de coeur per la Sicilia (Giovanni Verga) Brera l’ha sempre avuto. Gli sarebbe piaciuto Tortu (atletica primo amore) e ispirato dal cognome sardo l’avrebbe forse paragonato a un cavallino berbero. Gli sarebbe piaciuto Messi per le doti balistiche e poi perché da Maradona in poi (senza dimenticare che voleva Fotia in Nazionale) i piccolini di talento erano la dimostrazione che a calcio possono giocare tutti. Non avrebbe scritto una riga, per opposti motivi, di basket e volley. Non avrebbe scritto una riga sul caso Inter-Maurito-Wanda, almeno credo. Se sì, con toni più grevi che gravi. Non gli sarebbe piaciuto Neymar, per cui abatino sarebbe già un complimento, e avrebbe creato un neologismo tra tuffatore e truffatore. Gli piacerebbe sapere che nella sala di sinistra del Riccione c’è ancora al muro un quadro che lo rappresenta seduto coi suoi amici. Di quando era vivo è rimasto il Cozzi, che era un ragazzo tra i tavoli e adesso ha i capelli grigi, ma è sempre in gamba e il pesce è buono. E nessuno si scandalizza più se vede in tavola una bottiglia di rosso. I suoi cuochi sono tutti morti: Giuliano Metalli, Franco Colombani, Mario Musoni, Alfredo Valli, Gualtiero Marchesi, gli ultimi due nati a San Zenone. Valli, per 16 anni chef al Biffi Scala, quando usciva l’ultimo soufflé al mandarino si sedeva al tavolo di Brera e si giocava a carte San Zenone-Resto del mondo, vittima preferita Mario Soldati, o chi capitava. I suoi vini sono vivi: il Barbacarlo di Maga, il Barbaresco di Oddero. A Brera, cacciatore e mangiatore di carne, non piacerebbero i vegani e ne scriverebbe ai limiti della querela, o della tempesta mediatica. Infine, Brera sarebbe andato al funerale di Gimondi, il suo Nuvola Rossa. Anche se non gli piaceva andare ai funerali e preferiva piantare un albero per ogni amico che moriva. Oggi sarebbe un bosco, e oggi come quel giorno di dicembre del ’92 gli sia lieve la terra.

Gianni Brera e il suo vocabolario. Abatino, rombo di tuono e puliciclone: un calcio dove le parole diventavano colore e magia. Corrado Sannucci su La Repubblica. (Articolo sulle parole coniate da Gianni Brera pubblicato il 20 dicembre 1992). Tra le sue invenzioni lessicali: Eupalla, la dea che presiede alle vicende del calcio ma, soprattutto, del bel gioco (Dal greco: Eu , bene). Divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie degli umani.

Abatino  - "Molto vicino al cicisbeo. Omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato e qualche volta finto". Questa definizione, per un vocabolo che nacque per battezzare Gianni Rivera, considerato troppo poco atleta, fu estesa poi a tutto il popolo italiano, fino a classificare una condizione antropologico-esistenziale del calciatore nostrano: "Abatini siamo e abatini resteremo". I grammatici colti fanno notare che il termine era già presente, naturalmente in altri contesti, nelle opere del Foscolo. 

Bonimba - Epiteto coniato nel '71 per Roberto Boninsegna, allora centravanti dell'Inter. Nelle intenzioni dell'inventore, il desiderio di evocare onomatopeicamente il nano Bagonghi. 

Centrocampista - Termine introdotto negli anni '50, che indica genericamente il giocatore che opera a centrocampo. Mutuato dall'inglese midfielder e dal francese milieu de terrain. Il centrocampista è un lavoratore indifferenziato: se ha dei compiti precisi diventa, per esempio, regista (altro termine probabilmente creato da Brera) o incontrista. 

Cursore - Dal latino medioevale cursor, indica il centrocampista di fatica e quantità. Cursore, per antonomasia, fu Domenghini: oggi, più modestamente, lo sono Crippa o Evani.

Deltaplano - L'apertura alare di Walter Zenga, il suo planare per l'area, hanno attirato questa definizione dell'ex portiere della nazionale. 

Euclideo - Per definire il gioco razionale e geometrico. Tipico giocatore euclideo fu Fabio Capello, recentemente ribattezzato, nella sua carriera di allenatore, Gran Bisiaco, per le sue origini anagrafiche. 

Eupalla - La dea che presiede alle vicende del calcio ma, soprattutto, del bel gioco (Dal greco: 'Eu' , bene). Divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie degli umani. 

Forcing - Termine traslato dal gergo della boxe, indicante un'azione aggressiva e continua sulla squadra avversaria. 

Goleador - Merita di più questo attributo l'attaccante che segna di destrezza, così come suole fare il toreador, al carattere del quale è avvicinato dalla comune lingua spagnola. Al goleador sono apparentati anche il goleare (segnare una rete) e la goleada (vittoria con molte reti). 

Libero - Termine, ormai di accezione internazionale, che identifica il difensore, libero appunto da impegni di marcatura, che agisce alle spalle di tutti gli altri compagni. Data di nascita del neologismo: 1949, dopo un Juventus-Milan 1-7, una delle partite che allora suggerì l'idea di una diversa disposizione delle difese.

Palabratico - Neologismo creato dal vocabolo spagnolo palabra, parola, indicante attitudine, non necessariamente spregevole, alla chiacchiera e alla loquela. 

Palla gol - Indica la possibilità concreta, nata da circostanze straordinariamente favorevoli, della realizzazione di un gol. Il termine è usato quando la suddetta possibilità è stata fallita: per converso, non tutti i gol nascono da palle gol, potendo accadere che su palloni "impossibili" il giocatore inventi la realizzazione. 

Pelasgio - Epiteto coniato per Bruno Conti, in riferimento alle sue origine nettunensi e tirreniche. 

Piper - Soprannome per il mediano dell'Inter, Oriali, nel momento migliore della carriera. Quando il giocatore cominciò a declinare fu retrocesso a "Gazzosino". 

Pretattica - Le schermaglie di disinformazione che precedono la partita e con le quali gli allenatori cercano con formazioni false di ingannare il collega avversario sulla squadra che manderanno in campo. Termine di grande diffusione negli anni '70, quando la pretattica era molto in voga: ora caduto in disuso dal silenzio sistematico degli allenatori. 

Puliciclone - Più che un nome un ritratto. Con questa parola di sapore futurista venne etichettato Paolo Pulici, ala del Torino. Nell'epiteto c'è tutto il vorticare delle gambe e l'azione talvolta confusionaria del giocatore. 

Rifinitura - Perfezionamento finale dell'azione che in genere consente al compagno di andare a rete. Ma si estende a qualsiasi altro compito tecnico da completare. 

Rombo di Tuono - Così venne definito Gigi Riva: in alternativa era pronto il titolo di Re Brenno. "Fosse nato al tempo dei Galli lui e non altri li avrebbe condotti alla conquista di Roma".

Uccellare - Beffare l'avversario, superarlo con astuzia e abilità. Recuperato dal Boccaccio e tradotto dal francese "oisleur". 

Le pagine più belle di Gianni Brera, creatore di neologismi. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. Salvate Brera dai suoi accoliti e dai suoi imitatori! A 100 anni dalla nascita, Sky Arte ha dedicato un documentario di Angelo Carotenuto e Malina De Carlo al il più importante scrittore italiano di sport: «C’era una volta Gioânn». Già dal titolo, si capisce che siamo nell’ambito della venerazione del «padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni». Su Brera, infatti, esiste un culto diffuso, anche per via del suo spiccato gusto nel creare parole nuove. Era un onomaturgo, un coniatore di neologismi: «abatino», «centrocampista», «Eupalla», «libero», «palabratico» («I pirletta sghignettavano molto leggendo neologismi ad ogni pezzo: ma se non esistevano i termini?»). Ha ragione Gianni Mura: Brera è stato il primo a tracciare una pista, il suo grande merito è di aver arricchito un linguaggio povero (quello del giornalismo sportivo). Dire, come si dice nel documentario, che ha «sistemato» Gadda, Pasolini ed Eco è risibile. Il documentario non poteva non trattare anche la famosa disputa con Umberto Eco. Che, nel 1964, in «Apocalittici e integrati» se la prende con Brera definendo il suo stile «gaddismo spiegato al popolo», basato sull’ «impiego gratuito di stilemi ex-colti». La sua prosa (soprattutto quella degli infelici romanzi) è la stessa «contro cui si scaglia Roland Barthes quando ne «Il grado zero della scrittura» mette a nudo la radice piccolo borghese, pretenziosa e mistificante, del realismo socialista di un Garaudy: metafore come «strimpellare la linotype» o «la gioia cantava nei suoi muscoli» sono esempi perfetti di midcult. La risposta di Brera è nota: «Eco è un pirla». Le pagine più belle di Brera sono quelle meno pretenziose, le «sette o otto cartelle scritte in un’ora e mezzo», quelle, per esempio, che formano «Coppi e il diavolo». Oggi le sue considerazioni etniche suscitano molte perplessità, al pari delle sue partecipazioni al «Processo del lunedì».

L’epica di Gianni Brera nato sotto il segno di Ariosto. Vittorio Macioce l'8 settembre 2019 su Il Giornale. C i teneva Gioânn al suo compleanno. Non per il tempo che passava, perché quello in realtà lo straniva, con la malinconia rabbiosa di sentirsi ogni volta più vecchio. «La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco». Non sarà diverso neppure adesso che sono passati cent`anni dalla sua nascita e le stagioni non le conta più da quella notte di dicembre del 1992 quando tornava a Milano su una Ford Sierra. Era un venerdì e aveva cenato al ristornate «Il sole» di Maleo, paesotto sull`Adda che deve il suo nome forse all`arte dei fabbri, martello, dal latino malleus o da un condottiero romano passato da quelle parti, Tito Maleolo. Quella sera finì male, con il botto, l`auto accartocciata e lui morto. Ci teneva a quell`otto settembre non tanto per il «tutti a casa» dell`armistizio, ma per il lusso di condividere quella data con Carlo Martello, San Bernardino da Siena, Pietro Bembo e soprattutto con messer Ludovico Ariosto. Non c`è da sorprendersi. Il giornalismo di Gianni Brera è chanson de geste. È epica, meraviglie, invenzione, corbelleria, con la vocazione di trasfigurare la realtà in una giostra di magie e avventure e non è allora così difficile immaginare Gigi Riva da Leggiuno nell`armatura di Orlando, Rivera come Brunello e Deltaplano Zenga come Astolfo sulla luna, Puliciclone come Rinaldo, Bonimba come un Ferraù della Bassa o Lodetti in Sacripante e veder volare l`eterno Fausto Coppi sulle Dolomiti come una sorta di Ippogrifo. Brera come Ariosto è qualcosa di più di un cantastorie. È uno che con due colpi di scalpello rende vivo un personaggio e inventa parole, battezza, regalando una lingua all`epopea dello sport. Il sinistro di Riva ha la stessa natura selvaggia e divina del rombo di tuono, le spalle di Rivera sanno di abatino, il mento a punta di Lodetti è da baslètta e l`arte funambolica di Bruno Conti ha il segno arcaico dei pelasgi e si porta dietro un sapere felino e domestico. «È nell`istinto dei gatti giocare lieve di artigli sul gomitolo sottratto alla comare: l`uomo che si diletta di acrobazia sull`erba è un fenomeno solitario, un prodigio di invenzioni minime e tuttavia impensate, esaltanti». Al centro di tutto c`è chiaramente quella sfera di cuoio da addomesticare, una divinità moderna capricciosa che insegue i suoi umori e le sue fortune. Brera la chiamerà Eupalla. Non è solo un gioco di soprannomi. È dare un senso a personaggi e azioni. È da qui che vengono i suoi neologismi. È dare uno spazio e un tempo al racconto. Melina. «Trattenere a lungo la palla passandola o ripassandola da un giocatore all`altro della stessa squadra allo scopo di perder tempo e talvolta con l`intenzione di umiliare l`avversario». Contropiede. «Attacco in direzione inversa. Tratto dalla seconda fase della danza del coro delle tragedie greche». Atipico. «Causio: uno dei meridionali della squadra juventina. Atipico e discontinuo fino al dispetto». Centrocampista. «Il centro­campista ha da avere istintivo o quasi il senso geometrico del gioco. Senza quello è votato al fallimento perché il centrocampo è un mare nel quale facilmente si affoga». E si può andare avanti così con «cursore», che ha nelle gambe la fatica del corriere medievale o l`incornata del goleador che allo stesso tempo si fa toro e torero. San Zenone, dove è nato, era feudo degli Este e questo lo riporta al destino ferrarese di Ariosto. Brera mette la sua fantasia nel giornalismo e lo fa per mestiere e per campare, perché come tutti quelli nati senza rendita non può permettersi il lusso di scrivere senza guadagno. È nel tempo libero che si dedica ai romanzi, quasi tutti, mentiva, scritti in un mese: Il corpo della ragassa (Longanesi 1969); Naso bugiardo (Rizzoli 1977); Il mio vescovo e le animalesse (Bompiani 1983). L`epica torna in Coppi e il diavolo che non è semplicemente un libro sul Campionissimo ma uno specchio dove riconoscersi. È Brera che parla di Coppi (nella foto) e sottotraccia ti racconta le stesse fatiche di Giovanni Brera fu Carlo. «Il padre di Fausto batteva i mercati di Nova e di Tortona. Ci andava con Zagara attaccata al biroccio o in bicicletta. Fu il primo proprietario di bicicletta a Castellania. Poi ne comprò una lo zio calzolaio, marito a una sorella del padre di Fausto. Era un`Aquila, aveva il manubrio basso, quasi simile a quello dei corridori. Fausto imparò a reggersi in bicicletta infilando nel quadro la gamba destra e pedalando come uno sciancato: si aggrappava al manubrio e oscillava in affanno da un pedale all`altro. Bastava gli starnazzasse davanti una gallina per farlo ruzzolare malamente. Aveva le ginocchia zeppe di sbucciature: né andava a piangere in casa, perché sua madre gli avrebbe dato il resto». Per trovare Brera bisogna andare in paese. È quello che fanno Angelo Carotenuto e Malina De Carlo in C`era una volta Gioânn, documentario in onda stasera su Sky Arte (canali 120 e 400). È San Zenone al Po il suo segreto. Non è solo il luogo dove è nato e vissuto l`infanzia. È qualcosa di immaginario che si porta dietro ai confini del mondo, ovunque va, come un talismano, un posto da cui scappare e ritornare, un demone, un destino, un sestante che ti permette di ritrovare la strada quando tutto ti sembra smarrito o straniero. I confini di San Zenone sono molto più grandi di quanto sembri, perché si muovono ogni volta che si allarga l`orizzonte. È qualcosa di più del Pavese e della Padania, da lui immaginata come luogo dell`anima e non della politica. «Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l`8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po».

Gianni Brera e il ricordo di Mario Fossati. 7 settembre 2019 su La Repubblica. Tornavamo ogni anno al Tour, alla Francia, come l' onda allo scoglio. La Francia lo consolava di essere latino. Io so tante, troppe cose di Gianni Brera e non so da quale parte cominciare. La costernazione, il dolore. Era per me un fratello. La Gazzetta dello Sport era risorta il 2 luglio 1945: e, una settimana dopo, aveva annunciato il Giro della rinascita, che sarebbe scattato nel maggio del 1946. Bruno Roghi aveva stipato in una sala del secondo piano del palazzotto di via Galilei le firme di un tempo, che, anche dimettendosi, all' epoca trista della Repubblica di Salò, avevano onorato l' antico foglio rosa. Rosario Busacca, Giovanni Canestrini, Massimo Della Pergola (che con Geo Molo e Fabio Jegher inventerà il Totocalcio) Vincenzo Cuccia, Sabelli Fioretti, Felice Palasciano e, a Roma, Enrico Vignolini. I giovani erano Gianni Brera, Giorgio Fattori, Luigi Gianoli e, stranito dalla guerra di Russia, chi scrive. Gianni Brera calzava un paio di scarpe da paracadutista e portava addosso e recava sul viso "partigiano": come una zanna, la fucilata di un tedesco, nel corso di un rastrellamento, gli aveva inciso un piccolo gradino nel naso. L' amicizia fu immediata. Abitava con la moglie, la dolcissima Rina, in via Catalani, a Milano: vicino a suo fratello, Franco. Io venivo in bicicletta, il mattino da Monza e poiché via Catalani sfociava in piazzale Loreto, passavo da Gianni, per filare al giornale. Il cui direttore per la verità, molto non mi annusava, forse per il mio aspetto fra lo sciamannato e il disperato. Così era. Confidavo a Gianni che, a volte, al cospetto del direttore mi cedevano le gambe. Ero molto vicino alla psicosi acuta: allo stato confusionale. Lui pensava a voce alta Brera mi soccorreva, non alla maniera pietosa, ma frustandomi. Lui pensava a voce alta: e aveva il torto, per alcuni colleghi, di esternare pure le verità non richieste. Un lusso costoso. Gli era stata affidata l' atletica leggera, il "culto dell' uomo". E fu, quella, una splendida intuizione di Bruno Roghi. Stoltamente, però, non gli veniva permessa alcuna evasione dal settore, fosse pure il calcio. Gli era lecito scrivere di calcio sul "Guerin Sportivo", e i lettori della Gazzetta seppero presto dove ritrovarlo. Il giornalismo ha una tendenza allo sgambetto. I pigri al gioco o i distratti, ci cadono. Una mattina mi dissero che la mia scrivania era stata posta in un box, molto vicino alla via d' uscita del giornale. Passi per me, ma che vi avessero deposto, nel box pure la scrivania di Brera era una cosa che non mi andava giù. Quel pomeriggio alla "mensa" - non avevamo commensali in redazione - io davo sfogo al mio malumore: all' opposto, Brera faceva sfoggio di spirito e di umorismo. Ma avevano voglia di "aprire agli altri" e di "chiudere a lui". Il suo standard stilistico era altissimo: io ho sempre avuto la sensazione, a proposito, che lo sport fosse una materia troppo labile per la sua cultura. Gianni lo studiava con serietà, a fondo. Il giorno che lo nominarono direttore della Gazzetta, un vecchio tipografo gli disse: "Guardi, io non credo alla morale del mondo. Ma oggi penso che una certa giustizia, alla grossa, nel mondo, esiste". I suoi ammiratori o lettori "culti" non sospettavano minimamente che Brera scrivesse sette-otto-dieci cartelle, nello spazio di neanche due ore, ai Giri e ai Tour, con il dettatore (in Gazzetta il povero Angelo Ponti) che le toglieva dal carrello della macchina da scrivere, venti righe la volta. Quando gli raccontai che le sue definizioni letterarie, i suoi sinonimi erano entrati addirittura nel lessico del codice sportivo e del regolamento, mi rispose: "Ritengo, se non mi illudo, di aver contribuito la mia parte a delineare con passabile e onesta nitidezza il gesto atletico". Amava la sua terra, la Padania. Era contento che altri l' amasse e che io e il suo fedele conduttore, il Pepp Dedé, fossimo lombardi: anche se loro erano "bassaioli" e io un "celta", in quanto testone e brianzolo. Il lavoro nostro dietro al ciclismo è legato a ricordi bellissimi e schietti. Reinventavamo i "pais" e ci eccitavamo alle loro gesta: scoprivamo dei "pais" la fisionomia morale, umana sotto la scorza spessa dei "geants de la route". Vivevamo avventure splendide per semplicità e bravura. Coppi... Bartali... Magni. Il nostro referente, nei Tour, era Alfredo Binda. Quanti Girié Quanti Tour: insieme per la Gazzetta dello Sport e per Il Giorno, della cui redazione sportiva (Gianni Clerici, Pilade Del Buono, Giulio Signori, Angelo Pinasi, Gianmario Maletto, Piero Dardanello...) andava fiero. "Sei un trait d' union e un amico" mi sorrideva. E mi prendeva bonariamente in giro. "Sulla strada del ciclismo si consumano talvolta autentici delitti: ma, per te, sono immancabilmente d' onore". Io ero convinto che lo "stile Giorno" (il Giorno di rottura di Baldacci: il Giorno di Italo Pietra) esigesse che gli aggettivi fossero un diluente banale della sostanza pittorica: e che non vi si dovesse ricorrere, anche per l' "umile ciclismo", se non per gli elogi iperbolici. Intarsiavo, perciò, le mie cronache di soli concetti tecnici. Il ciclismo dei poveri Brera mi sfotteva garbatamente: "Se ti riesce un bel verso - interveniva - eliminalo impietosamente (lo consiglia il grande Anatole)". E un giorno che mi scappò scritto che, "passando accanto a una piscina i corridori l' asciugarono con gli occhi" mi ricordò l' immagine, per anni. Io ne ero molto impacciato. Gianni gongolava. Brera da Il Giorno approdò al Giornale: lo avrei ritrovato a Repubblica. Una delle cause per cui ho abbandonato il ciclismo, che non assomiglia spesso a se stesso, è stato il non sapere più vedere una corsa senza Brera. Magari da murate differenti ma dovevamo guardare insieme e commentare: e succedeva che mi provocasse, ad arte, "come facevano i frati nelle prediche - precisava - per ravvivare il dialogo e divertirsi anche mentre lavorava". Tornavamo ogni anno al Tour, alla Francia, come l' onda allo scoglio. La Francia lo consolava di essere latino. Poi, vennero il calcio e l' abbandono da parte sua del ciclismo "che aveva amato come epos dei poveri". Aveva smesso di vagabondare. Lo vedevo alla tv: ed ero contento che partecipasse ai "giovedì del suo club": che lo attorniassero Missoni, Bolchi, Paleari: che avesse sempre successo. Non mi facevo mai vivo. Mi rimproverava. Io non riesco a restare solo: sei un vecchio saggio, mi diceva. Radio Popolare mi ha telefonato alle otto di ieri mattina: ho provato un grande dolore. Come un' ansia di spavento.

Gianni Brera. Il ricordo di Rivera: "Io abatino, non mi offesi mai". Vittorio Zambardino il 7 settembre 2019 su La Repubblica. Intervista pubblicata il giorno dopo la morte di Brera, il 20 dicembre del 1992. "Un omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparir manierato, e qualche volta finto".

Onorevole Rivera, se la ricorda la polemica sull' Abatino? Lei se ne risentì molto.

"Ricordo, ricordo. Ma sia chiaro: a me quella definizione non fece né caldo né freddo. Colpire in quel modo faceva parte del gioco, gli riconoscevo il diritto di polemizzare con quella durezza. Lo riconoscevo però anche a me, di rispondere per le rime. Erano tutte cose che facevano parte del quotidiano delle polemiche calcistiche. Non ho mai presteso che lui fosse d' accordo sulle idea che avevo io".

Oggi tutti le hanno chiesto di parlare di una rivalità antica, dell' uomo col quale lei si è scontrato mille volte. E' un compito strano, forse ingrato.

"Mi è sembrato doveroso rispondere a tutti, per un rispetto dovuto all' uomo. Un po' me lo aspettavo, che prima o poi mi sarebbe toccato, vista la sua età, speravo di rinviare per molto ancora. Ma, detto questo, io non ricordo Gianni Brera come l' avversario. Preferisco rammentare gli incontri che avvenivano dopo i suoi articoli, quelle righe che magari ti facevano male, ti colpivano, ti facevano arrabbiare. Però poi uno si vedeva e si capiva che non c' era astio, né tutto questo abisso".

Cioè vi vedevate e vi intendevate...

"Ci capivamo perché Brera era capace - quando voleva, quando decideva di farlo - di abbandonare questa sua "mania" interpretativa, cioè l' attaccamento alla sua tesi e di diventare obbiettivo, di riconoscere i suoi errori. E la tensione si scioglieva, magari a tavola, davanti a una buona bottiglia di Barbaresco che lui amava moltissimo".

La vostra non era una incompatibilità anche umana? Brera era un laico, lei un cattolico, e l' elenco delle differenze potrebbe continuare.

"Purtroppo nel calcio i rapporti non arrivarono mai al punto di misurarsi anche su queste cose, su questi valori di fondo. No, c' era un parlare dell' interesse che ci accomunava, quello calcistico, e col buon tatto di non approfondire gli argomenti che ci trovavano in dissenso".

Su quelli tecnici divergevate in modo totale.

"Sì, e nessuno dei due ha mai fatto finta di essere d' accordo con l' altro per diplomazia. Brera è sempre stato fedele ad un' idea di calcio contratto, chiuso, fondato sul contropiede, sull'opportunismo. Aveva elaborato delle teorie etnicoculturali per sostenere meglio le idee calcistiche. "Io pensavo che per giocare al pallone e divertire la gente devi innanzitutto divertirti tu che vai in campo, e che semmai le caratteristiche fisiche ed etnoculturali di italiani, uniti alla nostra raffinatezza tecnica, ci facevano più adatti ad un gioco brioso, aperto. Ma qui, ripeto, non ci mettemmo mai d' accordo".

A proposito di italiani e di lingua, che impressione le faceva la sua scrittura?

"Nessuna. Non mi occupavo di questo aspetto, pensavo a quello che diceva, anche se a me, piemontese naturalizzato lombardo, lui riconosceva i titoli di essere uno come lui".

"Le parole che tagliavano" ha definito Sandro Mazzola le critiche di Brera. Conosceva la Storia del Calcio o uno dei suoi romanzi?

"No. All' epoca non me ne occupavo, e oggi considero il calcio per me un fatto del passato, che non dimentico ma che non appartiene alla mia sfera di interessi presenti".

In queste ore tv e giornali sprecano il termine Maestro per Brera. Lo ritiene un termine appropriato?

"Senz' altro".

Ma a ben guardare, Brera non ha fatto molta scuola. Non poteva. Era troppo più bravo e più grande degli altri. Diciamocelo senza ipocrisie. A questo proposito è stato detto che voi due vi siate in un certo senso sostenuti a vicenda con la vostra polemica; l' uno avrebbe valorizzato l' altro.

"Ma no, nessuno dei due aveva bisogno dell' altro per valorizzarsi o farsi pubblicità".

Gli riconosce qualche merito sportivo?

"Brera era un uomo che si schierava con la sua idea, che la difendeva, che prendeva partito. Ma poi non è mai stato un giornalista tifoso, penso a tanti giornalisti di adesso, nello sport, schierati come capitifosi".

Ha parlato di una sua lealtà.

"Sì mi sono ritrovato in tempi diversi attaccato da altri giornalisti, su altri argomenti. E lui è intervenuto per difendermi dicendo cose molto belle su di me".

Grazie, onorevole. Di questo avevamo già altre prove. Sandro Mazzola fu da lui criticatissimo agli europei del ' 68. "Mi fece a pezzi". Poi, dopo la seconda finale, Brera gli scrisse un biglietto: "Ho visto come sa giocare il calciatore ideale... Tuo Brera".

Vittorio Feltri, il ricordo di Gianni Brera: "Il migliore. Quella lite da cui nacque la nostra amicizia". Libero Quotidiano l'8 Settembre 2019. Ho avuto a che fare con Gianni Brera, del quale si celebra il centenario della nascita, quattro anni prima di conoscerlo di persona. Eravamo partiti male, duellammo a lungo per iscritto tirando di fioretto, poi di spada e di clava, avendo entrambi un carattere poco incline a cedere su quel che si crede e si scrive. Ma per me, che sono un appassionato di scherma e già al tempo avevo sviluppato un' intolleranza esantematica nei confronti dei numerosi cretini che affollano il nostro mestiere e non si astengono dall' avere opinioni, litigare con Brera era una cerimonia di nozze, e anche lui credo che si sia divertito, visto com' è andata a finire la nostra giostra. Andò così. Nel 1988 venni inviato dal Corriere della Sera a Seul, in Corea. Avevo il compito di seguire, per mia fortuna, non le gare, ma i contorni, i costumi, ogni giorno sceglievo il circondario di un evento e lo raccontavo (per inciso, mi salvai per miracolo da quell' esperienza, un giorno presi l' autobus per raggiungere uno stadio, e il mezzo, con me sopra, passò per un ponte malfermo che battezzai subito, con una certa preoccupazione: questo viene giù. Io quel dì me la cavai, però poco dopo essere rientrato a Milano lessi la notizia che il ponte aveva ceduto sotto il peso della medesima corriera, morirono in quaranta).

LA LITE. Insomma, ero a Seul quando da via Solferino mi informarono che Brera, al tempo era a Repubblica, aveva scritto un editoriale in cui auspicava che Milano venisse eletta come sede delle successive Olimpiadi disponibili, nel 2000. Secondo lui la città era attrezzata adeguatamente per ospitare l' evento-mostro dello sport mondiale. La qual cosa non era vera, per cui io ero di diverso avviso, e lo ero di prima mano, perché in Corea scandagliavo quotidianamente quanto fossero complessi i meandri organizzativi, numerose e impegnative le strutture necessarie, ingente la profusione di energia, di personale e di denaro per sostenere l' impatto dei Giochi. Il capoluogo lombardo, infatti, non aveva nulla, non un palazzetto, crollato sotto una formidabile nevicata tre inverni prima, non una pista di atletica, non una piscina olimpionica, non un posto per le gare di tuffi. L' Idroscalo era poco più che brullo. Invitato dal Corriere a commentare la sparata di Brera, scrissi le mie osservazioni, con parole un tantino colorite, cioè che per sostenere la candidatura di Milano bisognava essere fuori di testa. Brera non apprezzò. Rispose nota su nota, mi diede del cretino. Ci replicammo addosso finché, in calce a uno dei miei elenchi di manchevolezze dell' ipotetica Milano olimpica, scrissi: «Caro Brera, stavolta hai toccato il fondo. Della bottiglia». Brera non lanciò più la sua ascia di guerra e la cosa sembrò finire lì. Invece questa vicenda generò due code. La prima è che l' allora sindaco meneghino, Paolo Pillitteri, che con Brera e Massimo Moratti avevano lanciato un comitato per promuovere "Milano 2000", mi provocò, invitandomi a testimoniare l' inizio e l' avanzamento dei lavori sulle infrastrutture. Pillitteri, come confessò anni dopo, non credeva che davvero mi sarei impuntato a verificare le sue (e di Brera) dichiarazioni. Mi diede buca per tre o quattro appuntamenti consecutivi, finché andai da solo a dare un' occhiata ai cantieri, che praticamente non c' erano, e scrissi un articolo durissimo al quale nessuno replicò. La seconda coda è la nascita della nostra amicizia, intendo con Brera. Dirigevo L' Indipendente, era il 1992, e in quei mesi io e la mia squadra di giornalisti stavamo facendo un giornale inedito, corsaro, beffardo e aggressivo, che in Italia non s' era visto ancora. A pranzo frequentavo un ristorantino, Da Roberto, in Corso Sempione, ma ero all' oscuro che fosse meta pure di Gianni. Un giorno, mentre parlo con il mio commensale, con la coda dell' occhio vedo Brera a un tavolo non lontano. Anche lui si accorge di me, per un po' entrambi decidiamo di ignorarci. A un certo punto un cameriere arriva con una bottiglia di Grignolino insieme con un biglietto: «Auguro anche a lei di arrivare al fondo della bottiglia». Alzo la testa e vedo la sua mano che con un ampio gesto ci invita al suo tavolo. Così scoprii l' altro lato di Gianni Brera, quello che i suoi amici conoscevano, quello che originava la sua prosa pirotecnica. Cioè l' atteggiamento nei confronti della vita. La sua compagnia era perfino più piacevole della sua scrittura. Ma avvicinarsi a Brera, almeno questa è stata la mia esperienza, era come esser tirati dentro una tromba d' aria, il suo tipico ventaccio di parole si alzava dalla combinazione di tre diverse velocità: le parole colte e citazioniste, quelle popolari e quelle inventate. Parlare con lui (parlava sempre lui) era una specie di corrida in cui si mischiavano mondi, informazioni, aneddoti, stranezze, date storiche, alla verità delle quali a fine pasto nessuno sapeva se credere. Erano troppe, troppo dettagliate e si intersecavano con la precisione dei mattoncini Lego. La mia malfidenza, però, era poco lungimirante: spettinato dalle chiacchierate, dalla sua presenza imponente e da quella mole di racconti, una volta in redazione correvo alla Treccani (che tengo ancora in ufficio, bisunta e infallibile, sugli scaffali alle mie spalle, equivale a un altare cui rivolgermi ogni volta che ho un' incertezza) e andavo a verificare almeno alcuni dei suoi racconti. Non lo colsi mai in fallo, i fatti erano veri, le date erano ogni volta esatte. Aveva davvero una memoria enciclopedica. A Brera L'Indipendente piaceva, gli piaceva lo spirito monello di quel piccolo quotidiano esperimento, il profumo di novità. Una sera ci incontrammo a cena e mi portò uno scartafaccio che conteneva un bel po' di fogli. Erano sette racconti di varia umanità che non aveva mai pubblicato. Me li regalò. Io decisi di pubblicarli a dispense, un racconto alla settimana. Il giornale schizzò in su di settemila copie al giorno e non le perse mai. Gianni mi aveva fatto un regalo bellissimo, da vero generoso: mille volte si era vantato, a tavola, di non aver mai scritto gratis neppure le cartoline. La scrittura di Gianni Brera non era per tutti. Era per chi conosceva bene l' italiano, e fra i lettori dei fogli sportivi non è che i letterati abbiano mai pullulato. Il suo smisurato talento, che non è certo una scoperta, come non lo è la ricchezza smodata del suo vocabolario (ancora più smodata per la quantità di neologismi calcistici, che oggi son parte del lessico di tutti, melina, pretattica, contropiede, goleador, libero, incornare, disimpegnare, cursore, mille altre: chi le usa adesso, sa da dove vengono?), né la gittata delle sue iperboli, è stato un gesto magnanimo del destino nei confronti di questo mestiere, perché l' informazione sportiva non aveva mai avuto, né ha avuto più, dopo la sua morte, un manuale vivente da cui attingere un po' di conoscenza e di coraggio.

L'ARCIMATTO. Io, per esempio, nei miei primi anni di lavoro, ho potuto godere del magistero della sua pagina sul Guerin Sportivo - dove era approdato diciassettenne per seguire la serie C ed era diventato subito una delle penne migliori - una corposa rubrica chiamata L' Arcimatto, che divoravo. Non parlava di calcio, ma di quel che capitava, perfino di battute di caccia. Ma la sua sanguigna passione per la tavola, anzi una fame divoratrice di cibo e una sete inesauribile di Barbaresco, si applicava a ogni aspetto della vita. Non si tirava indietro, litigò e fece pace con Umberto Eco, fu amico e poi nemico di Giovanni Arpino, maltrattò duramente Pier Paolo Pasolini che lo aveva criticato. Nato nel 1919 a San Zenone del Po, in provincia di Pavia, è stato un contadino che ha arato non la terra, ma gli umori, i miti, la gran fiera della gente di pianura; è stato un calciatore mediocre, durante la guerra un paracadutista della Folgore per lo più dietro il banco dell' ufficio stampa della Divisione; ha attraversato il fascismo ed è diventato socialista, poi radicale (si candidò due volte, prima con gli uni, poi con gli altri), scrittore (della sua trilogia di romanzi pavesi, Il corpo della ragassa è il più celebre, perché diventò un film). Affermò di essere padano (prima di Bossi, del quale diceva che somigliasse al tenutario di un casino) di "riva e di golena, di sabbioni e di boschi". Mi raccontò che da ragazzino non aveva punto voglia di studiare, e che arrivò alla laurea in Scienze politiche solo grazie alla sorella maggiore, che lo tallonava e lo costringeva sui libri a suon di schiaffoni. Da parlatore qual era, gli piaceva lanciarsi in pronostici e altrettanto spesso li cannava, sulle previsioni dei risultati e delle carriere non era un grande meteorologo. Ma credo che per lui fossero un succedaneo più economico delle scommesse. E poi si divertivano tutti. Su Italia-Brasile al Mundial 1982 pensava che cinque gol verdeoro sarebbero finiti nel sacco di Zoff, di Mennea sentenziò che era troppo gracile per competere con i giganti della corsa, di Eddie Merckx predisse che non avrebbe vinto cose importanti perché mangiava pochi carboidrati. E tutto questo mischiando Leopardi, il latino, il dialetto lombardo, l'Inter e perfino il Genoa, che usava come copertura per non farsi uccellare ("uccellare", altro neologismo suo) dagli sfottitori dei nerazzurri.

I SOPRANNOMI. Quanto ai calciatori, se li girava tutti su un dito, e con la sua abilità nel dare soprannomi creò un vero Olimpo, così come i suoi racconti fecero di un banale campionato di calcio qualcosa di vicino a un poema epico, che veniva riscritto ogni domenica. Rivendicò, il 19 marzo 1982, di aver per primo costretto Repubblica a portare in prima pagina la foto di un giocatore, era Giancarlo Antognoni, da lui detto "l' abatone". Aveva ammirato Valentino Mazzola, che riteneva il manuale del centrocampista vivente, e per questo stava addosso a Gianni Rivera, che chiamava "abatino" perché spumeggiava di classe sebbene avesse una certa allergia per lo scontro fisico. Al contrario, Gigi Riva andava bene, Brera lo leggeva come un omaccione padano tutto sostanza. Ma quando, un giorno in cui si incontrarono, Rivera mostrò di poter bere vino quanto lui, Brera si ravvide e gli concesse un secondo battesimo, facendolo passare al grado di "episcopus". Chissà uno con un carattere così, e ancora di più con una penna così, che non scendeva a patti con l' alfabeto e costringeva i lettori a elevarsi nella lettura, oggi che fine farebbe. Io sono stato uno di quelli "costretti", e sono felice di aver subito il magistero del miglior giornalista sportivo italiano, che a mio avviso rivaleggiò in bravura assoluta con Indro Montanelli. Tanto che allorché Brera morì all' improvviso la notizia mi arrivò come un pugno, e soffrii come si soffre per un amico ma anche, egoisticamente, forse di più perché mi era stato portato via un punto di riferimento. Ancora una cosa, mi devo correggere: Brera non scriveva a penna, se non gli appunti. Usava invece una Olivetti Lettera 62 rossa che maltrattava incessantemente, vergando decine di pagine senza fermarsi. Disse una volta di avere il menisco dei dattilografi, «mi fa male la seconda falange dell' indice destro dopo la decima cartella». In anni in cui il menisco causava la fine delle carriere, Brera viceversa scriveva cose così: «Bini ha aperto con molta eleganza ad Einstein Bertini sulla sinistra. Einstein ha incominciato a far uncinetto con i suoi piedi balzanti e sbirolenti: si è autolanciato sull' estrema sinistra ed ha crossato in corsa un meraviglioso pallone-gol per Boninsegna». Oggi scriveremmo che Bini ha servito Bertini, il quale si è liberato cambiando passo fino alla linea di fondo e l' ha messa in mezzo dove c' era Boninsegna. Chissà se qualcuno noterebbe la differenza. Vittorio Feltri

Le due anime di Gianni Brera nell’era dei social: 100 anni dopo, avrebbe follower? Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Mario Sconcerti su Corriere.it. Mi sono sempre chiesto cosa avrebbe fatto Brera del suo mestiere nell’epoca dei social e delle televisioni. L’ho conosciuto negli ultimi dieci anni della sua vita, era solitario e piuttosto brontolone, come disilluso, ma ugualmente un genio. Aveva scritto troppo di calcio, la sua malinconia era che nessuno gli chiedesse mai un pezzo diverso, su un poeta, su un filosofo, perfino sulla vecchia Madre Lombardia. Quando toccò a me fare il primo passo da capo della redazione di Milano, gli chiesi la storia di Sant’Ambrogio in 6 pagine, nei giorni in cui Milano si apre all’inverno. Me la scrisse in tre ore e non volle una lira. Si era divertito. Brera ha sempre avuto un difetto: non era imitabile. Il suo linguaggio era solo suo e ne aveva molti. Quello per le partite, quello per l’Arcimatto, quello per i libri e le riviste. Quando scriveva in italiano puro non usava un aggettivo, l’attributo era nel senso della frase. Una lingua secca, anche dolce, mai esibita. Detestava essere paragonato a Gadda, ma credo fosse una civetteria. Gadda era stato un grande scrittore e Brera lo sapeva benissimo. Andava amato, nei suoi giorni di semplicità e in quelli in cui la sua differenza lo rendeva complesso. Non era difficile amarlo. Era generoso, senza una sola idea di cattiveria, sospettoso il primo giorno, un fratello tutti gli altri. Mai un padre, amava un rapporto alla pari, non suggerire. Era un artigiano che si portava dietro la sua bottega e gli piaceva essere preso per mano fra strade che amava comunque sentiva estranee. Che farebbe dunque oggi Brera? Credo che in lui ci fossero due grandi anime, la scrittura e la pittura. I racconti delle sue partite erano la scultura di personaggi che lui sceglieva e vedeva a modo suo. La perfezione era che ci azzeccava. La sua fisica arrivava dopo ma diventava la legge di tutti. La sua mente sopravvivrebbe oggi ai social, di cui si disinteresserebbe con orgoglio e dai quali sarebbe perseguitato. Oggi che tutti vedono tutto, che Brera non avrebbe più il privilegio di essere l’unico italiano a guardare ogni domenica la partita più importante, credo che il suo lavoro diventerebbe ancora più prezioso. Brera non aveva gergalità, semmai inventava la propria e gli altri gli andavano dietro. Oggi avrebbe milioni non di follower, perché li deluderebbe alla seconda opinione, ma allievi, gente che vorrebbe imparare il suo linguaggio. Era troppo estremo per diventare un influencer e troppo solo per essere imitato. La quantità di opinioni lo costringerebbe a litigare con tutti, ma sarebbe annoiato e felice di farlo. Sarebbe stato invece molto imbarazzato dalle televisioni. Non aveva una grande ironia, era più sarcasmo. Era la sua difesa dalla timidezza. Perché Brera era timido. E la televisione era un’armatura da cui non riusciva a gestire la sua immensa creatività. Leggeva moltissimo, principalmente storia, anche ricercata, delle sue terre. Era un fanatico della Lombardia, quasi un’ossessione. Mi diceva che aveva il Pil di Belgio e Olanda. E io non capivo l’importanza. Parlava a tutti di Milano, non c’era tassista a cui non chiedesse l’origine, e in qualunque parte del mondo fossimo, veniva sempre fuori che per lui il tassista era prima un celta, poi celtibero, ibero, libuaro, infine un ligure, insomma un antenato dei lombardi. Una volta mi arrabbiai, eravamo insieme ormai da un mese, non vedevamo una donna da altrettanto e io avevo bisogno di fargli male. Gli dissi, guarda che i tuoi longobardi quasi certamente erano slavi, non tedeschi. Avevo esagerato. Lui prese il vino, mi riempì il bicchiere, disse: bevi Navarro che ti passa.

·         Carmelo Bene nel Pallone.

Marco Ciriello per “il Messaggero” il 16 ottobre 2019. La prima battuta è di Enrico Ghezzi, con la parificazione tra il tempo di gioco delle partite di calcio e la durata standard hollywoodiana dei film, ed è un cross per Carmelo Bene: che distrugge il cinema e salva le partite. Il resto è gioco, scambio da ping pong verbale parlando di calcio (perlopiù), tennis, basket, cinema e teatro. È il Discorso su due piedi tra Bene e Ghezzi che ventuno anni dopo torna in libreria con La nave di Teseo (era uscito nel 1998 per Bompiani), rimanendo ancora valido, perché estremo e volutamente laterale, un magma di enunciazioni, diverse teorie, qualche teorema, tanti giudizi e frammenti di sport, e in mezzo: l'assolutezza di Carmelo Bene, la capacità di strologare sull'atto, in una esaltazione del racconto partendo dal gesto, scegliendo il brasiliano Romario come immediato io, incarnazione della capacità di non essere mentre tutto intorno il calcio è, si fa, un Amleto di meno, che viene sublimato con racconti poetici, quell'out of time (Shakespeare) che cercava anche Ghezzi in Fuori orario, l'essere fuori sincrono, perché creatore di tempo, un tempo altro rispetto a quello dato. Insieme provano ad uscire dal consueto, dalle discussioni ordinarie, cercano il guizzo romariesco, provano nel verbo a replicare il movimento del calciatore brasiliano, l'essere non essere, la capacità di annullare l'azione perché oltre l'intenzione, un singolo fotogramma, un passo uno dell'animazione dice Ghezzi, in una sovrapposizione tra calcio e cinema. Perché Romario è l'eccesso, come Bacon, certo Bernini, nella Beata Ludovica Albertoni, e si prosegue in una sublimazione del Brasile che non dovrebbe mai perdere , e che oggi non è più. Ma quello che c'è d'interessante nel discorso è l'anticipazione di realtà, il desiderio di seguire solo Romario poi è successo a Zidane, due registi Douglas Gordon e Philippe Parreno lo hanno trasformato in un soggetto visivo, trasportandolo dal calcio all'arte, seguendo lui e solo lui, fino all'ossessione, fino a non vederlo più bene, non a fuoco, facendone un'opera d'arte. Il film è: Zidane, un ritratto del XXI secolo. Ma c'è anche un McEnroe così, quello filmato da Julien Faraut ne L'impero della perfezione. E poi c'è il discorso sulla «moviola come arresto, ripetizione, rallentamento, distorsione, cambiamento dei tempi», il Var prima del Var. È una ricerca dell'inconsueto, nel tennis la funzione Romario viene coperta da Edberg che eccede il tennis, la loro è una indagine su quelli che riescono ad annullare il tempo, a farlo saltare, a rapirci da esso, in pratica la dimenticanza del sé è la bellezza dello sport, la sua capacità di annullarci all'io, di estraniarci, in un viaggio fuori dal kronos. I lettori più anziani ritroveranno il Carmelo che scriveva, in modo unico, sul Messaggero la rubrica. Ripensandoci bene, mischiando atletica e sci, olimpiadi e pallone, come poi ne parlava a Tele+. Ma dove c'era Bene oggi ci sono le quote regional-emozionali, in un deficit narrativo, dove prima c'era Warhol oggi c'è la Ferragni, capo ultrà del capitalismo delicato.

ELOGIO DI CARMELO BENE. Dagospia il 7 novembre 2019. 6 Novembre 1966, esattamente 53 anni fa Teatro delle Muse a Roma, replica de “Il Rosa e Nero”. C'è un solo spettatore in sala: Theodor  Adorno. Carmelo Bene recita solo per lui: “Il diavolo del teatro italiano e il filosofo della musica contemporanea”, così li presenta l’uno all'altro nell'intervallo dello spettacolo Silvano Bussotti. Carmelo Bene oggi avrebbe da poco compiuti 82 anni. Elogio di Carmelo Bene (a dieci anni dalla sua morte) di Giancarlo Dotto – Tullio Pieronti Editore.

Non l’hai mai saputo e ora voglio dirtelo. Quella notte sono stato sul punto di ucciderti. Era il 20 marzo del 1982. Tappa della tournée teatralmente più eccentrica e grandiosa del dopoguerra, Carmelo Bene e Eduardo De Filippo insieme, negli stessi teatri e negli stessi stadi, al cospetto di folle adoranti. Tu con il tuo Dante, lui con la sua poesia napoletana. Da Pisa dovevamo arrivare ad Ancona. Quattrocento chilometri nella notte, io e te soli, sfiniti, tu più sfinito di me. Io al volante dell’enorme Citroen Pallas beige, la più bella macchina mai concepita da mente umana. Ti eri da poco addormentato al mio fianco, la testa reclinata verso il finestrino. Anch’io vacillavo ma tenevo duro, stropicciandomi gli occhi con la saliva. Saranno state le tre di notte. Uscito dall’autostrada, avevo appena preso la provinciale, stretta, piena di curve e male illuminata. Vado veloce, smanioso di arrivare. Il colpo di sonno arriva secco, improvviso. Il buio totale. Due, tre secondi, alla guida non c’è più nessuno. Mi riprendo appena in tempo, a un millimetro dal baratro sotto di noi. Ho corretto lo sterzo in tempo, un secondo prima dell’irreparabile. L’auto ha sbandato, ma tiene. Tu non ti sei accorto di nulla, io terrorizzato e il cuore in gola. Ma salvi. Siamo stati intimi anche così. E ora voglio dirtelo.

Dieci anni dopo. Dieci anni dopo è lo stesso, smisurato capolavoro che insiste a passo di carica. Dimenticato e indimenticabile. Riproducibile ma non replicabile. Sfuggente alla presa. E ognuno di noi, carmelitani più che mai scalzi, si prende il suo. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta che brucia la pellicola, lo scrittore, il poeta, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita che butta sangue. L’orco impastato di tenerezza. Con lui era tutto e il contrario di tutto, era il lager ed erano le rose. La voce. Era, soprattutto, la voce. Dentro una storia che più vietata ai minori non si può, ma vietata soprattutto ai maggiori. Una vera e propria impresa di demolizione, questo era Carmelo Bene. Che non ha risparmiato niente e nessuno, a partire dalla propria caricatura allo specchio. Storia di un barbaro e di un poeta. Storia di ebbrezze. La finissima trama di un ingegno che mette d’accordo la Beata Ludovica del Bernini e le arie di Rossini, l’abbandono dei mistici e il XX seminario di Jacques Lacan, le guitterie sublimi del cavalier Palmi con le perversioni vertiginose di Von Masoch, suo gemello elettivo della scena (e della vita) nell’umiliazione parodistica dell’Io. Nell’era dell’accesso, in cui tutti possono accedere a tutto, lui rivendicava l’umiliazione estrema di essere recluso in un corpo, il terrorismo spietato delle ossa, delle carni, delle giunture, di tutto il mondo in putrefazione cui consegnano ogni volta l’indispensabile pret-a-porter di un nome e un cognome. Spesso misconosciuto come artista, quasi sempre rimosso o “aggiustato” come intellettuale. Era diventato, già dalla trasudata miseria delle cantine negli anni ’60 fino all’apice dei teatri lirici negli anni ’80, l’icona dei salotti snob romani, fiorentini e milanesi che collezionavano al suo cospetto orgasmi plurimi, puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo non si doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il suo conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta a pane e caffé nero che si avviava a diventare. Nessuno che, per mancanza di fegato, ha mai voluto fare i conti con le sassaiole più perturbanti del suo pensiero, una su tutte la più volte dichiarata ostilità verso il concetto di democrazia che lui, alla Hobbes, considerava sinonimo di demagogia. Anatemi pubblici ogni volta smagnetizzati nella rassicurante chiave della “provocazione”. Equivoco che non la smette di circolare con il suo rumore fesso dieci anni dopo e che anzi prospera nella divulgazione di chi pretende di ricordarlo al mondo con gli arcinoti stralci dei suoi show da Maurizio Costanzo. Forse il Carmelo meno interessante. Quello della sfida al pubblico. Il Carmelo elefante. Carmelo sapeva sempre essere un elefante tra le porcellane e una porcellana tra gli elefanti. Io mi sentivo intimo del secondo, anche se ero ipnotizzato dal primo. Io che non mi stanco di ascoltarla la sua voce, dieci anni dopo. Solo per chiedermi quanto mi manca. E non finisci più di chiedertelo perché sei tu che, senza di lui, manchi a te stesso.

Trent’anni insieme. Era il 24 agosto del 1981. Bar del Teatro Quirino a Roma. Tu mi fai con l’occhio corsaro e simpaticamente malandro del corruttore nato: “Cosa fai nella vita?”. “Comincio tra due giorni in Rai”, dissi con malcelato orgoglio. Avevo vinto un concorso nazionale, terzo tra migliaia di concorrenti. Era la svolta per uno del mio stampo, 29 anni, ex studente, disoccupato, padre precocissimo con un figlio di nove anni. Mi arrangiavo in tutti i modi possibili all’epoca. La tesi sul teatro shakespeariano di Carmelo Bene l’avevo scritta clandestinamente negli anfratti dei musei di Roma dove lavoravo come custode. “La Rai? Cazzate. Lascia stare, vai a perdere il tuo tempo, parti con me e Lydia in tournèe”. Scambiasti il mio silenzio per consenso e lo era.  Nel frattempo Carmelo Bene aveva trasformato la mia tesi di laurea (“Il principe dell’assenza”) in un volume extralusso, rilegato in oro, edito da Giusti. “Adesso vai dentro in sala e continua al posto mio”. Stavi provando il tuo Pinocchio. Mi ritrovai attonito con un microfono in mano a impartire le indicazioni di regia a due sconosciuti più attoniti di me, i due mimi ingaggiati per lo spettacolo. In quell’esatto istante, la mia vita era cambiata, precipitata, non potevo sapere dove. Sono andato, sono partito con te e non sono mai più tornato. Non diventai giornalista Rai a causa tua. A causa tua diventai giornalista al “Messaggero”, due anni dopo. Avevo promesso a Gianni Melidoni, carismatico capo dello sport di allora, un’intervista con Carmelo Bene. Il giorno dopo, io e te litigammo di brutto. Si provava al teatro dell’Ateneo. Tu, Carmelo, dentro l’armatura di Macbeth, io in platea a prendere appunti. Mi dicesti qualcosa di sgradevole. Ero fragile in quel periodo e tu non perdonavi le debolezze quando si mostrano. Nessuno, uomo, donna, compagna, amico, attrice, poteva resistere al tuo fianco più di due, tre anni, senza ridursi a un caso psichiatrico o a una larva da buttare. Carmelo era un fuoco sempre acceso, ustione allo stato puro. Io ero una larva da buttare. Carmelo Bene era troppo per chiunque, anche per se stesso. Ci riuscirono a stargli accanto Lydia Mancinelli e Luisa Viglietti, ma erano donne forti, una guerriera indistruttibile la prima, un’eroina della dedizione la seconda. T’insultai a mia volta, ti lanciai contro le chiavi della macchina e tu, per afferrarle, memore dei tuoi trascorsi giovanili di portiere, quasi ti sei schiantato a terra con tutta la corazza. Scrissi lo stesso l’intervista. Non avevo bisogno d’inventarla. Misi insieme frammenti delle nostre, tante conversazioni notturne. Fu pubblicata con grande rilievo il giorno dopo. Esordii così da giornalista con un mezzo imbroglio. Andai a ringraziare Melidoni il giorno dopo. Mi disse: “Mi ha appena chiamato Carmelo Bene, sosteneva di non aver mai dato quell’intervista...”. Mi sentii mancare. Avrei voluto che la terra si aprisse sotto di me per inghiottirmi. La mia storia di giornalista finita ancora prima di cominciare. “...Ma il tuo amico era chiaramente ubriaco...”, sfumò allegro Melidoni. Una settimana dopo tu ed io eravamo tornati più amici di prima. “Per colpa tua Antognoni mi ha sfidato a duello”, mi dicesti al telefono.

6 Novembre 1966, esattamente 53 anni fa Teatro delle Muse a Roma, replica de “Il Rosa e Nero”. C'è un solo spettatore in sala: Theodor  Adorno. Carmelo Bene recita solo per lui: “Il diavolo del teatro italiano e il filosofo della musica contemporanea”, così li presenta l’uno all'altro nell'intervallo dello spettacolo Silvano Bussotti. Carmelo Bene oggi avrebbe da poco compiuti 82 anni. Dagospia l'8 novembre 2019. Elogio di Carmelo Bene di Giancarlo Dotto (a dieci anni dalla sua morte). Ho passato non so quante notti nella tua casa romana di Via Aventina, il tuo Tibet dannunziano, impregnato dei tuoi odori, che prima erano quelli aspri delle Gitanes e poi quelli dolciastri delle sigarette alle erbe medicinali e delle bevande iperzuccherate, il riscaldamento a palla, nella semioscurità, perché la luce del giorno ti era odiosa, solo candele e lucerne dipinte a mano, tanto Settecento tra specchi, sofà e cornici, sugheri ancora sudati di Montelpulciano che galleggiavano sul marmo del tavolo, Avignonesi ’90, il tuo preferito. Maniacalmente lanciato nelle tue imprese o chiuso e farfugliante nel tuo “fuori di sè”, quello dei monaci di clausura. Quando avevi preso a dipingere in modo parossistico nella tua casa all’Aventino. Quadri che hai fatto vedere solo a pochi intimi. Ti avevano operato da poco al cuore e tu, sprezzando le prescrizioni dei medici, tiravi cocaina e spalmavi su tela colori come un forsennato. Fino a quando mi dicesti, una sera: “Ho smesso, perché ho capito che non avrei mai potuto superare la grandezza di Francis Bacon”. E quella volta che ti ho visto piangere per la morte del tuo “amico” gatto. Eri tornato da un seminario con gli studenti al Teatro Valle, dov’eri andato di malavoglia. Ti eri congedato con la tua solita, delicata brutalità. “Ora voi tornerete a casa e potrete raccontare di aver ascoltato Carmelo Bene, ma io che mi racconto?”. Ti sei dovuto raccontare del tuo gatto, quello che da sempre veniva a bussare alla tua finestra quando aveva fame, trovato tra il gazebo e un grande vaso panciuto, come un cencio dimenticato, gli occhi sbarrati, morto, forse avvelenato. Non volevo credere ai miei occhi, ai tuoi occhi bagnati. Ti avevo visto piangere solo in scena, mai nella vita. Solo il pudore mi ha impedito di abbracciarti. L’ho sempre saputo: disumano per eccesso di umanità, combattente irriducibile per quanto consapevole della sconfitta. Tutto era un ring per te. Come quella notte, nella tua camera a Otranto, insieme a guardare un film sulla vita di John Holmes, il divo dei pornoattori. Tu mollemente sdraiato su un fianco, il dormiveglia degli insonni, quando Holmes, rispondendo all’intervistatore, dice: “Quante donne ho avuto? Almeno 14 mila!” e tu, Carmelo, alzandoti di scatto, indignato, come toccato da una scossa a mille volts: “Ma come, se persino io non sono arrivato a 5 mila?!”. La sepolcrale camera da letto, il Polifemo, un 37 pollici acceso giorno e notte, acceso e ignorato, sulla tua cronica insonnia. Lo squarcio sul petto. Lo portavi con la solita eleganza. Cicatrice che avrebbe fatto invidia a Tamerlano, degna di una vittima dello Squartatore. Memoria del bisturi che ti aveva aperto per sistemarti quattro by-pass a sostegno di un cuore malandato. “…L’uomo non sopporta di vivere tanto a lungo. Due cose l’uomo non sa fare, lavorare e vivere”. Mi dicevi. 

In tournée con Carmelo. Ho passato le ore a spiarti, dietro le quinte, tu in scena a smaniare travestito da Pinocchio, i nasi che andavano e venivano, io che ti passavo i risultati del Milan e le corde per impiccarti. E in camerino, prima e dopo lo spettacolo, nelle tante notti insonni e deliranti. Quella della prova generale al Teatro Verdi di Pisa, quando hai preteso di riverniciare per l’ennesima volta quinte e fondali, aggiungendo il porpora al rosso, attorniato da attori e maestranze stremate, più morte che vive. Le lezioni agli attori, a quello che restava di loro, cancellati nelle maschere e nel playback. “Dovete essermi riconoscenti. Se vi privo della voce, se vi nego l’espressione, è per consentirvi di non essere più attori del basso genere umano”. “Non essendo, l’attore è ovunque, il parco lampade, l’amplificazione, i suoi tecnici, un monitor o un arco elettronico. Non si dà attore se non è capace di giocare simultaneamente su più microfoni o intersezioni di luce. Mi spiego peggio: nel mio teatro gli attori non sono più che distrazioni della luce o del suono”. “Odiatevi in scena, non cavatevela con una gag. Tentate il suicidio almeno cinque volte, prima di sparire per un gesto della fatina. Tu attore non sei che vittima nella mia scena, sbarazzati di te, fatti male. Tu attore, fatti danno!”. Agli spettatori violentati dal suono. “Io non riferisco, ferisco. Userei la stessa amplificazione anche se recitassi in una stanza per una persona sola”. Ai critici negati. “I signori macchinisti sono gli unici cui riconosco il diritto di critica al mio spettacolo”. Mi manchi. Mi manchi come di più non si può mancare. Dove c’eri tu, c’era la massima incandescenza e c’era il massimo delle tenebre. Quella volta che mi hai detto: “Per la prima volta ho trovato un altro me stesso”. Era il 6 novembre del 1981, a cena a Pisa, io e te soli, il ragazzo adorante e il vampiro gentile. Non era vero, eravamo tanto diversi, ma avevamo cose intime da scambiarci, due bambini che si dilettavano e si disgustavano delle stesse cose. Cose mai più condivise con nessun altro. Ma tu eri l’eroe, il genio in debito eterno con se stesso, io una delicata patologia dispersa nel mondo. Tu eri la sfida permanente. Ti spiavo nelle notti estive a Forte dei Marmi, nelle interminabili partite, io e te in coppia, tu che t’inventavi un ping pong tutto tuo, come avrebbe potuto giocarlo Pinocchio, legnoso e leggiadro allo stesso tempo, di aitanti smash e acrobazie improvvise alla Nijinskij. Davanti alla tivù a tifare Brasile nei mondiali dell’82. Quando ti convincemmo a fatica che non era il caso di diffondere l’inno tedesco a tutto volume per il Forte, dopo la finale vinta dagli azzurri, che ci avrebbero linciato. Carmelo ce l’aveva con l’Italia dei Rossi e dei Conti, perché aveva estromesso dal mondiale le divinità brasiliane del calcio, Zico, Falcao e compagni. E poi quella notte, era il 19 settembre, che un barcollante Ruggero Orlando filtrò dal cancello semichiuso di Villa Beatrice, la bottiglia di scotch in pugno e, poggiandosi precario ai fusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da gioco, disse: “Caro Carmelo...ho saputo che sei apparso alla Madonna!”. 

6 Novembre 1966, esattamente 53 anni fa Teatro delle Muse a Roma, replica de “Il Rosa e Nero”. C'è un solo spettatore in sala: Theodor  Adorno. Carmelo Bene recita solo per lui: “Il diavolo del teatro italiano e il filosofo della musica contemporanea”, così li presenta l’uno all'altro nell'intervallo dello spettacolo Silvano Bussotti. Carmelo Bene oggi avrebbe da poco compiuti 82 anni.

Dagospia l'11 novembre 2019. Elogio di Carmelo Bene di Giancarlo Dotto (a dieci anni dalla sua morte) – Tullio Pieronti Editore. Le ragazze che arrivavano a frotte da ogni dove, che si buttavano sotto le ruote della tua macchina solo per poter dire al mondo di essere state un giorno investite da te. Smaniose di essere messe alla prova, di essere trattate o quanto meno maltrattate, tu a maltrattarle, io a consolarle, a tirare cocaina con gli avventori dell’epoca e non si andava mai a letto prima dell’alba, avendo speso tutto lo spendibile in conversazioni furiose dove i tuoi paradossi la facevano da padrone. Quella volta a Bologna della procace signora che sul grande letto a tre piazze, nuda, a quattro zampe, ci raccontava estasiata delle sue nozze imminenti, dell’abito che avrebbe indossato per la cerimonia, dei figli che avrebbe voluto avere, mentre io e te, lucignoli, ci baloccavamo con le sue curve, le facevamo di tutto, felici, come si gioca con una bambola oscena. E quel che restava della notte, lei nel frattempo svanita nel nulla dopo essersi rivestita e aver detto: “Io, voi due, proprio non vi capisco”, noi a cantare “Vorrei baciare i tuoi capelli neri…Fammi provar l’ebbrezza dell’amor”. Memorie sparse. Quella volta, a Campi Salentina, il sindaco che ti consegna le chiavi della città, tu con il tuo gilet nero Versace, i bottoni smerigliati strappati alla tutina di Pinocchio, i concittadini che ti lanciano pomodori marci, incazzati perché sono stati esclusi dalla festa e perché sono senza lavoro. Tu che esci da una porta secondaria, scortato dai carabinieri, la testa verniciata di nero, le occhiatacce torve, bistrate, il disoccupato che ti strepita a un centimetro: “Stronzo, dammi lavoro!” e tu che lo centri in un occhio con uno sputo che è una bellezza balistica. Ti spiavo quando andavamo nei palazzi dello sport a recitare Dante o Dino Campana. Un’assurdità, a pensarci oggi, la poesia negli stadi, oggi che i teatri chiudono per mancanza di poesia. Ti ascoltavo quando mi parlavi, impressionato, affascinato, qualche volta schiacciato e messo all’angolo. Tu che ti trastullavi felice come un bambino con le tue “scatole sonore”, firmando assegni per centinaia di milioni, i microfoni ipersensibili, i monitor da diecimila watts, le console capaci di ogni magia, che a teatro non si erano mai viste prima di allora, ma solo nei concerti delle grandi rockstar e l’ultima, la Midas, era la stessa che usavano i Rolling Stones, dicevi compiaciuto misurando la meraviglia degli astanti. Quella volta, un tardo pomeriggio sotto la tenda del “Dalmazia”, il tuo Bagno preferito al Forte, dove andavamo nelle ore antelucane a scrivere Sono apparso alla Madonna: “Te lo dico io che mi sento un tuo fratello maggiore. E’ il male che ti prende. Non sai reagire. Non hai volontà, né concentrazione. Per riuscire ci vuole una volontà di ferro. Sei una super-intelligenza che non produce prassi”. Nessuno mi ha mai più parlato così.

Carmelo e i miti sportivi. Quando mi aspettavi a casa tua e non vedevi l’ora di simularmi le volèe di Edberg, la concentrazione feroce di Borg, i canestri di Michael Jordan, un montante al fegato di Ray Sugar Leonard, i cross di David Beckham, un dribbling di Ryan Giggs, i gol di Van Basten, che tu chiamavi “il mio invulnerabile, vulnerabilissimo Achille”. Due fuoriclasse dell’acrobazia alata, tu e lui. Era tristezza vera, la tua, quando Van Basten fu costretto a lasciare il calcio. Lutto irreversibile. Ti ho sentire maledire gli arbitri che non avevano saputo proteggere i petali che aveva al posto delle caviglie. Tutti i cani arrabbiati che lo hanno sbranato per invidia, strapagati per umiliare al calcio. “I manovali della sfera condannati al ludibrio perpetuo della mutanda”. Ti ho sentito dire con le mie orecchie sempre molto sporgenti quando stavo con te: “Quale Gassman, quale Strehler o Kandinskij! Rinuncerei a qualunque artista di oggi e di ieri, in cambio della vita in campo di Van Basten. Se mi sento oggi molto più stanco, molto più vecchio, è al pensiero che che uno come lui non ci sarà più. Me la sento addosso la mancanza, la sottrazione di stupore. Fino a questo punto si ama. L’amore non è per fare in culo tra gli uomini”. I miti vanno custoditi nei templi, non maltrattati. Questo dicevi. Quella volta che cademmo insieme, simultanei, in ginocchio, al cospetto di Michel Platinì, quando lui, nazionale francese, disegnò una foglia morta che finì in fondo al sacco. La tua passione per Paulo Roberto Falcao e la “zona celeste” della Roma di Liedholm. Invitasti tutta la squadra alla prima romana del tuo Macbeth. Mi capita d’incontrare ogni tanto qualcuno di loro. A distanza di anni, lo ricordano ancora come un incubo. Oggi saresti pazzo di Roger Federer. Penso spesso alla felicità che ti avrebbe dato uno come lui, la grazia assoluta applicata al gesto tennistico. Sono certo  che avrebbe soppiantato l’amato Edberg nel tuo cuore, come Platinì soppiantò Rivera e Falcao soppianto Platinì. Come David Foster Wallace, ti saresti inebriato. Come il bambino mitomane che sei mi avresti mimato i suoi colpi nel corridoio di casa o nel terrazzo di Otranto. Mi fa male sapere che questo non è accaduto e forse non accadrà. 

UN PALLONE DI BENE (CARMELO). Angelo Carotenuto per il Venerdì-la Repubblica il 25 agosto 2019.  Il calcio secondo Carmelo Bene era il venir meno del respiro. Era l' atto. L' immediato. Era l' ingresso nel disumano. «Questo levar di fiato collettivo. Per quel momento quei centomila all' Olimpico non sono in sé. Non ci sono». Un temporaneo arresto cardiaco, diceva. Non c' è stato in Italia un rappresentante della cultura "alta" più legato di lui al grande carrozzone pop del dio pallone. Forse Pasolini. Ma Bene non era solo legato. Era partecipe. Era omogeneo. Teneva per l' allora Tele+ una rubrica di analisi dotta e di commenti tranchant. Scriveva di sport per il Messaggero. Ora torna in libreria per La nave di Teseo il più audace dei libri sul calcio, Discorso su due piedi (pp. 128, euro 11), uscito per Bompiani nel 1998: la trascrizione di una conversazione avvenuta nel marzo del '98 tra Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi (che si firmò in copertina a lettere minuscole), a quattro mesi dunque dai Mondiali che sarebbero stati vinti dalla cosiddetta Francia black-blanc-beur, la squadra a cui venne attribuita la facoltà di sanare il trauma del colonialismo, liberare le banlieue dalla rabbia, favorire l' integrazione. La squadra che faceva incazzare Le Pen. Il calcio secondo Bene era alto oppure altissimo non per le sue implicazioni sociali o politiche. L' epicentro era conquistato dai gesti, oggi diremmo dalla bellezza presi come siamo da questo dibattito sulla supremazia del risultato o dell' estetica. I dubbi non appartenevano a Bene, fermo nella sua idea su chi fosse un campione. Colui che anziché giocare viene giocato. I ballerini. Nel tennis Stefan Edberg, nel basket Michael Jordan, Ray Sugar Leonard nella boxe, Carl Lewis nell' atletica. Quando Lewis saltò quasi nove metri in lungo, Bene racconta di aver preso le misure sulla sabbia, alla Capannina di Viareggio, insieme con l' ex difensore della Nazionale di calcio Francesco Morini: «Dalla sua cabina alla mia: erano otto metri! Bisognava andare ancora più indietro! Fa spavento vedere cosa siano nove metri!».

La forma è noiosa. Il campione di Bene è l'uomo che eccede la qualità. «La qualità, cioè la forma, è noiosissima». Il cuore dello sport era occupato dai temi comunque a lui cari. L'assenza e l'altrove, lo sperpero e l'osceno, il degenere (de-genere), che nel nostro caso si manifesta nel rigetto del pattinaggio artistico proprio per via di quell'aggettivo e degli specialisti alla Jury Chechi, che eccelle agli anelli «ed è una frana in tutte le altre discipline». Bene aveva un dolore. Era lo sport a suo modo a darglielo. «L' emozione, io me la devo andare a cercare nel Brasile, oppure nel rugby neozelandese, ma non posso andare a cercarmela in una sala teatrale. Scherziamo?». Nella sua appassionata ricerca di qualunque minuscolo tratto potesse portare oltre la scena e la rappresentazione ufficiale di una partita di calcio - l' attimo, il momento - trovava che il più grande di tutti fosse Romario, il centravanti del PSV Eindhoven e poi del Barcellona. Primo: perché era brasiliano. Secondo: perché Romario era fenomenale per davvero. Poi, certo, Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi se lo dicevano a modo loro. Impastando la materia pedatoria con il cinema di Antonioni, di Kiarostami e di Atom Egoyan. Il disintenzionato Romario. Lo smaterializzato Romario. Il più grande perché «capace di una cosa, del quid che poi più conta: l' immediato». Bene lo chiamò Ghiaccio Rovente mentre Ghezzi definì Bene nei suoi gusti mirabilmente ondivago. In realtà aveva una sua coerenza nell' amare «il calciatore orfano» e «senza mondo», il giocatore che ruba il tempo e sa muoversi senza palla. In sostanza: quello che allora si diceva calciatore totale e oggi definiamo moderno. Più Cruijff di Maradona: in odio al virtuosismo «che a me secca». Quel Falcao dentro la magnifica Roma di Liedholm, oppure Giggs, e molto in cima Van Basten nel Milan olandese di Sacchi: «Uno dei due o tre più grandi di tutti i tempi». Bene sapeva coltivare anche amori autarchici come Nesta, «il miglior centrale del mondo» oppure minori come Olaf Thon, un tedesco di un metro e 70 che seppe diventare libero dopo aver fatto il trequartista. il mondiale dell' 82 La prima idea pubblica del calcio secondo Bene è racchiusa in una indimenticabile intervista rilasciata all' Unità nel giugno 1982, alla vigilia del Mundial che l' Italia di Bearzot avrebbe vinto, a firma di un cinquantaduenne Vittorio Sermonti. Già allora Bene disse di tifare per il Brasile. Annusava l' eliminazione dell' Italia ai gironi per timore del Camerun (e quasi ci prendeva). Sosteneva che la Nazionale di «ragionieri, piccoli esperti, ognuno abbarbicato alle competenze del suo ruoletto» giocasse il peggior calcio del mondo: «Sotto di noi non c' è nessuno». Per questo avrebbe portato ai Mondiali, anziché uno come Antognoni («un campione dell' ovvio, dove lui manda la palla c' è sempre un compagno di squadra e cinque avversari pronti a levargliela») tutta la squadra del Bari allenata da Enrico Catuzzi, a quei tempi assai di moda per il cosiddetto calcio-champagne. Per intenderci: era arrivato quarto in serie B. «Tutt'al più con Castellini in porta. Visto che è il più grande portiere del mondo, se lui non si vergogna troppo». Al posto di Zoff.

Il var che verrà. Perfettamente in linea, il Discorso su due piedi sarebbe arrivato sedici anni più tardi. Bene e Ghezzi sono in certi passaggi così attuali da apparire profetici. Si ponevano la questione della «moviola come arresto, ripetizione, rallentamento, distorsione, cambiamento dei tempi» a proposito degli arbitraggi. La moviola per avvicinarsi a un' esattezza di giudizio. Che cos' è se non un dibattito prima del tempo sull' uso del Var? Bene aveva colto che il calcio sarebbe diventato una faccenda soprattutto televisiva. «Essendo il 99 per cento delle partite mediocri, salvo qualche sprazzo, se ne avvantaggiano in televisione. Tutti coloro che son fermi, tu non li vedi. La televisione ha rilanciato il calcio. Nel bene e nel male. Allo stadio si sta solo per ammirare il giocatore senza palla. Se no una partita allo stadio è noiosissima». Il calcio è degli schermi, diceva, tipo il 38 pollici di casa sua. Ora che i pollici dentro i salotti sono cinquanta e certe volte più; ora che il calcio attraverso i social s' è pienamente imbevuto della cultura del frammento, così cara peraltro al blobbista Ghezzi; ora che il lessico con cui il calcio viene raccontato è quasi sempre fatto di «parole sputate da altri, la loro lingua è un chewing gum usato»; ora che insomma le profezie di Carmelo Bene sono compiute e il calcio dello stupore e del mozzafiato è l' ideologia dominante - viene quasi la tentazione di sospettare che uno come Carmelo Bene sarebbe passato dall' altra parte.

Estratto dal libro "Discorso su due piedi", una conversazione sul calcio avvenuta nel 1998 tra Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 5 settembre 2019. Ma secondo te c' è un godimento della squadra? Ho l' impressione che il tuo gioco, il tuo calcio, sia già spezzettato in fotogrammi - il piede, l' occhio, l' abbandono, il puro restare abbandonato del giocatore -, il frame, quel secondo che "vale una partita" perché la eccede. Allora, oltre al godimento dei giocatori, il godimento della partita che spazio ha?

C.B. - C' è stata una sola eccezione al mondo, Brasile compreso, una sola squadra al mondo: il Milan stellare, col trio olandese.

e.g. - Van Basten, Rijkaard C.B. - Quella era una squadra da opporre al grande Brasile. Infatti ci ha giocato e.g. - Amichevole, però. Ahimé, non esistono, ancora, questi intercampionati.

C.B. - Van Basten, per me, è uno dei due, dei tre più grandi di ogni tempo e.g. - Che sarebbero? Pelé, Cruijff Van Basten? Romário? Maradona lo metti nei primi cinque? Sette? Dieci?

C.B. - Sì, sì, ce lo possiamo mettere, Maradona

e.g. - Però non nei primi cinque

C.B. - No, no. Nei primi cinque no. Assolutamente no.

e.g. - Era uno che aveva bisogno di trasformarsi. Non era, diventava Maradona, di tanto in tanto, ma non lo era

C.B. - No, no, no. Tra questi primi cinque, Beckenbauer, forse. Kaiser e.g. - Kaiser C.B. - Era incredibile, assillato da due attaccanti lui sguscia sulla linea di fondo, li aggira e rinvia

e.g. - Ma lui forse è stato il più elegante, perché era come diviso in due Ti ricordi quel famoso braccio al collo? Sembrava che non esistesse, questo braccio al collo, quando giocava. Invece in Maradona c' è come una cosa di artificio. Una sorta di tecnica che è palesemente tecnica. La tecnica messa in atto.

C.B. - Sì, sì, certo. Ma è il virtuosismo che a me secca

e.g. - Però è uno che ha fatto vincere degli scudetti a una squadra disastrata come il Napoli. È la tecnica resa visibile Ecco, il contrario di Romário. L' invisibile e il visibile.

Maradona era visibile. Cioè, non era il lampo

C.B. - Calato in un organico di quel Napoli, non male, attenzione.

e.g. - Be', calato, diciamo costruito intorno a lui

C.B. - C' era anche Careca

e.g. - Grande più lì che nel Brasile. Nel Brasile si è mangiato caterve di gol Careca. Nell' 86. Ma insomma, esiste il godimento della partita? Non a caso io non riesco a tifare per una squadra.

C.B. - Ma nemmeno io.

e.g. - Già in previsione di questi Mondiali, tiferò per l' Italia se ci saranno o Mancini o Baggio o tutti e due

C.B. - No, no. Brasile. Brasile.

e.g. - e siccome non ci sarà nessuno dei due

C.B. - Bisogna onorare il Brasile, l' unico che mi porti fuori

e.g. - Per te, quindi, Brasile da una parte - la squadra, diciamo, Brasilolanda -, e dall' altra momenti di singoli, momenti invisibili di singoli. Dico bene?

C.B. - Certo. Se l' Inghilterra potesse mettere in squadra questo Giggs Però la Germania fa paura, perché volontà, rappresentazione Nella Germania c' è questo Thon che ha una visione del gioco notevolissima. Poi c' è Bierhoff, che è il più gran centravanti del mondo. Non ci sono santi. Se una palla gliela metti alta, giusta

e.g. - Sì, è bello come diventa corpo con la palla quando gli arriva, come si avvita intorno, breve

C.B. - Si avvita, s' alza Alto com' è! Però nessuno può essere Van Basten, perché Van Basten giocava in tutti i ruoli. Andava a prendersela, la palla, la sradicava e.g. - Van Basten era un Cruijff più alto, tra l' altro.

C.B. - Van Basten era uno che più che giocare era giocato, anche lui. Nel senso che, istintivamente, diceva: "Quando si è di qua si tira di collo destro e quando si è di là di collo sinistro". Il tiro sporco, non l' ha mai avuto, Van Basten. [] C.B. - Perciò, se dovessimo citare, a parte Romário, un giocatore che da sé era un' orchestra, direi Marco Van Basten.

e.g. - Sì, io metto subito prima Cruijff perché aveva più gusto della lotta.

C.B. - Marco Van Basten era sempre incidentato. Sempre incidentato. Ci è stato sottratto a 26 anni

e.g. - Be', ha avuto un destino da eroe.

·         Evita e la sua Argentina, una ossessione lunga 100 anni.

Evita e la sua Argentina, una ossessione lunga 100 anni. Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Alessandra Coppola su Corriere.it. «Una cosina fragile», disse di lei l’attrice che l’ospitò a Buenos Aires, smunta quindicenne di provincia, gli occhi rotondi, i denti sporgenti, le caviglie grosse: «Da dove avrà preso la forza per toccare il cuore della gente?» Maria Eva Duarte, nata cento anni fa, il 7 maggio 1919, nella vasta periferia della capitale argentina, figlia illegittima di un signorotto locale, vibrante di aspirazioni e capacità. Prima della nazione intera, ne fu conquistato l’allora colonnello Juan Domingo Perón: era il ‘44. «Negrita», «Chinita», la sua esile brunetta dischiuse una bionda platino dal portamento eretto e il tono perentorio, in grado di fermare scioperi dei ferrovieri o di trascinare lungo la 9 de Julio centinaia di migliaia di descamisados, così poveri da non possedere neanche una giacca. Incredulo il truccatore dei suoi primi, dimenticabili, film: «La bellezza le cresceva da dentro, la donnina sgraziata era diventata una dea». Nel febbraio del ’46 Perón è presidente e la «primera dama» si è già trasfigurata in Evita. «Abanderada de los humildes», voce dei più umili, ai quali provvede tra la beneficenza e le riforme sociali. A lei si devono il suffragio universale e alcune conquiste del Welfare argentino; a lei risale il ramo «di sinistra» del peronismo, movimento in grado di coprire l’intero arco costituzionale (oggi sarebbe imparentato al populismo). A lei si attribuisce uno dei più luminosi modelli di potere «incarnato», capelli, pelle, braccia protese che diventano un marchio, un culto. La malattia e la morte precoce contribuiscono a costruire la leggenda. Spinta dal sindacato, Evita accetta di correre come vicepresidente alle elezioni del ’51. Ma per le pressioni dei militari, la spaccatura dei peronismi e probabilmente per le condizioni di salute, si ritira. Ha un cancro all’utero, le resta poco da vivere. Il 17 ottobre affacciata sulla folla immensa di Plaza de Mayo, Evita pronuncia quello che è considerato il suo testamento: «Abbiate cura di Perón, so che raccoglierete il mio nome e lo porterete come bandiera fino alla vittoria», scoppia in lacrime tra le braccia del marito. «Don’t cry for me Argentina», il tema principale del musical portato al cinema nel ’96 da Alan Parker, Madonna protagonista, s’ispira (liberamente) a questa immagine. Gli argentini rispondono con il film più realistico «Eva Perón». Il finale è lo stesso, ormai in grave condizioni la donna vota da un letto di ospedale. Il generale vince, ma la moglie peggiora, fino all’ultima emorragia. Alle 20.25 del 26 luglio 1952, a 33 anni, Eva Duarte de Perón muore. Comincia un’altra storia, stavolta più morbosa e adatta alla letteratura. Evita viene imbalsamata ed esposta al pubblico, il piccolo corpo nudo trattato con la formaldeide e imbottito di segatura, custodito in una cappella della Confederazione generale del Lavoro. Al golpe del 1955 il tenente colonnello Carlos de Moori Koening guida un manipolo di militari che fanno irruzione nella sede del sindacato, bruciano le bandiere, infieriscono sul cadavere e lo portano via. Dove? È un mistero sul quale il celebre scrittore Rodolfo Walsh compone nel 1964 il racconto «Quella donna»: «Dove, colonnello, dove? (…) La voce mi raggiunge come una rivelazione. - È mia - dice semplicemente. Quella donna è mia». Il corpo idolatrato di Evita vaga per la capitale, con la protezione di ambienti clericali, quindi nel ’57 viene imbarcato per Genova in una bara col nome di Maria Maggi de Magistris e sepolto nel loculo 86 del Cimitero Maggiore di Milano. Copie di cera, rapimenti, leggende nere, finché la cassa viene dissotterrata nel ’71 e, complici i massoni della P2, restituita a Perón, che intanto è in Spagna. Quando il generale fa ritorno in Argentina per riprendere il potere nell’ultima drammatica presidenza, il corpo di Evita trova pace, alla Recoleta, Buenos Aires. «Quel cadavere siamo tutti noi, è l’intero Paese» fa dire Tomás Eloy Martínez a uno dei personaggi di «Santa Evita» (1995, appena ripubblicato in Italia da Sur), romanzo dell’ossessione perversa di pochi uomini o forse di tutta la nazione. Resta uno dei libri più letti in Argentina.

·         Marzotto. Matteo ricorda Marta.

Matteo Marzotto: «Amavo mia madre follemente, poi non l’ho più capita». Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Michela Proietti su Corriere.it. «C’è stato un momento, dieci anni fa, in cui mi sono accorto che non mi stavo divertendo più. Avevo una grande esposizione mediatica, ero molto impegnato in azienda: ero esattamente dove volevo essere, facevo quello che sognavo di fare, ma in realtà mancava un pezzetto. Quasi subito ho capito che era quello spirituale, ma non dovevo farmi confondere da filosofie new age: era un richiamo di fede». Matteo Marzotto, 52 anni, gessato e camicia a righe bianche e rosse, ci accoglie nella casa di sua madre Marta, in centro a Milano. «Mia mamma aveva un’arte, quella di mischiare stili diversissimi e riuscire a trovare un’armonia. Ci rimase male quando le dissi che avrei arredato da solo la mia casa a Valdagno: per lei era una estromissione inspiegabile, ma alla fine rimase sorpresa perché era come l’avrebbe fatta lei: ho ereditato il suo stesso gusto». Quinto figlio del Conte Umberto Marzotto e della modella Marta Vacondio, il manager è in una nuova fase della sua vita: dal 2016 è presidente del marchio di abbigliamento Dondup, dopo essere stato presidente di Valentino, aver rilanciato Vionnet ed essere stato amministratore delegato di Fiera di Vicenza. «Sono nato in una scuderia dove l’intrapresa si è sempre unita al sociale, soprattutto nella visione di mio nonno Gaetano», spiega. «Oggi più che mai mi è chiaro che umanizzazione non è sinonimo di buonismo e che si può fare impresa anche dichiarando di essere cristiani».

Quando è avvenuta la sua conversione?

«Durante un viaggio a Medjugorje e dopo l’incontro con Chiara Amirante, fondatrice e presidente della Comunità Nuovi Orizzonti. Con lei ho aperto la gamma della conoscenza: ho iniziato a documentarmi, ho fatto quello che in una famiglia religiosa si fa da bambini».

Nella sua famiglia la religione era assente?

«Ho sempre pregato, ma c’era una tradizione liberale in fatto di religione: chi di noi decideva di avvicinarsi alla fede doveva farlo autonomamente. C’era una tradizione di impresa forte: l’iperlavoro era il vero credo. Unito alla rettitudine: mio padre era tutto d’un pezzo».

Come è cambiata la sua vita?

«È un cammino che mi ha trasformato, ma non sono ovviamente diventato irriconoscibile: faccio un mestiere che è il massimo della mondanità, ora però ho capito che tutte le professioni acquistano una dignità o la perdono nella misura in cui le persone si comportano più o meno correttamente. Anche con i social ho fatto una scelta radicale: non ho nessuna interazione personale. Nella Comunità ci occupiamo delle nuove patologie nate con la iperconnessione: dipendenze che hanno superato persino quelle tradizionali».

Dunque il Matteo Marzotto di 15 anni fa non le apparteneva?

«C’era una motivazione personale forte: mi divertivo, ma la pressione era elevata. All’epoca di Valentino gli stakeholder chiedevano un trentottenne rampante alla guida. Certo avevo con me grandi manager: la storia dell’uomo solo al comando è una bufala, da solo non vai da nessuna parte».

Non ha avuto paura di essere poco “cool” dichiarando la fede?

«Se 20 anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei portato un mio minimo contributo di evangelizzazione avrei riso, invece due settimane fa sono stato a Lourdes e ho parlato davanti a 3500 militari delle Forze Armate Italiane. Mi diverte che ci sia questa contrapposizione: la moda in fondo è una cosa estremamente umana, ci si veste per apparire davanti agli altri e coprire le debolezze».

Cosa la affascina della fede?

«Il fatto di offrire la sofferenza, che nulla viene perduto e che il bene rimane. Tra le mie letture preferite ci sono le vite dei santi del giorno: scopri persone normalissime che hanno moltiplicato i loro sforzi per stare al mondo».

Sua madre cosa avrebbe detto del nuovo Matteo?

«La mamma degli ultimi anni era una signora anziana che non voleva invecchiare e si stordiva di una vita folle. A 55 anni avrebbe certamente capito, aveva un tale amore per me e io per lei che ci appoggiavamo sempre, ma nessuno faceva sconti all’altro: su alcune cose l’ho criticata pubblicamente».

Cosa non accettava di lei?

«La separazione da mio padre, legittima ma sbagliata nei modi, con tutti gli scandali che ha generato. E poi non amavo la preferenza che accordava ad alcuni nipoti. Da mio padre ho preso un senso dell’equilibrio che mia madre negli ultimi tempi non aveva più. Diceva: “sono vecchia e posso fare quello che voglio”. Nel suo libro uscito postumo ha scritto: “nell’eventualità che io debba morire...”. Forse ci stava davvero provando, a non morire».

Lei però era il figlio prediletto.

«Non amavo le sue preferenze smaccate, ma è vero, ho beneficiato molto del suo amore, che ci ha permesso di dirci le cose in modo chiaro. Però proiettava se stessa su di me: più ero pubblico più lei pensava che fosse un valore aggiunto. Per me non lo era».

Le manca molto?

«Oggi molto di più che nei giorni del lutto. Mi manca la mamma negli anni della sua maturità, fragile e intelligente, piuttosto che quella caciarona dell’ultimo periodo. Se guardo ai miei genitori posso dire che non sono stati molto presenti: nell’adolescenza mi è pesato. Sarebbe stato meglio avere più polso, dare senza controllo rende impreparati alla vita».

Il rimpianto più grande?

«Non lo dirò. Ma in passato ho guardato come un pazzo e non ho visto, ho spaccato il capello e mi è sfuggito l’insieme: mi è successo già due volte e non vorrei mi succedesse la terza».

La mamma le diceva “sistemati”?

«No, ma aveva una concezione delle mie fidanzate sgangherata. Pensava che andassero bene quelle che mi piacevano di meno e non vedeva quelle giuste. Ma amava molto Nora, la mia compagna».

Un ricordo di Marta Marzotto?

«Tutti pensavano che era di ferro e invece era di burro: aveva la capacità di rinascere dalle sue ceneri. La gente le si rivoltava contro? Lei partiva da zero. Per me era l’essenza del fashion: mi rivedo a cinque anni e c’è lei con le scarpe bicolore di Chanel e un abito lungo a fiori nero e bianco. La guardo e penso che è la più bella del mondo».

·         La leggendaria stilista Coco Chanel.

DAGONEWS l'11 settembre 2019. La leggendaria stilista Coco Chanel è stata un’icona della moda. Ma niente sarebbe stato lo stesso se non avesse capito come poter avviare la sua scalata verso il successo. Veniva da una famiglia modesta, era stata lasciata in un orfanotrofio a 12 anni, ma sapeva che nessuno sarebbe stato disposto a sposarla senza una dote. Chanel imparò rapidamente che i signori della upper class potevano darle una vita migliore e introdurla nella società, come si legge nel libro “Living with Coco Chanel” di Caroline Young che racconta la vita amorosa della stilista che ha cambiato per sempre il volto della moda. La prima storia la ebbe con il ricco e vivace ufficiale, Etienne Balsan, che aveva già una bellissima amante. «Chanel sapeva che avrebbe avuto difficoltà a sposarsi bene senza una dote, ma forse Etienne poteva essere il suo benefattore» scrive l'autrice. Diventò volentieri la sua seconda amante e si trasferì nel suo castello a Royallieu, a nord-est di Parigi, dove si dedicò alle corse dei cavalli. Mangiava spesso con i domestici mentre Etienne e la sua prima amante cenavano al piano di sopra. Non le importava. Le piaceva galoppare a cavallo attraverso la foresta e rilassarsi sulla terrazza. L'ozio, i viaggi, le gare e le feste rompevano la sua noia. Quello con Etienne è stato il primo di molti di questi legami: viveva con gli uomini più ricchi d'Europa e non si sposava mai. Dopo aver sollecitato Etienne ad aiutarla nell'avviare la sua attività di abbigliamento, Coco ricevette da lui un appartamento di Parigi come base per vendere cappelli di paglia che  acquistava in un grande magazzino di Parigi e che lei decorava. Quando la prima amante di Etienne ne indossò  uno in società, i cappelli di Chanel divennero un successo. Chanel trascorse quell’autunno con Etienne in un castello del XIII secolo nei Pirenei francesi e fu lì che incontrò per la prima volta Arthur "Boy" Capel, un vero dandy e l'unico uomo che confessò di aver mai amato. Il ricco imprenditore, playboy e vorace lettore Boy rimase ammaliato dal fascino di Chanel. Una volta tornata a Parigi, Chanel aprì il suo negozio di cappelli nell'appartamento di Etienne e Capel la aiutò con un conto in banca e le insegnò a guidare. Sia Etienne che Capel erano innamorati di lei. Capel l'ha aiutata con i soldi per affittare un negozio in 21 rue Cambon, nel cuore del quartiere della moda di Parigi, e l'ha presentata ad artisti, scrittori, politici e sportivi, nonché a donne della società. Boy era innamorato di Chanel, continuò a vedere altre donne, ma la portava con sé persino in Normandia dove la incoraggiò ad aprire un negozio. Nel frattempo il suo mito si stava consolidando. Tutte la volevano incontrare per farsi disegnare degli abiti. Per quanto Boy fosse innamorato di Chanel, doveva sposarsi bene e dovette scegliere Lady Diana Wyndham, una vedova di guerra. Ma nonostante ciò i due rimase amanti. L’ultima volta si videro nei giorni di Natale del 1919. Poi lui si mise alla guida e rimase ucciso in un incidente d’auto. Seppur devastata dal dolore, Chanel tornò a Parigi e si circondò di persone che contavano e trovò nuovi amici nelle cerchie più alte della città che potevano collegarla alla società. Ancora una bella donna, tornò presto in circolazione e si unì al Granduca Dmitri Pavlovich, che fuggì dalla Russia quando i bolscevichi uccisero la sua famiglia nel 1918. Diventarono amanti e lui le regalava gemme appartenute ai Romanov. Chanel era immersa nella società bohémien con artisti, musicisti, scrittori che includevano lo scrittore Jean Cocteau e Pablo Picasso. Poi conobbe Hugh Grosvenor, il 2° duca di Westminster, l'uomo più ricco della Gran Bretagna e forse dell'Europa, che viveva una vita di opulenza ed era amico intimo di Churchill. Era rimasto affascinato da Chanel e iniziò a inondare la sua casa di fiori. Divenne in breve tempo la sua nuova donna. Westminster voleva un erede, ma Coco non era in grado di rimanere incinta. «Dio sa se volevo l'amore. Ma nel momento in cui ho dovuto scegliere tra l'uomo che amavo e i miei abiti, ho scelto gli abiti - ha detto Chanel - Il lavoro è sempre stato una specie di droga per me, anche se a volte mi chiedo cosa sarebbe stato Chanel senza gli uomini della mia vita». Quando il duca sposò un'altra donna, Chanel confessò di essere annoiata dall'eccessivo e spensierato stile di vita. Nel 1931, Chanel aveva 2400 dipendenti che lavoravano in ventisei atelier. Era enormemente ricca, resa ancora più ricca dal successo del profumo Chanel n.5. Con quei soldi acquistò un castello con fossato in Normandia dove si dedicava alla caccia la cinghiale. Quando scoppiò la guerra nel settembre del 1939, Chanel era al Ritz e chiuse la sua casa di moda, ma tenne aperto il negozio in rue Cambon per vendere i suoi profumi e gioielli. Si trasferì definitivamente al Ritz nel 1935 e partì brevemente per la sua casa nei Pirenei quando i tedeschi avanzarono a Parigi. Ma presto volle tornare a Parigi dove iniziò una storia con un ufficiale tedesco, Hans Gunther, di tredici anni più giovane. Cercavano di nascondersi, ma la loro storia non passò inosservata come la dipendenza di Chanel dalla morfina. Nell'agosto del 1944, fu interrogata dalle Forces francaises de l'interieur per aver collaborato con il nemico. La punizione era la rasatura della testa, svastiche marchiate sulla fronte, la prigione e persino la morte. Interrogato per diverse ore, Chanel venne rilasciata dopo l’intervento di Winston Churchill. Fu arrestata nel settembre del 1944, dichiarata colpevole di tradimento e condannata a diciotto mesi di reclusione.  Cercando protezione, offrì bottiglie gratuite di profumo Chanel n. 5 che le truppe americane potevano spedire a casa. Ma l’essere considerata una collaborazionista la privò dei suoi clienti. Quando le fu chiesto dal giornalista Malcolm Muggeridge da che parte stava combattendo, rispose: «Nessuna parte, ovviamente. Nessuno ha mai detto a Coco Chanel cosa pensare».

·         Silvana Mangano.

Gloria Pozzo per “la Stampa” il 26 novembre 2019. Rosanna Basano ha fatto la mondina per 30 anni, in risaia dalle 5 e mezzo del mattino anche per dieci ore al giorno. Oggi ha 83 anni. Ne aveva 12 quando la Tenuta Veneria di Lignana (Vercelli), dove tutta la sua famiglia viveva e lavorava, per sei lunghi mesi ospitò le riprese e l'intero staff di Riso Amaro. Il film sarebbe uscito l' anno dopo, e mercoledì Vercelli celebra il 70° anniversario della prima proiezione con un convegno e un premio letterario organizzati dalla Cgil. Nell' attesa, Rosanna rivive quel lontano 1948: all' interno della tenuta, all' epoca di proprietà della famiglia Agnelli, risiedevano almeno 500 persone. C' era tutto: la scuola, la parrocchia, il macellaio, la latteria. Persino il cinema. E tutti quei «Ciak si gira» urlati da Giuseppe de Santis, Rosanna, che ora vive a Livorno Ferraris, a pochi chilometri dalla Veneria, se li ricorda ancora. «Avrei iniziato a lavorare come mondina tre anni dopo, a 15 anni. Per andare a scuola a Vercelli avrei dovuto fare 25 km in bicicletta, erano troppi. All' epoca seguivo le lezioni all' interno della tenuta, e appena finivano correvo sul set». I ricordi delle riprese sono nitidi, soprattutto uno: «Dopo un' intera mattinata di ciak, la scena non era ancora riuscita: Silvana Mangano doveva piangere, ma non le veniva. Il regista si è stufato e le ha dato due ceffoni: "Così almeno piangi!". Avevo imparato che sul set gli schiaffi si davano per finta, ma quelli erano veri». Per la gente di risaia, l' arrivo di quel piccolo esercito dotato di cinepresa e automobili fu una vera rivoluzione. «Molti di noi - racconta Rosanna - avevano affittato le loro case alle comparse. La Mangano e De Laurentis invece stavano dal parroco. Era bellissima Silvana, e simpatica. E ballava così bene. Per girare le scene la portavano in mezzo alla risaia con una barchetta, anche lei aveva paura delle bisce, proprio come me, e in acqua ci restava solo il tempo delle riprese, altro che le mondine vere». Figuriamoci come poteva essere uscire di casa e incrociare una star del cinema: «Gassman era più espansivo, si fermava sempre a giocare a calcio con i ragazzini. Anche lui alloggiava all' interno della tenuta, le ragazze più grandi andavano a pulire la camera, lavavano la biancheria, io andavo dietro di loro a curiosare. Noi bambini però ci eravamo affezionati a "quello delle luci". Si chiamava Oliviero, non aveva figli e ci aveva adottati un po' tutti. Ogni tanto mandava uno di noi al negozio a comprare il gelato per tutti».

·         Lilli Carati, la rinascita dopo i film hard.

Lilli Carati, la rinascita dopo i film hard e quel thriller che non riuscì a realizzare per la malattia. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Corriere.it. Un film a metà, le confidenze in una camera d’hotel, le mani strette nei momenti difficili, un sentimento che stava crescendo. E’ un vortice privato di poesia e storia, quello confidato dal regista Luigi Pastore (ideatore dell’Italian Horror Fest), che diresse Lilli Carati nel suo ultimo film, “La Fiaba di Dorian”, prima della morte improvvisa, il 20 ottobre 2014. Un’amicizia che la riportò sulle scene dopo 24 anni di oblio e le regalò una dose inaspettata di sorriso. L’ultima, preziosa. Insieme ad una nuova amicizia. Seconda a Miss Italia nel 1974, un sex symbol negli anni 70 grazie al successo del filone della commedia sexy, quindi il buio della droga e il passaggio al porno per 5 film, alla fine il declino artistico.

Luigi Pastore, come le venne in mente, ad un certo punto della sua vita, di contattare Lilli Carati?

«In realtà non sono stato io a contattarla, ma è stata lei, nel 2010. Trovai una richiesta di amicizia, su Facebook, a nome di Ileana Caravati. Un nome familiare, ma ci misi un po’ prima di capire chi fosse. E ancora non mi fidavo: girano tanti profili falsi. Le scrissi in privato. Mi rispose, dandomi il suo cellulare».

La chiamò?

«Sì, e quando rispose fu un colpo al cuore. Aveva letto una mia intervista dove parlavo del mio primo film e anche di lei. Quando chiusi la chiamata la mia testa era invasa da ricordi».

Ricordi di che tipo?

«Il primo, quello più sconvolgente, fu quando un amico di scuola mi confidò di aver visto un film hard in cui recitava Lilli. Io non gli credetti: assurdo che un’attrice di quel calibro potesse aver fatto un film del genere. Eppure, mi mostrò la VHS di “Una moglie molto infedele”. Ci rimasi malissimo, non poteva essere vero. Dissi: “Non è lei, ma una che le somiglia”. Si vedeva benissimo che qualcosa non andava in quello sguardo assente e in quella recitazione approssimativa e senza trasporto. Quando seppi la vera storia di Lilli, fu un grande dispiacere».

Tutto questo viaggio nel passato dopo una sola telefonata?

«Sì. Ma sentire la sua voce annullò di colpo qualsiasi pregiudizio e fu per me fonte di ispirazione. Infatti, ripensando proprio alla storia di Lilli, mi venne l’idea per un nuovo soggetto e iniziai a scrivere pensando di sublimare le vicende dell’attrice nel personaggio di una famosa scrittrice di fiabe per bambini. Così, qualche giorno dopo, le inviai il soggetto chiedendo un parere. Lei fu molto colpita. Mi feci coraggio, le confidai di aver pensato proprio a lei per il ruolo della protagonista e le proposi di fare il film insieme».

E la Carati come reagì?

«Accettò di incontrarmi, voleva conoscere il film nei dettagli e capire anche con chi aveva a che fare. L’appuntamento fu in un ristorante fuori Varese dove si presentò da sola, in splendida forma e ancora molto affascinante. Ricordo che sudavo freddo. Feci uno sforzo enorme per mantenere alta la concentrazione e dimostrarmi il più professionale possibile, raccontando scena dopo scena tutto l’intreccio narrativo».

E Lilli?

«Mi ascoltò in silenzio, cosa che mi rese il compito ancora più difficile. Arrivavano le portate, ma io non riuscivo a mangiare nulla. Alla fine Ileana mi sorrise, mi prese le mani e e accettò di fare il film fidandosi di me».

Dirigerla sul set che esperienza fu?

«Realizzammo subito un teaser. Era il 27 dicembre 2010. La incontrai in hotel, il giorno dopo sarebbe ritornata sul set, dopo ventiquattro anni di assenza dalle scene, e prima di salutarci mi chiamò in camera sua». Cosa le confidò in camera? «Mi disse che forse non era adeguata per quel ruolo e che erano passati troppi anni. Io cercai di tranquillizzarla, confidandole che anch’io ero spaventato dall’idea di intraprendere un nuovo progetto così impegnativo e con la responsabilità di riportare il suo nome sullo schermo. Le dissi che se ci fossimo fatti coraggio a vicenda, tutto sarebbe andato per il meglio. Ci abbracciammo e lei mi chiese di starle vicino e di avere molta pazienza. Tutte quelle paure svanirono magicamente il giorno dopo, al primo ciak, con una prova perfetta e un’interpretazione straordinaria. La grande Lilli Carati era ritornata!».

Lilli e la malattia: due cose inseparabili negli ultimi anni

«Dopo il teaser lei sparì, non riuscivo più a contattarla. Già sul set mi confidò che soffriva di un fastidioso dolore alla testa. A Natale persi le sue tracce. A metà gennaio arrivò la terribile notizia: le avevano diagnosticato una macchia nel cervello e doveva sottoporsi ad una serie di cure. Mi misi in contatto con la famiglia e chiesi il permesso di andare a trovarla in clinica».

«Ho rischiato di innamorarmi di lei»: è un sua frase. È cosi?

«Probabile. Ileana era davvero una donna incredibile, con un forza e uno spirito combattivo che raramente ho visto in un’altra. Sapevo cosa voleva dire sottoporsi alle chemio, anche mia madre era stata colpita dallo stesso male e in lei ho rivissuto quei momenti terribili. Ma speravo con tutto il cuore che potesse davvero guarire, ci abbiamo creduto tutti. Sembrava che le cure avessero portato giovamento e lei si stava riprendendo»

È vero che la fece chiamare da Eli Roth?

«Sì, alla prima edizione dell’Italian Horror Fest di Nettuno, di cui ero organizzatore e direttore artistico. Tra gli ospiti invitai anche Eli Roth, e quando seppe che Lilli non sarebbe potuta venire a causa delle sue condizioni di salute, si dispiacque moltissimo e mi confidò che avrebbe avuto piacere di incontrarla per dirle che ogni mattina, quando si preparava la colazione, esordiva con un “Buongiorno Lilli!”, rivolgendosi al poster del film “Le Evase” che teneva in soggiorno insieme a quello di “Avere vent’anni”. Così, chiesi ad Eli di dirlo direttamente ad Ileana. Accettò volentieri e lei fu felicissima e lusingata nel ricevere quei complimenti».

Al suo funerale, ad Induno Olona, lei era l’unico amico del mondo dello spettacolo.

«Una giornata molto triste, che mai avrei voluto vivere. Mi sentivo in dovere di essere lì, per un ultimo saluto a Ileana e per rispetto alla sua famiglia. Del resto non mi importava, e mi rifiutai anche categoricamente di cedere le immagini dell’intervista e del teaser alle emittenti».

C’è qualche attrice italiana, oggi, che potrebbe calcare le orme della Carati?

«No, lei era unica. Tant’è che non ho più portato avanti il film con una sostituta. Mi proposero un’altra attrice, brava, ma per me quel film era solo per Lilli».

E’ vero che lei ha in mente qualcosa per omaggiare la Carati?

«Sì. Mi piacerebbe poter raccontare la sua storia, naturalmente con un film che parte proprio da quello mai realizzato».

·         «Mistero Buffo» di Dario Fo.

«Mistero Buffo» di Dario Fo torna in Statale 50 anni dopo: appello agli studenti di allora. Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da  Giuseppina Manin su Corriere.it. Quel Mistero, per nulla sacro ma molto Buffo, andò in scena la prima volta in Statale 50 anni fa. E fu una lezione di storia inaudita, travolgente e festosa. «Alla fine i ragazzi esplosero. Avevamo fatto scoprire l’esistenza di una poesia e una cultura popolare di straordinaria vitalità» ricordava Dario Fo quando gli chiedevano di quella magica anteprima del 30 maggio 1969. Serata calda in ogni senso, per il clima che si respirava nell’università occupata, con gli studenti in assemblea permanente, sit-in, tazebao, bandiere rosse. Invitato a tenere un comizio, quella sera di quasi estate Fo entrò in Aula Magna, e davanti a tremila giovani pigiati nei banchi, accovacciati a terra, decisi a cambiare il mondo, esordì in modo inaudito. Non parlò di Marx o Lenin o Che Guevara. Parlò di letteratura italiana. A modo suo, s’intende. Da inimitabile professore giullare qual era, attaccò con «Rosa fresca aulentissima», il poema di Cielo d’Alcamo, svelandone, tra le risate, il vero significato censurato. E poi via con un «cunto delli cunti» di papi vanesi e vescovi feroci, santi ubriaconi e poveri cristi in croce... Due ore di un Medioevo non troppo lontano, visto che il potere usa sempre gli stessi mezzi per sopraffare i deboli: incutere paura, seminare ignoranza, false notizie. Per questo, concluse, se si vuol capire il presente è essenziale conoscere il passato. Soprattutto quello occultato dalla storia ufficiale ma preservato in testi sepolti in archivi e biblioteche e da lui riscritti in chiave satirico-grottesca per quel Mistero Buffo destinato a conquistare il mondo e fargli acchiappare nel 1997 il Nobel. Cinquant’anni dopo quella leggendaria prova generale, Dario non c’è più. E neanche Franca Rame, sua compagna di vita e arte. Ma il loro capolavoro vive, pronto a conquistare nuove platee, a riaggiornarsi sull’esempio dei suoi autori, che ogni mattina leggevano i giornali e ogni sera riscrivevano i prologhi sulla scia della cronaca. E così il 21 maggio, dalle 17 alle 19, Mistero Buffo (appena ristampato da Guanda nell’arco dell’integrale delle opere di Fo-Rame) tornerà riveduto e corretto secondo i tempi sul «luogo del delitto», stessa aula della Statale, nuova platea di studenti, i nipoti di quelli di allora. E con loro i padri e i nonni, visto che Jacopo Fo e Radio Popolare lanciano un appello per ritracciare chi c’era quella sera del ‘69 e invitarlo alla festa del cinquantenario. Organizzata dalla Compagnia Teatrale Fo Rame con l’Università degli Studi di Milano e Corvino Produzioni, e il Patrocinio del Comune di Milano, la kermesse vedrà in cartellone il saluto del rettore Elio Franzini, gli interventi del professor Alberto Bentoglio del dipartimento Beni Culturali, del regista Felice Cappa sul rapporto tra il Mistero e le immagini, gli aneddoti di Jacopo Fo sulla genesi del testo. Piatto forte teatrale, tre famose giullarate: Bonifacio VIII e La fame dello Zanni con Mario Pirovano, appassionato epigono di Fo, mentre Lucia Vasini si cimenterà con Maria sotto la Croce, cavallo di battaglia di Franca. «L’idea del Mistero - racconta Jacopo - nasce mentre mio padre lavorava con Ernesto De Martino e Roberto Leydi su “Ci ragiono e canto”. Quelle ricerche sul repertorio popolare lo condussero a dei manoscritti notarili sui cui margini bianchi erano annotati titoli di difficile decifrazione: Gioco dei doppi, Risus pascalis... Ma appena mia madre, figlia di comici dell’arte, li vide, capì che erano le parole chiave di antichi canovacci teatrali, gli stessi usati dai Rame per i loro spettacoli. I brevi sunti che seguivano dettero lo spunto a Dario per costruire le sue giullarate». Le celebrazioni non finiranno qui. «Il Mistero approderà a Sestri Levante il primo ottobre, stessa data del debutto nazionale del ‘69, e quindi, dall’8 ottobre sarà per la prima volta al Piccolo Teatro - annuncia Mattea Fo, figlia di Jacopo -. Una grande gioia visto che proprio in via Rovello mio nonno aveva iniziato con le sue prime farse. Con Pirovano e Vasini a interpretare i brani di Dario e Franca, introdotti ogni sera da un personaggio della cultura vicino al mondo dei Fo». «Ho recitato i testi di Dario in tutta Italia ma niente è comparabile alla felicità di portarli al Piccolo - esulta Pirovano -. Ci sono voluti 50 anni per questo approdo. La vita è proprio un Mistero Buffo!».

Dal “Fatto quotidiano” il 20 settembre 2019. Pubblichiamo alcuni estratti del libro "Com'è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo" scritto da Jacopo Fo e pubblicato da Guanda. L'atteggiamento che ti porta ad affrontare i momenti tragici continuando a osservarli con curiosità l' ho notato anche quando mio padre stava morendo. Aveva difficoltà a respirare e andammo da uno pneumologo, il professor Poletti dell' ospedale di Forlì. () Aveva davanti i risultati degli accertamenti e chiese a mio padre come si sentisse. Mio padre disse: "Faccio un po' fatica a respirare quando salgo le scale". Poletti mi lanciò un' occhiata stupita. Come a dire: "Fa le scale?!?" () Sicuramente Dario si rendeva conto di essere alla fine () Ma nonostante questa consapevolezza lottò contro l' idea di dover morire facendo finta di niente. () Lottava a ogni respiro. Aveva iniziato a fare strani movimenti interni mentre respirava, come un subacqueo che compensasse. () Aveva in programma uno spettacolo a Roma, all' Auditorium, per il 16 giugno 2016. Ma non era in grado di andarci e fummo costretti ad annullarlo. Lui se ne rattristò molto, gli pareva una resa. Così si intestardì e il primo agosto non solo era ancora vivo ma riuscì a recitare, di fronte a tremila persone, due ore di Mistero buffo. E finì cantando. Telefonai al professor Poletti: "Dario sta cantando di fronte a tremila persone". E lui: "Sono sempre stato ateo ma adesso credo ai miracoli! " In quei giorni mio padre stava finendo di scrivere un libro e di dipingere una sessantina di quadri su Darwin (). Ci teneva. Di fronte alla morte lo affascinava l' incredibile, improbabile evoluzione delle creature viventi. Riuscimmo a organizzare una mostra a Cesenatico e lui andava lì () a raccontare la storia di Darwin ai visitatori. Era entusiasta quando arrivavano gruppi di bambini. A metà settembre decise di tornare a Milano, di lì a poco le sue condizioni peggiorarono e dovette essere ricoverato. () Via via che la malattia progrediva i medici avevano aumentato le dosi di cortisone e antidolorifici e questo gli causava allucinazioni. () Una notte, in ospedale, passò molto tempo a descrivermi quello che vedeva: sui muri, sugli arredi, sulle persone si formavano disegni astratti in movimento, linee, curve, forme geometriche che costantemente cambiavano consistenza. () Le allucinazioni un po' gli facevano paura, perché aveva perso il controllo delle sensazioni, ma contemporaneamente era affascinato. Pochi giorni prima che morisse telefonai ai suoi amici più cari chiedendo se volevano venire a salutarlo. Quando arrivò Carlo Petrini, gli raccontò delle visioni e insieme decisero che era un peccato perdere quelle immagini e che si doveva dipingerle sui muri e sugli arredi della stanza. () Ne parlai con il primario e lui acconsentì. () Mio padre stava morendo, non ne voleva parlare, ma c' era una cosa che sapevo bene: non voleva soffrire. Con mia madre ne avevamo discusso più volte. Mi aveva detto chiaramente che se si fosse trovata a mal partito avrei dovuto occuparmi di portarla in Svizzera (). Era stanca di vivere, non aveva nessuna malattia mortale, ma era piena di acciacchi, non riusciva più a recitare perché l' emozione le provocava dei collassi. Era ad Alcatraz per un corso di teatro e se ne stava tutta raggomitolata al ristorante. Poi quando iniziavano le lezioni aveva una straordinaria mutazione. Di fronte a decine di ragazze e ragazzi cambiava postura e addirittura il viso ringiovaniva. Era un fenomeno che rasentava il paranormale. Una sera la passammo insieme a parlare. Lei mi fece promettere di nuovo che l' avrei portata in Svizzera. Parlammo a lungo un po' di tutto, una conversazione che era come un fiume in piena, quelle situazioni in cui senti che hai aperto il cuore. Fu bello. Finito il corso di teatro, decise di ripartire per Milano. Seppi in seguito che a due care amiche aveva detto, separatamente, che arrivata a Milano sarebbe morta perché non desiderava più vivere. Arrivò martedì. Mercoledì mattina si svegliò, andò in bagno, si lavò, poi si rimise a letto e morì senza un lamento. Con mio padre era diverso, parlare era più difficile. () Quando fu ricoverato mi preoccupai di dire ai medici e agli infermieri che, quando la situazione fosse diventata insostenibile, volevo che fosse messo in coma farmacologico. Iniziò un braccio di ferro quotidiano: volevano fargli sempre nuovi accertamenti, temevano forse di essere accusati di non averle provate tutte per curare un premio Nobel. () Ero seduto sul letto a fianco di mio padre quando un medico entrò sbraitando. Fuori c' era uno che voleva vedere Dario. "Questo non è un albergo!". Uscii dal reparto e trovai Beppe Grillo. Gli avevo telefonato il giorno prima ed era partito da Genova la mattina presto. Lo feci entrare. Si fermò un' ora a parlare di politica, delle difficoltà del Movimento, della sua stanchezza, con mio padre che si toglieva la mascherina per dirgli che non doveva mollare, che bisognava resistere e andare avanti. Fu un bell' incontro, a mio padre fece piacere rivedere Grillo con il quale aveva una grande amicizia. Ma il suo arrivo fu forse importante per indurre i medici a smetterla con i tentativi terapeutici. Forse pensarono che era meglio evitare che Beppe si incatenasse all' ingresso dell' ospedale per difendere il diritto alla buona morte. Quel pomeriggio aumentarono la dose degli antidolorifici e mio padre si addormentò. Io dormivo sul letto di fianco al suo.

·         Chi era Augusto Del Noce, il filosofo che odiava la modernità.

Chi era Augusto Del Noce, il filosofo che odiava la modernità. Corrado Ocone il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. Fece in tempo a vedere la caduta del muro di Berlino, cioè l’implosione del cosiddetto “socialismo reale”, Augusto Del Noce, che morì a Roma nella notte fra il 29 e il 30 dicembre di trent’anni fa (era nato a Pistoia l’11 agosto 1910).  Ma per lui, che l’aveva previsto fin nei minimi particolari, non si trattava di un evento lieto, cioè dell’inizio di una nuova era felice e conciliata sotto le insegne del capitalismo globale e della liberaldemocrazia. La dissoluzione del marxismo per Del Noce non significava altro che il suo compimento, il trionfo definitivo del nichilismo e del relativismo morale che erano per lui l’essenza implicita nel razionalismo dell’età moderna. E al Moderno Del Noce ha dedicato la sua vita di studioso, con indagini tanto profonde quanto originali. A partire dal metodo, che lui stesso definì di “interpretazione transpolitica della storia”. Per capire infatti la modernità e la sua idea di politica occorre risalire alla sua filosofia, quella razionalistica appunto, e collocarla nell’evoluzione storica del pensiero umano, in particolare in quel processo di abbandono della scolastica con la sua idea di un mondo ordinato in cui l’uomo era al vertice della natura ma sottomesso alla potestà divina. Il razionalismo origina nel pensiero di Cartesio, che è come sospeso a mezz’aria fra la vecchia e la nuova epoca, tanto da venir sviluppato dai sui successori sia nella direzione del razionalismo sia anche, soprattutto in Italia, in quella, assolutamente minoritaria ma a cui Del Noce guarda con simpatia, dell’ontologismo (Vico, Rosmini, Gioberti). Il razionalismo nasce nel momento in cui l’uomo pretende di poter fare a meno della trascendenza, quindi di Dio, facendosi esso stesso Dio. L’essenza del razionalismo è perciò l’ateismo, l’epoca della secolarizzazione e del disincanto che viviamo. Da metafisico il razionalismo si è fatto via via empiristico e scettico (Locke, Hume), positivistico e storicistico (Hegel, Marx, Comte), tragico (Nietzsche). Alla vecchia religione se ne sono sostituite altre e secolari, ove la “redenzione” viene interpretata in ottica immanente e l’umanità vista come in cammino lungo l’implacabile sentiero del Progresso. Le religioni secolari sono poi sfociate, inesorabilmente, nel totalitarismo: come Ernst Nolte e Renzo De Felice, anche Del Noce accomuna in una stessa famiglia marxismo, nazismo e fascismo. Ciò che per lui è proprio di queste tre espressioni della politica novecentesca è quella conversione di teoria e pratica, di filosofia e politica, che fu teorizzata da Karl Marx e che, coerentemente con la sua posizione negatrice della trascendenza, dichiarò morta la filosofia, cioè la metafisica, e risolse il filosofo nel rivoluzionario. «I filosofi hanno fino ad oggi interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo», recita la nota XI Tesi su Feuerbach. La rivoluzione, l’idea cioè che l’uomo possa distruggere tutto l’esistente e modellare la realtà a misura della propria ragione e del proprio arbitrio, è un’altra delle caratteristiche dell’età moderna che del Noce mette a fuoco. “Rivoluzionario” fu anche il fascismo, di cui la filosofia di Gentile, che Del Noce studiò a fondo, è la migliore esemplificazione. Il Gentile studioso di Marx apprezzato anche da Lenin, che col suo Atto puro, da una parte, riduce la filosofia a praxis secondo i dettami marxisti ma, dall’altra, mostra il fondo nichilistico della ragione così concepita; che, non poggiando su nulla se non su sé stessa, facendo a meno di ogni trascendenza, consuma continuamente il combustibile che tiene acceso il fuoco della vita, cioè le idee che avrebbero dovuto spiegare il mondo. È proprio il Logos che si autotrascende che finisce, nella sua onnipervasività, a mostrare il nulla di fondamento su cui si regge una cultura che non concepisce l’idea, che era propria della tradizione cattolica, che la ragione debba compiersi in qualche è altro e oltre rispetto ad essa. Da qui la scaturigine della “crisi” e della perdita dei valori, l’indifferentismo morale, che viviamo. Non potendo fondarsi su nessuna trascendenza, neppure su quella della ragione, la morale non può che ammettere tutto e il contrario di tutto. Il marxismo sfocia quindi, per Del Noce, in una adesione spinta alla secolarizzazione postcristiana. Che è poi l’esito che oggi vediamo in azione quando ad esempio la sinistra, abbandonata la questione sociale, si rifugia in un dirittismo astratto che fa dell’individuo un atomo alla perenne ricerca di soddisfazioni materiali che il capitale e il mercato globali promettono di procurargli con facilità. Del Noce combatté aspramente contro il sì ai referendum sul divorzio e sull’aborto, vedendovi una deriva relativistica: lui che aveva simpatizzato da giovane per i comunisti cattolici come Rodano e Tatò, aderì in tarda età a Comunione e Liberazione paventando il pericolo, poi puntualmente realizzatosi, che il vecchio Pci diventasse un Partito radicale di massa. Certo, si può non essere d’accordo sulla metafisica cattolica che sorregge l’impianto del pensiero delnociano. Non si può non ammettere però che egli abbia descritto e previsto l’oggi più e meglio dei tanti sociologi (e anche filosofi) à la page.

·         Alla riscoperta di Landolfi, scrittore surrealista.

Alla riscoperta di Landolfi, scrittore surrealista e dandy cambiato dalla paternità. Filippo La Porta il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ho sempre pensato che Tommaso Landolfi, grande “minore” del Novecento, oggetto di un piccolo (e fanatico) culto specie da parte degli scrittori, spesso associato – insieme ad Alberto Savinio – a un surrealismo italiano, sia come depotenziato, ridotto a personaggio dandystico, tutto squisitamente risolto nella sua sublime eleganza letteraria.  Ma provate a immergervi nei suoi libri di impronta diaristica: La biere du pecheur (1953), Rien va (1963) e Des mois (1967 – e il periodo cui riferisce il diario è quello del 1963-1964). Li ho trovati tutti e tre a Porta Portese, edizioni tascabili e sgualcite d’antan senza alcun pregio (Adelphi ha ristampato tutto). Mentre adesso li rileggevo (non conoscevo l’ultimo) sentivo che nascono da una fondamentale “purezza di cuore”, come ebbe a scrivere lo stesso Landolfi per i diari di Julien Green. Credo che fin dalle prime pagine diaristiche degli anni Cinquanta, e poi soprattutto in quelle successive, abbia cercato di afferrare il proprio demone, la radice cioè del proprio immaginario più orrorifico – il quale spesso mi ha tenuto lontano dai suoi libri – e infine l’abbia trovata nell’illusione che la vita dipenda dalla propria volontà. Proprio le notazioni riguardanti i figli – ribattezzati il Minimus, la Minor – ci indicano invece una qualche via d’uscita da quello spaventoso dormiveglia popolato da creature ermeticamente sigillate cui accenna in una pagina di Des mois: «Creature umane suggellate e sospese, suggellate, chiuse cioè tutte le naturali aperture di quei corpi, ché gli interni veleni in essi imprigionati facciano l’opera loro tra strazi indicibili». Nello stesso diario, e stavolta di fronte al Minimus lo scrittore deve registrare come uno scacco a tutta la sua visione volontaristica della vita: «Un figlio nasce anche senza la nostra volontà, e qualche volta a dispetto di essa; e non solo nasce, ma cresce e si evolve comechessia al di fuori e ad onta delle nostre verifiche…». E qualche riga dopo: «E colui, l’infante… parla ed esprime concetti che noi non gli abbiamo instillati, concetti talora suoi propri! (ricordiamo anche che qualche anno prima, nel ’58, per la nascita della Minor lo scrittore si stupiva di non essere inorridito per il solo fatto di vedersi riprodotto e poi si dichiarava intenerito benché per poco, fino a quando «il solito senso di irrealtà, di provvisorietà e vanità abbia sommerso tutto», in Rien va). Questa la “scoperta” di Landolfi: come se la realtà stessa, nell’esperienza di Landolfi, si contrapponesse all’immaginazione (di cui lo scrittore sentiva tutti i pericoli, dato che, come osservò, immaginare la morte è già morire). Inoltre: giocava d’azzardo senza alcun sistema, e aspirava soprattutto a perdere («la perdita – leggiamo in Rien va – costituisce la chance più sovrana e imperiosa»). Soltanto perdendo tutto si tocca il nostro essere profondo, l’essenza stessa della condizione umana (di assoluto non-possesso): perdo, dunque sono. Tuttavia la nascita di un figlio non è una “perdita”!  Nel commento al trattato di psichiatria del “signor Kraepelin” – la Biere du pecheur – Landolfi sembra mettere a fuoco la propria accidiosa “malattia” e scrive che a volte «nella nostra osservazione dei più indifferenti fatti od oggetti c’è qualcosa che non torna, e la nostra coscienza della realtà impallidisce…». Il punto è esattamente che tutto invece deve “tornare”, e deve tornare nello stile. La scrittura di Landolfi, questo «lessico prestigioso» (Contini), questo sontuoso «spettacolo verbale» (Calvino), dovrebbe costituire un argine contro la realtà che si gonfia di enigmi. Eppure il prezioso artificio dello stile sembra incrinarsi di fronte all’irruzione dell’Altro. Quei “Minor” e “Minimus” che in un primo momento appaiono come entità fittizie, non sono in realtà ciò che sembrano, non sono affatto inventati, contrariamente all’apparenza. Stavolta il più irresistibile personaggio dell’opera landolfiana, e cioè lui medesimo, con tutte le sue contraddizioni irrisolte (sensuale e sessuofobico, spietatamente sincero e ingannevole, vitalista e depressivo) deve cedere il posto ad altri e ben corposi personaggi. Quando a Oblomov o al dandy di Huysmans accade di “tenere famiglia”, qualcosa di realmente minaccioso interferisce con quei caratteri di compiaciuta eccentricità.  Ciò che accade a Landolfi è che quell’Altro che irrompe nell’io con prepotenza non si identifica più con i fantasmi letterari del suo sottosuolo ma con un’alterità vicina e tangibile: Minimus e Minor.

·         Giorgio Faletti: la matrioska.

Antonello Piroso per “la Verità” il 4 luglio 2019. Giorgio Faletti, morto a 63 anni il 4 luglio 2014, era una matrioska. Artista pronto a smarcarsi da sé stesso, svelava ogni volta un aspetto inedito della sua personalità poliedrica e multitasking. Cabarettista. Autore di canzoni. Musicista in proprio. Pittore. Attore. Pilota di rally. Scrittore da milioni di copie. In un' intercettazione del groviglio bunga-bunga, Nicole Minetti, vai a sapere perché, lo definiva «comunista testa di cazzo». Quando l' ascoltò, sorrise: «Comunista non direi, testa di cazzo certamente». A custodirne il ricordo, mai svanito, ci pensa sua moglie: Roberta Bellesini - solare, sorridente (riderà spesso durante la nostra conversazione), presidente della Fondazione Biblioteca Astense, dal 2014 intestata proprio a Faletti - che ha raccontato la loro storia in Io e Giorgio, libro-intervista di Veronica Iannotti, edizioni Real Press. E questa sera a Taormina, prima del film Nato il 4 luglio di Oliver Stone, presidente della giuria, verrà proiettato La ricetta della mamma, un «corto» prodotto da Bellesini proprio da un racconto del marito.

Suo marito temeva la damnatio memoriae, che la sua vita e le sue opere andassero perdute nel tempo.

«Mi consenta una battuta "alla Faletti": mio marito è venuto a mancare il 4 luglio, una data storica di suo, non poteva certo scegliere un giorno qualsiasi. E poi sì, una sera di tanti anni fa se ne uscì con questa frase: "Sai qual è la mia più grande paura? Quello di essere un giorno dimenticato"».

Non è successo. Mi racconta il primo incontro?

«Lo guardavo in tv, a Drive In, dove era Vito Catozzo, Suor Daliso, Carlino con il suo "giumbotto". Poi lo vidi di persona davanti al bar Cocchi, ad Asti, che era un punto di ritrovo: scendeva da una Ferrari.Pensai volesse sfoggiarla con gli amici, per far vedere che era "arrivato". Capii solo in seguito che non era uno spaccone, ma un bambinone dall' animo fanciullesco che se aveva un "giocattolo" nuovo, lo voleva condividere.

Era un uomo molto generoso».

Cominciaste a frequentarvi solo molti anni dopo.

«Sono sempre stata fatalista. Accadde che un' amica organizzò a casa una spaghettata in occasione della finale degli Europei di calcio 2000, quella che perdemmo contro i francesi. Giorgio era tifosissimo della Juventus».

Vabbe', nessuno è perfetto...

«Da lì iniziò un corteggiamento non dichiarato che durò qualche te po (c' erano 19 anni di differenza e lui faceva parte di un mondo che non era il mio), ma alla fine compresi che il suo interessamento era autentico e sincero, così andai a vivere con lui a Milano. Ma dopo tre anni tornammo ad Asti, e per decisione di Giorgio».

Lei invece di che mondo faceva parte?

«Mi ero iscritta alla facoltà di architettura, ma non mi laureai: avevo iniziato a lavorare in uno studio di progettazioni, occupandomi di urbanistica. Rimasi lì per 15 anni prima di mettermi in proprio, e ho continuato con la mia attività anche quando ho conosciuto Giorgio, perché per un verso ero "la moglie di" (ci siamo sposati civilmente perché Giorgio era divorziato), per un altro ero Roberta, me stessa. E Giorgio era d' accordo: non mi ha mai chiesto, né si è mai aspettato, che io mi annullassi nel nostro rapporto».

Gelosa del suo passato?

«Lui mi raccontò molto, ma non mi interessavano tutti i dettagli. Visto che lui ripeteva che, prima di conoscermi, la metà dei soldi li spendeva per donne e auto sportive, e l' altra metà la sprecava, mi sono sempre detta: per fortuna che all' epoca non lo conoscevo».

Battuta alla George Best a parte, magari millantava.

«Allora diciamo che non ho mai voluto approfondire».

Nel Duemila la sua prima vita professionale, quella del comico, si era consumata.

«A lui Asti andava stretta, e non certo per arroganza e snobismo: suo padre era un commerciante ambulante di bottoni, sua madre una sarta. Si era iscritto a giurisprudenza, ma a metà degli anni Settanta aveva iniziato a frequentare la scuola teatrale Quelli di Grock di Maurizio Nichetti, e a bazzicare il Derby, che era il tempio del cabaret milanese».

La classica gavetta.

«Sul finire degli anni Settanta aveva debuttato a Telealtomilanese, quindi nel 1983 approdò in Rai al Pronto, Raffaella? della Carrà. Da lì, il passaggio a Drive In, e la nascita dei suoi personaggi più noti. Quindi Fantastico e Striscia la notizia. A quel punto Giorgio si chiamò fuori, rinunciando a programmi e ospitate che, tra l' altro, gli fruttavano rilevanti cachet».

Come mai? Poteva vivere di rendita, come tanti ricchi impiegati del video.

«Giorgio amava ripetere: "Ho sempre sostituito la paura di non farcela con la speranza di farcela di nuovo". Anche la tv cominciò ad andargli stretta, ma non certo per supponenza: semplicemente, pensava di avere altro da dire. Così si dedicò alla musica, che è sempre stata una delle sue passioni. Ma non l' opera, che invece piace a me: non mi accompagnava perché sosteneva di annoiarsi mortalmente».

La collezione di chitarre elettriche, una dozzina, appese alle pareti nella vostra casa di Asti, non sfigurerebbe negli studi di Virgin Radio.

«Ne era orgoglioso: Yamaha, Gibson, Fender, una Pensa-Suhr serie limitata progettata per Mark Knopfler dei Dire Straits, di cui andava orgogliosissimo.

In realtà aveva cominciato nel 1977 scrivendo testi per Dario Baldan Bembo.

Nel 1991 uscì il suo secondo disco Disperato ma non serio, che conteneva Ulula, la cui clip fu pluripremiata, e con cui partecipò al Festivalbar. Poi scrisse una serie di brani per Mina e Milva, per Angelo Branduardi, quindi partecipò al Festival di Sanremo in coppia con Orietta Berti».

Più d' uno si chiese: perché?

«E lui rispondeva: perché no? Considerava Fin che la barca va geniale, Orietta Berti un' artista genuina e molto ironica, e il fatto che lei continuasse a esibirsi lo considerava la prova che aveva superato il severo responso delle tre giurie individuate da Enrico Ruggeri, un altro caro amico: pubblico, critica, tempo».

Nel 1994 lasciò tutti a bocca aperta, sempre all' Ariston, con Signor tenente. In cui tra l' altro l' iterazione del termine «minchia» non scandalizzò.

«La scrisse in mezz' ora, seduto in auto mentre aspettava il suo agente, poi, con il suo consueto low profile, perché sembrava non rendersi conto delle cose che creava, gliela sottopose. E al suo manager vennero le lacrime agli occhi: "Hai scritto un capolavoro". Con quella partecipazione capì che poteva arrivare al cuore del pubblico anche senza far ridere».

Arriviamo al 2002. Io uccido. Il suo primo romanzo. Cinque milioni di copie, venduto in 22 paesi. E poi 4 milioni di copie con il successivo Niente di vero tranne gli occhi. Anche qui, un nuovo, spiazzante scarto creativo.

«Accompagnato dall' ictus che lo colpì il giorno dell' uscita. Tutti si aspettavano l' ennesimo comico che scriveva un libro comico, e invece al romanzo era arrivato attraverso la stesura di alcuni racconti».

È vero che all' inizio, siccome temeva di non essere preso sul serio, aveva pensato a uno pseudonimo?

«Sì: George B. Maker, che poi era la traduzione del suo nome, dove la "b" sta per beds, letti: beds-maker, fa-letti. Alessandro Dalai di Baldini & Castoldi lo spinse a cimentarsi con un' opera di più ampio respiro. Detto, fatto. Tre mesi dopo Giorgio si presentò con Io, uccido. Firmato con il suo vero nome».

Jeffrey Deaver, autore di thriller da decine di milioni di copie, lo definì «larger than life»: una leggenda.

«E a Giorgio venne un mezzo coccolone, mai avrebbe immaginato di sentire un suo idolo, di cui aveva divorato i libri, esprimersi così».

Suo marito è stato vittima di gravi acciacchi.

«Soffrì di una grave forma di ipertiroidismo, poi ebbe l' ictus di cui dicevo, quindi un infarto, fino al tumore, che scoprimmo con una risonanza magnetica per via dei forti dolori alla schiena che non lo abbandonavano mai, dovuti a una serie di ernie. Era il gennaio 2014, e in sei mesi Giorgio non c' era più: cancro al polmone, con metastasi al fegato e alla colonna vertebrale. Partimmo per Los Angeles per intraprendere un ciclo di cure, e tornammo ad Asti due settimane prima dell' epilogo».

Nell' opera teatrale L'ultimo giorno di sole, interpretata dall'attrice Chiara Buratti, c' è una frase che sembra un presagio: «Sorridere con una disperata paura della morte».

«Può apparire così, ma Giorgio finì di scrivere a dicembre 2013, la diagnosi ci fu un mese dopo. La paura della morte Giorgio l' ha sempre esorcizzata: fino all' ultimo, era convinto di farcela».

Niente figli.

«Sono fatalista, come le dicevo: è andata così. Avessi sentito il desiderio, avrei affrontato il discorso con Giorgio. Che però di figli non ne voleva, gli piacevano i bambini ma non si sentiva in grado di diventare padre».

Era credente?

«A modo suo: critico nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, ma con una parte spirituale molto forte dentro di sé. Prova ne sia la canzone L' assurdo mestiere, una sorte di preghiera laica, che riflette la sua speranza che oltre questa vita ce ne sia un' altra, e che un qualche Dio esista».

Se le chiedessi una frase che il carattere di suo marito?

«Gliene propongo due. In Notte prima degli esami di Fausto Brizzi, lui fece inserire nella sceneggiatura una battuta per il suo personaggio, il professore, che rivolto a uno studente osserva: "L' importante non è quello che trovi alla fine della corsa, ma quello che provi mentre corri". La seconda l' ha ricordata lei, Piroso, nel suo monologo Adrenaluna, un mese fa al Festival Passepartout di Asti: "La luna è di tutti, e ognuno di noi ha il diritto di ulularle". La miglior rivendicazione del suo essere libero».

·         Mariele Ventre: maestra storica del coro dell'Antoniano di Bologna.

I ragazzi dello Zecchino d'Oro: tutto sul film tv di Rai Uno. Matilda De Angelis, nei panni di Mariele Ventre, protagonista della fiction sulla nascita del Coro dell'Antoniano, in onda su Rai 1 domenica 3 novembre. Francesco Canino il 3 novembre 2019 su Panorama. Bologna, anni '60. Il provino di un bambino di 9 anni diventa improvvisamente l'inizio di uno spettacolo destinato a entrare nella storia della tv e del costume italiano: lo Zecchino d'Oro. È una storia emozionante, quasi una favola, quella de I ragazzi dello Zecchino d'Oro, il film tv di Rai 1 con Matilda De Angelis e Simone Gandolfo, in onda domenica 3 novembre, che racconta la nascita del Coro dell'Antoniano e la figura indimenticabile di Mariele Ventre. Il protagonista de I ragazzi dello Zecchino d'Oro è Mimmo, un bambino di 9 anni dal carattere difficile: figlio di immigrati dalla Sicilia, alla scuola e allo studio preferisce la vita di strada con il fratello maggiore, Sebastiano. La madre Ernestina, disperata, lo porta a un provino per un concorso canoro perché l'insegnante del piccolo le ha detto che forse la musica potrà salvarlo. Mimmo ama cantare e ha un orecchio musicale straordinario e quel provino non solo gli cambia la vita ma gli farà vivere uno momento straordinaria per la tv e lo spettacolo italiano: quel casting infatti segna la nascita dello Zecchino d'Oro e il film di Rai 1 - diretto da Ambrogio Lo Giudice, anche lui da piccolo fu uno dei ragazzi dell'Antoniano - racconta proprio i primi passi della storia coinvolgente e inaspettata di un festival canoro per bambini che dopo sessant’anni è ancora vivo, amato e seguito dai più piccoli e dalle loro famiglie. Al centro della storia del film tv c'è ovviamente Mariele Ventre, l’indimenticata maestra di musica che darà vita ad una formazione stabile, una vera scuola di canto e di vita: a interpretare la direttrice del Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna, che oggi porta il suo nome, è l'attrice in grande ascesa, Matilda De Angelis. Simone Gandolfo è invece Cino Tortorella, l’ideatore della manifestazione canora che, con il vestito azzurro dell'iconico Mago Zurlì, diventerà l’emblema dello Zecchino d’Oro. Ruben Santiago Vecchi è invece il piccolo Mimmo che, scelto insieme ad altri bambini di ogni provenienza e classe sociale per partecipare alla prima edizione dello Zecchino, imparerà a conoscere la musica e a cantare con loro brani che resteranno impressivi nella memoria collettiva. Nel cast de I ragazzi dello Zecchino d'Oro ci sono anche Maya Sansa, Antonio Gerardi e Valentina Cervi. "Ho cercato di ricreare, il più fedelmente possibile, i miei anni ’60 a Bologna. Le location, le strade, l’Antoniano, i personaggi, prima tra tutte Mariele Ventre, la mia maestra di canto di allora", racconta Ambrogio Lo Giudice, il regista del tv movie coprodotto da Rai Fiction e Compagnia Leone Cinematografica. "Per anni ho tenuto nascosto di essere stato un bambino dello Zecchino d’Oro, poi però mi sono reso conto che lo Zecchino d’Oro era un ricordo di tutti, e non solo un ricordo, perché i bambini di oggi continuano a cantare le canzoni che cantavo io. Così ho capito che il mio passato era un passato generazionale e non solo personale, ho seguito questa strada e mi è venuta la voglia di raccontarlo", spiega Lo Giudice.

Mariele Ventre, le radici lucane dell'angelo dell'Antoniano. Domani in tv su Raiuno il ricordo della maestra storica del coro dell'Antoniano di Bologna. Anna Langone il 02 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Chi arriva a Sasso di Castalda in provincia di Potenza è accolto dal «benvenuto» con il nome di Mariele Ventre accanto a quelli di Rocco Petrone, don Giuseppe De Luca e altri personaggi illustri del paese. A Mariele Ventre ed alla sua creatura è dedicato il film I ragazzi dello Zecchino d’Oro, in onda domani, domenica, su Rai1 alle 21,20, scritto da Ambrogio Lo Giudice con Anna Pavignano e Carlotta Veroni e diretto dallo stesso Lo Giudice, ex bambino corista dell'Antoniano. Interpreti Matilda De Angelis nel ruolo di Mariele Ventre, Maya Sansa, mamma di Mimmo il piccolo protagonista; nel cast anche Valentina Cervi e Antonio Gerardi. La fondatrice del Piccolo Coro dell'Antoniano, creato 56 anni fa, era nata a Bologna il 16 luglio 1939, di Sasso era mamma Maria e nella sua casa trascorrevano parte delle vacanze. «Nostro padre Livio - ricorda la sorella maggiore di Mariele, Maria Antonietta Ventre, notaio a Bologna - divideva con precisione matematica i suoi 30 giorni di ferie estive tra Marsico Nuovo, il suo paese, e Sasso dove viveva la nostra nonna materna. Dopo la festa dell'Assunta a Marsico, il 15 agosto, nella tarda serata di Ferragosto raggiungevamo con ogni mezzo Sasso, per esserci l’indomani alla festa di San Rocco». Dal dopoguerra agli anni Ottanta, la famiglia avrebbe seguito sempre questo calendario estivo nel Potentino, per rinsaldare il legame con quella religiosità popolare che i coniugi Ventre si erano portati dalla Basilicata in Emilia Romagna, le processioni con incenso sparso nell’aria, penitenti scalzi, donne con pesanti «centre» di candele e nastrini in equilibrio sulla testa, uomini dal viso basso a battersi i pugni sul petto. Tutti dietro alle statue ricoperte di monili d’oro e banconote fissate con spilli, devozione un po’ profana di tanti emigrati che affidavano (e affidano ancora) al patrono speranze di salute e fortuna. Occhi grandi, sorriso luminoso, snella come un giunco, Mariele ogni 16 di agosto era a Sasso alla processione di San Rocco, anche quando diventò popolarissima. «La sua notorietà però non entrava nella nostra casa - sottolinea Maria Antonietta - Mariele si schermiva dicendo di fare soltanto il suo dovere». In realtà quel gruppo di voci bianche divenne subito una grande scuola di vita e i frati dell’Antoniano, dopo la morte prematura di Mariele avvenuta nel 1995, dissero attraverso padre Berardo che avviò il Processo di beatificazione nel 2011 (fermo all'Arcidiocesi di Bologna), quanto l’infaticabile direttrice del coro fosse più francescana di loro. «La notorietà di Mariele è esplosa per noi alla sua morte, quando la casa si riempì di giornalisti e fummo sommersi dai messaggi», dice Maria Antonietta Ventre. Altro dettaglio sconosciuto sulla «fatina» che dirigeva quei bambini sorridenti e tutti vestiti uguali: «Il suo nome all'anagrafe era Maria Rachele, come la nostra nonna materna, io mi chiamo come la nonna paterna, tradizione ferrea al Sud. Rachele negli anni Quaranta era un nome poco diffuso, assonante con il maschile Michele e a scuola mia sorella veniva presa in giro, così mia madre si inventò Mariele», rivela Maria Antonietta. Omaggi a Mariele Ventre sono sparsi in tutt’Italia, a Marsico Nuovo c'è una sua statua bronzea, a Sasso il teatro ha il suo nome e palazzo Ventre-Rotundo è stato donato dalla famiglia al Comune con la clausola di farne un Centro di educazione musicale per i bambini. La Regione ha finanziato il progetto, sottolinea l’ex sindaco di Sasso Rocco Perrone (che nel 2015 scoprì una targa dedicata a Mariele), ma procede a rilento. Se ne rattrista anche Maria Antonietta, presidente della Fondazione Mariele Ventre, che ha raccolto le tante lettere di Mariele ai suoi fans sparsi per il mondo: «L’ente morale promuove la lotta alla dispersione scolastica mediante l’educazione al canto. Perché 44 gatti - specifica il notaio - non è soltanto una canzoncina, ma dice ai bambini come bisogna comportarsi, fermandosi ad aiutare quel “resto di due” rimasto indietro».

Zecchino d'Oro, chi ha sfondato e chi è finito in manette: che fine hanno fatto i piccoli vincitori. Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 su  Corriere.it da Arianna Ascione. Il destino della piccola interprete del brano terzo classificato dell'edizione 1968 dello Zecchino D'Oro (sabato in prima serata Rai 1 trasmetterà la finale della 62ma edizione condotta da Carlo Conti e Antonella Clerici) è storia nota: Cristina D'Avena, che a tre anni e mezzo incantò i telespettatori con «Il valzer del moscerino», è diventata la regina delle sigle dei cartoni animati. Anche altri giovanissimi cantanti hanno continuato a fare musica, mentre c'è chi - nonostante il successo - ha scelto altre strade: ecco le loro storie. Zecchino d'Oro, chi ha sfondato e chi è finito in manette: che fine hanno fatto i piccoli vincitori. Cosa è successo agli interpreti delle canzoni più amate della gara canora, da chi non ha mai abbandonato la musica a chi ha tentato la carriera politica.

Barbara Ferigo - Quarantaquattro gatti. Lo Zecchino d'Oro del 1968 fu vinto dal brano «Quarantaquattro gatti» cantato da Barbara Ferigo, che aveva quattro anni e mezzo. La sua partecipazione al concorso è stata solo una piccola parentesi artistica. Una volta cresciuta infatti ha preso una strada completamente diversa: si è laureata in Scienze Politiche a Trieste e lavora come funzionaria per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Francesca Bernardi - La Teresina. Francesca Bernardi partecipò alla manifestazione nel 1976 con un brano tratto dalla famosa fiaba «La cicala e la formica» («La Teresina»), cantato da lei e Antonio Marchesini, e vinse l'edizione. Ha continuato poi a fare la corista fino al 1984. Nel 2017 l'ex corista (che oggi fa la commessa) ha partecipato ad un concorso con un racconto sulla storia della sua infanzia all'Antoniano intitolato «Mi Mu Ma», classificandosi nella lista d'onore: «Proprio questo diario scatena in me la voglia di unire il passato col presente, raccogliendo storie, ricordi, notizie del mondo Antoniano, per una valorizzazione e condivisione reciproca», ha raccontato al Corriere. Così, per riunirsi con altri ex coristi e continuare a cantare le amate canzoni dello Zecchino, ha dato vita al coro dei «Vecchioni di Mariele» diretto da Luciana Boriani.

Walter Brugiolo - Popoff. Dopo aver vinto la nona edizione dello Zecchino d'Oro (1967) con «Popoff» Walter Brugiolo divenne molto popolare: fu protagonista di alcune pubblicità e recitò anche nei musicarelli accanto ad Al Bano, Romina Power e Little Tony. È tornato due volte sul palco dello Zecchino, nel 2008 e nel 2014, ma nella vita si è dedicato ad attività lontane dal mondo dello spettacolo: ha lavorato per una cooperativa di costruzioni di Bologna come responsabile dei sistemi informativi ed energetici e dal 2011 è direttore della scuola primaria Mariele Ventre. Nel 2008 ha tentato la carriera politica, candidandosi in Emilia-Romagna nelle liste dell'UDC per la Camera.

Vincenza Pastorelli - Volevo un gatto nero. L'edizione del 1969 non è ricordata per la canzone vincitrice, «Tippy, il coniglietto hippy», ma per un altro brano, diventato famoso in tutto il mondo: «Volevo un gatto nero», interpretato da Vincenza Pastorelli. Il nome di Vincenza Pastorelli è tornato sotto i riflettori nel 2007 per un caso di cronaca che l'ha vista protagonista: venne arrestata con il suo compagno dai carabinieri a Lecce con l'accusa di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione.

Gabriele Patriarca - Il coccodrillo come fa? La sua è ancora oggi una delle canzoni più amate di sempre dello Zecchino: parliamo de «Il coccodrillo come fa?», arrivata al primo posto nel 1993 e cantata in coppia con Carlo Andrea Masciadri. Fratello dell'attore e doppiatore Alex Polidori Gabriele Patriarca ha recitato in alcune fiction televisive («Il maresciallo Rocca», «S.P.Q.R.», «Ricomincio da me»), ma oggi si dedica prevalentemente al doppiaggio: ha prestato la voce a Neville Paciock nella saga di «Harry Potter» (ovvero l'attore Matthew Lewis), a Rallo Tubbs del cartoon «The Cleveland Show» e a Thomas Brodie-Sangster, interprete di Jojen Reed in «Game of Thrones».

Emily Meade - Sottosopra. Si intitolava «Sottosopra (Up, Over, Through And Under)» la canzone portata sul palco dello Zecchino d'Oro 1997 dalla piccola Emily Meade, di otto anni, che vinse lo Zecchino d'Argento per le canzoni estere. Nel 2006 è iniziata la sua carriera di attrice: ha recitato in numerose pellicole cinematografiche e in serie tv come «Law & Order», «Boardwalk Empire» e «Fringe». Dal 2017 al 2019 ha interpretato Lori Madison in «The Deuce».

Viviana Stucchi - Il pulcino ballerino. La canzone «Il pulcino ballerino» vinse lo Zecchino d'Oro nel 1964: la cantava Viviana Stucchi, che all'epoca aveva sette anni. Ancora oggi risulta il singolo più venduto di sempre del concorso. Oggi Viviana Stucchi è un'insegnante di educazione fisica. Suo figlio, Luca Vismara, ha partecipato alla diciassettesima edizione di «Amici» e al reality «L'Isola dei Famosi» nel 2019.

Gian Marco Gualandi - Da grande voglio fare. Sempre nel 1964 Gian Marco Gualandi provava ad immaginare cosa avrebbe fatto da grande, cantando appunto «Da grande voglio fare». In seguito ha iniziato a studiare pianoforte insieme a Mariele Ventre, storica direttrice del Piccolo Coro. Si è sempre occupato di musica: negli anni Ottanta/Novanta, in veste di autore, arrangiatore e produttore, ha partecipato al Festival di Sanremo e al Festival di Castrocaro. Ha scritto anche numerosi brani per lo Zecchino d'Oro: il più famoso è sicuramente la canzone vincitrice del 2003, «Le tagliatelle di nonna Pina», utilizzata come jingle alla «Prova del Cuoco» e come sigla della serie animata per bambini «44 Gatti». Nel 2008 ha vinto l'Ambrogino d'oro per «Il mio Superpapà».

·         Nino Nutrizio, storico direttore del quotidiano «La Notte».

"Vi racconto mio padre maestro di giornalismo". Autrice tv e scrittrice è la figlia di Nino, storico direttore del quotidiano «La Notte»: «La sua carriera? Iniziò in un campo di prigionia inglese». Nino Materi, Giovedì 26/12/2019, su Il Giornale. Nel libro Ultima Edizione, che ripercorre l'epopea del quotidiano La Notte, c'è una foto in bianco e nero dove Cristina stringe la mano di Nino. A prima vista sembra il saluto, un po' formale, fra un professore e una sua allieva. In realtà si tratta di padre e figlia: lui è Nino Nutrizio, lei è la figlia Cristina. Ingrandendo l'immagine con la lente del cuore, capisci che tra loro c'era un'intesa speciale. Lo comprendi da un bagliore complice, luminoso come può essere solo la scintillanza tra padre e figlia. Nino Nutrizio, nato a Traù (oggi è Trogir, in Croazia) il 10 febbraio 1911, è stato uno tra i più grandi giornalisti del nostro Paese. Ancora oggi, se vuoi fare un complimento a un cronista, puoi dirgli: «Sembri uscito dalla scuola di Nino Nutrizio». Sì, «scuola». Medaglia al valore giornalistico che in Italia può vantare solo un altro «monumento»: Indro Montanelli. Il quale infatti era un estimatore di Nutrizio, come amico sincero di Nino era pure Enzo Biagi, il quale alla «scuola» di Nino mosse i primi passi della carriera. Nutrizio (che guidò il quotidiano del pomeriggio La Notte per 27 anni, dal 1952 al 1979) non era uno che si compiaceva della sua «bella scrittura». Non si sentiva né un «Ronaldo» né un «Messi» della penna, pur essendo un fuoriclasse alla «Meazza». E se Peppìn insegnò il calcio sotto la Madonnina, Nino insegnò ai milanesi il piacere delle «notizie choc», quelle che leggi da cima a fondo, senza annoiarti. Come purtroppo accade sfogliando i giornali di oggi. Cristina Nutrizio, 60 anni, autrice televisiva e scrittrice, dal padre ha ereditato la fame per la curiosità e il gusto dello stile. Nino è scomparso nel 1988, ma tra le stanze della casa milanese della figlia risuona l'eco di un uomo che ha rivoluzionato il modo di concepire i quotidiani.

Cinque aggettivi per descrivere suo padre.

«Roccioso, timido, autorevole, autoritario, fragile».

Fragile? Eppure tutti lo descrivono come un duro.

«Era una fragilità che papà aveva imparato a camuffare. A controllare. Apparentemente poteva sembrare poco empatico, invece era di una sensibilità unica».

Una sensibilità coltivata tra gli estremi opposti di una vita da romanzo.

«L'esistenza di papà è stata entusiasmante, ma pure punteggiata da drammatiche sofferenze».

I Nutrizio erano una famiglia borghese di origine dalmata che fu costretta dai comunisti a trasferirsi a Trieste.

«I titini ci depredarono di ogni bene. Costringendoci a una fuga angosciante su una barca di fortuna. Ma per papà il peggio doveva venire...».

E «il peggio» quando arrivò?

«Il 28 marzo 1941».

Cosa accadde quel giorno?

«Papà era a bordo dell'incrociatore Pola, dove si era imbarcato come corrispondente di guerra per Il Popolo d'Italia. Un bombardamento affondò il Pola e lui, dopo otto ore in mare aggrappato a una trave, venne recuperato da un nave inglese. Fu buttato nella stiva insieme a decine di cadaveri. Credevano che anche lui fosse ormai morto».

Invece era vivo, sommerso da corpi senza vita.

«Un incubo che lo segnò. Ma da cui riuscì a sollevarsi. E le sue disavventure non erano ancore finite».

Lo attendevano sette anni (dal 1941 al 1947) di campo di prigionia.

«Prima in Egitto. Poi in India. Una Odissea che papà riuscì a trasformare in una opportunità».

«Opportunità» in che senso?

«Nel campo di prigionia di Yol imparò perfettamente l'inglese, divenne l'allenatore della squadra di calcio del campo e, soprattutto, iniziò a studiare a fondo i segreti dei tabloid britannici, gli unici giornali che arrivavano nel campo».

L'«attivismo» non piacque agli ufficiali fascisti internati con lui.

«Ricevette una lettera di biasimo che lo invitava ad avere un comportamento più distaccato col nemico».

Ma sport e giornalismo erano due amori che non potevano essere traditi in nome della fedeltà al fascismo.

«Mio padre era un uomo di destra. I comunisti avevano costretto la nostra famiglia ad abbandonare la propria terra. La sua fu una scelta ideologicamente quasi obbligata. Rimase coerente senza però mai scadere nel fanatismo. Un uomo libero. Con due soli padroni: la passione per il calcio e quella per il giornalismo».

Due amori che si sono incrociate nel destino di suo padre fin da quando era ancora giovane. E fresco di non ammissione all'esame di maturità...

«Questa è una storia davvero singolare».

Ce la racconti.

«Papà non fu ammesso all'esame di maturità. Ma non per ragioni legate al profitto, ma a causa dell'insufficienza in condotta».

Cosa aveva combinato?

«Aveva risposto male a una insegnante. La punizione fu esemplare, nonostante avesse ottimi voti in tutte le materie: niente esame di maturità per ragioni disciplinari. Un paradosso per chi, da adulto, avrebbe fatto della disciplina una delle sue prerogative».

I genitori di Nino ci rimasero male?

«Malissimo. La famiglia era in ristrettezze economiche e rinviare di un anno il diploma, e con esso la possibilità di lavorare portare a casa i primi guadagni, rappresentava un problema grave».

E allora cosa successe?

«Papà, per raggranellare qualche soldo, decise di allenare a Trieste una squadra di calcio di ragazzini. In poco tempo divenne il beniamino della squadra a cui i giovani calciatori indirizzavano lettere e bigliettini».

Un materiale giornalisticamente interessante.

«Infatti lui ne ricavò un reportage che poi, quasi per gioco, spedì al Il Secolo XIX di Genova».

Che fine fece quel reportage?

«Il giornale lo pubblicò in prima pagina e il direttore de Il Secolo XIX gli offrì l'assunzione».

Da qui il secondo trasferimento: da Trieste a Genova.

«Si portò dietro anche la madre che nel frattempo era rimasta vedova. L'uomo di famiglia era diventato lui».

Anni sereni, interrotti dall'apocalisse della guerra.

«Un periodo lungo, durante il quale papà ne ha passate di tutti i colori. Però senza mai scoraggiarsi. Sempre a testa alta. Da uomo di carattere, qual è sempre rimasto».

Rientrato in Italia, nell'impossibilità di riprendere la professione giornalista a causa delle leggi sull'epurazione, venne nominato allenatore dell'Inter insieme a Giuseppe Meazza.

«Un ruolo che gli dette popolarità. Ma il vero boom ci fu con la nascita de La Notte».

L'industriale Carlo Pesenti, nel 1952, affidò a Nino il compito di ideare un foglio, più che altro di propaganda elettorale, in vista delle elezioni del '53.

«Pesenti pensava che un giornalista sportivo non avrebbe interferito con la linea politica per cui il giornale era stato fondato».

Invece accadde un miracolo.

«Quello che doveva essere un giornale «a tempo» si trasformò in un successo editoriale senza precedenti. Con tirature che, nel periodo di massima diffusione, superarono le 350 mila copie. La Notte non solo era seguitissimo a Milano e in Lombardia, ma divenne un giornale nazionale, venduto perfino in Sicilia e Sardegna».

E questo grazie alle invenzioni di suo padre.

«Papà era una fucina di idee. Lanciò per primo la Pagina del cinema con le cinque stellette per le recensioni della critica e i pallini per il gradimento degli spettatori. Un modello che è stato copiato da tutti i giornali del mondo».

La Notte aveva più edizioni pomeridiane, una sorta di «copertura totale», antesignana dell'epoca-internet.

«E così. Mio padre non staccava mai: si occupava di tutto, supervisionando ogni aspetto del giornale. Dalla caccia agli scoop, alla titolazione e all'impaginazione. Fino a sporcarsi le mani nel reparto rotative».

Detestava le raccomandazioni. In questo era molto poco italiano...

«Amava il merito e sapeva riconoscere il talento. Quando un ragazzo di bottega era bravo, lo trattava bruscamente per insegnargli che avrebbe dovuto sacrificarsi. Ma poi, i giovani che valevano, li assumeva. Urlandogli però che non avrebbero mai dovuto montarsi la testa. Era questa la scuola Nutrizio».

Accadde anche con Vittorio Feltri ed Enzo Biagi.

«Vittorio, ancora oggi, quando parla di mio padre si commuove. Gli ha voluto bene. E gliene vuole ancora. Conservo le lettere di Biagi e Montanelli che, quando papà morì, scrissero su di lui frasi bellissime».

La Notte era noto come il giornale delle quattro «s»: sesso, soldi, sangue e sport.

«Non solo. Papà previde le prime rubriche di gossip, i concorsi per La sposa dell'anno e Lo scolaro più bravo. Non mancavano mai le informazioni utili sulla città: appuntamenti fissi erano La città al neon e Dove andiamo stasera.

Poi ci fu il colpo di genio del «listino di Borsa».

«La Notte era un giornale del pomeriggio che usciva dopo la chiusura della Borsa. Pubblicare il listino di Piazza Affari fece avvicinare alla testata anche quella fascia più alta di lettori interessati alla finanza».

Ma la sua anima rimase sempre profondamente popolare.

«La Notte era un quotidiano con titoli choc cubitali, con più foto, più rubriche».

Gli strilli che ornavano le edicole erano uno spettacolo nello spettacolo: «Detenuto vuole tenere in cella una sexy bambola»; «Sfilati gli slip a Marina Ripa di Meana»; «Strage nella nebbia. Tram investe gregge di pecore: 12 maciullate»; «Aerei troppo stretti per le grasse hostess» ecc. Altro che i titoli noiosi di oggi...

«Gran merito va ai tabloid anglosassoni, colorati e aggressivi, studiati in India durante la prigionia. Poi papà ci metteva del suo...».

Nelle foto d'epoca Nino appare in redazione più come un caporeparto di una fabbrica che come il direttore di un giornale.

«Papà a La Notte indossava solo due giacche da lavoro: una di velluto marrone, ormai liso, che metteva in tipografia, e l'altra di tela celeste. Ma fuori dal giornale era elegantissimo, con vestiti di taglio sartoriale».

Un gusto estetico per l'abbigliamento mutuato forse dalla sorella: la stilista Mila Schön.

«Non solo da lei. Mia madre, Luciana Novaro, era una famosa étoile della Scala. Una coppia davvero glamour».

Quando, a 68 anni, Nino lasciò La Notte non volle mai più scrivere. Si trasferì in Toscana, dedicandosi al suo laboratorio di falegnameria.

«Una decisione, forse troppo affrettata e netta, maturata dopo il secondo matrimonio. Credo nei 9 anni che ha vissuto da pensionato nella campagna a sud di Firenze gli sia mancato tanto il lavoro quanto Milano».

Lei, dopo essersi laureata in Drammaturgia al Dams di Bologna, è diventata autrice televisiva e scrittrice. Suo padre ne sarebbe orgoglioso.

«Non ho mai voluto fare il lavoro di papà, proprio per il rischio di confrontarmi col peso del cognome».

Per molti anni è stata assistente alla regia di Dario Fo e Giorgio Strehler. C'è un tratto caratteriale che accomuna suo padre e Fo o a Strehler?

«Sono state tre persone di grande onestà intellettuale e integrità umana. Sarebbe bello se queste fossero caratteristiche proprie di tutti gli italiani».

Il suo romanzo di esordio si intitola «Il fuoco di Agnese» (Maggioli Editore). Non ha mai pensato a un libro su suo padre?

«Quando andrò in pensione forse lo scriverò. Ho tanti documenti su di lui. Devo studiarli a fondo. Trattenendo le lacrime. Perché so bene che il maschio adulto che ho in me è mio padre».

·         Frank Vincent Zappa.

iulia Cavaliere per corriere.it il 23 dicembre 2019. Morto per un tumore alla prostata a soli 52 anni nel 1993 (mentre oggi ne avrebbe compiuti 79), Mr. Frank Vincent Zappa, voleva diventare presidente degli Stati Uniti. Eccola, quella sua ultima folle trovata e divertente volontà, candidarsi alla presidenza usando uno slogan di sicuro successo: «Potrei mai far peggio di Ronald Reagan?». Era solito dire di scrivere canzoni brutte perché l'America era brutta e tuttavia non si era mai vissuto benissimo neppure quelle origini italiane tanto presenti anche nelle sue canzoni. Figlio di Francesco Zappa da Partinico, 30 km da Palermo, che successivamente avrebbe cambiato il nome in un più americano Francis, il nostro Frank non era granché in pace con le proprie radici: non amava il cibo italiano e soprattutto era andato progressivamente detestando l'integralismo cattolico paterno che impedì ai fratelli di andarlo a trovare durante la sua prima convivenza perché non ancora sposato.

Una discografia trapunta d’italiano. Dall'ormai epico "Tengo 'na minchia tanta" (canzone uscita nel doppio Uncle Meat nonché eseguito nell'omonimo film di Massimo Bassoli) a "Questi cazzi di piccione" (pezzo strumentale in The Yellow Shark) fino a "Dio fa" (pezzo al Synclavier sul postumo Civilization Phaze III) d'italiano è trapunta la sua discografia che, pure se mastodontica (più di sessanta titoli da solista oltre agli esordi con i Mothers of Invention), ci raggiunge solo parzialmente. Prolifico a livelli quasi patologici, non solo Zappa produceva musica inglobando nella sua scrittura una quantità di istanze, fascinazioni, ispirazioni e generi davvero generosissima, ma non smetteva mai di registrare. Un numero considerevole di album e brani restano dunque ancora inediti, segreti e perduti nei passaggi di eredità dopo la morte della moglie Gail nel 2015 e chissà, allora, tra quelle perle perdute, quanto italiano ripreso, citato, corroso che forse non conosceremo mai.

Con Claudia. Nel 1967 Zappa diventa quasi per caso co-protagonista di scatti spettacolari di Richard Avedon in compagnia di un'italiana d'eccezione, allora protagonista di pellicole e rotocalchi: la splendida Claudia Cardinale. L'attrice si trova in California per girare "Piano, piano non t'agitare!" (Don't Make Waves), un film diretto da Alexander Mackendrick, tratto dal romanzo Muscle Beach di Ira Wallach, con protagonista Tony Curtis e nel cast anche Sharon Tate. Durante la permanenza in West Coast la Cardinale viene a contatto con il mondo degli Hell's Angels, si trova di fronte alle proteste studentesche e scopre l'avanguardia del rock americano dell'epoca, la psichedelia, il mondo di Laurel Canyon (dove Zappa, all'epoca, viveva come tanti altri musicisti al centro della scena allora e della storia oggi). Epoca, importante settimanale italiano, pubblica un servizio fotografico con appunto scatti di Richard Avedon nel numero di luglio, con un articolo e un titolo sommari e piuttosto pretenziosi e annacquati, oggi al limite dell'imbarazzante. «Claudia prende in giro l'America» recita la rivista, mentre la Cardinale si veste da motociclista e prende in giro quelle che il giornale definisce «massaie trasandate» dei supermarket e cameriere dei Diner. Quello che nasce come un divertente fumetto fotografico pop di un incrocio di culture, mondi apparentemente distantissimi ma che ben rappresentano volti di spicco e situazioni al centro del ciclone culturale americano ma anche italiano (allora Cardinale era una vera diva), vengono insomma trasformate da Epoca in un servizio impreciso e un poco borioso, in cui appunto l'italiana starebbe prendendo in giro gli americani. Zappa compare in diverse foto, assieme a Elliot Ingber, chitarrista del suo gruppo (Mothers) - gli stivali con le frange che vediamo ai piedi della Cardinale sono i suoi. Zappa e soci, allora sconosciuti in Italia, ma con già sul mercato Freak Out!, secondo album doppio della storia destinato a rivoluzionare l'approccio musicale di molti (grande ispirazione anche per i Beatles) vengono etichettati dalla rivista come dei semplici hippie. Altre immagini della stessa session usciranno nell'ottobre dello stesso anno sulla rivista statunitense Cavalier, con il titolo più sobrio: «Claudia Cardinale on the California pop circuit». In questo caso Zappa & band vengono ovviamente riconosciuti come tali.

·         Franco Franchi.

Fulvio Abbate per ilriformista.it il 13 dicembre 2019. Ventisette anni fa se ne andava Franco Franchi, l’altra parte, il doppio, di Ciccio Ingrassia, palermitani, pezzi unici di un mondo che aveva trovato nell’espediente comico la possibilità di sfuggire, trascendere la fame. Massimo Benenato, suo figlio, racconta adesso che Franco (Franchi è il nome d’arte) si sarebbe ammalato in seguito alle accuse di contiguità con i mafiosi, contestazioni dalle quali si vide infine completamente prosciolto. Gli si imputava d’essersi esibito in occasione di alcuni banchetti di nozze di gente di mafia. L’uomo ne aveva molto sofferto, la persona non se ne capacitava. Di lui ho ricordi affettuosi, netti, cominciando dalla mia memoria di bambino, con nonno, al cinema “Eden” di via Antonio Furitano, a Palermo, non c’era film della coppia che non vedessi, e ancora, molti anni dopo, ricordi diretti, io e lui insieme, nel “suo” bar di piazza Cantù, a Roma, dove l’Appia Nuova sembra indicare la direzione per i Castelli, e lì accanto, subito a sinistra, appare via delle Cave, dove Franco abitava insieme alla famiglia. Anche Ciccio Ingrassia risiedeva nei pressi, la stessa Roma che sfiora San Lorenzo e i Cessati Spiriti, in via dei Monti Tiburtini, luoghi che Renzo Vespignani ha messo in pittura. Quasi tutte le sere, lo raggiungevo lì, Franco seduto dietro la cassa, il trench blu e, come mitria cardinalizia, un feltro Borsalino color vinaccia avuto in dono dal principe de Curtis, Totò, lo stesso che gli aveva insegnato un modo perfetto per descrivere i limiti dei colleghi: «Ha tre note, e le altre quattro dove sono?». Era meraviglioso guardare Blob insieme, sovente trasmettevano la sua convinta interpretazione di “If” di Kipling – «Se sei capace di mantenere la testa quando tutti vicino a te la perdono, e se la prendono con te. Se sei capace di fidarti di te stesso quando tutti gli altri ne dubitano, ma tenendo conto anche del loro dubbio» – in quella circostanza lo mettevo ingenuamente in guardia, gli dicevo: «Franco, ti stanno prendendo per il culo, lo sai?». Non era vero, aveva ragione lui, era un omaggio proprio all’attore da parte di Raitre, anche Angelo Guglielmi lo apprezzava molto. Franco, pochi lo sanno, aveva passione per la astronomia, ho detto astronomia, non astrologia, dunque nessuno zodiaco, semmai il cosmo, i pianeti, le ipotesi del “Big Bang”, Franco diceva: «Non sarà che, a un certo punto, Dio ha tirato lo sciacquone e da quel gesto è nato tutto?», avrebbe voluto anche portare questo suo interesse scientifico in scena, farne un suo film, così gli regalai un libro fotografico che da anni, mai sfogliato, custodivo in casa, Catalogo dell’universo di Paul Murdin e David Allen; lo gradì molto. Si sentiva amareggiato per le accuse di mafia: raccontava di essere stato ricevuto da Giovanni Falcone e che questi lo rassicurò. Sembra anzi avergli detto testualmente: «Io non ho niente su di lei sulla mia scrivania, torni pure a casa tranquillamente e non ci pensi più». Con Franco Franchi, da palermitani a Roma, era altrettanto meraviglioso andare a spasso, sconfinare dall’Appio Tuscolano fino a via Veneto: e che ridere, che senso di felicità liberatoria, da palermitani nel cosmo, sentirgli rispondere a un acchiappino che provava a offrirci delle passeggiatrici in abito da sera verde matrimoniale con un meraviglioso “Suca!”.Anche quella sera Franco indossava il feltro avuto in dono da Totò. Era malinconico, come sempre accade ai maestri di comicità: Franco la indossava, sapeva vestirla, e intanto, parlando di smacchi professionali, raccontava l’offerta di un ruolo ne Il nome della rosa, peccato che l’avessero truccato rendendolo irriconoscibile, da qui il suo rifiuto. Ora che ci penso, ci eravamo però conosciuti a Palermo, nel 1979, nella sua casa affacciata sul porto, mi aveva accolto in accappatoio, di un arancione squillante, i capelli resi ricci dalla permanente per ragioni di copione, diceva «… li ho così perché voglio imitare Gheddafi, siamo identici, abbiamo la stessa faccia, se mi ci metto, peccato che non me lo facciano fare per ragioni politiche». Alle sue spalle, un ritratto in costume da nobile in parrucca del tempo della rivoluzione francese, cimelio scenografico dell’avventura cinematografica di I due sanculotti. Lo stesso giorno raccontava di quando, insieme a Ciccio Ingrassia, avevano recitato con Buster Keaton nel film Due marines e un generale, loro i marines, Keaton era invece ufficiale della Wehrmacht, così in attesa di ritrovare i panni del tempo perduto del muto addosso a uno spaventapasseri. Era una pellicola diretta da Luigi Scattini nel 1965, dove l’attore pronuncia perfino una parola, un “Grazie”, allontanandosi poi di schiena, proprio come al tempo della gloria. La signora Keaton raccontava loro che Buster viveva decorando una sorta di piatti del buon ricordo, vendendoli tirava avanti; con Ciccio, da palermitani nel cosmo del cinema, Franco diceva di avere provato timidezza davanti a un colosso di Hollywood trasmigrato, come un povero derelitto, fin dentro il sonoro in technicolor dell’Italia degli anni Sessanta. Raccontava poi l’incontro con Pier Paolo Pasolini durante la lavorazione di Che cosa sono le nuvole?, il volto serio, l’intelligenza, la cultura, la gentilezza, e di come si fossero sentiti risarciti grazie a quel film che parodiava la storia di Otello. Raccontava ancora di quanto il cinema italiano avesse sfruttato il loro successo ai botteghini, salvo poi, da un certo punto della storia nazionale non solo cinematografica, quasi abbandonarli, come scarti comici, strada facendo. L’ho detto che era malinconico? L’ho detto che mi mostrava le analisi cliniche appena ritirate aggiungendo che il medico lo aveva comunque rassicurato riguardo allo stato del suo fegato? Lo stesso fegato che infine lo ha tradito. Poi, se non l’ho ancora detto, va aggiunto che era uno straordinario pittore, con i pastelli a olio realizzava disegni mirabili, degni del più struggente realismo magico, gli servivano, quasi come ex-voto, a raccontare se stesso e la sua storia sul palcoscenico, la sua avventura di comico miracolato dal talento, in uno di questi Franco appare in primo piano, dietro c’è Ciccio che lo cinge con lunghe braccia e mani sottili da lucertola, in quel pastello che mostra l’entusiasmo degli esordi in strada, a Palermo, tra palchetti poveri e il marciapiede antistante il cinema “Finocchiaro”, Franco e Ciccio sembrano dirsi: dai, ce la faremo, riusciremo anche questa volta, a sopravvivere alla fame. Non ho detto però con esattezza che sia Franco sia Ciccio venivano da una Palermo profonda, e la fame raccontavano di aver la partita, facendo ogni genere di mestieri, anche il “panellaro”, e mentre diceva così, proprio lui, Franco, riproduceva il gesto di tirare fuori proprio le panelle dall’olio bollente… Straordinario era anche nel modo di approcciarsi alla clientela notturna, da una certa ora infatti il bar Cantù vedeva passare ogni genere di bestiario umano, con lui bravissimo a rintuzzare anche gli avventori di una Roma a perdita d’occhio. Poi, Ciccio, compagno di strada ma anche, per ragioni caratteriali, la sua croce. Se Franco Franchi infatti era il palermitano forte di una generosità comica che si riverberava anche negli autografi dove appariva la sua caricatura, l’altro, Ciccio Ingrassia, riassumeva il siciliano “inglese”, a suo modo ombroso, un rapporto, al di là della separazione che avrà infine luogo, riassumibile nella volta in cui Franco telefona all’amico, al sodale, al fratello di scena per dirgli esattamente così: «Ciccio, ci vuole Raffaella Carrà a Domenica in, che dici andiamo?». E Ingrassia, di risposta: «No, domenica non posso, semmai lunedì». Mentre raccontava questo dettaglio Franco, alla fine, vinto, arreso, aggiungeva scuotendo la testa: «… che vuoi che dirgli a uno che ti risponde in questo modo? Eppure aveva un ottimo mestiere prima di mettersi a fare l’attore, era bravissimo a tagliare le suole delle scarpe…». Anni fa, Franco Maresco e Daniele Cipri vollero fare loro un omaggio, un film-tributo intitolato Come inguaiammo il cinema italiano, per riassumere l’epica del tempo in cui la coppia riempiva le sale di quartiere, così come avveniva al “mio” cinema “Eden”, a Palermo, nei giorni dell’infanzia; mi sembra di rivederli in I due figli di Ringo o piuttosto nella parodia della serie di 007, con Franco che emerge dalla riva, una gallina sulla testa, mimetizzato come accade altrove a Sean Connery, l’originale. Che sensazione infine d’irriproducibilità di un tempo, dell’Italia al mattino, quando bastava sentir dire “soprassediamo” per esplodere in una risata, era un attimo appena e immediatamente Franco saltava in braccio all’amico, raccontava, proprio Franco, che nei tribunali, i cancellieri, dovettero cassare quest’espressione procedurale perché ogni qualvolta veniva pronunciato un “soprassediamo” perfino il reo, il povero imputato dai ceppi ai polsi, non riusciva a smettere di ridere.

·         Marcello Mastroianni.

Marcello Mastroianni, i grandi amori dell'attore simbolo del cinema italiano (che non divorziò mai). Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Corriere.it. Ha amato le donne tanto (per finta) sul grande schermo, da Sofia Loren sua compagna in tanti film ad Anita Ekberg che in una celebre scena de «La Dolce Vita» di Federico Fellini lo invitava a fare il bagno nella Fontana di Trevi, quanto (davvero) nella vita reale. Ma Marcello Mastroianni non si è mai preso troppo sul serio come sex symbol: «Allo specchio non mi piaccio: nasino corto, bocca cicciuta», raccontava ad Oriana Fallaci nel libro «L'Italia della dolce vita», «più ci penso più mi chiedo come sia possibile che una faccia simile mi dia da mangiare». La sua carriera era cominciata con un corso di recitazione al Centro Universitario Teatrale: in quegli anni condivise il suo sogno con una giovanissima Silvana Mangano, anche lei aspirante attrice nella stessa classe. I due, che si conoscevano praticamente da sempre, si innamorarono: «A Roma da ragazzi abitavamo nello stesso quartiere, innamorati - ha ricordato l'attrice a distanza di tempo - Io sedici anni, lui ventidue. Marcello non l'ho mai dimenticato anche perché una volta, mentre ci baciavamo su una panchina, sorprese un guardone. Lo affrontò, gli tirò un pugno, quello si scansò e Marcello colpì un tronco d'albero. Così, negli anni, ogni volta che quel pollice gli ha fatto male si è ricordato di me». La storia durò poco, e secondo Mastroianni (come riportato da Masolino d'Amico nel libro «Persone speciali») la colpa in un certo senso fu del produttore Dino De Laurentiis che dopo aver conosciuto Mangano nel 1948 sul set di «Riso Amaro» la corteggiò e la sposò l'anno dopo: «Silvana doveva restare con me, eravamo fatti l'uno per l'altra. Ma io allora non ero nessuno, e lei era ambiziosa, si è sposata per interesse, non è mai stata felice, e neanch'io».

·         I Clash.

1979, "LONDON CALLING": ANNO IN CUI IL PUNK NACQUE E MORÌ. Stefano Mannucci per “il Fatto Quotidiano” il 12 dicembre 2019. Quel maledetto sms della sera prima. "Dai Paul, proviamoci!". Joe Strummer presagiva di non avere troppo tempo davanti, ma non immaginava che il countdown fosse agli sgoccioli. Così cercava di convincere il riottoso bassista, Paul Simonon, per una solenne reunion dei Clash alla cerimonia per l'insediamento nella Rock' n'Roll Hall of Fame. Gli altri, Mick Jones e Topper Headon, erano disponibili. Simonon obiettava che, nello spirito rompicoglioni dei vecchi punk, non avrebbero mai potuto esibirsi, dopo tutti quegli anni, in una situazione dove i biglietti costavano migliaia di dollari, per non dire del ricattuccio degli organizzatori, tipo vi diamo il premio se vi fate vivi. Paul si oppose per l'ennesima volta: il giorno dopo Joe era morto d' improvviso, a 50 anni, stroncato da una patologia cardiaca congenita. Era il 22 dicembre 2002: il mese successivo, a omaggiare i Clash alla Hall of Fame avrebbe provveduto un supergruppo con Springsteen, Costello, Dave Grohl. Suonarono London Calling, ovviamente. Cos' altro, se non l' inno di battaglia di quei bastardi che nel 1979 avevano rivoltato l' idea stessa del nichilismo punk con un doppio formidabile album? Vi avevano buttato dentro rock e ska, disco e reggae con una disinvoltura tecnica e con una furia ideologica come nessun altro mai, in quegli anni dove la Britannia era tutt' altro che Felix per via del giro di vite thatcheriano, dell' austerity germinata dalla crisi petrolifera, gli scioperi dei minatori e la pentola esplosiva del melting pot nell' ex Impero? In quella generazione di ventenni storditi e incazzosi, quasi tutti si autoannullavano bucandosi con gli aghi e inghirlandandosi la pelle con lame e spillette, sputandosi e spingendosi via con disgusto. I Clash no: dopo due album (il primo ruvido il giusto, il secondo annacquato dalle lusinghe del mercato) decisero di fottere l' autocompiacimento. Basta con l' alibi che chiunque potesse salire su un palco e vomitare grugniti e cacofonie solo perché la parola d' ordine era "ribelliamoci a ogni convenzione e anche ai dinosauri della scena rock". No, i Clash si rimboccarono le maniche in una sala prove sopra un' officina della periferia della capitale, e ai Wessex Studios confezionarono l' opera della svolta, il maestoso London Calling, che tracciava la mappa dell' inquietudine intellettuale di Joe e degli altri. Il brano chiave prendeva il titolo dalla BBC del tempo bellico, Londra chiama le città lontane, ma ci leggi pure una chiamata alle armi contro "l' era glaciale che sta arrivando" (il '79 è l' anno dell' incidente nucleare di Three Mile Island), ci intravedi gli "zombie della morte", ma anche "la falsa Beatlemania che morde la polvere". Il mondo oscillava negli occhi di Strummer, tra attualità e storia. In Spanish bombs trovavi il bignamino della guerra civile, Franco e Lorca mixati alle news sulle bombe dei baschi in Andalusia. Poi Rudie can' t fail con i giovani immigrati giamaicani all' ombra di Buckingham Palace, o le Guns of Brixton che scuotevano i sobborghi. Ma anche le cronache private del branco Clash: Mick Jones giura di non essere a pezzi, I' m not down, dopo essere stato lasciato dalla ragazza, Viv delle Slits. E l' elegia funebre per Sid Vicious dentro quel rigo di Hateful, "gli amici che abbiamo perso quest' anno". Rock, rivoluzione, furore e lacrime. Un capolavoro generato dal rovesciamento del tavolo del punk, dalla presa del Palazzo d' Inverno del neoconformismo pseudo-anarcoide. Nel giorno del quarantennale, il 14 dicembre, London Calling tornerà in una edizione celebrativa con un corposo libro di aneddoti. La confezione valorizzerà ancor di più la leggendaria foto che Pennie Smith scattò al Palladium di New York il 21 settembre '79: c' è Simonon che sfascia il basso sul palco, la grafica omaggia e stravolge le copertine di Elvis, in una vertigine di rimandi. Quel Fender Precision è da tre settimane in mostra al Museum of London insieme ad altri memorabilia dei Clash, come il taccuino su cui Strummer mise a fuoco i brani. E sempre sabato 14 i tre superstiti della band, finalmente, si riuniranno. Parteciperanno alla festa al British Film Institute dopo la proiezione del documentario Westway to the World, che Don Letts girò nel 2000. Suoneranno? Probabilmente no. A meno che sullo smartphone di Simonon non arrivi un sms di Joe, direttamente dal Purgatorio dei combat rockers.

Luca Valtorta per “Robinson - la Repubblica” il 12 dicembre 2019. Londra chiama le città lontane/ adesso la guerra è dichiarata/ e incomincia la battaglia/ Londra chiama i bassifondi/ ragazzi e ragazze venite fuori": Londra chiama e noi siamo venuti. All' uscita della metropolitana abbiamo seguito un gruppo di rasta, punk e altri personaggi vestiti strani ed eleganti con lunghi spolverini e grandi cappelli. Era già come essere in Westway to the World, il film di Don Letts che racconta la storia, folle e bellissima, dei Clash. Eravamo in Punky Reggae Party, la canzone di Bob Marley che celebrava la sacra alleanza tra punk e rasta. Eravamo in Rude Boy, il film sulla band che al contempo racconta di questa sottocultura, nata in Giamaica e trasferitasi poi in Inghilterra, di ragazzi di strada, disoccupati e senza un soldo che però vestivano sempre all' ultima moda. Paul Simonon veniva da lì e i Clash sono i primi a mescolare punk e musica reggae perché andavano alle serate di Don Letts quando faceva il dj. Mentre camminavamo con tutta quella gente eravamo Last Gang in Town, come cantavano loro, solo che nessuno di noi aveva più vent' anni e non stavamo andando a un concerto dei Clash ma ad un museo: il Museum of London che celebra con una mostra i 40 anni di London Calling, il capolavoro dei Clash, il disco che cambiò la vita a molta gente celebrando l' apertura al jazz, al reggae, allo ska e persino al pop di un genere molto definito come il punk. Tutto era iniziato nel 1976 quando il chitarrista Mick Jones, accompagnato dal bassista Paul Simonon, incontrarono per caso Joe Strummer all' ufficio di collocamento dove sia Jones che lui stavano facendo la fila per il sussidio. In realtà lo stavano tenendo d' occhio da un po' perché erano alla ricerca di un cantante e lo avevano visto all' opera con il suo gruppo di allora, i 101' ers. Forse lo stavano fissando un po' troppo perché Strummer si ricorda di aver pensato: « Credevo volessero fare a botte per cui stavo vagliando chi era meglio prendere a pugni per primo: decisi per Mick perché sembrava più magro. Paul aveva l' aria più tosta». Qualche tempo dopo, con l' aggiunta prima di Terry Chimes e poi di Topper Headon, probabilmente il miglior batterista del suo tempo, sarebbero diventati i Clash: lo scontro, il conflitto nei confronti di tutto ciò che li opprimeva, ipocrisia, razzismo, valori stantii. «Fu bellissimo registrare London Calling » , ricorda Topper Headon. Era il 1979. Il produttore Guy Stevens è l' unica persona che poteva funzionare per gli standard dei Clash: « Mentre suonavamo distruggeva delle sedie, si aggirava minaccioso con una scala in mano. Pensavamo: " Questo è impazzito". Ma era un grande», racconta Simonon. Per girare il video di London Calling venne chiamato Don Letts: « Era solo il mio secondo video, il primo era stato Public Image dei Pil di John Lydon ( l' ex cantante dei Sex Pistols), eravamo sul Tamigi e avevo messo una telecamera su una barca che ha cominciato ad allontanarsi. Ci avevo messo un secolo per allestire la cosa e si stava incasinando tutto. In più stava diventando buio e si è messo a piovere. Ero disperato e allora ho iniziato a girare», spiega Letts. Quel video è entrato nella storia.

Come hai conosciuto i Clash?

«Sono diventato loro amico perché ai tempi avevo un negozio in King' s Road che si chiamava Acme Attraction dove suonavo la musica che mi piaceva. Ci veniva un sacco di gente: i Clash, le Slits, Johnny Rotten e anche artisti che passavano in città come Patti Smith. Mi piaceva l' attitudine e lo stile dei Clash: erano differenti dagli altri punk» .

Ti piaceva anche la loro musica?

«Un giorno la mia fidanzata mi ha portato a vederli e io sono andato fuori di testa. Non capivo una parola di quello che diceva Joe ma l' energia era incredibile. Erano dinamite» .

È vero che una volta hai litigato con Bob Marley per difenderli?

«Nel 1977 Marley viveva a Londra e stava proprio in King' s Road, vicino al mio negozio. Devo essere onesto con te: l' avevo conosciuto perché gli procuravo l' erba. Non perché io fossi uno spacciatore ma perché era il modo di conoscerlo, di averci a che fare. Avevo 18, 19 anni e lui era il mio eroe. E così un giorno vado a trovarlo perché mi doveva un po' di soldi ma avevo questi calzoni da punk con le cerniere in stile bondage. Mi guarda e mi fa: "Ah, Don Letts you look like a nasty punk rocker", "Assomigli a uno schifoso punk". Leggeva quegli stupidi tabloid che davano un' idea terribile del punk! Gli ho detto: "Bob ti sbagli! Questi ragazzi bianchi sono miei fratelli e sono dei ribelli. Ascoltali, c'è qualcosa lì dentro!". E lui: "Ok, vattene fuori di qui!". Tre mesi dopo scrisse Punky Reggae Party in cui citava i Clash insieme ad altre band punk invitandoli a un immaginario party reggae-punk con la sua band, i Wailers, e i Maytals. Una vera e propria alleanza, capisci?».

Così tutta la storia dell' unione tra punk e reggae nasce da qui?

«No. Nasce dal Roxy, un locale dove facevo il dj. Era il primo club punk in Inghilterra ma eravamo così agli inizi della scena che non c' erano dischi punk da suonare e così suonavo ciò che amavo: il reggae. Per mia fortuna ai punk piaceva. E gli piaceva perché anche quella era musica anti-establishment: adoravano le linee di basso. E anche l' erba».

E poi i Clash adoravano anche lo stile dei "rude boys" «In Inghilterra musica e moda sono inseparabili. Lo stile non era importante solo per i Clash: lo era per tutti. Guarda i gruppi degli anni '60! Oggi non è così importante ma allora era tutto quello che avevamo».

In copertina della raccolta "Black Market" c' è una foto tua che da solo affronti un intero squadrone di polizia. Come andò la faccenda?

«Quella storia è una bugia. Una completa bugia. C' è qualcosa che la macchina fotografica non mostra. Non si vede che dietro di me c' è una folla inferocita di gente nera con mattoni e bottiglie. E che sta per tirarli. A quel punto mi rendo conto che mi trovavo proprio in mezzo e mi dico: "Beh, sarà meglio che mi tolga di qui". Non sono un idiota!».

Quando i Clash arrivarono per la prima volta in Italia vennero celebrati dai fascisti per la canzone "White Riot" (Rivolta bianca).

«Questo perché i fascisti sono degli idioti. Ma purtroppo un po' di confusione a riguardo c' è stata anche in Inghilterra e questo è stato uno dei motivi per cui i Clash hanno partecipato a Rock Against Racism, per spiegare bene alla gente che loro si auguravano che anche i bianchi si ribellassero come avevano fatto i neri a Notting Hill nel '58 e a Brixton nell' 81. C' erano anche loro a Brixton e il pezzo si riferiva a questo, non certo a una rivolta razzista! Purtroppo ieri come oggi abbiamo un sacco di fottuti idioti qui in Inghilterra: altrimenti come avrebbe potuto esserci la Brexit?» .

I Clash erano un gruppo politico.

«Sì, ma non in senso stretto: usavano la musica per parlare di cose che non ritenevano giuste ma non pretendevano di avere la soluzione per risolvere tutti i problemi».

Cosa direbbe Joe Strummer di quello che sta succedendo oggi?

«Si vergognerebbe, così come accade a molti di noi. Una minoranza di persone che cerca ancora di usare il cervello. La maggior parte cerca solo di scappare dai problemi ma prima o poi la realtà arriva».

Siamo in un museo a celebrare il punk. Non è esattamente tutto quello contro cui si batteva?

«Non amo celebrazioni e anniversari. Però in questo caso credo sia molto importante raccontare ai più giovani che cosa è stato il punk: se ti guardi intorno capisci che è necessario. Non è una questione di nostalgia, è che abbiamo bisogno di altre persone come Joe Strummer. Il punk ha contribuito a cambiare in meglio la società parlando in maniera diretta ai giovani che hanno acquistato coscienza. A potenziali razzisti che sono diventati antirazzisti. Oggi sembra che tutto ciò non sia mai esistito. E quindi se un anniversario è l' occasione per raccontare questa storia a chi non la conosce, evviva l' anniversario. Potere al punk!».

·         Woodstock compie 50 anni.

Introduzione di Martin Scorsese al libro “Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo” (Hoepli), pubblicata da “Robinson – la Repubblica” 4 marzo 2019. Il mio punto di vista su Woodstock è limitato. Quanto limitato? Dunque, per la maggior parte di quel lungo weekend dell'agosto del 1969 sono rimasto confinato su una piattaforma di circa tre metri di larghezza, proprio a destra del palco, appena dietro una pila di amplificatori, tutto concentrato sui musicisti e le loro performance. Ero uno dei montatori del film che stavano girando. Il mio compito era individuare le sequenze che ci sarebbero servite al momento di montare la pellicola. Avevamo sette cameraman al lavoro per ogni singola esibizione e, nei limiti di quanto riuscissi a comunicare con loro (sorprendentemente bene, considerando tutte le difficoltà del caso), tentavo di dirigerli e indicargli le scene che non potevano vedere, perché i loro occhi non si staccavano dai mirini delle telecamere. In alcuni momenti, poi, dovevo fare i conti con problemi molto più urgenti - come, per esempio, mantenere l'equilibrio in quello spazio stretto e strapieno di persone. Dipendevamo infatti gli uni dagli altri, per la nostra incolumità. Se qualcuno mi avesse spintonato per farsi largo, sarei potuto cadere dalla piattaforma. Ma non è successo nulla di tutto ciò a nessuno di noi. Non c’era modo di procurarsi cibo o di andare in bagno. Non ho quasi mai visto il pubblico, tanto ero concentrato su ciò che accadeva sul palco: semplicemente, era una presenza inquieta e potenzialmente imprevedibile che aleggiava dietro di noi. Ogni tanto vedevo di sfuggita Michael Wadleigh, il regista, con la sua telecamera e le cuffie storte, mentre tentava di comunicare via radiomicrofono con gli altri operatori. Più che altro, riprendevamo ciò che ci era possibile ma curiosamente eravamo fiduciosi (forse per incoscienza giovanile) nel fatto che avremmo portato a New York materiale buono per il montaggio finale. È lì che quest' avventura è iniziata. Avevo incontrato Wadleigh alla scuola di cinema della New York University e lui aveva girato le sequenze in bianco e nero, su pellicola da 16 mm, per il mio primo film. Eravamo nostalgici dei pionieri del rock degli anni 50 - Fats Domino, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry -, un genere già quasi scomparso dai radar. Così ci venne l'idea di organizzare un concerto con tutti loro, e noi lo avremmo filmato. Poi ci giunsero all' orecchio voci di Woodstock. Wadleigh decise di andare là a capire se questa situazione poteva diventare un modello d' ispirazione per ciò che avevamo in mente. Poco dopo ci telefonò dicendo che avremmo dovuto girare noi il film. A parte la passione comune per la musica, nessuno di noi era ciò che si definirebbe un hipster, anche se Wadleigh si era fatto crescere appositamente una bella barba, prima di partecipare a Woodstock. Quando l'avevo incontrato per la prima volta era un giovane del Midwest, ordinatissimo, con i capelli corti e dall' aspetto molto pulito, sempre in camicia. Io all' epoca ancora non possedevo il mio primo paio di jeans. Diciamo che il mio look era da universitario medio. In più, non ero proprio un tipo da campagna. Avevo l'asma, ero allergico praticamente a tutto ciò che la natura aveva da offrire. Eppure eccoci tutti là - affamati, esausti, a lottare contro il fatto che la priorità degli organizzatori di Woodstock non era certo la comodità o l'incolumità di chi girava il film. Avevano problemi molto più urgenti da affrontare. Non so quanta affluenza si aspettassero per quel weekend, ma di certo non mezzo milione di persone. Ed erano in emergenza praticamente sotto ogni punto di vista: cibo, servizi igienici, assistenza medica. Alcune torrette per le luci minacciavano di crollare e il terreno si stava trasformando in un mare di fango. Non è un mistero il motivo per cui così tanta gente era arrivata fino a Woodstock: c'era la possibilità di ascoltare tanti grandi musicisti insieme e in pochi giorni. Ma è da sempre un mistero il fatto che Woodstock sia stato un evento pacifico. Voglio dire: sarebbe potuta andare storta qualunque cosa, in qualunque momento. A volte mi guardavo dietro le spalle e pensavo: "E se qualcosa va male? E se una droga non è buona, o lo è troppo, e questa gente decide di caricare il palco?". Noi, i filmmaker, avevamo le spalle coperte. John Calley, dirigente Warner Bros, aveva acconsentito a coprire i costi del noleggio delle telecamere e dell'acquisto della pellicola per il documentario per una somma di circa 15.000 dollari, che tempo dopo definì come " l'equivalente del costo di un pasto a Las Vegas". Ricordò anche di aver pensato che, in caso avessimo fatto un buco nell' acqua, lui avrebbe comunque recuperato i soldi spesi vendendo il girato come immagini di stock ad altri documentaristi. Comunque non avevamo fondi sufficienti a coprire l'intera realizzazione del film. Ricordo di aver visto Bob Maurice, il nostro produttore, mentre la musica risuonava altissima dietro di lui, al telefono con gente a cui diceva che questo stava diventando un evento storico e che sarebbero stati folli a non investire nell' impresa. Woodstock, il film, sotto molti punti di vista è stato una scommessa giocata sul filo. Credo che, senza il film, il concerto sarebbe poco più di una nota a margine nel contesto sociale e culturale degli anni 60. Ciò che il film ha fatto, e continua a fare, è stato distillare l'esperienza di Woodstock e mantenerla viva e vibrante. La nota a margine è diventata una pietra miliare, un modo, per la mia generazione, di ricordarci chi eravamo. È ancora più significativo che sia stato un modo, per le nuove generazioni, di entrare in contatto con lo spirito anarchico degli anni 60. O meglio, con una parte di quello spirito, quella più gioiosa. Dal canto mio, per vari motivi, ho abbandonato la partita prima che il film fosse terminato. Ma la cosa ebbe un enorme impatto su di me. Tanto che ho poi realizzato altri film dedicati a concerti. Però quell' esperienza mi ha segnato in maniera molto più profonda. Ricordo che mi lamentavo per le condizioni difficili delle riprese. Ma col passare degli anni ho iniziato a pensare a Woodstock, il concerto e il film, come a un momento trascendente nella mia vita, qualcosa che mi ha connesso intimamente alla mia generazione. Sono sicuro che ci siano tracce di quell' esperienza nel modo in cui penso alla mia vita e al mondo in cui viviamo. E ho il sospetto che sia lo stesso per tutti coloro che erano a Woodstock.

Woodstock compie 50 anni: hippie birthday al festival che ha cambiato la storia. Quattro giorni di pace, amore, droga e fango. La fotografia di un'epoca e di un evento che ha cambiato per sempre la storia della musica. Gianni Poglio il 17 maggio 2019 su Panorama. Un trionfo artistico, un evento epocale e un disastro finanziario: sono queste le tre facce del festival musicale più importante di sempre, quello che ha cambiato definitivamente la cultura e l’iconografia della musica dal vivo. Fino quei leggendari giorni dell’agosto 1969 (15,16,17 e 18) nessun organizzatore di eventi aveva mai osato sfidare apertamente nel nome delle “buone vibrazioni” le leggi del caos e della sicurezza. La tempesta perfetta si realizzò grazie all’incontro tra le suggestioni hippie di Alex Lang (manager di gruppi rock minori) e Artie Kornfeld (un discografico della Capitol Records) e l’illimitata disponibilità economica di due businessman rampanti in cerca di investimenti ed emozioni forti: l’avvocato Joel Rosenman e l’ereditiero-milionario John Roberts. Il progetto iniziale dei “fantastici quattro” era costruire uno studio di registrazione a Woodstock, dove si era stabilito in pianta stabile Bob Dylan, ma dopo poche ore di conversazione, l’idea della sala d’incisione svanì e il progetto del più grande raduno rock di sempre prese il sopravvento. L’inizio di un sogno diventato storia ma anche di un mare di guai. Che iniziarono a manifestarsi quando, dopo aver stipulato decine di dispendiosi contratti con artisti e band, scoprirono, a una manciata di settimane dallo show, di non avere un luogo dove tenere il concerto. Solo dinieghi e porte in faccia: a Woodstock e dintorni le amministrazioni comunali e la popolazione temevano l’invasione hippie. A salvare l’utopia dei fantastici quattro e dell’intera generazione dei figli dei fiori ci pensò però il proprietario di un caseificio di Bethel, Max Yasgur, che concesse il suo terreno in affitto per la non modica cifra di 75 mila dollari. Fu comunque l’ultima buona notizia per gli organizzatori. Che alla fine della maratona rock si ritrovarono con un buco da due milioni di dollari ripianati solo all’inizio degli anni Ottanta grazie ai proventi dei diritti discografici e cinematografici. Dal pomeriggio del 15 agosto 1969, il suono delle straordinarie quanto indimenticabili performance dei musicisti diventò paradossalmente la colonna sonora di un gigantesco girone infernale. Le sparute recinzioni non riuscirono a contenere la folla e almeno trecentomila persone entrarono gratis nell’area del concerto, le strade che conducevano al festival diventarono inaccessibili con auto in coda per venticinque miglia. Gia dalle prime ore del mattino del 15 agosto gli unici mezzi che consentirono ai musicisti di raggiungere Bethel furono gli elicotteri noleggiati all’ultimo istante (e a caro prezzo) dagli organizzatori. Scarseggiavano i bagni, il cibo, l’acqua e l’assistenza medica (provvidenziale fu l’intervento di centinaia di volontari e abitanti del posto che garantirono cure, coperte, torte e sandwich al mezzo milione di presenti). A complicare il tutto, la pioggia che trasformò il terreno in fango e un’incalcolabile quantità di droga in libera circolazione tra il pubblico e nel backstage dove le bevande di alcuni musicisti vennero “allungate” da manine anonime con allucinogeni di varia natura. Per quattro giorni lo sconfinato prato di Mister Yasgur si trasformò in uno stato nello stato, senza regole e senza polizia. Inferno e paradiso insieme. I media presenti immortalarono il momento: “A Bethel si balla, si canta, ci si denuda, si fa sesso senza inibizioni e non si dorme mai nel nome e nello spirito dello slogan del festival: pace, amore e musica”.  Tra le rare menti “lucide” in quel contesto, la troupe del regista Michael Wadleigh (di cui faceva parte anche un giovane Martin Scorsese, che trascorse la maggior parte dei quattro giorni del concerto appollaiato su una piattaforma a lato del palco per suggerire ai cameraman chi e che cosa inquadrare) ed Eddie Kramer, il produttore incaricato di registrare l’audio di tutte le esibizioni. "Artisti, manager, security, staff: erano tutti fuori di testa” ricorda Kramer. “A un certo punto un mixer prese fuoco e gli addetti alla sicurezza, in preda all’lsd, iniziarono a danzargli intorno. 'Nessuno lo spegne?' osai chiedere. "Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole" fu la risposta…”. Totalmente anarchico fu il festival e totalmente anarchiche, oltre che eccezionalmente ispirate ed improvvisate, furono le performance degli artisti: Richie Havens, visto che i musicisti prima e dopo di lui non riuscivano a raggiungere Bethel a causa del traffico, suonò per tre ore di fila arrivando ad improvvisare dal nulla un brano, Freedom, diventato uno dei momenti cult di Woodstock. Straordinaria anche la performance degli Who, interrotta dall’irruzione sul palco di un tizio che il chitarrista del gruppo, Pete Townshend, allontanò a colpi di manico di chitarra. E poi ancora Janis Joplin, irresistibile e completamente strafatta al tempo stesso, il virtuosismo magico di Santana e il potente rock soul-funk di Sly and Family Stone saliti in scena alle tre di notte. Fino a Jimi Hendrix, il genio, l’ultimo ad esibirsi alle nove del mattino di lunedì 18 agosto davanti a poche migliaia di reduci (gli altri stremati avevano già preso la via di casa). Quando si sfilò la chitarra, qualche secondo dopo la fine dell’ultima canzone, Woodstock era già storia… 

Massimo Cotto per “il Messaggero” il 31 luglio 2019. Chi c'era può battersi le mani, gli altri possono solo mangiarsele. Cinquant'anni fa, dal 15 al 17 agosto 1969, andava in scena contemporaneamente il più importante festival rock (anche se non il più bello, quello fu Monterey, anno di grazia 1967), il più splendido paradosso della musica popolare e la più grande delle illusioni: il festival di Woodstock, qualcosa che in breve travalicò il suo senso musicale per diventare simbolo di un nuovo modo di pensare, essere, agire. Oggi, per festeggiare degnamente le nozze d'oro, Michael Lang, che nel 1969 fu il principale promotore, sta cercando in tutti i modi di replicare quel raduno, incontrando enormi difficoltà. Le notizie dell'ultima ora dicono che se ci sarà, non sarà nel luogo originale, ma lontano mille miglia: a Columbia, nel Maryland, al Merriweather Post Pavillon, un anfiteatro naturale che può contenere al massimo 20 mila persone. Niente, in confronto alle 500 mila che fecero di Woodstock il più fantasmagorico dei festival dello scorso millennio. Woodstock sta al rock come il 68 alla società italiana. Con una sostanziale, enorme differenza: ogni volta che ci si avvicina all'anniversario del 68, scatta implacabile la triade di domande: fu vera gloria? Ha cambiato davvero qualcosa o tutto è stato assorbito dal sistema? Quali valori sopravvivono di quel movimento? Su Woodstock, invece, tutti sembrano d'accordo nell'identificare in quei tre giorni il punto più alto e puro dell'essenza rock, il momento di cristallizzazione di un sogno, quello che il rock potesse diventare la mappa di un nuovo mondo che aveva come capitali le tre parole più usate in quel raduno: pace, amore, musica. Io vado controcorrente. Rivolgo a me stesso e al mondo del rock le stesse domande riservate al 68: fu vera gloria? Ha cambiato davvero qualcosa o tutto è stato assorbito dal sistema? Quali valori sopravvivono di quel movimento? Ma andiamo con ordine a analizziamo i fatti, partendo dal primo, grande paradosso: a Woodstock non c'è stato nessun concerto, mai, perché le autorità cittadine, dopo aver analizzato a fondo i possibili benefici, ma anche i sicuri rischi di un festival di quelle dimensioni in una cittadina di 7 mila abitanti, all'ultimo momento decisero di non concedere l'autorizzazione. Gli organizzatori, disperati, si misero alla ricerca di un'altra sede, che individuarono a Bethel, a 87 chilometri da Woodstock, dove una signore chiamato Max Yasgur, un contadino di origini russo-ebraiche nonché principale produttore di latte della contea, era proprietario di un enorme campo in grado di ospitare tutta la gente del mondo. Sui biglietti era già stato stampato il nome di Woodstock e dunque Woodstock fu. Per la storia, non per la geografia. Secondo paradosso: Yasgur era un reazionario, lontano mille miglia dagli ideali hippie. Diede in affitto il suo campo senza pensarci troppo. Del resto, gli organizzatori si aspettavano al massimo 40 mila persone. Yasgur divenne quindi un eroe della controcultura, santificato da quei figli dei fiori di cui non condivideva alcun ideale. Terzo paradosso: quel sogno che pareva infrangibile, quell'utopia pacifica e folle che la musica potesse fermare persino le guerre («mettete dei fiori nei nostri cannoni», per semplificare) annegò miseramente tre mesi dopo, ad Altamont, durante un concerto dei Rolling Stones. Gli Hell's Angels, inspiegabilmente utilizzati come servizio d'ordine, uccisero a coltellate un ragazzo, Meredith Hunter, mentre cercava stupidamente di raggiungere Mick Jagger sul palco. Nelle immagini si vede chiaramente che Hunter impugnava una pistola, che, tuttavia, non fu mai ritrovata. Poco importa. Conta che quella fu la fine del sogno. Game Over. Ecco perché sorrido nel vedere come Woodstock continui a essere celebrato anno dopo anno. Non che mi dispiaccia, anzi. È solo che non ho mai visto un accadimento della storia ricevere tanti peana pur avendo conosciuto una vita e un'influenza così brevi nel tempo. Forse, a bene vedere, è questo il quarto paradosso: celebrare non quel che è stato, ma ciò che poteva essere: un sogno lungo e bello, un'idea che poteva trasformarsi in realtà come a Cana Gesù trasformò l'acqua in vino. Di sicuro, quel che rimane è la musica. Straordinaria. Crosby, Stills, Nash & Young e Johnny Winter, Who e Jefferson Airplane, che simboleggiavano due diverse rivoluzioni, quella dei mods inglesi e quella psichedelica dei ragazzi californiani. Joan Baez, al sesto mese di gravidanza, che commuove con We Shall Overcome e le canzoni di Dylan. E poi Joe Cocker che lancia l'urlo che lo manderà dritto nella storia, quel ruggito incredibile che trasforma With A Little Help From My Friends dei Beatles da deliziosa marcetta a inno esistenziale. I Ten Years After e The Band di Robbie Robertson, Sly & The Family Stone e Santana, gli immensi Creedence e i lisergici Grateful Dead, la cui esibizione fu purtroppo segnata da problemi tecnici. Se ne accorsero in pochi, perché erano tutti troppo fatti di erba o troppo assorbiti dalla bellezza di un rito collettivo che si stava compiendo, tra la pioggia che cadeva e la musica che diluviava. Nessuno si rese neanche conto che Janis Joplin salì sul palco imbottita di droghe e incapace di dare il meglio di sé. Alla gente bastava che ci fosse, che fosse lì a condividere quel momento. Alla fine, per me, le immagini più belle sono due. La prima è la copertina del disco triplo, che ritrae Nick e Bobbi Ercoline, due ragazzi che stavano insieme da pochi mesi e che il fotografo immortalò in una foto che fece epoca: loro due avvolti da una coperta, per ripararsi dal freddo e proteggere il loro amore; ci sono riusciti, perché stanno ancora insieme, cinquant'anni dopo. La seconda è di Jimi Hendrix, che firmò un'irripetibile versione di The Star Spangled Banner, l'inno americano. Come a dire: cambiamo la storia, cambiamo musica. Jimi fu il più pagato delle star che si esibirono a Woodstock, tanto che Michael Lang si lasciò scappare una frase a mezza voce, detta ai suoi collaboratori, che, intercettata, procurò qualche ora di panico: «Che nessuno si lasci scappare quanto prende Hendrix». In una foto si vede lui, che morirà poco dopo, con giacca bianca ornata di perline, jeans, catenina al collo e bandana in testa. Ha gli occhi socchiusi, guarda la chitarra. Sembra distante da tutto e da tutti. Come se attorno a lui non ci fosse nulla e nessuno. Come se avesse in qualche modo capito che quel sogno oceanico di smuovere le masse e costruire un mondo alternativo era destinato a spegnersi come sigaretta nel vento. Hendrix è perso nel suo, di mondo. In un festival che aveva cercato di toccare le corde giuste, lui continuava a toccare le corde della sua chitarra.

Woodstock, il mito di Hendrix e quell’inno sfregiato dal napalm. Gennaro Malgieri il 13 Agosto 2019 su Il Dubbio. Mezzo milione di ragazzi si ritrovarono il 15 agosto ’ 69 nella campagna di Bethel, White Lake, NY. La guerra del Vietnam era in corso, l’esercito americano compiva il massimo sforzo con oltre mezzo milione di soldati contro i vietcong. Ma i figli dei fiori erano pacifisti e le parole d’ordine rivoluzionarie erano love, peace and freedom. Jimi Hendrix impugnò come un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie volte per accordarla, si produsse in un’interpretazione che sarebbe rimasta indimenticabile di The Star Spangled Banner, l’inno americano, sul ritmo di Voodoo Chile. Dalla sua chitarra uscirono suoni distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy Cox e il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero sugli attenti. Il brano catapultò gli spettatori nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove l’America stava affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di ‘ musica, pace e amore’ di Woodstock. Gli altri se n’erano andati, sotto un temporale improvviso che si abbatté sulle 500mila persone convenute in quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster, Stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della kermesse. I 180mila rimasti s’illuminarono improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una rivolta pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità di esprimere i loro disagi, le loro ansie, la creatività di quella nazione hippie che si stava formando al di là delle convenzioni e di un ‘ ordine’ tanto sfuggente da sentirlo estraneo se non ostile. A 24 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il nemico assoluto, l’Unione Sovietica, e in allarme per le installazioni missilistiche a Cuba, i giovani americani di mezzo secolo fa, più che esorcizzare la violenza che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze, immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi. Così a Woodstock si ritrovarono il 15 agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati dagli unici ‘ eroi’ che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e di parole tutt’altro che ‘ innocenti’ per l’establishment che faticava a comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali si attendevano da un Paese che aveva contribuito a “liberare” l’Europa, tranne impossessarsene culturalmente e militarmente, di essere essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle amministrazioni statunitensi, le quali non avevano neppure l’alibi di voler esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un futuro in un Pianeta inquieto. Woodstock era stato ideato da Michael Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro figli dei fiori con vocazioni manageriali. Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di Woodstock. Poi pensarono a un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente proibitiva. Se non fosse stato per Elliot Tiber ( che racconta il tutto nel suo libro scritto con Tom Monte, Taking Woodstock, Rizzoli) proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero lasciato perdere. Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese a un allevatore della zona, Max Yasgur, di affittargli i suoi 600 acri ( 2,4 Km quadri) per 75mila dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca manovra sovversiva. Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a “Rolling Stone”: «Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena». Altro che un incubo di fango e stagnazione animato da intrusi dall’aria freak, come scrisse il “New York Times” per correggersi qualche giorno dopo, quando ammise che si trattava di ‘ un fenomeno d’innocenza’ al quale quella massa enorme di giovani aveva preso parte «per avere il piacere di stare insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una dichiarazione d’indipendenza». C’era qualcosa di più, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da un’opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who, Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Young, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente, la modernità, l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno a un comunitarismo dalle radici rurali, a una certa idea della bellezza. Di tutto questo la musica di Hendrix era la colonna sonora. Lo è stata a lungo. Oggi è un richiamo ad un modo impossibile nel quale è proibito sperare, sognare, forse addormentarsi come uomini liberi dai condizionamenti della tecnica dopo aver ritenuto di sconfiggere l’utopia delle ideologie e delle rivoluzioni. La sola liberazione è riconoscere la persona che agisce in una comunità di uguali cercando di sottrarsi ai condizionamenti dell’avidità. Hendrix lo aveva compreso prima di molti sociologi che, in quel suo tempo ricco di speranze nonostante tutto, non riuscirono a comprendere politicamente l’utopia di Woodstock. Per la sinistra mondiale, infatti, legata al mondo comunista, essa rappresentava una distorsione nella lotta contro l’imperialismo. Per i conservatori fu la manifestazione di un disordine morale. Per Ernesto Assante e Gino Castaldo, che hanno rievocato quell’esperienza una decina d’anni fa nel libro Il tempo di Woodstock ( Laterza), fu il primo grande laboratorio «di prove generali per un mondo libero». Forse fu semplicemente la preconizzazione di una speranza coltivata ed abbandonata, sopraffatta forse, secondo la quale la modernità avrebbe schiacciato la libertà intorno alla quale a Woodstock si assiepò una nazione senza futuro. Quella alla quale Hendrix diede una voce e, forse, un’anima. Mi è capitato tante volte ascoltando le sue canzoni di immaginare come sarebbe stato Hendrix oggi settantasettenne, se il 18 settembre 1970 non se ne fosse andato per sempre. Francamente, non mi riesce di vederlo con i crespi capelli bianchi, il volto solcato da rughe profonde, la voce ancora più roca, salire a fatica sul palco. Anche gli angeli, soprattutto gli angeli del rock invecchiano e quel che resta è il sogno che hanno scolpito nel cuore di chi li ha incontrati. Ma capita, a “ragazzi invecchiati”, di tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di intuizioni non verificabili, in una “nostalgia” ( se così si può dire) che ti afferra facendoti inabissare nel futuro. In altri tempi, quando ero soltanto poco più che adolescente, avrei detto di essere immerso in un magma psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinto da pulsioni ribelli. Sensazione che non si è dissolta. Una decina d’anni fa, infatti, mi è capitato di ascoltare per ore i dodici brani di Valleys of Neptune, l’album postumo, che raccoglie i brani composti nell’ultimo anno della sua vita, riordinati dalla sorella Janie, ed ho avuto la percezione di ritrovare Hendrix proprio come lo avevo lasciato. Ed l’ho ricordato, come oggi ricordo Woodstock, il mito nato e caduto nel giro di un anno rendendomi conto che la sua musica, con quel che significò all’epoca, non è finita Come non è finita quella di Monk, di Davis, di Parker, di Mingus. Con una differenza: la musica di Hendrix è la sola “musica totale” ( se il sommo Richard Wagner me lo consente) del nostro tempo che al compimento del primo ventennio di questo secolo possiamo considerare “musica dell’avvenire”, senza neppure provarci a definirla. Jazz, blues, rock, fusion? Tutto questo e niente di questo. Sensazioni. Gratificanti sensazioni di angeliche aperture su armonie telluriche. Così riconquistiamo l’Experience, senza dimenticare compagni di viaggio come Noel Redding, Mitch Mitchell, ma anche Chas Chandler e Billy Cox, compendio di una visione della musica che è letteratura, dolcissimo abbandono ( Red House), per riprenderci l’Hendrix più visionario che ci aveva catturato con quattro album in vita e si ripropone ancora oggi, come un “Otello bucaniere arrivato a Camelot”, secondo la definizione di Michael Thomas del 1968, per non andarsene mai più. In effetti, a quasi mezzo secolo dalla scomparsa – ebbro, avvelenato ed intorpidito dall’amore, mentre accanto a lui dormiva senza accorgersi del suo precipitare nel buio Monika Danneman – la musica che Hendrix ci ridona è la più moderna possibile dopo gli effimeri trionfi delle avanguardie post- underground. A dimostrazione che quando sollevò le sorti di un rock stanco e ripetitivo con Purple haze, Hey Joe, Foxy Lady, Gypsy Eyes, Voodoo Chile – soltanto per citarne qualcuna – la fascinazione del mito colpì nel profondo chi immaginava la propria musica compiuta e definita: Clapton, McCartney, Townshend, Beck, Richard e tutto il Gotha del pop nella seconda metà degli anni Sessanta. Al punto che non ci fu nessuno a detestarlo, foss’anche per comprensibilissima gelosia. E del resto che cosa si poteva invidiare a Hendrix, un talento non comune, una sensibilità che trasmetteva incandescenti sensazioni agli ascoltatori, la capacità di suonare il suo strumento come se fosse un’appendice del suo stesso corpo, di far vibrare l’anima di chiunque come mai era accaduto prima ascoltando i celebratissimi Beatles, Rolling Stones, Cream, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, Pink Floyd e via elencando? Di Hendrix restano ovviamente la musica, le performance, ma anche i testi di canzoni che sembrano uscite dall’anima di Kerouac, di Ginsberg, di Ferlinghetti, di Corso; ma magari, inconsapevolmente, anche da Eliot e Pound. In una delle ultime diceva: “La storia di una vita/ è più rapida di un battito di ciglia”. La sua di sicuro. Nel suo secondo album, quello che si apriva con una versione entusiasmante della beatlesiana Sgt. Pepper’s Loneley Hearts Club Band, in un’altra che avrebbe fatto epoca, Room full of Mirror, si ascolta: “Vivevo in una stanza/ piena di specchi,/ tutto quello che riuscivo a vedere era me stesso”. Lo specchio lo aveva fatto lui, mettendo in una cornice schegge varie, come racconta Charles R. Cross, per avere forse una visione deformata, come la vita di tutti noi, di se stesso, con una differenza: lui era capace di amare le proprie imperfezioni, di accarezzarle, di esaltarle perché umanissime, come umane erano le note di Hey Joe, un lungo struggente urlo, una richiesta di comprensione, un mendicare brandelli di anima nel trionfo del nichilismo conformista. “Chiamami angelo blu selvaggio. Il selvaggio angelo blu”, disse a chi doveva introdurlo in quello che sarebbe stato il suo ultimo grande concerto, a Wight, il 30 agosto del 1970. Poi volò a Stoccolma e a Fehmarn, in Germania: altre scariche andrenaliche, nonostante la depressione cominciasse a farsi sentire. E infine si fece davvero “angelo”, smaterializzandosi ai confini dei nulla in una stanza d’albergo a Londra, in compagnia di Monika, l’ultima Electric Lady che si tolse la vita il 5 aprile 1996, dopo aver trascorso venticinque anni senza Hendrix dipingendo ossessivamente Hendrix in abbracci soprannaturali con lei. C’era e rimane il senso profondo dell’effimero nelle composizioni hendrixiane. Musica e poesia. Niente, soprattutto oggi, di più trasgressivo. Sarà per questo che Woodstock, cinquant’anni dopo, ha la sua immagine, mentre il resto è sbiadito, o forse seppellito per sempre in quel pantano dove una generazione ingenuamente cominciò a cercarsi, illudendosi di farsi “nazione”. Il mito Hendrix, l’Inno sfregiato dal napalm che cambiò era.

Woodstock, 1969-2019: i 50 anni dell'evento-simbolo del rock raccontati dal suo fautore, Michael Lang. "Il pubblico è stato la vera star": con questa frase, l'allora ventiquattrenne imprenditore alle prese con l'organizzazione di una delle tappe fondanti della storia della musica, racconta in un volume fotografico la 'tre giorni di pace e musica'. Che andò bel oltre le star sul palco, da Ravi Shankar a Joan Baez, da Jimi Hendrix a Santana, fino a Janis Joplin, Sly & the Family Stone e Grateful Dead: "Woodstock non doveva riguardare una band in particolare. L’importante era stare tutti insieme". Michael Lang il 13 agosto 2019 su La Repubblica. Ferragosto 1969: qualcosa come mezzo milione di persone, in un periodo dell'anno soggetto a piogge torrenziali, invadono il terreno di un allevatore di Bethel, una piccola città rurale a nord dello Stato di New York, per assistere a quella che veniva pubblicizzata come La fiera della musica e delle arti di Woodstock. L'organizzatore di quella che diventerà una delle tappe fondamentali della storia della musica e della cultura hippie, poco più che ventenne, si chiama Michael Lang. In realivamente poco tempo è riuscito a mettere insieme un cast incredibile: Richie Havens, Swami Satchidananda, Sweetwater, Country Joe McDonald, John Sebastian, The Incredible String Band, Bert Sommer, Tim Hardin, Ravi Shankar, Melanie Safka, Arlo Guthrie e Joan Baez, protagonisti della prima giornata - venerdì 15 agosto - poi, venerdì 16, Quill, Keef Hartley Band, Santana, Canned Heat, Mountain, Janis Joplin & The Kozmic Blues Band, Sly & the Family Stone, Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, The Who, Jefferson Airplane e, infine, domenica 17 e lunedì 18 agosto, The Grease Band, Joe Cocker, Country Joe and the Fish, Ten Years After, The Band, Blood, Sweat & Tears, Johnny Winter, Crosby, Stills, Nash & Young, Paul Butterfield Blues Band, Sha-Na-Na e Jimi Hendrix. A cinquant'anni da quella che oggi viene semplicemente ricordata come la 'tre giorni di pace e musica', un libro fotografico scritto da Lang e contenente numerose testimonianze di chi era presente e ha lavorato dietro le quinte, si racconta l'evento musicale - ma non solo - che cambiò la faccia della storia. Ecco alcuni estratti da Woodstock. 3 giorni di pace e musica (Rizzoli Lizard).

IL PUBBLICO. Woodstock fu il primo grande evento musicale promosso a livello nazionale; i ragazzi arrivavano da tutta l’America grazie alle pubblicità sulle riviste underground, sui giornalini del college e in radio (un canale nuovo per l’epoca). La gente partiva da ogni angolo del Paese per partecipare ai “tre giorni di pace e musica” e per sfruttare l’opportunità di vedere la comunità della controcultura riunita. I giornali avevano annunciato che il festival non si sarebbe più tenuto a Wallkill, e non avremmo potuto chiedere una pubblicità più efficace. Per sfruttare appieno tutte le possibilità, a partire dal 26 luglio pubblicammo per una settimana un’inserzione sul New York Times, sul Daily News e altri quotidiani: “La nuova location è grande il doppio di quella iniziale. (Che la gente di Wallkill ci abbia fatto un favore?) Il che vuol dire il doppio degli alberi. E il doppio dell’erba. E il doppio della natura da esplorare. Se avete già acquistato il biglietto, non vi preoccupate: anche se c’è scritto Wallkill, potrete accedere alla nuova location, presso White Lake, nella città di Bethel. Cogliamo l’occasione per ringraziare i cittadini del posto, che hanno accolto con entusiasmo la notizia del nostro arrivo. Ci vediamo il 15, 16 e 17 di agosto a White Lake, per la prima edizione dell’Aquarian Exposition. Fiera di musica e arte di Woodstock". Grazie all’inserzione, probabilmente, vendemmo altre migliaia di biglietti. La mattina di giovedì 14 agosto, la vigilia del festival, la gente arrivava a frotte, e c’erano già 60.000 persone nel prato o accampate nei boschi. Avevamo pianificato con cura il flusso del traffico e noleggiato centinaia di autobus per portare i partecipanti da Port Authority a New York, ma la New York State Thruway non era in grado di reggere quell’affluenza. Ci volevano otto, nove ore per percorrere i 160 chilometri che ci separavano dalla città. Il traffico sulla Thruway si bloccò prima dell’Uscita 16, il che causò un ingorgo sulla Route 17, lunga venti chilometri. Giovedì sera era completamente bloccata, e così la gente abbandonò le auto e proseguì a piedi. Da Port Authority non sarebbero partiti altri bus diretti a nord, e alla fine l’Uscita 16 fu chiusa. Si stima che quel venerdì un milione di persone fu rimandato indietro. C’era così tanta gente che fu chiuso un intero tratto della New York State Thruway, così come il confine tra Canada e Stato di New York. Ma, nonostante quasi tutti avessero abbandonato la macchina o fossero bloccati nel traffico, il morale restava alto. La gente si aiutava a vicenda e, a chilometri dalla location del festival, risuonavano canzoni e festeggiamenti. “Mia moglie mi parlò di un autobus sulla statale, pieno di gente strana che rideva, cantava, fumava erba. I ragazzi a bordo, bloccati nel traffico, avevano visto un tizio che faceva l’autostop e si erano messi a urlare: ‘Fallo salire!’. Il conducente, nel panico, aveva gridato qualcosa sul regolamento della società. A quel punto si era formata una specie di milizia che aveva aperto le porte del bus, e il capellone con lo zaino in spalla era salito. Tutti ridevano e scherzavano, e anche il conducente si era calmato”.

IL PELLEGRINAGGIO. La vera star di Woodstock fu il pubblico. Il festival offriva a chiunque fosse interessato un accesso immediato alla controcultura; bastava essere lì. E così i partecipanti – che in gran parte erano decisi a porre fine a quella che ritenevamo una guerra ingiusta – trascorsero tre giorni nella natura: ascoltarono musica, si sentirono parte di una comunità e si avvicinarono ad altre persone, e all’umanità in senso ampio, nel nome dell’amore e della compassione. In sostanza, furono davvero tre giorni di pace e amore. Il pubblico era incredibilmente eterogeneo: liceali del Bronx si confondevano tra gli hippie arrivati in autostop da San Francisco, che a loro volta incontravano veterani della guerra del Vietnam, motociclisti, studenti universitari, Yippie, filosofi, attivisti politici e gente normalissima. A Woodstock, in un periodo in cui la segregazione razziale era ancora tollerata in alcune zone del Paese, il colore della pelle non aveva importanza: arrivarono persone di ogni etnia. Benché la controcultura stesse sbocciando in California e a New York, gli hippie erano ancora piuttosto rari. Ma, vedendo la folla riunita per il festival, fu chiaro che esisteva una “nazione di Woodstock”. Rob Kennedy, un adolescente arrivato a Bethel dal New Jersey in autostop, mi ha detto: “Nessuno immaginava che in America ci fossero tutti quegli hippie. A scuola, io e i miei amici eravamo gli unici tizi strani… Sapevamo che c’erano degli hippie nelle città vicine, ma non pensavamo che fossero così tanti. Wood stock ci fece capire quanti eravamo, e questo fu uno dei suoi aspetti più potenti”.

GLI ARTISTI. I ragazzi della controcultura non avevano gusti musicali predefiniti, così decisi da subito di far suonare un gruppo eterogeneo di artisti e stilai un elenco che spaziava da Jimi Hendrix a Johnny Cash. Hector Morales della William Morris mi aveva aiutato a organizzare il Miami Pop Festival e mi spiegò come ingaggiare gli artisti. La sua assistenza fu preziosissima in ogni fase del progetto. Mi resi conto in fretta che, per dare credibilità all’evento, avrei dovuto innanzitutto assicurare la presenza di musicisti importanti, offrendo cifre che non potevano rifiutare. Se un gruppo prendeva in genere 7500 dollari, per esempio, io ne offrivo 10.000. Quando due o tre grandi nomi furono confermati, gli agenti e i manager dei vari artisti cominciarono a prendermi sul serio. Jefferson Airplane, Creedence Clearwater Revival e Canned Heat furono i primi ad accettare, e ingaggiai Crosby, Stills and Nash prima dell’uscita del loro album d’esordio. Un giorno David Geffen, il loro manager, si presentò nell’ufficio di Hector stringendo in mano un test pressing del disco appena completato. Ci lasciò senza parole. Geffen stava cercando l’evento giusto per inaugurare la prima tournée della band e tutti pensammo che Woodstock sarebbe stato perfetto. L’accordo fu firmato seduta stante. Volevo anche ingaggiare artisti che conoscevo e che vivevano a Woodstock: The Band, il cui manager era Albert Grossman, e il cantautore Tim Hardin. Uno degli aspetti che preferivo di quella fase era scoprire nuovi talenti e riunire i vari gruppi. Il festival fece nascere varie carriere: all’epoca Santana era una band di San Francisco che non aveva ancora inciso nulla; gli artisti blues britannici Joe Cocker and the Grease Band e i Ten Years After (in cui suonava il chitarrista Alvin Lee) erano ancora sconosciuti in America. I Mountain si erano appena formati, e alcuni artisti in circolazione da un po’ dopo l’esibizione a Woodstock ebbero un rinnovato successo: John Sebastian, che aveva avviato una carriera solista dopo aver militato nei Lovin’ Spoonful; Richie Havens, un cantante folk di vecchia data del Village che quel venerdì aprì meravigliosamente il festival; Country Joe McDonald, che dopo aver suonato con i Fish era diventato un solista e fece cantare a tutti il “Fish Cheer”; Arlo Guthrie (che viveva sulle vicine Berkshire). Janis Joplin e Jimi Hendrix avevano sciolto le band con cui erano arrivati al successo (rispettivamente Big Brother e The Experience). Non riuscii a scritturare tutti gli artisti che avrei voluto: speravamo di convincere Donovan e Johnny Cash a esibirsi, ma rifiutarono. Laura Nyro era in forse, ma soffriva di una terribile paura del palcoscenico. I Doors non suonarono perché Jim Morrison temeva di essere ucciso sul palco (dopo l’arresto a Miami, le sue paranoie erano peggiorate). Contattai John Lennon attraverso la società che gestiva i Beatles: a maggio gli addetti all’immigrazione gli avevano impedito di entrare negli Stati Uniti, ufficialmente a causa di vecchie accuse legate alle droghe, ma in realtà per via della sua posizione pubblica contro la guerra. Quarant’anni dopo il festival, trovai nel mio ufficio una lettera mai aperta da parte di Apple, che proponeva di far esibire due artisti appena scritturati: James Taylor e Billy Preston. Ebbi la folle idea di far chiudere il festival a Roy Rogers e alla sua Happy Trails, la conclusione perfetta per una tre giorni di pace e musica, ma il suo manager rifiutò la proposta. Fu invece Jimi Hendrix, com’è risaputo, a chiudere il festival alle 9 di lunedì mattina, di fronte a un pubblico più esiguo ma composto pur sempre da 20.000 persone. Jimi si esibì alla luce del sole per creare quella che in seguito diventò la storia di Woodstock, un’esecuzione di The Star Spangled Banner, ripresa dalle telecamere, che mi dà i brividi ancora oggi".

Danny Wertheimer per "la Stampa" il 10 agosto 2019. Appena comprati i biglietti, esplose la felicità di poter andare alla Woodstock Music and Arts Fair. Avevamo visto già tutte le grandi band di quell'epoca, ma ora pensavamo che trovarle tutte insieme in un festival di tre giorni sarebbe stato davvero fantastico. Ascoltare la musica in quell'ambientazione bucolica sarebbe stato magnifico. Prima che noi quattro diciassettenni lasciassimo New York per la campagna, fummo oggetto di una bella predica da parte di Lou, il padre di un nostro amico. Disse che avremmo dovuto fare attenzione ai protettori e alle prostitute che sarebbero stati lì pronti a profittare di noi. Ragazzi, se si sbagliava. Avrebbe dovuto avvertici degli effetti della pioggia, del fango e delle zanzare che avrebbero reso miserabili i nostri tre giorni all' ormai leggendaria festa. Arrivò il venerdì sera. Eravamo così lontani che non riuscivo a capire dove fosse il palco all'inizio. Lo avevo scambiato per l'area di atterraggio degli elicotteri. E la pioggia continuava a cadere. L' amplificazione non serviva in modo adeguato il punto dove avevamo messo le nostre coperte sul fango e la musica sembrava provenire da una radio a transistor da pochi soldi. E la pioggia continuava a cadere. Lo show del venerdì era principalmente musica folk acustica, quindi speravo che i gruppi rock sarebbero stati amplificati meglio. Il sabato scoprii che non era così. I Canned Heat, una delle band più rumorose che avessi mai ascoltato, non si sentiva quasi da dove eravamo seduti. E la pioggia continuava a cadere. Volevo vedere da vicino, e ascoltare, Country Joe and the Fish: erano i miei preferiti. Cercai di approssimarmi al palco ma fui respinto da una folla indignata. Il set dei Grateful Dead fu così lungo che mi addormentai per tutti i 30 minuti di Dark Star. Ma il vero incubo fu quando si pose il bisogno di andare al bagno. Tutti quelli che ho visto erano bagnati, sporchi e terribili. L'evento, mal concepito e mal progettato, è diventato leggendario col passare del tempo e oggi è visto come un paradiso della controcultura. Il fatto che nessuno abbia fatto a botte seriamente o sia stato ucciso è stata un vero miracolo. Forse, il merito di averlo reso così eccezionale è del film in cui i fan hanno potuto vedere da vicino le loro band preferite nel comfort di un teatro. Per me, a Woodstock, non ci sono stati momenti musicali particolarmente gloriosi, ma solo un tortuoso susseguirsi di pioggia e fango. Nonostante tutti i discorsi sulle persone che parlavano di pace e sperimentavano l' amore, per i miei amici e me non è andata così. Non abbiamo nemmeno baciato una ragazza. Il traffico fu orribile e, come noto, le autostrade divennero un parcheggio. Siamo rimasti intrappolati, così non riuscimmo nemmeno ad andarcene quando lo decidemmo. Il mio amico Stanley si sentiva male, aveva il raffreddore forse anche la febbre, ma voleva resistere sperando che accadesse qualcosa di bello. Però, anche se avesse voluto andare a casa, non sarebbe stato possibile. Mentre succedeva tutto questo, mi capitò di pensare ai ragazzi della mia età che stavano combattendo nel sud-est asiatico. A quanto disagio dovevano provare. E dunque avrei dovuto comportarmi come un bimbo e godermi questa esperienza. Ma ero troppo bagnato, sporco e affamato. Lo Stato di New York alla fine è intervenuto e ha convinto i promotori a rimborsare i possessori del biglietto a patto che rispedissero i biglietti. L' ho fatto volentieri. E ho recuperato tutti i miei 34 dollari.

Woodstock, ma quali hippie: fu il trionfo del capitalismo. Quando il rock entrò a Wall Street. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 15 Agosto 2019. Tutto quello che vi stanno raccontando su Woodstock è falso. I tre giorni di Peace & Love, l'età dell'Aquario e la grande fratellanza universale c'erano, certo. Ma erano il messaggio pubblicitario usato per richiamare le masse. Non furono il motivo che spinse lì gli artisti, non furono la ragione del concerto del quale oggi si celebrano i cinquant' anni e tanto meno ne sono state il lascito. La ragione furono i soldi e il lascito fu la fine della grande utopia e l' entrata del rock nel listino di Wall Street. Su quel pratone nacque una nuova categoria di consumatori, meravigliosa mucca da mungere per chi avesse trovato il modo di farlo. Il rock smise di essere eresia ribelle e diventò uno dei tanti show allestiti dal capitalismo per macinare profitti, come era naturale che fosse. È una storia che a nessuno di quelli che la conoscono piace raccontare, perché distruggerebbe il mito grazie al quale mangiano ancora, dopo mezzo secolo. Eppure le parole e i documenti di allora ci sono tutti, riportati in decine di libri (Woodstock: Three Days That Rocked the World, di Mike Evans e Paul Kingsbury, tradotto in italiano da Hoepli, è forse il migliore). Basta metterli uno accanto all'altro con gli occhi del profano per vedere comporsi un affresco dissacrante, diversissimo da quello rivenduto dagli agiografi. Iniziò tutto con Stera Kleen e Tegrin. Anche se oggi girano band con nomi peggiori, erano le cose più distanti dal rock e dalla rivolta giovanile che si potessero immaginare: la prima una pasticca effervescente per pulire le dentiere, il secondo uno shampoo contro la psoriasi. Assieme ad altri prodotti del genere, facevano la fortuna della compagnia farmaceutica Block Drug, appartenente alla famiglia di John Roberts. Orfano di madre, nel 1966, il giorno del suo ventunesimo compleanno, John ricevette un assegno di 400mila dollari come prima tranche dell' eredità. Laureato all'università privata della Pennsylvania, cercava di mettere a frutto quei soldi assieme all' amico Joel Rosenman, incontrato su un campo da golf.

L'investimento - Fu un avvocato a metterli in contatto con i produttori musicali Michael Lang e Artie Kornfeld. Costoro avevano l'esperienza e le conoscenze giuste, ma non il denaro. La Woodstock Ventures, che avrebbe finanziato e organizzato il concerto, nacque così: grazie ai dollari di un rampollo appassionato di George Gershwin e a caccia di facili guadagni. Lui e Rosenman, dirà Lang, «non erano del giro della controcultura, ma erano brave persone. Per loro si trattò principalmente di un investimento». Senza la loro smania d' arricchirsi e senza le dentiere dei pensionati americani, nessuno avrebbe mai visto Jimi Hendrix strafatto suonare la versione psichedelica dell' inno nazionale statunitense. E fu solo una delle tante contraddizioni di questa storia. Da bravi imprenditori, pensarono innanzitutto alla pubblicità. Altro che spontaneismo. «Fu il primo evento con una promozione a livello nazionale. Non c' era mai stato un evento musicale nazionale prima di noi. Eravamo in tutte le radio dei college e nelle radio underground del Paese», raccontò Lang. Per questo avevano assoldato un'agenzia di New York, la Wartoke, e una pierre, Rona Elliot. Persino il nome, Woodstock, faceva parte del pacchetto promozionale. La cittadina era un vero e proprio brand: simbolo degli artisti bohemien, lì Bob Dylan aveva una villa di dodici stanze e Joan Baez, Janis Joplin ed Hendrix erano di casa. Però un concerto di qualche decina di migliaia di hippie (tanti ne erano previsti all' inizio) era troppo persino per gli alternativi residenti di Woodstock, i quali non ne vollero sapere di ospitarlo. Identico veto mise la località vicina chiamata Wallkill. Alla fine Roberts e soci trovarono accoglienza a Bethel, distante cento chilometri dalla scelta originaria. Però continuarono a chiamarlo "concerto di Woodstock", perché così si vendeva molto meglio. E gli abitanti di Woodstock tutt'oggi campano alla grande grazie al turismo dei gonzi che non sanno di essere arrivati nel posto sbagliato. Anche a Bethel spunta un personaggio che mai aveva toccato con mano chitarre elettriche e mescalina: un agricoltore 49enne di nome Max Yasgur. Il vero eroe americano della storia di Woodstock è questo ebreo alto un metro e 55, sofferente di cuore e scomparso quattro anni dopo. Gli debbono tutto, perché fu nei campi della sua fattoria, affittati per 50mila dollari, che si tenne il concerto. Per farlo desistere, i furibondi proprietari dei terreni confinanti erano giunti a boicottare il latte delle sue mucche. «Non li volete perché non vi piace il loro aspetto, e nemmeno a me piace particolarmente. Però il punto è un altro», rispose Yasgur. «Anche se protestano contro la guerra, migliaia di soldati americani sono morti perché loro potessero fare esattamente quello che stanno facendo. Ed è l' essenza di questo Paese».

Il contadino e le suore - Il figlio di Max, Sam, racconterà che il padre «di sicuro non aveva nulla in comune» con i 400mila figli dei fiori che invasero i 600 acri della sua proprietà. «Era un uomo che lavorava sodo. Aveva vissuto sempre in una fattoria e le sue giornate erano lunghe. Quando tutta questa faccenda iniziò, non sapeva nulla della loro cultura né della loro musica. Ma credeva davvero che le persone avessero il diritto di esprimersi e di essere lasciate in pace». Se il buono venne da personaggi inaspettati come Yasgur e le suore e le anziane signore che, mosse a compassione, portarono cibo, acqua e medicinali a quell'oceano di hippie sprovveduti, a deludere tutti fu la stella che avrebbe dovuto illuminarli. Bob Dylan, il menestrello, la leggenda del rock e tutto il resto, non è diventato spocchioso nel 2016, quando si è rifiutato di partecipare alla premiazione del Nobel per la letteratura: era così pure nel 1969, all' età di 28 anni. Abitando a Woodstock, gli organizzatori avevano sperato che lui ci fosse e chi accorse al concerto lo dava per scontato. Dylan invece non si fece vedere e anni dopo spiegò la sua scelta così: «Il festival di Woodstock fu la summa di tutte quelle stronzate. Sembrava che io c' entrassi qualcosa, con questa Woodstock Nation e ciò che rappresentava. Per me erano solo dei ragazzi che giravano con i fiori nei capelli e prendevano un sacco di acidi. Che opinione puoi avere di una cosa del genere?». In realtà - e forse il vero motivo fu proprio questo - aveva già firmato per partecipare al festival dell'isola di Wight, in Inghilterra, pochi giorni dopo, in cambio di 50mila dollari: più di quanti gliene avessero offerti Roberts e gli altri. Anche molti di quelli che c'erano non apprezzarono la compagnia. Pete Townshend, leader dei The Who, visse con poca poesia la propria "Woodstock esperience": «Da buon inglese cinico e stronzo, camminavo lì in mezzo e mi veniva da sputare addosso a tutti, nel tentativo di fare capire a quella gente che niente era cambiato e niente sarebbe cambiato. E non è tutto, perché quella che credevano una società alternativa era in pratica un campo di fango mischiato a Lsd. Se quello era il mondo in cui volevano vivere, allora potevano andare tutti affanculo». Più garbato, ma forse più devastante, il giudizio di Neil Young, che salì sul palco lunedì 18 agosto assieme a David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. «Che effetto ha avuto Woodstock sulla musica? Ha rappresentato il momento in cui il mercato è diventato abbastanza grande da far capire agli esperti di marketing che dovevano sfruttarlo. Ora potevano identificare un insieme di persone e "targhettizzarle" come gruppo di consumatori, e lo fecero. Usarono la musica. Quello diede via al rock 'n' roll utilizzato nelle pubblicità. Fu l' effetto a lungo termine».

Droghe e adrenalina - Peraltro, sotto l'aspetto artistico il concertone fu una mezza tragedia. Tutto dipendeva da come le droghe si mescolavano con l' adrenalina nel momento in cui cantanti e musicisti salivano sul palco, e da quanto era piovuto sulle attrezzature e gli strumenti elettrici. A Hendrix e Carlos Santana andò bene. Non ai Grateful Dead. «Non abbiamo mai suonato così male. erry Garcia prendeva la scossa ogni volta che toccava la chitarra», ammise Mickey Hart, il capo della band. Pessimo anche il ricordo di Young: «Woodstock fu un concerto schifoso. Una merda. Suonammo così male da vomitare». Tanto non erano andati lì per fare l' esibizione della vita, e nemmeno per la pace in Vietnam. Sui libri contabili della Woodstock Ventures si legge che, in un'epoca in cui con 3.000 dollari compravi una signora automobile come la Ford Galaxie, Hendrix ne ricevette 18.000 per l' esibizione (fu il più pagato, e il suo agente ne pretese altri 12.000 per farlo apparire nel film-documentario), i The Who 11.200, i Creedence Clearwater Revival 10.000, Joan Baez 10.000, Janis Joplin 7.500, Santana 2.250, Joe Cocker 1.375 e così via. I 7 dollari a biglietto (18 dollari per chi voleva stare lì tutti e tre i giorni) portarono in cassa 1,4 milioni, insufficienti a coprire i 2,7 milioni di spese. Per Roberts e Rosenman i conti furono in rosso sino al 1980, quando le royalty sul film e sui dischi portarono finalmente in attivo i conti dell' impresa. Fausto Carioti

·         Chiedi chi erano gli Who.

Chiedi chi erano gli Who. Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 da Corriere.it. «Non sto diventando vecchio. A 75 anni sono vecchio». Pete Townshend ti guarda e allarga le braccia. Gli Who, lui e Roger Daltrey, i sopravvissuti della band inglese che ha fatto la storia del rock mondiale con Beatles e Rolling Stones, pubblicano un nuovo album «Who» (esce il 6 dicembre) a 13 anni da «Endless Wire». E dire che ai loro esordi, nell’inno «My Generation», cantavano «spero di morire prima di diventare vecchio». «Quella canzone non parlava tanto di età, quanto di creare un confine tra una generazione e l’altra. Quella frase era il modo per dire “non voglio essere come voi!”. Dopo la Seconda guerra mondiale, tutti si comportavano allo stesso modo, erano tutti uguali». Come sente lo sguardo dei giovani di oggi sui suoi coetanei? «C’è un sovraccarico di informazioni disorganizzate, decontestualizzate, non c’è alcun contesto per l’informazione. In un certo senso è per questo che esiste qualcuno come Greta Thunberg che si alza e dice “È colpa vostra!”. Quella ragazza sta scrivendo la sua “My Generation” e per questo la adoro». È il momento del bilancio. «All’inizio la mia generazione è riuscita a creare quel confine, a parlare contro la guerra, contro l’apartheid... Poi il movimento hippy ha fallito perché è diventato una questione di colori, di balli, di cose stupide... L’amore non cambia le cose, ci vogliono rispetto, dignità e azione». Fra le nuove canzoni c’è «I Don’t Wanna Get Wise» che sembra una risposta a quel classico. Visto che non sono morto, non voglio diventare saggio. «Questo brano parla della sopravvivenza alla droga e all’alcol di cui facevo uso da giovane. Quando avevo 30 anni pensavo di essere finito. Diventare saggi non è un bella cosa, non è una cosa positiva sentire di sapere tutto, ma bisogna accettarlo e lasciare che le giovani generazioni trovino il proprio modo di vivere». Pete da ragazzino è stato vittima di violenza sessuale. Esperienza che travasò in «Tommy», l’opera rock capolavoro. Nel 2003 venne accusato di pedofilia per aver effettuato un accesso a pagamento a un sito pedopornografico, ma non vennero trovate foto sui suoi computer. Townshend si era difeso dicendo che stava facendo ricerche per dimostrare la complicità della banche. «Non ho perdonato chi mi ha fatto male da bambino. So che l’ira non è utile, ma ho provato a capire e non penso che sia possibile», ricorda oggi. Non vuole parlare di «Who» come dell’ultimo album della band. Anche se poi dice che dalla morte di Keith Moon, un’overdose di sedativi, fatica a considerare questo il gruppo. «Quando mi venne chiesto di scrivere brani per “It’s Hard”, non riuscivo a capire chi fossero gli Who e dopo quel disco ho lasciato la band. Non potevo andare avanti, ma abbiamo comunque continuato a fare concerti. Nel 2007 Roger ha bocciato un mio disco e poi è arrivato “Endless Wire” che trovo poco rappresentativo. Mi sono dato un’ultima chance questa volta: se non scrivo brani che Roger possa cantare, non ci saranno più gli Who perché non so più chi siano. Una volta scrivevo le canzoni e in studio con Roger, Keith e John (Entwistle, il bassista ndr) si creva la magia. Quel meccanismo non esiste più e quando salgo sul palco sento un enorme spazio da riempire».Ci sono delle date già fissate in primavera, tra Inghilterra e Stati Uniti, ma Pete confessa di non sentirsi a proprio agio sul palco. Eppure è considerato uno dei performer più iconici: il windmill, il braccio destro fatto roteare, è passato alla storia, è nel catalogo di chiunque abbia finto di suonare la chitarra. «Non è stata una mia idea. L’ho rubata a Keith Richards (chitarrista dei Rolling Stones ndr). Gli chiesi anche se gli dava fastidio che la facessi e mi sentii autorizzato dal suo “cosaaaa?”. Il mio modo di esibirmi è connesso alle mie frustrazioni e il windmill è un atteggiamento da macho. Preferirei non dovermi esibire, anche se mi viene facile e credo di essere bravo, ma voglio essere visto come scrittore e compositore, non solo come una scimmia che si esibisce e che fa finta di avere 25 anni».

·         50 anni fa moriva Brian Jones, il geniale inventore dei Rolling Stones.

50 anni fa moriva Brian Jones, il geniale inventore dei Rolling Stones. Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Giulia Cavaliere su Corriere.it. La tomba di Lewis Brian Hopkin Jones recita come data di morte il 3 luglio 1969 cioè cinquant'anni fa esatti oggi. Il suo corpo senza vita viene rinvenuto sul fondo della piscina della sua casa a Hartfield, nel Sussex, in Inghilterra. Nel momento in cui il corpo viene riportato a bordo vasca, la sua fidanzata di allora, la svedese Anna Wohlin, lo pensa ancora vivo, convinta di sentirgli ancora il battito cardiaco. La morte, tuttavia, è avvolta dal mistero, il caso e le indagini vengono chiuse quasi immediatamente e in brevissimo tempo spariscono tantissimi oggetti di Brian: abiti, strumenti musicali, altre cose presenti in casa tra cui, pare, persino dei nastri inediti. Gli strumenti in breve tempo cominciano a comparire nei mercatini dei collezionisti. La morte viene dichiarata nella giornata di oggi, 3 luglio, tuttavia sembra che il corpo fosse stato ritrovato ben prima della mezzanotte , cioè il giorno 2. Brian Jones era affetto da asma e girava sempre con un piccolo canonico inalatore, al momento la tesi più accreditata è quella di omicidio, confessato sul letto di morte da Frank Thorogood, un costruttore che stava facendo dei lavori nell'abitazione di Jones. Sembra che i due stessero giocando in piscina e che Thorogood mise la testa sott'acqua a Jones e quello, colpito da asma, avesse subito cominciato a respirare male, fino a quando, abbandonata Thorogood la presa per lo spavento, scivolò a fondo vasca. Il costruttore rientrò in casa spaventato e pochi minuti la Wohlin rinvenne il corpo. Keith Richards dichiarò sempre che Jones era un grande nuotatore, che lo aveva visto muoversi in situazioni di mare molto mosso con grande agilità e che niente lo avrebbe spaventato all'interno della sua stessa piscina. Capostipite del famoso "club dei 27", il ventisettenne Jones è sempre stato ritenuto vittima di sé stesso, dei suoi eccessi con alcool e droghe e della sua inquietudine, tuttavia, più di una persona rese noto che, al momento della morte, Brian stava ormai da qualche settimana rinunciando massicciamente ai suoi vizi con le sostanze.

Brian Jones, la figlia: «Mio padre è stato ucciso. E se non ci fosse stato lui, Mick Jagger farebbe il contabile». Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Matteo Cruccu su Corriere.it. È una antica tesi. Ovvero che Brian Jones ovvero l’anima prima dei primi Stones, morto in fondo a una piscina esattamente cinquant’anni fa, «sarebbe stato ucciso» . E ora la rilancia la figlia Barbara Marion, 50 anni, intervistata da Sky News in occasione dell’anniversario della scomparsa. «Penso che sia stato ucciso e che la polizia non abbia indagato come avrebbe dovuto». E continua: «Vorrei che riaprissero il caso e ci dessero delle risposte». La tesi appunto è datata, tant’é che iniziò a circolare fin da subito, nonostante la morte venisse derubricata come «accidentale» dopo i primi accertamenti . E così è ancora ufficialmente la situazione oggi nonostante le indagini siano state riaperte altre due volte (nel 1984 e nel 1994), di volta in volta con “killer” diversi ( si sospettò un costruttore Frank Thorogood che avrebbe ucciso Jones dopo una rissa) , mentre i più fantasiosi accusavano addirittura Jagger di aver architettato l’assassinio per «invidia». E per Jagger ne ha anche Marion, ma non riguardo la morte. Secondo la figlia, vien e poco riconosciuto il ruolo del padre nella formazione e nel lancio in orbita degli Stones: «Gli ha inventati lui, ha scelto ogni componente della band, andandoli a prendere uno per uno ai loro concerti. Se mio padre non fosse esistito, Mick Jagger oggi farebbe il contabile da qualche parte».

SESSO, DROGA E ROLLING STONES! DAGONEWS il 22 ottobre 2019. Jet privati usati come i taxi. Eroina per colazione. Guidare ubriachi in giro per Parigi su una Bentley. Jo, l'ex moglie di Ronnie Wood, riapre il cassetto dei ricordi e in un libro racconta quegli anni folli e pubblica le foto scattate nel periodo in cui viaggiava sempre insieme agli Stones. Un archivio straordinario di immagini mai viste che raccontano l’intimità della band e quel periodo di esagerazioni. «Il tour con gli Stones aveva una serie di tradizioni – ricorda Jo - Quando viaggiavamo su strada, andavamo in limousine e ci assicuravamo sempre che la macchina fosse piena di alcol. Sul jet privato degli Stones, Keith aveva sequestrato la camera da letto sul retro, e si sdraiava lì mentre l'aereo decollava, con sigarette e bevande a portata di mano. Quando il volo era in quota ci riunivamo sul letto. Ma il divertimento non era sempre esagerato. Mick e Bill giocavano a backgammon sull'aereo e facevano tornei». E sulla decisione di raccogliere i ricordi in un libro ha aggiunto: «Quando ho iniziato a scrivere questo libro e a guardare tutte le foto e a ripercorrere i ricordi, avevo così tante cose che non potevo includere tutto. Ora, con il passare del tempo, posso vedere di che mondo incredibile facevo parte. Non sono troppo nostalgica, ma quando guardo le foto sembra di aver vissuto una vita totalmente diversa. Ci sono amici che non sono più con noi, persone come Bobby Womack e John Belushi, ma sono così fortunata di averli incontrati e di aver vissuto la mia vita. Non guardo le loro foto e non mi dilungo, sentendomi triste per la loro scomparsa. Penso solo a quanto ci siamo divertiti».

LA CALDA E DROGATA ESTATE DEI ROLLING STONES. Barbara Costa per Pangea.news il 17 agosto 2019.  “Chi è che sa come procurarsi un po’ di merda, da queste parti?”: siamo nel 1971, è estate, e merda sta per eroina, e queste parti per Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra. Sono giorni di sole perenne, implacabile. Di caldo atroce. Insopportabile. Ipnotico. I Rolling Stones stanno, sudati e bestemmianti, in autoesilio in Francia, scappati da quell’Inghilterra che li vuole in galera per evasione fiscale se non sganciano in tasse il 93 per cento dei loro guadagni. Fuggono, gli Stones, anche da Allen Klein, il manager che gli ha fregato soldi e i diritti delle loro canzoni: Mick gliel’ha giurata, non gliene darà altri, men che mai quelli dei nuovi brani che si porta appresso, su demo, nella fuga nel sud della Francia. Villa Nellcôte la trova Anita Pallenberg, la donna di Keith. Una dimora immensa, maestosa, soffitti alti 6 metri, specchi, colonne di marmo, scaloni imponenti. È passata dalle mani di un riccone sopravvissuto al Titanic, a quelle di un armatore, con intermezzo di occupazione nazista, che ha lasciato svastiche indelebili sulle pareti. Un’aria di morte, di tomba, aleggia in quella casa buia, umida, ferma in un gravoso silenzio. In verità è dalla morte che fuggono gli Stones, dai cadaveri di Brian Jones e di Altamont, dall’overdose quasi letale di Marianne Faithfull. Fuggono dalla morte per rifugiarsi in una catacomba, ovvero un seminterrato, quello di Villa Nellcôte, che sembra l’interno di una piramide egizia, stanze dentro stanze, corridoi, e luce e aria che entrano da una sola piccola finestra. Una prigione sotterranea. Qui gli Stones decidono di registrare Exile on Main St., ogni giorno, da mezzanotte alle prime luci dell’alba. Ma tra i membri del gruppo gira un’aria brutta, tesa. Gli Stones sono nervosi, incazzati tra loro e per motivi loro, e tutti insieme con l’Inghilterra e col mondo intero. Una paranoia che li fa sentire sotto assedio. A Nellcôte, con Anita e Keith, si vive in bilico, da fuorilegge, ma nessuno Stones “regge” Richards, che va a dormire alle 10 del mattino (quando non si fa di amfe e allora sta sveglio, a suonare, per giorni interi) e si alza nel tardo pomeriggio: così si stabiliscono lontano da Nellcôte, a ore di macchina, da cui non si muovono nei weekend. E Mick Jagger? Meglio lasciarlo stare, sta sul nevrastenico, ha appena sposato Bianca, che è incinta, e per lei fa la spola tra Nellcôte e Parigi. Mick si droga, si fa di tutto e parecchio, ma Mick è snervato perché è geloso. Di Keith. Che a Nellcôte sta sempre con Gram Parsons, che forse con Gram vuole incidere un disco, vuol fare il solista, si tormenta Mick, cioè vuole lasciare lui e gli Stones. In questa atmosfera agitata, elettrica, in quella tomba sottoterra si scrive, si suona, si urla, si litiga, ci si riconcilia. Si sta allucinati, pazzi dal caldo che un unico ventilatore non placa di nulla, e la sua inutilità finisce nel disco (Ventilator Blues). Si sta col cuoco Jacques che fa saltare in aria la cucina e li lascia affamati, e però, mica si può licenziare, è lui che procura la “roba”. È lui che ha i contatti con quelli di Marsiglia, è lui che porta l’eroina pura. A Nellcôte, nel gabinetto, Keith ha scritto questa formula, 97 a 3, e sono i grammi, questi ultimi, della polvere della prima busta che vanno mischiati ai 97 di lattosio della seconda. Roba da tagliare con precisione, come fa Keith, ogni volta che sparisce per quasi un’ora. È la vena che reclama. A Villa Nellcôte passano artisti, scrittori, colleghi, perdigiorno. Passa ogni tipo di droga, sui tavoli la si smercia, la si consuma, gli stessi tavoli aree da gioco d’azzardo per uomini che di giorno dormono, di notte suonano, la mattina salgono sul Mandrax, il motoscafo di Keith, che lo guida senza patente, e vanno a far colazione in Italia, e a fumar erba coi marines pazzi di felicità perché per loro star di stanza in Francia significa saltare il Vietnam. E coi marines si va a prostitute! (Tumbling Dice). A Nellcôte ci sta 6 mesi Dominique Tarlé, il fotografo che cattura visioni, spettri di quell’inferno dantesco, regalandolo alla storia. Ci sta il giornalista Robert Greenfield, che su Nellcôte, e su Exile, vi scrive un libro sputtanante. I piani superiori di Nellcôte divengono bivacchi, accampamenti beduini, e Anita Pallenberg, accaldata, coi vestiti appiccicati addosso, si ritrova nell’ingrato compito di buttafuori. Un carattere niente facile, quello di Anita: forte ma suscettibile, e manesco con gli uomini. E Keith non sale di sopra, trema quando la sente parlare in tedesco, perché è in quella sua seconda lingua madre che Anita si infuria. Un giorno a Nellcôte arriva Eric Clapton, con 7 chitarre, e una la dona a Keith ed è quella di Muddy Waters, e io non ho mai saputo se è tra quelle che un pomeriggio i ladri razziano mentre a Nellcôte si guarda, "fatti" e beati, la tv. Un altro giorno arriva William Burroughs, ed è il suo “cut-up” che salva Mick e Keith dalla paralisi compositiva. È col cut-up che si crea Casino Boogie, è dai giornali che riportano Angela Davis ricercata per terrorismo, che nasce Sweet Black Angel. In Exile entrano suoni duri, e testi violenti, si cerca Dio e si vuole vederlo in faccia. I brani di Exile riflettono e rimandano il clima “flippato” di quel tempo, di quella estate. A settembre il disco è finito: gli Stones si separano, ospiti graditi e no se ne vanno, a Nellcôte rimangono Keith, Anita, il loro piccolo Marlon, i domestici. E arriva la polizia. Keith e Anita sono accusati di uso e spaccio di droga, sui media sono descritti come due delinquenti, Anita come una meretrice, una strega, una donna dalla bellezza che sgomenta e inquieta. Si scopre che tra gli inquilini di Nellcôte c’era qualche infiltrato della polizia evidentemente ignorante perché le accuse a Anita di stregoneria vengono fuori dai libri che lei aveva disseminati per la casa: insieme a Kafka, Artaud, Rilke, Hofmannsthal, svettano testi di teosofia, magia nera, esoterismo. Lei ci andava matta. Keith e Anita filano a Los Angeles. Qui arrivano anche gli altri Stones per completare Exile che esce nella primavera successiva, e non se lo compra nessuno. Inizialmente. Poi va al numero uno. Si parte in tour, quello dei record, quello così eccessivo che Keith se lo ricorda a lampi. In tour con gli Stones, ci sono Truman Capote per Life, e Annie Leibovitz per Rolling Stone. Pacchi di soldi agli avvocati, e le accuse a Keith e Anita decadono. Altre arriveranno. E Anita è di nuovo incinta. Nasce Angie.

Ernesto Assante per “la Repubblica” il 25 ottobre 2019. «I Rolling Stones non si fermano certo per far riposare me». Ronnie Wood ha 72 anni ma non è ancora il momento di parlare di pensione. «Non ho il tempo», dice ridendo, «anche se volessi non potrei». Il volto scavato, molte meno rughe rispetto al "fratello di chitarra" Keith Richards, in nero con t-shirt e giubbino leggero, ci riceve nella "suite presidenziale" del Landmark Hotel di Londra. È di buon umore e non potrebbe essere altrimenti: sta per uscire un suo nuovo album, Mad Lad: a Live Tribute to Chuck Berry registrato con i Five Wild, la band con la quale tornerà in concerto nelle prossime settimane. Un tributo a Chuck Berry, parte di una trilogia di album che il chitarrista inglese dedica agli artisti che lo hanno ispirato. E poi c' è un documentario intitolato Lassù piaccio a qualcuno che racconta le sue gesta musicali e private, diretto dal premio Oscar Mike Figgis. E ancora: c' è la sua nuova vita, che lo ha portato a vincere un cancro, a sposarsi per la terza volta (nel 2012), ad avere altri due figli, quattro anni fa, da aggiungere ai quattro avuti da precedenti matrimoni. Non ci sono più alcol e droghe, che lo avevano portato al limite dell' autodistruzione.

Lassù qualcuno lo ama?

«Penso proprio di sì, sono stato molto fortunato».

Oltre alla fortuna c'è altro. Fa parte dei Rolling Stones, ha suonato con McCartney e Ringo, con Dylan e Clapton, con Chuck Berry e Muddy Waters, è un essere mitologico metà uomo e metà chitarra.

«Ho un senso naturale del timing, mi trovo sempre al posto giusto nel momento giusto e riesco ad andare d' accordo con tanta gente. Ho anche del talento, probabilmente. Ma è soprattutto la voglia di cercare, sperimentare, conoscere, quella che mi ha spinto da quand' ero giovane e che ancora mi spinge oggi a fare sempre cose nuove, diverse».

La stessa spinta l' ha portata anche a toccare i limiti.

«Ma pure a rimettere i piedi per terra, a capire che una fase della mia vita per fortuna era finita e dovevo cambiare. E così è stato. Essere quel Ronnie Wood era diventato difficile e non aveva più nemmeno molto senso. Il che non vuol dire che io oggi non mi diverta o che non abbia mantenuto vivo il seme della follia».

Perché un disco senza i Rolling Stones?

«Perché mi andava di raccontare un pezzo della mia storia, così come faccio con i quadri che dipingo, o con il documentario che sta per uscire. Non so stare fermo a lungo, vivo di arte in tante forme diverse e non ne posso fare a meno. E poi Keith mi ha dato la sua benedizione».

Siete sempre molto amici?

«Sì, nonostante viviamo lontani, io in Inghilterra e lui negli Stati Uniti. Siamo padrini dei nostri rispettivi figli, quelli più grandi sono amici tra di loro e quando andiamo in tour siamo spesso tutti insieme come una grande famiglia».

Lei è letteralmente rinato, dopo la malattia, con la sobrietà e con tanta musica.

«E anche con i figli. Avere due ragazzini in giro per casa, dover ricordare cosa vuol dire crescere dei bambini, ti abitua a mettere in fila le priorità. La musica in questo mi ha aiutato moltissimo e credo che questo disco sia il necessario tributo a uno degli artisti che mi hanno fatto diventare quello che sono».

Perché Chuck Berry?

«Quando è morto, due anni fa, pensavo che ci sarebbe stato un diluvio di celebrazioni, di tributi, di quel che meritava un musicista così grande. Invece niente. E allora mi sono detto "lo faccio io". Mi sembrava giusto e importante, intere generazioni di musicisti sono cresciuti con i suoi lavori. E forse, con un disco come questo, qualche giovane potrebbe scoprirlo e innamorarsene anche oggi, perché la sua musica è senza tempo».

I ragazzi ascoltano musica molto diversa oggi.

«E mi dispiace per loro, perché hanno a disposizione talmente tante possibilità ed è difficile orientarsi, scegliere. Non riescono a dedicare il giusto tempo all' ascolto, vengono travolti ogni minuto da qualcosa di nuovo, tutto scorre con troppa velocità. Ma per fortuna ci sono i concerti e infatti tra poco inizierò un altro tour con la mia band per far ascoltare la musica di Chuck Berry, il blues, il rock' n'roll».

Verrà anche in Europa?

«Vorrei, ma gli Stones richiedono dedizione e tempo, andremo di nuovo in tour e per fare queste cose devo aspettare le loro pause».

Con gli Stones è un glorioso gregario. Ma le piace essere ogni tanto il bandleader, come in questo caso.

«Ma certo, mi diverto, faccio i miei trucchi. Mi piace suonare Chuck Berry, Eddie Taylor e le cose blues che non ho mai smesso di amare. Io ascolto ancora molta di quella musica ma anche il jazz, la classica, le cose di oggi. Non smetto mai di scoprire, di imparare. Anche nella pittura è lo stesso. Ho sempre ascoltato, guardato con attenzione, letto: è grazie a tutto questo che ho costruito il mio stile».

·         Rudolf Nureyev: uomo di danza e di sostanza.

UOMO DI DANZA, UOMO DI SOSTANZA. Micol Flammini per “il Foglio” il 9 luglio 2019. Il ritmo era in ogni cosa: in quella vita disarmonica, nell' eccesso del movimento, nella curiosità inquieta. Nelle sue esperienze incastrate tra un oriente e un occidente che lui non riusciva a capire del tutto, ma nei quali viveva fuggendo e anche ballando, come se ballare fosse l' unica ricerca che veramente lo interessasse. La vita di Rudolf Nureyev è ciclica, è perfetta, è estetica pura e sofferta. E' trasformazione. Non ci sono ripensamenti, c' è una spinta continua ad andare avanti, un' ansia di vivere che lui riusciva a placare soltanto danzando. Nella ciclicità e nella perfezione di una vita da artista, Rudolf Nureyev non poteva che nascere su un treno, sua madre era voluta partire nonostante tutto e mentre i vagoni viaggiavano lungo la ferrovia sovietica che lambiva il tramonto del lago Bajkal, nasceva lui. Unico figlio maschio. Inizia così la biografia scritta da Julia Kavanagh uscita in Italia per La nave di Teseo e dal titolo "Nureyev. La vita". Lo chiamavano il "ragazzo nato in treno" e in viaggio ha trascorso tutta la sua vita. Ogni cambiamento per lui è avvenuto in luoghi di attesa, in aeroporto a Parigi gli dissero che non poteva più far parte della compagnia, il Kirov avrebbe proseguito per Londra e lui no, a causa della nottata dissoluta trascorsa la sera prima nella capitale francese. Gli ordinarono di tornare a Mosca, lui preferì Parigi, rimase dall' altra parte dell' Unione sovietica, così divenne un traditore. Eppure i suoi genitori la Rivoluzione l' avevano amata, avevano amato quel senso di occasione e di novità che sembrava essere arrivato all' improvviso. Nella trasformazione i suoi genitori avevano visto la libertà, "un miracolo", la possibilità di fare di una nazione sconfinata un' utopia. Ma nel 1961, quando Rudolf Nureyev decise di non prendere quell' aereo per Mosca, l' utopia assumeva già i tratti del fallimento. Restare non aveva senso, se non fosse che anche in Europa, nei circoli artistici, tra gli intellettuali di sinistra, quel ballerino insolente che aveva lasciato la sua patria per gli agi della Francia, era da tenere alla larga. Lui, baschiro di origine, sovietico di cittadinanza, ballerino di professione, di tutto questo non se ne curò mai. Era curioso e inquieto, non sarebbe potuto rimanere nel paese che aveva trasformato la danza e la sua simmetria in geometria e propaganda. Nureyev ruppe tutto, ruppe i triangoli e i quadrati, ruppe i movimenti, le forme, le presenze, le scene. Ruppe i palcoscenici della Guerra fredda e quella sua rivoluzione non sarebbe stata possibile se non nel regno di mezzo dell' est e dell' ove st. Il ballerino non aveva bisogno di appartenere a una nazione, voleva soltanto i suoi pal chi, sui quali portare cavalli, stivali, turbanti, ritmi. Rivoluzioni. Kavanagh racconta che appena usciva di scena e smetteva di danzare, di Nureyev rimaneva lo scheletro, come fosse una vecchia nave abbandonata in un porto. Rimaneva la struttura, l' uomo senza il ballerino e quell' uomo era spesso rozzo, sembrava incompleto e incline alla provocazione. Amava i bar fumosi, la musica fino a notte fonda, amava il sacro e il profano. Non aveva ricevuto una grande educazione, non sapeva parlare in modo forbito e nemmeno gli interessava, era selvaggio e spesso brutale, ma amava l' arte e la letteratura. Amava la perfezione. Quando seppe di essere malato, molto malato, decise di spendere tutta la vita che gli rimaneva in corpo con energia. Attendeva la fine distraendosi, nel momento in cui sarebbe arrivata voleva soltanto dirle che era pronto, si sarebbe concesso a lei, dopo essersi concesso alla vita. Nell' attesa riuscì anche a tornare a esibirsi in Russia, a Leningrado, era il 1989, tutto si stava trasformando, di nuovo, e lui non aveva rimpianti. La sua rivoluzione poteva essere creata soltanto da un russo, ma lontano dall' Unione sovietica. Morì e sembrava non dovesse morire mai, "man ca poco", dicevano i medici. E lui continuava ancora a vivere per mesi. Poi per settimane. Infine per giorni quando in un sospiro pronunciò la sua ultima parola: "Moby Dick".

·         Aristotele Onassis e Jackie Kennedy.

“ONASSIS ABUSAVA PSICOLOGICAMENTE DI JACKIE”. DAGONEWS il 24 ottobre 2019. Carly Simon ha scritto del breve e tumultuoso matrimonio tra la sua amica Jackie Kennedy e il secondo marito Aristotele Onassis nel suo nuovo libro di memorie, “Touched By the Sun”. «Non avrei lasciato che Jackie sposasse Ari se l'avessi conosciuta in quel momento. Avrei fatto qualcosa per interrompere il corteggiamento» scrive Simon. Quindi rivela ciò che sapeva di Onassis prima di incontrare Jackie, tra cui «i suoi giacimenti petroliferi segreti, il suo fracassare piatti intorno ad altre mogli e amanti e le voci non comprovate che aveva fatto uccidere Bobby Kennedy». Jackie non parlava spesso del suo secondo marito, disse Simon, ma quando ne parlò la descrisse come un'unione emotivamente abusiva. La relazione era iniziata bene, le raccontò una volta Jackie in una conversazione che Carly ha ricordato nel suo libro. «Si considerava Odisseo e io non ero nessuno per discutere con lui - spiegò Jackie - Avevo così bisogno del tipo di protezione che mi stava offrendo. Lo volevo per Caroline e John. Questo è ciò che una donna sa in modo innato: deve proteggere i suoi figli in ogni modo, non importa quanto lontano devi andare dal tuo io». Jackie poi ha chiuso dicendo alla sua amica che «era innamorava della rete che Onassis aveva lanciato». Le cose tra di loro peggiorarono quando Onassis si stancò di lei e si ritrovò di nuovo tra le braccia della Callas. Onassis disse a sua moglie che doveva recarsi in Inghilterra per vedere dei cantieri navali, ma dall’odore di acqua di colonia sapeva che non era così. «Penso che volesse che sapessi che non ero tutto per lui – disse Jackie - Non voleva lasciarmi completamente, nel caso in cui mi fossi trasformata nella compagna ideale che sperava di aver sposato».

·         Frida Kahlo, 65 anni fa moriva la regina del selfie ante litteram.

Frida Kahlo, 65 anni fa moriva la regina del selfie ante litteram. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Maria Luisa Agnese su Corriere.it. Un boccettino di kajal nero spiccava nella mostra dedicata a Frida Kahlo lo scorso anno al Mudec di Milano, fra quadri e altri cimeli scovati nella casa messicana di Azul, e molto amata dall’artista. Quel boccettino era servito a enfatizzare le famose sopracciglia unite al centro. E la peluria che abbondava sulle labbra di Frida. Lei era fatta così, abituata a ribaltare i difetti naturali e le avversità della vita in grandi opportunità. E difatti non pianse mai sul suo irsutismo o sulla spina bifida che l’affliggevano sin da bambina, ma risolse tutto in brand, in cifra stilistica, in graffio d’artista. Non si fermò a piangere sulla natura matrigna ma, antagonista virtuale del grande e lamentoso Leopardi, risolse comunque come lui tutto in arte. E quelle sue sopracciglia esagerate e “sbagliate” sono diventate per lei non solo simbolo di identità estetica ma di rivendicata libertà intellettuale e ancora oggi affascinano chi tenta di uscire dal gregge di un codice estetico monocorde e unificato. Da Cara Delevingne a Lily Collins molte attrici si ispirano a lei mentre la modella Sophia Hadjipanteli, che cura con olio di ricino l’arco sopraciliare, lo ripropone in versione personale e ha un hashtag #unibrowmovement che inneggia al mono sopracciglio. Anche dopo nella vita di Frida, quando sarebbe arrivato l’incidente che nel 1925 gliela sconvolse - un tram che investì l’autobus che la trasportava e quasi accartocciò il suo corpo già provato -, lei ne approfittò per creare un monumento a se stessa e alla sua natura difettata. «Un corrimano di quattro metri mi era entrato nel fianco. Mi aveva impalata. La punta scheggiata mi usciva dalla vagina. A diciott’anni quell’autobus che avrebbe dovuto uccidermi, in realtà mi ha sverginata». Sembrava destinata all’immobilità e invece dopo 32 operazioni, un rompicapo per i chirurghi, con estenuata pervicacia ricominciò a camminare. E a dipingere. Iniziò proprio quando era a letto: i suoi genitori sopra il baldacchino misero uno specchio perché potesse vedersi e lei cominciò a ritrarre se stessa, il soggetto che conosceva meglio. In seguito quando fu in piedi di nuovo, fece di sé un’opera d’arte: con le sue sopracciglia, i fiori in testa, gli abiti messicani, decorava tutto, anche la protesi che sostituì la gamba amputata poco prima di morire nel luglio 1954, 65 anni fa. Una regina del selfie ante litteram. Due suoi quadri, Mi nacimiento e un autoritratto del 1946, sono nella collezione di Madonna, sua talent scout, che ha declinato l’invito a prestarli a Diego Sileo per la mostra al Mudec: «Non mi separo più dai miei bambini». Donna fuori da ogni codice, individualista e libera, Frida era insofferente a ogni etichettatura artistica, allergica agli ambienti intellettuali: «Mi fanno vomitare, per il mio carattere è veramente troppo. Piuttosto che avere a che fare con queste “artistiche” puttane parigine preferisco mettermi seduta sul pavimento del mercato di Toluca a vendere tortillas. Stanno ore al caffè a scaldarsi i loro preziosi didietro e parlano senza smettere mai di “cultura”, “arte”, “rivoluzione”, convinti di essere i signori dell’universo». Ma Frida era anche donna passionale e capace di perdersi nell’amore, come successe con Diego Rivera, sposato nonostante la differenza di età, a tratti sottomessa a quell’amore - anche lui strano e molto difettato - per un uomo non bello ma di sicuro fascino che la tradiva sempre, cominciando da subito, con la sorella di lei Cristina. Fu questa una ferita forte per Frida, ma anche rimarginata in nome di quell’amore irriducibile che la portò a risposare una seconda volta il suo Rivera, a riprenderselo nonostante i tradimenti reciproci, da parte di lei con uomini (Lev Trotsky) e con donne (Tina Modotti). Con franca consapevolezza riconobbe nei suoi diari: «Ci sono stati due grandi incidenti nella mia vita: uno è stato il tram e l’altro Diego. Diego è stato di gran lunga il peggiore». Ma a entrambi sapeva di dovere parecchio.

·         Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia.

Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia. Il suo omicidio commosse l’Italia e spinse il governo a emanare i primi provvedimenti per i migranti. Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Fausta Chiesa su Corriere.it. Esattamente 30 anni fa moriva ucciso nella baracca dove abitava Jerry Essan Masslo, il profugo sudafricano arrivato in Italia per fuggire alla violenza dell’Apartheid che fu ucciso per rapina nel casertano, dove si trovava per la raccolta dei pomodori. La sua morte allora non passò nell’indifferenza generale, anzi. Commosse l’Italia e diede il via alle prime grandi manifestazioni antirazziste nazionali e all’approvazione di leggi sulla protezione dei rifugiati e al riconoscimento e alla tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. La Comunità di Sant’Egidio che lo accolse a Roma ha invitto a ricordare degnamente Masslo. Oggi, sabato 24 agosto alle 17, al cimitero di Villa Literno è in programma un omaggio alla sua tomba. Jerry Masslo era fuggito dal Sudafrica lasciando due figli vivi dopo che gli avevano ucciso il padre e un figlio di 7 anni. Arrivato a Fiumicino il 20 marzo 1988 chiede asilo, ma in quel periodo l’Italia riconosce lo status di rifugiato solo a chi arriva dall’Europa dell’Est. Jerry chiede aiuto ad Amnesty International e dopo quattro settimane passate in aeroporto ottiene il permesso di entrare in Italia. Amnesty International contatta la Comunità di Sant’Egidio e Jerry è accolto nella Tenda di Abramo, la prima casa di accoglienza della Comunità a Roma. Jerry vuole lavorare e con altri quattro compagni va nl casertano e alloggia in una baracca. Ogni mattina all’alba è nella «rotonda degli schiavi» ad aspettare la chiamata. La notte tra il 24 e il 25 agosto arrivano in quattro con lo scooter per rubare ai neri i soldi della misera paga. Jerry e i suoi amici sono aggrediti da alcuni giovani del luogo che volevano rubargli i soldi. Jerry si oppone e gli sparano: avrebbe dovuto compiere 30 anni in dicembre. La sua morte sconvolge l’Italia. Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie è presente anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. «Grazie» alla morte di Jerry Masslo nacque la legge Martelli, che eliminò la clausola geografica: da quel momento in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Allo stesso tempo si regolarizzarono i lavoratori stranieri presenti, da cui emersero dalla clandestinità circa 220mila immigrati, quasi tutti africani. In suo nome nacquero in Italia e soprattutto in Campania varie associazioni.

·         I 70 anni del bigliardino.

UNA BOMBA. E NACQUE IL BILIARDINO, IL GIOCO CHE DA 70 ANNI ACCOMPAGNA L’ESTATE DEGLI ITALIANI. Jessica d' Ercole per “la Verità” il 6 agosto 2019. Sono 70 anni che il calcio balilla accompagna le estati degli italiani. Ce n' è sempre uno in ogni lido che si rispetti, nei bar in piazzetta o all' oratorio. Nato a inizio Novecento forse in Germania per mano di Broto Watcher, in Francia inventato da Lucien Rosemarie, più probabilmente in Spagna dove fu brevettato nel 1937 da Alejandro Campos Ramírez, un poeta meglio noto come Finisterre, in omaggio alla sua città natale. A rivendicare la paternità del calcetto da tavolo ci si misero pure l' inglese Harold Sea Thornton, che nel 1922 brevettò un «apparato per giocare un gioco di football», uno svizzero di nome Knicker e un ignoto artigiano italiano di Poggibonsi che nel 1936, pare, costruì alcuni prototipi. Di certo c' è che in Italia il biliardino prese piede nel 1949 grazie all' accordo fra Marcel Zosso, un francese di Marsiglia che voleva produrli in serie, e un costruttore di bare piemontese Renato Garlando, che smise di fabbricare casse per i morti per darsi al decisamente più divertente calcio balilla. Sembra che i primi operai ingaggiati furono i detenuti del carcere di Alessandria. Finisterre, morto nel 2007, era rimasto ferito nel 1936, in piena guerra civile spagnola, a causa di una bomba: «Adoravo il calcio ma ero diventato zoppo e non potevo più giocare Soprattutto soffrivo nel vedere quei ragazzini, feriti o amputati, che non avrebbero più potuto giocare a pallone con gli altri bambini Mi dissi: se esiste il tennis da tavolo dovrà allora esistere anche il calcio da tavolo! Mi procurai allora delle aste di ferro mentre un carpentiere basco rifugiato là, Javier Altuna, faceva le piccole figure in legno. Fece poi il terreno di gioco sempre in legno di pino credo, e la palla con un pezzo di sughero catalano. Questo permetteva un miglior controllo della palla: rendeva possibile bloccarla ma anche dargli un effetto».

Massimo Arcidiacono nel suo elogio funebre, sulla Gazzetta dello Sport, ricordava anche il resto della sua vita avventurosa: «Finisterre che registra l' invenzione, ma perde la documentazione mentre scappa all' estero per sfuggire al regime franchista di cui è convinto oppositore, si laurea in filosofia, si trasferisce in Sudamerica, per campare fa il muratore, l'imbianchino, il ballerino di tip tap, infine s' improvvisa editore di scrittori e poeti spagnoli anch' essi antifranchisti ed esuli (tra i quali Leon Felipe). Coinvolto in un colpo di Stato, rapito dai servizi segreti, dirotta l' aereo che lo riporta a Madrid, si rifugia a Panama. Una vita da Jack London, alla velocità di Lara Croft, che verrà ricordata per il più statico e disciplinato dei giochi, il calcio ricondotto al rigido 2-5-3 dalla vocazione fortemente offensiva. Un' invenzione, il calcio balilla, a suo modo poetica, come poeta fu Finisterre, che sopravvive alla sfida del tempo e dell' elettronica». Negli anni Cinquanta Finisterre finì in Guatemala dov' era solito battere Ernesto Che Guevara, che a biliardino era una schiappa, e farsi battere da sua moglie, Hilda Gadea, che in questo gioco era un asso. I primi biliardini altro non erano che dei cassoni con assi e giocatori di legno. All' epoca i calciatori avevano due gambe. Gli omini in plastica a piedi uniti videro la luce nel 1955 per favorire il passetto, ovvero il passaggio della palla tra due giocatori sulla stessa linea. Mossa severamente proibita solo in Italia. Vietati anche la manicciola, il tiro di prima intenzione del mediano centrale, con la palla appena messa in gioco e ovviamente la rullata, mossa concessa solo ai novellini. «Sono entrato in contatto con la Federazione italiana calciobalilla e ho scoperto che il biliardino non è per niente un gioco da ragazzini... Sono davvero convinto che il biliardino dovrebbe diventare una disciplina olimpica» (Antonello Venditti).

Nel 2006, ad Amburgo, si disputava per la prima volta il Mondiale di calcio balilla con tavoli ufficiali. All' ultimo torneo che si è svolto i primi di luglio a Murcia, in Spagna, gli azzurri Simone Russo e Massimo Caruso hanno sconfitto in finale i connazionali Luigi Rosica e Luca Marrazzo aggiudicandosi il titolo di campioni mondiali nella specialità rollerball. Nel 2013 la nazionale paralimpica italiana di calcio balilla ha vinto il campionato del mondo. Tra gli appassionati del calcio da tavolo spiccano Emirati Arabi, Libia, Yemen, oltre a India, Canada, Australia e Stati Uniti. Solo negli Usa circa 2 milioni di americani giocano al calcio balilla almeno una volta alla settimana. Esistono cinque calcio balilla differenti: il tedesco Leonard, l' americano Tornado, il francese Bonzini, il Garlando che usano in Austria e Svizzera, e poi c' è il Revolution che è il più utilizzato e diffuso in Italia. Ogni modello ha maniglie diverse, il piano in vetro o in legno, gli omini più grandi o più piccoli a seconda della provenienza. Il Tornado ha tre portieri.150.000 appassionati. In Italia ci sono più di 10.000 giocatori attivi, ma gli appassionati di calcetto sono almeno 150.000. Per una partita bastano 50 centesimi, da dividere in due o in quattro. Ricorda Alessio Spataro, fumettista, autore del libro Il Biliardino: «Ho cominciato a giocare (o meglio a perdere) a biliardino nel paese di mia madre, quando andavamo in vacanza dai miei nonni. Interi pomeriggi a giocare coi miei coetanei che spesso mi offrivano le partite in cambio di qualche mio disegno pornografico ricalcato dai fumetti per adulti da edicola». In Italia la Teckell dei fratelli Adriano produce biliardi in «cristallo extrachiaro temperato» o con «vasca diamantata». Tra i modelli più ambiti quello con stecche e giocatori ricoperti d' oro. Se un biliardino tradizionale costa fra i 300 e i 500 euro, per un modello della collezione Teckell ce ne vogliono almeno 10.500. Anche la Fas propone modelli lussuosi o personalizzati. Tra le creazioni più strane un biliardino commissionato dalla Pringle dove al posto dei mitici omini rossi e blu ci sono le patatine.

Il calcio balilla più caro al mondo costa 80.000 euro. È stato realizzato dallo scultore Stéphane Cipre. Per assemblarlo ci sono voluti sei mesi, 100 chilogrammi di alluminio e pelle. Ogni dettaglio è scolpito a mano. In campo ci sono i grandi campioni di ogni epoca: Sergio Ramos, Messi, Puskas, Di Stéfano, Pelé, Cruyff e Maradona. Grande assente Cristiano Ronaldo. Quest' opera d' arte verrà prodotta solo in dieci esemplari per i più facoltosi.

Tra gli appassionati di calcetto Pelè, Maradona e Zidane, che giocarono l' uno contro l' altro in una campagna Vuitton per il lancio di un babyfoot, lo chiamano così in Francia, con manopole in pelle bianca. Lello Arena che quando faceva Striscia la notizia, si concedeva con Enzo Iachetti e Antonio Ricci una partita ogni pomeriggio a biliardino nell' ufficio di Enzo Beccati, voce del Gabibbo. Dario Vergassola che con la comitiva di Zelig, dopo ogni show, si intratteneva a Milano in interminabili sedute di calcetto con i vari Claudio Bisio e Paolo Rossi. Poi a notte inoltrata ripartiva per La Spezia e, senza dormire, andava a lavorare. Dario Argento, figlio della fotografa, ritrattista delle dive, Elda Luxardo e di Salvatore Argento, che di mestiere promuoveva il cinema italiano all' estero, è cresciuto giocando a biliardino con Federico Fellini, Luchino Visconti, Elio Petri. Davide Lippi, pur di farsi una partita, rubò a suo padre Marcello 1.000 lire. Una bravata che gli costò cara: per punirlo il padre non gli rivolse parola per diverso tempo. Anche il socialdemocratico Ivo Josipovi, ex presidente della Croazia, aveva una passione per il calcio balilla: nel suo ufficio ci piazzò un biliardino. Nel 2011 il sindaco di Villa D' Ogna (Bergamo) ha vietato il biliardino perché rumoroso. A Teggiano, nel Salernitano, chi vuole farsi una partita tra aprile e settembre dopo le 22 rischia una multa salata e l' arresto fino a 3 mesi. Da ottobre a marzo il coprifuoco scatta alle 20. In Turchia, dove il calcio balilla era vietato dal 1968 perché considerato d' azzardo, è tornato legale nel 2016. Fino ad allora chi giocava rischiava da 1 a 5 anni di carcere. «Il mio gioco aiuta la coordinazione tra la mano destra e quella sinistra. Soprattutto invoglia l' amicizia e il cameratismo, a differenza dei videogiochi, che favoriscono solo l' autismo» (Finisterre).

·         La Mini ha compiuto 60 anni.

La Mini ha compiuto 60 anni. Storia e foto. Alla fine dell'agosto 1959 nasceva l'icona british dal genio di Alec Issigonis. Prodotta da BMW dal 2001, oggi anche in versione full electric. Edoardo Frittoli il 2 settembre 2019 su Panorama. Sessant' anni fa, alla fine dell'agosto 1959, vedeva la luce una delle automobili più iconiche del mondo: la Mini. Il prototipo fu presentato ai vertici della BMC (British Motor Corporation) dal suo progettista, l'eccentrico Alec Issigonis. Il designer aveva accolto la richiesta della casa britannica nel 1956 per una piccola utilitaria che fosse in grado di alloggiare comodamente 4 passeggeri e di poter caricare anche qualche bagaglio. La vettura doveva essere affidabile ed economica nei consumi, una decisione presa all'indomani della crisi petrolifera generata dalla questione di Suez. Issigonis, nativo di Smirne e solamente diplomato in ingegneria navale, era tuttavia dotato di un estro particolare che aveva dimostrato già nell'immediato dopoguerra. Dopo tre anni di lavoro incessante e migliaia di schizzi realizzati persino sui tovaglioli degli alberghi e dei ristoranti, Issigonis presentò un progetto destinato a segnare una tappa fondamentale nella storia mondiale dell'automobile. Le soluzioni studiate erano all'avanguardia per i tempi: il motore (cosa non scontata per l'epoca) era anteriore e soprattutto montato trasversalmente. La posizione del motore 4 cilindri da 848 cc. permetteva di ridurre lo spazio occupato dal motore e di accorciare il cofano anteriore, mentre la trazione anteriore eliminava il tunnel centrale della trasmissione. Il design della nuova utilitaria BMC poteva così dedicare ben l'80% dei volumi all'alloggiamento di 4 passeggeri in soli 3,05 metri di lunghezza. La stabilità di marcia e la perfetta tenuta di strada erano garantite dal bassissimo baricentro che faceva assomigliare la piccola inglese ad un go-kart, anticipando fin dalla sua presentazione il futuro sportivo. L'economicità della produzione era garantita da altre soluzioni particolari come la carrozzeria con le giunture a vista (che caratterizzavano la prima serie con la linea di giunzione tra cofano e abitacolo) e le porte anch'esse incernierate all'esterno. Il bagagliaio era piccolo, ma anche in questo caso Issigonis trovò la quadra incernierando lo sportello in basso, soluzione che permetteva di caricare più di quanto consentito mantenendo semiaperto il bagagliaio. La potenza del propulsore era in linea con le utilitarie europee dell'epoca: 34 cavalli per una velocità massima di 120 Km/h. I vertici di BMC, dopo aver testato la Mini, ne rimasero entusiasti e ordinarono l'immediato inizio della produzione negli stabilimenti Austin di Longbridge (Birmingham) e la successiva commercializzazione come Morris Mini Minor e Austin Seven, che differivano per pochissimi dettagli. Il successo della Mini fu clamoroso (tanto che nel 1965 le vendite già superarono il milione di esemplari). L'eccezionale stabilità di marcia della piccola inglese colpì uno dei più importanti preparatori britannici, l'ex pilota di Formula 1 John Cooper, che iniziò a studiare una versione elaborata della Mini sin dagli esordi con il motore inizialmente potenziato a 55 cv per 130 Km/h di velocità massima. La Mini Cooper sarà commercializzata a partire dal 1961 con motorizzazioni sempre più performanti (fino a 70 cv e 160 Km/h di velocità massima). Appena un anno dopo il lancio della Mini 850, la BMC decise di ampliarne la gamma affiancando al modello d'esordio una versione familiare (la Mini Minor Traveller), una giardinetta col passo allungato porte a battente posteriori e profili in legno. La stessa base fu utilizzata per una versione commerciale furgonata e per una oggi rarissima versione pick-up. La famiglia delle Mini si allargò ai marchi di fascia alta del gruppo BMC (oggi scomparsi) con la realizzazione di una versione a tre volumi della piccola inglese con le tipiche code a pinna e inserti di lusso (legno e radica): erano la Riley Elf e la Wolseley Hornet, distinte dalle Mini anche per il frontale classico dotato di griglia verticale simile a quello delle blasonate britanniche come Bentley e Jaguar. Il 1964 vide importanti novità in termini di soluzioni tecnologiche nel mondo Mini: nasceva una versione dotata di cambio automatico a 4 rapporti (Mini "Matic") mentre le nuove versioni furono dotate di innovative sospensioni adattive Hydrolastic, che funzionavano in coppia tramite il principio dei vasi comunicanti. A seconda delle sollecitazioni del terreno il liquido contenuto nelle sfere veniva trasferito da una sospensione all'altra tramite un tubo, garantendo così un assetto ottimale del piano vettura in ogni condizione del fondo stradale. Nello stesso 1964, fu introdotta una versione completamente ricarrozzata in stile "spiaggina", la Mini Moke. Questa versione completamente scoperta e dotata di un semplice telone in caso di pioggia, ebbe particolare successo sul mercato americano e australiano. Rimarrà in listino fino al 1993. Nel 1967 fu la volta dei nuovi propulsori da 998 cc (38cv), mentre nel 1969 nacque la Clubman (sia berlina che station wagon) con il frontale completamente ridisegnato. Il fascino "british" della Mini conquistò, alla metà degli anni '60, tutta l'Europa. L'Italia non fu esente dall'appeal "snob" della microvettura simbolo della Swinging London, ma la crescente domanda fu inizialmente ostacolata dai pesanti dazi italiani sulle vetture estere. Per aggirare il problema la BMC decise di iniziare la produzione delle Mini presso gli stabilimenti Innocenti di Lambrate (Milano), che già costruivano su licenza alcuni modelli della casa britannica. La Mini italiana era sostanzialmente uguale a quella inglese, differendo unicamente per gli allestimenti più lussuosi. Il prezzo era sensibilmente inferiore alla Mini importata e passava dal milione alle 860 mila lire per la 850 base la momento dell'immissione sul mercato nel novembre del 1965. L'anno seguente dagli stabilimenti Innocenti uscirà anche la versione italiana della Cooper equipaggiata con un propulsore da 998cc e 56 Cv, portato poi a 1.300 cc. negli anni seguenti. Il grande successo commerciale della Mini nella seconda metà degli anni '60 fu accompagnato da entusiasmanti successi nel mondo delle competizioni (in particolare nei rally) per la piccola inglese. Dai primi passi mossi dal preparatore John Cooper ai trionfi nei Rally di Monte Carlo passarono solamente 3 anni. La Mini, già di per sè dotata di un'eccellente tenuta di strada, una volta preparata per le competizioni diventava un'avversaria temibilissima. Guidata da campioni come I finlandesi Timo Maakinen, Rauno Aaltonen e dal britannico Paddy Hopkirk le Cooper inanellarono vittorie su vittorie (tra cui un primo, secondo e terzo posto al Rally di Monte Carlo 1965) fino al 1971. Un certo Niki Lauda iniziò la carriera nelle corse proprio al volante di una Mini Cooper S nella primavera del 1968. La produzione della Mini attraversò tutti gli anni '70 con la gamma sostanzialmente immutata, mentre l'industria automobilistica globale subiva le gravi conseguenze della crisi petrolifera del 1973 e della lunga recessione che flagellò quel decennio. La BMC, azienda a larga partecipazione statale, fu pesantemente colpita dalla crisi e subì un sostanziale riassetto con la creazione voluta dal Governo britannico del gruppo British Leyland. Nel 1976 la partecipazione nella Innocenti fu ceduta al gruppo DeTomaso, che cessò la produzione della Mini classica, mantenendo il nome sulla nuova city car disegnata da Nuccio Bertone, la Mini 90. Nel decennio successivo la British Leyland affiancò alla Mini classica la nuova minivettura Metro, senza tuttavia decretare la fine dell'icona nata nel 1959 che sopravvisse con una serie di edizioni limitate (British Open, Mini Flame Red e altre) e continuò oltre la cessione da parte di British Leyland del marchio Rover alla giapponese Honda. Nel 1994 Rover sarà acquistata da BMW ed aggiornata nei motori e negli allestimenti. L'ultima Mini classica uscì dagli stabilimenti nel 2000: dall'esordio del 1959 alla soglia del nuovo millennio erano state prodotte più di 5 milioni e 300 mila Mini. Il mito Mini sarà eclissato per un anno soltanto. BMW, proprietaria del marchio, la farà rivivere già dal 2001 grazie ad un progetto completamente nuovo ma totalmente evocativo del mito nato nel 1959. Dopo la presentazione di un primo prototipo nel 1997 a Francoforte, il team di progettisti della casa bavarese capeggiati prima da Frank Stephenson e quindi da Gert Volker Hildebrandcreavano la Mini del nuovo millennio, una reinterpretazione perfetta della Mini classica sia per gli aspetti di abitabilità in soli 3,63 metriche nel design di esterni ed interni (con il mantenimento della strumentazione a palpebra centrale),non dimenticando l'assetto da piccola sportiva. Commercializzata nel 2001 nei modelli diesel benzina e Cooper, la Mini progettata da BMW viene presentata dal 2007 anche in versione station wagon (Clubman) evoluta in due serie intervallate da un restyling nel 2004-2005. L'ultima generazione, di dimensioni più generose rispetto alle serie precedenti, è in commercio dall'inizio del 2014. Oltre alla due volumi (3 e 5 porte) la Mini è offerta nelle versioni crossover (Countryman) anche a 4 ruote motrici, station wagon (Clubman) e la sportivissima John Cooper Works. L'ultima nata è la versione full-electric, disponibile dal 2019 con un brillantissimo propulsore da 184 Cv e fino a 270 Km di autonomia.

·         La Autobianchi A112 ha compiuto 50 anni.

La Autobianchi A112 ha compiuto 50 anni: la storia e le foto. Edoardo Frittoli il 24 ottobre 2019 su Panorama. La Autobianchi A112 nacque come sfida in casa Fiat (di cui l'azienda di Desio era sussidiaria) nel settore delle utilitarie. In particolare modo in quello delle piccole vetture di fascia intermedia, dove la Mini (prodotta su licenza dalla Innocenti per eludere i pesanti dazi sulle auto estere) stava ottenendo un ottimo successo di vendite. Per poter competere con la piccola inglese, era necessario abbandonare alcune idee tradizionali e sperimentare. Per questo motivo e come altre volte precedenti si scelse Autobianchi (un consorzio Fiat-Pirelli-Bianchi) per fare da apripista. Già nel caso della Primula (1964) e della sua erede, la berlina A111, la casa brianzola aveva rotto il tabù sulla trazione anteriore, che si trascinava al Lingotto dal lontano 1932 quando un prototipo con questo tipo di trazione fu protagonista di un incidente che coinvolse il Senatore Giovanni Agnelli. Nello stesso 1969 la Fiat aveva lanciato la prima berlina media a trazione anteriore, la "128". L'accoppiata motore trasversale e trazione sulle ruote anteriori rese concreta l'idea dell'anti-Mini italiana, per la possibilità offerta da questo tipo di disposizione degli organi meccanici di poter sfruttare al meglio gli spazi a disposizione di passeggeri e bagaglio. Il progetto della nuova utilitaria fu affidato all'ingegner Dante Giacosa, decano del design della casa torinese e padre dei grandi successi Fiat del dopoguerra (600,500,1100, 124 e molte altre) che ebbe il compito di "disturbare" il successo della Mini Innocenti, dimenticando per sempre l'impostazione tutto dietro della "850", ormai obsolescente nel mercato che si apriva agli anni '70. Proprio dalla Fiat "850 Sport" verrà derivato il propulsore della piccola Autobianchi. Maggiorato a 903 cc., segnerà l'esordio di uno dei motori di maggior successo della storia della casa torinese e della futura best-seller, la "127". Accanto alle innovazioni meccaniche, fu adottata anche una soluzione che cominciava ad affacciarsi in quegli anni sul mercato, il portellone posteriore, che la Mini progettata dal geniale Alec Issigonis non aveva invece previsto. Le dimensioni della piccola di Desio erano molto contenute: era larga 1,48 metri e lunga appena 3,23 ma aveva spazio da regalare, grazie all'altezza generosa del padiglione e al ridotto ingombro del motore montato trasversalmente. La linea era pulita, con i proiettori circolari a cui si contrapponevano i sobri gruppi ottici posteriori quadrati inseriti nella "coda sfuggente" che caratterizzava il design della A112. La strumentazione era di tipo sportivo con due elementi circolari raccolti in un gruppo ovale, mentre il volante era a due razze forate e corona in finto legno. Gli interni erano curati e prevedevano i sedili anteriori completamente reclinabili così come la panca posteriore che, una volta abbattuta, raddoppiava la capienza del piccolo portabagagli. Innovativo era anche l'impianto frenante, a dischi anteriori dotati di doppio circuito con un correttore di frenata sensibile all'assetto e al carico delle ruote. Queste ultime erano di piccolo diametro ma maggiori rispetto a quelle della concorrente Mini (13 pollici contro i 10 della piccola inglese) proprio per permettere l'adozione di dischi maggiorati che garantivano l'arresto in minore spazio. Il ruggente 4 cilindri trasversale con il cambio in blocco della prima A112 era in grado di erogare 44 Cv, permettendo alla leggerissima utilitaria (appena 640 kg. di peso) di superare abbondantemente i 135 Km/h dichiarati dalla casa. Anche l'aspetto della sicurezza non era stato trascurato da Giacosa e i suoi uomini: la carrozzeria era a struttura differenziata, molte erano le imbottiture interne e il piantone dello sterzo era diviso in tre tronconi collassabili in caso di urto. Le ampie superfici vetrate garantivano infine un'ottima visibilità in ogni direzione. Anticipata dalla stampa nazionale alla fine del settembre 1969, la Autobianchi A112 sarà la più attesa al Salone dell'Automobile di Torino alla fine del mese successivo. Le porte della kermesse internazionale si aprirono il 28 ottobre in uno dei tanti giorni di tensione che caratterizzarono l'"autunno caldo" di quell'anno, con le quattro sigle dei metalmeccanici che contestarono l'apertura dei cancelli assieme agli studenti. Quell'anno fu difficile anche per il gruppo del Lingotto, ancora al centro delle polemiche per la recente acquisizione della Lancia che sarebbe avvenuta grazie ad un generoso intervento dello Stato in copertura al grave disavanzo della casa di Chivasso durante l'ultima gestione Pesenti, il quale abbandonò dopo il tentativo di scalata ostile da parte di Michele Sindona. Sulla piccola "grintosa" di Desio si concentrò l'attenzione della Fiat nei lunghi mesi dei conflitti di fabbrica e l'apprezzamento di pubblico e stampa non tardò ad arrivare. La macchinetta dalle linee eleganti e "snob" piaceva molto anche al pubblico femminile poiché era chic, pratica ed economica allo stesso tempo. Quello maschile invece ne apprezzava l'impostazione sportiva e le prestazioni brillanti, una caratteristica ancora poco diffusa sulle utilitarie della fine degli anni '60. La "reginetta" del salone 1969 aveva anche un prezzo appetibile: 880mila lire per l'unica versione allora disponibile, praticamente pari alla Mini Minor Innocenti. Si collocava così perfettamente nella fascia di mercato delle famiglie della crescente middle class in cerca di una seconda auto o di una vettura per i figli. In vendita appena dopo la fine del salone di Torino, la A112 vedrà l'allargamento della gamma alla fine del 1971 con due nuove versioni. La prima fu la A112 "E" (dove "E" sta per elegante). Meccanicamente identica alla versione base, si distingueva da questa per la verniciatura bicolore (tetto-carrozzeria), i cerchi sportivi, terminale di scarico cromato, profilature in acciaio e luce di retromarcia. All'interno gli allestimenti "lusso" prevedevano pavimento in moquette, volante sportivo con corona in similpelle, pianale copribagagliaio asportabile e portaoggetti sul tunnel. Il tutto ad un prezzo di 60mila lire superiore alla versione base. Il secondo modello presentato nel 1971 lascerà il segno nella storia della casa di Desio. Come era accaduto qualche anno prima nel caso della Mini preparate da John Cooper, sulla A112 mise le mani lo "scorpione" di Carlo Abarth (ormai nell'orbita Fiat), che nel 1970 elaborò un prototipo da 107 Cv in grado di spingere l'utilitaria oltre i 180 km/h. I vertici dell'azienda torinese videro nella gloriosa firma una ghiotta occasione per disturbare il successo della Innocenti Mini Cooper 1300 Mk3, sogno di tanti giovani dei primi anni '70. Si scelse dunque di non limitare l'elaborazione della A112 per pochi piloti privati, ma di realizzarne una versione di serie aggressiva e performante. Al Salone di Torino dell'ottobre 1971 fu esposta la A112 Abarth, nella caratteristica livrea bicolore rosso con cofani in nero opaco. Il motore era stato depotenziato rispetto ai primi prototipi ed erogava ora 58 Cv (14 in più della base) in virtù della cilindrata aumentata a 982 cc. La velocità massima superava i 150 km/h, raggiungibili in sicurezza grazie all'adozione di servofreno e dischi maggiorati. L'interno era dotato di sedili avvolgenti con poggiatesta e volante a tre razze forate rivestito in pelle. La strumentazione era tipicamente "rally", con contagiri di serie oltre a voltmetro e manometri di acqua e olio. Il terminale di scarico, doppio, era naturalmente firmato dallo scorpione, così come la griglia "Autobianchi Abarth" che integrava le trombe bitonali. Il prezzo al pubblico fu fissato a 1.325.000 lire. La versione Abarth fu un grande successo e rimase nella gamma della A112 fino al 1985 con la settima e ultima serie. Il primo restyling della piccola di Desio fu nel 1973 e riguardò principalmente i gruppi ottici posteriori con luce di retromarcia integrata, profili laterali e paraurti rinforzati in materiale plastico, oltre a un nuovo disegno della griglia anteriore. Nel 1975, anche per gli effetti della crisi petrolifera, la gamma della A112 fu rinnovata nel segno del risparmio. Il motore 903 cc. fu depotenziato a 42 Cv, scelta che permise un taglio del 10% circa dei consumi. Furono eliminati gli inserti cromati. Il cruscotto era più povero, con un elemento circolare unico al centro e senza contagiri. La versione Abarth andò invece in controtendenza: fu presentata con un motore 1.050cc. da ben 70 Cv per 160 Km/h di velocità e andò ad affiancarsi nel listino a quella da 58 Cv. La terza serie fu presentata due anni dopo, nel novembre 1977. Cambiavano il disegno del frontale con indicatori di direzione trapezoidali, nuova mascherina e paracolpi in plastica. Nuovi anche i gruppi ottici posteriori che richiamavano anch'essi un trapezio, di dimensioni molto maggiori rispetto a quelli delle serie precedenti.  Il padiglione fu rialzato di 2 cm. per migliorare l'abitabilità e il motore vide un incremento di potenza e cilindrata (965 cc. per 48 Cv e 140 Km/h). La quinta serie dell'utilitaria (presentata nel 1979) sarà caratterizzata dall'utilizzo sempre più largo dei materiali plastici, compresi i gruppi ottici posteriori rettangolari inclusi in una cornice di plastica nera. La novità fu l'introduzione nella gamma di due nuove versioni: la "Junior", destinata ai più giovani e dotata di tettuccio apribile in tela e "vecchio" motore 903 cc. La seconda, la "Elite",  fu per la prima volta dotata di cambio a 5 marce e di sedile posteriore abbattibile e sdoppiato. La A112 sarà proposta in 4 allestimenti quasi fino alla fine della produzione, e verrà venduta nel Nord Europa con il marchio Lancia. L'ultima serie, detta "unificata", fu messa in commercio nel 1985 quando già era stata lanciata la sua degna erede, ultimo successo Fiat con il marchio Autobianchi: la Y10. La A112 è stata prodotta in circa 1.300.000 esemplari dal 1969 al 1985. Sulla base della A112 furono realizzati alcuni prototipi nei primi anni '70. I principali furono la Runabout di Bertone, una "barchetta" con motore centrale e telaio della A112, caratterizzata dalla linea a cuneo e da una vistosa bussola al centro della plancia in stile nautico. Fu presentata contemporaneamente all'utilitaria di Desio durante il salone di Torino del 1969. Si ricordano anche due coupé realizzate su base A112: la prima fu progettata  dalla Otas (Officina Trasformazioni Auto Sportive) fondata nel 1969 a Torino e battezzata "KL". La seconda fu opera di una carrozziere che realizzò diverse speciali su base Fiat, la Rayton Fissore. Nel 1979 realizzò su base A112 con propulsore 1.050 cc. la sportiva "Gold Shadow", che ricordava molto le linee della coeva Porsche 928.

·         Ei fu la brutta Duna.

Giordano Tedoldi per Libero Quotidiano il 29 novembre 2019. Erano i favolosi anni Ottanta, che qualche povero di spirito ancora si ostina a criticare, mentre fu un decennio bellissimo, ricco, anche se un po' immorale, ma sempre meglio del clima da seminario di oggi. Allora vigeva, in ogni campo, la cura per il bello. Gli anni ruggenti della moda, del look, dello stile. Ma ogni tanto, è vero, qualcosa andava storto. Per esempio la Fiat Duna. Chi ha vissuto in quegli anni, non potrà averla dimenticata. Non era una macchina vera e propria, era la realizzazione di una macchina disegnata su un foglio da un bambino di quattro anni. Era l'idea platonica del "catorcio". Perfino il progettista, Giorgetto Giugiaro, disse «me l' hanno imposta». Eppure, poiché erano gli anni Ottanta, nessuno si oppose a quel grigiore e squallore a quattro ruote, a quella perfetta incarnazione della mediocrità automobilistica, perché in quegli anni si osava e, in un certo modo, si vedeva oltre. Si vedeva fino a oggi, quando all' edizione 2019 di Milano Auto Classica, la Fiat Duna, incredibilmente, ha conquistato un premio dalla prestigiosa rivista "Ruote classiche". Un premio certamente minore e strampalato come la stessa berlina: si tratta infatti del riconoscimento per «l'auto che viene più da lontano». Eppure, a denti stretti, il direttore della rivista, David Giudici, ha ammesso che «la Duna Diesel ormai è una vera rarità... Il premio è stato consegnato come auto che veniva da più lontano, ma abbiamo premiato anche il coraggio e l' ostinazione nel conservare una delle più discusse berline italiane. Una vettura che non avrà mai un valore economico di rilievo, ma che resta testimone di un periodo effervescente per il marchio torinese». Il coraggio e l' ostinazione sono quelli dello spezzino Mauro Minetti, il quale non solo ha avuto l'ardire di comprarsi una Duna (addirittura diesel), ma da quel giorno infausto la mantiene in perfette condizioni come fosse una Bugatti. Inoltre va sottolineato che il suo esemplare è autografato all'interno del bagagliaio da Giorgetto Giugiaro, il padre, suo malgrado, dell'automobile. Insomma, certamente un pezzo importante della storia dell' automobilismo italiano, nonché dell' orrido, che meritava di certo un premio, trentadue anni dopo il suo sbarco da oltreoceano sul mercato italiano (le Duna venivano fabbricate in Brasile, e poi, lievemente adattate, importate in Europa). E ci viene di pensare che se la Fiat Duna, cioè una macchina che era diventata uno zimbello, citata come tale persino da comici televisivi dell' epoca, ha avuto il giorno del suo (parziale) riscatto, allora c' è davvero speranza per ogni cosa brutta. È proprio vero che, col tempo, si rivaluta tutto, specialmente oggi che abbiamo completamente perso il senso del bello e del brutto, e li abbiamo sostituiti con ciò che riempie la pancia della massa digitalizzata. Oggi, del resto, possedere un' automobile, e usarla, è già una colpa, come si potrebbe anche solo discutere se sia bella o brutta? Naturalmente nessuna variazione nel gusto potrà mai riscattare la Duna dal suo essere quel che è: una schifezza. Però, ecco, la sua forza, come in tante cose brutte, sta nel fare pena (o perlomeno tenerezza), nell'essere stata passiva vittima degli sberleffi e degli attacchi e, nonostante tutto questo, aver tenuto il campo, essendo stata prodotta dal 1985 al 2000. Tramontata ormai la grande stagione espansiva dell'industria automobilistica, che sta cercando di affrontare le nuove sfide ambientali e energetiche con progetti quasi fantascientifici (come la macchina elettrica che si guida completamente da sola) ecco che la Duna ci arriva come un relitto perfettamente rappresentativo di un' epoca in cui l'automobile era non una pazzia futuristica ma una cosa normale, media, come normale e media era la famiglia cui si rivolgeva. Quindi consoliamoci per quel tanto di brutto che ognuno di noi ha: qualsiasi cosa brutta, potrà domani essere guardata con altri occhi, occhi nostalgici. Ma a un patto: che sia un brutto schietto, sincero. Come la Duna diesel.

·         110 anni di moto Gilera.

L'eccellenza in moto è tricolore. Aprilia, Ducati, Moto Guzzi e MV Agusta: sono le eccellenze italiane delle due ruote. E sono un vanto per il Made in Italy, in tutto il mondo. Fabio Franchini, Giovedì 31/10/2019, su Il Giornale. Aprilia, Ducati, Moto Guzzi e MV Agusta. Ma anche Garelli, Gilera e Mondial. Sono le eccellenze italiane delle due ruote e sono un vanto per il Made in Italy, nonché must del mercato internazionale della moto. Case motociclistiche prestigiose che hanno fatto anche la storia del Motomondiale. Ecco, a tal proposito, due nomi su tutti, quelli di Giacomo Agostini e Valentino Rossi. Ventiquattro titoli iridati in due, quindici dei quali vinti in sella a una moto italiana: la MV Agusta per Agostini e l'Aprilia per Rossi. Insomma, il Made in Italy delle due ruote corre e corre veloce. Da sempre. Perché il dinamismo e l'efficienza dell'industria e della filiera tricolore sono famosi, in tutto il mondo, per innovazione, qualità e, ovviamente, stile.

GILERA. Gilera, fondata nel 1909 a Milano, è la più antica casa di costruzione italiana di motociclette. Dal 1969 è passata sotto la gestione di Piaggio e in questi cinquant'anni non ha mai cessato di sfornare gioiellini. Un esempio? La fuoristrada 125 Bicilindrica Cross e la moto da strada, 125 e 150 di cilindrata 5V Arcore (in onore della storica fabbrica). Furono due moto da cross Gilera (50 Trial) a rendere possibile, nel 1971, la prima storia motoscalata del Kilimangiaro. Dunque, ecco gli anni Ottanta e la nuova serie di motori a 4 tempi e, soprattutto, con gli anni Novanta, la rivisitazione delle motociclette da strada, con la produzione e commercializzazione della SP02 e della CX125, quest’ultima con forcella anteriore mono-braccio e design audace.

MOTO GUZZI. Quello di Mandello del Lario (Como) è marchio di assoluto prestigio, capace di conquistarsi una bella fetta di mercato anche oltre Oceano, negli Stati Uniti d’America. Guzzi nasce nel primo dopoguerra, nel 1921, e almeno nei primi decenni di vita la sua produzione è quasi interamente dedicata al mercato militare; l’azienda, infatti, fornisce all’Esercito Italiano diversi modelli come l’Alce e il Trialce, che dal 1938 al 1948 domineranno la scena, prima di lasciare spazio all’Airone Militare, anche per uso stradale. Storico il modello Guzzi-Falcone (1950-67), l’ultima modo della casa costruita con il monocilindrico orizzontale quattro tempi di 500 di cilindrata. Una svolta decisiva all’inizio degli anni Settanta: nel 1971 arriva la V7 Sport e sbanca il mercato grazie a un motore prestazionale da oltre 200 chilometri orari, uniti a un’eccellente tenuta di strada. Dunque, dalla 24 ore di LeMans, nel 1976 nasce la "café racer" Moto Guzzi Le Mans, che solo nel 1994 verrà sostituita dalla V1100 Sport. L’ultima arrivata, datata 2018, è la V85 TT, una crossover, che insieme alle gamme custom, naked, enduro e touring (tutte con motore bililindrico a "V") rappresentando la gamma Guzzi.

DUCATI. La Ducati, si può dirlo senza correre il rischio di sbagliarsi, è la regina delle moto, oltre che marchio del Made in Italy più conosciuto – e apprezzato al mondo, specialmente negli States e in Giappone (nonostante Honda, Yamaha, Kawasaki e Suzuki). La Ducati ha fatto la storia del motociclismo e nel 2007, grazie al “manico” di Casey Stoner, la casa di Borgo Panigale si è portata a casa il titolo mondiale. Attualmente, Ducati mette a disposizione una trentina di modelli a due ruote: oltre alle gamme Diavel, Monster e Panigal, anche Hypermotard, Supersport, Multistrada e Scambler. Un modello che ha fatto la storia è, senza dubbio, la 750 SS, simbolo della sapienza e dell’eccellenza della casa bolognese. Impossibile, però, anche non ricordare l’iconica Paso (1986), prima due ruote da strada completamente carenata e, dal 1993, la naked Ducati Monster. Con il nuovo Millennio arriva la Ducati 749, 996 e 999; mentre in anni più recenti, ad Eicma 2011, c’è la presentazione della sportiva-stradale 1199 Panigale, sostituita nel 2014 dalla 1299, per la gioia di tutti i ducatisti.

APRILIA. Valentino Rossi ci ha vinto due titoli, Max Biaggi tre. Aprilia, per gli appassionati, fa rima con "Motomondiale ed eccellenza. Fondata a Noale nel ’45, la casa svolta negli anni Ottanta, sfornando la moto da deserto “Tuareg”, simbolo (anche cromatico) di quel decennio. Dunque, la produzione si allarga alle moto da strada, il cui modello Rs sarà un vero e proprio successo: l’Aprilia RS 125 nasce nel ’92 e rimarrà sulla cresta dell’onda fino al 2013, nelle tre versioni custom-enduro-stradale. Ma Aprilia, per chi non lo sapesse, è anche la “mamma” dello Scarabeo, che dal 1993 non conosce crisi e rappresenta uno degli scooter più amati e venduti.

MV AGUSTA. Last but not least, Meccanica Verghera Agusta, ancora oggi la casa europea più vincente di ogni epoca, grazie a 75 titoli iridati. La sua storia è legata a doppio filo al talento di quel fenomeno di Giacomo Agostini. Nel 1945, la casa varesotta dà alla luce la sua prima MV Agusta, la 98 in versione “Turismo”. Nel’47, al Salone di Milano, l’Agusta presenta le novità con cilindrata 125 e motore bicilindrico, ma anche un monocilindrico a 4 tempi e cilindrata 250. Nel 1954 arriva la “Squalo” 175 CSS/5V, mentre gli negli anni sessanta è l’ora della 600 quattro cilindri MV Agusta 600 Turismo; 4 cilindri, che fecero le gioie di Agostini e di tutti gli appassionati fino al 1976. Nel ’77, infatti, lo stand MV previsto ad Eicma rimase vuoto, scrivendo di fatto la parola fine alla gloriosa storia della casa di Varese, poi rilevata – fino ai giorni nostri – da plurime proprietà, che si sono trovate a gestire una delicatissima eredità.

110 anni di moto Gilera: la storia e le foto. Nato nel 1909, il marchio di Arcore ha segnato la storia del motociclismo mondiale. Dai record anni '30 al gruppo Piaggio ai trionfi del terzo millennio. Edoardo Frittoli il 9 settembre 2019 su Panorama. La storia della Gilera ebbe inizio in uno dei radiosi anni della belle époque. Era il 1909 ed il progresso tecnico sembrava non fermarsi più:da pochi giorni l'aviatore francese Louis Blériot aveva trasvolato la Manica, mentre Robert Peary conquistava quell'anno il Polo Nord. Il motore a scoppio aveva trovato applicazioni molteplici mandando definitivamente in pensione la trazione animale e surclassando quella a vapore.

Il giovane Giuseppe Gellera (come fu registrato all'anagrafe) fu testimone del progresso e delle meraviglie della tecnica al tramonto del XIX secolo. Di famiglia umile, era nato alle porte di Milano nel borgo agricolo di Zelo Buon Persico il 21 dicembre 1887. Affascinato sin da giovanissimo dalla meccanica e dai motori, riuscì con molti sacrifici a frequentare le scuole serali per diventare perito meccanico. Gellera si fece le ossa come apprendista presso le officine dei marchi allora più affermati nel mondo delle due ruote d'inizio secolo: Bianchi, Moto Rève, Bucher. La prima Gilera uscì da una piccola officina aperta da Giuseppe Gellera a Milano, al numero 42 di corso XXII marzo. Si trattava di una bicicletta con un motore monocilindrico di 317 cc. senza il cambio. La prima creatura del "Pepìn" Gilera era per l'epoca velocissima, sfiorando con le sottili gomme i 104 Km/h. Quanto bastava per renderla competitiva all'alba delle prime gare motociclistiche. Gellera (che non amava il proprio cognome e si faceva già chiamare Gilera) non perse tempo e si presentò tra i concorrenti della corsa Como-Brunate, vincendo largamente la "Medaglia d'Oro Grande" con il tempo record di 9'49''. Un mito delle due ruote era nato e già consacrato, con oltre un decennio di anticipo sulle future concorrenti Guzzi e Benelli. Con la 317 Gilera replicò il trionfo il 7 luglio 1912 nel circuito di Cremona, un tracciato impegnativo che prevedeva tre volte l'anello tra il capoluogo, San Giovanni in Croce, Piadena e ritorno. La 317 di Gilera chiude i ben 180 chilometri di percorso in sole 2h,52'e10'' alla "fantasmagorica" media di 60 chilometri all'ora. Le blasonate NSU, Frera, SIAMT, Bucher hanno mangiato la polvere del perito di Zelo Buon Persico, che da allora (assieme al fratello Luigi suo socio in officina) collezionerà record su record. Allo scoppio della Grande Guerra la produzione civile di Gilera, ancora in una fase artigianale, si arresta per fare spazio alle forniture militari. Ma il fondatore pensa già ad un futuro di espansione e nel 1915 si sposta dalla vecchia officina milanese alla moderna fabbrica brianzola di Arcore (oggi Monza Brianza), che sarà la sede definitiva e fisserà un binomio indissolubile tra marchio e territorio. La produzione in serie, iniziata negli anni '20, seguirà l'idea guida del fondatore Giuseppe: moto semplici affidabili e alla portata di molti, con un approccio all'innovazione tecnica graduale ma costante. Alla fine del decennio lo stabilimento di Arcore si era notevolmente ingrandito e strutturato con moderni macchinari e personale altamente qualificato. I modelli usciti dalla fabbrica brianzola sono ancora con telai di impostazione ciclistica ma spinti da un monocilindrico di 500 cc. robusto e all'epoca performante. La Turismo 3 e 1/2 fu il modello di punta e la base per i successivi sviluppi dei modelli spinti dal monocilindrico da mezzo litro a valvole laterali. Il successo commerciale tra le due guerre fu alimentato dalle molte vittorie sportive del marchio di Arcore, guadagnati dai campioni che affiancarono Luigi Gilera come Rosolino Grana, Nino Bianchi, Ferdinando Martinengo. Il decennio si concluderà con il trionfo Gilera in campo internazionale con la vittoria nella "Sei Giorni" arrivata nel 1930 e 1931.

Gli anni '30 si aprono con nuovi modelli e nuovi motori, evoluzione del monocilindrico originario e con valvole in testa e non più laterali. Sono le 500cc. della serie VT, protagoniste delle strade e delle competizioni del decennio. Alla metà degli anni '30 Gilera presenterà al pubblico la Rondine, una mezzo litro che per prima in assoluto presentava un propulsore a 4 cilindri in linea, soluzione copiata decenni più tardi dalle case giapponesi. Il progetto originario fu acquisito dalla casa di Arcore dalla CNA, una piccola azienda di motori per aerei di proprietà del conte Bonmartini, rivale politico di Italo Balbo durante l'affermazione del regime. La motocicletta sperimentale si era rivelata da subito velocissima, avendo superato nel circuito di Tripoli i 240 Km/h di punta. Dopo il declino della piccola società,la licenza passò temporaneamente alla Caproni, che la cedette a Gilera per un prezzo irrisorio. Ad Arcore arrivò anche il giovane ingegnere che l'aveva fatta nascere, Piero Remor. Dotata di compressore volumetrico, la Rondine arrivò alla straordinaria potenza di 87 Cv, che spinsero il pilota della casa Piero Taruffi a stabilire un nuovo record mondiale a lungo imbattuto: il 21 ottobre 1937, lungo il tratto autostradale Bergamo-Brescia, la Rondine dotata di carenatura aerodinamica guidata ancora da Taruffi raggiungeva la velocità di 274,181 Km/h. Meno di tre anni dopo, ancora la guerra costringeva Gilera ad interrompere la serie dei trionfi sportivi ed il successo commerciale delle sue motociclette. La produzione si concentrò unicamente sulle esigenze militari. Assieme a Guzzi e Benelli la casa di Arcore fornì i reparti del Regio Esercito con motociclette come la 500 LTE  e motocarrozzette come il Marte, un sidecar dotato di differenziale alla ruota del carrozzino per una trazione 3x2.

Dopo l'armistizio, i Tedeschi occuparono immediatamente gli stabilimenti Gilera, mentre il fondatore e la famiglia (la moglie ed i figli Gigliola Ferruccio e Ida erano sfollati ad Esino Lario, dove la famiglia aveva da tempo la propria residenza estiva. La ricostruzione postbellica vedrà Gilera in prima linea nella corsa alla nuova motorizzazione italiana, cominciata proprio dalle due ruote. Specializzata in grosse cilindrate, la casa di Arcore continuerà la produzione con l'evoluzione del monocilindrico 500 montato sulla neonata Saturno, progettata prima della guerra ma presentata soltanto nel 1946. Diverse le versioni disponibili, in allestimento "sport" e "turismo" distinte dalla testata in alluminio sulla prima e in ghisa sulla seconda. Ottime le prestazioni (135 Km/h) e la robustezza costruttiva, tali che furono realizzate versioni da regolarità e cross a partire dal 1951. A livello di vendite di massa, gli anni del dopoguerra lasciarono largo spazio al segmento delle motoleggere (da 49 a 250cc) al quale si affacciavano nuove realtà provenienti dalle macerie dell'industria prebellica come Piaggio, Aermacchi, Innocenti e Caproni. Gilera non perse la corsa anche in questa grande opportunità offerta dalla rinascita dell'industria nazionale. I modelli degli anni '50, le 125 e 150 Turismo, Rossa e Sport affiancate dalla sorella maggiore Nettuno 250, popolavano le strade italiane del primo boom economico. Tra i modelli più apprezzati il piccolo Giubileo, una motoleggera da 98cc poi disponibile anche nella cilindrata di 175cc.

Gli anni '50 sono anche il periodo della ripresa delle grandi competizioni motociclistiche nelle quali Gilera tornava a vincere nelle diverse specialità. A partire dal 1950 Gilera vince sei titoli con le 500 quattro cilindri eredi della Rondine d'anteguerra. I piloti sono Umberto Masetti, Geoff Duke, Libero Liberati. Tre sono i titoli costruttori al Tourist Trophy, sette titoli italiani e la Milano-Taranto. Le rosse brianzole volano sulle pagine della carta stampata di tutto il mondo. L'azienda è in costante espansione e apre addirittura una filiale produttiva a Buenos Aires, affidata all'unico figlio maschio del commendator Gilera, Ferruccio. Proprio durante l'attività in Argentina, l'erede dell'impero di Arcore muore improvvisamente dopo aver contratto una grave malattia tropicale. L'unico erede al timone dell'impero di famiglia se ne andava a soli 26 anni, facendo perdere le speranze di continuità di quel capitalismo familiare che da sempre caratterizzava la figura di Giuseppe Gilera. Dal 1957, dopo aver vinto praticamente tutto, il marchio di Arcore lascia le competizioni concentrandosi sul mercato delle motoleggere che negli anni '60 proseguirà nonostante la congiuntura sfavorevole dovuta alla diffusione sempre più larga delle automobili. Tra gli anni 50 e 60 Gilera presentò anche una bicilindrica, una motocicletta con motore da 300cc. pensata per inserirsi tra le 500 Saturno e le motoleggere. La B300, pur avanzata all'epoca della sua concezione, si rivelò un fallimento a causa della scarsissima affidabilità che vide rientrare in fabbrica molti modelli gravemente difettosi. Tra i maggiori acquirenti della bicilindrica, le Polizie Municipali di tutto il Paese. Negli anni dello scooter, dominati da Vespa e Lambretta, anche Gilera tentò di conquistare una fetta di mercato presentando il G50, uno scooter dotato di un motore 4 tempi fortemente voluto dal fondatore apertamente contrario ai propulsori a 2 tempi. Pur armonioso nelle forme e di buona qualità costruttiva, il G50 (costruito anche in versione export e 80cc per il mercato estero) non fu apprezzato dalla clientela giovane, a causa della scarsa propensione dei 4 tempi alle elaborazioni possibili sui motori a miscela.

La crisi della fine degli anni '60 e l'acutizzarsi delle tensioni sociali e sindacali (preludio dell'autunno caldo del 1969) fecero maturare in Giuseppe Gilera la decisione di vendere l'azienda, anche per i pesanti aumenti di capitale versati impegnando direttamente il patrimonio familiare. Sarà il gruppo Piaggio a rilevare gli stabilimenti di Arcore, nei giorni più duri del conflitti di fabbrica. Il 26 novembre 1969 il passaggio ufficiale avvenuto dopo un breve periodo di amministrazione controllata. Il marchio di Pontedera rilevava un'azienda in forte dissesto finanziario, con esposizioni bancarie e verso l'erario per un passivo complessivo di 4 miliardi e 200 milioni di lire. Piaggio assorbirà tutti gli immobili e soprattutto tutti i 500 dipendenti Gilera, investendo contemporaneamente nell'acquisto di un nuovo terreno di 160mila mq. attiguo alla vecchia fabbrica. Due anni dopo la cessione, Giuseppe Gilera moriva improvvisamente nella sua casa di Arcore, affacciata sugli stabilimenti da lui fondati. Era il 20 novembre 1971.

Gli anni '70, difficili da un punto di vista commerciale, videro il nuovo proprietario della Gilera confermare le linee strategiche ed i modelli di successo della fine degli anni '60, rinnovando la gamma delle cilindrate superiori e puntando in particolar modo su quelle più piccole. Il successo arrivava con un "cinquantino" da fuoristrada, che riuscirà ad inserirsi nel mercato dominato da Fantic Motor e Aspes negli anni della "febbre del motocross". Si trattava del piccolo Gilera 50 Trial 5V ispirato ai modelli da regolarità nelle cui gare Gilera si stava distinguendo particolarmente grazie ai successi del modello da competizione 125 e 175 regolarità casa, evoluzione delle 124 degli anni '60. Visto il successo e la contemporanea uscita della rivale Moto Guzzi dal mercato dei ciclomotori (escluso un 50 cross di scarso successo) il modello da cross sarà rinnovato nel 1973 evolvendo nel 50 Enduro disponibile anche con il cambio a 6 velocità.

La vocazione fuoristradistica del marchio di Arcore sarà confermata ed ampliata negli anni '80 con l'introduzione dei monocilindrici 4 tempi da 350 e 500 cc. della serie di successo RC (la cui versione preparata sarà vincitrice nella Parigi-Dakar) e con una nuova gamma nel mercato emergente delle 125 stradali performanti, che andranno a sostituire le datatissime 125 e 150 Arcore. In primis sarà la RV 125 (disponibile anche con motore 200cc.) a far sognare i sedicenni, seguita dalle performanti carenate KK e KZ. La gamma ciclomotori è una diretta gemmazione dei modelli Piaggio (CBA e CB1) nella configurazione "tubone" tipica del periodo. Alla fine del decennio un piccolo scooter dal design innovativo anticiperà quella che dagli anni '90 rappresenterà la più ampia fascia di mercato: concepito dalla matita di Paolo Martin, il GSA 50 era caratterizzato dalla carrozzeria interamente in plastica e da linee futuristiche, purtroppo non comprese fino in fondo prima del successo globale degli scooter.

L'inizio degli anni '90, che vide il ritorno del marchio nel Motomondiale classe 250, corrispose alla fine dei gloriosi stabilimenti di Arcore, chiusi dopo il trasferimento dell'intera produzione presso la Piaggio di Pontedera e ceduti a terzi.

Il nuovo millennio confermerà l'impegno nel mondo degli scooter affiancando alla produzione Piaggio i modelli di impostazione più sportiva come il Runner e poi il Nexus da 500cc. Dagli anni '2000 Gilera rientra a pieno titolo nel Campionato del Mondo e, nella classe 125, sarà protagonista con il giovanissimo Manuel Poggiali che porterà Gilera alla vittoria del titolo. Nel 2006 il ritorno nella classe 250 con il campione romagnolo Marco Simoncelli, che nel 2008 tagliava vittorioso i traguardi del Mugello, di Barcellona, di Germania, del Giappone e dell'Australia aggiudicandosi il titolo mondiale alla vigilia dei 100 anni di storia Gilera. Una storia che continua, visto che il marchio di Arcore è l'unico nel settore motociclistico italiano a non aver mai interrotto la produzione dal giorno della sua fondazione a Milano, 110 anni fa.

·         La Vespa "50 Special" compie 50 anni.

La Vespa "50 Special" compie 50 anni. Evoluzione della prima Vespa 50cc del 1963 divenne negli anni '70 un icona dei più giovani. Fu prodotta in circa 700mila esemplari in tre serie dal 1969 al 1983. Edoardo Frittoli il 19 dicembre 2019 su Panorama. La Vespa 50 "Special" fu presentata alla fine del 1969 in occasione del Salone del Ciclo e Motociclo alla Fiera Campionaria di Milano. Il nuovo modello del piccolo scooter Piaggio arrivava sei anni dopo il lancio del primo "cinquantino" della gamma Vespa, nata nel 1946 dal genio di Corradino D'Ascanio. L'evoluzione era ben visibile rispetto alla progenitrice. Quest'ultima presentava ancora le linee tipiche degli anni '50, con i cerchi in lamiera pieni e i bulloni a vista e caratterizzata da un solo colore disponibile, la sella singola e le ruote di piccolo diametro. Alla metà del decennio uscì la 50 N, con il faro ancora tondo e il fanalino posteriore di forma quadrata, affiancata dalla versione "lusso" (50L) con i profili cromati. La "Special" era proiettata, in quanto a design, nel decennio successivo. Saltava subito all'occhio la forma del proiettore rettangolare, che faceva il paio con il fanalino posteriore della stessa forma. La sella era sportiva a "gobbetta", mentre ruote e cambio erano gli stessi della 50N e L, vale a dire da 9 pollici e cambio a 3 velocità con comando al manubrio. La "Special" prima serie differiva dalle sorelle per la forma del coprimozzo, che richiamava le linee squadrate del faro anteriore. Pensando al pubblico femminile, nel 1969 la Piaggio presentò anche una versione della "Special" dotata di avviamento elettrico: la "Elestart", equipaggiata con due piccole batterie da 6 volt alloggiate all'interno del fianchetto sinistro, caricate da una dinamo da 12 volt. La pedivella di accensione era assente, mentre sul manubrio spiccavano la spia di ingaggio batterie e la chiave di avviamento, assenti in tutti gli altre modelli della Vespa 50. La Elestart sarà prodotta dal 1969 al 1975 in due serie, con cambio a tre e quattro rapporti in poco più di 7.000 esemplari, dato lo scarso successo riscosso. Oggi è un pezzo molto ricercato dai collezionisti. Quello della Special fu un doppio successo, di stile e di "resistenza" alla concorrenza dei cinquantini da fuoristrada, che fecero furore per tutti gli anni '70. Il primo ritocco al modello presentato alla fine del 1969 fu nel 1973, con l'aumento del diametro delle ruote che passarono da 9 a 10 pollici. Due anni più tardi la Vespa 50 Special si evolverà ulteriormente, con una soluzione tecnica al passo con i tempi: il cambio a 4 velocità, mantenuto fino alla fine della produzione. Cambiò anche il colore di coprimozzo e copertura del fanalino posteriore, da quel momento di colore grigio anziché nero. Le scritte furono modernizzate con l'uso di caratteri in corsivetto non più obliqui ma orizzontali ed iscritti in una targhetta. La gamma di colori divenne più ampia con l'introduzione di nuove tinte fiammanti (come il rosso corsa) e l'intramontabile biancospino. L'ultima serie della Special fu prodotta fino al 1983 in quasi 700mila esemplari, di cui più di 500mila della terza serie dal 1975 a fine produzione, quando la Special sarà sostituita dalla serie PK. Un buon successo del modello Piaggio fu registrato in Francia, dove per la normativa vigente la Special fu equipaggiata con due pedali di tipo ciclistico, abbastanza sgraziati e dall'aspetto evidentemente posticcio. La pratica frequente delle elaborazioni fece da volano a ditte specializzate nei kit di trasformazione della piccola Vespa, in particolare Polini e Andrea Pinasco, che fornivano gruppi termici e marmitte ad espansione. Le cilindrate variavano dai 75 ai 130cc, il cui utilizzo era teoricamente vietato su strada.

·         Il primo «citofono» d’Italia.

Il primo «citofono» d’Italia ha la forma di un orecchio e si trova a Milano. Ma dov’è? Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da R. Burattino su Corriere.it. Non ha la pulsantiera né le etichette con i nomi e i cognomi. Il primo citofono realizzato in Italia ha una forma bizzarra: quella di un enorme orecchio. E si trova a Milano. Si tratta di una scultura in bronzo, con tanto di padiglione auricolare e di condotto uditivo esterno, posta accanto alla porta di ingresso di «Cà dell’oreggia», soprannome in dialetto meneghino di Palazzo Sola Busca, in via Serbelloni 10. È un’opera degli anni Trenta firmata da Adolfo Wildt (1868-1931), genio dell’Art nouveau in Italia, tra gli scultori più conosciuti ma anche meno compresi e celebrati dalla critica del dopoguerra avendo realizzato la «Maschera di Mussolini» (1923), simbolo del primo fascismo. Si affermò negando le nuove tendenze artistiche, come l’Espressionismo e sviluppando una concezione plastica personale. Il grande orecchio di via Serbelloni, alto 70 centimetri, è stato pensato proprio come un impianto di comunicazione wireless ante litteram per collegare l’interno dell’edificio con l’esterno ed è il frutto dell’idea avveniristica dell’epoca. Oggi è diventato una piccola fonte di mistero: si racconta che chiunque si avvicini e gli sussurri un desiderio, un giorno lo vedrà realizzato. Sono in tanti, tra cittadini e turisti, a fermarsi proprio lì, spinti dalla voglia di veder concretizzare i propri sogni. O, almeno, ci provano. Anche l’edificio è un’opera d’arte a cielo aperto. È stato costruito nelle seconda metà degli anni Venti, dall’artista mantovano, milanese d’adozione, Aldo Andreani (1887-1971). Fu lui a volere un citofono «sotto mentite spoglie» dal grande valore estetico che, oltre ad avere uno scopo pratico, avesse anche un senso allusivo: «Ascoltare la città». È stato scolpito da Wildt nei minimi dettagli, si possono ammirare addirittura ciocche di capelli riccioluti. Serviva ai visitatori per parlare con il custode che si trovava nella portineria del palazzo, il quale provvedeva, poi, ad annunciare la visita alle famiglie che vi abitavano. «Wildt ha trasformato un semplice orecchio in un capolavoro di virtuosismo e decorazione. Ma è tutto il quartiere dietro corso Venezia ad essere espressione di una Milano intelligente – racconta Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fai -. Un luogo bucolico, circondato dal verde, considerato come una piccola “periferia agreste”. Tra le vie Mozart, Cappuccini e Serbelloni si è affermato un linguaggio artistico moderno e internazionale di una borghesia che voleva osare anche nelle costruzioni edili. È la zona dei grandi architetti dell’inizio Novecento, in uno stile a metà tra l’Art deco e l’ecclettico, con richiami anglofoni, al liberty e ai dettagli francesi e belgi. Adolfo Wildt, in pochi metri, è presente con tre opere: una scultura a palazzo Berri Meregalli, l’orecchio a palazzo Sola Busca e il “Puro folle” o “Parsifal” a Villa Necchi Campiglio». Una curiosità: l’orecchio-citofono è stato utilizzato dal cantautore milanese Eugenio Finardi per la copertina del suo album «Acustica» (1993).

·         La vecchia- giovane Bicicletta.

Una figurina dopo l'altra: due secoli di bici, e di storia del costume e della società. Angelo Melone su La Repubblica il 22 ottobre 2019. Al Museo della Figurina di Modena 350 pezzi rari dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri. Così le figurine sui primi ciclisti, sulle donne in bici, sugli amori a due ruote e sui campioni raccontano una delle più grandi rivoluzioni dei tempi moderni. Sfidando una accusa di blasfemia, potremmo dire che la prima “figurina” di bicicletta ci arriva dalla fine del 1400. Nel Codice Atlantico (foglio 133v) di Leonardo da Vinci si trova un disegno di un prototipo eseguito con matita a carboncino e databile intorno al 1493: ideato in legno, con un sostegno fisso per appoggiare le mani, una forcella anteriore e posteriore, un telaio orizzontale che collega due ruote di uguale dimensione dotate di mozzi e di raggi, un asse con una guarnitura (corona, pedivelle e pedali) posta al centro del telaio, la quale a sua volta è provvista di una catena di trasmissione che la collega a un pignone sul mozzo della ruota posteriore motrice, di una sella… Sulla attribuzione diretta al Genio del Rinascimento la discussione non si è mai chiusa, ma insomma la prima bicicletta è lì. Anche se quel disegno prezioso certo non lo si può trovare, idealmente apre il lungo viaggio di due secoli nella storia della bicicletta raccontata attraverso 350 pezzi, tra album e figurine, nella mostra - prodotta da Fondazione Modena Arti Visive - che fino al 13 aprile prossimo è ospitata al Museo della Figurina di Modena. Più di due secoli ormai, per quella che da molti storici è considerata una delle più grande rivoluzioni tecniche, industriali,  culturali di massa e di costume dell’epoca moderna. La sua evoluzione, nella mostra, è testimoniata da oggetti, modelli antichi, abiti. A partire dalla Draisina del 1817 – la prima vera bici spinta dalla sola forza delle gambe - fino alle rivoluzionarie e leggerissime biciclette in carbonio dei nostri giorni. Evoluzione della tecnica, ma anche del costume. Agli esordi la bicicletta era definita “cavallo d’acciaio” e i ciclisti “cavalieri”. E loro, i ciclisti, erano appunto vestiti da fantini, con casacche in seta, stivali e cappellini ippici (in seguito rimpiazzati da abiti più pratici che lasciano scoperte gambe e braccia). E se questo riguarda gli uomini, per le donne la bicicletta finì per divenire uno degli strumenti simbolo nella strada verso l’emancipazione: il nuovo mezzo di trasporto rende necessario l'abbandono delle gonne ottocentesche a favore di gonne-pantalone, galosce e stivaletti, per muoversi agevolmente senza rinunciare all'eleganza. Diventano famosi i “bloomers”, i pantaloni a sbuffo legati sotto al ginocchio divenuti simbolo della emancipazione grazie all’attivista americana che li lanciò, Amalia Bloomer. E pensare che – anche solo da un punto di vista tecnico - la versione femminile dei primi velocipedi aveva due pedali su un solo lato della grande ruota anteriore, per cui le signore erano costrette “pedalare all’amazzone”. Quasi impossibile. Ma, rotto l’argine, a cavallo del Novecento la bici vince, diventa di moda oltre ad avere una diffusione di massa, ed i tanti detrattori cedono il passo. Invade le strade d’Europa e d’America in decine di milioni di esemplari, ed invade insieme l’immaginario collettivo divenendo il simbolo da associare a quasi tutto: moda, pubblicità di ogni genere, eroi dello sport. E qualche anno dopo anche guerra, purtroppo. A testimoniare tutta questa storia, le figurine. Il grande veicolo di immagine di quegli anni. Tra fine Ottocento e inizio Novecento le scopriamo ironizzare sulle difficoltà dei primi ciclisti e sul contrasto tra vecchi e nuovi mezzi, raffigurando cani che azzannano ruote, scontri con pedoni e cavalieri, ingorghi stradali, capitomboli vari. Alcune serie dedicate al mondo del futuro prefigurano soluzioni innovative come i fanali per le auto, per evitare le collisioni con ciclisti e pedoni al buio. E’ un vero quadro dai colori tenui quella figurina creata per fare pubblicità, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ai grandi magazzini di Parigi. Come l’altra (stesso periodo) per una marca di cioccolata. Si affollano figurine caricaturali, ironiche. E poi l’amore, l’Amore in bicicletta, sul quale si ironizza ma nemmeno poi tanto. Per arrivare ai concorsi a premio associati alle figurine, che conobbero un vero e proprio boom nell’Italia degli anni trenta: tra i vari regali da scegliere o premi da vincere, la bicicletta non manca quasi mai. Infine il mito, le immagini più diffuse dello sport popolare per eccellenza: la mostra si conclude con le sezioni dedicate alle corse e ai ciclisti, attraverso figurine di campioni, all'epoca considerati veri e propri eroi, e imprese che nel dopoguerra restituirono agli italiani l'entusiasmo e la voglia di sognare, dando loro nuovi simboli nei quali riconoscersi. E anche ai nostri giorni di interconnessione globale e immagini immateriali, l’album delle figurine del Giro d’Italia 2019 ha ancora una volta attratto appassionati e collezionisti: la storia non è finita.

BICI DAVVERO! Velocipedi, figurine e altre storie curata da Francesca Fontana e Marco Pastonesi, con il patrocinio della Federazione Ciclistica Italiana Modena, Museo della Figurina, Palazzo Santa Margherita (corso Canalgrande 103) 11 ottobre 2019 – 13 aprile 2020

La nuova economia a due ruote. Quello delle biciclette è un settore che in Italia vale oltre 12 mld di euro. Ma si può fare ancora meglio. Francesco Bonazzi il 30 ottobre 2019 su Panorama. Bravissimi a progettarle e costruirle, bravi a venderle, ma per carità, non chiedete agli italiani di andare in bicicletta. Che pedàlino gli altri! Peccato che così facendo, oltre che a continuare a inquinare e a passare il tempo imbottigliati nel traffico, si rinunci a potenziare un ciclo economico virtuoso come quello delle due ruote. E se già oggi, nonostante l’Italia sia diciassettesima in Europa per l’uso della bici, la bike economy vale oltre 12 miliardi di euro l’anno tra cicloturismo e produzione di veicoli, per l’Osservatorio Bikeconomy il problema, più che la pigrizia, sono le infrastrutture: basterebbe aumentare del 10 per cento le piste ciclabili per fare di Roma la prima città europea per riduzione della mortalità su strada, con 21 morti evitabili (contro i 18 di Londra e i 16 di Barcellona). E gli investimenti per rendere più sicuri i tracciati esistenti avrebbero un rapporto di 70 euro di benefici per ogni singolo euro investito. Per il turismo l’Italia sta facendo passi da gigante, basti pensare alle ciclabili del Ponente ligure e dell’estremo Levante (101 chilometri già aperti e 32 in arrivo), che hanno preso il posto della vecchia ferrovia a mare, oppure alla vasta rete del Trentino e ai grandi investimenti in corso in Puglia. E città come Bolzano, Pesaro, Ferrara e Treviso sono all’avanguardia. Ma se la classifica di Copenhagenize 2019 sulle città più «amiche della bici», in una graduatoria guidata da Copenhagen, Utrecht e Amsterdam, non vede nessuna città italiana nelle prime 20, un motivo c’è: da noi non si considera questo mezzo di trasporto come qualcosa di utile per andare a lavorare. Se si scorrono le tabelle dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio, che verrà presentato il 6 novembre al Bikeconomy Forum in occasione dell’Eicma di Milano (Salone del ciclo e del motociclo) e che Panorama ha letto in anticipo, si scopre che nonostante il 17 per cento dei cittadini viva a più di 30 minuti dal luogo di lavoro, solo il 4 per cento si sposta in bici. Eppure, quasi un italiano su tre (28 per cento) ritiene il traffico cittadino un problema rilevante nella vita quotidiana e uno su due (47 per cento) considera l’inquinamento un problema da risolvere per migliorare la vivibilità della propria città. L’Italia è così il diciassettesimo Paese d’Europa per uso della bici e il 60 per cento dichiara di non usarla. Con Atene, Tallin e La Valletta, Roma è l’ultima tra le capitali, con l’1 per cento di tutti gli spostamenti in bici, all’opposto di Copenhagen (58 per cento), Amsterdam (53) e Lubiana (26). Eppure, se si va a vedere come sta l’industria del ciclo, ecco che nel 2017 l’Italia ha registrato un aumento di fatturato del 15,2 per cento, contro un pallido -2,5 per cento della media Ue. E le aziende italiane sono in testa alla classifica per l’export con 2.390.000 pezzi prodotti, 3.098 aziende e 7.741 addetti, oltre la metà artigiani. Se imparassimo a usare di più la bici, oltre agli effetti positivi sulla salute, ne avremmo un bel guadagno in termini economici. Se si considerano anche i costi sociali, un chilometro in auto costa 15 centesimi, mentre la collettività guadagna 16 centesimi per ogni chilometro coperto in bici. Con quattro italiani su cinque che ancora non usano la bici, per carenza di infrastrutture e paura di essere investiti, e con il grande successo della pedalata assistita nelle zone con dislivelli impegnativi, servirebbero solo piste più sicure, oppure nuove di zecca. L’ultimo rapporto AbiCi di Legambiente calcola in 12 miliardi il Prodotto interno bici nel 2018 e indica in 23 miliardi un obiettivo raggiungibile in pochi anni. Per combinazione, 23 miliardi è anche la somma che il governo ha dovuto trovare per evitare l’aumento dell’Iva nel 2020. In sostanza, pedalando un po’ di più, si disinnescano anche le tagliole seminate da Mario Monti.  

Bicicletta, l’eretica irresistibile. Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Gian Antonio Stella. Papa Pio X vietò il «velocipede» agli ecclesiastici ma la proibizione non resse. Il saggio di Stefano Pivato (il Mulino) su un mezzo che trasformò le abitudini degli italiani. «L’Esperto è venuto a casa con me per insegnarmi. Abbiamo scelto il cortile posteriore, per la privacy, e ci siamo messi all’opera. La mia non era una bicicletta adulta, ma solo una puledra, da un metro e venticinque, con pedali accorciati a un metro e venti, e ombrosa, come tutti i puledri. L’Esperto ha spiegato in breve i punti principali della questione, quindi è salito in sella ed ha pedalato un po’ in giro, per mostrarmi quanto era facile. Ha detto che scendere era forse la cosa più difficile da imparare, e che quindi l’avremmo lasciata per ultima. Ma su questo si sbagliava. Si è accorto, con sorpresa e gioia, che tutto quello che doveva fare era di mettermi sulla macchina e togliersi da davanti: ce la facevo da solo a scendere. Pur essendo del tutto inesperto, sono sceso a tempo di record. Lui era da una parte, e spingeva la bicicletta, siamo andati tutti giù con uno schianto, lui sotto, poi io e la bicicletta sopra tutti». Stefano Pivato «Storia sociale della bicicletta» (il Mulino, pp. 252, euro 22, in libreria dal 24 ottobre)Solo quel genio spiritoso di Mark Twain poteva descrivere, nel racconto Domare la bicicletta del 1884, la prima esperienza su un velocipede. Esperienza che traumatizzò, al contrario, lo statista Sidney Sonnino che alla seconda lezione non si presentò dicendo che non osava insistere perché «gli causava palpitazioni». E forse solo Stefano Pivato, lo storico già rettore a Urbino e autore di molti libri dedicati a temi apparentemente minori come I terzini della borghesia, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento o I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda poteva mettere insieme un mosaico di personaggi, panorami sociologici, avventure, curiosità, approfondimenti e aneddoti spassosi come in Storia sociale della bicicletta, che esce oggi per il Mulino. Stefano Pivato è docente di Storia contemporanea all’Università di Urbino«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», scrisse un giorno Gianni Brera. Vero. Perfino le «fake-poesie», se vogliamo chiamarle così, posso descrivere un’epoca. Due strofette a caso: «Il tuo corpo divino/ sull’acciaio brunito/ campeggerà qual mito/ del rapido destino». Gabriele d’Annunzio? No, risponde lo storico: «Quella poesia, al di là degli orecchiamenti alla retorica dannunziana, non sembra appartenere al poeta ed è verosimilmente da considerarsi come una trovata pubblicitaria dei produttori di biciclette». Mark Twain (1835-1910)I quali, appena fiutarono come potesse aprirsi un mercato enorme per i «velocipedi» (ancora oggi la burocrazia italiana li chiama così: «veicoli con due o più ruote funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi») si buttarono sull’affare. Andando a caccia, ad esempio, dei parroci, dei cappellani, dei pretini di campagna. I quali, oltre ad avere davvero bisogno del nuovo mezzo di locomozione per accorrere a un battesimo o dar l’estrema unzione a un poveretto, sarebbero stati dei formidabili testimonial del prodotto. «Vade retro, bicicletta!», tuonò il vescovo di Mantova Giuseppe Sarto, futuro Papa Pio X, in un messaggio alla sua diocesi: «Siccome questa novità minaccia di essere adottata anche da qualcheduno del clero, ordino che se ne astengano affatto gli ecclesiastici di questa diocesi». E da Papa confermò: no. Certo, un grande vescovo come Geremia Bonomelli non era d’accordo: «In questa mia diocesi vi sono parrocchie vastissime, che hanno il circuito di 10, 15, 20, 25 e più chilometri, con buona parte della popolazione che dista uno, due, quattro, sei e più chilometri dalla residenza parrocchiale. Non tutti possono avere cavallo e carrozza, e per questo alcuni parrochi e coadiutori, anche di grande pietà, usano delle biciclette per recarsi a visitare gli infermi…» Spiega Pivato che la bicicletta, come prima il treno bollato come «opera diabolica» (al che Carducci aveva risposto con l’Inno a Satana) non era vista solo «come simbolo di modernità ma anche di modernismo, cioè di quella corrente riformista in odore di eresia che all’interno della Chiesa cattolica sostiene la necessità di un confronto con la civiltà del Novecento». Neppure la devozione al Papa, però, fu in grado di fermare i preti di campagna. «Può il sacerdote nel caso d’un ammalato grave inforcare la bicicletta nonostante il superiore divieto?», chiede nel 1910 il parroco di un paesino ravennate sul bollettino parrocchiale. La risposta era nella domanda. E un po’ alla volta il divieto evaporò. Dal primo velocipede apparso ad Alessandria nel 1867 tra lo stupore generale (l’industriale della birra Carlo Michel l’aveva comprato a Parigi: era tutto di legno e in inglese si chiamava bone-shakers, cioè scuoti-ossa) fino ai tempi più recenti, nel libro c’è di tutto. Il manuale che a fine Ottocento invita i novizi a scegliere una strada larga «almeno sei metri» e «lunga 25 o 30 metri e in discesa». Le pubblicità che, per ovviare al problema dei cani che attaccavano le due ruote, strillavano: «Ciclisti, armatevi! Nelle attuali condizioni della pubblica sicurezza in Italia, un buon revolver è indispensabile». Non mancano consigli più divertenti ancora: «Il principiante dovrà, a poco per volta (…) apprendere a frenarsi co’ piedi» per «la facilità che hanno i caucciù di deteriorarsi». E la donna? Si consiglia «un luogo molto remoto, in campagna magari (…) sul calar della notte». E poi le invenzioni più estrose come «il triciclo Torre Eiffel», una pompa per i pompieri alta quattro metri! Perfino Emilio Salgari, che aveva un amico che nel 1895 arrivò in bicicletta fino al Circolo polare artico, ne immaginò una pazza, ma strepitosa: «Un velocipede composto da otto ruote, due più grandi e più solide, le altre eguali, accoppiate a due a due in modo da potersi, all’occorrenza, trasformare in tre biciclette». Ma come dimenticare il milanese Luigi Masetti, «l’anarchico delle due ruote» che da Milano arrivò a Chicago in bicicletta, fatta salva la traversata in mare? Certo, lui era un pioniere ma dietro, nei decenni, l’Italia intera scoprì con la bicicletta cosa fosse la possibilità di muoversi, spostarsi, uscire dalla propria contrada, dalla propria città… Nel 1900 c’erano 109.019 biciclette per 23 milioni di italiani, nel 1919 ben 1.363.936, vent’anni dopo 4.935.000. Un aumento straordinario, che accompagnò l’emigrazione, la Grande Guerra (si pensi a Enrico Toti, che aveva perso una gamba sotto un treno e prima di gettare la stampella al nemico aveva girato tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il biennio rosso e le lotte operaie (imperdibile una reclame: «Carlo Marx! Pneumatico dei socialisti italiani. Compagni ciclisti! Provate la gran marca rossa. Invincibile, garantita») e infine la Resistenza. Che vide in bicicletta, come staffette o per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga personaggi formidabili come Gino Bartali o don Primo Mazzolari. Prete sì ma così legato alla sua bicicletta che, pazienza per l’ostilità di qualche Papa, l’aveva pure battezzata: Giannina.

·         I 50 anni del Boeing 747.

I 50 anni del Boeing 747: storia e foto del gigante dei cieli. Edoardo Frittoli su Panorama il 2 ottobre 2019. Quando la notizia dell'imminente entrata in servizio del Boeing 747 (il "Jumbo Jet") comparve sui quotidiani italiani nell'autunno del 1969, fece molta impressione: il nuovo gigante dei cieli offriva quattro "sale cinematografiche", cioè quante ne aveva all'epoca la città di Legnano. Non si risparmiava certo in termini di confort di volo per i passeggeri dei voli intercontinentali: filodiffusione collegata ad ogni posto a sedere con canali tematici, lezioni di inglese, possibilità di ascoltare le radiocomunicazioni di bordo. Ed ancora: una zona nursery con spazi appositamente pensati per i viaggi dei neonati, sei dispense, duty free shop a bordo, 33 membri di equipaggio. La prima classe del Jumbo, poi, era un'angolo di lusso sfrenato: 32 spaziosissimi sedili con tavolini girevoli, un banco bar e una "mansarda" panoramica accessibile da una scala a chiocciola. La piccola città del cielo entrò nel futuro di Alitalia nel novembre 1968, quando la compagnia di bandiera italiana ordinò al colosso di Seattle quattro esemplari del 747. La storia del progetto del Boeing 747 parla di numeri giganteschi proprio come l'esito finale, il Jumbo Jet. L'idea del maxi aereo commerciale nacque attorno alla metà degli anni '60 per due principali ragioni: l'aumento del traffico passeggeri come effetto della riduzione complessiva delle tariffe e l'incremento generale della congestione del traffico aereo civile. Inoltre, la casa di Seattle aveva da poco perso un bando istituito dalla U.S. Air Force per un quadrimotore da trasporto, lasciando in eredità al ramo commerciale dell'azienda la base del progetto per un grande aereo passeggeri/cargo basato sul Boeing C-5A mai realizzato.

Un "palazzo che vola". Le dimensioni del Boeing 747 ricordavano più quelle di un condominio che di un aeroplano: 59 metri di apertura alare (più di un campo regolamentare di basket), 70 metri di lunghezza e 19 di altezza dell'impennaggio di coda (come un palazzo di 5 piani). La prima serie fu equipaggiata con quattro motori Pratt & Whitney JT 9D-3 da oltre 200 Kn (20.845 kg) di spinta ciascuno, che erano in grado di sollevare la gigantesca massa del quadrimotore (oltre 400 tonnellate a pieno carico) e di farla volare ad una velocità di crociera superiore ai 900 Km/h. L'autonomia del 747-100 era altrettanto da record: oltre 13mila chilometri di volo, garantiti da giganteschi serbatoi in grado di contenere 130.000 litri di carburante. Il "grattacielo volante" aveva bisogno di oltre 3 km di pista per staccarsi dal suolo a pieno carico, distanza che richiese l'adattamento della superficie di diverse strutture aeroportuali nel mondo.

La nascita di un gigante. A causa delle dimensioni del 747, la Boeing dovette procedere alla progettazione ed alla costruzione di un nuovo ed altrettanto gigantesco stabilimento. Il sito produttivo fu realizzato ad Everett, nello stato di Washington (dove aveva sede la casa di Seattle). Ad oggi l'impianto è considerato il più ampio del mondo con il monumentale volume originario di 5,6 milioni di metri cubi, oggi diventati più di 13 milioni con la costruzione dei velivoli di grandi dimensioni come il 767 e il 787. L'impianto ciclopico entrò in funzione nel 1967, pronto per fronteggiare ben 25 ordini della compagnia statunitense Pan-Am. La presentazione ufficiale del Jumbo avvenne il 30 settembre 1968 di fronte ad una folla di addetti, giornalisti, piloti, autorità ed hostess di 26 compagnie del mondo che vararono con le loro uniformi variopinte un colosso che ancora non aveva toccato il cielo. Il primo volo fu effettuato il 9 febbraio 1969 dal pilota Jack Waddell, che portò a termine il collaudo ad una velocità ridotta di 257 km/h. Pochi mesi dopo, il 4 dicembre dello stesso anno, il gigante dei cieli con la livrea della Boeing atterrava all'aeroporto J.F.Kennedy di New York per la prima trasvolata coast to coast, proveniente da Seattle. Ad attenderlo sulla pista c'era l'eroe dei cieli Charles Lindbergh, che quel giorno assistette di persona alla conferma dell'affidabilità del nuovo superjet nonostante un piccolo incidente causato dal malfunzionamento del carrello 10 giorni dopo il primo volo, che non ebbe tuttavia conseguenze sul progetto.

I Jumbo Alitalia. Tra i primi acquirenti del Jumbo figurava Alitalia. La compagnia di bandiera italiana, con l'acquisto dei nuovi quadrimotori, mandava definitivamente in pensione tutti i velivoli ad elica della flotta. L'imminente messa in servizio del colosso dei voli intercontinentali necessitò dell'adattamento anche degli scali aeroportuali italiani che prevedevano quel tipo di tratta e l'utilizzo del 747. In questo caso l'aeroporto che per primo fu interessato alle modifiche tecniche necessarie fu lo scalo di Milano Malpensa al quale inizialmente la TWA, compagnia operante con i 747, fornì il know-how e il materiale per l'adattamento delle apparecchiature di terra e per la manutenzione. Lo scalo milanese, come anche quello romano di Fiumicino, dovettero potenziare il settore della gestione bagagli (in pochi minuti bisognava garantire lo sbarco di colli al seguito di circa 400 passeggeri) così come si rese necessario l'ampliamento dell'area parcheggi e degli spazi passeggeri e check-in degli scali. I primi Jumbo della TWA toccarono la pista dello scalo lombardo provenienti da New York nel marzo del 1970. La data di consegna dei 747 destinati ad Alitalia fu stimata a partire dalla metà del 1970. Dallo stabilimento di Everett furono puntuali e il primo Jumbo a vestire la livrea della compagnia di bandiera italiana fu consegnato il 13 maggio 1970 e battezzato "Neil Armstrong" in onore del primo uomo sbarcato sulla Luna appena pochi mesi prima. Immatricolato nel registro italiano con le marche I-DEMA, il primo 747-100 di Alitalia ara stato configurato per ospitare 337 passeggeri in classe turistica e 32 passeggeri privilegiati nel lussuoso salottino di prima classe alle spalle della cabina di pilotaggio. Rimarrà in servizio con Alitalia per 11 anni, fino alla vendita nel novembre del 1981. Il 1 luglio 1970 arrivava il secondo dei quattro Jumbo del primo lotto: I-DEME "Arturo Ferrarin", gemello del primo, resterà con la compagnia per lo stesso tempo, rientrando nel sempre nel 1981 dal leasing con Boeing. In totale la compagnia di bandiera italiana ha avuto nella propria flotta 21 Boeing 747, tra i quali due in configurazione cargo. L'ultimo a dismettere la livrea tricolore in versione passeggeri è stato il 747-243F  "Titano"  (marche I-DEMR) ceduto nel 2004 ad una compagnia cargo russa. Principalmente la scelta di dismettere i gloriosi Jumbo jet è stata dettata negli ultimi anni dalla necessità di ridurre i consumi di carburante (molto elevati nel 747 nonostante il continuo aggiornamento dei propulsori) e dallo sviluppo di nuovi aerei con le stesse caratteristiche per i viaggi a lungo raggio ma assai più parchi nei consumi.

Le versioni speciali. Oltre alle due principali versioni passeggeri e cargo, il Boeing 747 è stato costruito in molteplici varianti. Tra le più note sicuramente l'Air Force One, l'aereo presidenziale del Governo USA in servizio dal 1990 che probabilmente sarà sostituito entro il 2021 sempre da un jumbo dell'ultima generazione, un 747-800. Anche la NASA utilizzò il gigante della Boeing appositamente modificato per trasportare lo Space Shuttle. Il primo degli SCA (Shuttle Carrier Aircraft) fu il 747-100 N905NA ex American Airlines, utilizzato inizialmente per portare lo Shuttle in quota per i test di atterraggio. In seguito sarà impiegato per riportare gli Shuttle al Kennedy Space Center in caso di atterraggio su piste diverse da quella della NASA. Ultimo velivolo in ordine cronologico realizzato sulla base del 747 è stato un particolare tipo di quadrimotore cargo, nato per trasportare i componenti un Boeing altrettanto gigantesco, il 787 Dreamliner. Costruito nel 2007 e battezzato "Dreamlifter", si distingue dal 747 di serie per l'evidente aumento dei volumi di fusoliera necessari al carico delle voluminosissime parti del superate del terzo millennio per il trasporto tra i diversi centri di produzione nel mondo. Il Boeing 747 è stato costruito finora in 1.554 esemplari dalla data del suo lancio mezzo secolo fa. Si tratta di un velivolo estremamente sicuro ed affidabile, tanto che i più gravi incidenti nei quale i Jumbo sono stati coinvolti non si sono verificati a causa di problemi tecnici o strutturali, bensì per errori umani, difetti nelle comunicazioni o attentati terroristici. Tra questi si ritrovano le storie dei 747 di Lockerbie (Pan Am volo 103) distrutto in volo da un ordigno libico (259 morti tra i passeggeri e 11 al suolo) e si ricorda il più grave incidente della storia dell'aviazione civile, risultato della collisione accidentale di due 747 sulla pista dell'aeroporto di Tenerife "Los Rodeos" a causa di una errata comunicazione tra i velivoli e la torre di controllo. Nella nebbia che aveva avvolto l'isola perirono 583 persone. Il Boeing 747 è tuttora in produzione (serie 800) richiesto prevalentemente dai vettori cargo.

·         I (primi) cento anni del panettone Motta.

I (primi) cento anni del panettone Motta. Ricetta, carta, logo: ecco i segreti del successo. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. L a ricetta modificata per battere la concorrenza. Il «pirottino» chiave del successo. Le denunce per «presunte scorte maggioritarie» durante la Seconda guerra mondiale. Motta festeggia cent’anni di storia, indissolubilmente legata al panettone e alle festività natalizie. Lo fa con un volume con immagini d’epoca, un’introduzione di Paolo Mieli e i saggi di Fabiana Giacomotti, che ripercorrono i passaggi salienti della trasformazione dell’azienda. Angelo Motta, pasticcere di umili origini, fonda la ditta artigiana nel 1919 a Milano ma solo nel 1921 arriva alla ricetta definitiva e all’aggiunta di quel tocco in più per «reggere» la pasta lievitata: la fasciatura di carta a corona, il «pirottino». Mossa vincente. Ma non è solo questione di segreti dolciari. Il «scior Motta», uomo privo di licenza elementare, «capisce che deve circondarsi dei migliori per avere successo» racconta Giacomotti. E così affida a Melchiorre Bega, futuro autore della Torre Galfa, il progetto del Bar Motta in piazza Duomo a Milano, prende Dino Villani come direttore della pubblicità, mentre esce dalla mano di Severino Pozzati, in arte Sepo, la grande M con la silhouette del Duomo. L’azienda riesce a rimanere in piedi anche durante la Seconda guerra mondiale grazie a un piano di integrazione verticale che le garantisce le materie prime. Così la produzione continua anche quando il burro è contingentato, sebbene la Motta debba rispondere in tribunale perché i concorrenti denunciano la ditta per scorte che sarebbero più ampie di quanto concesso. Le bombe distruggono la pasticceria in piazza Duomo nel 1943, ma non frenano il successo industriale. Anzi, continua la crescita grazie al processo di ricostruzione impresso dall’Iri e dal Piano Marshall e a prodotti innovativi, come il gelato confezionato da passeggio e la colomba pasquale. Eppure è al Natale che rimane strettamente ancorato il nome Motta. E sembra scritto nel destino del fondatore, che muore il 26 dicembre del 1957 così come farà il suo successore Alberto Ferrante otto anni più tardi.L’azienda viene «statalizzata» nell’ambito della Sme, poi acquisita da Nestlé. Oggi è gestita dal gruppo Bauli, che ha scelto di far realizzare il libro commemorativo (consultabile anche online) edito da Utet Grandi Opere per i tipi Fmr e presentato ieri a Milano alla Terrazza Martini. «Motta ha unito gli italiani sotto un comune dolce tradizionale natalizio — dice Michele Bauli, presidente del Gruppo —, abbiamo voluto ricordarne la storia». Un dolce che a un secolo dalla nascita non stanca, come dimostra l’indagine di BVA Doxa: per il 56% degli intervistati non c’è Natale senza panettone, la ricetta originale è la preferita dal 43%.

I MORTI FAMOSI.

·         Si festeggia Halloween o si onorano i Santi/ i Morti?

Il Papa: troppi  messaggi negativi  sui morti, pregate  e visitate i cimiteri. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it. «In questi giorni in cui purtroppo circolano anche messaggi di cultura negativa sulla morte e sui morti, invito a non trascurare, se possibile, una visita e una preghiera al cimitero. Sarà un atto di fede». Non pronuncia la parola «Halloween» Papa Francesco in piazza San Pietro dopo l’Angelus della festa di Ognissanti. Annuncia piuttosto che: «Domani pomeriggio mi recherò a celebrare l’Eucaristia nelle Catacombe di Priscilla, uno dei luoghi di sepoltura dei primi cristiani di Roma». Ma aggiunge, salutando gli atleti che hanno preso parte alla Corsa dei Santi, organizzata dalla Fondazione «Missioni Don Bosco»: «Ringrazio voi, che avete sottolineato, anche in una dimensione di festa popolare, il valore religioso della ricorrenza di Tutti i Santi. E anche quanti, nelle parrocchie e nelle comunità, in questi giorni promuovono iniziative di preghiera per celebrare Tutti i Santi e commemorare i defunti. Queste due feste cristiane ci ricordano il legame che c’è tra la Chiesa della terra e quella del cielo, tra noi e i nostri cari che sono passati all’altra vita». Sul tema della morte Francesco si era soffermato anche giovedì sera, nel videomessaggio ai giovani di Scholas Occurrentes per il IV Incontro internazionale organizzato in Messico: «Una cultura che dimentica la morte comincia a morire dentro di sé. Come le parole nascono dal silenzio e lì finiscono, permettendoci di ascoltare i loro significati, lo stesso succede con la vita». E ha aggiunto: «Forse può suonare un po’ paradossale, ma è la morte che permette che la vita rimanga viva». Oggi la Chiesa ricorda tutti i santi: «Siamo tutti chiamati alla santità. I Santi e le Sante di ogni tempo, che oggi celebriamo tutti insieme, non sono semplicemente dei simboli, degli esseri umani lontani, irraggiungibili - ha spiegato il Papa - Al contrario, sono persone che hanno vissuto con i piedi per terra; hanno sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti, trovando nel Signore la forza di rialzarsi sempre e proseguire il cammino. Perché la santità è un traguardo che non si può conseguire soltanto con le proprie forze, ma è il frutto della grazia di Dio e della nostra libera risposta ad essa. Quindi la santità è dono e chiamata». Poco dopo ha precisato: «In quanto grazia, cioè dono di Dio è qualcosa che non possiamo comperare o barattare. Si può solo accoglierlo, partecipando così alla stessa vita divina mediante lo Spirito Santo che abita in noi dal giorno del nostro Battesimo. Il seme della santità è proprio il Battesimo. Si tratta di maturare sempre più la consapevolezza che siamo innestati in Cristo, come il tralcio è unito alla vite, e pertanto possiamo e dobbiamo vivere con Lui e in Lui da figli di Dio. Allora la santità è vivere in piena comunione con Dio, già adesso, durante il pellegrinaggio terreno». E ha concluso: «Il ricordo dei Santi ci induce ad alzare gli occhi verso il Cielo: non per dimenticare le realtà della terra, ma per affrontarle con più coraggio e speranza». Come i tanti «“santi della porta accanto”, quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio. Guardando alla loro vita, siamo stimolati a imitarli».

Da ilmessaggero.it l'1 novembre 2019. I festeggiamenti de El Dia de los Muertos, celebrazione messicana e, più in generale, mesoamericana, relativa al ricordo dei defunti, durano qualche giorno, dal 28 ottobre al 2 novembre. Il primo giorno si festeggiano i morti di incidenti stradali o, più in generale, per cause violente; il 29 quelli morti per annegamento; il 30 è invece dedicato alle anime solitarie o dimenticate; il 31 ai bambini morti prima del battesimo; il 1° novembre ai bambini morti e il 2 al ritorno dei defunti sulla terra. Per quanto tristi le ragioni di questa ricorrenza, la festa viene celebrata con musica, bevande e cibi tradizionali dai colori vivi, combinati a numerose rappresentazioni caricaturali della morte. Questo stravagante giorno dei morti (Halloween all'americana) in Messico è stato dichiarato dall’Unesco, nel 2008, patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

I preparativi. Durante la tradizionale festa dei Morti si fa visita ai cimiteri e si adornano le tombe dei propri cari con candele, fiori, pane, vino e piatti speciali in onore degli antenati. Molti lasciano il letto libero per le anime dei defunti la notte del 1º novembre. Per prepararsi agli importanti festeggiamenti e acquistare l'occorrente, vengono allestiti dei piccoli mercati di strada chiamati tianguis. Oltre agli alimenti, candele, incensi e fiori, si prendono anche i famosi striscioni messicani colorati con immagini ritagliate.

L'altare. L'altare deve essere allestito facendo attenzione a rappresentare i quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco e viene solitamente collocata in salotto o sala da pranzo per la condivisione con tutta la famiglia. A volte gli altari vengono fatti di Poaceae (Graminacee) con tetti di palma o di foglie di banano usando i petali di tagetes erecta per fare un percorso dall'entrata all'altare per dirigere il cammino delle anime. Sull'altare vengono posti diversi elementi importanti, alcuni variano da città a città anche per l'ordine considerato valido. Si tende a creare un altare a più livelli e ogni livello rappresenta un elemento e un passo dalla terra al cielo. La prima cosa da fare è inserire le foto di coloro che vogliamo ricordare sull'altare.

Cibi e bevande. L'acqua è sempre gradita alle anime che si incamminano in un lungo viaggio fino al mondo dei vivi, la bevono appena giunti per dissetarsi dal viaggio. Alcuni alimenti tipici sono: frutti acidi, agrumi, semidolci, i tamales, carne ed erbe aromatiche. Si cucinano e si donano principalmente i cibi e le bevande (tra cui bibite e alcolici) che più piacevano al defunto, cercando di fare sia salato che dolce. Tra i forti alcolici tradizionali (aguardiente) si trovano tequila e mezcal, ma anche birra e vino. Il tabacco (sigari o sigarette) si inserisce se il defunto era un fumatore. I dolci tradizionali da mettere sull'altare sono il pane dei morti (dolce tipico di questa festa che non viene fatta in nessun altro momento dell'anno), i teschi di zucchero (sulla cui fronte viene scritto il nome del defunto o dei vivi che lo mangiano per dare un tono umoristico alla festa), il cioccolato, l'amaranto e il caffé. Questo banchetto serve per ricordare al defunto le gioie della vita e condividerle con i propri cari.

Maria Teresa Veneziani e Federica Bandirali per corriere.it l'1 novembre 2019.  La più spettacolare è Heidi Klum, zombie cyborg. Del resto la modella è maestro di cerimonia del party di Halloween andato in scena a New York, metropoli dove la festa dei morti viventi ormai è un rito collettivo che coinvolte tutte le età e tutte le classi sociali. Halloween, carnevale in chiave macabra, piace perché ha la capacità di esorcizzare le paure più profonde, suggerite dalla moda cinematografica che ha fatto di mostri e zombie i più convincenti simboli del mistero. Partita dal Nord Europa, forse dalla celtica festa di Samhain, la festa di Halloween ha colonizzato il mondo. «Bisogna fare quasi uno sforzo, scrive Avvenire, per non chiamare l’ultimo giorno di ottobre, la notte che segna il passaggio a Ognissanti, come la chiamano tutti: Halloween».

Zucche feroci. Lo spirito di Halloween è certamente contagioso, reso virale dai social che alimentano l’ego. Zombie e mostri hanno invaso le città del mondo.

Ferragnez Pikachu. Travestirsi, a tema, in famiglia, è la tendenza. Sotto Chiara Ferragni con Fedez e il piccolo Leone vestiti da Pikachu.

Barbara Palvin dei boschi. Halloween nasce come rito pagano nelle isole britanniche, all’epoca del Celti, secoli prima della nascita di Cristo. Nella festa di «Samhain», il 31 ottobre, si celebrava l’inizio dell’anno nuovo. Ma quello era anche il giorno dei morti, quando le anime dei defunti tornavano sulla terra. Secondo la leggenda, gli spiriti tentavano di entrare nei corpi dei vivi per assicurarsi l’immortalità: gli umani allora si mascheravano come demoni o streghe per ingannare le anime dei morti e sfuggire alla cattura. I vivi offrivano cibo per ottenere la benevolenza degli spiriti: ecco l’origine dell’usanza dei bambini di mascherarsi e chiedere dolci, minacciando dispetti o incantesimi. Con il Cristianesimo, la festa ha preso poi il nome di Halloween, contrazione di «All Hallows Eve», la vigilia della festa di Ognissanti. Sotto, Barbara Palvin e Dylan Sprouse dei boschi.

Michael Douglas fa l’arabo. Non ha età la febbre di Halloween, basta guardare il 75enne Michael Douglas versione arabeggiante poco credibile accanto alla bellissima moglie Catherine Zeta-Jones, 50 anni. Che cosa non si fa per amore...

Gisele e Tom, la strana coppia. Una famiglia un po’ confusa dal punto di vista dello stile, quella della top Gisele Bündchen con il marito Tom Brady jr (giocatore di football americano statunitense che milita nei New England Patriots della National Football League) e i figli.

David Beckham incapucciato. David Beckham torna bambino per la classica foto di rito da Instagrammare insieme con i figli.

Bella Hadid The Mask. The Mask, i rifermenti cinematografici ispirano Halloween. Bella Hadid dipinta di verde si aggira nelle vie di New York.

Kendal Jenner piumata. Kendall Jenner, versione regina cattivissima si fa il selfie prima del party.

David Beckham incapucciato. David Beckham torna bambino per la classica foto di rito da Instagrammare insieme con i figli.

Kyle Jenner sirena sexy. Kylie Jenner fa la sirena sexy.

Brandon Clarke clown malvagio. Brandon Clarke, cestista canadese, professionista nella NBA con i Memphis Grizzlies, celebra Halloween vestito da clown malvagio nella notte del 31 ottobre a Salem, Massachusetts. Salem è una mecca per le streghe e i fan dell’occulto.

Cristiano Ronaldo Joker. Neppure Cristiano Ronaldo non resiste ad Halloween. Dopo la vittoria in campionato contro il Genoa, l’asso portoghese si è presentato negli spogliatoi travestito da Joker.

La doppia faccia di Maluma. Il cantante colombiano Maluma alla festa di Heidi Klum di New York.

Coco Austin e Ice-T. L’attrice americana Coco Austin arriva con il marito Ice-T al party organizzato per Halloween da Heidi Klum.

Jonathan Van Ness gatto. Il parrucchiere Jonathan Van Ness versione gattesca (e inguardabile). Si è presentato così alla festa newyorkese di Heidi Klum

Taylor Hill orco verde. Per le belle da copertina il gioco di Halloween è abbruttirsi. Taylor Hill tutta verde fa l’orco Shrek alla festa della collega Heidi Klum

Julianne Moore. L’attrice Julianne Moore in vester di pirata «sdentato» pubblica su Instagram questo selfie in primo piano per augurare buon Halloween ai suoi fan. Lo scatto sembra un fotomontaggio e non un travestimento vero, ma i follower apprezzano.

Karlie Kloss. Al party di Heidi Klum la modella Karlie Kloss punta su un travestimento da vampira sexy con tanto di miniabito in pelle e cuissard. Difficile riconoscere la top bionda con la parrucca.

Annabel Fenwick Elliott per “Mail On Line” l'1 novembre 2019. Pronti per Halloween? Potreste passare la notte in una delle case più infestate del mondo, per l’occasione.

A partire da Chillingham Castle, Northumberland, Inghilterra, un castello del 12° secolo con un passato tremendo, stanze della tortura e la famosa "Pink Room", abitata dal fantasma.

Oppure la casa di Lizzie Borden nel Massachusetts, ora bed and breakfast, dove nel 1892 la ragazza squartò con l’ascia il padre e la matrigna e pare si aggiri ancora per i corridoi. Il ‘Crescent Hotel & Spa’ a Eureka Springs, in Arkansas, datato 1886, ora è un resort con tutte le comodità ma nel 1937 era un ospedale per malati di cancro gestito da un finto medico di nome Normal Baker, che faceva esperimenti su persone vive e morte.

Il "Mermaid Inn", in East Sussex, Inghilterra, affitta stanze per 100 euro a notte. Risale al 1901 e si sentono rumori di sedie e vestiti che invece di asciugarsi, si bagnano davanti al fuoco.

The Marshall House in Savannah, Georgia, Stati Uniti, è un ex ospedale che ospita ancora gli spiriti della guerra civile. Secondo i proprietari si tratta di spiriti benevoli, compresi quelli di bambini che corrono su e giù per le scale e battono alle porte.

Hawthorne Hotel in Salem, città americana nota per aver impiccato 20 donne a seguito del processo per stregoneria, ospita ancora il fantasma di un bimbo che piange e una presenza invisibile che dà colpetti agli ospiti. Il “Deetjen’s Big Sur Inn”, California, accanto al faro, offre tour notturni al chiaro di luna e l’incontro con il fantasma del vecchio proprietario, che ama sbattere le porte.

Hotel Cecil, Los Angeles, un tempo era casa del serial killer Richard Ramirez. Nel 2013 qui venne ritrovato il corpo decomposto di una turista, morta in circostanze misteriose. Il Chelsea Hotel di New York fu casa di moltissimi artisti, il poeta Dylan Thomas visse e morì qui, e pare che per i corridoi si aggiri un fantasma da quando Sid Vicious nel 1978 uccise la sua Nancy a coltellate.

Le stanze numero 8 e 10 della Battery Carriage House, Charleston, South Carolina, sono abitate da vari fantasmi, incluso un mezzo busto senza testa, mentre il Toftaholm Herrgård, a Lagan, in Svezia, si fregia dello spirito di un contadino che si impiccò il giorno in cui la sua amata sposò un altro.

Strane forme si notano alla Akasaka Weekly Mansion, Tokyo, le luci vanno e vengono e ogni tanto appare una donzella in catene. La signora in bianco abita al Dragsholm Slot di Sealand, in Danimarca, figlia di un nobile, il cui corpo fu ritrovato nel 1930 durante i lavori di ristrutturazione. Fenomeni di poltergeist tipo mobili che si muovono e lenzuola che strangolano sono stati riportati negli anni nella stanza 703 dell’hotel Heathman, Portland, Oregon.

Dagotraduzione dell'articolo pubblicato su "This is Colossal" il il 2 novembre 2019. Nel 1578 il mondo seppe della scoperta delle gigantesca rete di catacombe romane, contenenti i resti di migliaia di primi martiri cristiani. Molti scheletri di questi presunti santi furono presto rimossi dal loro luogo di riposo e inviati alle chiese cattoliche in Europa per sostituire le reliquie che erano state distrutte durante la Riforma protestante. Una volta sul posto gli scheletri verranno poi accuratamente rimontati e "addobbati" con costumi, parrucche, gioielli, corone, pizzi d'oro e armature come un promemoria fisico dei tesori celesti che li attendevano nella vita ultraterrena. Negli ultimi anni il fotografo Paul Koudounaris si è specializzato negli scatti di reliquiari scheletrici, mummie e altri aspetti della morte, ed è riuscito a ottenere l'accesso a varie istituzioni religiose per fotografare molti di questi santuari splendidamente macabri per la prima volta nella storia. Le foto sono state raccolte in un libro dal titolo Heavenly Bodies che verrà pubblicato da Thames & Hudson.

2 novembre, i morti non vogliono spaventarci ma possono consolarci. Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 da Corriere.it. Ho ritrovato una cosa che avevo scritto vent’anni fa. È cambiato qualcosa, secondo voi? La morte ci imbarazza. Noi italiani non sappiamo accettarla come gli indiani o gli arabi; non sappiamo ricordarla come gli ebrei; non riusciamo a scherzarci sopra come gli inglesi; non abbiamo imparato a esorcizzarla come gli americani (pensate a Halloween, che gli Usa hanno esportato nel mondo come una festa per bambini). Noi italiani trattiamo la morte con un timore superstizioso, e usiamo la tattica dello struzzo. Di morte non vogliamo sentir parlare, e non sappiamo parlare a chi se l’è trovata di fianco. I morti altrui non ci interessano. I nostri morti - anche in questi giorni, che a loro sono dedicati - sono quasi sempre figure lontane. Ai bambini ne parliamo poco, quasi fossero fantasmi in grado di turbarne i sogni. Che una nazione cattolica si comporti in questo modo sarebbe ironico, se non fosse deprimente. Non è sempre stato così, naturalmente. Nelle nostre campagne, così come c’era posto per i vecchi, c’era spazio per i morti: c’erano fotografie, aneddoti e ricordi, e sublimazioni gastronomiche, più dolci che macabre, come i biscotti (durissimi) che a Crema, ancora oggi, chiamiamo «le ossa dei morti». Restava, e resta, il problema dei cimiteri. Non occorre essere Ugo Foscolo per capire che la nostra fissazione monumentale è angosciosa, mentre i cimiteri anglosassoni - verdi e lindi - sono, se non allegri, rassicuranti. Ricordo lo stupore quando, arrivato da poco a Londra, vedevo gli inglesi che portavano tè e biscotti tra le croci, in luoghi come Kew o Hampstead. Mi sembrava una mancanza di rispetto. Poi ho capito: la mancanza era mia. Il loro era rispetto. Può cambiare, questa nostra nazione adolescente, che vuole distrarsi molto e pensare poco? Forse sì, ma prima deve capire che i morti non vogliono spaventarci, ma possono consolarci. Certamente dobbiamo ricordare che la nostra storia personale, come la nostra storia nazionale, è fatta da chi c’era, da chi c’è e da chi ci sarà. Muoiono davvero solo coloro che dimentichiamo. Gli altri sono qui, e sono in grado di darci silenziosamente una mano, anche (ma non solo) il 2 novembre. Che magari non è un giorno di festa. Ma certamente non è un giorno di lutto.

Da adnkronos.com il 31 ottobre 2019. "Io dico no, non voglio festeggiare Halloween". E' un'introduzione 'Fuori dal Coro' quella fatta ieri sera da Mario Giordano che, aprendo la puntata alla vigilia del 31 ottobre, ha tirato fuori una mazza da baseball ha distrutto decine di zucche, finte, portate in studio. "Non voglio festeggiare Halloween, voglio festeggiare la festa di Ognissanti e voglio anche celebrare la giornata di tutti i defunti", dice il giornalista che ricorda: "Si spendono ogni anno 300 milioni per vestiti di zombie, di scheletri, di cose orrende, mostruose, tutto per importare una tradizione che non è la nostra e dimentichiamo invece le nostre radici, la tradizione la zuppa di ceci, il pan dei morti". Il video è diventato virale sui social e su Twitter è diventato tra i principali trend della giornata, con molti utenti che ironizzano sulla scenetta con meme e commenti sarcastici: "Ormai i bambini chiedono di mascherarsi da Mario Giordano per #Halloween2019", scrive Andrea, mentre Martina rivela: "Ora sa da cosa posso travestirmi per #halloween2019: da Mario Giordano, l'ammazza zucche". Tra i commenti anche quello di Chef Rubio: "Ma che Halloween era quello in cui ti prendesti a mazzate le palle invece delle zucche? Aiutami che non mi ricordo", scrive in un tweet.

Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2019. In una notte scura e tempestosa, si cammina tra sentieri inghiottiti dal buio mentre i passi fanno scricchiolare la ghiaia e crepitano piccole luci che illuminano bianche lapidi... Una scena usuale, quella di una forzata passeggiata notturna in un cimitero, nei racconti horror più classici e che nella notte di Halloween molti potrebbero essere tentati di rivivere personalmente. Abbondano i luoghi in cui mettere alla prova coraggio e coronarie, con tanto di apparizioni sinistre e fenomeni paranormali o presunti tali. E non occorre scavalcare cancelli e sfidare divieti. Basta una semplice visita. Da Salem, in Usa, ad Highgate a Londra, dal Giappone alle catacombe di Parigi, dal cimitero ebraico di Praga quello di Chamula in Messico, alla cripta dei Cappuccini a Palermo, la mappa della paura si snoda in tutto il mondo. I cimiteri, prima di essere celebrati nella mesta e intima ricorrenza della festa di tutti i santi, il "giorno dei morti", il primo novembre, giorno dei ricordi dolorosi affettuosi, delle memorie, della preghiera, possono diventare lo scenario dei terrori più antichi dell' uomo. Numerosi cimiteri devono la loro fama proprio a queste caratteristiche, in tutto il mondo, ovviamente anche in Italia. Il terrore non è provocato solo per eventuali avvistamenti spettrali, ma viene evocato dalla loro storia, particolare, o dalle strane decorazioni che vi si trovano, oppure dallo stato di abbandono in cui a volte versano, come per esempio il cimitero di San Finocchi, a Volterra, o a Colombara, in provincia di Vercelli, camposanto costruito nel XVI secolo e detto cimitero delle rane per la numerose presenza di questi animali. Basta pronunciare la parola Salem e subito si pensa alla caccia alle streghe. Per cui l' aura di soprannaturale e di misterioso è assicurata. In questa città del Massachusetts anche solo una sbirciatina all' Howard Street Cemetery provoca già robusti brividi, soprattutto se si sosta davanti alla tomba di Giles Corey, che nel 1692 morì a Salem per via delle torture subite durante un processo di stregoneria. Corey, prima di lasciare questo mondo, lanciò una terribile maledizione sulla città. E ancora oggi in molti sostengono di averlo visto passeggiare tra le tombe. Altrettanto noto è il cimitero londinese di Highgate, considerato uno dei più inquietanti al mondo. La sua estensione, le sue architetture vittoriane influenzate dalla passione dell'epoca per l'esoterismo e dell' antico Egitto, continuano a impressionare e a dare sfogo alle più allucinate fantasie. Anche Bram Stoker, l'autore del romanzo Dracula, ha probabilmente immaginato il suo conte vampiro proprio mentre passeggiava da quelle parti. Meno conosciuto, ma ugualmente inquietante, è il Cimitirul Vesel, il Cimitero Allegro, a Sapanta, in Romania. A dispetto del nome e dei ritratti colorati e vivaci dei defunti, in realtà qui sono sepolte molte vittime della Seconda Guerra del successivo regime comunista, per cui lo stridente contrasto con i colori vivace rende l' atmosfera ancora più deprimente. L' Antico Cimitero Ebraico di Praga ha ispirato un numero infinito di racconti e leggende. Del resto, anche il numero dei sepolti è avvolto nel mistero, perché ci sono strati e strati di lapidi e tombe, uno sopra l' altro. Si calcola che siano presenti i resti di almeno 100.000 sepolture. E dunque non appare sorprendente che si parli di fenomeni paranormali verificatisi in questo luogo. E ancora a Okunoin in Giappone, dove, tra le altre cose, abbondano le sepolture di bambini segnalate da statue abbigliate con gli indumenti dei piccoli defunti, o a Chamula in Messico, dove il cimitero è cattolico, ma qui anche gli sciamani possono praticare i loro riti sacri, anche con sacrifici di polli, di cui poi si trovano i resti sparsi tra le tombe. In Italia abbondano cripte e catacombe, in cui l' atmosfera drammatica si combina con una tradizione ricca di storie e avvenimenti straordinari. Nella Cripta dei Cappuccini di Palermo, circa 8000 mummie rivestono le pareti, festoni di ossa e di crani compongono uno dei più formidabili "memento mori" di ogni epoca. in questo tripudio della morte si distingue il corpo mummificato di Rosalia Lombardo, morta di polmonite a due anni nel 1918. Grazie a un particolare processo di mummificazione, il volto della bimba pare solo addormentato e sembra che, durante il giorno, apra e chiuda gli occhi. Sono state messe delle telecamere per verificare il fenomeno, ma un spiegazione chiara ancora non è possibile. C' è chi grida al miracolo, e chi scientificamente parla di un fenomeno legato alle variazioni di umidità. In ogni caso, assistere alla scena è una bella emozione, degna di un Halloween che si rispetti. 

Mario Fabbroni per leggo.it il 31 ottobre 2019. In poco più di 10 anni, dal 2008 al 2019, il vertice della classifica delle paure e delle fobie si è soltanto scambiato di posizione. Perché buio e volare restano saldamente in cima alle cose che spaventano di più gli italiani. Dopo aver analizzato i Google trend (inserendo tra i temi di ricerca le parole paura di, del, delle. e selezionando alcune query più frequentemente associate), il centro studi della Coop ha stilato un'interessante graduatoria delle 40 paure più ricorrenti tra gli abitanti del Belpaese. Alcune sono ancestrali: come quella del buio o quella del volo in aereo, che hanno sempre occupato il podio delle ricerche su Google. Ma, già alla terza posizione, in un decennio si è passati dal timore di perdere il posto di lavoro (riscontrato nel periodo gennaio-ottobre 2008, quindi all'inizio della crisi economica) alla fobia di essere aggrediti dai cani (gennaio-ottobre 2019), evidentemente in coincidenza con il notevole aumento del numero di bestiole presenti nelle case degli italiani. Cani che - nella top 40 - è l'unico animale domestico temuto: gli altri sono farfalle, api, serpenti e ragni, cui si affianca nel 2019 la prepotente risalita dei topi, in crescita nelle ricerche sul web per lo stato di abbandono di alcune città italiane in conseguenza delle varie crisi nella raccolta dei rifiuti. Nonostante il boom dei social media e della connessione globale, cresce abbastanza la paura della solitudine di pari passo con il timore del cambiamento. Finita qui? Macché. Sebbene la medicina allunghi costantemente l'aspettativa di vita, la fobia delle malattie passa dal sesto al quarto posto. Il timore della guerra (ovvero di un conflitto che veda coinvolta l'Italia) è precipitato al 36° posto. Lo stesso vale per la paura dello straniero che, in un rilevamento di appena due anni fa era alla posizione numero 30 ed ora è sceso in terz'ultima posizione. Eppure i migranti sono al centro della battaglia politica tra gli schieramenti. Interessante anche un altro dato della ricerca di Italiani.coop: un torinese su due infatti quando va su Google digita qualcosa che ha a che fare con le paure. Al secondo posto Bologna e al terzo Palermo. Eppure la regione più intimorita è la Sardegna, seguita a ruota da Liguria, Piemonte e Toscana.

·         Il sonno eterno di Rosalia.

IL SONNO ETERNO DI ROSALIA. Da Viaggiamo.it il 20 Agosto 2019. Un viso praticamente intatto nonostante la morte: è un’espressione perfettamente calzante per la piccola Rosalia Lombardo, deceduta a causa di una polmonite batterica poco prima del suo secondo compleanno. Lo stato di conservazione di questa bambina mummia rappresenta un caso unico, grazie ad un’imbalsamazione che non ha richiesto manipolazioni successive: cadaveri altrettanto ben mantenuti nel tempo come quelli di Lenin e di Evita Perón, infatti, hanno ricevuto più volte dei trattamenti a cadenze regolari.

Storia di Rosalia Lombardo. Ma cosa ha di speciale la mummia “più bella del mondo”, che riposa a Palermo, nelle Catacombe della Chiesa di Santa Maria della Pace? Il padre di Rosalia aveva chiesto al suo amico Alfredo Salafia di imbalsamarne il corpo: il chimico, infatti, aveva una passione per le tecniche conservative delle salme ed aveva esaudito con perizia il desiderio di Mario Lombardo. La formula della sostanza utilizzata per questi scopi è stata ritrovata grazie agli appunti del professore, corredati di illustrazioni e salvati da una discendente, che evidenziano una grande innovazione per quel periodo. Si tratta di una soluzione iniettabile, perfettamente in linea con le norme igienico-sanitarie coeve e odierne, a base di formaldeide (contro i batteri), acido salicilico saturo in alcool (anti-micotico), glicerina (sostanza emolliente, contro l’essiccazione dei tessuti) e sali di zinco (assicurano l’irrigidimento del cadavere), le cui proprietà antisettiche e conservative erano di recente scoperta e già dimostrate da Salafia durante alcuni convegni negli Stati Uniti d’America. Gli usi del tempo, infatti, ricadevano sul latte di calce oppure sull’arsenico e sul mercurio, altamente nocivi per l’imbalsamatore. Scoprire la composizione chimica si è rivelato indispensabile poiché, in seguito alla sostituzione del vetro che ricopriva la teca della bambina mummia e successiva sovrapposizione di un’altra lastra, sono apparsi alcuni segni di un principio di degrado. La pelle scurita e con qualche chiazza in seguito a fenomeni di foto-ossidazione, capelli più chiari per l’azione della luce artificiale (quelli di Rosalia erano castani) e leggero cambiamento della forma del viso. Questi elementi hanno portato l’antropologo messinese Dario Piombino-Mascali a collaborare con altri illustri scienziati per contrastare questo processo. In seguito alle rilevazioni ai raggi X, che hanno confermato una sostanziale integrità degli organi interni della piccola Rosalia, gli studiosi sono arrivati alla progettazione di un alloggio perfettamente sigillato con azoto allo stato gassoso: lo scrigno è stato spostato dalla cappella ad una zona interna alle catacombe, con un tenore di umidità decisamente più basso.

Rosalia Lombardo leggende. Nel sud Italia ed in particolar modo in Sicilia, si riteneva che le anime dei defunti proteggessero le famiglie, ragion per cui era sempre viva l’usanza di trattare le salme mediante imbalsamazione: questo nonostante tale pratica fosse già vietata al momento della morte di Rosalia Lombardo. La piccola, infatti, si trova insieme ad altri corpi, molti dei quali si sono conservati in modo naturale: dopo un drenaggio dai liquidi cadaverici mediante scolatura ed essiccazione al chiuso per sette-otto mesi, venivano lavati con aceto, disposti all’ aria aperta e, infine, vestiti. La bambina mummia, comunque, è diventata protagonista di leggende: le telecamere di videosorveglianza e, successivamente, alcune sequenze di fotografie scattate ad intervalli di circa un minuto, hanno rilevato che la salma di Rosalia muoveva le palpebre più volte al giorno; molti hanno gridato al miracolo, pensando addirittura che la morte non fosse mai avvenuta. Prima del trasferimento delle spoglie nella nuova teca, gli addetti ai lavori ipotizzavano un’influenza del tasso di umidità all’interno delle catacombe, ma il dottor Piombino-Mascali sostiene che si tratti di un’illusione ottica, dovuta al cambiamento dell’angolazione della luce durante la giornata, anche perché gli occhi della bambina non sono mai stati aperti.

·         Non c’è Diritto a morire.

Edoardo e Vieri Boncinelli affrontano i dilemmi della longevità umana. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 da Corriere.it. Come è stato possibile che l’antica Roma abbia saputo conquistare buona parte del mondo allora conosciuto? E che l’abbia fatto 2.000 anni fa? A maggior ragione se considerate che allora — ce lo ricordano Edoardo e Vieri Boncinelli con L’età conquistata (Solferino) — la speranza di vita alla nascita era intorno ai 27 anni. Oggi arriviamo (sempre qui in Italia) a 80,8 anni gli uomini e a 85 le donne. Parliamo di vita media e il libro dei Boncinelli è un po’ la storia dei nostri anni guadagnati con un interrogativo sullo sfondo, intrigante e con una punta di perfidia «dove vogliamo arrivare?» o meglio «dove potremo arrivare?» A 120? O forse a 130? «L’età conquistata. Perché abbiamo guadagnato più di vent’anni di vita. E come viverli meglio» di Edoardo e Vieri Boncinelli (Solferino, pagine 304, euro 18)Vediamo. Se vi chiedessero le tre cose che nell’ordine hanno contribuito di più ad allungare la nostra vita sapreste rispondere? Niente paura, lo fanno i Boncinelli per voi, ecco qua: 1) il sapone, con cui abbiamo imparato a lavarci le mani; 2) il fatto che, quantomeno da noi, c’è abbastanza cibo per tutti (e il frigorifero per conservarlo); 3) i vaccini, niente nella storia della medicina che abbia salvato tante vite. A questo punto vi chiederete: «Dato che abbiamo anche tantissime armi oltre a queste tre, lavoro meno logorante per esempio (certo meno di chi costruiva templi o combatteva nelle legioni romane) e poi farmaci e chirurgia e tanto d’altro, non sarebbe possibile ritardare il processo di invecchiamento?». Nato a Rodi (oggi Grecia, all’epoca possedimento italiano) nel 1941, il genetista Edoardo Boncinelli ha insegnato all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed è una firma del «Corriere della Sera» I Boncinelli rispondono a questa domanda servendosi di un’immagine molto efficace «la natura non ci fa invecchiare, ci lascia invecchiare». Perché succeda però ci dobbiamo mettere anche un po’ del nostro. «Sarebbe a dire?». Beh, non vorrei dirvi proprio tutto, lo dovrete scoprire voi, ma ci vorrà un po’ di pazienza perché tutto quello che si può fare per invecchiare bene non lo trovate subito, ma solo verso la fine. Nato a Firenze nel 1944, Vieri Boncinelli, autore di diversi saggi, è presidente del Comitato scientifico della Federazione italiana di sessuologia scientificaMa non è tutto oro quello che luccica, invecchiamo e ci sono pochi bambini, e allora? Ci viene in soccorso Luciano De Crescenzo: «Prima c’erano quattro giovani che lavoravano per mantenere un vecchio, ora ci sono quattro vecchi che si fanno mantenere da un giovane». Meglio non invecchiare allora? Non proprio, anche perché sin dalla preistoria sono gli anziani i depositari della saggezza, quelli che danno stabilità alle prime società, e l’evoluzione offre alla longevità un vantaggio competitivo perché le conoscenze possano essere tramandate. E chi protegge i piccoli, coloro che sono destinati a raccogliere la saggezza di chi è vissuto prima di loro? L’attrazione fra maschio e femmina, quello che chiamiamo «amore» che è una sorta di prolungamento della vita intrauterina a difesa della prole. E vi siete chiesti mai perché le donne vivono più a lungo degli uomini? È una questione di evoluzione legata al fatto che «per aiutare i genitori a crescere i figli, le nonne sono più importanti dei nonni». Questa è una parte molto bella e originale del libro che scoprirete leggendolo, vi basti sapere che l’uomo per procreare e prendersi cura dei piccoli ha bisogno soprattutto di ossitocina; un ormone prodotto dall’ipotalamo che fra l’altro favorisce l’allattamento, ma anche i momenti che precedono tutto questo (come l’erezione e l’orgasmo). L’ossitocina condiziona anche tanto d’altro dei nostri comportamenti, la capacità di prendersi cura del neonato soprattutto, ma anche di tenere sotto controllo l’ansia, tutto questo nei momenti che precedono il parto e subito dopo è davvero prezioso. Voler guadagnare vita, ma anche volerla vivere al meglio, implica averne coscienza e avere coscienza del fatto che un giorno o l’altro finirà ma intanto saperne apprezzare tutte le sfumature. Chi meglio degli artisti per arrivarci che manco a dirlo sono anche molto spesso dei grandi vecchi — Donatello, Giovanni Bellini, Claude Monet, Henri Matisse, Emil Nolde — loro devono aver avuto una vita intrauterina speciale fra l’altro, se è vero che i primi nove mesi della tua esistenza ne condizionano il resto. Resta il fatto però che «invecchiare è inevitabile, cerchiamo di farci l’abitudine e godiamo di quello che possiamo avere a qualunque età» come sosteneva Andrei Weil, un professore di Medicina dell’Arizona. Ma non ci stanno dicendo ad ogni pie’ sospinto che oggi gli organi si possono riparare con le cellule staminali? Perché non farlo allora? Non è così semplice. La natura sa riparare i tessuti e gli organi dei neonati e dei bambini, molto meno quelli degli adulti, e i Boncinelli ci spiegano anche perché e che cosa ci possiamo aspettare quando ne sapremo di più. Come se non bastasse, con l’età aumentano le probabilità di sviluppare un tumore in quanto si accumulano piccoli ma continui insulti tossici che rendono le cellule sempre più vulnerabili, è probabile che in un futuro non vicinissimo troveremo la soluzione al problema dei tumori ma quasi certamente non verrà dai farmaci. «I nostri geni non si curano di noi, a loro interessa passare ai nostri figli e per farlo non esitano ad eliminarci», scriveva Jarle Breivik che è professore all’Università di Oslo. A noi più che il corpo dovrebbero interessare invece i nostri pensieri e la nostra coscienza, è questo forse che sarebbe bello tramandare, più che qualunque altra cosa. Ma ammettiamo che fra prevenzione e nuove cure un giorno il problema dei tumori si risolva, l’organismo dovrà trovare comunque il modo di uscire di scena. E così aumenteranno i casi di Alzheimer o più in generale di decadimento cognitivo legato all’età, certe parti del nostro cervello muoiono senza che sappiamo fino in fondo il perché e senza che ci siano cure. Almeno fino a quando — ci dicono i Boncinelli — un piccolo computer, così piccolo da non dar fastidio, potrà essere associato al nostro cervello (dentro o fuori) e consultato periodicamente in caso di necessità. Ma varrà davvero la pena di conquistare tutta questa vita? Dipende. Un po’ anche dal fatto che — di tutti gli animali che popolano la terra — siamo noi gli unici dotati di coscienza che vuol dire però preoccupazione ed eventualmente depressione per la vita che si allunga, ma anche capacità di pregare (e vale per tutte le religioni, da sempre nella storia dell’umanità). Così il libro ti aiuta a riflettere sul valore della vita, la nostra, ma anche quella dei miliardi di microrganismi che vivono con noi e per certi versi danno senso alla nostra vita, al punto che non vivremmo senza di loro. La parte finale del libro la lascio a voi, gli autori ammantano di scienza la saggezza popolare («una mela al giorno leva il medico di torno» e ancora «ci si dovrebbe sempre alzare da tavola con un po’ di fame») e raccontano come evitare i pericoli e le insidie dell’invecchiare con tanti consigli pratici per proteggere il corpo e per proteggere la mente, anche se forse non li si dovrebbe trattare come due entità distinte (della biochimica della mente oggi si sa molto di più di quanto non se ne sospettasse anche solo un tempo), la mente è frutto di reazioni chimiche come lo sono i sentimenti e le emozioni. E ora ammettiamo che uno di noi faccia tutto ma proprio tutto quello che suggerisce questo libro e che non abbia familiarità per malattie associate a morte prematura. Quanto potrà vivere? 115 anni, non di più probabilmente, per i danni al Dna che si accumulano col passare del tempo e che qualche volta riusciamo a riparare altre volte no, a patto di non fumare, bere poco e mangiare in un certo modo, insomma oltre un certo limite non si va, ha scritto Xiao Dong su «Nature» di qualche anno fa: «Un atleta formidabile può erodere qualche millisecondo al record dei cento metri piani, ma a correre i cento metri piani in cinque secondi non ci arriverà mai nessuno».

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2019. È una nuova tecnica usata nelle emergenze considerate senza speranze, ed è stata applicata per la prima volta su alcune persone arrivate al pronto soccorso in arresto cardiaco dopo aver subìto un forte trauma, come colpi di pistola, coltellate o copiose emorragie da ferite, ovvero che avevano perso più della metà del sangue e il loro cuore aveva appena smesso di battere. È stata denominata "Animazione sospesa", ufficialmente chiamata «conservazione e rianimazione di emergenza», ed è stata considerata praticabile solo in casi estremi, quando cioè ci sono solo pochi minuti per intervenire su un paziente gravissimo in fin di vita o appena morto, quando cioè, in condizioni normali, le possibilità di sopravvivere sono meno del 5%. L' Animazione Sospesa comporta il raffreddamento rapido della temperatura corporea fino a 10/15 *C, sostituendo tutto il sangue con infusioni endovenose di soluzione salina ghiacciata, in modo da interrompere completamente la residua attività cerebrale del paziente, il quale, una volta portato a temperature bassissime, ma non "congelato", viene staccato dal sistema refrigerante e trasferito in sala operatoria, dove i chirurghi hanno due ore di tempo a disposizione per intervenire, operare, riparare ferite, bloccare emorragie, prima che quel corpo, considerato come morto, al termine dell' intervento venga riscaldato, reintroducendo il sangue, e rianimato in modo che il suo cuore si riavvii. Questa nuova tecnica è stata autorizzata dalla Food and Drug Administration americana, che l' ha resa applicabile senza necessità od obbligo del consenso del paziente, poiché, essendo le sue lesioni fatali, viene considerata una sorta di "ultima spiaggia" non esistendo in questi casi un trattamento terapeutico alternativo. L' animazione sospesa era già stata sperimentata su vari animali, e gli studi sui maiali con trauma acuto avevano dimostrato che i suini potevano essere raffreddati per tre ore, ricuciti e rianimati, ovvero riportati in vita attraverso un leggero impulso elettrico diretto al cuore, che iniziava a pompare sangue nel corpo congelato facendo tornare in vita le bestie. Dopo tali risultati negli Stati Uniti si è iniziato a discutere tra scienziati per proporre l' animazione sospesa come extrema ratio sugli umani e i dati incoraggianti hanno fatto sì che la sperimentazione venisse approvata ed applicata su alcuni traumatizzati considerati morti, con risultati a dir poco sorprendenti, perché in pratica è come assistere alla resurrezione di una persona giunta cadavere in ospedale. Quando il cuore smette di battere infatti, il sangue non trasporta più ossigeno alle cellule di ogni distretto corporeo, che iniziano a disattivarsi e a morire, mentre il cervello può sopravvivere da 5 minuti a un' ora dall' arresto cardiaco prima che si verifichi un danno irreversibile, per cui abbassare al minimo la temperatura corporea significa mettere in standby tutti i processi metabolici, rallentare o bloccare completamente tutte le reazioni chimiche cellulari, in pratica congelandole e mettendole in modalità che non abbiano bisogno di ossigeno senza però degradarsi. Il primo intervento su un traumatizzato acuto a cuore fermo è stato effettuato nell' Università del Maryland (Usa) e la notizia è stata riportata dalla rivista New Scientist, dove si specifica che tale tecnica, in America chiamata EPR (Emergency Preservation and Resuscitation) fa parte di un test clinico che dovrebbe "arruolare" almeno 20 pazienti per poter essere poi praticata su larga scala per aiutare a sopravvivere persone che altrimenti non ce la farebbero. Il principio base dell'animazione sospesa si basa sulla scienza nota come "criogenìa" dove le temperature estremamente basse, (ma superiori a quelle di congelamento), indotte artificialmente, possono essere utilizzate per rallentare al minimo indispensabile le normali funzioni vitali senza causarne la morte, ovvero il paziente in criogenia ha ancora un alito di respiro, una bradicardia estrema e funzioni involontarie impercettibili ma presenti, la cui rilevazione però può essere effettuata solo strumentalmente, perché quella persona visivamente appare come morta. Il principio secondo cui il freddo rallenta i processi del metabolismo corporeo è noto da anni, tanto che le persone finite accidentalmente in acque gelide durante i mesi invernali e ripescate, sono sopravvissute e scampate all' annegamento proprio in virtù della sospensione delle funzioni, incluse quelle respiratorie, e con l'animazione sospesa in pratica si induce una sorte di letargo, (diverso però dal principio alla base dell' ibernazione) dove il cuore batte con una frequenza minima o è fermo del tutto, il cervello si trova in una condizione di standby, totalmente incosciente ma ancora vitale. Detto in altri termini questa nuova tecnica permette di guadagnare tempo in operazioni chirurgiche sofisticate e praticate in urgenza ed emergenza, per evitare danni cerebrali permanenti, ed anche se siamo ancora lontani da una procedura funzionale ed affidabile come quella letta e vista in grandi opere di fantasia, ogni obiettivo inizia con un primo piccolo passo. E poi, al di là della fantascienza e di improbabili problemi etici evocati su casi di pazienti appena deceduti e riportati in vita, mi preme ricordare ai lettori che in medicina, sottoporre ad ibernazione un individuo ormai senza vita, è quello che noi medici facciamo ormai ogni giorno con centinaia di organi prelevati da donatori in morte cerebrale, il che significa portarli in condizione di ipotermia controllata in attesa di trapiantarli, nella speranza di riportarli in vita in futuro.

Criogenesi. L'Ibernazione Umana. Alice Scaglioni per corriere.it il 25 novembre 2019. Tutti conoscono la storia della Bella Addormentata. Sopita per cento anni, in attesa di un principe a salvarla, e una volta aperti gli occhi, pronta a vivere una nuova vita accanto al promesso sposo. Al mondo ci sono 377 persone che, nella speranza di risvegliarsi come Aurora, hanno deciso di farsi ibernare una volta passati a miglior vita. Ma come funziona questo procedimento, chiamato criogenesi o criopreservazione? E soprattutto, quanto costa?

Il costo del servizio. A raccontarlo è Filippo Polistena, titolare di un’agenzia di pompe funebri di Mirandola (di proprietà della sua famiglia dal 1860), che è la prima e l’unica in Italia a offrire questa pratica. Dal 2012 infatti la Polistena human cryopreservation — appassionato dei temi legati alla criopreservazione — è la sola referente della società russa KrioRus, una delle tre aziende al mondo che si occupa di effettuare pratiche di criogenesi e di conservare i corpi (o gli organi) ibernati. Il servizio «base» si aggira intorno ai 36 mila dollari. Per prezzo base si intende il pagamento per il trattamento, senza considerare trasporto e altre fasi «preparatorie» se il corpo non si trova nei pressi della società russa. Tutto quello che è avviene prima (e non è contenuto nel contratto) deve essere pagato a parte.

Le possibilità. Si possono poi scegliere due strade per la criopreservazione: il paziente può essere trasportato vivo fino a una clinica privata nei pressi della società KrioRus (e qui essere sottoposto al trattamento) oppure può arrivare cadavere, dopo alcuni accorgimenti impartiti dalla casa madre russa per permettere una successiva criogenesi. Nel secondo caso il «criopaziente» deve essere trasportato in Russia all’interno di un sarcofago su un volo diretto (per evitare perdite di tempo che potrebbero causare deperimento del corpo), per un totale di 7 mila dollari. La società KrioRus ha anche messo a punto un sistema di pagamento a rate, per i clienti meno abbienti: alla firma del contratto (che dura 100 anni) si deve versare un importo pari a 3.600 dollari, e il resto viene dilazionato a rate con un piccolo interesse. Ogni anno, inoltre, il pagamento va indicizzato a seconda dell’inflazione del dollaro.

Il procedimento. In sostanza l’agenzia di Polistena non è altro che un tramite per i pazienti che vogliono farsi ibernare dalla KrioRus. Finora sono stati trattati, e sono conservati, 71 pazienti nella clinica del sonno eterno, di cui 5 vengono dal centro di Mirandola. Ma quali sono le fasi di questo trattamento? Innanzitutto, la criogenesi inizia nella sala rianimazione dell’ospedale in cui si trova il malato in fin di vita. Alla dichiarazione dell’avvenuta morte legale, intervengono i tecnici che, grazie a un’apparecchiatura, ripristinano meccanicamente la ventilazione ai polmoni e l’afflusso di sangue al cervello e somministrano sostanze che evitano ischemie e danni nel tempo. Il corpo viene quindi immerso in acqua gelida per il trasporto e una volta arrivato nella società scelta viene sottoposto a due ulteriori passaggi. Grazie a delle sonde gli esperti monitorano la risposta del cervello ai trattamenti, e poi viene iniettata la soluzione crioprotettiva per evitare il congelamento dei tessuti e degli organi. Il cadavere viene quindi immerso nell’azoto liquido e portato gradualmente a -196 gradi. Secondo i dati aggiornati a febbraio 2019, il ricorso alla criogenesi è aumentato del 10%.

La Consulta e il suicidio assistito: «Sì, ma solo  in pochi casi». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. La sentenza della Corte costituzionale sul «fine vita» non è un via libera al suicidio assistito, come qualcuno paventava, e le 19 pagine di motivazione che accompagnano la decisione presa il 25 settembre scorso sul «caso Cappato-dj Fabo» lo sottolineano in maniera esplicita. «Questa Corte ha escluso che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione», scrivono i giudici della Consulta. E ne spiegano il motivo: la necessità di tutelare le persone, soprattutto le «più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile» come quella di togliersi la vita; anche per scongiurare «interferenze di ogni genere» in momenti di «difficoltà e sofferenze». L’articolo del codice penale che punisce chi istiga o aiuta al suicidio resta dunque in vigore, ma la Corte ha sancito la non punibilità di fronte a situazioni limitate e particolari che corrispondevano al caso specifico del dj Fabiano Antoniani il quale, rimasto cieco e tetraplegico, nel 2017 chiese aiuto all’esponente radicale Marco Cappato per andare a morire in Svizzera. In quella vicenda ricorrevano le condizioni che la Consulta ha posto come necessarie perché l’assistenza al suicidio non sia considerata reato: la persona che chiede coscientemente di essere aiutata a morire dev’essere «affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche» per lui «assolutamente intollerabili», «tenuta in vita da mezzi di sostentamento vitale» e tuttavia «capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Dentro questi confini la Consulta ritiene che «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente, nonché irragionevolmente, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita». La via tracciata dai giudici costituzionali è la stessa imboccata dal Parlamento con la legge che lascia liberi i malati di chiedere l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedazione profonda continuata, tuttavia nella sentenza la Corte non manca di «ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore». Del resto nel 2018 l’udienza al palazzo della Consulta venne sospesa per dare tempo alle Camere almeno di cominciare a discutere una normativa che regolasse il suicidio assistito, tenendo conto di alcuni principi già indicati in un’ordinanza della Corte, ma non accadde nulla. Trascorso un anno, i giudici sono dovuti intervenire «per rimuovere il vulnus costituzionale» che si annidava nella punibilità assoluta e senza deroghe. Ulteriori cautele sono la prescrizione di rivolgersi, per le «modalità di esecuzione», al Servizio sanitario nazionale e il parere necessario del Comitato etico locale. E l’obiezione di coscienza viene garantita dalla precisazione che dalla non punibilità dell’aiuto al suicidio (nei casi delimitati) non derivano obblighi: «Resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato».

 Suicidio assistito, la Consulta dopo dj Fabo: “Non è obbligo per i medici”. Le Iene il 23 novembre 2019. La Consulta si è pronunciata sul suicidio assistito che lo affida alla sensibilità di ogni medico senza prevederlo come obbligo. Le motivazioni sono state pubblicate a due mesi dalla sentenza sul caso di Dj Fabo in cui è imputato Marco Cappato. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato il caso da cui è scaturita la sentenza. "Non esiste alcun obbligo per i medici di procedere a tale aiuto". Piuttosto sta alla loro coscienza prestarsi o meno alla richiesta del malato sul fine vita. La Consulta si è pronunciata escludendo in determinati casi la punibilità dell'aiuto al suicidio. Lo specifica la stessa Corte nelle motivazioni depositate a 60 giorni dalla sentenza sul processo a Marco Cappato per la morte di dj Fabo. Una storia che anche noi de Le Iene vi abbiamo raccontato nel servizio di Giulio Golia qui sopra. A settembre la Corte Costituzionale ha ritenuto non punibile "chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile”, che per lui rischia di diventare solo fonte di sofferenze fisiche e psicologiche. In queste ore la Consulta si è pronunciata su quella "circoscritta area" specificando che "non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento intende proteggere evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio". “Rimane ancora un tratto di strada da compiere per il pieno rispetto della libertà e responsabilità individuale nelle scelte di fine vita”, commenta Filomena Gallo, segretario Associazione Luca Coscioni, difensore e coordinatrice nel collegio di difesa a Marco Cappato. “La Corte costituzionale si è espressa sull'aiuto fornito a una persona (Fabiano Antoniani) che era dipendente da un trattamento sanitario che lo teneva in vita, ma lo stesso diritto deve essere riconosciuto anche ai malati che non sono "attaccati a una macchina", ma che possono trovarsi in condizioni di non inferiore sofferenza e irreversibilità della malattia”. Giulio Golia, che aveva incontrato Fabo (clicca qui per il servizio), ha parlato con Marco Cappato dopo la sentenza: “Le parole di Fabiano da vivo sono state determinanti su tutti quelli che l’hanno visto e sentito. Era un ragazzaccio, avrebbe detto "che grandissimo e bellissimo casino che ho fatto"”. Il servizio della Iena con dj Fabo è stato usato anche durante il processo a Cappato, per dimostrare la libera e ferma volontà di Fabiano di porre fine alle sue sofferenze. Nonostante tutto questo, il Parlamento non ha deciso nulla per ora sull’eutanasia o il suicidio assistito. Sono ancora tantissime le persone che in assenza di una legge sono costrette a fare altre scelte: ogni anno mille malati si suicidano in mancanza di alternative. Il tempo però è scaduto da tempo: le tante persone che soffrono hanno diritto ad avere una legge che permetta loro di morire con dignità. “Come Associazione Luca Coscioni, ci battiamo per chiedere finalmente al Parlamento di discutere e decidere sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell'eutanasia, depositata oltre 6 anni fa da oltre 131mila cittadini, e da allora mai discussa”, aggiunge Cappato. "Se il Parlamento dovesse continuare a girare la testa dall’altra parte, la disobbedienza civile proseguirà".

Maria Sole e il video appello prima di morire: «Una legge sul fine vita». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Prima di morire, ha fatto un video appello: «Chiedo ai politici italiani una legge sul fine vita perché voglio essere libera di scegliere se vivere o morire». Maria Sole Carcione, 63enne fiorentina, malata di Sla è morta lunedì mattina nella sua casa a Firenze . «Non riesco più a vivere in queste condizioni. Il mio corpo è tutto bloccato, muovo leggermente le mani, sono relegata a letto, prigioniera del mio corpo», ha detto nel video pochi giorni prima di morire. In base alla legislazione italiana, una persona non ha diritto di scegliere di mettere fine alla propria vita (per maggiori informazioni leggete qui). Per questo, Maria Sole aveva detto: «Per me è importante andare in Svizzera perché lì mi sentirò di nuovo libera. Non ho più la volontà e la capacità di vivere in questa situazione, ecco perché mi aggrappo alla richiesta ai politici italiani affinché venga fatta urgentemente una legge sul fine vita perché io vorrei essere libera di morire serenamente, di morire in pace». Maria Sole aveva scoperto di essere affetta da Sla qualche anno fa: «Nel 2015 - ha raccontato - ho cominciato a zoppicare al piede sinistro, mi faceva sempre più male e quindi ho fatto tutta una serie di accertamenti. Al termine degli accertamenti, i medici mi hanno diagnosticato la Sla». Prima di morire, ha deciso di lasciare un messaggio ai giovani: «Provo rabbia per quei tanti giovani che non hanno la capacità di capire qual è il dono della vita. Oggi tanti giovani si perdono dietro all’ansia, alla depressione, sono smarriti e disorientati, ma dovrebbero capire quanto è preziosa la vita che hanno davanti e che possono costruirsi, giorno per giorno, apprezzando il valore delle piccole cose, quelle cose come le relazioni umane, l’amicizia, la natura. Io voglio dire ai ragazzi di godersi la vita, perché è davvero preziosa». Maria non aveva paura della morte. «Fa parte del ciclo dell’esistenza - aveva detto - è naturale nascere ed è naturale morire, per lasciare spazio a chi verrà dopo di noi. Io non ho paura di morire, io ho paura di vivere, soprattutto se vivere significa essere prigionieri del proprio corpo senza possibilità di scegliere il proprio futuro». Maria Sole, che aveva trascorso un periodo in un hospice fiorentino ed era seguita a casa negli ultimi giorni dalle equipe di cure palliative, ha ringraziato le persone che in questi mesi le sono state accanto: «Voglio mandare un ringraziamento sentito a medici, infermieri, volontari che in questi mesi, con pazienza e dolcezza, si sono presi cura di me». E poi «i tanti amici e colleghi aziendali che non mi hanno mai abbandonato. E infine un ringraziamento all’associazione Luca Coscioni «per la vicinanza e l’aiuto per poter esaudire il mio desiderio di finire la mia vita in Svizzera».

Lettere dal fine vita: le 772 mail all’Associazione Coscioni. Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Giusi Fasano. Si fatica a immaginarli. Soli, davanti allo spazio bianco di una email. Uomini e donne che scrivono lettere dal loro fine vita. Le dita battono sulla tastiera: «Ormai non riesco più a lavarmi, vestirmi, mangiare, stappare una bottiglia d’acqua...». «Ho dolori atroci e persistenti (...) sono giunto al limite della sopportazione umana». «Ho delle amiche che stanno facendo di tutto per convincermi a lottare ma io non ne ho più la forza». «Ho chiesto tante volte ai medici di aiutarmi a morire ma è stato inutile, sto pensando al suicidio ma ho paura di non riuscirci». Una riga dopo l’altra per raccontare esistenze tenute in ostaggio dalla sofferenza e per chiedere informazioni sulla dolce morte. Sono le email che arrivano alla casella di posta elettronica dell’Associazione Luca Coscioni. Parole messe in fila per chiedere che la morte non torturi la vita che rimane. A marzo del 2015 Marco Cappato e Mina Welby annunciarono la loro disobbedienza civile: avrebbero accompagnato chi chiedeva aiuto per andare a morire in Svizzera con il suicidio assistito. Quella disobbedienza è diventata una campagna dell’Associazione Coscioni (alla quale entrambi sono legati) che da allora in poi ha tenuto traccia delle richieste di aiuto arrivate via email: fino a oggi 772 persone, nessuna anonima, uomini e donne in egual misura, la gran parte fra i 60 e gli 80 anni, ma anche giovani fra i 20 e i 30. Tutti ricevono una risposta. Il più delle volte sono informazioni sulle cure palliative, sull’interruzione delle terapie, sulle leggi e i divieti nel nostro Paese, su contatti e regole delle strutture elvetiche alle quali chi scrive vorrebbe rivolgersi. Davanti a sofferenze psichiche o problemi di depressione cronica si spiega sempre che la via del suicidio assistito è molto difficile anche in Svizzera. Ovviamente non tutti gli autori delle email muoiono come scrivono di desiderare ma mentre descrivono se stessi, la loro vita e la loro non-vita, pensano al suicidio assistito come sola via di fuga dal dolore che provano o che verrà. Uomo, 52 anni: «Ho un tumore raro in metastasi maligna (...) vogliono sperimentare la cura di chemio più aggressiva che ci sia. Proverò a fare questi due cicli, se non ci saranno risposte positive non intendo fare la cavia. Io francamente la fine dei miei, torturati dai medici non la voglio fare. Voglio poter morire in santa pace e come dico io, con dignità e non ridotto a larva umana...». «Sono sposata e madre di tre figli» racconta di sé una donna di 66 anni. «Mi è stato diagnosticato un linfoma prima e la sclerosi laterale amiotrofica dopo (...) Il mio stato di salute, i tumori che mi accompagnano mi portano a decidere di affrontare un fine vita dignitoso, senza aspettare che sia immobilizzata in un lettino come un vegetale ad attendere la morte (...) Vorrei evitare a me e ai miei familiari lunghe, penose e dolorose sofferenze».Qualcuno si fa portavoce di altri: «Il papà della mia compagna ha 95 anni, è su una sedia a rotelle attaccato all’ossigeno. Non ce la fa più, dice di non voler più andare avanti e ci chiede di informarci anche sulla Svizzera. Cosa possiamo fare per aiutarlo? A un certo punto non si può parlare di tortura?».Molti, moltissimi in lotta contro malattie neurodegenerative, fanno riferimento alla storia celebre di Dj Fabo, cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale e accompagnato a morire a Zurigo da Marco Cappato. Tutti sperano — come ha fatto lui — di poter scegliere quando andarsene. Specie se pensano al futuro che li aspetta: «Ho 68 anni e sono affetto da una sindrome che mi porterà alla paralisi anche se non ne conosco i tempi esatti. Vorrei informazioni per poter in futuro porre fine alla mia sofferenza», scrive uno di loro. Una donna si rivolge direttamente a Marco Cappato. «Buongiorno Marco, ti contatto perché siamo disperati per la situazione di nostro padre malato di cancro alle ossa. Continua a chiedermi di te... Non avrei mai pensato di dirlo perché siamo sempre stati contrari ma vedendo soffrire lui ora la pensiamo anche noi come te». La parola più citata è sofferenza. E anche quando non è scritta è lì, fra le righe. Un malato di Sla, 66 anni: «La malattia ha avuto una progressione lenta, poi due anni fa il declino. Non riesco a deglutire e quindi perdo peso, sono 27 chili. Riesco ancora a fare piccoli movimenti e parlare molto, molto lentamente. Soffro come un cane e non c’è modo di accedere alla terapia del dolore perché è riservata solo ai malati oncologici e terminali. Ma il mio cervello, ahimè, funziona anche troppo e pensando a cosa dovrò ancora affrontare desidero solo finire questa mia esistenza. Vorrei le cure palliative e la morte medicalmente assistita...». Non soltanto email per l’Associazione Coscioni. Al centralino di Exit Italia, onlus in contatto con le strutture svizzere per il suicidio assistito, arrivano in media novanta telefonate alla settimana di «gente disperata» che non vuole più vivere, come dice il suo presidente Emilio Coveri. La Corte Costituzionale ha dichiarato non punibile Marco Cappato per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo e il Parlamento — in teoria — dovrebbe ora occuparsi della materia. Ma non lo fa. Mesi, anni di sofferenze indicibili deformano la vita di malati in condizioni gravissime e irreversibili. A volte il dolore può diventare insopportabile, si può anche sognare di morire.

Le forme del fine vita volontario. Dall’eutanasia alla sedazione. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it.

1 Che cos’è l’eutanasia? È l’atto con cui un medico o un’altra persona somministrano farmaci su libera richiesta del paziente consapevole e informato con lo scopo di provocarne intenzionalmente la morte immediata. L’obiettivo dell’eutanasia è quello di anticipare la fine della vita per togliere sofferenza. In Italia è un atto vietato. I Paesi in cui questa pratica ha legittimazione giuridica (Olanda, Belgio, Lussemburgo) prevedono condizioni di gravi patologie inguaribili e di sofferenza fisica o psichica percepita come insopportabile, espressa ripetutamente. È in discussione la possibilità di allargarla a persone con depressione, disagio esistenziale, solitudine.

2 E il suicidio assistito? Si distingue dall’eutanasia perché in questo caso è l’interessato a compiere l’ultimo atto per causare la propria morte, atto reso possibile grazie alla collaborazione di un terzo, anche un medico, che prescrive e porge il prodotto letale nel rispetto delle rigide condizioni previste dal legislatore. La procedura può avvalersi di macchine per aiutare il paziente con ridotta capacità fisica ad assumere la pozione letale. La maggioranza delle volte l’aiuto al suicidio si realizza con l’assistenza di medico, farmacista, infermiere all’interno di strutture di cura (aiuto medicalizzato). All’origine ci deve sempre essere la volontà della persona a suicidarsi senza che vengano esercitate pressioni sulla sua autonomia (istigazione), che il malato abbia sofferenze insopportabili e non esistano prospettive di miglioramento.

3 Qual è la situazione in Europa? Oltre che in Olanda, Belgio e Lussemburgo il suicidio assistito è legalizzato in Svizzera. I cittadini italiani per ottenerlo si rivolgono principalmente alla Svizzera grazie alla facilità di comunicazione linguistica. Le leggi in Olanda non escludono che uno straniero possa richiedere eutanasia ma la procedura di richiesta comporta una buona conoscenza scritta e orale della lingua olandese o inglese del paziente che non può avvalersi di un interprete. Francia, Spagna e Germania hanno legiferato a favore del rifiuto dei trattamenti sanitari e alla sedazione palliativa profonda continua senza spingersi oltre. La richiesta del paziente deve essere volontaria, attuale, libera e informata.

4 Nei più noti casi degli ultimi anni, chi ne avrebbe potuto usufruire? Avrebbe potuto avvalersene Piergiorgio Welby, che era cosciente, ma non la Englaro, in stato vegetativo quindi incapace di esprimere le sue volontà.

5 Che cos’è la sedazione profonda. La sedazione profonda viene praticata con l’uso di farmaci e porta il paziente in una condizione di coscienza ridotta fino al momento del decesso. E’ un trattamento medico sottoposto a condizioni e requisiti specifici indicati da due leggi.

6 Quali erano le norme italiane sul fine vita e cosa cambia con la sentenza? Eutanasia e suicidio assistito sono vietati. Quest’ultimo reato è normato dall’articolo 580 del codice penale che prevede fino a 12 anni di carcere per chi assiste e istiga al suicidio. I due reati sono accomunati ma la Consulta ha indicato la non punibilità — in alcuni casi — di chi accompagna al suicidio. Dal 31 gennaio del 2018 è in vigore la legge su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento (Dat) dove vengono considerati legittimi il rifiuto e la rinuncia informata e consapevole da parte del paziente, espressi anche attraverso un testamento, a qualsiasi intervento sanitario, anche se salvavita (idratazione e nutrizione artificiale).

7 Perché Marco Cappato è sotto processo? Nel febbraio del 2017 ha accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani, il dj Fabo, gravemente disabile e cieco, assecondando la sua ferma richiesta di togliersi la vita con l’assunzione di un farmaco letale che Fabo ha poi preso azionando uno stantuffo attraverso il quale si è iniettato nelle vene il veleno. Cappato è stato accusato di aver rafforzato il proposito suicidario di Fabo e di averne agevolato l’esecuzione, reati previsti dall’articolo 580.

8 Perché l’intervento della Corte Costituzionale? Il 14 febbraio del 2018 la Corte d’Assise di Milano ha posto alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sull’articolo che punisce l’assistenza al suicidio. L’ordinanza della Consulta arriva il 24 ottobre 2018: «L’attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti». La Corte chiede quindi al Parlamento di intervenire con una disciplina specifica entro un anno. La materia viene discussa dalla Commissione Affari Sociali della Camera. L’accordo non si trova, Lega e m5s, maggioranza del precedente governo si mantengono su posizioni opposte. Ecco perché è stata necessaria una sentenza.

9 Quali sono le condizioni indicate dalla Consulta per la non punibilità? Le quattro condizioni necessarie per la «non punibilità» sono quelle del caso concreto — quello di Dj Fabo, appunto — arrivato sul tavolo della Corte: l’aiuto fornito a una persona «affetta da patologia irreversibile», alla quale la malattia provoca «sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili», tenuta in vita da sostegni artificiali e però in grado di compere scelte «libere e consapevoli». In sostanza, la Corte d’assise di Milano ha ora gli strumenti — forniti dalla Consulta — per disapplicare l’antica formulazione della norma che equipara l’istigazione con l’assistenza al suicidio, e comportarsi di conseguenza.

10. Ci sono limiti posti alla «non punibilità»? Sì, e anche questi sono stati indicati dalla Corte Costituzionale. Richiamandosi alla legge del 2017, è stato stabilito che occorre rispettare «le modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua». Inolre, tutte le verifiche sulle «condizioni richieste» e sulle «modalità di esecuzione» dovranno essere fatte da una struttura del Servizio sanitario pubblico e dopo aver raccolto il parere del comitato etico territoriale.

CONSULTA:LECITO AIUTO AL SUICIDIO IN CASI COME DJ FABO.

(ANSA il 25 settembre 2019) - - E' lecito l'aiuto al suicidio nei casi come quelli del Dj Fabo. La Corte Costituzionale ha ritenuto non punibile ai sensi dell'articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, "chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli".

(ANSA il 25 settembre 2019) - La Corte costituzionale ha previsto "specifiche condizioni e modalità procedimentali", perchè l'aiuto al suicidio rientri nelle ipotesi non punibili, "per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell'ordinanza 207 del 2018".Lo si legge in un comunicato della Consulta.

(ANSA il 25 settembre 2019) - Questo il testo integrale del comunicato della Corte Costituzionale sul fine vita. "La Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d'assise di Milano sull'articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell'aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. In attesa del deposito della sentenza, l'Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell'articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. La Corte sottolinea che l'individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell'ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell'ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate".

«Fine vita», la Consulta: «Non è punibile chi agevola il suicidio assistito». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 su Corriere.it. La Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. Dettando però condizioni precise. La Corte, dopo che nel 2018 aveva rinviato la decisione chiedendo un intervento del Parlamento con una nuova legge, ha ritenuto non punibile (ai sensi dell’articolo 580 del codice penale), ma solo a patto che siano rispettate determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale o affetto da una patologia irreversibile, che causi di sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili. Il paziente, però, deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Sistema sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. La Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone particolarmente vulnerabili: concetto già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni equivalenti a quelle indicate. «La Consulta ha deciso: chi è nelle condizioni di dj Fabo ha diritto a essere aiutato. Da oggi siamo tutti più liberi, anche chi non è d’accordo. È una vittoria della disobbedienza civile, mentre i partiti giravano la testa dall’altra parte». Ha commentato immediatamente dopo la sentenza in un tweet Marco Cappato. «Accolgo questo atteso pronunciamento con soddisfazione. Dà ragione ad una battaglia di libertà che io e Fabiano abbiamo iniziato anni fa insieme. Fa sentire un po' meno il peso di tutta quella sofferenza che ha passato. È senz'altro una risposta positiva. Oggi è un bel giorno»: le parole di Valeria Imbrogno, compagna di Fabiano Antonioni (dj Fabo), morto in Svizzera con il suicidio assistito il 27 febbraio del 2017. «La Corte costituzionale apre la strada finalmente a una buona normativa per garantire a tutti il diritto di essere liberi fino alla fine, anche per chi non è attaccato a una macchina ma è affetto da patologie irreversibili e sofferenze insopportabili, come previsto dalla nostra proposta di legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale depositata alla Camera dei Deputati nel 2013». Così l'avvocato Filomena Gallo, segretario associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio di difesa di Marco Cappato. «Mi auguro che finalmente il Parlamento si faccia vivo - prosegue -. Noi andremo avanti».

Fine vita, sentenza storica: "Suicidio assistito lecito per casi come Dj Fabo". La decisione della Consulta. Per avere aiutato dj Fabo ad andare in Svizzera, Marco Cappato rischiava 12 anni. Susanna Turco il 26 settembre 2019 su La Repubblica. Da oggi, chi si trova nelle condizioni che furono di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, può essere aiutato a morire senza bisogno di andare in Svizzera, come fu costretto a fare lui. E chi vuole rispettare la volontà del malato aiutandolo a realizzarla, come ha fatto Marco Cappato, può farlo senza dover rischiare dodici anni di galera. Con una sentenza che Beppino Englaro ha definito «storica», e che arriva grazie alla lotta radicale dell'Associazione Luca Coscioni guidata da Cappato e da Filomena Gallo, ieri sera dopo le otto la Corte costituzionale ha depenalizzato l'aiuto al suicidio, in alcuni casi ben precisi. La decisione arriva dopo un anno di attesa, che la Consulta aveva concesso al Parlamento per legiferare: mesi che sono trascorsi invano. Anche se, come si sottolinea nell'annuncio della decisione, una legge «resta indispensabile». La Corte infatti si è limitata a ridurre il perimetro dei casi in cui è punibile l'aiuto al suicidio di chi abbia già deciso «autonomamente e liberamente» di togliersi la vita. Deve trattarsi di un paziente «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», «affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Irreversibilità, dipendenza da trattamenti o macchine per restare in vita, consapevolezza, intollerabilità della vita per come è. Non quindi, una legge che regoli l'eutanasia vera e propria. E molte cose ancora mancano, come ad esempio una normativa sull'obiezione di coscienza da parte dei medici. Dovrà essere ora il Parlamento ad agire. Sempre che riesca.

Mario Ajello per “il Messaggero”il 26 settembre 2019. Una legge? Una parola fare la legge e farla in fretta. La Cei ha sferrato subito l'attacco esprimendo «sconcerto» e «distanza» e invocando l'obiezione di coscienza. In realtà, nulla sulla depenalizzazione del suicidio assistito è stato incardinato in Parlamento - nove disegni di legge, sei alla Camera e tre al Senato ma tutto deve ancora cominciare - e se la maggioranza giallo-verde, quella di prima, aveva una divisione abbastanza netta, M5S per lo più su posizioni liberal-radicali e Lega fortemente schierata rosario in mano a favore delle posizioni della Chiesa, il nuovo tandem rosso-giallo è diviso al suo interno e anche dentro i vari partiti. Per non dire dei nuovi arrivati di Italia Viva, dove Matteo Renzi ai suoi dice che «la materia è delicatissima e guai a improvvisare. Dobbiamo leggere bene la sentenza della Consulta, e non basta il dispositivo, dopo di che cominceremo ad affrontare anche questa questione con l'estrema accortezza che merita». Visto il profondo impatto popolare di un tema come questo. Il suicidio assistito ha una sua specificità molto particolare e non è passibile almeno teoricamente di disegni propagandistici, come dicono tutti: ma quello che per ora non dicono è che il rischio che in Parlamento finisca sul binario morto è alto. Il fronte politico è tagliato trasversalmente dall'argomento. Che può diventare, per esempio, l'ennesima frattura tra un Berlusconi sempre più in fase liberale e Salvini che ha schierato da tempo il suo partito sulla barricata confessionale da cui non intende affatto scendere. «Faremo opposizione durissima verso qualsiasi cedimento al laicismo e al disprezzo della vita», sono le reazioni ai vertici del Carroccio in queste ore della post-sentenza della Corte. Il presidente della commissione Giustizia del Senato è il leghista Andrea Ostellari, e lì sarà l'epicentro della resistenza catto-lumbard: «Non faremo passare nessuna legge contro la vita», è il grido di battaglia. Anche di Fratelli d'Italia.  Il coro del «subito una legge» si scontrerà proprio con questo insieme di tante sensibilità difficili da ricondurre a una. Basti pensare che dentro il Pd, le sensibilità di un liberale doc a-confessionale di provenienza Pli, come il presidente dei senatori Andrea Marcucci il quale ha subito gioito per il pronunciamento dei giudici costituzionali, non collima con quella del cattolico democratico Delrio, suo pari grado alla guida del gruppo della Camera. E se nei 5Stelle la linea permissiva sul fine vita è prevalente, anche lì si è decisi a fare di tutto per non aggiungere un tema così delicato alla delicatezza dei rapporti interni e di quelli tra alleati. Le proposte di legge pentastellate infatti contemplano tutte anche l'eutanasia, mentre la posizione ufficiale del Pd è più orientata all'ipotesi di depenalizzazione del suicidio assistito in alcuni casi specifici. Tra i dem ci sono però due correnti di pensiero: c'è chi è a favore anche dell'eutanasia e chi non vuole perdere contatto con il mondo cattolico. Il legiferiamo subito e bene è dunque un proposito virtuoso che si scontrerà con le reali condizioni e convenienze politiche. Oltretutto una legge in linea con la sentenza della Consulta creerebbe dei problemi al premier Conte di cui la Chiesa è uno dei grandi puntelli. La linea di Palazzo Chigi infatti è questa: «Si tratta di una questione prettamente parlamentare e in nessun modo il governo entrerà nel dibattito e negli sviluppi legislativi del fine vita». Che poi è anche quello che Conte ha detto nel discorso alle Camere per la fiducia. Ed è inutile dire che questa è anche, in ossequio alla fedeltà costituzionale, la condotta che adotterà la Presidenza della Repubblica.

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 settembre 2019. Sconcerto e preoccupazione sono gli stati d'animo nella Chiesa, al di qua e al di là del Tevere, dopo la decisione della Consulta che apre al suicidio assistito. Da via Aurelia, sede della Cei, è arrivata prima la reazione a caldo di rabbia e presa di «distanza». Poi ieri, per bocca del segretario generale monsignor Stefano Russo, è stato rilanciato un punto inderogabile: l' inserimento della libertà di obiezione di coscienza nella futura normativa. Mentre a Casa Santa Marta, residenza di papa Francesco, c' è turbamento su come i temi del fine vita vengono regolati in vari paesi. Compresa ora anche l' Italia. Trapela dall' entourage del Pontefice, e con una conferma inequivocabile nelle dure parole di Bergoglio pronunciate in questi giorni delicati. Quando mancavano meno di 96 ore alla riunione decisiva della Corte Costituzionale, il Papa, ricevendo la Federazione nazionale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, affermava senza mezzi termini: «Si può e si deve respingere la tentazione - indotta anche da mutamenti legislativi - di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l' eutanasia». Una delle chiavi di lettura del pensiero di Francesco, ricorda un suo collaboratore, è nei ripetuti appelli contro «la cultura dello scarto». Per il Pontefice dare la morte o aiutare a raggiungerla sono due strade «sbrigative» di fronte a scelte «che non sono espressione di libertà, quando includono lo scarto del malato come possibilità», o una «falsa compassione» di fronte alla richiesta «di essere aiutati ad anticipare la morte». Altro concetto espresso una settimana fa. Un alto prelato ci spiega che la difesa della vita è un tema «centrale per il pontificato», e più volte, «al contrario di ciò che sostengono i suoi oppositori della galassia conservatrice, Francesco è stato chiaro e perentorio, anche in modo non diplomatico». Nei sei anni e mezzo di udienze generali più volte ha lanciato moniti e richiami, come quello sulle «vicende di Vincent Lambert e Alfie Evans, dei quali ha citato i nomi: fatto eccezionale nella storia degli interventi papali». Uno dei problemi che rileva Bergoglio è «l' insufficienza della politica in merito - ci rivela un altro monsignore - in America Latina come in Europa: lasciare in mano a poteri paralleli, seppure legittimi e costituzionali, li porta addirittura a legiferare. Questo avviene perché i politici non si assumono le proprie responsabilità, per motivi soprattutto elettorali». Dunque il Papa «guarda con grande attenzione a ciò che accade in vari paesi, ed è preoccupato». E per lui una delle strade da percorrere è il rafforzamento dell' efficacia e della diffusione delle «cure palliative». Certo non lo entusiasma la strategia delle «battaglie per i principi non negoziabili». Il Papa ha ribadito più volte che «la difesa della vita deve essere integrale», perché «non è pienamente corrispondente al Vangelo mettere in atto campagne, giuste e necessarie, come quella contro l' aborto ma senza pensare anche ad altre situazioni in cui si attenta all' esistenza: popoli affamati, bambini soldato, guerre», evidenziano nel suo entourage.

Cultura della morte. Sul versante italiano, per il segretario della Cei con la sentenza delle Corte «si creano i presupposti per una cultura della morte in cui la società perde il lume della ragione». La Cei invoca «paletti forti». Uno imprescindibile è la garanzia della libertà di obiezione di coscienza: «Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle». I vescovi saranno «attenti e vigilanti» nel caso di un passaggio parlamentare. Russo aggiunge che comunque tutto questo non ha creato «una frattura» tra la Cei e le istituzioni. Nel frattempo insorgono i medici cattolici: «Siamo oltre 4mila e faremo obiezione di coscienza», annuncia Giuseppe Battimelli, vicepresidente della Federazione. Con il sostegno dell' associazionismo, da cui continuano a levarsi disapprovazioni e irritazione. E la rettifica diramata ieri dalla Consulta sembra aggravare la questione: «Ha segnalato come la non punibilità dell' aiuto al suicidio non riguardi solo le sofferenze fisiche ma anche le sole sofferenze psicologiche», così «amplia le letture interpretative delle richieste di aiuto al suicidio», spiega il presidente di Scienza & Vita Alberto Gambino. Parole durissime arrivano da don Aldo Buonaiuto, della Comunità Papa Giovanni XXIII: «Ogni totalitarismo intraprende il proprio cammino di morte sopprimendo chi "non serve"». Mentre per Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano Lavoratori, «lascia impietriti la vocazione da Ponzio Pilato dimostrata dal nostro Parlamento al quale non sono bastati 11 mesi per legiferare».

Fine vita, malato di Sla scrive al Papa: «Quando la sofferenza è troppa c’è un’unica soluzione, andarsene». Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. «Quando il dolore fisico ti fa urlare ma non puoi perché non hai voce e il dolore resta facendoti impazzire, caro Francesco, allora comprendi che c’è un’unica via d’uscita: andartene». Il destinatario del messaggio, all’indomani della sentenza della Consulta sul suicidio assistito, è papa Bergoglio. L’autore è un malato di Sla, cattolico praticante: si chiama Gianfranco Bastianello, ha 63 anni ed è stato colpito dalla malattia quando ne aveva 14. Il che non gli ha impedito, almeno fino a un certo punto di lavorare (è stato responsabile della comunicazione dell’hotel Danieli di Venezia) e di impegnarsi nelle battaglie a favore dei disabili. «Scrivo a Papa Francesco - spiega - delle conseguenze della sofferenza perché la conosco molto da vicino, anche nell’assistenza di tanti disabili. Eutanasia o suicidio assistito non sono soluzioni di comodo o sbrigative». E aggiunge: «Il diritto di vita o di morte lo ha solo Dio? Ma Dio oltre il sopportabile non lo può permettere. La vita è sacra? Ma che sacralità c’è in questa sofferenza sempre non voluta e cercata? Nulla di sbrigativo e di comodo, ma solo l’unica scelta possibile». Ma sulla decisione della Consulta arriva la forte presa di posizione della Cei: «Non comprendiamo come si possa parlare di libertà. E a proposito di libertà, chiediamo la possibilità per i medici di essere obiettori di coscienza. Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle», sono le parole del segretario generale Stefano Russo. «Qui si creano i presupposti per una cultura della morte, in cui la società perde il lume della ragione. Stiamo assistendo a una deriva in cui il più debole viene indotto in uno stato di depressione e finisce per sentirsi inutile. Aspettiamo di vedere il dispositivo della sentenza, ma speriamo che ci siano dei paletti forti». E comunque «il Codice deontologico dei medici non prevede la possibilità di decidere sul fine vita». Dopo il primo «sconcerto» per l’apertura al suicidio assistito, espresso nella nota diffusa a caldo, il comunicato finale del Consiglio Permanente rileva che «i vescovi hanno unito la loro voce a quella di tante associazioni laicali nell’esprimere preoccupazione a fronte di scelte destinate a provocare profonde conseguenze sul piano culturale e sociale», oltre ad avere ripreso le parole di Papa Francesco, che sul tema ha detto: «Si può e si deve respingere la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Spiega la nota della Cei: «Consapevoli di quanto il tema si presti a strumentalizzazioni ideologiche, i vescovi si sono messi in ascolto delle paure che lacerano le persone davanti alla realtà di una malattia grave e della sofferenza. Hanno riaffermato il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Alla Chiesa sta a cuore la dignità della persona, per cui i Pastori non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Il senso della professione medica è di servire la vita».

Fine vita, la lunga battaglia di Piergiorgio, Eluana e Fabo. Simona Musco il 24 Settembre 2019 su Il Dubbio. Tredici anni di lotte per il diritto a morire. La prima storia di questo lungo percorso è quella di Welby, che la sua lotta l’ha vinta il 20 dicembre 2006: giorno in cui è morto. “Ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”, diceva Leonardo Sciascia. Una frase che sembra riassumere la storia di Piergiorgio, Eluana, Fabo e tutti gli altri nomi diventati simbolo di una battaglia per i diritti. Quello di avere una vita dignitosa, quello di porre fine alla sofferenza. Il diritto di scegliere come vivere e come morire. Un diritto finora negato, strappato quasi con la forza da chi negli ultimi 13 anni ha provato a trasformare il proprio dolore in un insegnamento, nonostante le fatiche del corpo. «Quando la vita non è più vita, ma è solo un movimento del cuore, respirazione, digestione, ma non si ha più il contatto, la partecipazione, la gioia di stare con gli altri, allora non c’è più davvero vita, non c’è più dignità. Ed è il momento di lasciar andare», diceva al Dubbio, qualche mese fa, Mina Welby, moglie di Piergiorgio. Parole pronunciate all’indomani del parere del Comitato nazionale di Bioetica, che ha aperto alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito in Italia, distinguendolo dall’eutanasia, dandole la speranza di poter vincere la battaglia iniziata dall’uomo che ha amato tanto da aiutarlo a morire. La prima storia di questo lungo percorso è proprio quella di Piergiorgio Welby, che la sua battaglia l’ha vinta il 20 dicembre 2006, giorno in cui è morto. Attivista, giornalista e co- presidente dell’Associazione Luca Coscioni, fu affetto da distrofia muscolare in forma progressiva fin dai 16 anni. Una malattia che, poco per volta, gli impedì di camminare a parlare, costringendolo, nello stadio finale, immobile su un letto, pur rimanendo sempre lucido. Accanto a lui Mina Welby, alla quale Piergiorgio, tracheotomizzato e attaccato ad un respiratore, chiese più volte di staccare la spina. Una richiesta che, però, era in contrasto con le leggi. Così iniziò la sua battaglia politica, aprendo un forum dedicato all’eutanasia in uno spazio concessogli dai Radicali, che lo elessero co- presidente dell’Associazione Luca Coscioni. Dal suo letto chiese all’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il diritto all’eutanasia, spiegando tutta la sua sofferenza. «Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – scrisse – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio… è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti». Ma il 16 dicembre del 2006 il tribunale di Roma si oppose alla richiesta di interrompere l’accanimento terapeutico, a causa del vuoto legislativo in materia. E per morire, a Piergiorgio toccò contare sulla disobbedienza civile di un medico, l’anestesista Mario Riccio, che su richiesta di Piergiorgio, dopo avergli somministrato dei sedativi, il 20 dicembre 2006 staccò il respiratore che lo teneva in vita, vincendo definitivamente la sua battaglia con la vita. Ma non con la Chiesa, che negò i funerali religiosi a Welby, colpevole di essere un «suicida». Riccio fu stato prima incriminato e poi prosciolto. Da quel momento iniziò un percorso lungo e travagliato, che ha condotto, dopo tanti anni, prima alla legge sul Biotestamento, poi ai processi che oggi hanno portato la questione davanti alla Consulta. Un percorso lunghissimo, la cui seconda tappa è la storia di Giovanni Nuvoli, ex arbitro e agente di commercio di Alghero, morto il 24 luglio 2007 dopo aver chiesto più volte di poter staccare il respiratore. «Voglio morire senza soffrire, addormentato», diceva a sua moglie. Il 10 luglio 2007, il medico anestesista Tommaso Ciacca stava per eseguire le sue volontà, ma fu bloccato dai carabinieri di Alghero e della procura di Sassari. Così, dal 16 luglio, per otto giorni, Nuvoli iniziò uno sciopero della sete e della fame che lo portò alla morte, nella sala di rianimazione allestita nella sua villetta alla periferia di Alghero, quando il suo corpo pesava ormai soltanto 37 chili. Al momento della morte aveva ancora attaccato il respiratore artificiale che lo teneva in vita. Poi è stata la volta di Eluana Englaro, la cui storia spaccò definitivamente l’opinione pubblica. Una giovane donna la cui vita fu stroncata a 20 anni, il 18 gennaio 1992, quando dopo un incidente d’auto entrò in uno stato vegetativo permanente, di fatto incapace di interagire con il mondo circostante, immobilizzata in una clinica di Lecco e alimentata con un sondino nasogastrico. Fu suo padre, Beppino Englaro, ad impegnarsi per staccare la spina e rispettare un desiderio espresso in vita dalla giova- ne: la volontà, in caso di una condizione simile a quella in cui si trovava, di non ricorrere a nessun accanimento terapeutico. Dopo 12 mesi di attesa, i medici comunicarono che per lei non c’era più niente da fare: il cervello era ormai andato incontro a una degenerazione definitiva. Nessuna possibilità di recupero, dunque, nessuna possibilità di sentire ed entrare in contatto con il mondo esterno. Eluana era già morta. Così iniziò la battaglia di Beppino: si rivolse ad avvocati, magistrati, al presidente della Repubblica. Ma nel 1999 il Tribunale di Lecco respinse le sue richieste, così come, successivamente, fece la Corte d’Appello di Milano. Sempre un no dai tribunali, fino al 16 ottobre 2007, quando la Cassazione rinviò la decisione alla Corte d’appello di Milano. E da lì la svolta: il 9 luglio 2008 i giudici autorizzarono la sospensione dell’alimentazione per via di uno stato vegetativo irreversibile. Ma contro la libertà tanto cercata da Beppino Englaro si mossero associazioni, comitati etici e politici. E nessun ospedale, intanto, era disposto a prendersi la responsabilità di interrompere le terapie. Opposizioni che arrivarono anche dalla Regione Lombardia e dalle Camere, che sollevarono un conflitto di attribuzione contro la Corte di Cassazione. Ma quei ricorsi furono giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale, l’ 8 ottobre del 2008. Il 22 dicembre del 2008 l’ultimo verdetto: la Corte europea per i diritti dell’uomo respinse il ricorso di diverse associazione contro il decreto della Corte d’appello di Milano che autorizzava il distacco del sondino per l’alimentazione artificiale. Così Eluana fu libera di morire, il 9 febbraio 2009, in una clinica di Udine, dopo che il governo Berlusconi aveva tentato di emanare un decreto legge ad hoc». Nel 2015 fu Walter Piludu, ex presidente della Provincia di Cagliari e dal 2013 malato di Sla, a chiedere alla politica una legge sul fine vita, di fatto riaprendo il dibattito. Malato di sclerosi laterale amiotrofica dal 2011, dal 2012 al 2016 redasse una serie di scritture private chiedendo di evitare, in caso di perdita della capacità di autodeterminarsi, cure invasive volte a prolungare la sua vita, fino a delegare l’amministratore di sostegno ad individuare un medico che procedesse, previa sedazione, al distacco del respiratore. Una chiara disposizione delle proprie volontà, che il 31 maggio 2016 fu portata dall’amministratore di sostegno davanti al Tribunale di Cagliari, assieme ad una richiesta per ottenere l’autorizzazione al distacco dei presidi medici vitali. Una richiesta accolta dal giudice, che così consentì a Piludu di morire, dopo l’interruzione della ventilazione polmonare. Era il 3 novembre 2016. Infine è toccato a Dj Fabo, al secolo Fabio Antoniani, morto il 27 febbraio 2017. Dj Fabo era cieco e tetraplegico dall’estate del 2014, a causa di un gravissimo incidente stradale. Alla clinica “Dignitas di Forck”, vicino Zurigo, ci arrivò accompagnato da Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. Fu proprio quel viaggio in Svizzera a portare Cappato in un’aula di Tribunale a Milano, dalla quale poi è arrivata la richiesta alla Consulta di chiarire se aiutare un uomo a morire sia un reato o meno. «Ha morso un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale – raccontò Cappato -, era molto in ansia perché temeva, non vedendo il pulsante essendo cieco, di non riuscirci. Poi però ha anche scherzato». Durante il processo a Cappato, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano aveva messo in dubbio la validità di una norma che, ad oggi, appare anacronistica. Marco Cappato, aveva detto durante la sua requisitoria, non ha aiutato nessuno a suicidarsi, ma soltanto ad esercitare il proprio «diritto alla dignità». Dj Fabo rifiutò l’alternativa italiana, la sospensione delle cure, che pure il Radicale aveva prospettato ad Antoniani, chiedendo fino all’ultimo se fosse convinto della sua decisione. Durante la requisitoria Siciliano aveva, di fatto, esortato la politica ad agire, richiamando la necessità di un intervento legislativo in grado di chiarire i limiti dell’articolo 580 del codice penale. «Sarebbe meglio se una certezza venisse data da un intervento legislativo che fissasse i limiti per accedere al suicidio assistito, come succede in Svizzera, dove c’è una straordinaria serietà nel farlo», aveva evidenziato la pm. Ed in Svizzera, Cappato e Welby hanno accompagnato anche Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, morto il 13 aprile 2017, morte per la quale i due Radicali sono oggi a processo. Oltre a Cappato, insieme ad Antoniani, il giorno della sua morte, c’erano la madre, la fidanzata e gli amici più stretti. Era stato lui stesso, con un video messaggio, a raccontare il suo arrivo in Svizzera. «Ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato», disse poco prima di iniziare il percorso verso la morte. E prima di andarsene descrisse la sua situazione come «un inferno di dolore», dal quale è sfuggito soltanto con l’aiuto di Cappato. Purtroppo, aveva aggiunto, «rispettando le regole di un Paese che non è il suo».

Dj Fabo, l’ex compagna:  «Ha sofferto ma la sua battaglia non è stata inutile». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. «Adesso sì. Adesso so che tutte le fatiche, la stanchezza e la sofferenza di Fabo non sono state inutili. Questa vittoria è per lui. È per un uomo che se n’è andato sapendo di aver tirato un pugno potente a un avversario assurdo. Il resto del match lo abbiamo vinto noi, tutti quanti assieme». Valeria Imbrogno usa le parole dei pugili professionisti come lei. Un pugno, poi un altro e un altro ancora per mandare ko un sistema «che fino a oggi non ha saputo ascoltare il dolore e le suppliche» di persone come il suo Fabiano, per tutti Dj Fabo, accompagnato a morire in un cubo azzurro vicino Zurigo che tutti chiamano clinica. Un angolo anonimo dove la gente arriva per il suicidio assistito e dove lui arrivò assieme a Marco Cappato, a febbraio del 2017.

Quanto aveva sperato in questa sentenza?

«Tanto, tantissimo. E devo dire la verità: alla fine mi aspettavo che andasse così, era qualcosa di più di una speranza. Ho avuto la netta sensazione che fossimo finalmente arrivati al punto. Ho sempre confidato nel fatto che i giudici fossero persone illuminate».

Ci sono medici che annunciano obiezioni di coscienza, politici e cattolici che usano toni durissimi. Non la spaventa essere al centro di tutto questo?

«Io sono serena, da sempre. Ciascuno è libero di usare la propria coscienza come meglio crede. Il limite, però, è non imporre agli altri le sue decisioni. È una regola semplice. Il corpo di Fabo era diventato una gabbia e lui ha vissuto in quella prigione per due anni e nove mesi, cieco, tetraplegico, con dolori inenarrabili e difficoltà crescenti ogni santo giorno. Se una persona in queste condizioni sogna di morire a casa sua trovo profondamente ingiusto che qualcun altro gli dica di no. E allo stesso modo è stato ingiusto, finora, rischiare una condanna per aver accompagnato persone come lui a morire altrove».

Come ha vissuto questi due giorni in attesa della decisione?

«Li ho passati pensando a lui, soprattutto martedì mattina, in aula. Ho immaginato come lui avrebbe vissuto tutto questo. Sono sicura che avrebbe fatto mille domande a Marco, che avrebbe chiesto spiegazioni agli avvocati, che avrebbe interrotto i giudici, commentato ogni cosa... il solito Fabo. Si sarebbe guardato attorno con gli occhi curiosi di un bambino... la mia mente gli parlava: dai, Fabo, forza che ce la facciamo!»

E adesso cosa gli direbbe?

«Che ha fatto una cosa grandissima. Una cosa da Fabo. Perché lui era così: esuberante, sempre a vivere e sognare in grande. La nostra era la vita più bella del mondo. Se fosse qui gli direi: hai visto cosa siamo stati capaci di fare? Siamo riusciti a cambiare perfino la vita più bella del mondo».

Quale parola le viene in mente per descrivere la mancanza di Fabo?

«Noia. Senza di lui non ho più quella quotidianità dalla quale non sapevo mai cosa aspettarmi. Sono una psicologa, oggi vivo di quello e mi dedico molto al pugilato che in passato ho insegnato ai detenuti come volontaria. Il mio tempo non ha più quella vena di follia, chiamiamola così, che aveva quando c’era lui».

Se ripensa a Fabiano nei mesi prima di morire qual è il primo ricordo che le viene in mente?

«Mi viene in mente quell’unica volta che in due anni e nove mesi abbiamo litigato. Prima dell’incidente lo facevamo spessissimo ma dopo praticamente mai. Salvo quella volta. Mi cacciò di casa e io me ne andai ma ho resistito 24 ore, poi sono tornata. Sua madre mi disse che aveva chiesto di me ogni mezz’ora. Allora mi sono avvicinata e gli ho messo le cuffie alle orecchie con la musica del Tempo delle mele, quella del momento in cui loro due si isolano dal resto del mondo. Lui capì all’istante che ero io. Il mio messaggio era: sono tornata e non vado più via, non serviva nemmeno che lo dicessi. Quello è il momento che ricordo con più dolore e amore».

Un istante di quell’ultimo giorno a Zurigo.

«Cercò fino all’ultimo di rassicurarmi. Secondo lui non avrei sofferto. E poi si era raccomandato: guarda che dovrai vivere due volte, una per te e una per me. Vedi amore? Lo sto facendo». 

Tutte le anime della Consulta (colonizzata da Pd e 5 Stelle). I 15 membri sbilanciati a sinistra, nominato dai grillini l'estensore della sentenza. Cartabia l'unica «moderata». Luca Fazzo, Giovedì 26/09/2019 su Il Giornale.  Nell'empireo della Corte Costituzionale ce l'hanno catapultato i deputati del Movimento 5 Stelle, indicandolo quando nel 2015 si dovette provvedere alla nomina di tre membri della Consulta: e nell'ambito della tradizionale spartizione delle auguste poltrone, per il seggio di loro spettanza i grillini fecero compatti il suo nome. Ma Franco Modugno, il giudice che ha scritto la sentenza sull'assistenza al suicidio, difficilmente può essere considerato un miracolato della politica: alle sua spalle questo giurista non più giovane - ha da poco compiuto gli ottantun anni - ha un curriculum accademico di tutto rispetto, che lo colloca nella top ten dei costituzionalisti italiani. Politicamente poco etichettabile, anche se il suo maestro fu un socialista doc come Massimo Severo Giannini, Modugno è stato l'uomo giusto per mediare tra le diverse anime presenti tra i quattordici membri della Consulta: senza contare il presidente, Giorgio Lattanzi, ulivista di lungo corso (è stato nello staff di governo di Romano Prodi e Massimo D'Alema), che certamente in questo delicato frangente ha fatto sentire la sua voce. Anime diverse, come s'è detto, dentro la Consulta: ma con un oggettivo sbilanciamento nella provenienza politica, visto che nella spartizione dei consiglieri l'accordo tra Pd e 5 Stelle - l'accordo che oggi sorregge il governo -è arrivato molto tempo prima dell'appoggio al Conte 2. Di fatto, già da cinque anni i grillini e la sinistra hanno fatto piazza pulita dei seggi che man mano si liberavano in uno degli organismi cruciali previsti dalla Costituzione. Nessun giudice espressione del centrodestra: tutte le ultime infornate hanno portato alla Consulta giuristi (tutti di valore, eh) cari all'alleanza rossoverde. Scelte a volte più «tecniche», come quelle di Modugno; a volte apertamente di parte, come le nomine di Giuliano Amato, o l'ex comunista Augusto Barbera. In questa sorta di colonizzazione (con l'eccezione dell'ultimo arrivato, il «trasversale» Luca Antonini), a incarnare una lettura moderata della Costituzione è rimasta, quasi da sola, una donna: Marta Cartabia, varesina, 56 anni, docente universitaria, nominata nel settembre 2011 da Giorgio Napolitano (al capo dello Stato spetta la scelta di cinque membri) ma assai lontana dal mondo dei cosidetti «giuristi democratici», e anche per questo sconfitta per due volte nella corsa alla presidenza della Corte. La Cartabia è di matrice cattolica, più esattamente ciellina, e non ha mai fatto nulla per abiurare (è stata anche ospite all'ultimo festival di Rimini). Così, anche se ha sempre evitato prese di posizione pubbliche, è facile ipotizzare che nel segreto della camera di consiglio della Consulta la sua voce sia stata tra quelle che hanno messo in guardia contro una liberalizzazione totale dell'aiuto al suicidio. Di questa sua battaglia c'erano le tracce già nella sentenza di un anno fa, che rinviava l'udienza auspicando che il Parlamento producesse una nuova legge: una ordinanza forte nel modo ma cauta nella sostanza, attenta a non preannunciare una decisione in un senso o nell'altro. Certo, a complicare tutto c'è che le divisioni sul tema del «fine vita» non ricalcano fedelmente la geografia dei partiti, e che in entrambi gli schieramenti ci sono voci discordanti. Ma è un fatto che a spingere verso una liberalizzazione sia soprattutto la sinistra (e non a caso il giudice che ha trasmesso gli atti alla Corte, sospendendo il processo al radicale Marco Cappato, è un esponente storico di Magistratura democratica). Così si capisce perchè alla fine sia entrato in scena quello che è, in un certo senso, un sedicesimo giudice della Consulta: Sergio Mattarella. La Corte ha smentito con forza che il Presidente avesse chiamato Lattanzi premendo per una decisione «moderata». Ma a volte non serve nemmeno telefonare.

Cappato, il Caronte della disobbedienza. "La mia missione è sciogliere le torture". Radicale, eurodeputato, consigliere comunale a Milano. Poi la lotta per il fine vita: «Se me lo chiedesse, accompagnerei anche mio padre». Carmelo Caruso, Giovedì 26/09/2019 su Il Giornale. Al suo primo viaggio alla clinica Dignitas non trovava la strada e il paese perché «in Svizzera di Pfäffikon ce ne sono due. Mi fermai. Chiesi a un pizzaiolo italiano quale fosse quello giusto. Poi ripartimmo. Ero imbarazzato». Era la prima volta che Marco Cappato accompagnava un'italiana a morire. Disse che litigarono per tutto il viaggio, ma a causa della politica, e che poi tornarono indietro, «e lei era rimasta senza scarpe. Le aveva già gettate nel cestino». La donna aveva scelto il suicidio assistito, ma non voleva ingerire il barbiturico che chiedeva le fosse iniettato endovena. «I medici si rifiutarono perché ritennero che la sua volontà non fosse così salda» spiegò Cappato, prima di aggiungere, «ci riprovò il mese dopo. Quella volta riuscì. Era malata di cancro». Qualcuno ha paragonato Cappato a Caronte, il traghettatore d'anime («Ma lui ne prolungava il dolore mentre io voglio scioglierne la tortura») e qualcun altro gli ha rimproverato di aver fatto della morte un evento mediatico, «ma sono io che rischio dodici anni di carcere». Ed è infatti a causa del suo processo che lo scontro sul fine vita è arrivato alla Corte Costituzionale tanto da costringere il parlamento a scrivere finalmente una legge. Nel 2017 si è autodenunciato per aiuto al suicidio dopo aver accompagnato Dj Fabo sempre alla Dignitas che non è la montagna incantata, ma, secondo Cappato, «l'alternativa al balcone. Ogni anno i suicidi sono più di mille, e però non si dice». Cappato è nato a Monza 48 anni fa, («Scuole cattoliche, poi quella pubblica e infine economia alla Bocconi. Ero uno studente da sei»). La madre è stata la prima in famiglia ad avere la tessera radicale mentre il padre quella repubblicana. Per provocarlo, un cronista gli chiese se il coraggio gli sarebbe bastato per portare anche suo padre a morire. Rispose: «Se me lo chiedesse lo farei. Quella prima volta alla Dignitas fu lui a prestarmi l'auto». La disobbedienza l'ha dunque respirata tra le mura di casa e alla fine non poteva che scoprirsi radicale («Ma da ragazzo mi sembravano perfino moderati») di cui è stato presidente, eurodeputato, ma anche consigliere comunale a Milano e in quell'occasione conosciuto la moglie Simona, giornalista, che era venuta con l'intenzione di contestarlo ma poi «finito per sposarlo». Ecco, sarebbe un errore credere che la sua battaglia sul fine vita sia solo dei radicali o dell'Associazione Luca Coscioni di cui è il tesoriere e voce come Maria Antonietta Coscioni, fondatrice, con cui Cappato è riuscito a litigare in televisione, («Purtroppo questo è un difetto ma anche una virtù radicale. Siamo abituati agli scontri di potere senza avere potere»). E non è vero che i cattolici lo maledicono. A Radio Radicale pure un prete si è congratulato con lui e i tassisti quando lo riconoscono non gli fanno pagare la corsa. Non si definisce l'erede di Marco Pannella, ma è il radicale più noto dopo Panella («Uno come lui non può risorgere») e come Panella ha già vinto facendo parlare di eutanasia, argomento che spaventa lui per primo così come spaventava Piergiorgio Welby che, proprio a Cappato, confessò: «Sono preoccupato. Sai, è la prima volta che muoio».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2019. Primi anni Novanta, siamo in un bar di via Carlo Alberto, a Monza, e al tavolino all' aperto c' è il segretario cittadino dei socialisti Antonio Cappato, poi il segretario cittadino dei Repubblicani Alberto Cappato (fratello del primo) e poi i di lui figli Massimo Cappato e Marco Cappato, radicale il primo e in divenire il secondo. Appassionate di politica sono anche le rispettive mogli o mamme, e il quadro insomma è la riproposizione delle loro cene di Natale dove in genere si scannano accoratamente in discussioni su questo o quel partito. Allevati a pane e politica sin da bambini - domanda - potevano quindi i due ragazzi, Massimo e Marco, crescere come persone normali? Risposta: sì. Marco all' epoca ha studiato al liceo cattolico Villoresi (liceo per figli di papà) e nel 1994 è laureando in economia e commercio alla Bocconi; Massimo invece è laureato in ingegneria e comunque il radicale è lui, per ora: è diventato consigliere comunale prima ancora di finire gli studi. Ha conosciuto Pannella in un infuocato comizio a Monza, in piazza Trento e Trieste, dove il leader radicale urlò «palazzo di merda» contro un condominio degli anni Sessanta che deturpa la piazza ancor oggi; Pannella quel giorno guardò Massimo e prese a chiamarlo «Beautiful» per via della mascella alla Ridge Forrester. Intanto Marco (Cappato) preparava la tesi di laurea sul «no profit globale» e sul Partito Radicale transnazionale, unico partito con sede all' Onu e ufficio a Manhattan. Così, per la sua tesi, Marco va a Roma e i radicali li intervista e conosce tutti. Anche Pannella, a cui si presenta come «fratello di Beautiful», ed ecco scattare la scintilla. Subito. Quasi subito, cioè: prima Marco fa uno stage alla Galbani di Melzo e si occupa di controllo qualità in mezzo a salumi e mortadelle, oltre a mettere in piedi un giornalino interno ed essere accusato di comportamento antisindacale. Ma è bravo, come lo è il fratello che è militante radicale ma lavora anche per un' importante società di consulenza. Sinché viene il tempo delle scelte. Massimo decide di buttarsi sul lavoro e lo farà con successo: fonderà una startup che oggi ha 250 dipendenti (Revevol) e che lavora con Google e Facebook; insieme a Sergio Marchionne ha curato il trasbordo di Fiat su Facebook oltre al «Citbot», un progetto sperimentale di intelligenza artificiale che sul sito dell' Associazione Coscioni risponde alle domande degli utenti. La scelta di Marco Cappato, invece, si decide in poche ore. Aveva partecipato a congressi e raccolto firme referendarie, ricoperto incarichi nei «Club Pannella» (ne divenne segretario nazionale) ma è nel 1995 che il grande Marco gli telefona e gli dice che c'è un lavoro per lui ai radicali di Bruxelles: allora molla la Galbani e accetta, e la cosa gli permetterà anche di saltare il servizio militare o meglio l'obiezione di coscienza, che durava di più. Lavora duro dal 1995 al 1998: metà dello stipendio lo gira al partito e l'altra metà lo mette via, visto che le vacche magre, per i radicali, sono la regola. E qui, diciamo, comincia la piena avventura radicale di Marco Cappato: che consiste nel dire cose giuste ma con troppo anticipo, così che dapprima sembrino sciocchezze; poi le cose giuste si riveleranno giuste, ma il buon radicale a quel punto sarà già passato a dire altre cose giuste con troppo anticipo, così che sembreranno altre sciocchezze. Il radicale è questo: resta fuori dal Palazzo, sembra che dica sempre sciocchezze e invece non ne dice mai, o quasi. Il radicale semina nel gelo dell' inverno, mentre altri, in climi più miti e comodi, raccoglieranno e si daranno ogni merito. Marco Cappato, a Bruxelles, riesce anche a farsi arrestare per la prima volta: non stiamo neanche ad approfondire, c'entra col Coordinamento Radicale Antiproibizionista di cui era tesoriere. Resta in guardina poche ore, ma il curriculum ora è completo. Può andare a New York come responsabile del Partito Radicale Transnazionale alle Nazioni Unite: oltre alla campagna antiproibizionista, partecipa a quella per l' istituzione del Tribunale penale internazionale che ha un certo successo, e di lui scrive anche il Washington Post. Di seguito, diventerà europarlamentare subentrando a Emma Bonino (catturata dalle sirene del governo Prodi) e viene premiato dalla rivista «European Voice» per la sua campagna per la protezione dei dati personali a margine della lotta al terrorismo. Tutta roba di cui in Italia si sa poco, mentre si sa che in quel periodo Marco prende a cuore l' Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica: e qui enumerare tutte le battaglie dell' Associazione diventa complicato, anche perché sono tutte battaglie combattute fuori dal palazzo e nel disinteresse generale dei media. Cappato combatte per abolire la retriva legge sulla fecondazione assistita (poi cancellata dalla Corte Costituzionale, allora come oggi) e, dopo esser diventato segretario dell' Associazione nel 2005, sostiene la battaglia di Piergiorgio Welby (un malato di distrofia che chiede il distacco del respiratore) sino a ottenere l' interruzione delle terapie tra mille polemiche. Naturalmente non fa tutto da solo: ma lui c'è sempre. È ovunque, a fare tutto. Si fa arrestare in Russia nel sollecitare il primo Gay Pride moscovita, conduce campagne contro l' assenteismo al Parlamento Europeo e poi da Bruxelles precipita al Consiglio comunale di Milano, dove riesce a rompere i coglioni anche lì. Ricorre contro l' elezione di Roberto Formigoni a Presidente di Regione Lombardia, denunciando una falsificazione delle firme a sostegno: ma i giudici gli daranno ragione troppo tardi. Non molla l'Associazione Coscioni - anzi - e nel 2012 comincia la battaglia per l' eutanasia legale. Presenta leggi di iniziativa popolare rimaste lettera morta, si autodenuncia per aver aiutato pazienti a ottenere l' eutanasia, coinvolge volti noti e meno noti nella campagna, ma ogni volta sbatte contro il ritardo culturale di una politica che registra sempre nuovi distacchi dalla realtà a dispetto di crescenti populismi e intolleranze. Niente sembra poter illuminare il grigio di quella clandestinità dove il decesso di centinaia di migliaia di persone è accompagnato da un intervento non dichiarato dei medici. Intanto Marco Cappato campa come può, perché battagliare fuori dal palazzo, senza stipendi, è dura. Al consiglio comunale meneghino prende solo dei gettoni di presenza, ma in compenso matura l'idea meno radicale della sua vita: sposarsi. «Coup de foudre» commenta Pannella, stranito quando apprende che Marco andrà addirittura in viaggio di nozze: i radicali non vanno mai in vacanza. Lei è Simona Voglino Levy, tra altro ex apprezzata collaboratrice di Libero: ha conosciuto Marco intervistandolo per Telelombardia. Il neo marito è già sposato coi Radicali di Pannella, e lei lo sa, ma in casa la gerarchia è tutt'altra: comanda Luigi (il cane) e poi c'è Simona e ultimo lui, che impalma la moglie in una spiaggia di Forte dei Marmi con un sindaco socialista a officiare, e poi se ne va in Sudamerica. Che borghese. Ma Cappato, si diceva, è anche una persona normalissima, calma, ordinaria anche se morigerata nello stile di vita. Ha la patente, ma non ha mai avuto una macchina. È tesoriere dell' Associazione Coscioni, ed è lui ad aver deciso il proprio stipendio: 2700 euro. Per fare? Per farsi processare, rischiare seriamente la galera e costringere la classe politica a digerire le leggi che il Parlamento non ha il coraggio o la capacità di fare. I radicali rompono i coglioni, citano sempre le leggi sull'aborto e sul divorzio: ma senza di loro ne saremmo ancora privi, o chissà quando le avremmo avute. Ora siamo al suicidio assistito, al diritto che scelga, ciascuno, se soffrire inutilmente o no. La battaglia continua. Pannella. Cappato. Da Marco a Marco.

Il Comitato bioetico: «Il suicidio assistito non è eutanasia». Ora tocca alla politica. Giulia Merlo il 31 luglio 2019 su Il Dubbio. Nel documento si distinguono le fattispecie e si dà spazio all’importanza delle cure palliative, condivisa da tutti gli esperti. «Il morire suscita oggi un complesso di riflessioni su tematiche etiche, giuridiche, sociali ed economiche», si legge nell’incipit del parere del Comitato Nazionale di Bioetica, in materia di eutanasia e suicidio assistito. L’organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei ministri affronta uno dei temi etico- giuridici più controversi, a partire dalla decisione della Corte d’Assise di Milano sul caso di dj Fabo e la conseguente ordinanza della Corte Costituzionale.

Favorevoli e contrari. Il comitato si è spaccato a metà sulla posizione da tenere, ma la maggioranza (13) ha determinato parere favorevole, «sia sul piano etico e bioetico che su quello giuridico, alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito in presenza delle condizioni sotto indicate e accertabili». Le posizioni contrarie (11) sono state messe in luce nel documento finale, giustificate con il fatto che «la difesa della vita umana debba essere affermata come un principio essenziale in bioetica, quale che sia la fondazione filosofica e/ o religiosa di tale valore». In ogni caso, la finalità del documento è di «dare informazioni chiare sui pro e i contro un’eventuale legislazione sul suicidio assistito. Un valido strumento per indicare nodi, criticità e ed elementi positivi al legislatore, che potrebbe avere un approccio favorevole ma anche contrario» ha sottolineato il presidente del Comitato, Lorenzo D’Avack, secondo cui «non è una questione che si risolve a maggioranza, ma è un parere pluralista» e «nonostante i pareri diversi, abbiamo tutti condiviso una serie di raccomandazioni, come quella riguardante le cure palliative».

Suicidio assistito ed eutanasia. In particolare, gli esperti si sono soffermati sulla diversità di fattispecie tra suicidio assistito – «l’interessato compie l’ultimo atto che provoca la sua morte, atto reso possibile grazie alla determinante collaborazione di un terzo, che può anche essere un medico» – ed eutanasia – «l’atto con cui un medico o altra persona somministra farmaci su libera richiesta del soggetto consapevole e informato, con lo scopo di provocare intenzionalmente la morte immediata del richiedente». Inoltre, hanno sottolineato come il tema sia «un pendio scivoloso», col pericolo che una «legislazione permissiva dell’aiuto medico al suicidio in circostanze particolari e ben delimitate, venga poi, inevitabilmente e al di là delle iniziali intenzioni, ad ampliare considerevolmente le maglie».

Reazioni cattoliche. La notizia del parere ha suscitato numerose reazioni, in particolare da parte del mondo cattolico, tutto schierato contro. L’associazione di bioetica in comunione con la Cei, Scienza& Vita, con il suo presidente Antonio Gambino ha chiarito che è positiva «la distinzione fra suicidio assistito ed eutanasia, ma anche per il primo vanno mantenuti gli aspetti penali, per evitare che si scivoli velocemente nella seconda», in particolare sottolineando l’importanza delle cure palliative: «Se prima non si implementassero correttamente ma si entrasse subito nel suicidio assistito, si interromperebbero tutti gli investimenti nel trattamento legato alla palliazione, che purtroppo in Italia non è ancora a regime».

Necessità di un dibattito. Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni, ha invece sottolineato l’importanza di «un dibattito con posizioni diverse» e si è espressa favorevolmente sul parere del Comitato, ma ha ribadito che «manca solo il dibattito del legislatore. Nonostante l’opportunità di dialogo fornita dalla Consulta, ad oggi non c’è stato alcun dibattito. Lo chiedono i cittadini – conclude Gallo – o chiede la Corte Costituzionale, ma il Parlamento tace». E il termine “ordinatorio” fissato dalla Consulta nella sua sentenza dell’ottobre scorso scadrà a settembre, senza che il dibattito sia ancora stato incardinato.

Da liberoquotidiano.it il 24 dicembre 2019. Il dramma di Marco Cappato in diretta, nell'aula del tribunale di Milano, nel giorno della sua assoluzione. Nel corso del processo che vede l'esponente radicale imputato per aiuto al suicidio per la morte di Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, Cappato ha ricevuto la notizia della morte della madre ricoverata da tempo in ospedale. Il tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, tramite i suoi legali, ha chiesto una breve sospensione dell'udienza ed è uscito dall'aula in lacrime. Con lui c'erano la moglie e altri membri dell'associazione Coscioni. Anche il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha fatto le condoglianze a Cappato che dopo alcuni minuti ha ripreso il suo posto in aula e il processo è ricominciato con gli interventi della difesa fino alla sentenza di assoluzione per l'imputato "perché il fatto non sussiste". "In piena sintonia e assonanza con le motivazioni che avete prospettato rimettendovi alla Corte Costituzionale - ha spiegato poi Cappato in merito al processo - la mia è una motivazione di libertà, di diritto alla autodeterminazione individuale, naturalmente all'interno di determinate condizioni, è per questo che ho aiutato Fabiano". Come detto, Cappato è stato assolto "perché il fatto non sussiste".  I giudici togati e popolari della Corte d'Assise di Milano hanno accolto la richiesta di assoluzione avanzata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano sulla base della sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito la non punibilità del reato di aiuto al suicidio in presenza di determinate condizioni. La lettura del verdetto è stata accolta con gli applausi dei presenti in Aula, mentre Cappato era già uscito per dare l'ultimo saluto alla madre.

Marco Cappato assolto dai giudici per il caso dj Fabo: non fu aiuto al suicidio. Redazione de Il Riformista il 23 Dicembre 2019. La Corte d’Assise di Milano ha assolto l’esponente dei Radicali Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio perche il fatto non sussiste. Un lungo applauso ha accolto la lettura in aula del dispositivo di assoluzione per Cappato, sotto processo per avere aiutato Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, a porre fine alla sua vita in una clinica in Svizzera. Dopo la lettura del dispositivo il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha salutato e abbracciato la fidanzata di Fabiano Antoniani che era in aula. Non era presente, invece, Marco Cappato che ha raggiunto i suoi familiari dopo la notizia della morte della madre. Le motivazioni della sentenza, ha sottolineato il presidente Elio Mannucci Pacini, verranno depositate tra 45 giorni.

LA FIDANZATA DI DJ FABO – “Fabiano oggi mi avrebbe chiesto di festeggiare perché era una battaglia in cui credeva fin dall’inizio e forse per primo e poi piano piano la squadra si é costruita arrivando alla vittoria credendoci fino in fondo”. Lo ha detto Valeria Imbrogno, fidanzata di Fabiano Antoniani, dopo che la corte d’Assise di Milano ha assolto Marco Cappato per il reato di aiuto al suicidio per aver aiutato Dj Fabo a raggiungere la clinica svizzera Dignitas e mettere fine alla sua vita. “Era una battaglia ed è una vittoria per la libertà di tutti – ha aggiunto – e la libertà è un valore per cui Fabiano ha sempre combattuto e io accanto a lui”. “Adesso – ha aggiunto – la battaglia continua per tutti i futuri casi che avranno bisogno di aiuto. Fabiano ha fatto tutto questo per dare la possibilità alle persone di poter essere libere di scegliere e oggi c’è riuscito”.

L’AVVOCATO DI CAPPATO – “La strada che abbiamo intrapreso era giusta fin dall’inizio, grazie a Fabiano la Corte Costituzionale è intervenuta e oggi è arrivata l’assoluzione per Marco Cappato. Ci aspettiamo dal Parlamento una legge: il nostro lavoro continuerà fino a quando in Italia non saremo liberi fino alla fine”. Lo ha detto l’avvocato Filomena Gallo, legale di Marco Cappato e segretario dell’associazione Luca Coscioni, commentando la sua assoluzione “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di aiuto al suicidio nei confronti di Dj Fabo. “La strada che abbiamo intrapreso era giusta fin da subito per i malati, per le scelte del fine vita che appartengono a ognuno di noi – ha aggiunto . – Grazie a Fabiano l’Italia ha conosciuto la vita di chi vorrebbe decidere nel proprio Paese e non può farlo”.

LA GIORNATA IN TRIBUNALE – Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano aveva chiesto di assolvere, “perché il fatto non sussiste“, Marco Cappato nell’ambito del processo che lo vede imputato per la morte di Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, che ha scelto di mettere fine alla sua vita tramite il suicidio assistito il 27 gennaio del 2017 nella clinica svizzera Dignitas. “E’ ovvio che chiederemo l’assoluzione – ha aggiunto il pm Siciliano – ma questa volta in maniera estremamente convinta perché il ‘fatto non sussiste’ perché il fatto di reato così come contestato non sussiste. Pertanto la conclusione alla luce delle risposte della Corte Costituzionale è che Cappato vada assolto“. Il processo, infatti, è ripreso questa mattina, dopo che la Consulta il 25 settembre scorso ha stabilito in alcuni casi la non punibilità del reato di aiuto al suicidio, di cui Cappato è accusato. Il processo a Cappato si era interrotto dopo che il 14 febbraio 2018 il procuratore aggiunto Siciliano aveva già sollecitato l’assoluzione per il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. In subordine la Procura e i legali di Cappato avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma che stabilisce il reato di aiuto al suicidio, sottolineando come fosse in conflitto sia con la Costituzione sia con la Convenzione dei Diritti dell’Uomo per rimarcare “i principi della libertà di ciascun individuo di decidere come e quando morire“. Rilievi che la Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini aveva accolto, inviando gli atti alla Consulta. Cappato è finito a processo per aver accompagnato Dj Fabo, diventato tetraplegico dopo un grave incidente stradale, in Svizzera per mettere fine alla sua vita nella clinica Dignitas e si averlo aiutato a predisporre ogni cosa sua sul piano legale che logistico. “E’ stato un atto di disobbedienza civile. Noi chiediamo un’assoluzione sulla base dei principi costituzionali: nella nostra Costituzione c’è un diritto all’autodeterminazione, quale è stato quello di Cappato“, aveva spiegato in aula l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni. A tutte le udienze, inclusa quella di oggi, hanno sempre partecipato sia la mamma di Fabiano Antoniani, la signora Carmen Carollo sia la fidanzata Valeria Imbrogno, che lo avevano sempre aiutato e sostenuto nella sua decisione di mettere fine alla sua vita.

IL LUTTO DURANTE L’UDIENZA – Nel corso del processo che lo vede imputato per aiuto al suicidio per la morte di Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, Marco Cappato ha ricevuto la notizia della morte della madre che era ricoverata in ospedale a Milano. Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, tramite i suoi legali, ha chiesto una breve sospensione dell’udienza ed è uscito dall’aula in lacrime. Con lui c’era la moglie e altri membri dell’associazione Coscioni. Anche il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha fatto le condoglianze a Cappato che dopo alcuni minuti ha ripreso il suo posto in aula e il processo è ricominciato con gli interventi della difesa.

Diritto a morire: quando si muore, chi muore? Francesco Occhetta S.J. su Il Riformista il 28 Novembre 2019. I giudici della Corte Costituzionale si sono addentrati ancora una volta in una terra di nessuno, una sorta di spazio sacro che impaurisce il legislatore povero di categorie antropologiche e bloccato da quelle ideologiche. La posta in gioco era il «diritto a morire». La Corte, in assenza di una legge, è stata chiamata a decidere se Marco Cappato era punibile dai 5 ai 12 anni di carcere per aver accompagnato e aiutato a morire in Svizzera, il 27 febbraio 2017, Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, dal 2014 paraplegico e cieco dopo un incidente d’auto. Così è stato introdotto nell’art. 580 del Codice penale una scriminante che giudica «non punibile» la condotta di chi agevola l’esecuzione del proposito di togliersi la vita quando «l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La norma, che è autoapplicabile, avrà però bisogno che il Servizio sanitario nazionale accerti le quattro condizioni citate, rispetti la normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda e senta il comitato etico territorialmente competente. Si tratta di quattro circostanze rigorose e stringenti che segnano una tappa di un cammino culturale e giuridico sul tema del fine vita iniziato nel 2006, quando i giudici si pronunciarono sul caso di Piergiorgio Welby. La seconda tappa nel 2007 quando la Cassazione accolse il ricorso del padre e tutore di Eluana Englaro di interrompere l’alimentazione forzata per le sue condizioni di stato vegetativo. Nel 2010, con la legge n. 38 sui trattamenti sanitari, il legislatore ha riconosciuto il dolore come una malattia e il diritto a non soffrire, mentre nel 2017 è stato approvato il consenso informato che permette di «esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (legge n. 219/2017). A disciplinare materie delicate come il fine vita sono sempre più i giudici e sempre meno i parlamentari, che inseguono e aggiustano la materia senza però riuscire a regolarla organicamente. Così facendo, si costringono i giudici a regolare casi particolari e a farli diventare norme generali. È per questo che vorremmo “sostare” culturalmente per condividere alcuni elementi antropologici utili al dibattito sul fine vita.

Anche papa Francesco, nel novembre del 2017, aveva raccomandato di trattare con delicatezza le complesse problematiche relative al fine vita, precisando che «è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». È utile chiedersi: quando si muore, chi muore? La vita non si riduce al solo significato biologico, alle reazioni biochimiche che si studiano in un laboratorio, ma anche al significato biografico, costituito dall’incontro con se stesso, con gli altri, con il mondo e, per il credente, con Dio. Morire con dignità significa, per la persona malata nella fase terminale della malattia, il diritto a un’assistenza che risponda ai bisogni della sua dimensione biologica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali. Il presupposto antropologico è il significato più ampio di «salute», che dal latino, salus, richiama la salvezza. Occorre capovolgere la prospettiva comune descritta da Søren Kierkegaard: «Quando la morte è il più grande pericolo, si spera nella vita; ma se si vede un pericolo ancora più tremendo, si spera nella morte. Quando dunque il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è la non speranza di non poter nemmeno morire». La medicina altamente tecnologizzata – per la quale la morte è un incidente e una battaglia da vincere – costringe a riformulare alcune delle domande radicali dell’esistenza. Ad esempio: quando la vita passa la soglia della morte? L’invasività della tecnica non prepara la persona a consegnarsi alla morte, ma a un liberarsi o meno dall’ultimo laccio che la intrappola alle macchine che la tengono in vita.

Non è questo un paradosso? La tecnoscienza non può conoscere né il dolore né l’angoscia della morte. Mettere al centro il significato della dignità della vita e della dignità del morire come atto del vivente aiuterebbe ad approfondire culturalmente il verbo «morire» per dare senso al sostantivo «morte». È per questo che prima di risposte preconfezionate è utile porsi le domande giuste e ripartire dalle esperienze che coinvolgono e toccano interi nuclei familiari. Il primo passo è quello di interrogarsi pubblicamente sulle ragioni del dolore e della morte. Lo abbiamo ribadito anche nelle pagine della Civiltà Cattolica: il centro della nuova legge non potrà che basarsi sulla condivisione della scelta alla quale concorrono il malato, quando è ancora cosciente, i medici e i familiari nell’ambito di una valida relazione di cura. Fuori da questa relazione fondante e in assenza di limiti, «staccare la spina» finirà per essere un arbitrio contro il valore della vita, che rimane sacra anche per la cultura laica. La crisi tocca invece il significato di relazione che nella costituzione si declina nei principi di solidarietà e del personalismo. Invece di diventare persone, essere in relazione con altri, si regredisce a individui. Sono, invece, la personalizzazione e il caso concreto il crocevia della libertà intesa come senso di responsabilità. Basti un dettaglio: la sentenza della Corte è nutrita da una espressione che converte il dibattito, non si tratta di chiedere il suicidio, ma di decidere di “accogliere la morte” sospendendo l’accanimento delle cure.

Diritto a morire: quando si muore, chi muore? Francesco Occhetta S.J.il 28 Novembre 2019 su Il Riformista. Nella sentenza della Corte costituzionale si trovano molti elementi per un dibattito maturo e adulto da fare in Parlamento: dall’autodeterminazione del paziente, intesa come principio non assoluto, alla protezione dei soggetti deboli come i minori; dall’obbligo di rimanere in un contesto medico all’interno di una struttura pubblica al parere del comitato etico necessario per prendere una decisione; dall’esclusione categorica che l’eutanasia sia ammessa come «atto medico» al divieto per le cliniche private, come quelle in Svizzera, di diventare i luoghi della dolce morte e centri per nuovi business. La Corte non ha previsto l’obbligo di prestare assistenza al suicidio, invece ha affermato la libertà di scelta per il medico. L’obiezione di coscienza presupporrebbe un obbligo di prestare assistenza al suicidio. «La garanzia assicurata è più forte, ha precisato Cesare Mirabelli -, implica che non si è in presenza di una prestazione sanitaria dovuta e valorizza la deontologia professionale, che esclude che il medico compia atti che provochino la morte del paziente, anche se ne è richiesto». È dunque possibile trovare un punto di equilibrio tra la posizione libertaria, che considera il principio di autodeterminazione un assoluto, e la posizione statalistico-paternalista della legislazione vigente, che non include l’autodeterminazione del soggetto. Lo ribadisce la Corte costituzionale, che «guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi», e chiede al Parlamento di «proteggere il soggetto da decisioni in suo danno». In Parlamento sono depositate 10 proposte di legge: per quale ragione manca un vero dibattito parlamentare su questo tema? Qual è il valore primo del legislatore? Rafforzare una relazione, o esaltare (solo) l’autonomia dell’individuo? È sufficiente sostenere che la persona è sovrana della sua morte? Le leggi che disciplinano il fine vita possono essere regolate dall’utilitarismo, attento a tagliare le spese sanitarie, liberare dai sacrifici chi assiste, evitare la sofferenza? Oppure devono essere nutrite dalla cura della dignità umana e dalla pietas, che è responsabilità di accompagnare a morire con dignità? Il legislatore, senza sfidare la sentenza, è chiamato a rimanere nel solco della direzione tracciata dalla Corte e circoscrivere le clausole. Anche questo è riformismo: rispettare la volontà della Corte, che si è limitata a decidere su persone capaci di decidere autonomamente e che non intendono avvalersi delle cure palliative, ma non sono in grado di «togliersi la vita» autonomamente, come è stato il caso di Dj Fabo. Se il Parlamento sceglie di promuovere il principio di autodeterminazione – secondo il quale una persona può decidere di disporre della propria vita autonomamente –, deve anche garantire le cure necessarie perché si possa prendere una decisione serena, come l’aiuto concreto alla solitudine dei caregiver (le relazioni familiari che si prendono cura del paziente), l’assistenza domiciliare, con incluse le cure palliative, un assegno familiare congruo per le spese da sostenere e così via. La soglia antropologica per incontrarsi fra tradizioni culturali diverse sul tema del fine vita rimane quella di riconciliare la personalizzazione della medicina e la sua umanizzazione con la tecnicizzazione della medicina stessa, in cui l’azione del «curare» (to cure) la malattia matura insieme al «prendersi cura» (to care) anche del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. La scelta politica di fondo per il Parlamento è quella di ritornare alla fonte dell’esperienza dell’ammalato, della sua famiglia e del contesto sociale e relazionale, altrimenti i detriti portati alla foce continueranno a paralizzare il dibattito parlamentare a causa delle divisioni, delle fazioni ideologiche e degli interessi particolari dei singoli partiti e dei gruppi di lobby utilitaristiche pronte a speculare e che, come dei grandi corvi, invece di difendere la vita, sperano si imponga la cultura della morte. È di loro che dobbiamo temere. Anche per questo la Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente, perché la sentenza rappresenta una fessura in una diga che potrebbe cedere da un momento all’altro e cancellare a livello culturale e medico, secondo l’antico principio de iure condendo, le restrittive condizioni giuridiche imposte dai giudici. Lo ribadiamo anche noi, nessuno sia lasciato solo.

Fine vita, i medici: «No al suicidio medicalmente assistito». La posizione della Federazione nazionale degli ordini: il sanitario «lenisce il dolore, non uccide». Il Dubbio il 19 Ottobre 2019. «No a un suicidio “medicalmente” assistito». È drastica la posizione della Federazione nazionale degli ordini dei medici, emersa a Parma, durante il convegno Nazionale “Il suicidio assistito tra diritto e deontologia. La legge, il consenso e la palliazione”, organizzato sotto l’egida Fnomceo, dall’Omceo Parma e dal Gruppo di lavoro su Suicidio Assistito e Eutanasia della Consulta Nazionale Deontologica. Una posizione che si schiera nettamente contro le aperture derivanti dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla non punibilità dell’aiuto all’interruzione della vita in situazione di grave sofferenza personale relativa al processo al Radicale Marco Cappato, che aveva aiutato Dj Fabo a porre fine alla sua vita. Una posizione che verrà analizzata dal Consiglio nazionale dei 106 presidenti degli ordini locali prevista a novembre. Il medico, di fronte al fine vita, «lenisce il dolore, non uccide», si legge in una nota pubblicata sul portale della Federazione. E lo fa attraverso la palliazione e terapia del dolore, «per le quali lo Stato deve prevedere più risorse». Impossibile immaginare dunque Si esclude quindi un coinvolgimento attivo e diretto del medico nel processo suicidario. «Il medico ha per missione quella di combattere le malattie, tutelare la vita e alleviare le sofferenze. Quello del suicidio assistito è quindi un processo estraneo a questo impegno – affermano i medici – Un compito ricco di un’esperienza millenaria ma anche moderna poiché incarna nell’agire professionale i principi della Costituzione (Articolo 32 in primis). Siamo in una società pluralista e la nostra posizione è quella di curare tutti senza discriminazione alcuna secondo scienza e coscienza, a prescindere da credi religiosi, filosofici, culturali, rispettando il diritto del cittadino all’autodeterminazione anche nei casi di suicidio, così come previsto dalla Corte Costituzionale». Decidere della propria salute autonomamente e liberamente è un diritto, continuano i medici, «lo stesso principio deve poter valere anche per il medico che si considera fermo sostenitore della tutela della vita», sostiene Filippo Anelli Presidente Fnomceo. «Quindi si vuole certamente rispettare la volontà di chi decide di porre fine alla propria esistenza ritenuta troppo penosa e non più degna di essere prolungata, nei limiti previsti dalla Corte Costituzionale, ma si chiede anche di lasciare la nostra categoria estranea a questo atto suicidario. Il medico non abbandonerà mai a se stesso il paziente – aggiunge – assicurerà sempre le cure palliative per contenere il dolore sino alla sedazione profonda e sarà presente fin dopo il decesso, che certificherà, ma non compirà l’atto fisico di somministrare la morte». Anelli pone il problema della raccolta del consenso e della persona preposta ad aiutare il paziente a morire. «Forse è ragionevole supporre che debba essere il paziente stesso a poterlo decidere, a scegliere ad esempio un fratello, il coniuge, un genitore, ma non il medico, a meno che non lo faccia nella posizione di amico o parente del richiedente, non certo nel ruolo di professionista della salute – conclude Anelli – Perché il medico di fronte al fine vita, lenisce il dolore, non uccide». «Stella polare che guida la nostra categoria è infatti la deontologia che vede al centro il rispetto dei valori della vita del paziente e della sua dignità, nel vivere come nel morire, non accettando d’essere pedine di una legislazione che non tenga conto della coscienza del medico, che segue la logica del fare il bene del paziente sia nella malattia sia nella fase della terminalità», spiega Pierantonio Muzzetto, presidente della Consulta Nazionale Deontologica Fnomceo e dell’Omceo Parma. I principi deontologici «impongono al medico di rispettare la dignità del paziente, evitando ogni forma di accanimento terapeutico e di trattamento futile e, in ottemperanza dell’autodeterminazione del malato che esprima la volontà di rifiutare le cure, consentono il ricorso alla sedazione profonda medicalmente indotta, che è ben altra cosa dall’eutanasia attiva o passiva, poiché i farmaci e la modalità di somministrazione portano a una situazione di assenza di sofferenza aspettando l’evento naturale e non intervengono certo per ridurre i tempi di vita», continua Muzzetto. Il vero problema è la carenza organizzativa dello Stato. Il capitolo della palliazione è infatti colmo di omissioni e inadempienze: solo una piccola percentuale dei pazienti utilizza questa metodologia di cura rispetto alle reali necessità, a conferma che le due leggi sulla terapia del dolore (la legge 38/2010) e la successiva legge sul consenso e sulle Disposizioni anticipate di trattamento sono applicate in modo insufficiente e a macchia di leopardo. Da qui la necessità che il legislatore si impegni a implementarne l’uso, consentendo un’applicazione omogenea del trattamento, con adeguate risorse.

Fine vita: «Noi medici non lo faremo venga il pubblico ufficiale». Lo stop al suicidio assistito. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Margherita De Bac e Laura Cuppini su Corriere.it. Roma I medici non avvieranno la procedura di suicidio assistito. Da Roma a Milano, passando per il resto d’Italia, i presidenti degli Ordini chiedono che «a farlo sia un pubblico ufficiale in rappresentanza dello Stato». Dopo la sentenza della Consulta si fa portavoce dell’istanza il presidente della Federazione Filippo Anelli che richiama gli articoli del Codice deontologico per ribadire «l’obbligo di dare vita e non morte, pena il rischio di provvedimenti disciplinari che possono portare alla radiazione». Qualche segnale di disponibilità «ad accompagnare i pazienti al suicidio assistito, secondo la propria visione morale» arriva dalle società scientifiche più coinvolte nelle fasi terminali dell’esistenza. Ma con garanzie precise perché, afferma Flavia Petrini, di Siaarti, coordinatrice di rianimatori ed anestesisti «lasceremo ai nostri specialisti libertà di agire purché vengano protetti dall’attacco degli ordini». A Roma Antonio Magi, presidente di circa 45 mila iscritti, il più ampio albo europeo, è esplicito: «Il rispetto del nostro codice professionale viene prima della pronuncia della Consulta. Il Parlamento ha avuto un anno di tempo per dare norme definite e non l’ha fatto». Giovanni D’Angelo, cardiologo alla guida dei colleghi di Salerno, ha vissuto questo dilemma personalmente: «Mio padre dopo il terzo ictus finì immobile a letto, lui uomo vivacissimo. Mi pregò più volte, lo sguardo puntato dritto sui miei occhi, “Anto’ tu sei medico... lo vedi come sto, perché non fai qualcosa?”. Sono stato un vigliacco, non ho avuto il coraggio di compiere un gesto che mi avrebbe segnato per tutta la vita, mi sarei sentito un figlio assassino nonostante la sua invocazione. Avrei compiuto un atto contrario alla mia missione. È giusto dare libertà di scelta ai pazienti, ma alla nostra libertà chi pensa?». Inutile cercare voci discordanti. Secondo il presidente dell’ordine di Bologna, Giancarlo Pizza «la morte non è un nostro strumento e dunque non saremo mai esecutori di volontà di suicidio». Le società scientifiche sono in fermento per esprimere una posizione e sostegno a tutti gli associati. Petrini annuncia l’arrivo di un documento ufficiale: «Non siamo pronti oggi ad assecondare le richieste dei pazienti. Altro conto è non perseverare con cure inappropriate quando non c’è alcuna speranza di guarigione. Anche il ministero della Salute dovrà darci una linea precisa». Italo Penco presiede la società italiana di cure palliative: «Non ci può essere un ordine di scuderia, ognuno di noi ha un personale modo di sentire. Quando il malato è vicino alla fine possiamo intervenire già oggi con la sedazione profonda. Se la fase terminale è lontana i farmaci antidolorifici e il sostegno psicologico possono non essere una risposta. Se però le cure palliative venissero avviate precocemente sono convinto che riusciremmo ad evitare le richieste suicidarie. Le terapie palliative non anticipano nè posticipano la morte, leniscono la sofferenza prima che diventi insopportabile».

NON C’È DIRITTO A MORIRE. Nino Materi per “il Giornale” il 7 luglio 2019. Quando i carabinieri si sono presentati alla porta, ha intravisto solo delle ombre. Emilio Coveri è infatti quasi cieco, menomazione che però non gli impedisce di combattere, con coerenza e onestà intellettuale, una dura battaglia pro-eutanasia. Coveri è il paladino del «diritto all' autodeterminazione della morte dignitosa», di un «libero arbitrio da esercitare quando ogni cura è inutile e il dolore diventa insopportabile»: convincimento per il quale il fondatore di Exit-Italia dovrà ora rendere conto alla giustizia. Sotto accusa, ovviamente, non sono le idee, ma comportamenti che configurino eventuali reati. Nella sua abitazione (che è anche la sede dell' associazione da lui presieduta dal 1996) i militari gli hanno consegnato un avviso di garanzia con l' imputazione di «omicidio del consenziente relativamente all' art. 580 del Codice Penale». Ad annunciarlo agli iscritti Exit è stato lo stesso Coveri che non ha mai negato di «offrire informazioni per ricorrere alla dolce morte in Svizzera». L' avviso di garanzia riguarda il caso di una donna siciliana che aveva fatto questa scelta recandosi la scorsa primavera in Svizzera, dove è ricorsa al suicidio assistito alla clinica Dignitas. La donna era affetta «da una rara sindrome che le provocava fortissimi dolori e non le permetteva di stare in piedi», spiega Coveri; che aggiunge: «Marco Cappato non è più solo. La politica, invece di discutere una normativa di legge sull' eutanasia e suicidio assistito in Italia, litiga per le solite e ormai vetuste ideologie». Racconta il presidente di Exit-Italia: «La signora Alessandra Giordano, 47 anni, di Paternò (Catania) mi aveva contattato ad agosto del 2017. Mi ha esposto il suo disagio e il suo tormento: anche questo fa parte del mio lavoro, ascoltare. Le ho consigliato di fare testamento biologico, di associarsi a Exit per poi ottenere tutte le informazioni e le indicazioni pratiche per andare in Svizzera e ricorrere al suicidio assistito. Qui finisce il nostro compito: possiamo solo dare informazioni. I suoi familiari non erano d' accordo con la sua scelta. Non rinnego quello che le ho detto: Alessandra, informati, prendi contatti e parti». «Alessandra - aggiunge Coveri - è andata in Svizzera perché non ne poteva più delle sofferenze indicibili che le avevano rovinato l' esistenza. Stava tanto male da aver dovuto lasciare il suo lavoro di insegnante». Di diverso avviso i familiari di Alessandra che hanno denuncia il caso alla magistratura di Catania, sostenendo che la loro parente poteva e doveva essere salvata. Alessandra Giordano è morta in una «stanza della morte» nel paesino di Forch dopo essersi sottoposta alla pratica del suicidio assistito. Una decisione presa all' oscuro dei suoi familiari, che erano contrari e che per la scomparsa della donna si erano rivolti anche a Chi l' ha visto?. Grazie alla segnalazione di un amico che l' aveva incontrata all' aeroporto in partenza per Zurigo, era stato chiaro il suo piano. Ma quando la famiglia aveva provato a contattare la clinica svizzera per convincerla a tornare a casa, lei era già morta.

"Staccare" o esser liberi? La vicenda di Vincent Lambert riapre la discussione sul fine vita e sullo Stato che vuole essere onnipotente. Davide Rondoni il 17 luglio 2019 su Panorama. "Perchè Lambert può morire e Shumacher no?" La domanda, violenta e sfacciata come occorre fare a colte per tornare a ragionare, campeggia su un articolo di Camilla Povia sulla serissima rivista La civiltà delle macchine, della Fondazione Leonardo. Perché sulla vicenda di Vincent Lambert è stato fatto tanto baccano pubblico ( infine ê stato fatto morire) e invece di Michael Schumacher, lui grande pilota ma entrato in coma ma per un banale incidente di sci, non sappiamo nulla e può, giustamente, continuare a lottare e a vivere? Dove corrono i confini tra la disponibilità dello Stato sulla vita dei suoi cittadini se costan troppo e quelli invece per cui, se te lo puoi sacrosantemente permettere, ripari e curi la vita come pensi sia giusto? Non sappiamo i dettagli della situazione medica del grande Shumi - appunto non ci è dato saperlo ed è una scelta comprensibile e bella della sua famiglia, che appunto ê la comunità intorno al malato, così come sfuggono ai più i contorni medici della vicenda Lambert dove le corti oppongono nel giro di poche settimane giudizi opposti e su cui la comunità scientifica è stata divisa. Ma, appunto, nel caso di Lambert, lo Stato si è voluto sostituire alla comunità, e decidere. ha preso una parte, ha rotto la comunità e ha dato ragione agli uni e non agli altri. Riaffermando, per chi non se lo può permettere, il principio totalitario per cui nella società esistono, infine, l'individuo solo e lo Stato. E se l'uno è fragile, lo Stato lo scarta. Ma perché lo sconosciuto fino a poco fa Lambert è stato pubblicamente e oscenamente fatto morire, e il grande campione famosissimo ê invece giustamente accudito, riservatamente ? Sono domande scomode. Piene di ogni rispetto per il dolore. Che invece solitamente viene esibito e dato in pasto alla discussione banale e sempre superficiale tra le persone (i pettegolezzi sul dolore come sull'amore sono infami e meritano l'inferno). Infatti, il problema non è il dolore, che non è mai discutibile, e soprattutto non misurabile se non personalmente e sopportabile solo tra persone che ti vogliono bene. Invece, media e imbonitori ci fan discutere in modo osceno di dolore, di sopportazione di quello o quell'altro, di vita vegetale (tra l'altro con molte confusioni scientifiche) e intanto si fa largo apparentemente ineluttabile che l'ultima parola sulla vite "di scarto" spetti allo Stato. Come se fosse davvero sensato un contenzioso tra facciamolo vivere o facciamolo morire. Ovvero si installa nelle coscienze stordite l'assunto totalitario per cui è lo Stato, con le sue corti, a divenir giudice unico della possibilità di vita o morte. È l'avverarsi del totalitarismo, per via tecnologica e mediatica, spacciato come Pubblica Pietà. A meno che, appunto, non si abbia la forza, la possibilità, i mezzi per sottrarti allo Stato, alla scena oscena e alla canea intorno al proprio dolore. L'estate, dicono è il momento in cui "staccare". Il verbo oggi molto in voga, che ben altro senso aveva per Schumi pilota, capace di grandi rischiose "staccate". Oggi invece è il segno lessicale di una età dell'ansia come diceva Auden. Come se ci fossero in giro, non so, un sacco di gente che fa lavori insopportabili, in miniera o chissà che cosa. Invece, impiegati, insegnanti, imprenditori, studenti, tutti a dire che devono "staccare". L'imperativo è staccare, come se un'ansia ci seguisse. Staccare da noi stessi. Come staccare dalla vita chi non pare più che una cosa, anche se qualcuno grida "è vivo". Come se si dovesse staccare da qualcosa che ci opprime. E a cui non riusciamo più a dare nome. Forse basterebbe guardare a queste e altre vicende senza smettere di fare domande, senza smettere di voler essere liberi, e un po' di respiro verrebbe, un po' meno di ansia ci torturerebbe. Poichè l'ansia alligna nelle menti degli schiavi, o meglio, più precisamente, di quelli che lo stanno diventando e non sanno bene nemmeno di chi.

Vittorio Feltri sul fine vita: "Voglio decidere come morire. Se l'esistenza non ha senso..." Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019.

Ecco il doppio intervento di Renato Farina e di Vittorio Feltri che dibattono sul tema del fine-vita.

Caro Vittorio, amico e direttore (in ordine alfabetico: non riesco in certe questioni decisive a separare le due dimensioni). Ieri hai scritto un bellissimo articolo sulla sofferenza ingiusta imposta agli animali. Condivido in pieno. Sotto casa mia, proprio sotto, c' era la tenda del circo di Orlando Orfei quando, forse 60 anni fa, fu ferito da un leone. Il racconto fattomi dalla mamma mi spaventò, per ragioni opposte a quelle che si aspettava. Stavo con il leone. Perché trascinare dall' Africa il «mio" re della foresta? Poi Orlando, guarito, passò a domare le iene, che lui costringeva a sbriciolare un bastone di legno con i denti. Vidi questo spettacolo, sempre sotto casa mia. Era la rappresentazione presunta dell' uomo buono e coraggioso che imponeva alle bestie crudeli di sottomettersi. Crudele chi? Orrore. Non c' è bellezza né moralità in questo esercizio. Non c' è rispetto. Perché cito questa comunanza di giudizio? Perché la tua compassione razionale - di ateo dichiarato - è la mia. Nessuno ha il monopolio della compassione. Ma essa ci fa distanti su una questione seria. Non l' aborto (ricordo ai lettori che Vittorio Feltri, come direttore dell' Indipendente, 26 anni fa ricevette il premio del Movimento per la vita). Bensì l' eutanasia. In questi anni abbiamo già discusso del tema su queste colonne. Quante volte? Tante. Evito di sintetizzare la tua posizione, dato che già faccio fatica a esprimere la mia. Sono certo però tu sia per l' assoluto primato della libertà. Per questo ti chiamo in soccorso. Oggi, in Francia, in nome della compassione, stanno applicando una forma orrenda di eutanasia a una persona, Vincent Lambert, 42 anni, tetraplegico da dieci, uscito dal coma e in stato di «coscienza minimale», che non ha dato nessun consenso alla propria morte. Mi chiedo. Perché i radicali e in generale i sostenitori italiani del diritto a scegliere la propria morte non intervengono con durezza a dire: no questo no, non si fa? Fallo tu, sei ascoltato e autorevole. Il mio timore è che una legge che oggi in Italia autorizzi il suicidio assistito conduca al diritto-dovere dello Stato a sopprimere quanti sono ritenuti sofferenti e che si suppone abbiano una qualità della vita indegna. Non sono in grado di parlare, ma se lo fossero - dicono i giudici - sarebbero pure loro d' accordo, in nome del senso comune: perché vivere e pesare sulle casse della collettività. Insomma, la mia preoccupazione è questa: una volta che la legge (e andrà così: e se non lo farà il Parlamento, interverrà la Corte costituzionale a farlo, come già ha lasciato capire il suo presidente in una intervista a La Stampa) darà la facoltà al malato di farsi aiutare a morire, poi chi ha la tutela legale del sofferente, potrà scegliere per lui la soppressione. E così eccoci all' assassinio di esseri «inutili» che non hanno la forza di impedire di essere ammazzati, con i genitori che chiedono per-favore-non fatelo, e la polizia che li tiene lontani dalla sala di rianimazione, ironia della parola. Il caso in questione è - ripeto - quello di Vincent Lambert. In queste ore alcuni medici dell' ospedale di Reims, d' accordo con i giudici della Cassazione di Parigi, e con il consenso della moglie del malato, Rachel, lo stanno facendo morire di fame e di sete. Mentre scrivo è in agonia. Io dico: abbiate più coraggio, e tagliategli la testa, che così soffre meno. E' stata abrogata la pena di morte per i criminali. Giusto. In America, dove assurdamente la si applica, i giudici intervengono per bloccarla perché non è garantito che le iniezioni mortifere siano indolori. In Francia invece... Sì, perché Vincent soffre. E' accertato. Infatti i medici che stanno dedicandosi a questa operazione «compassionevole» hanno fatto sapere al quotidiano cattolico La Croix che a Vincent è assicurato un trattamento per cui «le mucose della bocca non diano al paziente un' insopportabile sensazione di secchezza». Impressiona la forza della madre, si chiama Viviane. Non si è arresa. Con un colpo di genio dettato dall' amore ha ottenuto di parlare a Ginevra nella seduta plenaria in ambito Onu, del Consiglio dei diritti dell' uomo. Ella si appella alla carta dei diritti delle persone handicappate, e al loro diritto a non essere soppresse approfittando della loro condizione menomata. Sorpassa a sinistra i cosiddetti difensori dei diritti individuali, in nome della persona e dei legami affettivi che nessuno stato ha diritto di troncare. Non esistono vite inutili. Niente da fare. A me la lezione di questa madre commuove nel profondo. Trasforma il diritto in uno strumento per affermare l' essenza dell'umano. E questa essenza è l' amore. Secondo Gabriel Marcel significa dire all'altro: tu non morirai. Anche a chi è tetraplegico, con la coscienza debolissima, bisognoso di tutto. Se uno Stato contraddice questa verità fondativa della civiltà cristiana nega la ragione del suo esistere. Forza Viviane Lambert, siamo con te! Vorrei che lo dicessi anche tu, direttore (e amico!). Renato Farina

Risposta di Vittorio Feltri: Caro Renato, sono d' accordo con te su vari punti della delicata questione. Ma devo fare qualche distinguo. Il suicidio assistito, per esempio, non c' entra nulla con l' eutanasia. Ricordo la vicenda drammatica di Lucio Magri, tra i fondatori negli anni Settanta del Manifesto. Posso dire che egli era un mio quasi amico. E mi confidò di essere stato deluso dalla politica. Gli risposi mestamente che i partiti e le ideologie alla fine scontentano sempre chiunque perché quando siamo giovani speriamo, poi invecchiando sbuffiamo. Era un uomo intelligente e fascinoso, e perfino molto educato. Rise alle mie parole. Poi ci incontrammo qualche volta, raramente. Quando morì sua moglie, che amava, inutile specificarlo, fu colpito da una botta di depressione da cui non si riprese. Ad una certa età la solitudine, la mancanza di una mano da stringere possono essere devastanti, la vita non ha più senso e diventa un peso. Una giornata non passa mai, mentre gli anni trascorrono veloci, il tuo corpo non cambia molto, tuttavia fatichi a portarlo in giro, dormi di meno, non hai appetito. Insomma, stare al mondo si trasforma in una seccatura e cominci a pensare che sarebbe meglio farla finita. Già. Ma come raggiungere l' aldilà? Tra il dire e il fare, si sa, c' è di mezzo il mare. Lucio si recò a Zurigo una prima volta fortemente deciso a chiudere, tuttavia, al momento di bere la sostanza che lo avrebbe stecchito, fu vinto dall' istinto di sopravvivenza. Ci riprovò dopo alcuni mesi, però fallì ancora. Al terzo tentativo trangugiò il liquido che lo portò via da questa terra ingrata. Non so quali demoni infestassero la sua psiche, ma rispettai e ancora rispetto la soluzione che adottò. Ci mancherebbe altro. Ogni uomo è padrone di se stesso e bisogna riconoscergli il diritto di scegliere se e quando morire. Ho raccontato questa storia per dimostrare che gli svizzeri sono più avanti di noi anni luce. Concepiscono l' eutanasia solo nel caso in cui coloro che ci puntano siano consapevoli del passo che compiono. Prima di consentirti la fuga dalle miserie che ti circondano, ti sottopongono ad un test, e se non lo superi non ti permettono di correre nell' oltretomba. Insomma, il suicidio assistito è una cosa seria, non accessibile a chiunque. Non è vero che renderlo praticabile sia come aprire una breccia alla eutanasia non richiesta dal paziente. È un atto estremo che dà l' opportunità di esercitare la propria volontà. Questo è poco ma sicuro. Non farei confusione. L' Italia bigotta da anni discute di questo problema senza arrivare a darsi una disciplina. Il caso di Lambert è analogo a quello della Englaro. Né lui né lei hanno preteso di trasferirsi dal letto di dolore al sepolcro, quindi non abbiamo la facoltà di procedere affinché essi si affidino a Caronte. E qui hai ragione tu. Non si può uccidere alcuno che non abbia espresso il desiderio di togliersi dagli affanni quotidiani. Ma impedire a un individuo di trapassare costituisce una forma intollerabile di prepotenza, anche se ispirata a buoni sentimenti cattolici. La religione è importante per i credenti, però non è obbligatorio essere tali, per cui devi accettare che io (o altri) gestisca l' esistenza o il decesso secondo i miei gusti e non secondo i tuoi. Vittorio Feltri

·         C’è Posto per te. Carissimo estinto.

Il business del caro estinto, quanto costa un funerale? E perché aumentano le cremazioni? Anna Zinola il 10 agosto 2019 su Il Corriere della Sera.

Il business del caro estinto vale due miliardi. Lo si potrebbe definire il business del «caro estinto». E’ costituito da quel mix di beni e servizi che ruotano attorno alle onoranze funebri. Di fatto si tratta di un giro d’affari che, secondo le stime, si aggira tra 1,6 e 1,9 miliardi di euro, escluse le spese cimiteriali. I conti sono presto fatti: nel nostro paese muoiono 650mila persone l’anno (dati Istat 2017) e ogni funerale ha un costo medio pari a 2.500/3.000 euro.

Una Jaguar per l’ultimo viaggio. Naturalmente la spesa può variare in funzione di una serie di elementi: dal materiale della cassa al tipo di mezzo utilizzato per il trasporto. Alcune società offrono, per esempio, autofunebri di Maserati e di Jauguar. Attenzione: questi veicoli non sono realizzati in modo autonomo dalle case automobilistiche. Il modello originario è modificato da imprese specializzate in interventi di auto-trasformazione così da rispondere alle specifiche esigenze del comparto.

Low cost o all inclusive, il funerale si paga a rate. Proprio come accade con i tour operator, anche qui c’è chi punta su offerte low cost e all inclusive. Non solo: alcune aziende propongono dei piani di finanziamento così da rateizzare il pagamento. Una scelta che deriva da due ragioni:

- da una parte il tentativo di darsi un posizionamento differenziante in un contesto competitivo sempre più affollato: secondo la Feniof (federazione nazionale imprese onoranze funebri) si contano oggi oltre 6.000 imprese, il doppio di quelle censite all’inizio degli anni 2000; 

- dall’altra parte intercettare quei segmenti di clientela particolarmente attenti al prezzo e/o in una situazione di difficoltà economica.

La pubblicità di Taffo…Chi non ha mai sentito parlare di Taffo? In rete e sui social media l’agenzia di servizi funebri è diventata una vera e propria star. Grazie alle sue campagne di comunicazione che, messo da parte il linguaggio sobrio tipico del settore, utilizzano un codice espressivo all’insegna dell’ironia e della leggerezza. Inoltre Taffo ha saputo legare in modo efficace la propria comunicazione a temi ed eventi di carattere sociale o politico. Ecco, allora, il post pubblicato in occasione del congresso delle famiglie di Verona oppure quelli dedicati al cambiamento climatico.

… e quella di Beyond. Se Taffo vi sembra irriverente, date un’occhiata alla pubblicità di Beyond. L’azienda inglese ha tappezzato Londra, e la rete, con l’immagine di due surfisti che corrono sorridenti verso il mare. Solo che, al posto delle tavole, hanno il coperchio di una bara. Lo slogan non lascia dubbi “un viaggio a senso unico”. Un’altra versione, che di primo acchito sembra l’adv di un farmaco anti-influenzale, recita “Mal di testa? Dolori? Mal di gola? Brividi? Meglio fare testamento…”. La campagna ha suscitato un coro di proteste, tanto che Transport for London – la società che gestisce i trasporti nella capitale britannica – si è rifiutata di affiggerla nelle stazioni della metropolitana.

Aumentano le cremazioni (al Nord). Anche in questo campo vi sono delle “mode”. In particolare l’ultima tendenza riguarda la cremazione, che cresce a ritmi superiori al 10%. I motivi sono molteplici: dal minore impatto ambientale alla possibilità di tenere le ceneri in casa. Senza dimenticare il prezzo più economico. Il fenomeno riguarda soprattutto le regioni del Nord (in primis Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte), mentre è poco diffuso nel Mezzogiorno. Sulla dicotomia Nord-Sud pesano non solo le questioni culturali e religiose ma anche la maggiore disponibilità nelle aree del settentrione dei centri crematori.

Il funerale di Fido. Un segmento emergente è quello dedicato agli animali domestici. Solo nel 2017 sono stati cremati oltre 170mila pets e ne sono stati inumati nei cimiteri per animali altri 140mila (fonte: Aidaea). Non stupisce, dunque, che aumentino le società specializzate, con servizi ad hoc. E i prezzi? Cambiano in base al servizio richiesto, quale il tipo di cremazione (individuale o collettiva), le caratteristiche dell’urna o della lapide.

CARISSIMO ESTINTO. Caterina Maniaci per “Libero Quotidiano” il 3 giugno 2019. Una pubblicità, tendente al macabro, recita: Regalo monolocale. Seminterrato. E si vede, sul cartellone, una bara infiocchettata. Perché la ditta di pompe funebri in questione (la Exequia) offre un "pacchetto" low cost sui servizi che comprende, gratis, proprio l' uso della cassa. I conti degli italiani sprofondano nel rosso e anche il funerale diventa un lusso, per cui le ditte corrono ai ripari. Nonostante questi lodevoli sforzi, per molti anche l' eterno riposo, anziché donare la pace eterna, diventa un incubo da togliere il sonno. Non bastavano il mutuo, il condominio, le bollette, il dentista, le vacanze a rate... Ora ci si indebita anche per i funerali. Secondo un' indagine realizzata per Facile.it da mUp Research sono stati ben 3,2 milioni gli italiani che per sostenere i costi di una cerimonia funebre hanno fatto ricorso a un prestito. Fra coloro che hanno partecipato all' indagine, la spesa media per i funerali è stata pari a poco più di 3.180 euro, valore che cambia sensibilmente da Nord a Sud. Più specificatamente, nel Nord Ovest raggiunge anche i 3.422 euro, mentre nel Centro e nel Sud si va decisamente verso il risparmio, con una media di 3026-3066 euro. Bisogna però anche segnalare che un buon 8 per cento di degli intervistati ha dichiarato di aver speso oltre 6.000 euro. Queste migliaia di euro da dove li hanno tirati fuori? Tra tutti gli interpellati, quasi uno su cinque ha scelto di pagare a rate. Il 13,1 per cento è riuscito a saldare il conto in un anno, mentre per il 6 per cento ci sono voluti dai due ai cinque anni. La media degli indebitati si trova concentrata soprattutto nel meridione. Altri dati incuriosiscono e consegnano un ritratto inedito della nostra società: nelle regioni del Centro nel 72 per cento dei casi il rito funebre è stato pagato con risparmi personali, mentre il ricorso al denaro lasciato dal defunto è stato maggiore nelle aree del Nord Ovest. Analizzando ancora i dati presentati dell' inchiesta, si scopre che a chiedere un finanziamento ad una società di credito sono state più le donne - l' 8, 5 per cento contro il 6,5 per cento del campione maschile - mentre sul piano anagrafico non sorprende scoprire che siano stati i giovani tra i 18 e i 24 anni a dover chiedere un prestito per far fronte alle spese funebri (23,4 per cento). Questo per quel che riguarda quel che è già accaduto. Ma per il futuro, cosa pensano di fare gli italiani? Quasi 1 su 3 (29,3 per cento), pari a 7,6 milioni di italiani, a questa domanda ha risposto che, nel caso, pensa di chiedere un prestito per saldare il conto, percentuale più che doppia rispetto a chi, in passato, ha già affrontato questo tipo di spesa. Insomma, spesa irrinunciabile per tutti, evidentemente, ma che pesa come un macigno sui bilanci familiari. Qualcuno, poi, non vuole rinunciare anche ad un certo fasto per l' addio ai propri cari. Non sono certo più i tempi dei carri funebri trainati da pariglie di cavalli con pennacchi neri sulla groppa... Ma il lusso e le mode si intrecciano anche sopra il feretro, a dispetto di crisi e finanze sempre più magre. Ci sono stati film e romanzi memorabili che hanno ironizzato sul tema, a partire dall' inarrivabile "Caro estinto" di Evelyn Waugh.

Anche la Chiesa ha modificato, almeno in parte, il rituale funebre. Nel 2016, con un "istruzione della Congregazione vaticana per la Dottrina della fede", si è aperta la possibilità della cremazione del corpo del defunto, cosa che non era ammessa fino a qualche anno fa. La preferenza è sempre per la sepoltura del corpo. Rimane proibita la dispersione delle ceneri "nell' aria, in terra o in acqua o in altro modo" e la loro conversione "in ricordi commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti". Il riferimento è a quella moda che si era diffusa, tempo fa, di trasformare il caro estinto in un diamante che, come è risaputo, è per sempre. Senza contare le altre tendenze, come l' ibernazione o la spedizione nel cosmo del feretro. Tutte mode per ricconi, in realtà. Che non si possono pagare a rate.

·         Piangi che fa bene.

Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 13 agosto 2019. Si dice che piangere non serva a nulla, che sia inutile piangere sul latte versato, e che versare lacrime faccia male alla salute fisica e psicologica. La scienza però non è d' accordo, perché è dimostrato che il pianto ha un suo effetto benefico in generale, ed in particolare sul cuore, sulla pressione e sul cervello. Uno studio dell' Università del Queensland, pubblicato sulla rivista Emotion, ha esaminato a fondo questo fenomeno sul oltre 500 soggetti in preda a lacrime e singhiozzi per svariati motivi, misurando loro il battito, la frequenza cardiaca e respiratoria, la pressione arteriosa, i livelli di cortisolo, l' ormone dello stress, e monitorando i cambiamenti psicologici conseguenti alle crisi di sconforto, concludendo che il pianto è benefico ed aiuta a mantenere l'omeostasi biologica, ovvero il processo che mantiene in equilibrio costante l' ambiente interno ed esterno del nostro corpo, compresa la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la salute mentale, restituendo la serenità perduta. Il pianto è un fenomeno fisiologico che produce e rilascia lacrime in risposta ad una emozione, sia essa negativa (dolore), che positiva (gioia), anche se le due componenti, lacrimazione ed emozione, possono non necessariamente essere compresenti. Nei neonati, per esempio, data l'immaturità del dotto lacrimale, si può verificare un pianto senza lacrime, che compaiono solo dopo il terzo mese di vita. In realtà il pianto accorato, quello spontaneo e dirompente, è un complesso meccanismo secreto-motore caratterizzato dall' effusione di lacrime senza alcuna irritazione dell' apparato oculare, perché è innescato da un collegamento neuronale, non sempre dominabile volontariamente, tra la ghiandola lacrimale ed alcune aree del cervello, coinvolte in una emozione dapprima controllata, che poi diventa irrefrenabile, e le stesse lacrime della crisi di pianto hanno una composizione chimica diversa dagli altri tipi di lacrimazione, contenendo un quantitativo significativamente più alto di ormoni prolattina, adenocorticotropo, e leu-encefalina, un oppioide endogeno e potente anestetico, oltre agli elettroliti potassio e manganese.

ELIMINA LE TOSSINE. L'encefalina in particolare, contenuta nelle lacrime e con esse secreta, allevia il dolore, allenta la tensione e distende i muscoli, motivo per cui il corpo si rilassa maggiormente e recupera energie subito dopo la crisi di pianto, mentre la prolattina e la corticotropina che aumentano ogni volta che l'organismo subisce ed accumula eccessivo stress, vengono eliminate in modo copioso attraverso le lacrime insieme ad altre tossine. Chiamatelo sfogo emotivo, crisi di sconforto o come volete, ma il pianto è stato predisposto da madre natura nel genere umano per liberarci da rabbia, delusione, tensione, sofferenze e da tutto ciò che la mente trattiene, memorizza, nasconde, e che la razionalità deposita nel fondo della coscienza, ed attraverso la crisi di pianto vengono eliminate anche le tossine e la dose eccessiva di ormoni stressanti accumulati, che hanno ripercussioni sull' intero organismo. Ma se piangere è benefico, cosa succede nel caso in cui le lacrime vengono trattenute ogni volta che si avverte il desiderio di piangere? La risposta è ben chiara dal momento in cui abbiamo scoperto di cosa si libera il nostro corpo ogni volta che versiamo lacrime, anche perché lo stress accumulato che decidiamo volontariamente di non "buttare fuori", potrebbe aumentare il rischio di insorgenza di molti meccanismi compensatori, poiché tutto quello che reprimiamo, che teniamo dentro, e che depositiamo o nascondiamo nel profondo della nostra anima, prima o poi torna a galla sotto forma di vari disturbi, in genere difficilmente diagnosticabili per quanto riguarda la loro origine. I sintomi più frequenti sono quelli intestinali, con problemi di nausea, gastriti e diarree senza la presenza di un agente patogeno specifico, ma si assiste anche all' insorgenza di disturbi a livello circolatorio, respiratorio e cardiaco, oltre che neurologico, con crisi di ansia e di panico, e, nei casi più gravi, si può arrivare a rilevare addirittura danni cerebrali con instabilità psichiatrica persistente. Insomma, senza piangere ci si ammala, e senza emozioni non si piange, e questo è dimostrato dai pazienti in coma, i quali non piangono, perché il pianto è intimamente legato alla coscienza, emotiva e razionale, ma che deve necessariamente essere vigile ed attiva per poterlo esprimere.

CAMPO DELLE EMOZIONI. Piangere infatti, è una comunicazione non verbale molto potente, molto più efficace delle parole, e non è affatto, come si crede, una forma di rifugio per i deboli, bensì una forma molto raffinata di anti-stress, una auto-difesa del nostro organismo per contrastare i colpi della vita. Le lacrime infatti, differentemente da altre reazioni corporee, rappresentano un segnale che gli altri possono vedere, ed innescano un legame sociale ed una connessione interpersonale che diventano elementi fondamentali quando l' essere umano, vulnerabile anche da adulto, prova l' esperienza dolorosa e frustrante dell' impotenza che genera la crisi di sconforto. Nel campo delle emozioni il pianto segnala a se stessi o ad altre persone che c' è un importante problema, il quale, almeno temporaneamente, oltrepassa la propria abilità di affrontarlo, e se in alcuni contesti può apparire imbarazzante, non versare lacrime può fare più male che bene. Scientificamente non è stato dimostrato perché la reazione lacrimosa si accompagni anche alla gioia, probabilmente per la potenza emotiva, anche se la psichiatria sostiene che ogni gioia in fondo contenga un dispiacere, il presagio della fine imminente del lieto evento, cosa che inconsciamente scatena le lacrime. Certamente, ma non sempre, il pianto si può frenare o reprimere volontariamente, soprattutto quando non sgorga improvviso, quando ha un esordio lento, quando si avverte il nodo in gola che lo preannuncia, come è altrettanto vero che nessuno mai è annegato in un mare di lacrime, e stando a uno studio su oltre 300 adulti, in media gli uomini piangono una volta ogni mese, mentre le donne piangono almeno cinque volte al mese, specialmente prima e durante il ciclo mestruale, spesso senza evidenti ragioni (come depressione e tristezza).

MODULA L'ANGOSCIA. Il pianto in occasione di un lutto, o della fine di un amore invece, è molto più disperante, sembra togliere tutte le forze, annichilire la reattività ed annullare qualunque volontà di recupero, ma è salutare per diminuire lo strazio della perdita, per modulare l' angoscia, per consolare e risollevare lo spirito. Il pianto inoltre, può continuare anche quando si è esaurita la riserva lacrimale (non ho più lacrime da versare), la quale necessita di alcuni minuti per riempire di nuovo le ghiandole oculari in cui è contenuta, nel caso in cui persista la situazione dolorosa che lo ha provocato. La terapia per smettere di piangere dopo un evento traumatico? Non esiste, in quanto gli psicofarmaci e gli antidepressivi agiscono sull' encefalo abbassando la soglia di percezione del dolore, ma non c' è ancora un farmaco che curi e risolva il dolore psicologico, quello intimo dell' anima. Anzi ce n' è uno ben noto da secoli, ed è il tempo, considerato anche dagli psichiatri la migliore terapia che lenisce e guarisce tutte le ferite, in senso fisico e psicologico, ma funziona solo nelle persone che non hanno paura di piangere e di affrontare la vita in ogni sua declinazione. Anche quella lacrimosa.

·         La musica per il funerale.

LA MUSICA DEI FUNERALI. Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 7 maggio 2019. E quando Dio viene e ti riprende con sé, noi canteremo "Alleluia, ora sei a casa". No, non è una canzone religiosa e in genere non viene cantata in chiesa. Ma ora sì, perché Supermarket Flowers del celebrato cantautore inglese Ed Sheeran è ufficialmente entrata nella top ten delle canzoni più suonate durante i funerali nel Regno Unito, secondo la classifica stilata da Co-op Funeral Care, agenzia che oltremanica organizza circa 100 mila esequie all' anno. E per la prima volta da quando viene stilata questa classifica (2002) nelle prime dieci canzoni non ce n' è nemmeno una tradizionale, quelle che una volta erano imprenscindibili durante i funerali celebrati dalla Chiesa d'Inghilterra, come The Lord is my Shepard (Il Signore è il mio pastore), All Things Bright and Beautiful (Tutte cose belle e luminose) e Abide with Me ( Resta con me). "È un sintomo dei tempi", scrive in un editoriale il quotidiano conservatore Times, "e anche una conseguenza della poca flessibilità della Chiesa nel comprendere i sentimenti delle persone comuni: il dolore oggi viene vissuto in maniera molto diversa, anche pop". Non è un caso che difatti le esequie in chiesa siano in calo da un paio di anni in Inghilterra. Ma anche quelli che restano "fedeli" ai funerali vecchio stampo scelgono sempre più canzoni pop, rock o da crooner per dare l' ultimo saluto ai propri cari. Ed Sheeran è una novità in una classifica che quest' anno vede al primo posto ancora una volta My Way di Frank Sinatra (in testa anche nel 2017), seguito da Time to Say Goodbye di Andrea Bocelli e Sarah Brightman. E poi Over the Rainbow di Eva Cassidy, Wind Beneath my Wings firmata Bette Midler e infine, dal quinto al decimo posto, Angels di Robbie Williams, Supermarket Flowers di Ed Sheeran appunto, Unforgettable di Nat King Cole, You Raise me Up della boy band irlandese Westlife (anche questa una nuova entrata come Sheeran). We' ll Meet Again di Vera Lynn e Always Look on the Bright Side of Life di Eric Idle dal film di Terry Jones e dei Monty Python Brian di Nazareth. Delle canzoni tradizionali religiose, invece, nessuna traccia. Lasciare una lista di canzoni per il proprio funerale, del resto, è un desiderio sempre più comune oltremanica. Secondo un sondaggio di Co-op Funeral Care, il 24% dei britannici ha le idee chiare sui brani da scegliere, in crescita rispetto a due anni fa (19%). Semplice vezzo o note di speranza in un (oltre)mondo migliore? Che sia una Stairway to Heaven o una Highway to Hell, l' importante è cantarci su.

Renato Paone per L'Huffington Post – 2017 il 7 maggio 2019. Molti la considerano la canzone più triste di sempre. Una canzone che parla di vita vissuta, un'esistenza a pieno regime, in cui eventi di ogni tipo si sono succeduti instancabilmente. Gioie, dolori. Rimpianti e depressione. "Hurt", ferito. Un titolo, così come il testo, che lascia poco spazio alle interpretazioni. E non è un caso che questa sia stata una delle ultime canzoni interpretate da una leggenda della musica, Johnny Cash. "Hurt" è stata scritta nel 1994 dai Nine Inch Nails, famosa band americana guidata da Trent Reznor. Nel 2002, Reznor venne contattato dagli agenti di Cash per ottenere il permesso di realizzare una cover, che sarebbe stata in seguito inserita nell'album American IV: The Man Comes Around. Appena sentita la richiesta, Reznor disse di essere lusingato, ma allo stesso tempo preoccupato che la sua canzone potesse essere svilita del suo senso originario. Quello di Reznor, infatti, era una canzone che parlava di senso di inadeguatezza, di incoerenza, di senso di vuoto e solitudine. Una canzone che parlava al futuro, nella speranza di migliorare il presente. Cash le dà un senso diverso. Lui è un uomo sul viale del tramonto, sa che la sua vita sta giungendo al termine. Le parole cantate da lui assumono un altro significato, si guarda indietro, rivede ogni singolo istante della sua vita. Guarda a ciò che è stato. "Cosa sono diventato/mio dolcissimo amico/tutti quelli che conosco se ne vanno/alla fine". Il video venne diretto da Mark Romanek, ex collaboratore dei NIN. Suo intento era cogliere l'essenza stessa di Cash, raccontare la sua storia in un video in cui passato e presente si alternano in continuazione. Mettere a confronto la gloria dei giorni della "leggenda" a quelli del presente, desolati e crudeli. Sia per le condizioni di salute di Cash, sia per il poco tempo a disposizione, Romanek decise di girare il video a Nashville, nella casa museo di Johnny Cash. "Era chiusa da molto tempo - racconta Romanek - il posto era decadente, abbandonato a se stesso. Lì ho capito che era il posto perfetto per girare e per raccontare la vita di Jhonny". Ed ecco quindi l'insegna "Chiuso al pubblico" del museo, il vetro rotto della cornice in cui è custodito un disco, il banchetto a cui nessuno partecipa. Sua moglie June che lo osserva con sguardo triste. Jhonny che versa un bicchiere di vino sul tavolo. La moglie di Cash morì tre mesi dopo le riprese, lui dopo sette. Rick Rubin, famoso produttore, è convinto del valore storico di quel video: "La prima volta che l'ho visto ho pianto. Incredibile come si sia riuscito a racchiudere tanta emotività in soli quattro minuti di video". Clip che la rivista New Musical Express ha nominato "miglior video di tutti i tempi", mentre il Time l'ha inserita nella top 30 di sempre. Lo stesso Reznor rimase colpito da quelle immagini: "Ero in studio quando feci partire il video. Ho sentito le lacrime salirmi agli occhi, avevo i brividi. Sentivo come se la mia ragazza mi avesse lasciato, perché quella canzone non era più mia. Pensavo solo al valore che può avere la musica, la sua potenza comunicativa come forma d'arte. Mi ricordavo di quando avevo scritto quella canzone nella mia camera da letto, in solitudine. Poi arriva questa leggenda della musica e le dà una lettura diversa, riuscendo però a mantenere puro il suo significato". Il 10 aprile del 2007, la casa museo di Johnny Cash, dove venne girato il video, andò a fuoco e crollò durante l'incendio. Fu la casa di Johnny Cash per 30 anni.

·         Si salvi chi può…ma prima la valigia.

SALVARE LA VALIGIA E CONDANNARE A MORTE. Leonard Berberi per il “Corriere della sera” il 7 maggio 2019. Per il mondo social sono colpevoli. E vanno condannati con la galera o la morte. Per il mondo reale una punizione non c' è. Se non il rimorso di avere, senza volerlo, ucciso qualcuno. E tutto questo pur di salvare la valigia. Da ore gli esperti di sicurezza aerea s' interrogano sull' incidente di domenica di un velivolo della compagnia russa Aeroflot nel quale 41 persone sono morte nell' incendio dopo l' atterraggio d' emergenza nell' aeroporto di Mosca-Sheremetyevo. L' inchiesta deve ancora accertare le cause. I filmati mostrano quello che succede dopo. L' aereo brucia e alcuni passeggeri si allontanano con il bagaglio a mano attraverso i due scivoli davanti (sui quattro totali). Tra questi c' è Dimitry Khlebushkin, seduto al posto 10 C. Secondo i giornali russi l' uomo, alto e robusto, avrebbe ostruito il passaggio recuperando lo zaino. Tra quelli che si trovavano dietro sarebbero sopravvissuti in tre. Il trolley (proprio) o le vite (degli altri)? Le norme sono chiare: in caso d' incendio, atterraggio d' emergenza o ammaraggio via tutti, senza portarsi alcun peso, entro 90 secondi dall' allarme. «Invece continuiamo a vedere persone che se ne vanno con gli effetti personali», dice al telefono Christine Negroni, esperta di incidenti aerei e autrice del libro «The Crash Detectives». Secondo lei, e altri analisti, la data chiave è il 6 luglio 2013: il volo Asiana Airlines 214 atterra rovinosamente sulla pista di San Francisco. Il jet prende fuoco, muoiono tre viaggiatori, diversi altri scappano con il bagaglio. «A quanto pare gli individui preferiscono rischiare l' esistenza propria o degli altri pur di salvare il trolley», sintetizza al Corriere della Sera Grant Brophy, investigatore dei disastri aerei da una trentina d' anni. «I passeggeri o non seguono le istruzioni o decidono di ignorarle: e questo è ancora più rischioso in presenza di fuoco e fumo». Uno studio del 2000 su 46 procedure d' evacuazione curato dal National transportation safety board (l' ente che indaga sugli incidenti nei trasporti Usa) calcola che quasi il 50% dei passeggeri ha lasciato l' aereo portandosi un bagaglio. Per due assistenti di volo su tre i borsoni sono stati «un intralcio davvero serio». L' ultimo avviso dell' ente australiano della sicurezza aerea sottolinea che il pericolo è pure aumentato: «Alcune iniziative aziendali, le pressioni commerciali e la percezione dei passeggeri stanno spingendo le persone a imbarcarsi con più bagaglio a mano», c' è scritto. «A questo bisogna aggiungere che i costruttori dei velivoli stanno installando cappelliere più capienti». Risultato: a bordo ci sono più effetti personali d' un tempo. L' Europa non è esclusa da questo fenomeno. «Bisognerebbe per questo limitare il numero, le dimensioni e il tipo degli oggetti da portarsi a bordo», propone Ed Galea, docente dell' Università inglese di Greenwich.

Viaggiatori spregiudicati? Nell' incidente Asiana più di un sopravvissuto ha raccontato di essersene andato con la valigia dopo aver visto altri fare la stessa cosa. «È stato un riflesso condizionato», spiega Negroni. Che denuncia la «normalizzazione della devianza»: sempre meno persone che seguono gli annunci di sicurezza. «Più di vent' anni fa ho suggerito ad Airbus di pensare alla chiusura centralizzata delle cappelliere», ricorda via mail il professor Galea. «Ma il rischio è che le persone perdano ancora più tempo, nell' emergenza, a tentare di aprirle». C' è poi una realtà nuova che Negroni chiama l'«effetto dispositivo»: in un mondo social «il protagonista di un incidente vuole testimoniare con lo smartphone quello che succede». Alla ricerca dello scatto e dell' inquadratura perfetti. E a volte mortali.

·         Come capire quando una persona sta annegando e cosa fare per aiutarla.

Come capire quando una persona sta annegando e cosa fare per aiutarla. Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Corriere.it. Quando pensiamo a una persona che annega immaginiamo che agiti le braccia e che urli chiedendo aiuto, ma le cose non stanno quasi mai così. Annegare, nella maggior parte dei casi, è un evento drammaticamente tranquillo e può succedere anche molto vicino a riva. La vittima perde il contatto con la terra, inala una prima boccata d’acqua e di riflesso si chiude la laringe. «La glottide è serrata, quindi questa persona non può né respirare né parlare: è quello che chiamiamo annegamento silenzioso» chiarisce Alfredo Rossi, medico e direttore sanitario della Società Italiana di Salvamento, che dal 1929 rilascia brevetti per bagnini di Salvataggio. «Chi è in difficoltà non agita neppure le braccia come molti credono: l’istinto naturale spinge a estenderle lateralmente premendo dall’alto verso il basso la superficie dell’acqua, nel tentativo di prendere aria. I bagnanti intorno spesso non si rendono conto di quel che sta accadendo, anzi, tante volte pensano che stia giocando».

·         I Resuscitati.

Storia di Michael che era morto per 43 minuti. Dopo il buio la «resurrezione». Pubblicato giovedì, 22 agosto 2019 da Corriere.it. «Più di 500 mila persone muoiono ogni anno per annegamento, lo 0,7% dei decessi in tutto il mondo. L’annegamento provoca rapidamente asfissia e conseguente arresto cardiaco. La sopravvivenza è estremamente rara e il completo recupero neurologico è quasi impossibile se l’immersione è più lunga di 30 minuti in acqua più calda di 6 gradi». Comincia così un lungo articolo pubblicato sulla stampa scientifica a firma dell’équipe della Terapia intensiva cardiochirurgica dell’ospedale San Raffaele di Milano. Sopravvivenza estremamente rara. Recupero neurologico quasi impossibile. Quasi. La storia raccontata sul numero di7 in edicola domani con il Corriere (e in vendita fino a giovedì prossimo) sta tutta in quel «quasi»: Michael, oggi diciottenne, nel 2015 si tuffa con gli amici nel Naviglio Grande a Cuggiono, alle porte di Milano, un mulinello lo strascina sul fondo dove resta per 43 minuti prima che i sommozzatori dei vigili del fuoco riescano a riportarlo a galla. Clinicamente morto. Quarantatré minuti, temperatura dell’acqua 15 gradi. Michael oggi non solo è vivo, ma è «neurologicamente intatto», per usare l’espressione scelta dai medici nell’articolo scientifico che racconta l’eccezionalità del caso clinico del ragazzo milanese. Cosa pensa, come vive, com’è riuscito a rimettere sui binari giusti la propria esistenza Michael, dopo un’esperienza di questa intensità? Il ragazzo si racconta: quei 43 minuti di buio, l’idea che si è fatto della morte, «ci sono passato, so di cosa parlo», la famiglia, gli amici, la gamba amputata durante il ricovero, i suoi ricordi dei 13 giorni nell’ospedale in cui è entrato morto ed è stato «resuscitato». Resuscitato, sì. Resurrezione (o resuscitazione) è diventata parola del linguaggio medico, «si dice di quei pazienti che tornano alla vita dopo un arresto cardiaco prolungato che non risponde alle manovre di rianimazione convenzionali — spiegano i medici del San Raffaele che si sono occupati di Michael —. In un’epoca precedente questo corrispondeva alla morte: non esisteva uno step successivo». Oggi sì. Oggi esiste una «scienza della resurrezione» e una «macchina della resurrezione»: è quella che ha riportato in vita Michael. La storia del ragazzo si fonde così con un reportage dentro la Rianimazione cardiovascolare del San Raffaele, dove l’impossibile, il riportare alla vita i morti, diventa possibile. Con quali limiti? È «democratica» la scienza della resurrezione? E quanto potrà evolvere ancora? I medici rispondono. Michael invece confessa, a quattro anni dall’annegamento, di essere ancora «pieno di domande».

Michael Mandolfo, 43 minuti sotto acqua: «Ero morto, sono resuscitato». Quattro anni fa il tuffo nel Naviglio e il mulinello che lo imprigionò sott’acqua. Quando i sommozzatori lo riportarono a terra era clinicamente morto. Storia del ragazzo che ha vissuto due volte e del reparto d’ospedale che ha fatto il miracolo. Daniela Monti il 23 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. «Quando sono tornato per la prima volta in ospedale (erano già passati mesi dal mio incidente), mi sono presentato a medici e infermieri, perché lì tutto era nuovo per me: buongiorno, sono Michael Mandolfo». In reparto, Anna Mara Scandroglio e Maria Grazia Calabrò, medici della Rianimazione cardiovascolare del San Raffaele di Milano, si sono scambiate un sorriso. «Ciao, Michi, ma noi ci conosciamo, e anche piuttosto bene...». Succede quasi sempre così: nessun ricordo. «In quei giorni di ricovero ho spento la realtà», dice ora il ragazzo che, nella primavera del 2015, dopo un tuffo nel Naviglio Grande, restò 43 minuti sott’acqua prima che i vigili del fuoco riuscissero a riportarlo a galla, morto, «arresto cardiaco refrattario ad ogni manovra rianimatoria». È da morto, clinicamente morto, che Michael fa il suo ingresso al San Raffaele quattro anni fa.

La scienza della resurrezione. Ne uscirà 37 giorni dopo “resuscitato”, come dicono in Terapia intensiva. E la parola suona strana in bocca ai medici, è parola da religiosi non da scienziati, rimanda alla liturgia della messa domenicale, «aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». La fede nella resurrezione è diventata scienza della resurrezione, rianimare è pratica che si applica ai corpi vivi, mentre i corpi morti, come quello di Michi dopo i 43 minuti in fondo al canale, resuscitano anche per la medicina. «Resurrezione, o resuscitazione, si dice di quei pazienti che tornano alla vita dopo un arresto cardiaco prolungato che non risponde alle manovre di rianimazione convenzionali», confermano i sanitari. «In un’epoca precedente, questo corrispondeva alla morte: non esisteva uno step successivo. Oggi le nuove tecnologie ci consentono di andare oltre».

«Non ho ricordi. Solo buio e noia». Della sua personale resurrezione, il ragazzo non ha però alcun ricordo. «Una paziente, una volta, ci disse che la sola cosa che ricordava del suo passaggio in reparto era la sensazione di aver attraversato il paese dei puffi: a quel tempo le nostre divise erano blu», riprendono le dottoresse. Il luogo dove la fede diventa scienza e l’inimmaginabile possibile è lo stesso di cui non resta alcuna traccia nella memoria, quello in cui si «spegne la realtà». «Il vuoto, zero. Ho visto delle foto, dei video. Ma ricordi miei, originali, non ne ho», dice Michael. «Del reparto d’ospedale in cui mi hanno portato dopo, invece, ho dei flash, ma non so metterli in ordine cronologico. Il primo è una scena buffa: un infermiere passa nella mia stanza e inciampa nel cavo della tv, facendola cadere. E l’assurdo è che succede due volte: risistemano la tv, lui passa di nuovo e di nuovo la tele cade. Alla fine mi hanno cambiato l’apparecchio, sostituendolo con uno più vecchio. Un altro ricordo è mio padre che mi mette le canzoni, facendomele sentire con una cassa che aveva portato da casa. E io insisto perché alzi il volume, ma lui non mi dà retta, dice che non si può, che bisogna avere rispetto per gli altri pazienti...”.

Evgeny Fominskiy, anestesista e rianimatore dell’équipe della Terapia intensiva del San Raffaele di Milano, visita un paziente collegato all’Ecmo: anche Michael, nel 2015, fu salvato con la «macchina della resurrezione». Ma a causa di un’ischemia irreversibile gli venne amputata parte della gamba destra.

«Ho perso la gamba. Ero disperato, volevo uccidermi». Michi è seduto nel terrazzo della villetta di Cuggiono, in provincia di Milano, dove vive con la famiglia. Ha compiuto da poco 18 anni, i capelli biondi sono legati a formare un codino, il fisico è alto e asciutto, l’andatura però è incerta: non ha ancora imparato a camminare bene con la protesi alla gamba destra, amputata all’altezza del ginocchio dopo l’incidente. In soggiorno, c’è la carrozzina con cui si muove fuori casa. «Quando mi sono svegliato e mi hanno detto che avevo perso la gamba, mamma ha raccontato che mi sono messo a piangere, ero disperato, volevo uccidermi. Ho avuto un periodo in cui davvero volevo morire. Ma sono cose che passano, chi non ha avuto un periodo di depressione? Io l’ho avuto per l’amputazione ed è durato molto più del ricovero e della riabilitazione messi insieme. Adesso, non si può più chiamare depressione: bene o male l’ho accettato». Alla domanda su quanto sia stata dura, alza le spalle: «Basta non pensarci». Sembrano molte le cose a cui Michi ha deciso di non pensare. «Dobbiamo inventarci qualcosa per fare ripartire bene la tua vita», interviene la madre, seduta accanto a lui. «Bisogna reinventare la gamba», risponde secco il ragazzo. Discorso chiuso.

La macchina dei miracoli e il risorto inconsolabile. Come far “ripartire la vita” è una delle cose a cui Michi non vuole pensare. Almeno per ora. Nella moltitudine dei possibili punti di vista su un’esperienza — l’amputazione della gamba —, Michi ha scelto il più inconsolabile: essere vivo non gli basta, la gamba è diventata il suo chiodo fisso. Michael era morto, a 14 anni, ed è tornato indietro grazie all’Ecmo, la macchina della resurrezione, in grado di prendere il sangue di un paziente a cuore fermo e farlo circolare esternamente, eliminando anidride carbonica e fornendo ossigeno. Ha ripreso la scuola, le sue amicizie. Ma il tormento per la gamba perduta non è passato. L’amputazione è la conseguenza di un’ischemia irreversibile, «i medici la chiamano “effetto collaterale”, è uno scherzo dell’Ecmo. È la gamba a farmi soffrire. Esci indenne dopo un incidente così, dopo 43 minuti sott’acqua, e l’unica cosa che hai perso è una gamba: di che altro mi potrei lamentare? Non riesco a non farmi un sacco di domande: perché io? Perché ho perso la gamba? Perché non sono morto invece di perdere la gamba? Perché non ho perso la sinistra invece della destra?».

Aprile 2015, l’elicottero dei soccorsi con a bordo Michael, allora 14enne. Il ragazzo, in arresto cardiaco prolungato, viene portato al San Raffaele di Milano.

Il tuffo con i compagni nel Naviglio. Nel 2015 del caso di Michi si occuparono tutti i giornali: sono le 17 del 24 aprile, un gruppo di compagni di scuola decide di fare un bagno nel Naviglio. Ma da quel tuffo uno dei ragazzi non riemerge: un mulinello l’ha trascinato sul fondo. Poi arrivano i vigili del fuoco. I 43 minuti. Il volo disperato in elicottero all’ospedale. Quello di Michael Mandolfo, si legge ora negli articoli scientifici dedicati al ragazzo resuscitato, è «l’annegamento per il periodo di tempo più lungo riportato in letteratura» di un essere umano che da quell’esperienza è uscito «neurologicamente intatto». Nei resoconti — firmati dall’équipe della Terapia intensiva cardiochirurgia dell’ospedale San Raffaele — la storia di Michi è riassunta in modo preciso ed essenziale. I minuti, innanzitutto. «I pompieri lo hanno estratto dall’acqua 43 minuti dopo l’annegamento e 29 dopo l’attivazione del sistema di emergenza. La temperatura dell’acqua era di 15°, presenza di asistolia». Quando i sommozzatori lo ripescano, il medico rianimatore del 118 si trova davanti un ragazzino cianotico senza alcun segno vitale. A caldo racconterà: «Chi era attorno a me mi diceva di non accanirmi su un cadavere. Ma io volevo assolutamente continuare la rianimazione, la temperatura bassa mi faceva sperare».

Rianimato ma senza ossigeno agli organi vitali. Il medico recupera un certo ritmo cardiaco ma con un’aritmia definita dai sanitari «refrattaria alla terapia», insufficiente a portare ossigeno agli organi vitali. Il ragazzo viene caricato sull’elicottero dei soccorsi. Cento minuti dopo l’annegamento, è nel reparto dei miracoli, quello di cui nessuno conserva il ricordo, il paese dei puffi, del buio assoluto, della realtà che si spegne, del sonno senza sogni. Ecmo è una sigla che sta per Extra Corporeal Membrane Oxygenation: la scienza della resurrezione deve quasi tutto a questa macchina, usata a cuore fermo, che consente di fronteggiare sia l’insufficienza respiratoria acuta sia quella cardiaca. Tramite la macchina, il paziente viene messo in circolazione extracorporea per mantenere a riposo cuore e polmoni, che vengono bypassati. Dopo 13 giorni di ospedale, il ragazzo «è sveglio e neurologicamente intatto».

L’insonnia cronica e l’idea di una scuola serale. Al tempo dell’incidente Michi frequentava il liceo scientifico, ora ha abbandonato gli studi, «ma con l’intenzione di riprenderli: quest’anno l’ho perso, non frequentavo. Vorrei iscrivermi a una scuola serale. Ho un’insonnia cronica, che si è aggravata dopo l’incidente: studio e ascolto musica di notte, dormo di giorno. Le lezioni di sera potrebbero adattarsi meglio ai miei ritmi. Studierò, poi vedrò che succede. Adesso non voglio pensarci». La madre racconta che «sotto molti punti di vista è uguale a prima: stessa bella intelligenza, stessa brillantezza, stessa passione per la musica e per il pianoforte».

«Vivo alla giornata, non ho superato il trauma». L’esperienza l’ha reso più maturo rispetto ai suoi coetanei? No, risponde Michi, «piuttosto mi ha tolto qualcosa. Maturare non è la parola esatta, non trovo un termine adatto per dire cosa è successo dopo l’annegamento e dopo che ho perso la gamba. Volevo fare tante cose: il fotografo, l’architetto, lo chef. Adesso non voglio più niente, vivo alla giornata. Macché alla giornata: vivo al momento, un momento dopo l’altro. Sono passati quattro anni ma non posso dire di aver superato l’incidente. Lo supererò mai? Non lo so. Serve altro tempo? Non lo so».

«Della mia morte ricordo solo il buio. E la noia». La morte. «Mi sono fatto una mia idea della morte: ci sono passato, quindi lo so. Chi crede in Dio pensa ci siano il paradiso e l’inferno. Ma nel mio caso non c’è stato nulla. Solo il nero. È come quando dormi, poi ti svegli e non ricordi quale sogno hai fatto. Della mia morte ricordo solo la noia. Da lì in poi ho capito di avere solo me stesso». Se la fede nella resurrezione è diventata scienza, perché Michi sì e tutti gli altri no? Cancellare la morte — Erasing Death, prendendo in prestito il titolo del libro dello specialista rianimatore britannico Sam Parnia, che nel 2013 ha fatto molto discutere — è una speranza democratica, applicabile su larga scala? «Esistono delle raccomandazioni in letteratura e la ragionevolezza guida le scelte. L’esperienza ha dimostrato che esistono, come in tutte le cose, delle eccezioni», rispondono i medici dell’équipe. «Il nostro percorso degli ultimi dieci anni è stata una palestra durissima, abbiamo affrontato situazioni estreme». E raccontano che no, quella della resurrezione non è una scienza democratica, e sì, Michi è davvero un’eccezione, «se il paziente non risponde alle manovre più avanzate, è deceduto, non ci sono altre possibilità».

L’équipe della Terapia intensiva cardiochirurgica del San Raffaele durante una visita. Da sinistra: Silvia Ajello, cardiologo, Maria Grazia Calabrò e Anna Mara Scandroglio, anestesisti e rianimatori, Giulio Melisurgo, cardiologo, Francesco Calvo, specializzando in Cardiologia.

La sfida della purificazione degli organi. Come interrompere il processo biologico della morte resta un enigma, un azzardo, «abbiamo avuto casi con esiti a volte positivi e altri no. Resuscitare non significa avere tutta una nuova vita davanti: il tempo concesso può essere breve, ma ne può valere comunque la pena». Nei protocolli di intervento con l’Ecmo, l’età del paziente è il requisito che sta al primo posto: i 14 anni di Michi sono stati una benedizione, «un arresto cardiaco in età avanzata può portare a una situazione irreversibile prima dell’arrivo in ospedale», riprendono i medici. Poi c’è la modalità con cui i soccorsi sono stati attivati: il racconto del tuffo nel canale fatto dai compagni è il secondo elemento che ha giocato a favore di Michi, «ci serve un testimone che abbia visto e sappia dire quando e come si sono svolti i fatti. Sono informazioni essenziali per capire quale spazio terapeutico abbiamo per agire». Quanto potrà evolvere, ancora, la scienza della resurrezione? «Questa è la vera sfida. L’evoluzione dipenderà dalla velocità della macchina dei soccorsi e dalle tecniche di perfusione, preservazione e purificazione degli organi».

Maledetto aprile: l’investimento dell’amico. Il ragazzo resuscitato ha un rapporto complicato con il destino: nel 2018 un altro incidente, l’amico che lo spingeva in carrozzina è stato investito da un’auto, «quando c’è stato il botto», racconta Michi, «mi sono girato e l’ho visto in terra. Lui è rimasto ferito, io ne sono uscito illeso. È accaduto un giorno prima del terzo anniversario dal mio annegamento, aprile per me è un mese maledetto». Nella locandina accanto all’edicola in centro al paese la notizia venne riassunta così: “Cuggiono, ragazzo in fin di vita. L’amico salvo è Michael, che già una volta è fuggito alla morte”. Con gli amici parlate di quello che hai passato? «Con loro si scherza, racconto l’episodio sempre nello stesso modo. I miei nonni abitano a Roma, lì ho conosciuto un nuovo gruppo di ragazzi e quando mi hanno chiesto del mio incidente ho risposto con disinvoltura perché a volte mi diverte stupire: sono stato 43 minuti senza respirare, voi ci sareste riusciti? Poi mi sono stancato e ho detto: cercate su Internet, lì trovate tutto. Ma quando chiedono perché sono rimasto vivo, non so mai cosa rispondere». L’unica cosa certa è che ce l’hai fatta. «Forse».

·         I morti nel 2019.

GENNAIO

Leonardo Cenci, maratoneta malato di cancro, 46 anni (2 novembre 1972 - 30 gennaio 2019)

Michel Legrand, jazzista francese premio Oscar, 86 anni (24 febbraio 1932 - 26 gennaio 2019) 

Giuseppe Zamberletti, padre fondatore Protezione civile, 85 anni (17 dicembre 1933 - 26 gennaio 2019)

Kaye Ballard, attrice e cantante statunitense, 93 anni (20 novembre 1925 - 21 gennaio 2019) 

Emiliano Sala, calciatore argentino, 28 anni (31 ottobre 1990 - 21 gennaio 2019)

Carol Channing, attrice e cantante statunitense, 97 anni (31 gennaio 1921 - 15 gennaio 2019)

Paweł Adamowicz, sindaco di Danzica assassinato, 53 anni (2 novembre 1965 - 14 gennaio 2019) 

Michael Atiyah, matematico britannico, 89 anni (22 aprile 1929 - 11 gennaio 2019) 

Paolo Paoloni, attore e regista teatrale italiano, 89 anni (24 luglio 1929 - 9 gennaio 2019) 

FEBBRAIO

Mark Hollis, cantante della band Talk Talk, 64 anni (Londra, 4 gennaio 1955 - 25 febbraio 2019) 

Marella Caracciolo di Castagneto, vedova di Gianni Agnelli, 91 anni (4 maggio 1927 - 23 febbraio 2019)

Stanley Donen, regista e coreografo statunitense, 94 anni (13 aprile 1924 - 23 febbraio 2019)

Karl Lagerfeld, stilista tedesco, 85 anni (10 settembre 1933 - 19 febbraio 2019) 

Bruno Ganz, attore svizzero, 77 anni (22 marzo 1941 - 16 febbraio 2019)

Gordon Banks, ex portiere di calcio britannico, 81 anni (30 dicembre 1937 - 12 febbraio 2019) 

Albert Finney, attore britannico, 82 anni (9 maggio 1936 - 7 febbraio 2019)

Rosamunde Pilcher, scrittrice britannica, 95 anni (22 settembre 1924 - 6 febbraio 2019)

Matti Nykanen, saltatore con gli sci finlandese, 55 anni (17 luglio 1963 - 4 febbraio 2019)

MARZO

Agnès Varda, regista francese, 90 anni (30 maggio 1928 - 29 marzo 2019)

Lorenzo Orsetti, combattente volontario contro l'Isis, 33 anni (13 febbraio 1986 - 18 marzo 2019

Mario Marenco, comico e autore televisivo, 86 anni (9 settembre 1933 - 17 marzo 2019) 

Pino Caruso, attore e scrittore, 84 anni (12 ottobre 1934 - 7 marzo 2019)

Jed Allan, attore televisivo, 82 anni (1 marzo 1935 - 9 marzo 2019)

Luke Perry, attore statunitense, 52 anni (11 ottobre 1966 - 4 marzo 2019)

Keith Flint, cantante dei Prodigy, 49 anni (17 settembre 1969 - 4 marzo 2019)

Tullio Gregory, filosofo, 90 anni (28 gennaio 1929 - 2 marzo 2019) 

APRILE

Peter Mayhew, attore, il Chewbecca di Star Wars, 74 anni (19 maggio 1944 - 30 aprile 2019) 

Ken Kercheval, attore, il Cliff Barnes di Dallas, 83 anni (15 luglio 1935 - 21 aprile 2019) 

Massimo Bordin, giornalista ex direttore di Radio Radicale, 67 anni (18 agosto 1951 - 17 aprile 2019)

Giuseppe Ciarrapico, imprenditore e politico, 85 anni (28 gennaio 1934 - 14 aprile 2019)

Monkey Punch, nome d'arte di Katō Kazuhiko, fumettista ideatore di Lupin, 81 anni (26 maggio 1937 - 11 aprile 2019)

Cesare Cadeo, conduttore tv, 72 anni (2 luglio 1946 - 4 aprile 2019)

MAGGIO

Paolo Tenna, manager cinematografico, 47 anni (17 febbraio 1972 - 30 maggio 2019)

Vittorio Zucconi, giornalista e scrittore, 74 anni (16 agosto 1944 - 25 maggio 2019)

Alberico Motta, fumettista e illustratore, 81 anni (6 ottobre 1937 - 23 maggio 2019)

Kenneth Binyavanga Wainaina, scrittore keniota attivista del mondo gay, 48 anni (18 gennaio 1971 - 21 maggio 2019)

Niki Lauda, ex pilota di Formula 1, 70 anni (22 febbraio 1949 - 20 maggio 2019)

Ieoh Ming Pei, architetto cinese del Louvre, 102 anni (26 aprile 1917 - 16 maggio 2019) 

GIUGNO

Florijana Ismaili, calciatrice svizzera, 24 anni (1 gennaio 1995 - 29 giugno 2019) 

Gloria Vanderbilt, stilista e artista, 95 anni  (20 febbraio 1924 - 17 giugno 2019)

Franco Zeffirelli, regista, 96 anni (12 febbraio 1923 - 15 giugno 2019)

Dr. John (Malcolm John Rebennack), cantante blues, 77 anni (21 novembre 1940 - 6 giugno 2019)

Walter Lübcke, politico tedesco della CDU assassinato, 65 anni (22 agosto 1953 - 2 giugno 2019)

José Antonio Reyes, ex calciatore spagnolo, 35 anni  (1º settembre 1983 - 1 giugno 2019) 

LUGLIO

Raffaele Pisu, pseudonimo di Guerrino Pisu, comico, 94 anni (24 maggio 1925 - 31 luglio 2019)

Giampiero Pesenti, ex presidente Italcementi, 88 anni (5 maggio 1931 - 24 luglio 2019)

Carlo Federico Grosso, avvocato e giurista, 81 anni (14 novembre 1937 - 23 luglio 2019)

Ilaria Occhini, attrice, 85 anni (28 marzo 1934 - 20 luglio 2019)

Francesco Saverio Borrelli, magistrato, 89 anni (12 aprile 1930 - 20 luglio 2019)

Mattia Torre, sceneggiatore e regista, 47 anni (1972 - 19 luglio 2019)

Luciano De Crescenzo, scrittore, 90 anni (18 agosto 1928 - 18 luglio 2019) 

Andrea Camilleri, scrittore, 93 anni (6 settembre 1925 - 17 luglio 2019)

Valentina Cortese, attrice, 96 anni (1 gennaio 1923 - 9 luglio 2019) 

Cameron Boyce, attore e ballerino, 20 anni (28 maggio 1999 - 6 luglio 2019)

Lee Iacocca, manager di Ford e Chrysler, 94 anni (15 ottobre 1924 - 2 luglio 2019)

AGOSTO

Valerie Harper, attrice statunitense, 80 anni (22 agosto 1939 - 30 agosto 2019)

Achille Silvestrini, cardinale e arcivescovo, 95 anni (25 ottobre 1923 - 29 agosto 2019) 

Ferdinand Piëch, imprenditore ex leader Volkswagen, 82 anni (17 aprile 1937 - 25 agosto 2019)

Carlo Delle Piane, attore, 83 anni  (2 febbraio 1936 - 23 agosto 2019) 

Cosimo Cinieri, attore, 81 anni (20 agosto 1938 - 19 agosto 2019) 

Roger Williams, animatore e regista, 86 anni (19 marzo 1933 - 16 agosto 2019)

Peter Fonda, attore, 79 anni (23 febbraio 1940 - 16 agosto 2019)

Felice Gimondi, ex ciclista, 76 anni (29 settembre 1942 - 16 agosto 2019)

Nadia Toffa, conduttrice tv, 40 anni (10 giugno 1979 - 13 agosto 2019

Piero Tosi, costumista, 92 anni (10 aprile 1927 - 10 agosto 2019)

Jeffrey Epstein, imprenditore e criminale, 66 anni (20 gennaio 1953 - 10 agosto 2019)

Toni Morrison, scrittrice premio Nobel, 88 anni 18 febbraio 1931 - 5 agosto 2019

Alberto Sironi, regista televisivo, 79 anni (5 agosto 1940 - 5 agosto 2019) 

Bjorg Lambrecht, ciclista belga, 22 anni (2 aprile 1997 - 5 agosto 2019) 

SETTEMBRE

Jessye Norman, soprano statunitense, 74 anni (15 settembre 1945 - 30 settembre 2019) 

Jacques Chirac, ex presidente della repubblica francese, 86 anni  (29 novembre 1932 - 26 settembre 2019)

Zine El Abidine Ben Ali, ex presidente della Tunisia, 83 anni (3 settembre 1936 - 19 settembre 2019)

Fernando Ricksen, ex calciatore olandese, 43 anni (27 luglio 1976 - 18 settembre 2019)

Ric Ocasek, cantante e leader dei Cars, 75 anni (23 marzo 1944 - 15 settembre 2019)

Robert Frank, fotografo e regista, 94 anni (9 novembre 1924 - 9 settembre 2019)

Robert Mugabe, ex presidente dello Zimbabwe, 95 anni (21 febbraio 1924 - 6 settembre 2019)

OTTOBRE

Al Baghdadi, terrorista iracheno, 48 anni (28 giugno 1971 - 26 ottobre 2019)

Roberta Fiorentini, attrice, 70 anni (22 novembre 1948 - 23 ottobre 2019)

Alicia Alonso, ballerina cubana, 98 anni (21 dicembre 1921 - 17 ottobre 2019)

Paolo Bonaiuti, politico ex portavoce di Berlusconi, 79 anni (7 luglio 1940 - 16 ottobre 2019)

Hevrin Khalaf, attivista curda, 35 anni (1984 - 12 ottobre 2019)

Manuel Frattini, danzatore e attore, 54 anni (25 maggio 1965 - 12 ottobre 2019)

Carlo Croccolo, attore, 92 anni (9 aprile 1927 - 12 ottobre 2019)

Robert Forster, attore, 78 anni (13 luglio 1941 - 11 ottobre 2019) 

Giuseppe Bigazzi, gastronomo, 86 anni (20 gennaio 1933 - 9 ottobre 2019)

Filippo Penati, politico, 66 anni (30 dicembre 1952 - 9 ottobre 2019)

Giorgio Squinzi, imprenditore e dirigente sportivo, 76 anni (18 maggio 1943 - 2 ottobre 2019)

NOVEMBRE

Marie Laforêt, cantante e attrice francese, 80 anni (5 ottobre 1939 - 2 novembre 2019)

Bogaletch Gebre, scienziata e attivista etiope, 66 anni (1953 - 2 novembre 2019)

Omero Antonutti, attore, 84 anni (3 agosto 1935 - 5 novembre 2019) 

Alberto Sed, reduce dell'Olocausto italiano, 90 anni (7 dicembre 1928 - 2 novembre 2019)

Maria Pia Tavazzani in Fanfani, ex partigiana e moglie di Amintore Fanfani, 97 anni (29 novembre 1922 - 7 novembre 2019)

Maria Perego, creatrice del pupazzo Topo Gigio, 95 anni (8 dicembre 1923 - 7 novembre 2019) 

Fred Bongusto, nome d'arte di Alfredo Antonio Carlo Buongusto, cantante, 84 anni (6 aprile 1935 - 8 novembre 2019)

Raymond Poulidor, ex ciclista francese, 83 anni (15 aprile 1936 - 13 novembre 2019)

Antonello Falqui, regista e autore televisivo, 94 anni (6 novembre 1925 - 15 novembre 2019)

Terence O'Neill, fotografo britannico, 81 anni (30 luglio 1938 - 16 novembre 2019)

Godfrey Gao, attore e modello taiwanese naturalizzato canadese, 35 anni (22 settembre 1984 - 27 novembre 2019)

Mariss Jansons, direttore d'orchestra lettone, 76 anni (14 gennaio 1943 - 30 novembre 2019)

DICEMBRE

Mario Sossi, magistrato rapito dalle Br, 87 anni (Imperia, 6 febbraio 1932 – Genova, 6 dicembre 2019) 

Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, 92 anni (5 settembre 1927 - 8 dicembre 2019)

Piero Terracina, superstite dell'Olocausto, 91 anni (12 novembre 1928 - 8 dicembre 2019) 

Juice Wrld, rapper statunitense, 21 anni. (2 dicembre 1998 - 8 dicembre 2019)

Marie Fredriksson, cantante dei Roxette, 61 anni (30 maggio 1958 - 9 dicembre 2019)

Davide Vannoni, ideatore della terapia Stamina, 52 anni (1967 - 10 dicembre 2019)

Anna Karina, attrice francese, 79 anni (22 settembre 1940 - 14 dicembre 2019)

Emanuel Ungaro, stilista francese, 86 anni (13 febbraio 1933 - 21 dicembre 2019) 

Ahmed Gaid Salah, capo dell'esercito algerino, 79 anni (13 gennaio 1940 - 23 dicembre 2019)

Ari Behn, scrittore ed ex genero del re di Norvegia, 47 anni (30 settembre 1972 - 25 dicembre 2019) 

Jerry Herman, compositore statunitense, 88 anni (10 luglio 1931 - 26 dicembre 2019)  

·         La Fine del Maggiolino Volkswagen.

VROOM! LA FINE DEL MAGGIOLINO VOLKSWAGEN. Roberto Bruciamonti per corriere.it il 9 luglio 2019. Domani Volkswagen darà l’addio definitivo al Maggiolino. Una cerimonia ne sancirà la fine definitiva della produzione. L’ultima fabbrica in cui veniva prodotto è a Puebla, in Messico. Si tratta di un’auto simbolo entrata nella storia del costume mondiale. Una storia che arriva da lontano e che, qui di seguito, raccontiamo passo dopo passo.

I primi passi. Il 28 maggio 1937, prima ancora che fossero portati a termine i collaudi finali dei prototipi, prima che fosse costruito uno stabilimento e persino prima che fosse stabilito il nome della vettura che la fabbrica avrebbe dovuto produrre, venne fondata a Berlino la GeZuVor, acronimo delle parole tedesche Gesellschaft zur Vorbereitung der Deutschen Volkswagens mbh, in sostanza quella che oggi conosciamo come Volkswagen.

Un’auto politica. Si trattava di una questione eminentemente politica: Hitler voleva una vettura per il popolo tedesco (per «rompere l’egemonia motoristica delle classi sociali più elevate», come aveva scritto nel Mein Kampf) e aveva trovato in Porsche il tecnico in grado di soddisfare questa sua esigenza.

Pianificazione alla tedesca. Nel maggio 1937 non era ancora stato deciso neppure in quale zona della Germania si sarebbe dovuto realizzare lo stabilimento. Occorreva una struttura posta al centro della Germania, ben collegata al resto del Paese mediante la rete di autostrade (che era in costruzione), mediante la ferrovia e, non ultimo, raggiungibile per mezzo del canale navigabile Mittelland (anch’esso in corso di ultimazione), in modo che i componenti della Volkswagen provenienti dall’intera Germania avrebbero potuto facilmente convergere sulla fabbrica. La costruzione, secondo i programmi, procedette a tempo di record, rispettando la previsione dell’inizio dell’attività entro il 1° settembre 1939. Tutto andò secondo i piani, ma il primo settembre 1939 le forze armate tedesche diedero inizio all’invasione della Polonia, precipitando il mondo nell’immane tragedia della seconda Guerra Mondiale. All’epoca erano soltanto 210 le Volkswagen già costruite, nessuna delle quali assemblata a Wolfsburg e nessuna delle quali destinata al popolo tedesco… La grande fabbrica, con il suo enorme potenziale, venne immediatamente convertita per produrre armamenti. Al sindacato tedesco dei lavoratori, lo stabilimento era costato 120 milioni di marchi…

La deriva militarista. Invece delle Volkswagen Maggiolino, dalle officine della KdF Wagen iniziarono a uscire le versioni militari Typ 82 Kubelwagen, presto affiancate dalle anfibie Typ 166 Schwimmwagen, entrambe progettate da Ferry Porsche, figlio del grande Ferdinand. Qualche sporadica Maggiolino venne anche prodotta, ma con scopi meramente propagandistici: il costo, in base a quanto stabilito da Hitler, sarebbe stato di 990 marchi, ai quali occorreva aggiungere 50 marchi per l’istruzione della pratica e 220 marchi per spese varie. Per chi avesse voluto il tettuccio apribile e l’autoradio era previsto un apposito pacchetto di accessori con sovrapprezzo di 60 marchi.

La ripartenza dopo la guerra. Danneggiata dai bombardamenti, ma riparabile, la grande fabbrica Volkswagen di Wolfsburg venne rimessa in funzione appena dopo il termine del conflitto. Assegnata al controllo dell’esercito britannico, si occupò all’inizio della riparazione di veicoli militari alleati, per passare dopo poco all’assemblaggio di Volkswagen Kubelwagen per le forze di occupazione, utilizzando le parti di ricambio rimaste nei vari magazzini dopo la fine delle ostilità. Finite le carrozzerie tipo Kubelwagen, vennero assemblate VW Typ 51, berline «Maggiolino» sul telaio delle vetture militari Kubelwagen. Le Typ 51 venivano fornite alle truppe d’occupazione alleate: ai russi (verniciate in color granata), agli inglesi (colore blu), agli americani (con carrozzerie grigio scuro) e ai francesi (grigio chiaro), ma non erano disponibili per i civili. Nel 1945 e per quasi tutto il 1946 la sorte dello stabilimento rimase incerta: tra le potenze vincitrici c’era chi ne ipotizzava lo smantellamento, chi la riattivazione entro certi limiti, fino a quando nell’inverno 1946/’47 l’attività non fu interrotta forzatamente per la mancanza del carbone necessario per far funzionare il riscaldamento e la centrale elettrica della fabbrica.

Estate 1947, la svolta. La svolta avvenne con l’estate del 1947, soprattutto grazie all’opera del maggiore Ivan Hirst, appartenente al corpo dei Royal Electrical & Mechanical Engineers dell’esercito britannico, l’ufficiale incaricato di gestire la fabbrica VW per conto degli Alleati: ricorrendo a tutte le sue conoscenze e alla sua influenza, Hirst ottenne dapprima il permesso di vendere (al 160 sterline l’una) le VW ai membri delle forze armate britanniche di stanza in Germania, quindi riuscì a convincere i suoi superiori ad autorizzare la vendita delle vetture anche ai privati. In occasione della Fiera di Hannover del 1947 (18 agosto- 7 settembre) il Maggiolino iniziava la sua carriera di vettura civile. A dir la verità un uomo d’affari olandese, Bernardus Marinus («Ben») Pon aveva all’epoca già ottenuto la concessione esclusiva per l’importazione delle VW in Olanda e aveva piazzato un ordine per un primo lotto di 56 vetture, caratterizzate, per la prima volta dall’inizio del conflitto, da paraurti e coppe ruote cromate.

Alla conquista del mondo. Il passaggio a una situazione meno incerta permise all’autorità militare britannica di affidare a un civile tedesco la direzione della fabbrica Volkswagen. Il trasferimento dei poteri dai militari al rigoroso Heinrich Nordhoff, l’ingegnere scelto da Ivan Hirst come proprio successore alla guida della società, non fu senza scosse: i militari inglesi erano stati conquistati dalla piccola Volkswagen, come testimoniò il maggiore Charles Bryce, ispettore REME dello stabilimento: «C’era qualcosa di speciale nel Maggiolino — scrisse — che suscitava per qualche motivo l’entusiasmo in tutti quelli ai quali capitava di averci a che fare».

I modelli frivoli. Il graduale passaggio dall’economia di mera sopravvivenza del tempo di guerra a quella meno severa del dopoguerra, unito all’esigenza di attrarre un maggior numero di acquirenti, indusse Nordhoff a rendere il Maggiolino sempre più elegante e ricercato. Più che per migliorare le vendite in Germania (più che duplicate e a quota 19.244 esemplari nel 1948, quindi attestate a 46.146 nel 1949), per conquistare consensi all’estero e procurare in tal modo all’azienda la valuta pregiata indispensabile per un ulteriore sviluppo.

La rinascita della cabrio. Più o meno contemporaneamente all’introduzione delle versioni Export e Deluxe, la gamma si arricchì delle cabriolet a due posti (prodotta dalla carrozzeria Hebmüller) e a cinque posti (sviluppata dalla Karmann). La prima ebbe vita breve: l’azienda venne chiusa per bancarotta nel 1952. La Karmann, invece, proprio grazie a quella vettura, si legò a filo doppio alla Casa di Wolfsburg.

La prima volta in America. La richiesta interna tedesca di Volkwagen era molto forte. La Casa nel 1949 vantava una penetrazione pari al 66% del mercato. Ma l’economia della Germania era ben lungi dal poter essere considerata stabile, così dopo aver proposto il Maggiolino sui mercati delle nazioni limitrofe (dopo l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera , la Svezia e la Danimarca), Nordhoff guardava con malcelata speranza al mercato americano. All’epoca l’operaio tedesco doveva lavorare 2.500 ore per comprare un Maggiolino, mentre per il suo omologo americano ne sarebbero bastate 450.

Ecco il furgone. Fra le stranezze della nuova fabbrica automobilistica tedesca, la più evidente era che non esisteva una gamma di prodotti, ma soltanto un modello, declinato in più versioni. Del resto il modello era talmente particolare che diversificare la produzione sarebbe stato impossibile. A suggerire la soluzione ci pensò il solito concessionario olandese. Sempre per diversificare, verso la metà degli anni Cinquanta con la complicità della carrozzeria Karmann e la collaborazione del centro stile italiano Ghia, venne messa allo studio anche una versione sportiveggiante del Maggiolino, sul pianale del quale furono allestiti tanto un’elegante coupé quanto una cabrio.

Un trono senza eredi. Con il passare degli anni, nonostante l’eccezionale successo del Maggiolino, la fragilità dovuta alla dipendenza da un solo modello divenne un pericolo sempre più evidente. Per contro, i tentativi di ampliare le linee di prodotto si scontrarono in continuazione con l’orientamento del mercato: più la Volkswagen si sforzava di proporre nuove auto, più il pubblico insisteva nell’ignorarli per fedeltà al vecchio e inossidabile Beetle Tipo 1.

Gli anni Settanta e Settanta. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta l’acquisizione della NSU e dell’Auto Union con tutti i marchi annessi portò la Volkswagen a introdurre nuovi modelli. I quali, per motivi diversi, non incontrarono i favori di una clientela ormai abituata a identificare la Casa solo con il Maggiolino e che accoglieva le novità come ingiustificate divagazioni dalla vera ragion d’essere della Casa tedesca. Anche vetture con caratteristiche molto moderne, come la VW K70 (1971) o la Passat (1973), non furono apprezzate appieno: il paragone con l’antenata era sempre impietoso, soprattutto per motivi di carattere, e le varie eredi ne uscivano immancabilmente con le ossa rotte.

Arriva la Golf. Ma le cose stavano cominciando a prendere un’altra piega. In Volkswagen l’esigenza di sostituire o almeno di affiancare al Maggiolino un modello alternativo e ugualmente popolare era diventata l’ossessione strategica. Lo studio accurato della concorrenza spinse i tedeschi a individuare in un prodotto italiano (la Fiat 128 del 1968) la vettura più riuscita del settore. Il compito di disegnare la nuova Volkswagen fu affidato al talentuoso italiano Giorgietto Giugiaro. Nella primavera 1974 nacque la Golf, un modello che fece scuola, s’impose come punto riferimento del mercato ed è tutt’oggi, dopo sette generazioni, tra le vetture più vendute in Europa e tra le più conosciute nel mondo.

Il colosso di oggi. Convinta dalla Golf, la clientela Volkswagen più fedele cominciò a guardare le successive novità del costruttore con altri occhi. Il marchio veniva sempre più percepito come emblema di un insieme di prodotti di qualità, sia sotto il profilo tecnologico, sia dal punto di vista del design. Il passaggio al gruppo industriale di dimensioni colossali è naturale: in «casa» arrivano o vengono valorizzati altri marchi, da Audi (patrimonio messo in cascina negli anni Sessanta, acquistando l’Auto Union dalla Mercedes) alla Seat (acquisita nel 1985), dalla Skoda (1991) alla Bentley, dalla Bugatti alla Lamborghini (1998), dalla Italdesign-Giugiaro (2010) alle società produttrici di autocarri Scania Vabis (2008) e MAN (2011), dalla Ducati (2012) alla Porsche AG (agosto 2012), società fondata dal grande Ferdinand Porsche, Herr Professor.

·         È morto Andrew Dunbar, controfigura di Theon Grevjoy de «Il Trono di Spade.

È morto Andrew Dunbar, controfigura di Theon Grevjoy de «Il Trono di Spade»: aveva 30 anni. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 su Corriere.it da Chiara Severgnini. L’attore e controfigura irlandese Andrew Dunbar è morto a 30 anni nella sua casa di Belfast alla vigilia di Natale. Dunbar aveva recitato in diversi serie e film, con ruoli minori o come comparsa. Aveva lavorato a lungo come controfigura nella serie tv Hbo Il Trono di Spade, in particolare per il ruolo di Theon Grevjoy (interpretato da Alfie Allen), ma anche per alcuni personaggi della dinastia Stark. L’annuncio della scomparsa è stato riportato da Belfast Live . La pagina Facebook dell’agenzia di casting The Extras Dept., che gestisce controfigure e comparse de Il Trono di Spade (e non solo) in Gran Bretagna, ha ricordato Dunbar con un commovente post su Facebook in cui lo descrive come un «performer di grande talento»: «Era così versatile che poteva scritturarlo in qualunque ruolo ed era così amato che le produzioni chiedevano continuamente di lui». Dunbar è stato trovato senza vita nella sua casa di Belfast in circostanze ancora non precisate e nessuna conferma è arrivata finora sulle cause della morte. I funerali si terranno lunedì 30 dicembre, alle ore 14, nella chiesa presbiteriana di Ballywillan di Portrush, cittadina costiera dell’Irlanda del nord, dove l’attore era nato. Dunbar era apparso nei film Dragged Across Concrete (2018), Arrow (2012) e Leprechaun: Origins (2014). L’attore, che lavorava anche come dj, aveva partecipato ad altre serie televisive come Line of Duty e Derry Girls. Per Il Trono di Spade aveva lavorato principalmente come controfigura, ma non solo: faceva anche da guida turistica nei tour ispirati alla serie in Irlanda del Nord. L’attore Andy McClay ha reso omaggio al suo «amico speciale»: «era una persona di talento, gentile e generosa. Quando ho saputo della sua morte, il mio cuore si è spezzato».

·         Morta Sue Lyon, la scandalosa «Lolita» del film di Stanley Kubrick.

Morta Sue Lyon, la scandalosa «Lolita» del film di Stanley Kubrick. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. È morta a 73 anni Sue Lyon, nata nello Iowa nel ’46, che fu nel ’62 la celeberrima Lolita del film di Stanley Kubrick ispirato all’allora scandaloso best seller di Nabokov. È difficile immaginarsi anziana quella ragazzina di 13 anni, bella e bionda, che si muoveva al ritmo dell’hula hoop nel giardino di mamma Shelley Winters eccitando l’affittuario professor Humbert Humbert, strepitoso James Mason. Scelta dopo i provini di migliaia di ragazzine che ambivano al ruolo – era celebre il romanzo, era celebre il regista, occasione da non perdere – Sue si dimostrò all’altezza delle aspettative, assolvendo al compito con un plus valore torbido e malizioso negli occhi e negli atteggiamenti e fra i mostri sacri si trovò bene. Fu, la sua, una breve carriera, perché naturalmente tutti le volevano far rifare quella performance per i tempi scandalosa: fu seduttrice e tentatrice nella “Notte dell’iguana” di Huston (’64) da Tennessee Williams, tra Burton, la Gardner, la Kerr e molte star e poi fu nel cast femminile di “Missione in Manciuria” di John Ford (’66). Ma nel complesso rimase una carriera da starlet che terminò con l’adolescenza, col ruolo di bella statuina affiancata a Frank Sinatra (“L’investigatore” di Gordon Douglas, 1967) e poi attiva talvolta in tv o con una comparsata finale nell’horror “Alligator” (80) che segna il suo ritiro a soli 34 anni.

Da repubblica.it il 28 dicembre 2019. Con i suoi occhiali da sole a cuore e il lecca lecca in bocca era stata il sogno erotico del professore Humbert Humbert. A 14 anni ha incarnato la Lolita di Stanley Kubrick, l'adattamento del 1962 dal romanzo di Vladimir Nabokov. Sue Lyon è morta a Los Angeles all'età di 73 anni. Per la sua recitazione accanto a James Mason e Shelley Winters ottenne una nomination all'Oscar e vinse il Golden Globe come migliore attrice esordiente. Si era ritirata da tempo dalle scene, il suo ultimo ruolo era del 1980, l'horror Alligator. Prima di allora era comparsa in una ventina di titoli tra cinema e tv ma niente che le avesse dato la notorietà di quel primo ruolo cinematografico per il quale aveva sbaragliato la concorrenza di altre 800 ragazze e venne scelta dallo stesso scrittore che partecipò al casting. L'immagine iconica, sfruttata dal poster e dalla campagna pubblicitaria, quella degli occhiali da sole e del lecca lecca, in realtà non compare mai nel film. Il romanzo (che era stato respinto da quattro editori), pubblicato in inglese nel 1955, fece molto scandalo per via della storia d'amore e ossessione di un uomo tanto più vecchio per una minorenne. Per riuscire ad uscire il film fu in parte tagliato e vennero modificate delle sequenze, in un primo tempo la Chiesa cattolica aveva condannato il film e pubblicato, su periodici parrocchiali, che chi vedeva il film sarebbe caduto in peccato, ma infine - dopo le modifiche realizzate da Kubrick, il film ottenne l'approvazione cattolica a condizione che sul materiale pubblicitario del film fosse ben evidenziato il divieto per i minori di 18 anni. 

Marco Giusti per Dagospia il 29 dicembre 2019. Rimarrà per sempre Lolita, il suo primo personaggio cinematografico e quello che la segnò per tutta la vita, Sue Lyon che se ne è andata a 73 anni dopo una vita scombinata e dissipata fra matrimoni più o meno sbagliati e film non sempre di successo. In fondo, un altro personaggio femminile forte e sfortunato legato agli anni ’60 da piena lettura tarantiniana. Ma le giovani generazioni non hanno idea della popolarità che ebbe al tempo di Lolita Sue Lyon, ragazzina sexy con gli occhialoni a forma di cuori che ci guardava dalla copertina del celebre romanzo di Vladimir Nabokov e dai manifesti del film di Stanley Kubrick che allora non potevamo vedere. Nata a Davenport, nello Iowa, nel 1946, quinta figlia di una famiglia non ricca, arriva con madre e fratelli a Los Angeles nei primi anni ’50 e diventa subita una bambina da spot pubblicitario e da fotografia. Bella, bionda, bianchissima, sorridente, è come se avesse studiato da subito per il ruolo di Lolita. Fa un paio di serie tv nel 1953 e nel 1959, Letter to Loretta e Dennis The Menace, prima di arrivare nel 1962 al capolavoro di Stanley Kubrick, Lolita, scelta dal regista ma anche dal romanziere. Già segnalata e curata come depressa e maniacale da quando aveva sedici anni, sposa a soli 17 anni l’attore Hampton Fencher III. Se lo porta dietro mentre gira La notte dell’iguana di John Huston, tratto dal romanzo di Tennesse Williams, con un cast che va da Richard Burton a Ava Gardner a Deborah Kerr. Il suo ruolo è quello di Charlotte Goddard. E’ un film importante, girato tutto in Messico, con un Richard Burton che si è portato dietro Liz e è talmente ubriaco che la mattina sul set gli esce alcol da tutti i pori. Il marito di Sue Lyon disturba tutti sul set e viene cacciato da Huston e dalla produzione. Dopo dieci mesi di matrimonio, i due hanno già divorziato e lei dichiara alla stampa: “Della mia maturità non mi preoccupo; quando verrà sarà benvenuta!”. La ritroviamo in un tardo film di John Ford anticomunista, Missione in Manciuria, dove è protagonista Anne Bancroft in un ruolo da John Wayne femmina. Poi la ritroviamo in The Flim-Flam Man, 1967, un bel film diretto da Irvin Kershner con George C. Scott e Michael Sarrazin e in Tony Rome-L’investigatore di Gordon Douglas con Frank Sinatra protagonista. Perde però la vera occasione di un ritrovato successo per colpa di Faye Dunaway, che le soffia all’ultimo secondo il ruolo di coprotagonista assieme a Warren Beatty nel Gangster Story di Arthur Penn. Mentre Faye Dunawaye diventa una star, Sue Lyons cade decisamente. Magari anche a causa delle sue coraggiose scelte di vite. Dopo essersi lasciato con Hampton Fechner III, sposa Roland Harrison, fotografo e coach di football nero. Un matrimonio che non le sarà perdonato dall’America razzista del tempo. I due avranno anche una figlia, Nona Harrison. E’ a causa del suo matrimonio misto che Hollywood non la vorrà e dopo un paio di film di non grande successo, un piccolo western di John Peyser, Four Rode Out, tradotto da noi come I quattro sulla via dello sparo (che titolo!) e il più interessante Evel Knievel di Marvin J. Chomsky con George Hamilton, una pre-tarantinata sulla vita di un corridore automibilistico, deciderà di andare a vivere col suo uomo in Spagna. Lì, nei primi anni ’70, la troviamo in due interessanti produzioni di genere, il fantascientifico horror Una gota de sangre para morir amando di Eloy De la Iglesia con Christopher Mitchum e Jean Sorel, tradotto da noi come I vizi morbosi di una giovane infermiera, e il thriller Tarot di José Maria Forqué con Fernand Rey e la vecchia star Gloria Grahame, tradotto addirittura come Erica… un soffio di perversione sessuale. Divorzia da Roland Harrison, torna in America ma si getta subito in un nuovo rapporto che scandalizzerà la stampa. Si innamora e poi sposerà nel 1973 Gary “Cotton” Adamson, un carcerato che ha incontrato nel penitenziario del Colorado, colpevole di omicidio e rapina. Per mantenersi lavora come cameriera in un bar, diventando una seria attivista per i diritti dei carcerati. Ma nemmeno questo matrimonio regge. Lui, uscito di carcere, compie un’altra rapina e lei si separa nuovamente. Negli anni ’70 è ormai finita nel cinema di serie B se non C del tempo, nelle serie tv, gira anche un mezzo horror di Charles Band con José Ferrer, Crash, per poi concludere la sua carriera nel 1980 col più interessante Alligator diretto da Lewis Teague e scritto da John Sayles. Nel 1983 sposa un certo Edward Weathers, che lascerà l’anno dopo, per poi risposarsi nel 1985 con Richard Rudman, un ingegnere radio che la riporterà a Los Angeles e dove lei vivrà fino a oggi. Nel 2002, però, anche questo matrimonio fallirà e Sue Lyon diventerà solo una vecchia gloria.

·         E’ morto Salvatore Pagano l’ultimo guardiano di Zannone: l’isola a luci rosse.

Clemente Pistilli per la Repubblica - Roma il 27 dicembre 2019. Festini, banchetti sontuosi a base di cacciagione, giochi hard tra cespugli di macchia mediterranea e boschetti di leccio. Fino al 1970 Zannone è stato un piccolo regno su cui governava da monarca assoluto il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, Camillino per gli amici. Un ambiente disinibito e disabitato, a breve distanza da Ponza. Di quelle storie di virtù e tanti vizi dei nobili romani è stato testimone privilegiato Salvatore Pagano, l' ultimo guardiano dell' isola, deceduto la settimana scorsa a Gaeta all' età di 86 anni. Quella che è ormai nota come l' isola a luci rosse era rimasta per Pagano il luogo del cuore, senza mai cercare i riflettori, custodendo memorie e piccanti segreti. Era il 1964 quando Pagano iniziò a lavorare a Zannone, prendendo il posto di Silverio Iodice e portando con sé tutta la famiglia. Si occupava degli ospiti del marchese che aveva affittato l' isola come riserva di caccia. Badava alla manutenzione della villa dove alloggiavano i nobili, dei sentieri e pensava pure a non far mancare il cibo ai mufloni, che rappresentavano poi il divertimento degli altolocati cacciatori. «Per far mangiare quegli animali - ricorda una nipote del custode - mio zio faceva arrivare l' avena da Ponza e con un gozzo si fermava in tutte le cale a lasciare il mangime». Tante incombenze in un luogo di godimento sfrenato. «Mio zio - racconta sempre la nipote - ci parlava delle cene sull' isola, di ospiti importanti e anche di situazioni particolari. La marchesa era provocante ma lui rispettava il signore e restava al suo posto. Teneva l' isola come un gioiello e trasportava il cibo fino alla villa con tre asini». Anche i rifornimenti arrivavano da Ponza a bordo di un gozzo denominato "La Fagiana". Pagano viveva ormai di quei ricordi. « Ne parlava tutti i giorni - assicura la moglie Sara Casalino - e ripeteva che dai Casati stava bene. Spesso poi siamo tornati a Zannone». Il regno però crollò 49 anni fa, quando il 30 agosto 1970, i giochi di cui il marchese era il regista sfuggirono di mano a " Camillino" che, pazzo di gelosia per il giovane studente Massimo Minorenti, uno degli amanti della marchesa Anna Fallarino, imbracciò un fucile e nel loro appartamento di via Puccini, a Roma, uccise la moglie, l' amante e poi si tolse la vita. « Mio zio - rievoca la nipote di Pagano - prese molto male quella storia. Aveva un vero e proprio rapporto di amicizia con il marchese, che lo trattava come uno di casa». Il duplice omicidio-suicidio fece venire alla luce le perversioni dei Casati Stampa e i rotocalchi si riempirono di immagini senza veli della marchesa, scattate proprio a Zannone. E un filo lega quelle vicende all' attualità più recente. Grazie ai buoni uffici dell' allora giovanissimo Cesare Previti, tutore della marchesina Anna Maria Casati Stampa, il futuro leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, riuscì infatti ad acquistare per 500 milioni di lire la villa di Arcore. Zannone tornò ad essere il regno solo degli animali selvatici e di pochi vacanzieri. Nel 1979 l' isola entrò a far parte del Parco Nazionale del Circeo, Pagano andò in pensione nel 1993, la villa andò in rovina. Quattro anni fa l' allora sindaco Piero Vigorelli presentò una denuncia alla Procura. A luglio scorso, la giunta comunale di Ponza ha approvato una delibera con cui ha deciso di incaricare un legale per revocare la concessione di Zannone al Parco, chiedendo all' ente pure un risarcimento danni per la villa distrutta. Per Pagano quelle rovine erano una ferita aperta. «Mio marito si rammaricava per tutto quell' abbandono e parlandone gli spuntavano le lacrime».

·         Suicida Ari Behn,  lo scrittore che accusò  di molestie Kevin Spacey.

Suicida Ari Behn,  lo scrittore che accusò  di molestie Kevin Spacey. Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Corinna De Cesare. Si è suicidato all’età di 47 anni Ari Behn, lo scrittore norvegese, genero del re Harald, che nel 2017 aveva denunciato di esser stato molestato 10 anni prima da Kevin Spacey. La notizia è stata confermata dal suo agente, Geir Hakonsund. Behn aveva pubblicato il suo primo romanzo nel 1999 ma era diventato famoso nel 2002 quando sposò Martha Louise, la primogenita del re norvegese Harald V da cui ha avuto tre figlie e da cui si è separato due anni fa. Pittore e autore di tre romanzi e di un’opera teatrale, la sua ultima fatica, «Inferno», in cui raccontava la sua lotta contro il disagio mentale. Nel 2017 era stato tra gli accusatori di Kevin Spacey, il 60enne attore due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. «Magari più tardi», sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in «House of Cards», raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L’attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l’accusatore di un terzo processo è morto.

Da repubblica.it il 25 dicembre 2019. E' morto suicida a 47 anni lo scrittore norvegese Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Lo ha annunciato con "grande tristezza" il suo agente, Geir Hakonsund, "a nome dei suoi più stretti parenti". Il suo primo romanzo venne pubblicato nel 1999 ma Behn acquisì notorietà nel 2002 quando sposò la primogenita del re norvegese Harald V: i due, insieme, scrissero anche un libro sulle nozze, 'From heart to heart'. Genitori di tre figli, annunciarono il divorzio nel 2016. Due anni più tardi, uscì il suo ultimo libro 'Inferno', in cui descriveva la sua battaglia contro la malattia mentale. "Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi", ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota. Behn nel 2017 è stato anche tra gli accusatori di Kevin Spacey il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l'attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L'attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l'accusatore di un terzo processo è morto.

Norvegia, morto suicida lo scrittore Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Nel 2017 aveva accusato Kevin Spacey di averlo molestato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace. La Repubblica il 26 dicembre 2019. E' morto suicida a 47 anni lo scrittore norvegese Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Lo ha annunciato con "grande tristezza" il suo agente, Geir Hakonsund, "a nome dei suoi più stretti parenti". Il suo primo romanzo venne pubblicato nel 1999 ma Behn acquisì notorietà nel 2002 quando sposò la primogenita del re norvegese Harald V: i due, insieme, scrissero anche un libro sulle nozze, 'From heart to heart'. Genitori di tre figli, annunciarono il divorzio nel 2016. Due anni più tardi, uscì il suo ultimo libro 'Inferno', in cui descriveva la sua battaglia contro la malattia mentale. "Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi", ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota. Behn nel 2017 è stato anche tra gli accusatori di Kevin Spacey il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l'attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L'attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l'accusatore di un terzo processo è morto.

Ari Behn, morto suicida lo scrittore reale norvegese: accusò di molestie Kevin Spacey. Libero Quotidiano il 26 Dicembre 2019. Si è suicidato all’età di 47 anni Ari Behn, lo scrittore norvegese che era stato il genero del re Harald e che nel 2017 aveva denunciato di esser stato molestato 10 anni prima da Kevin Spacey. La notizia è stata confermata dal suo agente, Geir Hakonsund, che non ha fornito dettagli su come si sia tolto la vita. Behn aveva pubblicato il suo primo romanzo nel 1999 ma era doventato famoso nel 2002 quando sposò Martha Louise, la primogenita del re norvegese Harald V da cui ha avuto tre diglie eda cui si è separato due anni fa. Pittore e autore di tre romanzi e di un’opera teatrale, la sua ultima fatica, Inferno, in cui raccontava la sua lotta contro il disagio mentale. Nel 2017 era stato tra gli accusatori di Kevin Spacey, il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo metoo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L’attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l’accusatore di un terzo processo è morto. Il video a Natale è diventata una tradizione per Spacey, da quando è finito al centro dello scandalo metoo ed è stato estromesso dallo star system. Il 25 dicembre 2018, sempre in un video su Twitter intitolato Let Me Be Frank (in un gioco di parole tra il nome del suo personaggio in House of Cards e la franchezza), l’attore aveva postato tre minuti pieni di doppi sensi. Nel video si difendeva dagli attacchi, rivendicava il suo personaggio fuori dalle righe e dalle regole, ed evocava il suo ritorno. In fondo, ricordava, non si era vista la sua morte, l’uscita di scena che era stata architettata dagli sceneggiatori di House of Cards per estrometterlo dopo che erano venute alla luce diverse accuse nei suoi confronti. Accuse in parte cadute: l’estate scorsa, la procura del Massachussetts ha deciso di chiudere un caso contro Spacey, accusato di molestie sessuali nei confronti di un 18enne in un presunto adescamento avvenuto nel 2016, dopo che il testimone chiave ha scelto il silenzio.

·         È morta a 72 anni Allee Willis, cantautrice americana

È morta a 72 anni Allee Willis, cantautrice americana: aveva scritto la sigla di «Friends». Pubblicato mercoledì, 25 dicembre 2019 da Corriere.it. Il 24 dicembre è morta la cantautrice americana Allee Willis, una delle autrici di I’ll Be There for You, brano dei The Rembrandts celebre in tutto il mondo perché usato come sigla della serie televisiva Friends. Willis ha scritto anche altri grandi successi per artisti come Earth, Wind & Fire (in particolare per i brani September e Boogie Wonderland), Pet Shop Boys e Pointer Sisters. Come riporta il Guardian, Willis è morta per un arresto cardiaco. Aveva 72 anni. La cantautrice si è spenta a Los Angeles. Quest’anno, in occasione dei 25 anni di Friends, il brano co-scritto da Willis è tornato alla ribalta. La sua popolarità, comunque, era già alle stelle: pur essendo stato inserito dal magazine di musica americano Blender nell’elenco delle «50 canzoni peggiori di sempre», I’ll be there for you è annoverato in molte classifiche delle migliori sigle televisive della storia (ad esempio quella compilata dall’Observer).

Morta Allee Willis, co-autrice della sigla di Friends. A 72 anni si è spenta Allee Williss, cantautrice americana co-autrice, tra le altre, della canzone I'll Be There For You, diventata la sigla del telefilm cult Friends. Francesca Galici, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. Lutto nel giorno della vigilia di Natale per tutti i fan di Friends, serie cult che a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila ha catalizzato l'attenzione di milioni di telespettatori in tutto il mondo. Il 24 dicembre si è improvvisamente spenta la cantautrice Allee Willis per un arresto cardiaco. La donna, oggi 72enne, era una delle autrici del brano I'll Be There For You, cantata dai The Rembrandts. La canzone è diventata famosa in tutto il mondo proprio perché scelta come main them della serie Friends ma non è certo l'unico successo della Willis, morta nella sua casa di Los Angeles. Sebbene la maggior parte delle persone associno questa canzone a Friends, in realtà la popolarità del brano era molto elevata già prima che venisse scelto come sigla per la serie. Il magazine americano di settore Blender ha inserito il brano nella classifica delle 50 canzoni peggiori di sempre ma nonostante questo, la stessa I'll Be There For You è stata inclusa anche in numerosi elenchi tra le sigle più belle di tutti i tempi. Quest'anno, nel 25esimo anniversario della prima messa in onda di Friends, la canzone dei The Rembrants era tornata a spopolare, tanto che diverse radio decisero di metterla in riproduzione a distanza di tanti anni dal lancio. Allee Willis è sempre stata orgogliosa di quel pezzo, che in qualche modo ne rappresentava l'essenza. L'artista era una vera icona a Los Angeles per il suo stile unico e alternativo, secondo molti bizzarro. Il Times ne fece una descrizione unica definendola "regina del kitch che ha fatto cantare il mondo intero." Amata o odiata, Allee Willis non ha mai suscitato sentimenti tiepidi in chi l'ha conosciuta e proprio per questo viene considerata un'artista iconica. La sua villa tutta rosa è un vero monumento a Los Angeles, un luogo cult in cui fermarsi per uno scatto ricordo quando si visita la città. La cantante emergente Billie Ellish ha scattato all'interno della dimora di Allee Willis il servizio fotografico che poi è stato utilizzato come copertina per l'album Vanish, a riprova di come la cantautrice mettesse davvero se stessa in tutto quel che faceva. Sebbene la sua grandissima fama mondiale derivi da I'll Be There For You, Allee Willis ha ricevuto ben due Grammy in carriera e nessuno dei due per la sigla di Friends. Uno è stato per The Color Purple, vincitore come miglior album teatrale musicale nel 2016 e l'altro è stato per aver contribuito alla realizzazione del main them di Beverly Hills Cop - Un piedipiatti a Beverly Hills nel 1986. "Sono una persona che adora totalmente scrivere musica piena di gioia", aveva dichiarato in un'intervista nel 2008. In effetti è proprio quello il sentimento che si prova quando si ascoltano le musiche e le canzoni di Allee Willis, che probabilmente avrebbero meritato anche ulteriori riconoscimenti.

·         Morta l’attrice Anna Karina.

Marco Giusti per Dagospia il 15 dicembre 2019. Bellissima. Al punto tale che col suo primo piano bianchissimo domina ancora le gif dei fan di cinema di tutto il mondo. Certo, Anna Karina, che ci ha lasciati a 79 anni, deve molto alla Nouvelle Vague e al suo primo marito e regista Jean-Luc Godard, che l’ha immortalata in capolavori come Vivre sa vie, Pierrot le fou, La donna è donna, Bande à part, ma aveva lei stessa una presenza che ha reso quei film straordinari. Solo lei avrebbe potuto reggere il confronto, ad esempio, con il primo piano di Maria Falconetti ne La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer che vediamo in Vivre sa vie. Danese, nata a Copenhagen nel 1940, va via di casa a 17 anni spostandosi da sola a Parigi e diventa subito una top model per Coco Chanel e Pierre Cardin alla fine degli anni ’50. “Quando ebbi la mia prima copertina su Elle, tutti volevano lavorare con me. Guadagnai un sacco di soldi in sei mesi, perché feci pubblicità per la Coca Cola in Inghilterra, Palmolive, Pepsodent in Germania. Tutto quello che mi offrivano. Fu così che Jean-Luc Godard mi vide, perché su entrambi i lati degli Champs Elysées vendevo un certo sapone e sull’altro vendevo Palmolive”. Jean-Luc Godard infatti la vorrebbe già in un piccolo ruolo nel suo primo film, Fino all’ultimo respiro. Ma deve essere nuda e Anna Karina rifiuta. Non le va. Quando però Brigitte Bardot rinuncia a fare la protagonista di La donna è donna/Une femme est une femme assieme a Jean-Paul Belmondo e Jean-Claude Brialy, e Godard, che è già pazzamente innamorato di lei, la chiama, lei accetta. E diventa non solo la Musa del regista, che sposerà nel marzo del 1961. Ma anche della Nouvelle Vague. Al punto che subito dopo gira Cléo in Cléo dalla 5 alle 7 di Agnes Varda. Le cose non devono essere state facilissime fra i due. Anna tradisce Godard con il giovane attore francese Jacques Perrin. Lo vuole sposare. E per lui cercherà di uccidersi con i barbiturici. Qualche anno dopo lo tradirà con un altro celebre attore, Maurice Ronet, che la dirigerà il Le voleur de Tibidabo. Meno giovane e meno bello dei suoi amanti, Godard offre però a Anna Karina il ruolo della sua vita, quello della prostituta Nana in Vivre sa vie, dove ha un taglio di capelli alla Louise Brooks, voluto proprio dal regista. Sarà Vivre sa vie, col quale vince giovanissima nel 1962 il premio per la migliore interpretazione al Festival di Berlino, a imporla all’attenzione mondiale. Con Godard girerà subito dopo Le petit soldat, Bande à part con Claude Brasseur e Sami Frey, Alphaville con Eddie Costantine, Pierrot le fou con Belmondo, Made in Usa, fino a un episodio di L’amore attraverso i secoli. Impossibile non amarla. Serge Gainsbourg scrive per lei nel 1967 addirittura un musical, Anna, che avrà una versione televisva e dove canterà con Jean-Claude Brialy. Con Godard, ovviamente, è un rapporto sempre più complesso, i due saranno sposati dal 1961 al 1967, anche se dal 1964 sono già separati, anche se lei seguiterà a girare con lui e, innegabilmente, quello dei primi anni ’60 è il periodo più bello del regista e questi titoli segneranno per sempre anche la carriera di Anna Karina. Già negli anni ’60 alterna ai film col marito-maestro, commedie e gialli, si va dall’inglese Come uccidere un’ereditiera di Robert Asher col comico Bob Monkhouse a Il sole sulla pelle di Jacques Bordon, da La schiava di Bagdad di Pierre-Gaspard Huit a Confetti al pepe di Jacques Baratier con Belmondo, da Il piacere e l’amore di Roger Vadim a La calda pelle di Jean Aurel con Michel Piccoli. Tutti film che la rendono molto popolare, una stella sexy di prima grandezza diciamo, ma che oggi sono parecchio dimenticati. Tutto il cinema europeo più ricco e interessante la vuole, è una delle protagoniste con Marie Laforet e Lea Massari di Le soldatesse di Valerio Zurlini, un film che oggi nessuna tv trasmette più perché imbarazzante, soldati italiani che portano un gruppo di prostitute sul fronte greco per “allietare” i soldati, è la Marie di Lo straniero di Luchino Visconti da Albert Camus con Marcello Mastroianni, altro film ritenuto sgradevole, non presentabile in tv. Non parliamo poi di La religiosa di Jacques Rivette, capolavoro tratto dal romanzo di Diderot che la vede protagonista, che ebbe vari problemi con la censura del tempo. Proprio sul set del film di Rivette, si fidanza con Pierre Fabre, giovane assistente del regista, che  poi sposerà. Per aiutare il produttore de La religiosa e di tanti film della Nouvelle Vague, girerà in quindici giorni Made in usa con Godard. Iniziò poi a dividersi tra il cinema francese, gialli, avventurosi, commedie, come Lamiel di Jean Aurel tratto da Stendhal, e grandi coproduzioni internazionali. Non sempre riuscite, come lo scombinato The Magus di Guy Green con Anthony Quinn e Candice Bergen o il raffinato e non capito Justine di George Cukor con Dirk Bogarde e Anouk Aimée, o il polpettone Prima che torni l’invernodi J. Lee Thompson con Topol e David Niven. Non era particolarmente riuscito neanche il Michael Kolhaas di Volker Schlondorff tratto dal racconto di Kleist con David Warner e lei protagonisti. Molto interessante, ma per nulla vista il giallo molto acido In fondo al buio di Tony Richardson con Nicol Williamson, altro film oggi invisibile. Per non parlare dello spionistico americano The Salzburg Connection di Lee H. Katzin con Barry Newman girato in Svizzera. Tutti film che nel ricordo di allora erano grosse produzioni un po’ inerti, cioè incapaci di superare gli anni ’60 e ’70. In questo periodo, 68-74, è sposata con il regista e sceneggiatore Pierre Fabre, è una star ma non è più certo la musa di Godard, anche se nemmeno il cinema di Godard è quello che era agli inizi. Scrive, dirige e interpreta un film, Vivre ensemble, 1973, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes, molto apprezzato dai suoi amici della Nouvelle Vague come François Truffaut, dove mette in scena una storia d’amore alla E’ nata una stella. Le canzoni che canta nel film sono composte da Serge Gainsbourg. Franco Brusati la vuole per Pane e cioccolata con Nino Manfredi, un film che il pubblico non solo italiano amerà molto. Emidio Greco la sceglie per L’invenzione di Morel proprio in quanto musa godardiana e lo stesso farà probabilmente Rainer Werner Fassbinder per Roulette cinese, 1978, che la vede protagonista. Si risposa nello stesso anno con l’attore Daniel Duval, ma non sarà nemmeno questo un matrimonio molto riuscito visto che si separano nel 1981. Contemporaneamente ha una storia con il regista e attore Ulli Lommel. Le andrà meglio col suo quarto marito, Dennis Berry, franco-americano, figlio del regista americano John Berry e lui stesso regista, che sposerà nel 1982 e che la dirigerà in Last Song nel 1987, un film che scrivono assieme. Curiosamente la prima moglie di Berry era stata Jean Seberg, la protagonista di Fino all’ultimo respiro di Godard. Anna Karina dirada parecchio le sue apparizioni cinematografiche, la vediamo nel 1985 ne L’isola del tesoro di Raoul Ruiz e ne L’opera al nero di André Delvaux con Gian Maria Volonté protagonista. Dirigerà un nuovo  film, autobiografico, Victoria, nel 2008, che sarà la sua ultima apparizione al cinema. 

·         È morto l’attore Danny Aiello.

Danny Aiello rip. Marco Giusti per Dagospia il 13 dicembre 2019. Ecco. Se ne va anche il mitico Danny Aiello, 86 anni, uno dei più famosi caratteristi italo-americani del cinema di Hollywood. Non pensiamo solo al pizzaiolo Sal in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, per il quale venne anche candidato all’Oscar, o al suo personaggio di Johnny Cammareri, fidanzato di Cher e fratello di Nicolas Cage in Stregata dalla luna di Norman Jewison, o al Tony Rosato di Il Padrino II di Francis Coppola, ma anche al padre di Madonna nel suo video Papa Don’t Preach, ai suoi ruoli in La rosa purpurea del Cairo e Radio Days di Woody Allen. Nato a New York nel 1933, quinto di sei figli, con un padre che se ne era andato via molto presto lasciando moglie e figli, aveva fatto il militare e qualsiasi lavoro nella sua New York prima di esordire già a 40 anni nel cinema con Batte il tamburo lentamente di John Hancock con Robert De Niro e con Il Padrino II di Coppola. Alto, 1 metro e 89, corpulente, con un taglio di capelli assurdi e un faccione simpatico, diventa l’italo-americano per definizione, pronto per fare l poliziotto, il pizzaiolo, il mafioso. Ruolo che si divide con Vincent Gardenia. “Avevo 40 anni quando feci il mio primo film. Non sapevo che diavolo stavo facendo. La mia recitazione a quel tempo, visto che non sapevo come costruire un personaggio, era pura energia.  La gente diceva che ero un attore istintivo. Lo consideravo come un insulto allora solo perché non avevo mai studiato. Ora… lo amo” .  Lo troviamo in film importanti, Fingers di James Toback con Harvey Keitel, Bloodbrothers di Rochard Mulligan con Richard Gere, C’era una volta in America di Sergio Leone, dove è il capo della polizia Aiello, quello che subisce lo scherzo della banda di De Niro con lo scambio dei neonati (e si ritrova un figlio nero!), fino al video di Madonna e a Stregata dalla luna. Trionfa negli anni ’80 accanto a Eddie Murphy in Harlem Nights, in Jacob’s Ladder di Adrian Lyne, nello scombinato Hudson Hawke, un flop leggendario, e nel fortunatissimo Léon di Luc Besson. 

È morto Danny Aiello, italoamericano al cinema per Sergio Leone e Spike Lee. L'attore aveva 86 anni. Tra i tanti film, ha lavorato in "Fa' la cosa giusta", per il quale fu nominato agli Oscar, in "C'era una volta in America" e "Stregata dalla luna". La Repubblica il 13 dicembre 2019. È morto Danny Aiello, attore caratterista famoso per i ruoli di italoamericano. Aveva 86 anni. La sua morte è stata confermata dalla portavoce, Tracey Miller, che ha rilasciato un breve comunicato: "Con profondo dolore annunciamo che Danny Aiello, amato marito, padre, nonno, attore e musicista, ci ha lasciato la scorsa notte dopo una breve malattia". Nato a New York nel '33, il padre era un operaio figlio di immigrati e la madre era una sarta originaria di Napoli. Il debutto al cinema risale al 1976 con Il prestanome, diretto da Martin Ritt. Quindi ha partecipato in un ruolo minore in Il padrino - Parte II. Nel 1986 è comparso anche nel videoclip di Madonna Papa don't preach, dove interpretava il padre della cantante. La sua interpretazione più celebre è quella del pizzaiolo italoamericano Sal nel film di Spike Lee, Fa' la cosa giusta, per il quale ottiene una nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista. È stato anche il capitano di polizia Vincent Aiello nel film di Sergio Leone C'era una volta in America (1984), Monk in La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen, poi ha interpretato Johnny Cammareri, il fratello di Nicolas Cage, in Stregata dalla luna (1987) con Cher.

È morto l’attore Danny Aiello, il pizzaiolo di «Fa’ la cosa giusta». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. È morto Danny Aiello, attore tra i principali caratteristi della Hollywood anni Settanta e Ottanta. Aveva 86 anni ed è mancato improvvisamente, in New Jersey, in seguito a un’infezione arrivata durante delle cure che stava facendo da qualche giorno. Nato a New York, l’attore ha una carriera fittissima, in cui c’è molto cinema ma anche tanto teatro: per anni è stato tra i volti più prolifici di Broadway. Tra i suoi ruoli più significativi, quello accanto a Robert De Niro ne «Il padrino» e la sua interpretazione nel film di Spike Lee del 1989, «Fa’ la cosa giusta», in cui interpreta Sal. La sua carriera, iniziata piuttosto presto, vede la sua partecipazione a alcuni titoli come «Fort Apache the Bronx» con Paul Newman, «C’era una volta in America», «La rosa viola del Cairo». Ma è, appunto, con «Fa’ la cosa giusta» di Spike Lee, che raggiunge la grande fama grazie al ruolo di Sal, il proprietario italoamericano (queste erano anche le sue vere origini) della pizzeria: un ruolo che gli era valso la nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista. L’ultima sua apparizione è del 2018, nel film «Little Italy-Pizza, amore e fantasia».

·         Addio a Marie Fredriksson, indimenticabile voce dei Roxette.

Addio a Marie Fredriksson, indimenticabile voce dei Roxette. La cantante, cofondatrice del duo svedese nel 1986, combatteva da 17 anni contro un tumore al cervello. Nel 2018 aveva pubblicato il suo ultimo lavoro. Gabriele Antonucci il 10 dicembre 2019 su Panorama. Il mondo della musica pop piange la scomparsa, a soli 61 anni, di Marie Fredriksson, l’emozionante voce dei Roxette. Lascia il marito Mikael Bolyos, da cui ha avuto due figli. La notizia è stata data direttamente dalla famiglia al quotidiano svedese Express: «È con grande tristezza che dobbiamo annunciare che uno dei nostri artisti più grandi e più amati è scomparso. Marie Fredriksson è morta la mattina del 9 dicembre a seguito della sua malattia». La cantante si è spenta dopo aver combattuto per 17 anni (mentre le era stato diagnosticato un solo anno di vita) contro un tumore al cervello, annunciato ai fan nel 2002. L'artista, nonostante la malattia, non si è fermata e ha continuato a dedicarsi anima e corpo alla musica, pubblicando un album con i Roxette nel 2016, Good Karma, e tre singoli (solo in digitale) con sonorità jazz-swing tra il 2017 e il 2018: Alone Again, realizzato insieme a Max Schultz e Magnus Lindgren, I Want To Go e Sing A Song. L'album The Change del 2004 era incentrato proprio sulla dura esperienza delle cure ospedaliere. Marie sarà sepolta in forma privata, alla presenza dei soli familiari. L’artista, che nel 1984 aveva pubblicato il suo primo album solista Het Vind, è stata co-creatrice del progetto Roxette con Per Gessle nel 1986, dando vita a un sodalizio fortunatissimo, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Il duo aveva raccolto idealmente il testimone dai connazionali Abba, portando la musica svedese in cima alle classifiche mondiali grazie a successi come It Must Have Been Love (colonna sonora nella scena dell'addio tra Julia Roberts e Richard Gere in Pretty Woman), Joyride, Listen To Your Heart e The Look. I Roxette sono stati una delle prime band straniere, non inglesi o americane, a registrare il 9 gennaio 1993 un concerto semi-acustico al Cirkus di Stoccolma per l’iconico programma MTV Unplugged. L’album verrà pubblicato ufficialmente solo nel 2006, in DVD, all'interno del The RoxBox '86-'06, un cofanetto-retrospettiva composto da altri 4 CD. Complessivamente, i Roxette hanno venduto oltre 75 milioni di dischi, piazzando 19 brani ai vertici delle classifiche. Commovente il messaggio lasciato sui social da Gessle: “Il tempo passa così in fretta. Non molto tempo fa abbiamo trascorso giorni e notti nel mio piccolo appartamento, condividendo insieme sogni che sembravano impossibili. E che sogno abbiamo finalmente potuto condividere! Sono onorato di aver incontrato il tuo talento e la tua generosità. Tutto il mio amore va a te e alla tua famiglia. Le cose non saranno mai più le stesse”.

Addio a Marie Fredriksson: è morta la cantante dei Roxette. La cantante svedese, 61 anni, combatteva da tempo contro un tumore al cervello: l’annuncio della sua scomparsa da parte della famiglia. Alessandro Zoppo, Martedì 10/12/2019 su Il Giornale. Marie Fredriksson, la storica cantante dei Roxette, è morta all’età di 61 anni. La leader della band svedese, giunta al successo grazie a singoli popolari come The Look, Listen to Your Heart, It Must Have Been Love e Fading Like a Flower (Every Time You Leave), combatteva da tempo contro un tumore al cervello. La notizia della sua scomparsa è stata resa nota dal Mirror, che cita il giornale scandinavo The Express. La Fredriksson lascia il marito, il tastierista Mikael Bolyos, e i loro due figli, Inez Josefin e Oscar. "È con grande tristezza – si legge nella nota diffusa dalla famiglia – che dobbiamo annunciare che una dei nostri artisti più grandi e più amati se n’è andata. Marie Fredriksson è morta la mattina del 9 dicembre a causa della sua precedente malattia". "Tutto il mio amore – scrive in un comunicato Per Gessle, che con lei formava i Roxette – va a te e alla tua famiglia. Le cose non saranno mai più le stesse".

Addio a Marie Fredriksson, voce dei Roxette. Nata a Össjö nel 1958, Marie Fredriksson aveva iniziato la carriera solista nei primi anni ’80, prima di incontrare Gessle e formare nel 1986 i Roxette. Dopo le vicissitudini e i successi della band e la prosecuzione del suo percorso artistico in solitaria, la musicista aveva scoperto la sua malattia nel 2002. Mentre stava facendo il bagno nella sua abitazione, Fredriksson era caduta battendo violentemente la testa e procurandosi una commozione cerebrale. Soccorsa dal marito e ricoverata in ospedale, le venne diagnosticato un tumore al cervello. Dopo essere stata operata con successo, la cantante fu costretta a sottoporsi a lunghi cicli di chemioterapia e radioterapia al termine dei quali era stata dichiarata guarita dai medici. Le conseguenze, tuttavia, furono difficili da affrontare: Marie aveva una ridotta capacità di leggere e di contare, si era parzialmente deteriorata la facoltà visiva del suo occhio destro e la parte destra del suo corpo subiva forti limitazioni motorie. Nel 2005, dopo una lunga e faticosa riabilitazione, tornò a cantare normalmente. La reunion dei Roxette avvenne soltanto sei anni dopo: il duo si esibì al matrimonio reale della principessa Victoria nel 2010 e della principessa Madeleine nel 2013. Soltanto nel 2016 fu obbligata a mettere fine alla propria esperienza sui palcoscenici. "È stata fantastica – disse Gessle della sua amica e collega –. Non so quante centinaia di concerti abbiamo fatto negli ultimi cinque anni ed è stato proprio grazie alla sua energia che è stato possibile farli". Marie ha raccontato la sua musica e la malattia nell’autobiografia The Love of Life. "Finalmente – scriveva nel 2015 –, mi sembra di essermi riconciliata con le radiazioni con cui sono costretta a vivere. Perché è questo ciò che è venuto fuori. Ho perso molti anni a causa della malattia. Ed è anche triste invecchiare. Ma ogni giorno penso di essere grata di essere seduta qui. E che posso ancora cantare".

·         E’ morto Giuseppe Frigo, il maestro dei penalisti.

E’ morto Giuseppe Frigo, a 84 anni se ne va il maestro dei penalisti. Il Riformista il 10 Dicembre 2019. «Se le sue condizioni di salute glielo avessero consentito, Beppe Frigo sarebbe stato in prima fila con noi in piazza Cavour per far conoscere al Paese la verità sulla prescrizione». Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, ne è convinto. Giuseppe Frigo, che dei penalisti è stato uno storico leader prima di essere eletto giudice della Corte costituzionale, è scomparso a 84 anni a Brescia domenica scorsa, proprio all’indomani della chiusura della maratona oratoria organizzata dagli avvocati contro la riforma Bonafede che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Una mobilitazione durata una settimana che ha richiamato a Roma, davanti alla Corte di Cassazione, mille penalisti da tutta Italia, attirando l’attenzione della politica e dei media. «A Frigo sarebbe piaciuta enormemente», dice Caiazza, che lavorò fianco a fianco con lui quando Frigo lo nominò portavoce dell’Unione camere penali. Intervistato da Radio Radicale sulla sua scomparsa, lo descrive come un uomo di principi fortissimi: «Era sempre pronto all’ascolto ma sui principi non negoziabili esprimeva una durezza di convinzioni che non ti saresti aspettato». E a proposito di durezza cita lo scontro, nel 1998, con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. «Ci qualificò come simili ai terroristi», racconta Caiazza, quando i penalisti proclamarono una settimana di astensione «per lanciare un grido di allarme a seguito di una sentenza della Corte costituzionale che a nostro avviso, e senza alcun dubbio, stravolgeva lo spirito accusatorio del nuovo processo penale. Frigo rispose di non riconoscersi in quel capo dello Stato. Fu uno scontro senza precedenti». L’Unione delle camere penali ha affidato a una nota il proprio omaggio a Frigo: «La storia pubblica dell’Avvocato Professore è quella del valentissimo professionista che ha massimamente onorato la toga del difensore, del Maestro di procedura penale che ha prodotto studi sapienti e ha attivamente collaborato alla riforma del codice penale di rito accusatorio del 1988, del Giudice della Corte costituzionale che per molti anni ha rappresentato una delle anime più sensibili in difesa dei principi fondanti del giusto processo». «Per noi però – sottolineano i penalisti – Giuseppe Frigo è stato prima di tutto lo strenuo militante dell’Unione delle Camere Penali Italiane della quale fu presidente dal 1998 al 2002. Furono quelli gli anni della battaglia perché i principi del giusto processo fossero scolpiti nella Costituzione repubblicana. Il nostro Paese deve a lui quella feconda intuizione alla quale un legislatore attento, nella veste di Costituente, diede corso. Fu un percorso non semplice e non facile, un confronto tra anime culturali diverse che Giuseppe Frigo seppe condurre con la forza dell’argomentazione in nome dei principi fondanti del sistema accusatorio», ricordano. «Il Parlamento lo elesse giudice della Corte costituzionale con larghissima e trasversale maggioranza, così a lui riconoscendo proprio quel ruolo. In tempi recenti la malattia lo ha tormentato, ma fino all’ultimo non ha fatto mancare affetto e sostegno alle battaglie dell’Unione. La sua figura è esempio della nobiltà della toga ed esortazione all’impegno di tutti noi e delle generazioni future, che con orgoglio custodiremo nel nostro album di famiglia», concludono i penalisti.

·         Morto Davide Vannoni, "padre" del metodo Stamina.

Morto Davide Vannoni, "padre" del controverso metodo Stamina. Il Riformista il 10 Dicembre 2019. Davide Vannoni, padre della "terapia Stamina", è morto a 53 anni. Malato da tempo, era ricoverato in ospedale a Torino per una malattia incurabile. Il suo ‘metodo’, la cui efficacia non è mai stata provata, prevedeva l’utilizzo di cellule staminali per trattare patologie neurodegenerative. Dopo essere diventato noto grazia ad alcuni servizi televisivi, in particolare per la trasmissione ‘Le Iene’, era stato coinvolto in diversi procedimenti giudiziari.

IL METODO STAMINA – La sua vicenda personale è particolarmente controversa: nel 2007 sperimenta in Ucraina la sua terapia, non resa pubblica, decidendo di importarla anche in Italia. Alla base del suo metodo ci sono le cellule staminali mesenchimali che per Vannoni, laureato in scienze della comunicazione, possono curare diverse malattie, in particolare quelle neurodegenerative. Vannoni richiede il brevetto negli Stati Uniti ma gli viene respinto, nonostante ciò riesce con la Stamina Foundation a somministrare come cura compassionevole il suo metodo presso gli Ospedali Civili di Brescia. Agli inizi 2013 tale pratica venne poi sospesa a seguito di un’ispezione dei Nas e dell’Aifa, che rilevò il mancato rispetto dei requisiti di sicurezza e igiene e la carenza nella documentazione prescritta dalla legge. Il premio Nobel per la medicina Randy Schekman aveva definito il metodo Stamina “criminale” e Davide Vannoni un “ciarlatano”, mentre  Umberto Veronesi, fra i tanti medici contrari al metodo, sostenne che il caso “ripercorre il canovaccio delle vicende Bonifacio e Di Bella”, cioè di sperimentazioni avviate sotto la spinta “della piazza” piuttosto che da criteri realmente scientifici.

I RISVOLTI GIUDIZIARI – Nel 2015 Vannoni patteggia un anno e 10 mesi (con pena sospesa) per l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, somministrazione di farmaci dannosi ed esercizio abusivo della professione medica. Vannoni si impegnava a non praticare più in Italia la terapia, ma nell’aprile 2017 viene arrestato di nuovo dai carabinieri del Nas di Torino con l’accusa di aver continuato a utilizzare la pratica all’estero, in Georgia. Vannoni viene così indagato nell’ambito di una nuova inchiesta per associazione per delinquere.

Morto Davide Vannoni, inventò il controverso «metodo Stamina». Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it. Davide Vannoni è morto a Torino dove era ricoverato. Aveva 53 anni. È stato l’ideatore del cosiddetto «metodo Stamina», una terapia con cellule staminali con cui sosteneva di poter guarire malattie incurabili. Il caso Stamina è stato al centro di lunghe battaglie giudiziarie e ha diviso opinione pubblica e comunità scientifica. Famoso è stato il caso della piccola Sofia, la «bimba farfalla» morta nel dicembre 2017 a 8 anni e mezzo per una leucodistrofia metacromatica, rara patologia genetica. Poco prima dei funerali il padre della bambina si scagliò contro Vannoni: «È un millantatore». L’inventore di Stamina era stato arrestato ad aprile dello stesso anno perché continuava a praticare all’estero le cure dichiarate completamente inefficaci e che già gli erano costate una condanna in Italia e il divieto assoluto di proseguirne la pratica. Il «metodo Stamina» si basava sull’infusione di cellule staminali e doveva servire a curare malattie neurodegenerative. Tuttavia Vannoni, che non era medico ma laureato in scienze della comunicazione, si era sempre rifiutato di svelarne i contenuti alla comunità scientifica. Il 18 marzo 2015 Vannoni aveva patteggiato davanti al pm di Torino Raffaele Guariniello una pena a un anno e dieci mesi (pena sospesa) con l’impegno a non praticare più in Italia la terapia. Già nel 2013 il ministero della Salute aveva definito Stamina una cura priva di ogni base scientifica. Vannoni, attraverso un ricorso al Tar era riuscito a strappare il permesso di praticare le infusioni sui suoi pazienti all’ospedale di Brescia; qui i medici si erano però rifiutati di ottemperare all’ordinanza. Benché screditato davanti a tutta la comunità medica, i pazienti non avevano perso fiducia nei suoi confronti. Davide Vannoni era stato imputato poi in un secondo processo, a Torino, per tentata truffa: aveva cercato di accreditare il suo metodo alla regione Piemonte. Le accuse erano cadute per via della prescrizione.

Davide Vannoni, dal marketing alle cellule staminali: chi era l’ideatore di Stamina. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. Quella di Stamina e del suo creatore Davide Vannoni, scomparso questo pomeriggio all’età di 52 anni, è stata una storia terribile. Perché impastava il dolore, la morte, la malattia, con la credulità. Quando ci fu l’inchiesta sulla corsia preferenziale della quale aveva goduto presso alcuni istituti quel metodo così empirico, furono indagati tre dirigenti degli Spedali civili di Brescia. La notizia venne commentata con articoli che ipotizzavano la corruzione o chissà quali vantaggi. La verità era che quelle tre persone avevano un marito, un cognato, un fratello, colpiti da malattie terribili. Per questo avevano facilitato le pratiche per la somministrazione di cellule staminali da parte del servizio pubblico. Non erano corrotti, erano disperati. Davide Vannoni, non ha mai dato segni di disperazione, neppure di tensione. Noi giornalisti scrivevamo quel che c’era sulle carte che lo accusavano, pubblicavamo pareri scientifici che demolivano le sue tesi, sentenze che gli davano del «ciarlatano». Lui ci riceveva nella sua villa di Revigliasca, fuori Torino, una casa sontuosa arredata con oggetti indiani e africani. Parlava sulla sdraio del terrazzo che dava su un bosco, filosofeggiava, sosteneva di non curarsi dei giudici e di volare alto, verso l’essenza della vita. «E adesso, se permette, vado fare la mia ora di meditazione yoga», diceva, lasciando l’ospite libero di fare quel che voleva, andarsene, prepararsi qualcosa da mangiare, una passeggiata. «Io non invito mai nessuno ad andarsene, casa mia è sempre aperta». Era intriso di filosofie orientali ma non disdegnava i piaceri terreni. Gli piacevano le auto di lusso, si era regalato una Porsche intestandola alla società che deteneva «diritti esclusivi mondiali» del metodo Vannoni, così come la «licenza esclusiva» per la diffusione della terapia con staminali, ma nella quale lui non figurava. Una volta chi scrive sentì l’obbligo di chiedergli se giocasse a poker, perché tutta la sua opera era ispirata alla nobile arte del bluff, fingere di avere più di quel che si possiede, fingere di sapere più di quel che si conosce. Rispose che non sapeva neppure giocare a briscola. E anche qui, chissà se diceva la verità. Vale la pena ricordare che i suoi sostenitori, tanti, sobillati da una folle campagna televisiva di sostegno operata da Le Iene, lo chiamavano professore, tecnicamente non era neppure sbagliato, perché nel 2006 aveva ottenuto una cattedra a Udine, in Psicologia della comunicazione. Ogni tanto si faceva fotografare in camice bianco nei suoi misteriosi laboratori. Ma era laureato in Scienze politiche. «Sì, è vero» ammise una volta. «Ma ci ho messo solo quattro anni a finire il corso», come se il dettaglio cambiasse qualcosa a un quadro che raffigurava un gigantesco azzardo giocato sulla speranza di famiglie che avevano persone, molto spesso bambini, afflitti da malattie devastanti. Era nato a Torino nel 1967. All’inizio degli anni Novanta, non aveva ancora nulla a che fare con medici e malattie. Studiava Scienze delle Comunicazioni a Torino con uno dei padri di quel nuovo corso di laurea, il semiologo Gian Paolo Caprettini. Appena fuori dall’università pubblica due volumi sui meccanismi di funzionamento della pubblicità. Si propone come autore al Mulino, che lo respinge con perdite. La casa editrice gli rispose che non c’erano le condizioni, a causa dell’assenza di materiale originale nelle sue pubblicazioni, un modo gentile per dire che non era farina del suo sacco. Vannoni si buttò nel marketing e nelle ricerche di mercato. E in questa attività ci sono aspetti che diventeranno le fondamenta della propaganda su Stamina. Nel 2001 pubblicò per Utet un «Manuale di psicologia della comunicazione persuasiva» che è il manifesto del suo metodo. Nel capitolo sulla esperienza emozionale che lui considerava «un elemento imprescindibile e spesso prevalente nell’elaborazione di qualunque forma di comunicazione persuasiva», sosteneva che la funzione più importante, anche in medicina è quella del testimonial, tanto più efficace se ha provato lui stesso l’esperienza o la cura che vuole proporre agli altri. A rileggerlo oggi, è inevitabile provare compassione. Per lui, scomparso ancora giovane. Ma soprattutto per le migliaia di persone che gli hanno creduto.

Morto Davide Vannoni, l'uomo del contestato metodo Stamina. Sosteneva di poter curare con le staminali malattie per le quali la scienza non aveva ancora trovato un rimedio. Fu al centro di tante inchieste giudiziarie. Ottavia Giustetti il 10 dicembre 2019 su La Repubblica. Davide Vannoni, l’inventore” del controverso metodo Stamina, è morto oggi a Torino dopo un ricovero in ospedale dovuto a una lunga malattia . A fine ottobre aveva firmato per le dimissioni e rientrato casa contro il parere dei medici. L'inizio. Laureato in Scienze politiche, 53 anni, Vannoni nel 2007 sperimenta personalmente una terapia in Ucraina e ritenendo di aver avuto degli inattesi benefici decide di importare questa cura alternativa in Italia. La sua idea è che le cellule staminali possano curare diverse malattie, specie quelle neurodegenerative. Il metodo messo a punto da Vannoni non è pubblico e la richiesta di brevetto presentata negli Stati Uniti viene respinta. Ciononostante Stamina Foundation da lui fondata, riesce a ottenere il parere favorevole della Regione Lombardia come cura compassionevole e gratuita da somministrare presso una struttura pubblica, gli Spedali Civili di Brescia. Le vicende giudiziarie Ne nasce un braccio di ferro che prosegue per diversi anni con la procura di Torino che accusa Vannoni di truffare i pazienti e molti politici che invece gli confermano la fiducia. Qualcuno gli offre anche una candidatura alle elezioni europee. Il 18 marzo 2015 Vannoni  patteggia davanti al pm di Torino Raffaele Guariniello una pena a un anno e dieci mesi (pena sospesa) con l’impegno a non praticare più in Italia la terapia. Ma in realtà aveva continuatto ad operare all'estero, in Gerorgia e per questo era stato arrestato. Nessun trial clinico accettato dalla comunità scientifica internazionale riconosce l’effettiva efficacia del metodo Vannoni, ma pazienti senza altra speranza di guarigione spendono decine di migliaia di euro per sottoporsi alle sue cure, convinti di averne dei miglioramenti.

Metodo Stamina: cos’è e perché è controverso? Lorenzo Sangermano il 10/12/2019 su Notizie.it. Il metodo Stamina, ideato da Davide Vannoni, è stato oggetto di un'indagine della Procura di Torino: in cosa consiste e come funziona? Il 10 aprile del 2013 il Senato approvò un decreto legge al cui interno era contenuta una disposizione relativa alle terapie con cellule staminali. Questa permetteva ai pazienti di sottoporsi a terapia con cellule staminali mesenchimali di continuare la terapia nonostante l’opposizione della comunità scientifica: è il cosiddetto metodo Stamina.

Cos’è il metodo Stamina. La fama di questa terapia iniziò a diffondersi in seguito a diversi servizi de Le Iene. Il noto programma televisivo ha dato infatti voce all’appello di una madre che chiedeva allo Stato la possibilità di sottoporre sua figlia alla terapia ideata da Davide Vannoni, morto nella giornata del 10 dicembre a Torino dopo una lunga malattia. Fondatore della Stamina Foundation, Vannoni affermava di aver messo a punto una tecnica che potesse sfruttare le cellule staminali per curare molte malattie. Dalla sua apparizione, all’interno della comunità scientifica dilagava un senso di sfiducia, generato dalla mancanza di ricerche, test e pubblicazioni in merito. Il famoso metodo sembrava potesse utilizzare le cellule non ancora specializzate, estratte dal midollo osseo, permettendo a queste di differenziarsi una volta impiantate le paziente. Attraverso il loro apporto, il malato avrebbe potuto contare su nuove quantità di cellule, molto preziose in casi come le malattie neurodegenerative.

La Stamina Foundation. La Onlus creata da Vannoni fece parlare di sé non solo in campo medico ma anche in quello giudiziario. Essa è stata infatti al centro di diverse indagini. In seguito dell’obbligo di omologarsi alle direttive imposte ai laboratori di ricerca farmaceutici, Vannoni trasferì la fondazione a San Marino. Da lì, la Fondazione si è spostata definitivamente a Trieste, dopo che la Procura di Torino e il magistrato Raffaele Guariniello hanno aperto un’indagine sull’efficacia del trattamento medico e sulla possibilità che potesse nuocere alla salute dei pazienti.

·         E' morto Pete Frates, l'inventore dell'ice bucket challenge.

E' morto Pete Frates, l'inventore dell'ice bucket challenge. L'ex giocatore di baseball, 34 anni, era malato di SLA e aveva lanciato nel 2014 l'iniziativa per raccogliere fondi per la ricerca contro la malattia neurodegenerativa. Grazie alla partecipazione di personalità di tutti i settori, dallo sport allo spettacolo, dalla politica all'imprenditoria, in tutto sono stati raccolti 220 milioni di dollari. La Repubblica il 10 dicembre 2019. E' stato il fenomeno del 2014: l'Ice Bucket Challenge ha coinvolto celebrità di tutti gli ambiti, da Donald Trump a Bill Gates, da Mark Zuckerberg a David Beckham. Funzionava perché era semplice da realizzare, divertente da guardare e realizzato per una giusta causa: raccogliere fondi per la ricerca contro la SLA. La mente dell'iniziativa, l'ex giocatore di baseball americano Pete Frates, è morto ieri all'età di 34 anni. "Il paradiso ha accolto il nostro angelo", ha spiegato in una nota la famiglia di Frates. Cresciuto nei sobborghi di Boston, Frates aveva iniziato a giocare al college di Boston. Poi il trasferimento in Germania dopo la laurea e il ritorno negli Stati Uniti per proseguire la carriera a livello amatoriale. Nel 2011, dopo un infortunio la cui guarigione aveva richiesto più tempo del previsto, Frates si era sottoposto a una lunga serie di esami, fino alla diagnosi nel 2012: sclerosi laterale amiotrofica. Una malattia neurodegenerativa che porta progressivamente alla paralisi, e per la quale al momento la scienza non ha trovato una cura. Ma Frates non si era lasciato prendere dallo sconforto. Per sensibilizzare l'opinione pubblica e raccogliere fondi per la ricerca aveva promosso l'ice bucket challenge, che si è rivelato un successo clamoroso. Decisiva è stata la partecipazione all'iniziativa di tantissime celebrità: hanno postato sui propri profili social il video in cui si beccavano la secchiata di ghiaccio o di acqua gelata e poi nominavano altri vip, invitandoli a partecipare e a donare per la ricerca. In totale, grazie all'ice bucket challenge sono stati raccolti 220 milioni di dollari in tutto il mondo, che sono serviti alla scienza per continuare a studiare la SLA e una possibile cura. "L'uomo ai piani alti ha un piano per me - dichiarò Frates dopo la diagnosi - ho accettato questa situazione ma ci sono tante persone che non hanno il mio stesso supporto o i miei vantaggi, e voglio aiutarle". L'ex giocatore di baseball, che negli ultimi tempi non poteva più parlare e veniva nutrito tramite una sonda, lascia la moglie Julie e la figlia Lucy. Ma anche una preziosa eredità di 220 milioni di dollari e la speranza che possano servire per trovare al più presto un modo per guarire dalla malattia. E magari quel giorno si festeggerà in tutto il mondo con tante nuove secchiate di ghiaccio, ricordando Pete Frates.

·         Morto Paul Volcker,  il presidente della Fed.

Morto Paul Volcker,  il presidente della Fed che sconfisse l’inflazione. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Oggi non lo ricorda quasi nessuno e chi ha meno di 40 anni nemmeno lo sa, ma fino all’inizio degli anni Ottanta in tutto il mondo industrializzato, dove pure i redditi crescevano, i patrimoni di tutti erano flagellati dall’inflazione a due cifre: 12-15 per cento negli Stati Uniti, molto di più, anche il 25 per cento, in Paesi maggiormente in difficoltà come l’Italia. Tutto cambiò il 6 ottobre del 1979 quando l’allora capo della Federal Reserve, Paul Volcker, scomparso ieri a 92 anni, convocò una conferenza stampa per annunciare una nuova, durissima, politica monetaria per strangolare l’inflazione. Era un sabato, giornata scelta per i mercati chiusi, e tutti furono presi di sorpresa perché allora la Fed non parlava con la stampa. Oltretutto c’era Papa Wojtyla in visita a Washington. La CBS disse che non aveva una troupe televisiva disponibile. Volcker li chiamò: «Venite da me: il Papa domani se ne va, quello che sto per annunciare resterà con voi per sempre». Era vero: cambiando politica, riducendo rigidamente l’offerta di moneta, i tassi di mercato salirono alle stelle. La mossa della Fed rallentò moltissimo l’economia frenando la vendita di case e auto. Gli agricoltori coi loro trattori andarono ad assediare la sede della Banca centrale. Fu recessione. Jimmy Carter, che aveva nominato Volcker pochi mesi prima, perse le elezioni presidenziali del 1990: iniziò l’era Reagan. Ma iniziò anche l’era dell’economia senza inflazione: i prezzi finalmente smisero di salire (meno del 4% di incremento nel 1983) prima negli Usa e poi, per una specie di effetto-domino, negli altri Paesi. Le critiche furiose a Volcker si trasformarono in elogi sperticati. L’inflazione da allora non si è più riaffacciata. Oggi, paradossalmente, è troppo bassa anche a causa della limitata crescita economica: le banche centrali sulle due sponde dell’Atlantico cercano, senza grossi risultati, di farla arrivare al 2 per cento e anche un po’ oltre, perché un moderato aumento dei prezzi invoglia la gente a spendere e rianima l’economia. Volcker, un gigante alto due metri con un sigaro spento perennemente tra le labbra, è stato un personaggio-chiave per la finanza americana e mondiale in altri due momenti: negli anni Sessanta e Settanta quando, da giovane funzionario del Tesoro sotto tre presidenti (Kennedy, Johnson e Nixon), lavorò alla riforma del sistema monetario creato alla fine della Seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods. In base al lavoro preparatorio di Volcker, Nixon nel 1971 decise di sganciare il valore del dollaro dall’oro: niente più conversione. Il futuro banchiere centrale fu decisivo, ma per lui quella non fu una vittoria: voleva sostituire l’oro con un sistema di cambi fissi, ma non andò così. Il secondo momento arrivò dieci anni fa, dopo lo spaventoso crollo di Wall Street del 2008 e la Grande recessione. Volcker, già ultraottantenne, venne richiamato in campo da Barack Obama: messo a capo della commissione di esperti che doveva proporre riforme della finanza tali da evitare il ripetersi di simili disastri. Ma le ricette molto severe dell’ex banchiere centrale piacevano poco al partito democratico e anche alla Casa Bianca. Così venne varata una riforma del sistema bancario e finanziario più blanda. Successivamente, però, Obama si convinse che andava integrata con quella che lui stessi chiamò «Volcker rule»: vincoli che impediscono alle grandi banche di investire in misura elevata in attività molto remunerative, ma anche ad alto rischio. Norme che oggi Trump è orientato ad eliminare.

·         Addio allo stilista Emanuel Ungaro.

Addio allo stilista Emanuel Ungaro: tra i grandi della moda, aveva 86 anni. Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Paola Pollo. Si è spento a Parigi all’età di 86 anni. Origini pugliesi e allievo di Balenciaga, invento l’arte di crear abiti drappeggiando le stoffe sul corpo. Amava la musica e le donne. È morto ieri sera a Parigi all’età di 86 anni lo stilista Emanuel Ungaro. Lo conferma la famiglia. Francese di nascita ma di origini pugliesi (il padre era un antifascista di Francavilla Fontana emigrato durante il fascismo) Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali si terranno domani mattina a Parigi.In una intervista si era definito il couturier che «amava le donne». Malato da tempo, è morto ieri sera nella sua casa di Parigi. Una fine senza clamore, circondato dall’affetto della famiglia. Dalle passerelle si era allontanato già anni fa. Una decisione presa anzitempo nel 2004, la stessa che due anni prima, veniva annunciata da Yves Saint-Laurent, altra icona francese della haute couture, e nel 1968 dal couturier spagnolo Cristobal Balenciaga, dal quale il giovane Emanuel aveva fatto l’apprendistato e di cui era stato l’allievo preferito.

Addio Emanuel Ungaro, lo stilista di origini italiane che ha reso grande la moda francese. Lo stilista 86enne viene salutato come uno degli ultimi emblemi della Haute Couture più grandiosa e “tradizionale”. Eppure al suo debutto nel 1965, e sempre nella sua carriera ha scardinato le regole mescolando stampe in aperto contrasto, a fare dei mix più vivaci di motivi e colori, dando così forma a un’alta moda estremamente femminile, estremamente allegra, estremamente francese. Serena Tibaldi il 22 Dicembre 2019 su La Repubblica. Curioso come Emanuel Ungaro, scomparso il 21 dicembre all’età di 86 anni, venga oggi salutato come uno degli ultimi emblemi della Haute Couture più grandiosa e “tradizionale”. Proprio lui, che aveva fatto della rottura con i canoni del passato un punto d’onore, la base stessa del suo credo stilistico: quando fonda la sua maison, nel 1965, si rifiuta infatti di inserire abiti da sera nel suo show di debutto. Un’eresia quando si parla di alta moda, ma Ungaro ai tempi spiega la scelta con la volontà di essere un creativo del suo tempo, e di disegnare per donne del suo tempo. E così ha fatto, sempre: è il primo a mescolare stampe anche in aperto contrasto, a fare dei mix più vivaci (pure troppo, per l’epoca) di motivi e colori un punto fisso della sua estetica, dando così forma a un’alta moda estremamente femminile, estremamente allegra, estremamente francese. Nel 1972E sì che la sua storia inizia in Puglia, a Francavilla Fontana: è da lì che i suoi genitori scappano negli anni ‘30 per fuggire al regime fascista. Si stabiliscono ad Aix-en-Provence, dove il padre ricomincia a fare il sarto: è da lui che Emanuel, nato nel 1933, impara a cucire. Racconterà poi che fin da quando aveva sei anni era abituato ad avere in mano ago e filo: un’esperienza che gli torna utile quando nel 1955 si trasferisce a Parigi, per diventare nel 1958 l’assistente del maestro di tutti i maestri, Cristobal Balenciaga. Gli rimane accanto per 6 anni. Poi, decide che è arrivato il momento di una sua maison.Con la moglie LauraAlle stampe e ai colori che tanto ama Ungaro unisce le ruches, i volant, i drappeggi: i suoi abiti, che scolpiscono il corpo senza costringere, sono spettacolari. Perfetti per gli anni 80, periodo in cui il marchio esplode, diventando sempre più famoso e conosciuto, ben oltre il recinto della haute couture. A capo di tutto ci sono il designer e la moglie Laura (assieme hanno avuto una figlia, Cosima): proprio per spingere ancora di più il nome, nel ‘96 lo stilista firma un accordo con Ferragamo per la produzione di accessori. Nel ‘98 inizia un’insolita co-gestione assieme a Giambattista Valli: Ungaro si occupa della couture, Valli del prêt-à-porter, filtrando attraverso la sua visione (glamour, bohémienne, moderna, desiderabile) i simboli della maison. L’esperimento funziona, e anche bene: nel 2004 però Valli abbandona il ruolo (pare per dissapori con Laura). L’anno seguente Ungaro cede il brand  all’imprenditore Asim Abdullah per 84 milioni di dollari, e si ritira definitivamente dalle scene. Inizia così, purtroppo, un periodo estremamente tribolato per la maison, con una girandola di direttori creativi che si susseguono alla sua guida: nessuno pare riuscire a durare più di un paio d’anni. Vincent Darré, Peter Dundas, Esteban Cortazar, licenziato perché refrattario a collaborare con le starlet dell’epoca, da Paris Hilton in giù. Persino Lindsay Lohan: il suo regno ha per fortuna vita breve, ma non abbastanza per non dare un colpo davvero duro alla credibilità del marchio (il couturier, in genere assai discreto, ha ammesso di non aver particolarmente apprezzato la scelta). È stata poi la volta di Giles Deacon, di Fausto Puglisi, e più di recente di Marco Colagrossi: ma il vorticoso turn-over non ha reso il loro compito semplice, e tutti hanno prima o poi preferito lasciare. Per quanto le vicende più recenti non scalfiscano l’impronta lasciata da Ungaro, dispiace che la sua immensa eredità creativa possa finire con lui.

Paola Pollo per il “Corriere della Sera” il 23 dicembre 2019. L' ultimo dei couturier , Emanuel Ungaro, è morto sabato a Parigi. Aveva 86 anni. Se n' è andato come avrebbe voluto, fra le persone che più amava al mondo, sua moglie e musa e amica Laura Bernabei, e sua figlia Cosima. Oggi lo saluteranno con una cerimonia intima. Al personaggio incredibile che è stato non sarebbero piaciuti i riflettori e i commiati in pubblico.

Colto, raffinato, sensibile. Un uomo straordinario, d' altri tempi se quelli di oggi non possono essere vissuti come lui amava, tra la bellezza e l' intelligenza e la profondità e la gentilezza. Da anni si era ritirato dalle passerelle dopo essere stato, negli anni Ottanta, uno dei grandi protagonisti della moda francese. A maggio 2004, l' ultima sfilata. E poi la fuga romantica tra la sua musica, i suoi libri, i suoi fiori, nelle bellissime case di Parigi ed Aix en Provence. Chiuse la porta dell' atelier in Avenue Montaigne dopo trentasei anni. Era il 1968 quando presentò la prima collezione couture: le ragazze per strada protestavano e lui liberava la donna rispettandone la femminilità e il corpo. «Un abito - diceva - non deve essere portato, ma abitato». Sottinteso dalla padrona di casa. Creava drappeggiando sulle forme, accarezzando i fianchi e le spalle delle modelle, amava quei gesti. Era solo una semplice tela bianca, niente schizzi o tagli. Uno spillo dopo l' altro. E in avenue Montaigne le grandi stanze erano sempre occupate da decine e decine di stendini ai quali erano appesi questi capi-modello. Così nacquero meraviglie come l'abito diva. Era un'esperienza unica vederlo lavorare con quella tecnica («Mio padre Cosimo faceva il sarto e io cucio da quando ho sei anni», diceva) nel silenzio assoluto, vestito di un camice candido, come un chirurgo dell' eleganza, con la musica classica che si diffondeva in ogni stanza. Era un melomane: senza la compagnia di Bach e Beethoven e Mozart non poteva creare: «Il mio sogno è fare gli abiti con lo stesso ritmo e la stessa armonia di un quartetto di archi di Beethoven». E quando decise di ritirarsi mise la sua arte al servizio dell' Opera, per il Teatro San Carlo di Napoli. Stagioni e stagioni di racconti in abiti e immagini che erano la visione di donna legata a una femminilità indiscutibilmente sensuale che arrivava a sfiorare la provocazione: «Per creare ho bisogno di essere sedotto, di aver voglia di desiderare la persona che ho davanti a me». E usava fiori e pois per giocare con leggerezza, forza e personalità abbinando fantasie e proporzioni (le gonne cortissime o lunghe e avvolgenti, le giacche maschili o le scollature profonde) e colori (accesi e sfacciati) fuori dalle regole e dagli schemi. Gli diedero del dissacratore, ma lui - con la sua calma colta - aspettò che quelle visioni diventassero realtà. La licenza di osare con intelligenza lo premiò. Era nato a Aix en Provence, da genitori pugliesi. Una famiglia numerosa. La domenica si ritrovavano tutti a cantare l'Opera e a mangiare pasta con le polpette. Gli piaceva ricordarlo, anche fra gli specchi e i marmi e gli ori dei palazzi. A 22 anni si trasferì a Parigi dal grande Balenciaga e per sei anni lavorò e imparò dal maestro. Quando aprì l'atelier il suo fascino, come stilista ma anche come uomo, conquistò le più belle donne: da Anouk Aimèe (che fu un suo grande amore) a Catherine Deneuve, Lee Radziwill, Lauren Bacall, Isabella Adjani, Carolina di Monaco. Poi arrivò Laura che lo affiancò anche sul lavoro, ispirandolo e diventando la sua ambasciatrice. La sera prima di ogni sfilata la coppia riceveva a casa poche persone: la tavola apparecchiata con le stoffe della collezione e qua e là oggetti, immagini, fotografie, libri che ne raccontavano l' ispirazione. Altri momenti unici. Ed Emanuel Ungaro, con la sua voce calda e suadente, che condivideva lavoro e pensieri. Per poi ritornare a sognare fra i libri, la pittura e la musica, lasciando la parola agli abiti.

Lo stilista 86enne viene salutato come uno degli ultimi emblemi della Haute Couture più grandiosa e “tradizionale”. Eppure al suo debutto nel 1965, e sempre nella sua carriera ha scardinato le regole mescolando stampe in aperto contrasto, a fare dei mix più vivaci di motivi e colori, dando così forma a un’alta moda estremamente femminile, estremamente allegra, estremamente francese. Serena Tibaldi il 22 Dicembre 2019 su La Repubblica. Curioso come Emanuel Ungaro, scomparso il 21 dicembre all’età di 86 anni, venga oggi salutato come uno degli ultimi emblemi della Haute Couture più grandiosa e “tradizionale”. Proprio lui, che aveva fatto della rottura con i canoni del passato un punto d’onore, la base stessa del suo credo stilistico: quando fonda la sua maison, nel 1965, si rifiuta infatti di inserire abiti da sera nel suo show di debutto. Un’eresia quando si parla di alta moda, ma Ungaro ai tempi spiega la scelta con la volontà di essere un creativo del suo tempo, e di disegnare per donne del suo tempo. E così ha fatto, sempre: è il primo a mescolare stampe anche in aperto contrasto, a fare dei mix più vivaci (pure troppo, per l’epoca) di motivi e colori un punto fisso della sua estetica, dando così forma a un’alta moda estremamente femminile, estremamente allegra, estremamente francese. Nel 1972. E sì che la sua storia inizia in Puglia, a Francavilla Fontana: è da lì che i suoi genitori scappano negli anni ‘30 per fuggire al regime fascista. Si stabiliscono ad Aix-en-Provence, dove il padre ricomincia a fare il sarto: è da lui che Emanuel, nato nel 1933, impara a cucire. Racconterà poi che fin da quando aveva sei anni era abituato ad avere in mano ago e filo: un’esperienza che gli torna utile quando nel 1955 si trasferisce a Parigi, per diventare nel 1958 l’assistente del maestro di tutti i maestri, Cristobal Balenciaga. Gli rimane accanto per 6 anni. Poi, decide che è arrivato il momento di una sua maison.Con la moglie LauraAlle stampe e ai colori che tanto ama Ungaro unisce le ruches, i volant, i drappeggi: i suoi abiti, che scolpiscono il corpo senza costringere, sono spettacolari. Perfetti per gli anni 80, periodo in cui il marchio esplode, diventando sempre più famoso e conosciuto, ben oltre il recinto della haute couture. A capo di tutto ci sono il designer e la moglie Laura (assieme hanno avuto una figlia, Cosima): proprio per spingere ancora di più il nome, nel ‘96 lo stilista firma un accordo con Ferragamo per la produzione di accessori. Nel ‘98 inizia un’insolita co-gestione assieme a Giambattista Valli: Ungaro si occupa della couture, Valli del prêt-à-porter, filtrando attraverso la sua visione (glamour, bohémienne, moderna, desiderabile) i simboli della maison. L’esperimento funziona, e anche bene: nel 2004 però Valli abbandona il ruolo (pare per dissapori con Laura). L’anno seguente Ungaro cede il brand  all’imprenditore Asim Abdullah per 84 milioni di dollari, e si ritira definitivamente dalle scene. Inizia così, purtroppo, un periodo estremamente tribolato per la maison, con una girandola di direttori creativi che si susseguono alla sua guida: nessuno pare riuscire a durare più di un paio d’anni. Vincent Darré, Peter Dundas, Esteban Cortazar, licenziato perché refrattario a collaborare con le starlet dell’epoca, da Paris Hilton in giù. Persino Lindsay Lohan: il suo regno ha per fortuna vita breve, ma non abbastanza per non dare un colpo davvero duro alla credibilità del marchio (il couturier, in genere assai discreto, ha ammesso di non aver particolarmente apprezzato la scelta). È stata poi la volta di Giles Deacon, di Fausto Puglisi, e più di recente di Marco Colagrossi: ma il vorticoso turn-over non ha reso il loro compito semplice, e tutti hanno prima o poi preferito lasciare. Per quanto le vicende più recenti non scalfiscano l’impronta lasciata da Ungaro, dispiace che la sua immensa eredità creativa possa finire con lui.

·         Morta Florence Griffith, l’ex donna più veloce del mondo.

Florence Griffith, oggi avrebbe 60 anni: la vita consumata in fretta dell’ex donna più veloce del mondo. Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenzo Radogna. Se gli Dei dello sport fossero davvero tali, allora questo 21 dicembre festeggerebbero il suo 60° compleanno. Con qualche ruga in più, qualche nipotino intorno e il carico di gloria agonistica in bella mostra in qualche bacheca di casa. Così Florence Griffith Joyner (detta «Flo-Jo», classe 1959) se oggi fosse ancora in vita festeggerebbe quel traguardo con le sue unghie lunghissime e vistose, e quella bellezza dai capelli corvini al vento che — in quell’estate del 1988 — la incastonarono per sempre nella storia dello sport. Come «la donna più veloce di ogni tempo». Invece no: fra le luci dei suoi tutt’ora irraggiungibili record mondiali (10”49 sui 100 metri piani e 21”34 sui 200) e le ombre dei (tanti) sospetti-doping mai confermati, questa donna bellissima è scomparsa ormai da più di 21 anni. Troppi per non stupirsi. Troppi per non pensare che quel ritiro prematuro dall’attività agonistica (a soli 29 anni) non fosse che un inquietante preludio alla fine di una vita troppo presto «consumata». Flo-Jo era nata in California da una famiglia umile. Giovanissima entrò ben presto nella squadra dell’allenatore Bob Kersee che ne amplificò il talento a partire dall’Università della California, dove la ragazza cominciò a raccogliere i primi successi sui 100 e 200 piani. Argento nel 1984 ai Giochi di Los Angeles sui 200 (alle spalle della Brisco-Hooks), dopo aver interrotto temporaneamente l’attività, si ripresentò nuovamente ai Mondiali di Roma del 1987 (oro nella 4×100 e argento sui 200). Ma il suo anno fu il 1988, quando Flo-Jo prima stupì il mondo — ai Trials Usa pre-Olimpiadi di Seul — abbassando il primato mondiale della Ashford sui 100 di 27 centesimi (da 10”76 a 10”49) e poi lo «sconvolse» in Corea del Sud pochi mesi dopo. Lì vinse l’oro nei 200 con 21”34: tempi quasi «maschili». Erano quelli i mesi in cui l’atletica mondiale veniva umiliata dalle ormai conclamate pratiche-doping dell’altro «fenomeno»: Ben Johnson. E forse anche per troncare ogni voce in questo senso, la Griffith decise di ritirarsi — a nemmeno 30 anni — con un bottino di quattro ori e tre argenti fra Mondiali e Olimpiadi. Un lampo, più che una carriera. Dopo un decennio a far fruttare la propria debordante popolarità — fra pubblicità e moda — salutò tutti. Una crisi epilettica la colse nel sonno e se la portò via. Aveva solo 38 anni. Il suo ritiro prematuro, le circostanze della morte e gli incredibili risultati sportivi, da allora alimentano il sospetto dell’utilizzo di sostanze dopanti (steroidi anabolizzanti, in particolare l’ormone Gh). Tesi mai confermate dai test effettuati prima e dopo le gare. Si disse anche che la causa più probabile della morte fosse stato un angioma cavernoso congenito. I suoi due record mondiali restano tutt’ora imbattuti. Oltre 31 anni dopo.

·         Morta Claudine Auger, Bond girl.

Da ilmessaggero.it il 20 dicembre 2019. Morta Claudine Auger, Bond girl e interprete di moti film hot italiani. L'attrice francese Claudine Auger, celebre come Bond girl nel film «Agente 007 - Operazione tuono» (1965) a fianco di Sean Connery, con una leggendaria scena in bikini bianco e nero, è morta mercoledì scorso a Parigi all'età di 78 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dall'agenzia Art Time che la rappresentava. Nel 1958, dopo aver vinto il concorso per la selezione di Miss Francia, Auger partecipò al concorso di Miss Mondo dove giunse seconda. «La reginetta della bellezza» Esordì al cinema con il «Il testamento di Orfeo» (1959) con regia di Jean Cocteau, a cui seguirono «Gioventù nuda» (1960) di Marcel Carné (1960), «L'uomo dalla maschera di ferro» (1962) di Henri Decoin (1962) e «Il mistero del tempio indiano» (1963) di Mario Camerini. Ma il film che le consegnò una larga popolarità fu «Agente 007, Operazione tuono» (1965), diretto da Terence Young, che la consacrò prima Bond girl francese: interpretò Dominique «Domino» Derval, protetta ed amante del potente Emilio Largo (Adolfo Celi), il numero 2 dell'organizzazione criminale Spectre, in cerca di vendetta nei confronti di quest'ultimo che aveva fatto uccidere suo fratello. Nella lotta ai criminali, l'agente James Bond troverà una alleata proprio in Domino, che ucciderà il numero 2 della Spectre con un fucile subacqueo. Il ruolo era in origine quello di una donna italiana come nel romanzo dello scrittore britannico Ian Fleming, ma Auger impressionò a tal punto i produttori britannici che il personaggio venne cambiato in quello di una francese, più congeniale alla sua interpretazione. Dopo il successo come 'Bond girl' Auger venne chiamata a interpretare spesso ruoli piccanti particolarmente in Italia e fu molto attiva in film di produzione italiana, francese e spagnola.

Tra le pellicole successive figurano «Operazione San Gennaro» (1966) di Dino Risi (1966), «Agli ordini del fuhrer e al servizio di sua maestà» (1966), di Terence Young, «L'arcidiavolo» (1966) di Ettore Scola, «Il padre di famiglia» (1967) di Nanni Loy, «Le dolci signore» (1968) di Luigi Zampa, «Scusi, facciamo l'amore?» (1968) di Vittorio Caprioli, «I bastardi» (1968) di Duccio Tessari, «Love Birds - Una strana voglia d'amare» (1969) di Mario Caiano (1969), «Come ti chiami, amore mio?» (1969) di Umberto Silva, «La tarantola dal ventre nero» (1971) di Paolo Cavara. Apparsa anche in tv (ha recitato tra l'altro nella serie «La piovra 5 - Il cuore del problema» del 1990), Auger è stata soprattutto un'attrice cinematografica, interprete di oltre 60 titoli. Tra di essi «Pane, burro e marmellata» (1977) di Giorgio Capitani, «Il triangolo delle Bermude» (1978) di René Cardona Jr., «Viaggio con Anita» (1979) di Mario Monicelli «Aragosta a colazione» (1979) di Giorgio Capitani, «Prestami tua moglie» (1980) di Giuliano Carnimeo, «Il pentito» (1985) di Pasquale Squitieri (1985), «Il frullo del passero» (1988) di Gianfranco Mingozzi, «La bocca» (1991) di Luca Verdone.

·         Morta Azzurra Lorenzini, cantante e conduttrice tv.

Morta Azzurra Lorenzini, cantante e conduttrice tv. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Azzurra Lorenzini, cantante e conduttrice di Telegranducato 32enne, è morta dopo un anno di lotta contro un tumore. «Le avevano diagnosticato un melanoma da circa un anno. Le cure sembravano funzionare. Poi un giorno la Tac ha svelato numerose metastasi. E la situazione è precipitata», ha detto Daniele Pelissero, livornese, il marito e compagno di lavoro. Azzurra è morta martedì mattina all’ospedale di Empoli. Lo scorso 13 dicembre aveva creato un profilo Facebook nel quale aveva cominciato a raccontare la sua battaglia quotidiana contro la malattia. «Azzurra Letto Ventitrè», aveva chiamato la pagina, un vero e proprio diario. I ricavi dell’ultimo brano che aveva pubblicato, «Letto 23», saranno devoluti all’associazione «I Discepoli di Padre Pio» per la costruzione di un ospedale e centro di ricerca per i tumori in Calabria.

·         Morto Federico Memola, sceneggiatori del fumett: creò Zona X e Jonathan Steele.

Morto Federico Memola, tra i maggiori sceneggiatori del fumetto italiano: creò Zona X e Jonathan Steele. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. L’annuncio — che è una notizia dolorosa, dolorosissima non solo per chi lo conosceva ma anche per chi ne ha sempre seguito le sue storie — arriva, nel pomeriggio, dal sito della Sergio Bonelli Editore. «Dopo una malattia che lo ha duramente provato nel corso dell’ultimo anno, nelle prime ore dell’8 dicembre ci ha lasciato Federico Memola». Una notizia che sta rimbalzando sui social dove il cordoglio è sentito, forte, sincero e quasi palpabile. Memola infatti era uno dei più prolifici, e bravi, sceneggiatori del fumetto italiano: ed è difficile che un appassionato lettore nel corso della sua vita non si sia imbattuto — magari anche senza saperlo o farci caso— in una delle sue tante (e sempre belle) storie sempre in bilico tra avventura, fantascienza e fantasy. Memola era nato a Milano l’8 ottobre 1967 e si era diplomato al liceo linguistico. Un inizio da «fanzinaro» — come tanti nel suo settore che si «autoproducevano» piccole storie disegnate e pubblicate con pochi soldi, tanta fantasia e nient’altro — e poi nel 1990, l’esordio vero e proprio con«Fumo di China» — la maggiore, e storica, rivista di critica «fumettara» italiana, oggi in lutto — per la quale ha creato la serie «Moon Police Dpt». Dopo alcune sceneggiature per l’«Intrepido», nel 1993 è entrato a far parte della Sergio Bonelli Editore in qualità di redattore e sceneggiatore. Scrisse albi di Nathan Never e gli venne affidata la testata Zona X, di cui fu curatore e per la quale ideò gli «spin off»«La stirpe di Elän» e «Legione Stellare». Nel frattempo collaborò a Legs Weaver sceneggiando, insieme a Stefano Piani, il terzo Speciale. Poi, con Star Comics, proseguì la serie di Jonathan Steele (53 albi mensili, più extra, speciali e le avventure di Agenzia Incantesimi), fino al 2009, e quindi occuparsi di un nuovo personaggio di sua creazione, «Rourke». Siamo arrivati intanto al 2001. Nel 2010 esordisce «Harry Moon», per Planeta/De Agostini. E ancora: Memola scrive la serie «Gray Logan», creata da Stefano Vietti per Il Giornalino delle Edizioni San Paolo. Di nuovo , per Il Giornalino, nel 2013 crea il personaggio di «Roland». Lo scorso anno aveva sceneggiato il volume «Il regno di Fanes», ispirato ad alcune leggende dolomitiche, del quale aveva iniziato a realizzare il seguito. Vette e vallate, cielo e boschi, fantasia e pensiero che vola. Un racconto interrotto per la malattia improvvisa che poi si è portato via Federico.

·         Addio a Mario Sossi, il giudice rapito per un mese dalle Br.

Mario Sossi, l’ex giudice morto a Genova: fu sequestrato dalle Br. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Del Frate, M. Gabanelli e G. Bianconi. È morto oggi a Genova all’età di 87 anni l’ex magistrato e politico Mario Sossi. Pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre, nel 1974 venne tenuto sotto sequestro dalle Brigate Rosse per oltre un mese. Il rapimento di cui il magistrato fu vittima rappresentò un «salto di qualità» nella strategia dei terroristi. Le Brigate Rosse chiesero, in cambio della vita e della liberazione dell’ostaggio, la scarcerazione di alcuni terroristi detenuti e un volo per raggiungere un paese ritenuto «amico» (vennero indicati Algeria, Cuba e Corea del Nord). Inizialmente lo Stato accettò le condizioni ma la liberazione dei detenuti fu impugnata davanti alla Cassazione dall’allora procuratore capo di Genova, Francesco Coco. Quest’ultimo, qualche anno dopo, avrebbe pagato con la vita questo suo gesto, venendo assassinato sempre da un commando delle Br. Mario Sossi venne rapito il 18 aprile del ‘74 mentre aspettava l’autobus per recarsi al lavoro; il gruppo era capitanato da Alberto Franceschini che gestì l’intera trattativa. Alla fine il giudice venne liberato senza che le condizioni poste dai terroristi venissero accettate. Una volta lasciato andare, dopo un mese di prigionia, Sossi raggiunse Genova in treno e si presentò a una caserma della Guardia di finanza senza che nessuno fosse al corrente della sua liberazione.

Morto a Genova Mario Sossi, l'ex magistrato sequestrato dalle Br. Nel 1974 era stato tenuto prigioniero per oltre un mese. Franceschini, l'ex brigatista: "E' una storia di 50 anni fa, dove ognuno ha fatto la sua parte, io come carnefice lui come vittima". La Repubblica il 06 dicembre 2019. E' morto oggi a Genova all'età di 87 anni l'ex magistrato e politico Mario Sossi. Pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre, nel 1974 venne tenuto sotto sequestro dalle Brigate Rosse per oltre un mese. Nato a Imperia il 6 febbraio nel 1932, sposato e ormai vedovo, due figlie, Sossi era entrato in magistratura nel 1957.  Il nome di Sossi resta legato a uno dei primi 'salti di qualità' delle Brigate Rosse che il 18 aprile 1974 lo sequestrarono appena sceso dall'autobus a Genova, caricandolo su un'auto guidata da Alberto Franceschini e seguita da Mara Cagol - una ventina i componenti che parteciparono al rapimento. Nell'intervista rilasciata a Giovanni Minoli per il programma "La storia siamo noi", Sossi ha dichiarato che a seguito della sparatoria, l'auto su cui si trovava, incatenato dentro ad un sacco, andò a sbattere contro un albero. Fu in quell'occasione che si procurò l'ecchimosi che è evidente nelle prime foto diffuse dalle Br.  Le Brigate Rosse chiesero per la sua liberazione come contropartita la liberazione di otto terroristi del Gruppo XXII Ottobre e il loro trasporto in un paese amico, ma i paesi considerati potenziali benevoli ospitanti declinarono tutti l'asilo politico, prima Cuba, poi Algeria e Corea del Nord. La Corte d'assise d'appello di Genova il 20 maggio 1974 diede parere favorevole alla libertà provvisoria, ma il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Genova Francesco Coco (poi ucciso dalle BR) si rifiutò di controfirmare l'ordinanza di scarcerazione degli 8 terroristi, e presentò ricorso in Cassazione. Sossi venne comunque liberato a Milano il 23 maggio 1974. Subito dopo la sua liberazione non cercò di avvisare nessuno, tornò solitario a Genova in treno e infine si presentò alla Guardia di Finanza ddi Genova.  Due anni dopo il procuratore Francesco Coco fu assassinato a Genova l'8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta, dalle BR, come "rappresaglia". Sossi tornò alla procura presso il tribunale di Genova, prestò servizio anche alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Genova e in Corte di Cassazione a Roma come presidente di sezione. Andato in pensione il 5 luglio 2006, nel 2007 fu candidato per il Consiglio comunale di Genova per Alleanza Nazionale ottenendo il quarto posto (e primo dei non eletti) con 341 voti. Alle elezioni europee del 2009 si è candidato da indipendente nella lista di Forza Nuova per la circoscrizione nord-occidentale ottenendo 1.016 voti. Sulla morte di Sossi Alberto Franceschini, ex capo delle Brigate Rosse, commenta all'Adn Kronos: "Mi dispiace, non ne sapevo nulla, sarà morto di vecchiaia, penso avesse una certa età". "E' una storia di 50 anni fa - dice -. Una storia dove ognuno ha fatto la sua parte: io come carnefice e lui come vittima". Franceschini ricorda la detenzione di Sossi: "Furono 33 giorni agli inizi molto tesi, ma poi, nel corso del sequestro la cosa andò a scemare, lui capì che non era in pericolo di vita". "Addirittura - quando lo liberammo a Milano - si dovette pure difendere dal sospetto di Dalla Chiesa, che pensò fosse diventato nostro complice, per il grado di dialogo che ci fu con noi quando era nelle nostre mani".

Addio a Mario Sossi, il giudice rapito per un mese dalle Br. Fu il primo magistrato sequestrato dai brigatisti: era il 1974. Il Dubbio il 7 dicembre 2019. È morto ieri a Genova a 87 anni Mario Sossi, il primo magistrato rapito dalle Brigate Rosse, che avevano deciso di fare un «salto di qualità» nella propria strategia del terrore. Sossi fu scelto in quanto pm nel processo all’organizzazione terroristica Gruppo XXII Ottobre. Il magistrato fu caricato su una A112 nel corso di quella che prese il nome di “Operazione Girasole” il 18 aprile nel 1974 e rimase sotto sequestro nella «prigione del popolo» per oltre un mese, durante il quale i terroristi, guidati da Alberto Franceschini, diedero vita a una drammatica trattativa con lo Stato. In cambio della sua liberazione le Br chiesero la scarcerazione del Gruppo XXII Ottobre e il loro trasferimento in un paese amico. L’alternativa sarebbe stata l’eliminazione fisica dell’ostaggio. Cuba, Algeria e Corea negarono l’asilo e così la Corte d’Appello di Genova accettò, in un primo momento, le condizioni dei sequestratori. La trattativa si arenò però di fronte al rifiuto del pg di Genova, Francesco Coco di firmare le liberazioni, impugnandole in Cassazione. Le Br si trovarono davanti ad un bivio: mantenere la parola data o liberare Sossi, senza nulla in cambio. Come raccontò più tardi Franceschini, i brigatisti cercarono di sfruttare al massimo i punti segnati durante la trattativa, liberando dunque l’ostaggio. Sossi arrivò da solo, in treno, a Genova, presentandosi poi in una caserma della Finanza. Alcuni mesi dopo Franceschini fu arrestato dai Carabinieri insieme a Renato Curcio, mentre Mara Cagol fu uccisa in uno scontro a fuoco un anno dopo. E a pagare al posto di Sossi fu proprio Coco, assassinato a Genova per rappresaglia l’ 8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta, diventando il primo magistrato ucciso dal terrorismo rosso, a compimento di quel “salto di qualità” che trovò il suo apice nell’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro. Dopo la liberazione Sossi continuò la carriera di magistrato. Pensionatosi a luglio 2006, si dedicò alla professione di avvocato penalista. Nel 2007 tentò la carriera politica con An e nel 2009 si presentò alle europee con Forza Nuova. 

·         Morto Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz.

Morto Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. È morto a Roma a 91 anni Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz. Ex dirigente d’azienda italiano, ultimo dei quattro figli di Giovanni Terracina e Lidia Ascoli, a partire dagli anni ottanta, ha svolto un’attività di testimonianza, affinché tali e simili orrori non si ripetano, svolgendo incontri in scuole, associazioni, università e conferenze, con dedizione grande generosità. «La Comunità ebraica piange la scomparsa di un baluardo della Memoria - ha scritto in una nota Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma - Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subìto nell’inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l’odio antisemita». Nato a Roma in una famiglia ebraica, nell’autunno del 1938, a causa dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, fu espulso dalla scuola pubblica. Terracina proseguì gli studi nelle scuole ebraiche fino a che, dopo essere sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre 1943, venne arrestato a Roma, il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia: i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David. Detenuti per qualche giorno nel carcere di Roma di Regina Coeli, dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, il 17 maggio del ‘44 furono avviati alla deportazione. Degli otto componenti della sua famiglia Piero Terracina sarà l’unico a fare ritorno in Italia.

Addio a Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz. Mattarella: "Testimone instancabile della memoria". Aveva 91 anni. Sfuggito al rastrellamento del ghetto di Roma, fu arrestato nel '44. Fu l'unico della sua famiglia a tornare vivo dal campo di concentramento. Il cordoglio su Twitter: "Era un uomo libero". Gaia Scorza Barcellona l'08 dicembre 2019 su La Repubblica. E' morto a Roma a 91 anni Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti al più grande campo di sterminio nazista. "All'Inferno ci sono stato, si chiama Auschwitz-Birkenau", aveva detto qualche anno fa alla platea dell'Auditorium Paganini di Parma che lo aveva accolto per non dimenticare. "La Memoria - raccontò sul palco l'ex deportato - è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro: ecco perché è necessario fare memoria del passato, perché quel passato non debba mai più ritornare". Solo lo scorso dicembre il Consiglio comunale di Campobasso aveva stabilito all'unanimità di conferire la cittadinanza onoraria a Terracina e ad altri sopravvissuti della Shoah, tra cui anche la senatrice Liliana Segre. Nato a Roma il 12 novembre 1928, Terracina aveva due fratelli (Leo e Cesare) e una sorella (Anna), mai tornati dalla Germania. La sua famiglia viveva in piazza Ippolito Nievo, a Trastevere, e riuscì a scampare ai raid delle SS, vivendo in clandestinità dal 12 ottobre del 1943 fino a quando fu deportata. "Io e i miei fratelli andavamo in cantina dove avevamo sistemato alcune tavole per dormire, ma di giorno dovevamo uscire per poter trovare i denari per sopravvivere", raccontava Terracina con voce ferma in una intervista del 1993, come sempre quando rimetteva insieme i pezzi della sua vita da sfollato, deportato, sopravvissuto. Senza mai dimenticare l'umanità: "All'inizio pensavamo che avrebbero risparmiato anziani e donne". Ma non fu così. La sera del 7 aprile 1944, tutti riuniti per festeggiare la Pasqua ebraica, Piero Terracina, allora 15enne, viene portato da quattro persone in borghese a Regina Coeli con la sua famiglia, quindi nel campo di Fossoli a Carpi, vicino Modena. A Roma "ci fecero salire su un'ambulanza con due tedeschi a bordo. 'Non vi preoccupate,' - ci dissero i fascisti che avevano seguito mia sorella per stanarci - 'basta che ci diciate dove avete nascosto i gioielli'. Ma noi non avevamo più nulla". "Ragazzi, qualsiasi cosa succeda, siate uomini - ci disse mio padre faccia al muro, nel carcere - Dignità soprattutto", ricordava. Del trasferimento in camion - una lunga fila - da Prima Porta verso i campi di concentramento ("Quando vedemmo che c'erano anche le donne, lì per lì, la cosa ci sollevò il morale") Terracina rammentava la tappa obbligata per "costringerci in massa a fare i bisogni prima del viaggio, con i mitra spianati contro di noi e le urla in tedesco che non capivamo". Fu la prima immagine cruda e realistica della morte cui si andava incontro. A Carpi la prigionia durò un mese: "Il fango di Fossoli non si staccava dalle scarpe e non si riusciva a camminare, un ricordo che sarebbe tornato spesso nei miei incubi anche dopo il ritorno". "I prigionieri non lavoravano, ma imparai come dovevo morire: vidi un ufficiale sparare un colpo in testa a un deportato che conoscevo. Fu la prima morte che vidi nella mia vita". Comincia così il viaggio che li porterà ad Auschwitz. Sul percorso, a Siena, ci fu un bombardamento e uno dei deportati riuscì a fuggire. Una volta ripartiti da Fossoli, dopo giorni di fame e di fatica, "ci ricordarono che se qualcuno avesse provato a fuggire, i familiari sarebbero stati tutti uccisi, così come altre dieci persone del carro". "Non era tanto la fame, ma la sete a sfiancarci: si sentivano i lamenti dai carri, soprattutto dei bambini. Sul nostro eravamo in 64 e non veniva mai aperto: facevamo i bisogni a bordo". "A5506" è il numero che Piero ha portato per tanti anni sull'avambraccio destro, assieme ai ricordi incancellabili che condivideva come testimone dell'orrore, anche accompagnando gli studenti nei campi di sterminio. Della Shoah ricordava tutto, ma più di tutto voleva che si ricordasse l'aberrazione perché "gli esecutori dell'immane delitto erano uomini come noi, come tutti". Negare o perdonare è impossibile, diceva rispondendo a chi cercava di scavare nella sua coscienza o tentava di rileggere la storia. E mai come oggi è importante capire perché, ha spiegato instancabile Terracina fino ai suoi 91 anni. Separato dai fratelli, ad Auschwitz non vide più i genitori e il nonno di 85 anni. "Ho pianto in una sola occasione: quanto i miei fratelli mi raggiunsero la sera dopo il lavoro e mi dissero che mio zio, entrato con noi al campo, era stato selezionato per andare a morire nelle camere a gas. Mi riferirono che aveva detto di non essere tristi per lui, perché le sue sofferenze sarebbero finite presto", ricordava. Terracina finì in una baracca dove venivano stipati i minori di 18 anni. Debilitato dal lavoro, fu ricoverato nell'ospedale del campo. Il 19 gennaio 1945 venne evacuato insieme ai pochi prigionieri rimasti. Durante la marcia le sentinelle SS si diedero alla fuga per sfuggire alle truppe russe che avanzavano. Piero cercò un riparo dal freddo e raggiunse il campo di Auschwitz, ormai abbandonato. Qui venne liberato il 27 gennaio 1945 dalle truppe sovietiche. "Testimone instancabile della memoria della Shoah", così lo ha definito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella esprimendo "Ai suoi familiari e alla comunità ebraica di Roma sentimenti di vicinanza e di cordoglio". "La Comunità Ebraica di Roma piange la scomparsa di un baluardo della Memoria - scrive Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma - Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subito nell'inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l'orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l'odio antisemita". Tanti i messaggi di cordoglio dal mondo della politica, e non solo, sui social. "Le sue parole continueranno a vivere negli occhi dei tanti ragazzi che ha incontrato in questi anni - scrive su Facebook il segretario del Pd Nicola Zingaretti -. Piero era una persona libera anche nel denunciare omissioni e silenzi di questi anni. Il suo rigore, il suo dolore, la sua inquietudine nel vedere il ritorno di segnali pericolosi devono essere per noi spinta all'impegno". "Ci ha lasciati Pietro #Terracina l'ultimo straordinario testimone della deportazione degli ebrei romani a Auschwitz. Ricordiamo chi ha aiutato a non dimenticare", scrive il commissario Ue Paolo Gentiloni. "Apprendo la notizia della morte di Piero Terracina con grande dolore, - sono le parole di Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia - ma il mio cuore è pieno anche di riconoscenza per il privilegio di avere ascoltato le sue parole e la sua testimonianza. Nonostante il male subito, Piero Terracina ha dedicato gran parte della sua vita a combattere per il bene dell'umanità e perché l'orrore non tornasse mai più. Che il suo ricordo sia di benedizione".

È morto Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti all’inferno di Auschwitz. È scomparso a Roma, all’età di 91 anni, Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti alla furia nazista di Auschwitz. Il Dubbio l'8 dicembre 2019. «La Comunità Ebraica di Roma piange la scomparsa di un baluardo della Memoria. Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subito nell’inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l’orrore dei campi di sterminio nazisti». Così Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, annuncia la scomparsa di Piero Terracina, 91 anni, uno degli ultimi sopravvissuti allo sterminio nazista. «Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l’odio antisemita», prosegue Ruth Dureghello. Tanti i messaggi di cordoglio arrivati anche dal mondo della politica e delle istituzioni. «Piero Terracina ci ha lasciato. Non ho parole per descrivere il dolore che mi provoca la sua scomparsa. Piero, lo ricordiamo sempre pronto a raccontare l’orrore di Auschwitz, sempre pronto a trasmettere ai giovani l’importanza della memoria», scrive su Facebook il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «Le sue parole continueranno a vivere negli occhi dei tanti ragazzi che ha incontrato in questi anni. Piero era una persona libera anche nel denunciare omissioni e silenzi di questi anni. Il suo rigore, il suo dolore, la sua inquietudine nel vedere il ritorno di segnali pericolosi devono essere per noi spinta all’impegno», prosegue il leader del, che poi promette: «Piero, grazie. Ti giuro con tutto me stesso che farò di tutto per nondeluderti. Non abbasseremo mai la guardia, non faremo sconti e saremo rigorosi e intransigenti come lo sei stato tu. Un immenso abbraccio». Vicinanza alla comunità ebraica anche da parte del capo politico M5S, Luigi Di Maio: «Tutta la mia vicinanza alla comunità ebraica per la scomparsa di Piero Terracina, per cui tutto il M5S esprime cordoglio», dice il ministro degli Esteri.«Quella di Terracina è stata una testimonianza importante e cruciale degli orrori del nazifascismo, una testimonianza che nel tempo ha rafforzato la nostra memoria, dando una rilevante spinta culturale e civile alle attuali e future generazioni». A voler ricordare Terracina, anche il commissario Ue Paolo Gentiloni, che su Twitter scrive: «Ci ha lasciati Pietro Terracina l’ultimo straordinario testimone della deportazione degli ebrei romani a Auschwitz. Ricordiamo chi ha aiutato a non dimenticare». Commozione e cordoglio anche da parte della vice presidente della Camera forzista Mara Carfagna. «Apprendo la notizia della morte di Piero Terracina con grande dolore, ma il mio cuore è pieno anche di riconoscenza per il privilegio di avere ascoltato le sue parole e la sua testimonianza. Nonostante il male subito, Piero Terracina ha dedicato gran parte della sua vita a combattere per il bene dell’umanità e perché l’orrore non tornasse mai più. Che il suo ricordo sia di benedizione».

Morto Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz. Il Riformista l'8 Dicembre 2019. È morto a Roma a 91 anni Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz. A renderlo noto è stata Ruth  Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma. “La Comunità Ebraica di Roma piange la scomparsa di un baluardo della Memoria – scrive Dureghello – Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subito nell’inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l’odio antisemita”.

LA DEPORTAZIONE – Nato nel novembre 1928 a Roma, in una famiglia ebraica, nel 1938 a causa dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, Piero, come tutti gli alunni e i docenti ebrei, fu espulso dalla scuola pubblica. Dopo essere sfuggito ai rastrellamenti nella Capitale del 16 bre 1943, venne arrestato a Roma, il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia. enuti per qualche giorno nel carcere di Roma di Regina Coeli, dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, il 17 maggio del ’44 furono avviati alla deportazione. Degli 8 componenti della sua famiglia, Piero Terracina sarà l’unico a fare ritorno in Italia da Auschwitz-Birkenau.

L’INCUBO AUSCHWITZ – Come raccontato dallo stesso Terracina, i suoi familiari vennero uccisi nel giorno stesso di arrivo nel campo di concentramento. “Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì””.

LA LIBERAZIONE . Terracina venne liberato il 27 gennaio 1945, assieme a Primo Levi. “Quando siamo stati liberati pesavo 38 chili – ha raccontato Terracina . Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ crollai, dopo fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguito fui portato nell’ospedale di Leopoli. Lì ripresi a piangere e presi coscienza di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni. Dopo qualche tempo fui mandato in un sanatorio nel mar Nero. Lì ho ripreso ad avere amicizie, lì sono nati alcuni affetti come quell’infermiera che mi ha curato. Sono rientrato in Italia dopo un anno. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere… ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone”.

Massimo Finzi per Dagospia il 9 dicembre 2019. La memoria è quel filo che unisce il passato al presente permettendoci così di affrontare il futuro. “io all’inferno ci sono stato”, “io l’inferno di Aushwitz l’ho visto” Quante volte Piero Terracina ha ripetuto queste frasi durante le sue testimonianze. Era scampato alla retata del ghetto del 16 ottobre 1943 ma, in conseguenza della delazione di un vicino di casa, a 15 anni fu catturato nel 1944 insieme a tutta la sua famiglia e avviato ai campi di sterminio: tornò solo lui. E’ stato tra i primi a sentire il dovere di testimoniare non solo affinché quegli orrori non potessero ripetersi ma per dare voce ai milioni di fratelli offesi, torturati, umiliati, usati come cavie, come schiavi, massacrati, gassati e ridotti in cenere. Una testimonianza sofferta perché riapriva ogni volta ferite mai rimarginate ed evocava ricordi personali dolorosissimi. Piero Terracina si è assunto, assieme a pochi altri sopravvissuti, questo compito della testimonianza che ha voluto svolgere fino alla fine delle sue forze: meno di un mese fa eravamo insieme a Deruta in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a lui e a Sami Modiano. Anche allora, malgrado una condizione fisica deteriorata, non aveva fatto mancare la sua testimonianza e soprattutto il monito a non sottovalutare non solo l’antisemitismo ma tutte le forme di razzismo. Lo consolavano l’affetto e la solidarietà che riscuoteva tra le numerose scolaresche che lui spesso accompagnava nei viaggi della memoria. Nella tradizione ebraica il nome di un defunto, meritevole di essere ricordato, è seguito da due lettere: ZL ( Zikhrono Livrakha) il cui significato è “il suo ricordo sia una benedizione” e Piero Terracina questo riconoscimento lo ha meritato ampiamente. In questo momento a Lui la pace a noi il dolore per la sua perdita, ma se davvero vogliamo onorare la sua memoria allora dobbiamo assumerci due compiti: 1) continuare e diffondere la sua testimonianza. 2) Lottare con ogni mezzo contro revisionismo, antisemitismo in tutte le sue forme, discriminazioni, razzismo e i tentativi di rinascita di formazioni di ispirazione nazi-fascista.

Dott. Massimo Finzi. Assessore alla Memoria della Comunità Ebraica di Roma

Piero Terracina, il bambino di Auschwitz che raccontava l’orrore. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 su Corriere.it da Valter Veltroni. Non ho mai sentito pronunciare a Piero Terracina parole di odio. Mai. Era una persona dolce e generosa, piena di premure per gli altri e di un’altissima coscienza del valore della dignità umana. Lui, e gli altri che hanno vissuto l’inferno della storia, avrebbero potuto odiare. Ma sapevano, sanno, che proprio l’odio ha generato il loro interminabile dolore. L’odio, il nemico della libertà e della vita. «Una mattina andai a scuola come tutti gli altri giorni, tranquillo. La maestra a cui volevo bene e che mi voleva bene mi disse di non entrare. “Terracina tu resti fuori”. Chiesi perché. “Sei ebreo”». Aveva 10 anni, quel giorno, Piero Terracina. Un bambino, solo un bambino. Era l’inizio del suo inferno. Quello che lo avrebbe portato, a soli 15 anni, a conoscere l’orrore della deportazione sua e della sua famiglia. Furono fatti salire sui treni piombati sua sorella Anna e i suoi fratelli Leo e Cesare. Piero era il più piccolo, Anna aveva 7 anni più di lui. C’erano mamma Lidia e papà Giovanni. E poi lo zio Amedeo, il nonno Leone. Una famiglia, tutta intera. Quando andavamo con i ragazzi delle scuole ad Auschwitz Piero si metteva a metà del binario sul quale arrivavano i treni piombati. E richiamava impietosamente a sé il suo dolore, le immagini di quei minuti indimenticabili, il distacco da chi amava. Piero lo aveva visto, il dottor Mengele, indicare, con un solo movimento, chi poteva vivere, almeno un po’, e chi doveva morire, subito. Lo faceva con un pollice che si alzava e si abbassava. Un gesto che era nato al Colosseo e che ora è tornato, inopinatamente, di moda. Piero a un certo punto della sua vita, dopo la profanazione di un cimitero ebraico, ha deciso di cominciare a raccontare. Non aveva parlato per decine di anni, come tanti sopravvissuti che non riuscivano a farlo. Ho conosciuto due deportati, marito e moglie, che non parlavano neanche tra loro dell’esperienza vissuta nel campo. Piero non ha più smesso di raccontare. E sono migliaia i giovani che ha incontrato, che ha reso «testimoni di secondo grado», con i quali ha condiviso lacrime e dolore, coscienza del senso della storia e impegno a combattere intolleranza e razzismo. Ogni volta per lui era uno strazio. L’ho sentito raccontare piangendo il suo calvario nelle scuole, nella neve di Birkenau, a ragazzi tedeschi in Germania, a giocatori di squadre di calcio, a bambini piccoli come era lui, «quel giorno». Gli avevano impresso un numero sul braccio. Gli avevano cancellato il nome. Gli avevano tolto la famiglia, gli avevano schiantato l’adolescenza, lo avevano portato a un passo dalla morte, 38 chili. Una volta ho chiesto a Shlomo Venezia, un altro dei sopravvissuti, quando avesse smesso di avere gli incubi. «Mai» mi aveva risposto. Piero tornava sempre sull’orrore dell’appello nel campo che, se non tornava il numero dei «pezzi», poteva durare ore. Con la pioggia, la neve, la paura addosso. Era quello, il suo incubo. Nulla è paragonabile, nella storia umana, alla Shoah. Per questo sono intollerabili i negazionismi, i revisionismi, la riproposizione dei simboli della pagina più scura del cammino dell’umanità. Le croci uncinate e l’odio per gli ebrei che vengono di nuovo esposti in tanta parte di questo mondo confuso e deprivato di memoria, sono, diciamoci le cose chiaramente, inni agli assassini di milioni di esseri umani, sono elogi delle camere a gas. Piero era preoccupato del ritorno dei sentimenti e delle parole che avevano straziato la sua vita. Gli sembrava che ci fosse una sottovalutazione. Lui, bambino nel ’38, sapeva che «fu allora, fu nel ’38, che iniziò la discesa nell’abisso di Auschwitz. Giorno dopo giorno, oggi una legge, domani un’altra, ci avvicinavamo sempre di più alle camere a gas e ai forni di Auschwitz». Le parole sono importanti. Ci sono momenti della storia in cui ciò che era impronunciabile, per ragioni etiche o semplicemente per umanità, improvvisamente viene sdoganato. E allora, su gradini di parole, si comincia a discendere verso l’inferno. Fu preparata da parole, quelle della «Difesa della razza», la cacciata di Piero bambino dalla sua scuola. Piero aveva paura del ritorno di questo clima. Un giorno, poco tempo fa, mi ha scritto: «Adesso cosa accadrà? Non mi preoccupo per me che sono quasi arrivato al traguardo, ma per le nuove generazioni alle quali ho dedicato gli ultimi trent’anni della mia vita raccontando la mia storia per metterli in guardia dai nuovi duci. E invece oggi mi sembra che nuovi duci stiano nascendo. Dimmi per favore il tuo pensiero. Spero che qualche tua parola riesca a tranquillizzarmi». Non sono stato in grado di farlo, perché la sua paura è la mia. Perché la storia ci ha insegnato che l’orrore può ripetersi. Esiste un solo antidoto a disposizione di ciascuno di noi. Il resto ha a che fare con la saggezza dei governanti, la giustizia degli assetti sociali, la volontà di dialogo dei potenti della terra. A noi, a ciascuno di noi, spetta il potere di salvaguardare la memoria. Che non è solo quella del computer che ormai racchiude le nostre vite. È la coscienza del cammino umano, delle tragedie e degli errori. Hitler arrivò al potere con il voto dei tedeschi e quando Mussolini annunciò l’entrata in guerra in tutta Italia si esultò. La consapevolezza del Novecento, il secolo ignorato nelle scuole di ogni ordine e grado, ci può far rifiutare il razzismo e la guerra, restituendoci un dolore che è stato vissuto dai nostri nonni o dai nostri padri. Piero aveva un amico del cuore, anzi un fratello, che si chiama Sami Modiano. A lui ho pensato ieri mattina, quando mi è arrivata la notizia che temevo. Li ho visti spesso tenersi la mano, come avevano fatto quando, ambedue ragazzi, negli ultimi giorni di Auschwitz, si sorreggevano, per sopravvivere. Fratelli del dolore e fratelli del racconto. Sami ora soffre ma sono certo che continuerà a raccontare, a testimoniare. E lo farà moltiplicando la sua fatica, lo farà anche per suo fratello Piero. Perché solo gli esseri umani che sanno essere fratelli, che non odiano, che accettano e rispettano ogni differenza, vivono la vita vera. Il resto è fiele, rancore, odio. È vita infelice. La vita di Piero è stata un inno alla memoria e alla vita. Così, ripensando al nostro affetto, voglio ricordarlo.

·         La Roma piange Giovanni Bertini: morto per la Sla a 68 anni.

La Roma piange Giovanni Bertini: morto per la Sla a 68 anni. L'ex difensore di Torino, Roma e Fiorentina Giovanni Bertini non ce l'ha fatta a vincere la sua battaglia contro la SLA intrapresa nel giugno del 2016 e conclusasi questa mattina con la sua morte. Marco Gentile, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. La Roma e tutto il mondo del calcio italiano piange la morte dell'ex calciatore Giovanni Bertini, scomparso questa mattina all'età di 68 anni. Bertini, classe 1951 avrebbe compiuto 69 anni il prossimo 6 gennaio e nel corso della sua lunga carriera ha vestito diverse maglie tra cui quella della squadra giallorossa tra il 1969 e il 1974, cinque stagioni ricche di presenze e soddisfazioni per l'ex roccioso difensore. La Roma ha espresso tutto il suo cordoglio per la morte di Bertini sui suoi canali ufficiali tra cui Twitter: "L'#ASRoma piange la scomparsa di Giovanni Bertini, difensore che vestì la maglia giallorossa tra il 1969 e il 1974. Ai familiari va il cordoglio da parte del Club". Bertini aveva la SLA che gli fu diagnosticata nel giugno del 2016: dopo tre anni e mezzo il guerriero ha perso purtroppo la sua battaglia. Giovanni nella sua carriera ha vestito maglie importanti oltre a quella della Roma come Torino e Fiorentina, ma anche Catania e Benevento. Il suo ruolo da difensore centrale era esaltato dal suo fisico possente e dal forte carattere, caratteristiche che gli hanno permesso di imporsi in Serie A e in Serie B. Esordì in Serie A il 14 dicembre del 1969 con la maglia della Roma, all'epoca gestita dal patron Marchini. Con i giallorossi quell'anno disputò solo sei partite e poi tornò a metà anni settanta quando in panchina c'era un certo Niels Liedholm. Carlo Mazzone intravedendo le potenzialità lo volle poi con sè alla Fiorentina: la sua carriera durò complessivamente tredici anni dal 1969 al 1982 anno in cui si ritirò dopo aver militato nel Benevento. Dopo il ritiro dal calcio era diventato opinionista di un'emittente locale e anche di Tv 2000. La figlia Benedetta qualche tempo dopo che al padre fu diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica scrisse una lunga lettera all'Ansa in cui chiedeva che la privacy di Giovanni fosse rispettata: "Sono stata in silenzio da quando nel giugno del 2016 è stata diagnosticata a mio padre la Sla. Ora chiedo di rispettare il dramma che mio padre e la mia famiglia stanno affrontando silenziosamente da quasi due anni. Sono stata in silenzio in questo periodo per due motivi ben precisi. Papà ha seguito addolorato in tv e sui giornali il drammatico decorso". Benedetta scrisse questa lettera circa un anno fa e ha poi continuato chiedendo che la cosa non venisse strumentalizzata dai media: "Da giornalista, conoscendo i meccanismi che spesso regolano il mondo dell’informazione, sono stata in silenzio per paura che questa vicenda potesse essere strumentalizzata senza la necessaria sensibilità, dimenticando la tragedia umana che stavamo e che continuiamo a vivere ogni giorno. Per questo invito tutti gli organi di informazione a rispettare il dramma che mio padre e la mia famiglia stanno affrontando silenziosamente da quasi due anni".

Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 4 dicembre 2019. La «stronza», come la chiamava Stefano Borgonovo, s' è presa anche Giovannone Bertini, romanista - ma giocò anche con Taranto, Fiorentina, Ascoli, Catania e Benevento - degli anni '70. Il difensore che si autodefiniva «Nesta e Samuel messi insieme», è morto di Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, all' età di 68 anni. Un' altra vittima di un mistero scientifico che non si è ancora risolto. Perché la Sla - un percorso feroce, in cui i pensieri restano lucidi ma il corpo non risponde più - non è una malattia «calcistica», però nel calcio il suo livello di diffusione, i casi registrati sono stati 45 in 40 anni, è doppio rispetto al resto della popolazione. L' abuso di anti infiammatori, i pesticidi per l' erba dei campi di gioco, i colpi alle gambe o alla testa: si sono fatte tante ricerche sulle cause o concause del morbo, senza arrivare però a una conclusione certa. Anche Giovannone deve averci pensato in questi tre anni durissimi, in cui ha combattuto la «stronza» con grande coraggio. «I medici hanno detto che è stata la straordinaria voglia di vivere a farlo resistere», racconta commosso Fernando Acitelli, il poeta suo grande amico, che proprio in queste settimane sta completando la biografia del romanista a cui Nils Liedholm un giorno disse «sarai il nostro Hulshoff», riferendosi a uno dei calciatori mito dell'era dell'Ajax. Si racconta che la sua prestanza e il suo coraggio in campo mettessero soggezione persino a Gigi Riva. Bertini, ricordato ieri con un tweet dalla Roma, era nato all' Alberone, sulla via Appia, un paio di chilometri scarsi dalla via Vetulonia di Francesco Totti. Dopo un inizio sotto casa, se ne andò all'Ostiense di Gaetano Anzalone, futuro presidente giallorosso. La sua crescita fu rapidissima: dalla Primavera della Roma, dove incrociò anche Claudio Ranieri, debuttò a 19 anni in un Fiorentina-Roma 2-2. Il suo ciclo durò un decennio, con l' ultima stagione al Benevento. Il mondo del calcio ritrovò poi Giovannone nelle vesti di opinionista controcorrente: per anni espresse la sua idea di calcio a Tv2000. Aveva un sorriso grande e la battuta pronta, conditi però con un po' di rimpianti. Acitelli racconta anche una frase di Bertini, che sarà l'epigrafe della biografia: «Diceva sempre: sono stato un uomo buono, ma non se n' è accorto nessuno».

Dal Fatto Quotidiano. Ho appena letto della terribile morte di Giovanni Bertini, ennesimo giocatore ex Fiorentina colpito da Sla. A questo punto le famose e vituperate "chiacchiere da bar", i celebri "sentito dire", prendono sempre più fondamento riguardo a una tragedia oramai chiara e legata agli spogliatoi trattati come farmacie. O sbaglio? Ernesto Di Giulio

LA RISPOSTA DI ZILIANI. Giovanni Bertini, morto ieri di Sla a 68 anni, nella Fiorentina aveva giocato solo una stagione, nel '75-76, a 24 anni. Ciò premesso, la sua è un' altra stazione, l' ultima, che si aggiunge alla Via Crucis dei calciatori morti di Sla o per le più diverse cause dopo aver militato negli anni 70 nel club viola. Il primo fu Bruno Beatrice, a 39 anni, nel 1987, per una leucemia contratta dopo essersi sottoposto a un ciclo scellerato di raggi Roengten (l' inchiesta del pm Bocciolini, aperta su denuncia della vedova e archiviata per prescrizione, appurò che nella Fiorentina di quegli anni venne praticata "sperimentazione medica"); dopodiché fu una strage. Nello Saltutti morì nel 2003 per infarto, Ugo Ferrante nel 2004 per un tumore alla gola, Giuseppe Longoni nel 2006 per una vasculopatia cardiaca, Massimo Mattolini nel 2009 per insufficienza renale, Giancarlo Galdiolo nel 2018 per una malattia simile alla Sla, la demenza temporale frontale, che gli aveva tolto l' uso della parola. Di Sla (gli ex calciatori sono colpiti 6 volte più della popolazione normale e a un' età più giovane, 43 anni di media invece di 63) morì nel 2007 Adriano Lombardi che aveva fatto parte del vivaio viola come Mario Sforzi, ucciso nel 2004 da un linfoma non Hodgkin. Sembra un miracolo, in questo tragico quadro, che siano sfuggiti alla morte Giancarlo Antognoni, colpito da infarto a 51 anni, Domenico Caso, guarito da un tumore al fegato e Giancarlo De Sisti, operato d' urgenza al cervello a 41 anni per un ascesso frontale: tutti ex Fiorentina. Di Sla era morto Stefano Borgonovo, ex viola anni 90; e se Bertini di questa tremenda malattia è solo l' ultima vittima, la prima fu Armando Segato, 8 stagioni alla Fiorentina dal '52 al '60, ucciso dalla Sla nel '73. Di Sla era morto a 31 anni Lauro Minghelli, a 52 Paolo List, a 60, il marzo scorso, Marco Sguaitzer. Le cause? Al momento, purtroppo, è ancora impossibile determinarle. Paolo Ziliani.

·         Morti gli arrampicatori Daniele Nardi e Brad Godbright.

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 novembre 2019. Parliamo del libro postumo di Daniele Nardi - un alpinista appassionato, di ordinaria rilevanza tecnica – che nel febbraio scorso morì di una morte che apparve estremamente cercata, ossia passando dallo sconsigliatissimo sperone Mummery del Nanga Parbat (Pakistan, 8126 metri) da cui non fecero ritorno per sfinitezza e per via del brutto tempo: questo lui e Tom Ballard, un talento giovanissimo che fu irresponsabilmente trascinato nell'avventura. Se ne parlò molto nel febbraio scorso, quando Nardi e Ballard morirono sulla montagna (i corpi probabilmente non saranno mai recuperati) e quando l’odissea dei soccorsi mortificò la buona volontà di tanti alpinisti che cercarono di dare una mano. Tra questi – segnatevi i nomi - c'erano lo spagnolo Alex Txicon e il pakistano Ali Sadpara. Simone Moro, invece, si offrì di recuperare i corpi con l'aiuto di un elicottero, ma le famiglie rifiutarono. Dico subito che il libro nella sua interezza, levigato dall'editor e terminato postumo dal Alessandra Carati, mi interessa solo nella parte che va da pagina 158 a 201, ossia dove racconta della vicenda che contrappose Nardi all'alpinista Simone Moro: il quale, di fatto, nel 2016, favorì l'espulsione di Daniele Nardi dal gruppo a cui Moro si era aggregato con l'intento di raggiungere la cima del Nanga Parbat in prima invernale, come poi avvenne in compagnia dei citati Alex Txicon e Ali Sadpara. Per il resto, umanamente e alpinisticamente parlando, il personaggio Daniele Nardi non interessa più di tanto, né credo che si presti all'eterno dibattito sulla «conquista dell’inutile»: sulle ragioni, cioè, per cui una persona sana di mente debba andarsi a cercare la morte per una soddisfazione inafferrabile. Nardi non meritava certo di morire, ma dire che «se l'è cercata», nel suo caso, ha quasi senso. Sognava l'impresa impossibile. Ma lo consideravo, anche da vivo, un enigma risolto: nel libro ritrovo frasi come «la mia forza mentale nasce da una mancanza», «cerco un'occasione per dimostrare il mio valore e segnare la storia dell'alpinismo», più altre conferme di una mentalità disadattata e alla perenne ricerca di riscatto, con la tendenza a enfatizzare il dramma eroico dell’avventura. Cosa ardua per un originario di Sezze (Latina) a fronte di un mondo alpinistico iper-conservatore e diffidente, dove ancora si fronteggiano «dolomitisti» e «occidentalisti», e dove lui, testardo, si affannava a cercare sponsor nelle zone pontine dove l'alpinismo non sapevano neppure che cosa fosse. Resta che alcune persone, per vivere, hanno drammaticamente bisogno di sentirsi vive: Nardi era una di queste. Nardi, cioè, era un alpinista. Ora tocca andare sul personale. Nel maggio 2016, dopo che Simone Moro aveva conquistato il Nanga Parbat in invernale, ed era finito sui giornali di tutto il mondo, approfittai del mio rapporto personale con lui e gli chiesi un'intervista. Ci conoscevamo da tempo e c'era una certa intesa: l'avevo già intervistato per Libero e per un inserto di Panorama, e non si era certo lamentato, anzi. Avevo anche combinato una cena - io, lui e i vertici di Sky - per studiare un diretta televisiva dell'eventuale conquista del Nanga Parbat. L'intervista si fece vicino a casa sua, sopra Ponteranica, vicino a Bergamo, dove parcheggiava il piccolo elicottero con cui si spostava. Tutto all'apparenza andò bene. Mai avrei immaginato che l'intervista avrebbe interrotto la nostra amicizia, peraltro per una mia decisione che lo lasciò di sale. Colpa di un preciso argomento: Daniele Nardi. Quando l'intervista fu pubblicata – 30 aprile 2016 – la reazione di Moro fu tiepida. Poi divenne gelida. Di indole apparentemente diretta ma non sempre sincera, probabilmente fu mal consigliato dal tuo team di comunicatori guidato da Marianna Zanatta. A un certo punto, Moro scrisse su Facebook che non gli erano piaciuti «il tono, il titolo e i virgolettati» dell'intervista, e, pur premurandosi di considerarmi suo amico, aggiunse varie considerazioni su certo malcostume giornalistico di bassa quota. Risultato: tra i suoi fans e commentatori, qua e là, fioccarono appellativi tipo «pennivendolo» (io) e il collega della Gazzetta dello Sport Sandro Filippini (troppo anziano per chiamarlo fisicamente a risponderne) si spinse a definirla «pseudo intervista» e mi associò a una «cagata». Peccato che l'intervista sia stata interamente registrata (circa un'ora e mezza) con registratore ben visibile: infatti Moro non potè smentire nulla, salvo lamentarsi che avevo scritto «troppo». In effetti mi aveva chiesto di non scrivere certe cose, e io infatti - benché le avessi registrate - non le avevo scritte. Era già accaduto nelle altre interviste. Aggiungo che qualsiasi giornalista «normale», e non amico di Moro, probabilmente avrebbe viceversa pubblicato tutto. Ma che cosa scrissi? Che, parole di Moro, era stato Txicon a proporre a Moro di aggregarsi al gruppo dove c'era Nardi. Scrissi che Moro si ritrovò buona parte della via già assicurata con corde fisse (una faticaccia che corrisponde a buona parte del lavoro) e scrissi che Moro, per compensare, offrì dei soldi. Scrissi che Nardi, da quanto Txicon disse a Moro, di queste corde aveva fissato al massimo un 5 per cento, e che Txicon disse a Moro che Nardi era un po' troppo impegnato con Facebook. Scrissi che – parole di Moro – Nardi «tenne delle condotte che lasciarono tutti basiti… Dissi a Nardi che non volevo scalare con lui». Perché non si fidava. Così scrissi. Alla fine, morale, Txicon e Sadpara decisero di estromettere Nardi: così lui tornò a casa, i tre invece arrivarono in vetta. E contava questo. Conta solo questo: non le polemicucce o le interviste. Poi ci furono le cose che non scrissi: e che oggi, tanto, non hanno più importanza. Secondo me, almeno. Per esempio non scrissi che Nardi, a tradimento, si era messo a registrare tutte le conversazioni con Moro, che Nardi si messaggiava soprattutto con Agostino Da Polenza (ex alpinista, grande manovratore di cose alpinistiche, tenutario del sito montagna.tv) e non scrissi altre cose che non riporto, ora, perché stiamo pur sempre parlando di un morto. Io comunque credetti a tuttò ciò che Moro mi disse. E ci credo ancora. Così come credo a quello che gli ripetei in un carteggio finale, prima di interrompere i rapporti: le polemiche e le cazzate, tanto, non contano nulla, perché, come dicono nei film, il campione sei tu, hai conquistato il Nanga, punto. A me rimaneva un'amicizia infranta e un'intervista in cui perlomeno, per la prima volta, si capiva che accidenti fosse successo su quella montagna: forse è per questo che l'intervista è ancora cliccatissima su internet. A pensarci bene, c'è un'altra cosa che non scrissi, e dopo qualche anno si può raccontare anche questa. In rete, se voi cliccate «Simone Moro», vi esce la definizione «alpinista, scrittore e aviatore italiano». Perché aviatore? Perché è pilota di elicottero, e si è specializzato in soccorsi alpini sulle montagne del Nepal. Aveva aperto un paio di scuole per elicotteristi e, nel periodo dell'intervista, stava cercando finanziamenti per un certo suo progetto. Non sarebbe stato bello, dunque, che la stampa apprendesse quanto accadde subito dopo l'intervista. Simone, cioè, mi invitò a fare un giro in elicottero, e io ne fui entusiasta. Sorvolammo i dintorni e la zona del Monte Alben, lungo il crinale che divide la valle Brembana dalla Valle Seriana. Al ritorno, però, a poca distanza da terra, e mentre lui faceva delle manovre dimostrative, l'elicottero cadde. Si cappottò. Si distrusse per buona parte. Nessuno si fece male, o non più di tanto. Non si capiva che cos'era successo, forse un colpo di vento. Simone ebbe il riflesso d'incolpare me, ma forse fu nervosismo, del resto a smentire c'erano parecchi testimoni. Ho ancora la foto della carcassa dell'elicottero. Ora, dopo tutti questi anni, vorrei chiedere a Simone Moro – che mi aveva accusato d'aver scritto «troppo» - quale giornalista al mondo, mentre un certo alpinista trionfava su tutti i giornali del mondo, e batteva record di voli in quota e cercava fondi per i suoi elicotteri, non si sarebbe precipitato a raccontare l'esperienza: tipo «ho intervistato l'alpinista del momento e sono caduto in elicottero proprio con lui. Invece non scrissi nulla. Non lo feci neanche nei giorni in cui Moro ebbe il fegato di criticare la mia intervista, perché avevo «scritto troppo»: lì capii che era un uomo davvero coraggioso. Per il resto, nel suo libro, Daniele Nardi parla discretamente male di Simone Moro: ma ci sta. Scrive cose. Nardi, che tutto sommato sono compatibili con quelle raccontate da Moro. A parte due. Una è che, nel gruppo di Daniele Nardi, nessuno chiese a Simone Moro di aggregarsi: fu Simone Moro a chiedere di potersi aggregare, pagando per le corde già fissate. In ogni caso, alla fine Nardi fu estromesso. La seconda cosa è che Moro, secondo Nardi, diffuse false voci di un imminente maltempo per far desistere la concorrenza che era in vantaggio su di lui in direzione della vetta. Vero, falso, chissà. Saranno cazzate, per voi, e probabilmente lo sono, ma la comunità alpinistica di queste cose potrebbe anche discutere per anni. Ma lo farebbe quaggiù. Perché lassù, tanto, valgono altre regole, altre leggi, è un altro mondo in cui vivere e morire. A Daniele Nardi non si perdona di essere morto. A Simone Moro non si perdona di essere rimasto vivo. Noi giudichiamo, e poi voltiamo pagina.   

Gobright muore in Messico: addio all’alpinista californiano della velocità. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 da Corriere.it. Brad Gobright, 31 anni, californiano, considerato uno dei migliori interpreti dell’arrampicata, è morto mercoledì 27 novembre in un incidente mentre era impegnato su una parete nella località messicana di El Portero Chico. Gobright era con un compagno, Aiden Jacobson; stavano utilizzando una corda di 80 metri, che non sarebbe stata assicurata con dei nodi. Sono precipitati entrambi, Jacobson si è fermato su una grossa sporgenza, mentre Gobright è rimbalzato e ha finito senza vita la sua caduta alla base della parete di falesia. Il sito specializzato «Rock&Ice» ha raccolto la testimonianza riportata di uno dei pochi testimoni oculari, lo scalatore costaricano Gino Negrini, e quindi dello stesso Jacobson, tramite il collega e amico Ryan Borys. Gobright e Jacobson stavano scalando il settimo tiro su El Sendero Luminoso. Negrini, che era a un centinaio di metri di distanza, ha sentito le urla e ha visto cadere Gobright. L’atleta californiano era considerato lo scalatore della velocità e dei free solo. Tra le vie ripetute in velocità sul El Capitan ci sono «El Nino», «The Shaft» e «Golden Gate», molto conosciute dagli appassionati. Il 19 ottobre 2017 aveva stabilito, insieme a Jim Reinholds, il nuovo record di velocità su «The Nose»: 2 ore 19 minuti 44 secondi. Un tempo battuto l’anno dopo Alex Honnold e Tommy Caldwell. Proprio Hannold lo ha ricordato su Instagram: «Era un’anima così calda e gentile, uno di quei partner con cui ho sempre amato passare una giornata... Brad era un gioiello, con tutti i suoi punti di forza e di debolezza. Nel profondo era un bravo ragazzo. Immagino non ci sia nulla da dire, sono triste. Il mondo dell’arrampicata ha perso una luce, riposa in pace».

Morto l’arrampicatore Brad Godbright, precipitato per 200 metri. Asia Angaroni il 28/11/2019 su Notizie.it. Morto l'arrampicatore Brad Godbright, precipitato durante una scalata. I compagni lo ricordano come "un gioiello" e "un bravo ragazzo". È morto l’arrampicatore Brad Godbright, considerato un portento della disciplina “free solo”. Si tratta di quella tipologia di arrampicata che viene eseguita senza corde o protezioni. Sul “The Nose”, il 19 ottobre 2017, aveva stabilito il nuovo record di velocità, vantando una tempistica di 2 ore 19 minuti 44 secondi. Con lui, in quell’occasione, anche Jim Reinholds. Ed è proprio mentre si stava cimentando in una delle sue imprese straordinarie e fuori dal comune che il 31enne americano ha perso la vita. È precipitato per circa 200 metri: è morto Brad Godbright, 31 anni. Durante una delle sue scalate qualcosa è andato storto e per il campione statunitense non c’è stato niente da fare. La caduta si sarebbe verificata in Messico, mentre scalava il Sendero Luminoso, una via del complesso montuoso Portero Chico. Tuttavia, cosa abbia determinato la caduta del giovane sportivo non risulta ancora chiaro. Le autorità locali, oltre ad aver riferito la triste notizia, lavorano per far luce sull’esatta dinamica. Pare che Brad non fosse solo: alcuni testimoni, infatti, avrebbero assistito alla scena. Ed è stato proprio grazie all’aiuto immediato offerto dai presenti che il partner di Godbright è uscito illeso dall’incidente. Si tratta di Aiden Jacobson, 5 anni più giovane del compianto Godbright. Dai social è subito arrivato il messaggio di cordoglio da parte di uno storico compagno di Brad. Alex Honnold, più volte suo compagno di cordata, ha ricordato il 31enne: “Sono triste per Brad, per la sua famiglia e per tutti noi che siamo stati influenzati positivamente dalla sua vita”. Non mancano i complimenti e i ricordi gioiosi: “Era un gioiello, nonostante tutti i suoi punti di forza e di debolezza. Nel profondo era solo un bravo ragazzo. Immagino non ci sia nulla da dire, sono triste. Il mondo dell’arrampicata ha perso una luce, riposa in pace”.

·         Morto Vittorio Congia, caratterista del cinema.

Marco Giusti per Dagospia il 27 novembre 2019. Il mondo dello spettacolo italiano è in lutto per la scomparsa di Vittorio Congia, 89 anni, grande caratterista del cinema, del teatro e della tv italiana degli anni ’50 e ’60 e perfino grande doppiatore, sua la voce italiana di Ian Holm nella trilogia del Signore degli anelli. Non ci sono solo una quarantina di film, allora considerati “leggeri”, a fianco di Totò, Vittorio Gassman, Renato Rascel, Vittorio De Sica, Aroldo Tieri, Walter Chiari, Mario Carotenuto, una marea di musicarelli con Laura Efrikian e Gianni Morandi, ma anche spettacoli teatrali importanti, un “le fuberie di Scapino”, un “Androclo e il leone” con Gianrico Tedeschi dove Congia è il Leone, “Rinaldo in campo” con Domenico Modugno e Delia Scala, “Anfitrione” con Alberto Lupo, e molti sceneggiati e programmi televisivi. Si va dai primi anni ’50 con “Senza rete” a “L’alfiere” e “Scampolo”, a un famoso “Scaramouche” a puntate con Domenico Modugno, da “Napoli contro tutti”, grande show del sabato sera presentato da Nino Taranto al docu-drama “Tecnica di un colpo di stato” di Silvio Maestranzi dove Congia impersonò Re Vittorio Emanuele III detto Spadetta. Nato a Iglesias nel 1930, dotato di grande mimica, di parlantina veloce e di presenza scenica, malgrado fosse piccolo, venne scoperto al cinema prima da Vittorio Cottafavi per Messalina venere imperatrice con Belinda Lee e poi da Mario Mattoli che lo volle prima a fianco di Totò in Sua eccellenza si fermò a mangiare e poi in 5 marines per cento ragazze. Diventò presto un prezzemolino della commedia leggera, come Paolo Panelli o Toni Ucci, simpatici, duttili, divertenti, preparatissimi. Lo troviamo in Gli attendenti di Giorgio Bianchi assieme a Rascel e De Sica, al curioso Mina… fuori la guardia di Armando W. Tamburella con Mina e Carlo Croccolo, da Vacanze alla Baia d’Argento di Filippo W. Ratti con Valeria Fabrizi a I soliti rapinatori a Milani di Giulio Petroni, da Obiettino ragazze di Mario Mattoli a Frenesia d’estate di Luigi Zampa con Vittorio Gassman. Interpreta anche due film a episodi un po’ fuori dal genere comico, Amori pericolosi dove è diretto da Carlo Lizzani e il meno impegnativo Amore facile di Gianni Puccini. Grazie alla popolarità televisiva diventa una delle presenze fisse del filone dei musicarelli diretti da Ettore Maria Fizzarotti, In ginocchio da te, Non son degno di te, Soldati e caporali. Torna a recitare con Totò in Gli amanti latini di Mario Costa e con Franco e Ciccio nel divertente I figli del Leopardo di Sergio Corbucci, dove interpreta il sergente Nando Tazza. Con la fine del cinema leggero e dei musicarelli, prova un po’ tutto, dal thriller con Il gatto a 9 code di Dario Argento, dove è Righetto il cameraman, al cavernicolo con Quando gli uomini si armarono di clava e con le donne fecero din don di Bruno Corbucci, dal western con Amico stammi lontano almeno un palmo di Michele Lupo con Giuliano Gemma, dove ha un buon ruolo, al militare con 4 marmittoni alle grandi manovre di Marino Girolami, dove ha il ruolo del soldato sardo Porceddu, al decamerotico con Una cavalla tutta nuda di Franco Rossetti.  A teatro fece la sua figura a fianco di Sylva Koscina nudissima in La commedia del Decameron di Bruno Corbucci. I suoi ultimi film, usciti alla fine degli anni ’70, sono Io tigro, tu tigri egli tigra di Giorgio Capitani e Renato Pozzetto e Ridendo e scherzando di Vittorio Sindoni. Dopo fece molto doppiaggio, diventando la voce ufficiale di Ian Holm, ma doppiando anche grandi attori come Michael Gambon e Harry Dean Stanton. Magari il cinema e la tv si sarebbere dovuti ricordare un po’ di lui.

·         Morto Bruno Nicolè, il più giovane marcatore della storia della Nazionale di Calcio.

Paolo Tomaselli per il Corriere della Sera il 28 novembre 2019. Andava di fretta, Bruno Nicolè - morto ieri a 79 anni - veloce come l'Italia di quegli anni che preparavano il grande boom. Andava così di corsa che a 16 anni giocava nella squadra della sua città, il Padova di Rocco: attaccante strutturato, veloce e tecnico. A 27 anni, a Ferragosto del '67, aveva già lasciato il calcio, per sempre. «Non gestiva i problemi di peso» dissero poco simpaticamente alcuni suoi ex compagni quel giorno. «Era sensibile al massimo grado» disse invece un' artista come Sivori, che di sfumature se ne intendeva: con lui Nicolè duettava alla Juventus, dove restò sei anni, quelli della grande rinascita con tre scudetti e due Coppe Italia (una la vinse anche con la Roma), con il baby presidente Umberto Agnelli, Charles e naturalmente Boniperti. Segnava spesso (65 gol in 175 partite), giocando sia in fascia che da «centrattacco», come si diceva allora, finendo in una strofa del Quartetto Cetra. Si è ritirato presto, ma ha iniziato prestissimo: undici anni di carriera non sono certo la sostanza di una meteora, piuttosto di una stella cometa. Perché ancora oggi Nicolè resta il più giovane marcatore della storia della Nazionale, a 18 anni e 258 giorni, una doppietta addirittura, contro la Francia. Senza contare che in azzurro Nicolè è stato anche il più giovane capitano di sempre a 21 anni e 6 giorni. Non diventò Piola, come profetizzò Gianni Brera. Ma quella sensibilità di cui parlava Sivori, Nicolè l' ha messa a disposizione di bambini e ragazzi, dalle elementari ai licei, come insegnante di educazione fisica. Senza più fretta.

·         Morto Elio Locatelli, sportivo d’altri tempi.

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 28 novembre 2019. Con la conoscenza enciclopedica di cose, persone e fatti, arricchita dall' umanità del globetrotter partito da Canale d' Alba, Cuneo, alla scoperta del pianeta sport, Elio Locatelli era capace di intrattenerti per ore. Ti ho raccontato di quando...? E partiva una raffica di gustosi e precisi aneddoti sul ghiaccio, perché le lame lunghe della velocità erano state il primo di tanti amori (due partecipazioni ai Giochi: Innsbruck '64 e Grenoble '68), sulle metodologie d'allenamento in continua evoluzione (era diplomato Isef), sui salti valsi a Giovanni Evangelisti il bronzo nel lungo all' Olimpiade di Los Angeles (ne era stato il coach), sull' Africa (dove era di casa, a Dakar) e sull' Europa (la sua base operativa, che però gli stava stretta), sull'atletica di ieri, oggi e domani: non c'era disciplina preclusa a Elio, punto di riferimento per 40 anni di un ambiente che ora, persa la sua boa («Se ne va un pezzo della nostra storia» dice il presidente della Fidal Alfio Giomi, e ha ragione) naviga smarrito verso Tokyo 2020. Locatelli è morto ieri a Montecarlo a 76 anni, poco dopo aver saputo di avere un brutto male. D.t. azzurro a più riprese, tecnico sopraffino in ambito Iaaf, infine direttore della performance a Formia. Si fa prima a dire cosa Elio non ha fatto in una vita dedicata allo sport. Al Mondiale di Doha, lo scorso settembre, aveva esultato per il bronzo della Giorgi nella 50 km di marcia, conquistato grazie (anche) ai consigli tecnici del guru Damilano. Elargiti per amicizia con Elio. L' ultimo regalo alla sua atletica.

·         E’ Morta. Maria Baxa: bella star della commedia erotica.

Marco Giusti per Dagospia il 15 Novembre 2019. Ecco. Se ne vanno via anche le più belle star della commedia erotica. Parliamo di Maria Baxa, 76 anni, stellina croata, nata a Osijek nel 1943, molto attiva in Italia negli anni d’oro, fu Poppea in Per amore di Poppea di Mariano Laurenti, capolavoro del decamerotico comicarolo, e la protagonista del fantascientifico porno Incontri molto ravvicinati del quarto tipo, dove se la vede con tre marziani scopatori. Padre ex-diplomatico di origini italiane, una laurea in Architettura a Lubiana, “pelle bianchissima, lunghi capelli biondi, occhi azzurri trasparenti”, spopolò sia in patria che da noi tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70. Fu in patria amica, “molto intima” del Maresciallo Tito, che chiamava Josip, ma soprattutto deve gran parte della sua carriera all’incontro con Dino De Laurentiis per Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra, che per lei mise in crisi il matrimonio con Silvana Mangano, così dicevano le cronache, e che lei poi lasciò per un produttore più giovane, Ovidio Assomitis, che la volle per Un amore così fragile così violento diretta da Leros Pittoni. Altri giornali riportano una notizia diversa, che cioè quando Dino De Laurentiis se ne andò dall’Italia per stabilirsi a Hollywood, con non pochi strascichi legali, la Baxa si trovò un altro produttore. De Laurentiis la aveva imposta anche in altri film, come Boccaccio e Il Prode Anselmo e il suo scudiero diretti da Bruno Corbucci con la coppia Alighiero Noschese-Enrico Montesano. Ricordava Femi Benussi che era una guerra senza scrupoli tra le attrici: «Noschese odiava Maria Baxa, perché era stata imposta dalla produzione. La Baxa mi aveva fatto fuori un ruolo in un altro film e da lì ho incominciato a essere un po’ disincantata, perché ho capito che si andava avanti per altre vie secondarie» (Cine 70). La Baxa era arrivata nel 1971 a Roma. In patria aveva fatto già due film, Anche i pugili vanno in paradiso di Branko Celovic e Mlad I Zdrav Kao Ruza di Jovan Jovanovic, un pseudo godardata con la star Dragan Nikolic. Da noi diceva di essersi presentata come architetto e di essere entrata così in contatto con Michelangelo Antonioni, che si ispirò a delle sue fotografie per una scena di Professione reporter. Poi incontra Dino De Laurentiis e si aprono magicamente le porte del cinema. Eccola in un episodio de Le belve come moglie di Lando Buzzanca, in Joe Valachi di Terence Young, in Il terrore con gli occhi storti di Steno, Torino Nera di Carlo Lizzani. Per amore di Poppea di Mariano Laurenti fu il suo ruolo più importante. Leggiamo nei giornali del tempo che avrà ben 18 diversi cambi d’abito, anche se nella scena del bagno nel latte sarà ovviamente nuda. In un Tg l’Una del 1977 Maria Baxa racconta che è «Ho fatto il bagno nel latte d’asina vero. Hanno messo una piscina enorme e l’hanno riempita di vero latte d’asina. Un attore così si sente meglio». Dice anche che «non è un film scollacciato. Al contrario risulterà un film ammesso a tutti, anche ai bambini». Beh, non è proprio un film per bambini e la Baxa era sempre nuda, se non ricordo male. Ottiene però dei buoni ruoli, in Gegé Bellavita di Pasquale Festa Campanile, ne Il commissario Verrazzano. E’ una delle belle partner di Lando Buzzanca, assieme a Edwige Fenech, Nadia Cassini, Sylva Koscina, del piccante programma televisivo Settimo anno. In Belli e brutti ridono tutti di Domenico Paolella ha il ruolo della bella moglie di un impiegato, Jack La Cayenne, che per concupirla si finge cieco. Ma la troviamo anche a fianco di Franco Califano nel supercult Gardenia – Il giustiziere della male. Nelle sue interviste parlava spesso della sua doppia professione, sembra che da architetto avesse costruito un ospedale in patria e a Roma avesse lavorato nello studio di Fabrizio Cocchia, e della sua facilità nello spogliarsi. “Non ho complessi. Mi spoglio volentieri”. Questo si capiva. “Dovrò spogliarmi?” chiede a Tinto Brass che la vuole in un film, “No, no”, fa Tinto, “sarai nuda fin dalla prima scena”. Ecco. Con la crisi del nostro cinema di genere nei primi anni ’80 lascia anche l’Italia. Il suo ultimo film italiano è lo stracult Russicum di Pasquale Squitieri nel 1988 con una slava non meno agguerrita di lei, Rita Rusic.

·         Morta Elda Lanza, fu la prima presentatrice Rai.

Morta Elda Lanza, fu la prima presentatrice Rai: aveva 95 anni. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. Elda Lanza, prima presentatrice della tv, giornalista e scrittrice, è morta domenica mattina a Castelnuovo Scrivia, dove viveva. Ad annunciarlo è lo scrittore e giornalista Mariano Sabatini: «Con grandissimo dolore, devo annunciare che la cara amica Elda Lanza non è più con noi. Dopo una brevissima malattia, si è spenta con accanto il figlio Max e il marito Vitaliano Damioli». Lanza aveva compiuto 95 anni il 5 ottobre scorso. «Questi ultimi dieci anni di intensa amicizia sono stati per me magnifici, impagabili, e sono orgoglioso di averla riportata in tv», ricorda Sabatini. La scrittrice e giornalista era conosciuta al grande pubblico come prima presentatrice della Rai e poi come «nuova signora del giallo italiano» grazie al successo di «Niente lacrime per la signorina Olga», «Il matto affogato», « Il venditore di cappelli» ed altri titoli ancora pubblicati dalla casa editrice Salani.

È morta Elda Lanza, fu la prima presentatrice in Rai e amatissima autrice di gialli. La scrittrice e giornalista è scomparsa all'età di 95 anni. La Repubblica il 10 novembre 2019. La scrittrice e giornalista Elda Lanza, conosciuta al grande pubblico come prima presentatrice della Rai e poi come 'nuova signora del giallo italiano' grazie al successo di Niente lacrime per la signorina Olga, Il matto affogato, Il venditore di cappelli e altri titoli ancora pubblicati dalla casa editrice Salani, è morta questa mattina a Castelnuovo Scrivia, dove ormai risiedeva da anni, dopo aver vissuto a lungo a Milano. Dopo una brevissima malattia, la prima presentatrice della tv (il termine fu coniato per lei) si è spenta con accanto il figlio Max e il marito Vitaliano Damioli. Ad annunciare la morte lo scrittore e giornalista Mariano Sabatini. "Questi ultimi dieci anni di intensa amicizia sono stati per me magnifici, impagabili, e sono orgoglioso di averla riportata in tv, visto che dopo averla tenuta a battesimo - dalle trasmissioni sperimentali della Rai nel 1952, e fino agli anni Settanta - se l'erano quasi dimenticata", ha dichiarato Sabatini. "Era tornata prima su La 7 con Benedetta Parodi, e poi dalla Balivo, per una serie di tutorial a Detto fatto su Rai 2. Sempre molto apprezzata e amata dal pubblico, per l'ironia, la cultura, la simpatia. Stesso discorso per i romanzi con Salani: oltre 100mila copie vendute. Fino all'ultimo abbiamo parlato gioiosamente di lavoro, di progetti, di idee e, per fortuna, è riuscita a portare a termine e a vedere pubblicato La farfalla pavone per la Lisciani Libri e La terza sorella per Salani, entrambi da poco nelle librerie". Nata a Milano il 5 ottobre del 1924 aveva compiuto da poco 95 anni vissuti in modo intenso e segnati da tanti incontri con Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Walter Chiari, Dario Fo, Giorgio Gaber, Eugenio Montale. Femminista attiva e convinta aveva studiato alla Cattolica di Milano e poi alla Sorbona di Parigi. Nel 1952 aveva iniziato a lavorare per l'allora tv pubblica, ed era così stata la prima presentatrice televisiva italiana. tv che poi aveva a lungo frequentato, spesso come opinionista in tema di galateo e buone maniere, suo il best seller Signori si diventa le nuove regole dello stile per Mondadori, fino agli anni recenti e al debutto, nel 2012 come giallista. "Non ho una ricetta, posso soltanto dire come è successo a me. Sembrava una cosa qualsiasi. Non era una cosa qualsiasi: tumore al pancreas. Sicuramente faccio prima io ad andarmene che questo indesiderato a crescere e a farmi male. Una gara tra me e lui; vincerò io", aveva scritto Lanza qualche giorno fa in un pezzo per il sito Web con cui collaborava.

Addio a Elda Lanza: morta la prima presentatrice italiana. La storica presentatrice si è spenta all'età di 95 anni dopo una lunga malattia. Giornalista e scrittrice ironica e pungente, la Lanza è stata protagonista della televisione italiana nei primi anni '50. Novella Toloni, Domenica 10/11/2019 su Il Giornale. È morta a 95 anni, nella sua casa di Castelnuovo Scrivia in provincia di Alessandria, Elda Lanza, la prima presentatrice della televisione italiana. La giornalista e scrittrice, che agli esordi della sua carriera era stata una grande protagonista del piccolo schermo, si è spenta dopo una lunga battaglia contro il cancro. Accanto a lei, negli ultimi istanti, c'erano il marito Vitaliano Damioli e il figlio Massimo Pietro. A dare il triste annuncio è stato il giornalista Mariano Sabatini con un tweet di saluto all'amica. Nata a Milano nel 1924, Elda Lanza approda in televisione dopo gli studi alla Cattolica di Milano e alla Sorbona di Parigi. Sono i dirigenti dalla neonata televisione pubblica italiana a contattarla e provinarla per offrirle un lavoro nelle prime trasmissioni televisive degli anni '50. Esordisce così alla conduzione della rubrica di costume "Vetrine" per poi passare alla trasmissione "Avventure in libreria" dedicata alle letture per ragazzi. E’ proprio la passione per la scrittura a farle lasciare la televisione per dedicarsi alla stesura dei libri. Nel 2005 esce il suo primo romanzo "Una stagione incerta" ma nel corso della sua lunga vita ne scriverà moltissimi. Alcuni sono diventati best seller come il manuale di galateo "Signori si diventa:le nuove regole dello stile quotidiano", "Il venditore di cappelli" e "Niente lacrime per la signorina Olga". L’ultimo suo libro, "Rosso sangue", è stato pubblicato nel 2019. Elda Lanza, che è stata anche docente di Storia del Costume, non ha però mai abbandonato del tutto la televisione. Fu ospite fissa in "Apprescindere" su Rai Tre; nel 2012 fu tutor di stile e galateo su La7 nel programma della Parodi "Menù di Benedetta" e tra il 2017 e il 2018 fu tutor di galateo e storia del costume a "Detto Fatto" insieme a Caterina Balivo, al tempo su Rai Due. Nel 2013 Elda Lanza ottiene la targa di merito "Città di Giulianova" nell'ambito del festival della Letteratura, mentre nel 2013 viene nominata Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica italiana dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nella sua ultima intervista rilasciata al IlGiornale.it raccontò dell'esordio in televisione e della sua passione per i libri. A renderel omaggio per primo, sui social network, è stato lo scrittore Mariano Sabatini, che era vicino alla presentatrice negli ultimi istanti di vita: "Addio, carissima Elda Lanza, prima presentatrice della Tv! Voglio ricordarti sempre così, con il sorriso... grazie di tutto. È stata una grande lezione anche starti vicino in queste ultime ore. Il cancro è solo una malattia e tu eri molto molto altro. Hai vinto tu".

·         E' morto Antonello Falqui, il papà del varietà televisivo.

E' morto Antonello Falqui, il papà del varietà televisivo. Aveva 94 anni, la notizia del decesso data con un singolare post sui social. Ha firmato alcuni degli spettacoli di più grande successo della tv italiana. La Repubblica. “Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio, potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla chiesa di Sant’Eugenio a viale Belle Arti a Roma...Mi raccomando, niente fiori… Al loro posto, se volete, potete aiutare l'associazione QuintoMondo Animalisti Volontari Onlus...P.s.: perdonate Jimmy, Matteo e Luca se non vi hanno avvisato prima....”.  Antonello Falqui, 94 anni, regista e autore televisivo, saluta così il suo pubblico, dopo aver regalato alla storia il varietà perfetto, dal Musichiere a Canzonissima. Tanti l’hanno ricordato, da Fiorello a Raffaella Carrà, da Rita Pavone ai fan di Mina, fino a Pippo Baudo che ha raccontato come fosse stato Falqui a fargli il provino appena arrivato a Roma. D’altra parte Falqui ha portato in tv tanti personaggi poi diventati celebri e indispensabili al nostro immaginario. Mina, (l’incomparabile, l’aveva chiamata) ma anche le gemelle Kessler, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Franca Valeri, Nino Manfredi, Bice Valori.  Nato nel 1925, si iscrisse a giurisprudenza ma poi scelse di iscriversi al centro sperimentale per diventare regista. Nel 1950 fa L’ aiuto regista con Curzio Malaparte per il film Cristo proibito. Alla Rai arriva nel 1952, dove comincia con dei documentari. Il suo primo successo fu Il Musichiere, condotto da Mario Riva, in onda dal 1957 al 1960. Poi Canzonissima (1958, 1959, 1968, 1969), Studio Uno (1961, 1962-63, 1965 e 1966) e Milleluci nel 1974. Da regista tv ha lavorato anche con Alberto Lupo e Gabriella Ferri, Gigi Proietti e Milva. Il varietà, tutto il suo varietà, riassunto nella sua definizione: “è nato come svago, come evasione: divertirsi e passare il tempo piacevolmente vedendo qualcosa di elegante”. Qualcosa di elegante.

È morto Antonello Falqui: "Sono partito per un lungo, lungo, lungo viaggio..." L'annuncio della sua morte rispecchia il modo in cui ha vissuto, con ironia e leggerezza. Antonello Falqui se n'è andato a pochi giorni dal suo 94esimo compleanno, dopo aver scritto la storia del nostro Paese. Francesca Galici, Sabato 16/11/2019, su Il giornale. “Sono partito per un lungo, lungo, lungo viaggio...” è in questo modo che ieri, venerdì 15 novembre, attorno alle 21, i profili Facebook e Twitter di Antonello Falqui hanno annunciato la morte dello storico regista, il padre dei varietà italiani. Aveva compiuto 94 anni lo scorso 6 novembre. Ironia e leggerezza sono sempre stati la cifra stilistica di Antonello Falqui ed è stata probabilmente sua l'idea di dare l'annuncio in questo modo, quando se ne sarebbe dovuto andare. Figlio di Enrico, critico e scrittore, il regista ha provato per qualche anno a seguire la carriera giurisprudenziale ma prima di conseguire la laurea è stato folgorato dal mondo del cinema. Ha studiato regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ed è stato assistente del grande Curzio Malaparte, prima di approdare alla televisione. È arrivato in Rai nel 1952, quando ancora la televisione era un progetto sperimentale, dato che le prime trasmissioni non andranno in onda prima del 1954. È entrato nelle case degli italiani con il Musichiere, la storica trasmissione che ha appassionato gli italiani alla televisione. Erano gli anni in cui ci si riuniva nei locali pubblici, nei bar e nelle case dei pochi fortunati che si potevano permettere “l'apparecchio.” Hanno la sua firma tantissimi altri programmi che hanno fatto la storia della nostra televisione ma, anche, del nostro Paese. Canzonissima, Studio Uno e Milleluci, ma anche Teatro 10 con Lelio Luttazzi e Sabato Sera con Mina. Ha lavorato con i più grandi, con personaggi del calibro di Walter Chiari, Rita Pavone, le sorelle Kessler, Franca Valeri, Pippo Baudo, Gigi Proietti e Paolo Panelli, solo per citarne alcuni. Lo spettacolo italiano deve tanto al maestro Falqui e sono stati tantissimi i messaggi di cordoglio che si sono susseguiti non appena la notizia della sua morte ha iniziato a diffondersi sui social. Fiorello e Alessandro Gassman sono stati tra i primi personaggi noti a salutare Antonello Falqui, ma sono state anche tante le persone comuni che hanno voluto lasciare un ricordo, un saluto a chi ha aiutato l'Italia ad affacciarsi nel futuro. “Mi raccomando, niente fiori... Al loro posto, se volete, potete aiutare l'associazione QuintoMondo Animalisti Volontari Onlus. P.S. Perdonate Jimmy, Matteo e Luca se non vi hanno avvisato prima”, si legge nel messaggio, dopo aver dato appuntamento a lunedì 18 novembre presso la chiesa di S. Eugenio in V.le Belle Arti a Roma.

Televisione, è morto Antonello Falqui a 94 anni. Ha lavorato per la Rai dirigendo programmi come Canzonissima e Milleluci. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2019. «Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio": così hanno voluto annunciare i suoi familiari sul suo profilo social la scomparsa del regista televisivo Antonello Falqui, 94 anni compiuti pochi giorni fa. La notizia è stata confermata dalla Rai per la quale Falqui ha lavorato dal 1952, firmando programmi che hanno segnato un’epoca: da «Il musichiere» a «Canzonissima», da «Studio Uno» a «Milleluci». I funerali si svolgeranno lunedì a Roma nella chiesa di Sant'Eugenio a Viale delle Belle Arti. Se ne è andato con leggerezza e ironia, come aveva vissuto e aveva insegnato a vivere a intere generazioni di italiani. La notizia della scomparsa di Antonello Falqui, il padre del varietà all’italiana e artefice del successo di tanti grandi personaggi dello spettacolo, ha fatto subito il giro del web nel modo più singolare: «Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio - è il testo di un post apparso sui profili Facebook e Twitter - potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla chiesa di Sant'Eugenio a viale Belle Arti a Roma». Immediatamente dopo centinaia di messaggi di cordoglio hanno invaso la rete, da Fiorello ad Alessandro Gassmann, e tanta gente comune. Ovunque, sui siti e sulle reti televisive, hanno cominciato a rimbalzare gli spezzoni dei suoi varietà, Studio Uno e Canzonissima i più famosi, e i volti dei loro protagonisti: da Mina a Walter Chiari, da Paolo Panelli a Bice Valori, da Franca Valeri alle gemelle Kessler. Tutti programmi Rai, sigla che per molti decenni in Italia è stato sinonimo di televisione, per la quale Antonello Falqui aveva cominciato a lavorare dal 1952, pioniere di un mondo allora ancora tutto da inventare, firmando programmi che hanno segnato un’epoca. Nato a Roma il 6 novembre 1925, figlio del critico e scrittore Enrico Falqui, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, che lascia prima della laurea affascinato dal mondo del cinema. Dal 1947 al 1949 frequenta il corso di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1950 è aiuto regista di Curzio Malaparte durante la lavorazione del film '

“Cristo proibito”, prima di molte esperienze in quel ruolo. Nel 1952 approda alla Rai, lavorando inizialmente nella sede di Milano. Vive in prima persona e contribuisce a plasmare le prime trasmissioni televisive in fase sperimentale: le prime trasmissioni saranno inaugurate il 3 gennaio 1954. Per la tv dirige prima dei documentari, ma la celebrità arriva con i varietà amatissimi dal grande pubblico, che all’epoca si riuniva nelle poche abitazioni o locali pubblici dotati di un televisore per guardare i programmi. Prima il Musichiere condotto da Mario Riva, in onda dal 1957 al 1960. Poi quattro edizioni di Canzonissima (1958, 1959, 1968, 1969), altrettante di Studio Uno (1961, 1962-63, 1965 e 1966), forse il più famoso e celebrato, e Milleluci (1974). RaiPlay, poco dopo la notizia del lutto, ha pubblicato sul sito una intervista esclusiva al grande maestro, dove - si legge - «l'autore e regista di indimenticati programmi della nostra TV ricorda il grande varietà Studio uno, in onda dal 1961 al 1966». «In ogni edizione - afferma la Rai - ci ha regalato momenti di raro valore. Sketch, coreografie, musica, duetti storici, tutto torna alla mente in una nostalgica bellezza. Mina, Walter Chiari, Paolo Panelli, Bice Valori, Franca Valeri, le gemelle Kessler, tantissimi personaggi riaffiorano dai ricordi e dalle immagini restituendo per un attimo una realtà indimenticata ed indimenticabile».

Antonello Falqui aveva compiuto lo scorso 6 novembre 94 anni, e il giorno dopo si rammaricava sui social per non aver potuto festeggiare il compleanno in compagnia dei molti suoi amici, dando loro appuntamento per il 2020. Il post successivo è quello che annuncia la sua scomparsa, il suo «lungo viaggio». «Mi raccomando, niente fiori - si legge sul post pubblicato a suo nome sui social - al loro posto, se volete, potete aiutare l'associazione QuintoMondo Animalisti Volontari Onlus. P.S. Perdonate Jimmy, Matteo e Luca se non vi hanno avvisato prima».

Marco Giusti per Dagospia il 16 novembre 2019. Le Kessler, Mina, La Biblioteca di Studio Uno, Il Musichiere. Certo. Ma il massimo era quel “Regia di Antonello Falqui”. Ora che se ne è andato per sempre, “per un lungo, lungo, lungo viaggio” come ha scritto su facebook, di Antonello Falqui ci torna in mente questo cartello che ci ha accompagnati da piccoli spettatori davvero per tanti anni in quel bianco e nero nebuloso prima e splendente dopo. Un cartello vecchio quanto la televisione. Perché Antonello Falqui, scomparso nella sua Roma a 94 anni, la televisione l’ha davvero fatta tutta. Dal primo giorno. Firmando la regia di “Arrivi e partenze” con Mike Bongiorno, il primo programma di intrattenimento della Rai nel 1954, mentre Vito Molinari firmava la prima ripresa di quel giorno con l’inaugurazione delle programmazioni della Rai. Sua la regia di programmi meravigliosi dei primi anni della Rai, “Il Musichiere” presentato da Mario Riva (1958-59-60), “Canzonissima” (1958-59-68-69), “Studio Uno” (1962) che fu il primo programma all’americana della Rai, il geniale “La Biblioteca di Studio Uno” (1964), operette e zibaldoni ispirati ai grandi classici della letteratura come I tre moschettieri o l’Odissea interpretati dal Quartetto cetra e dai grandi attori del tempo, lo “Studio Uno” con Lelio Luttazzi (1966), “Milleluci” (1974), “Dove sta Zazà” con Gabriella Ferri e Pippo Franco, “Bambole non c’è una lira!” (1977), dedicato ai grandi giorni dell’avanspettacolo con un giovanissimo Christian De Sica esordiente. Meticoloso, inventivo, capace di provare e riprovare coreografie e movimenti di macchina, si disse di una furiosa lite fra lui e le Kessler scatenata dalla sua pignoleria, e di uno scontro epocale con Patty Pravo a “Canzonissima”, Antonello Falqui si inventa, assieme a Vito Molinari, gran parte degli show della Rai, cioè della tv italiana, e cura con una precisione da grande regista delle stelle di prima grandezza come Mina o le stesse Kessler da mettere nei sabato sera degli italiani. Non è mai solo un metteur en scene. Nato a Roma nel 1925, figlio di un critico, studio regia al Centro Sperimentale di Cinematografia nel primissimo Dopoguerra pensando magari al Neorealismo di Roberto Rossellini. Nel cinema mette piede solo come aiuto regista di Curzio Malaparte in Cristo proibito con Raf Vallone. Già nel 1952, a 27 anni, ha lasciato il cinema e è a Milano a lavorare da regista per la prima tv sperimentale. Il suo vero esordio è appunto per “Arrivi e partenze” nel 1954, ma è con “Il Musichiere”, scritto da Garinei&Giovannini, presto seguito da “Canzonissima”, che capisce veramente che il varietà è il suo mestiere. Grande regista da studio negli anni ’60, si permette divagazioni con il teatro filmato, “Felicita Colombo” con Franca Valeri e Gino Bramieri, “Addio Giovinezza” con Nino Castelnuovo e Gigliola Cinquetti, o con il quasi film “Giandomenico Fracchia” con Paolo Villaggio. Mentre impazza il ’68 e tutto quello che ne consegue, Falqui si chiude addirittura nell’operetta, “La vedova allegra” con Johnny Dorelli e Catherine Spaak, che il sabato sera prende il posto dei suoi grandi spettacoli o negli show da vecchioni, come “Speciali per noi”, parodia di “Speciale per voi”, con il trio Aldo Fabrizi-Ave Ninchi-Paolo Panelli. Ma sono suoi anche i meravigliosi “Stasera con…”, incontri musicali con Patty Pravo, Gianni Morandi, Gina Lollobrigida, Adriano Celentano. Grande appassionato di varietà e di avanspettacolo, se lo reinventa negli anni ’70 con “Dove sta Zazà” e “Mazzabubù” con Gabriella Ferri e i comici del Bagaglino, dando il via a una rivisitazione del periodo che durerà fino a oggi e che lui stesso proseguirà con il geniale “Bambole non c’è una lira” e “Giochiamo al varietà”. Negli anni ’80 firma la regia di piccoli programmi sperimentali con nuovi comici come “Cinema, che follia!” con Daniele Formica, Sergio Rubini, Margherita Buy, ma anche dello spettacolone del Sistina “I 7 re di Roma” con Gigi Proietti scritto da Luigi Magni. I suoi ultimi spettacoli sono i concertoni di Pavarotti nei primissimi anni ’90. Ha insegnato all’Accademia di Macerata e è sempre stato molto disponibile con tutti nel ricordare gli anni della sua grande televisione. Ma la storia presunta con Mina sarà stata vera?

Malcom Pagani per il "Fatto quotidiano" del 13 aprile 2014. I coltelli d'avorio sono chiusi nella teca: "Una mania di mio padre che li collezionava" perché le armi sono una tentazione: "Non bisognerebbe mai custodirle in casa" e rimandano sempre un sinistro riflesso: "Il regista Enzo Trapani, un caro amico, teneva in bella vista sulla parete le sue pistole. Un giorno più triste di altri ne prese una e si sparò". A 88 anni, le memorie di chi inventò i varietà televisivi più moderni del ‘900 italiano sfumano in controluce. Dietro tende, libri e velluti, oltre un portone solido come la stretta di mano che concede indifferente al bastone, Antonello Falqui ha smesso di fare i conti con l'età: "Invecchiare disturba, ma avendo iniziato a riflettere sul senso della fine già un quarto di secolo fa, non mi farò sorprendere. Quando lavoravo non lasciavo molto spazio all'esitazione. Allora ero giovane, deciso e con le idee molto chiare. Oggi molto meno. Non mi ricordo i cognomi, i dubbi sono aumentati e i confini tra il bene e il male restano confusissimi". Seduto su una poltrona, con le Muratti sul tavolo: "Ne fumo 15 pacchetti alla settimana" e una consapevole, impressionante somiglianza con Aldo Grasso: "Me l'hanno detto, non hanno torto", Falqui ritrova le costellazioni del suo passato solo a tarda notte. Quando: "La robaccia che propongono in tv evapora" e alle ore più improbabili, nel silenzio, sugli schermi clandestini dei canali tematici passano buchi neri e asteroidi, meteore, stelle e frammenti di Canzonissima, Studio Uno e Milleluci: "Le trasmettono di nascosto, alle 3 di mattina e li capisco. Era un'altra tv. Un'altra civiltà. Un'altra cultura. Non vogliono avere raffronti". Pausa: "Altrimenti la gente penserebbe ‘ma si sono rincoglioniti?'". Pianeti lontani, figli di una Rai in cui lavoravano Flaiano e La Capria: "Come i suoi coetanei, Dudù venne via da Napoli perché lì non si può fare niente. La città è magnifica, ma in sincerità, che si combina a Napoli? A sud amano esagerare. Mettono al mondo 10 figli, poi la vettovaglia scarseggia e alla fine si trovano male. La filosofia è generosa, non troppo meditata". A Roma: "Peggiorata, imbarbarita, ancora bellissima", in una famiglia "con qualche ristrettezza economica", da unico erede di sua madre "Alberta, casalinga e di Enrico, critico letterario" Falqui ha sempre abitato. "Se si esclude un lampo milanese all'inizio dei '50, non l'ho mai lasciata. Con i miei abitavo in Via Giulia, di fronte a Ponte Sisto. All'inizio di quei portici, vivevano Carlo e Mario Verdone, mio insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia. Era un uomo sapiente e buonissimo, promuoveva tutti".

Promosse anche lei.

«Iniziai nel cinema. Aiuto regista di Curzio Malaparte e poi di Anton Giulio Majano nel primo orrendo film da attore di Mastroianni. Marcello era meraviglioso. Simpatico. Nelle pause ci raccontavamo l'infanzia».

Come arrivò in televisione?

«Sandro Pugliese, il direttore dei programmi della Rai di allora, era molto amico di mio padre. Si lamentava: "Ho solo verbosa gente di teatro qui. Teorici e parolai. Non c'è nessuno che curi l'immagine". Non me lo feci ripetere e corsi a Milano per sperimentare. Firmai da regista la prima trasmissione in assoluto della tv di Stato. Si intitolava "Arrivi e partenze". L'esordio di Bongiorno. Mike intervistava personaggi celebri in partenza».

Era il gennaio del 1954.

«Bongiorno nel mestiere era bravo, ma un po' arido con le donne. Non le trattava bene. Stava con un'attrice, Flora Lillo. Andavamo a sciare al Sestriere. Lui partiva per conto suo e la abbandonava nella baita, tristissima».

Che televisione era quella dell'epoca?

«Non volevo alfabetizzare il Paese come il maestro Manzi, ma solo intrattenerlo con grazia ed eleganza. Così provai a trasformare la tv e spostai in quel contenitore il teatro di rivista, già declinante all'inizio degli anni '50. L'avanspettacolo lo conoscevo bene. Facevo sega a scuola per andare a vedere Rascel al Bernini. Era fantastico. Evadeva dalla classica corrente del comico. Accostava arditamente, osava, rischiava. Poi certo, come tutti i bassi e i brutti, era cattivo».

I bassi e i brutti sono cattivi?

«Non è determinismo, è la verità. Prenda Brunetta, non è forse cattivissimo? Rascel, cresciuto nei teatrini felliniani, sui palchi della Barafonda in cui il pubblico era indisciplinato e se non gradiva il numero ti tirava addosso un gatto morto, era proprio perfido. Quando sbagliava, dava la colpa agli altri. Una volta con Garinei e Giovannini dimenticò la parte e invece di scusarsi se la prese con l'uomo che azionava le luci: "O lui o me" gridava».

A lei capitava di litigare?

«Raramente. Con Nureyev però, faccia a faccia, venimmo quasi alle mani. Era leggiadro, ma aveva un culo molto grosso e detestava essere ripreso da dietro. Gli spiegai che seguire un ballerino che volteggia senza immortalare le terga era impossibile, ma quando si rivide, perse la testa, si incazzò e gettò un cappuccino caldo sul monitor. I cameraman commentarono ad alta voce: "Anvedi questo". Poi si avvicinarono truci. Lo volevano ammazzare. Io anche».

Lei aveva fama di decisionista.

«Ero duretto, ma sapevo farmi voler bene. Ai miei tempi l'autore non entrava in studio. Che mettesse becco sulla scaletta poi, era impensabile. Mi occupavo di tutto. Scene, costumi, testi. Quando guardo la tv di oggi mi incazzo. Gli autori sono patetici. I registi non sanno neanche da dove si cominci. Fanno solo stacchi, per lo più sbagliati».

Lei con Mina non si sbagliò.

«La conobbi per la prima volta nel Musichiere condotto da Riva. Un capitolo era dedicato agli urlatori. Lei e Celentano uscivano dalle ombre di un Juke-Box. Capii che c'era un talento insuperabile, una strada fantastica da percorrere insieme. Nessuno è stato o sarà mai più come lei».

Fu difficile incanalare il lampo?

«La rassicuravo. Mina odiava il pubblico e la routine. Quando andava alla Bussola doveva passare attraverso un corridoio. Ai lati, due file gonfie di assalitori che la toccavano e allungavano le mani. In realtà odiava anche Roma. Sosteneva che i romani fossero villani e un po' aveva anche ragione. I paparazzi prendevano i numeri di targa, ci seguivano, rompevano le palle. All'epoca della nostra storia d'amore ci costrinsero a emigrare».

Mina non amava l'aereo.

«In viaggio eravamo felici. Se ne fregava. Andammo in Jamaica. Da New York a Montego Bay. Poi, sbarcando da un volo minuscolo, atterrammo sulla punta estrema dell'isola. Al Frenchman's Hotel credevamo di essere soli. Ci fecero firmare il registro degli ospiti. Leggemmo il nome di 10 conoscenti. Eravamo affranti: "Non si può stare in pace neanche qui"».

Ha amato molto in vita sua?

«Ero un infedele, un convinto libertino, mia moglie ne ha passate di tutti i colori. Noi libertini ci riconoscevamo alla prima occhiata, eravamo quasi una setta, con i De Sica ci capivamo al volo. Il lavoro non mi aiutava a dimostrarmi retto. Si creavano situazioni imbarazzanti. Ai 2.000 metri del rifugio di Passo Pordoi, in una baita che è la metà della stanza in cui conversiamo adesso, io e Letizia Della Rovere, fedifraghi, pensavamo di essere al riparo. Entrammo e ci sorprese Pino Calvi, il maestro di musica: "Signori qual buon vento vi porta fino a qui?"».

Anche Mina è stata un tuono. Finita la tempesta già non c'era più.

«Ritirarsi a 35 anni, sulla soglia della maturità, al comparire della prima ruga per conservarsi bella fino all'ultimo istante, mi è sempre sembrato un peccato di vanità. Lo hanno fatto solo lei e Greta Garbo. Non ci sentiamo da 25 anni, siamo due timidi e forse non sapremmo neanche cosa dirci. Ma è meglio così. È bellissimo proteggere il ricordo delle persone amate. Riscoprirlo immutato. Mai avuto una discussione con lei. Uno screzio. Si fidava. Si faceva servire».

Si favoleggiò sulla sua rivalità con Raffaella Carrà.

«Menzogne. Erano amiche. Mina metteva a proprio agio chiunque. La Carrà comunque è la donna più determinata che abbia mai visto. Una combattente mostruosa. In Milleluci, Mina era una diva senza pari, ma Raffaella riusciva ad avere lo stesso gradimento. Provava fino all'alba, era animata dal fuoco sacro. Alla prova dei fatti, non sbagliava una virgola».

Prima di Milleluci, ci fu Studio Uno, eredità di una trasvolata americana.

«Mi nutrii del know-how americano, ma loro ricambiarono le attenzioni. Studio Uno era settimanale. A New York erano stupiti. Per fare una cosa del genere impiegavano un anno. Intuii che per creare straniamento bisognava rinunciare alle scenografie, immaginare uno studio vuoto in cui il fondale combaciasse con il movimento, esprimersi in un altro modo disegnando un'oasi di bianco che con gli attori vestiti di nero producesse un contrasto. Mettere luci e microfoni in scena. Con Garinei e Giovannini discutemmo. Venivano dalla rivista, dal Rugantino, da un'accozzaglia di scene, dai colori forti. Si guardavano intorno e non capivano: "Ma è vuoto"».

Fatica e costi esorbitanti?

«Balle. Le leggende fanno il loro corso, ma non hanno senso. Allo spettacolo lavoravamo 6 giorni alla settimana. La domenica era libera e le spese erano poco più alte della media. La differenza era nella qualità. Quando Mina canta la sigla della rubrica "È l'uomo per me" sull'aria della sua canzone, tra i pretendenti ci sono Mastroianni, Cervi e Gassman. Una cosa seria».

Con Gassman eravate in buoni rapporti?

«Dopo Randone, era il più grande attore italiano di sempre. Aveva avuto 5 mogli, denaro, plauso critico e successo, ma era afflitto da preoccupazioni minime: "Non sono più come una volta, sto perdendo la memoria e decade anche il fisico". La chiamava depressione, ma io non riuscivo a spiegarmela con razionalità. Una sera per convincerlo che si trattava di sciocchezze tenemmo aperto un ristorante fino alle 5: "Tutti possono essere depressi tranne te" arringavo. "Sei alto, bello, intelligente. Andiamo, Vittorio mio, tu dalla vita hai ricevuto tutti i doni"».

Le molte mogli erano anche il sintomo di un'inquietudine profonda?

«Vittorio, almeno in parte, somigliava a Bruno Cortona, il suo personaggio del Sorpasso. Era duro e istintivo, ma buono. Mai come Chiari. Un pezzo di pane morto senza una lira perché i soldi preferiva darli agli altri. Non aveva alcun senso del denaro, Walter. Era un prìncipe. Una persona che sapeva conquistare Ava Gardner e rialzarsi dopo una caduta. Quando venne coinvolto in un'infondata storia di cocaina con Lelio Luttazzi, ne uscì benissimo. A Lelio, per dire, quella vicenda rovinò completamente l'esistenza. Non lo aiutò nessuno. Una vergogna».

Censure dell'età democristiana?

«Neanche mezza. Ettore Bernabei, il più grande dirigente della tv pubblica di sempre, probabilmente l'unico, era un vero signore. Parco, sobrio, discreto. Mai una parola su calze a rete, gemelle Kessler, ospiti o sketch. E sì che Bernabei era un democristiano sfegatato».

Lei lavorò anche per Filiberto Guala, amministratore delegato della Rai del ‘54. L'uomo che si presentò con un limpido piano: "Chi sono io? Un moderno crociato chiamato a lottare per il sepolcro della pubblica coscienza e venuto a cacciare pederasti e comunisti".

«Uno che a differenza di Bernabei mi i rompeva i coglioni su tutto. Dal Can-can alle luci peccaminose. Si è fatto frate, si immagini la testa che doveva avere. Mi divertivo con altre persone. Con Marchesi, Villaggio, Dino Risi e Fellini, giocavamo sempre al varietà della vita. Ce la godevamo. Quando veniva a trovarmi Federico erano subito mangiate surreali. Lui era sublime. Bugiardo come la peste. Glielo dice anche la Magnani in Roma: "A Federì, va a dormì". Lui le chiede se può farle una domanda e lei rapida: "No, nun me fido"».

Fellini era amico di Andreotti. Lei si è mai interessato di politica?

«Molto più oggi di ieri. Sono sempre stato socialista, mai votato Pci. Renzi mi sembra volenteroso, ma non so se potrà mantenere quel che ha promesso. Ha molti ostacoli. Grillo era meglio come attore. La politica della distruzione non mi affascina. Lei scrive per il Fatto?»

Sì.

«Per caso è comunista? Glielo chiedo per curiosità. Il mio rinnovato interesse per la politica prende il via dagli anni '90, dall'avvento di Berlusconi. Il suo arrivo ha radicalizzato i piani. In politica e in tv. Quarant'anni fa, la tv viaggiava in prima classe . Ora è diventata triviale. Berlusconi, con quella Mediaset lì, ha involgarito tutto».

L'ha mai conosciuto?

«Per portarmi a Milano mi tenne a colloquio per 3 giorni in un palazzo a due passi dalla Rai. Entravo di nascosto e lo trovavo, preparatissimo, dall'altra parte del tavolo. Aveva studiato programmi, testi e persino inquadrature. Voleva gli spiegassi la tv».

Che impressione le fece?

«Era un fenomeno nell'eloquio e aveva certamente un estro non comune. A parlare non lo fregava nessuno e d'altronde, se non avesse avuto talento non sarebbe mai arrivato a fare le puttanate che ha fatto. Detto questo, non avevo nessuna voglia di finire sotto padroncino perché la Rai ha molti difetti, ma almeno il padroncino non ce l'ha. Ha i Cda emanati dalla politica che sono un male, ma un male minore. Così rifiutai un miliardo di lire all'anno per tre stagioni. Era l'83. Berlusconi, incredulo, mi invitò a riflettere: "Porti l'assegno in bianco in Rai e veda cosa le dicono"».

Lei lo portò?

«Sissignore. Andai da Emanuele Milano, il direttore di Rai1 e lui sbiancò. Si mise le mani nei capelli. Balbettò: "No, aspetta, ora vediamo, adesso risolviamo, ti prometto che cambiamo il contratto". In effetti lo migliorarono, senza però sfiorare neanche lontanamente le cifre di Berlusconi. Nella sua tv c'è un paradosso. Nasce a Milano, nella culla della moda, ed è provinciale. Nel '60 in tv andava Gazzelloni. Oggi vanno le Veline».

Guardi che Antonio Ricci si arrabbia.

«Mi dispiace, ma la sua tv è dozzinale e volgare. Non mi piace. Come, esclusa forse Non è la Rai, che almeno aveva l'idea delle ragazzine, non mi piace neanche la tv di Boncompagni. Non si può elevare il nulla a massimo sistema. Il nulla è solo il nulla. È vuoto».

Potrebbero ribattere che la sua è una visione filtrata dagli anni. Una visione che confligge con gli ascolti.

«E io risponderei che non c'è prova che alla gente piaccia veramente quella robaccia come giurano i santoni di una certa dialettica molto in voga. Dicono: "Il pubblico vuole questo", ma è una bugia. Solo un espediente per scusarsi e giustificarsi. Il pubblico vuole altro. Basta darglielo. Ma il pubblico va anche allevato, quasi educato. Se gli dai l'immondizia si avvilisce. Si abbrutisce».

Perché ha smesso di lavorare per la tv relativamente presto?

«Non c'erano più i miei dirigenti e non c'era più la mia Rai. Quella in cui per varcare il profilo del Cavallo si veniva sottoposti a un esame difficilissimo ed era richiesto il sapere. Oggi dominano incompetenza, cooptazioni politiche e raccomandati. Purtroppo si vede. Ed è un peccato. Sa cosa è stata la tv per gli italiani?»

Cosa è stata?

«Una manna. Un aiuto dal cielo. Li ha resi svelti, gli ha insegnato a leggere e a scrivere, gli ha aperto le teste. Ora gliele sta richiudendo».

Se le chiedessero aiuto per una nuova tv?

«Li lascerei nel loro brodo. Non esistono più le categorie, è saltato tutto e io non sono un presenzialista come Freccero. Metto l'idea per farmela massacrare? No, l'idea non la metto. Lei mi chiede come si può pensare a una nuova forma televisiva, ma forse dovrebbe chiedersi prima con quali figure potrebbe nascere. Rifare la tv di ieri nel 2014 sarebbe impossibile. L'unico con cui, se gravemente minacciato, potrei pensare di collaborare è Fiorello».

Lo apprezza?

«È il solo che si avvicini al nostro modello. A Walter Chiari. In più sa anche cantare. Purtroppo gli dipingono attorno durate eccessive. Il varietà dovrebbe durare un'ora, al massimo 75 minuti. Oltre si sbrodola. Si annoia e ci si annoia. In un'ora ci sono 40 idee. Ma in due ore e mezza, può star tranquillo, non ce ne saranno mai cento».

E di Fabio Fazio? Per qualcuno è il nuovo Baudo. Lei all'esame bocciò il presentatore.

«Fazio non mi dispiace, quel che fa lo fa discretamente. Baudo racconta sempre l'episodio della sua bocciatura con la pretesa di ironizzare. Dice: "La lungimiranza di Falqui, figuratevi, mi respinse". Rivendico la scelta. Lo bocciai perché non bisogna pensare al Baudo di oggi. Parlava siciliano stretto, era cafone e volgare, nulla a che vedere con quello di oggi».

I rapporti tra voi?

«Con Baudo non ho mai lavorato. Lui non si capacitava: "Hai lavorato con tutti e non con me" e io, calmissimo, senza emozione: "Perché io e te non abbiamo nulla da dirci"».

Se pensa a domani?

«Ci penso con la serenità di chi ha condotto un'esistenza felice. Cammino poco e presto compirò 90 anni. Ma ho fatto il lavoro che sognavo e ho tenuto più di 20 milioni di italiani di fronte a una tv che mi permette di guardarmi ancora in faccia. Poi vado ancora al cinema. Ho visto il film di Sorrentino. Bellissime immagini per carità, ma non le è sembrato un po' astruso?»

·         È morta Maria Perego, la «mamma» di Topo Gigio.

È morta Maria Perego, la «mamma» di Topo Gigio. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. Aveva 95 anni e aveva inventato il popolare pupazzo nel 1959 e stava per rilanciare il personaggio su Rai Yo Yo

Addio a Maria Perego, creatrice di Topo Gigio. Nata a Venezia l’8 dicembre del 1923 avrebbe compiuto il prossimo mese 96 anni. A darne notizia il procuratore Alessandro Rossi (amministratore della Topo Gigio srl): «È avvenuto tutto all’improvviso -racconta- fino a ieri sera era al lavoro su mille progetti, mi hanno chiamato dalla sua abitazione milanese (ma viveva anche in Francia) nel primo pomeriggio la signora non si è sentita bene, è stato chiamato il 118, ma è volata via prima». Maria Perego è stata anche protagonista solo il 12 ottobre scorso della prima puntata de «Le Ragazze» il programma di Rai3 condotto da Gloria Guida dove raccontava la sua avventura insieme al marito è stata sposata con Federico Caldura, ma in seguito la coppia molto riservata sembra si sia separata anche mantenendo buoni rapporti. A manovrarlo, Topo Gigio facendo divertire generazioni di bambini (e non solo) c’è sempre stata lei, appassionata ai pupazzi fin da piccolina. Maria aveva mosso i primi passi in teatro tra la sua città e Roma. Ma l’exploit della sua carriera, avviene proprio col simpaticissimo pupazzo amato dai bambini. Nato nel 1959, Topo Gigio ha presto conquistato tutti con la sua semplicità e i suoi discorsi. I suoi show, con la voce di Peppino Mazzullo, furono subito trasmessi in prima serata e conquistarono anche un pubblico adulto oltre che quello giovanile. ha mosso i primi passi in teatro tra la sua città e Roma. Alla fine degli anni Cinquanta è stato ospite in programmi con degli indici di ascolto altissimi come Canzonissima, accanto a Nino Manfredi e Delia Scala. Nel 1974 lo troviamo come co-conduttore di Canzonissima, affiancato da Raffaella Carrà e Cochi e Renato. Il topolino duettava con personaggi famosi come Louis Armstrong e Frank Sinatra. «È stata - aggiunge Alessandro Rossi - una infaticabile lavoratrice e fino alla fine ha lavorato su nuovi progetti, l’ultimo dei quali è la nuovissima serie a cartoni animati su Topo Gigio che verrà prossimamente trasmessa da Rai Yoyo. Ci mancherà moltissimo.»

È morta Maria Perego, creò Topo Gigio. Aveva 95 anni. Una vita dedicata al suo personaggio, stava lavorando al suo ritorno in tv. La Repubblica il 07 novembre 2019. Addio a Maria Perego, l'autrice televisiva che nel 1959 ha creato il personaggio di Topo Gigio. Perego, che aveva 95 anni, stava lavorando al ritorno di Topo Gigio su Rai Yoyo, atteso per il prossimo anno. La sua scomparsa è stata annunciata "con grande dolore" da Alessandro Rossi, amministratore della Topo Gigio srl. "La Signora - afferma - è stata una eccezionale ambasciatrice della creatività italiana; Topo Gigio sembrava prendere vita dalle sue mani e con lei ha viaggiato nei paesi di tutto il mondo. È stata una infaticabile lavoratrice e fino alla fine ha lavorato su nuovi progetti, l'ultimo dei quali è la nuovissima serie a cartoni animati su Topo Gigio che verrà prossimamente trasmessa da Rai Yoyo. Ci mancherà moltissimo". Nata a Venezia nel 1923, nipote di un marionettista dopo l'Accademia d'Arte drammatica ha inventato diversi personaggi tra cui Picchio Cannocchiale, ma il vero successo è arrivato all'inizio degli anni Sessanta con la creazione, insieme al marito Federico Caldura, di Gigio ispirato a Topolino, un rapporto importante che ha raccontato nel libro Io e Topo Gigio. Entrata in Rai nel 1954, quasi subito nella Tv dei ragazzi, dopo una serie di esperimenti di personaggi in cartapesta ha capito che era meglio utilizzare dei pupazzi con meccanismi interni animati da "burattinai" vestiti completamente di nero che scomparivano in tv. "Molti dicono che il Topo è stato creato nel '59 ma siccome il meccanismo non era perfetto, io dico che è nato nel '61" raccontava. Nel 1961 fu il primo pupazzo animato ad apparire nel Carosello, come testimonial dei biscotti Pavesini. Lo stesso anno è protagonista del film Le avventure di Topo Gigio diretto da Federico Caldura e Luca De Rico con sceneggiatura di Guido Stagnaro e di Mario Faustinelli e il 1961 è anche l'anno del debutto sul Corriere dei Piccoli. Maria Perego insieme al suo Topo Gigio nella sua lunga carriera ha fatto incontri straordinari: Ed Sullivan, Louis Armstrong, Ichikawa, Hugo Pratt, Michael Jackson, Lucio Dalla, John Wayne, tutti compagni di viaggio e sinceri ammiratori di un personaggio semplice come Topo Gigio profondo e molto coinvolgente, grazie a lui Maria Perego ha girato il mondo e fatto show nelle tv del globo intero dagli Stati Uniti al Giappone. Nel 1974 Topo Gigio aveva condotto Canzonissima insieme a Cochi e Renato e Raffaella Carrà. La sua ultima apparizione poche settimane fa a Le ragazze, trasmissione di Raitre, dove della sua creatura diceva: "Topo Gigio è un personaggio sprovveduto, però con il suo ottimismo cerca di giustificarsi, di inventare, di introdursi e sfociare nella fantasia e assurdo. È sempre in bilico tra la fantasia e la realtà". La Rai porterà avanti il suo lavoro e le renderà omaggio nel 2020 con una serie dedicata a Topo Gigio, nell'anniversario della sua prima apparizione televisiva.

Marco Giusti per Dagospia l'8 novembre 2019. Topo Gigio piange. Se ne è andata per sempre Maria Perego, che gli dette vita nei primissimi anni ’60 assieme al marito Federico Caldura e con la voce di Peppino Mazzullo. Una creazione non da poco. Visto che Topo Gigio è forse il pupazzo italiano più famoso al mondo. Non a caso ebbe un contratto di sette anni all’”Ed Sullivan Show” che gli fruttò 92 esibizioni negli anni ’60, fece programmi televisivi in ogni parte del mondo, dal Giappone alla Spagna, dalla Svizzera al Portogallo al Sudamerica. Lo adoravano Louis Armstrong e Michael Jackson, Lee Marvin e Ginger Rogers. Perfino Walt Disney si complimentò con Maria Perego inviandole un messaggio che le arrivò dalle mani di Jimmy Durante. Se leggete l’illuminante autobiografia della Perego, “Io e Topo Gigio”, dove troneggiano lei e il Topo in copertina, capirete che aveva una personalità fuori dalla norma, una cultura non indifferente, e una capacità manageriale che pochi uomini dello spettacolo hanno avuto. Metteva un certo timore anche da anziana, quando la incontrai nella sua Venezia un paio di anni fa. Il Topo per lei era il frutto di anni di studi e sperimenti, studi sul Teatro di Figura, dove lei era nata, appassionata dei grandi marionettisti russi come Obraztov, e sperimenti sui nuovi materiali. Gigio è così soffice grazie al “moltoprene”, una schiuma di plastica a base di poliestere, con cui era costruito. Lei stessa assieme a Caldura furono i primi a muoverlo con le mani dietro una tenda nera per la sua prima apparizione in un programma della Rai, “Alta fedeltà”, dove si esibiva come guest star accanto a Domenico Modugno che cantava “La sveglietta”, celebre lato b del suo “Uomo in frac”. Da bambini lo abbiamo sentito centinaia di volte. Non si chiamava ancora Gigio e non aveva ancora la voce di Peppino Mazzullo, che a quel tempo doppiava nello Studio 4 della Rai a Milano un’altra creatura della Perego, Messer Coniglio. L’anno dopo Messer Coniglio fece una brutta fine e Topo Gigio trionfò per sempre coi suoi “ma cosa mi dici… mi dici mai”. Il successo fu immediato, prima in Italia, poi in Germania, alla Bavaria Film, in Austria, Svizzera, in Spagna, dove durò 25 anni, in Giappone furono addirittura 35 gli anni con 118 episodi in “The Ohayo Nippon”, e Gigio fu il presentatore della prima trasmissione della tv a colori, in Brasile cone Rede Globo, in Messico, Venezuela e Perù. Gigio fece una marea di pubblicità, tra Caroselli, iniziò con i Pavesini, e sponsorizzazioni in ogni parte del mondo. Fece due film, Le avventure di Topo Gigio diretto da Federico Caldura e prodotto dalla Jolly Film di Papi e Colombo, gli stessi di Per un pugno di dollari, e Topo Gigio e la guerra del missile diretto addirittura da Kon Ichikawa in coproduzione italo-giapponese. Non furono dei successi, ma nel primo, oggi incredibilmente scomparso a parte un piccolo trailer, fa la sua comparsa il Bruco Giovannino, doppiato da Ignazio Colnaghi, cioè il proto-Calimero, e il secondo, diretto appunto dal regista de L’arpa birmana e Fuochi nella pianura, finì al Festival di Venezia nel 1967. Maria Perego lo vide un po’ come il figlio che non aveva avuto con Caldura, suo marito e socio, personaggio non così facile. Come non doveva essere facile lei stessa. Ma è grazie alla sua determinazione che Topo Gigio andrà avanti negli anni non perdendo mai le sue caratteristiche. “il topo più carino del mondo dai tempi di Mickey Mouse” scrivono i giornali americani. Lo show di Natale 1963 dell’”Ed Sullivan Show” si doveva svolgere dai Kennedy alla Casa Bianca con Topo Gigio e altre celebri star, quando ovviamente saltò per la morte del presidente a Dallas. Ma la notizia rivela lo status del Topo all’epoca. Se le voci di Gigio cambiavano da paese a paese la grazia delle mani di Maria Perego era qualcosa di non facilmente rimpiazzabile. Al punto che Marco Ferreri le chiese di fare dei numeri di puro movimento di mani nel suo Dillinger è morto. In un mondo di maschi come quello dello spettacolo italiano Maria Perego seppe bene come farsi valere con dirigenti di televisioni e potenti manager. Ma la cosa che mi sorprese di più quando la intervistai fu la caducità di Topo Gigio come pupazza quasi pari alla sua eternità di star. Il materiale con cui era fatto il pupazzo non durava che pochi giorni. Quindi ogni volta c’era un Topo Gigio che moriva e un altro che nasceva. “Ma cosa mi dici… mi dici mai!.

·         È morta Maria Pia Fanfani.

Clarida Salvatori per corriere.it il 7 novembre 2019. Maria Pia Tavazzani, meglio conosciuta come Maria Pia Fanfani, vedova di Amintore Fanfani, storico leader della Democrazia Cristiana, è deceduta a Roma all’età di 97 anni. Nata a Pavia nel novembre 1922, partigiana, si dedica alla solidarietà e all'impegno umanitario. Rimasta vedova del primo marito, Giuseppe Vecchi (il matrimonio durò dal 1942 al 1973), nel 1975 sposa Amintore Fanfani, leader della Democrazia cristiana.

Da ilgazzettino.it il 7 novembre 2019. È stata partigiana, scrittrice e fotografa, nominata Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Era nata a Pavia da Carlo e Ida Carmeloni: i genitori la educarono all'impegno sociale fin da bambina. Già sposata all'ingegnere Giuseppe Vecchi, fu staffetta partigiana aiutando il fratello Attilio, comandante di una formazione impegnata in numerosi scontri con le forze nazifasciste. Come riporta il sito dell'Anpi, la giovane staffetta, «mentre aiutava un gruppo di ebrei a rifugiarsi in Svizzera, venne intercettata da una pattuglia tedesca riuscendo a sfuggier alla cattura». Il suo impegno umanitario la portò nel 1983 a essere nominata presidente della Croce rossa italiana e quindi vicepresidente della Lega Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Restata vedova nel 1973, sposò due anni dopo Amintore Fanfani, a sua volta vedovo di Biancarosa Provasoli, tra i fondatori della Democrazia cristiana do cui è stato leader divenendo anche in più occasioni presidente del consiglio. Agli inizi degli anni 90 partecipò a numerose missioni nell'ex Jugoslavia dilaniata della guerra. Non le vennero risparmiate accuse di protagonismo che non le impedirono comunque di continuare a animare il mondo del volontariato e lo scenario politico italiano fino a quando la salute glielo consentì.

È morta Maria Pia Fanfani. La seconda moglie dello storico leader della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani si è spenta a Roma. Giovanna Stella, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. È morta a Roma Maria Pia Tavazzani, seconda moglie dello storico leader della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani. Nata a Pavia il 29 novembre del 1922, è stata una partigiana, scrittrice e fotografa, dedita prevalentemente a opere umanitarie e di solidarietà nella Croce Rossa Italiana. Nel 1942 sposa l'ingegnere Giuseppe Vecchi, e durante la Seconda Guerra Mondiale partecipa alla lotta partigiana contro l'occupazione nazifascista, come staffetta accanto al fratello Attilio, capo partigiano. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1973, sposa nel 1975 Amintore Fanfani, figura storica della Democrazia Cristiana e più volte presidente del Consiglio, che nel 1968 era rimasto vedovo di Biancarosa Provasoli. Con il secondo matrimonio, anche grazie alla ricca rete di relazioni col mondo della politica internazionale l'attività e l'impegno umanitario di Maria Pia Tavazzani, ormai nota prevalentemente con il cognome del marito, prendono nuovo impulso. Nel 1983 diventa presidente del Comitato Nazionale Femminile della Croce Rossa Italiana, carica che ricoprirà fino al 1994 e che le consente di moltiplicare i suoi progetti umanitari. Nel 1985 viene nominata a Ginevra vicepresidente della Lega Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Diversi i messaggi di cordoglio per Maria Pia Tavazzani. "Ricordo con grande commozione Maria Pia Fanfani, testimone indefesso a difesa della pace e della solidarietà. Il suo impegno in azioni umanitarie è stato noto a tutte le autorità della Repubblica in questi anni. La dimensione internazionale del suo impegno ha fatto onore all'Italia", dice Pier Ferdinando Casini.

E' morta a 97 anni Maria Pia Fanfani. Seconda moglie dello storico leader della Democrazia cristiana, aveva partecipato alla Resistenza.  E' stata attivissima nel mondo della cultura e nel soccorso alle popolazioni colpite da calamità. La Repubblica il 07 novembre 2019. E' morta a Roma Maria Pia Fanfani, seconda moglie di Amintore, leader storico della Democrazia cristiana. Maria Pia Tavazzani era nata a Pavia il 29 novembre del 1922. penultima di sette figli. Frequenta l'Accademia di Brera a  Milano e nel 1942 sposa 'ingegnere Giuseppe Vecchi. Partecipa alla Resistenza come staffetta partigiana e la sua biografia racconta che, intercettata da una pattuglia tedesca, riuscì a sfuggire alla cattura. Nel 1975, in seconde nozze sposa Amintore Fanfani, anche lui vedovo. Nel 1983 diventa presidentessa del Comitato nazionale femminile della Croce rossa. Il suo sito registra decine e decine di interventi umanitari che ha organizzato e promosso in Italia e all'estero. Numerosi i messaggi di cordoglio. "Apprendo con tristezza della scomparsa di Maria Pia Fanfani. Non solo nel ricordo di uno dei più importanti esponenti della politica italiana del dopoguerra, ma anche per le sue iniziative culturali, sociali, benefiche". Lo afferma il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri. "Con Maria Pia Fanfani scompare una donna che ha percorso, per tutta la sua vita, una sola strada, quella della solidarietà e dell'umanità nei confronti del prossimo. L'impegno in Croce rossa italiana, così come la passione nelle sue opere quotidiane, per incontrare nella sua strada, le persone, emarginate, in situazione di disagio sociale e di bisogno, rimangono oggi l'eredità più importante". Così Lorenzo Cesa, segretario nazionale Udc.

Paolo Guzzanti per ''il Giornale'' l'8 novembre 2019. Pochi ricordano la tremenda - che Dio l'abbia in gloria - Biancarosa Fanfani, la prima moglie di Amintore l'aretino, intrigante e impicciona che mise il marito in serie difficoltà sull'orlo della rovina politica con incaute interviste. Iddio la rivolle con sé e a lei seguì questa bella signora alta, capelli corti e grigi, naturalmente elegante, donna da convegni e da cocktail e presidentessa naturale nazionale e internazionale della Croce Rossa, ambasciatrice invisibile, manager della fortuna e anche della sfortuna del marito che era un uomo fantastico ma anche odiatissimo, in competizione con Aldo Moro quando entrambi venivano definiti i due «cavalli di razza» della Dc e Giulio Andreotti giocava ancora da attor giovane. Io, grazie a Maria Pia conosciuta in qualche occasione ufficiale, diventai amico di Amintore ormai all'ultimo stadio: ancora pienamente in sé, pittore astratto sulfureo dalle tinte fra l'indaco e il viola insanguinato, con le sue vele trapezie solcanti il nulla e le oleografie marziane e non priva di fascino (dovrei averne un paio ancora in giro per casa). Maria Pia Tavazzani, vedova Fanfani, marciava per il secolo, ma la morte le ha raccorciato la corsa di tre anni. Grazie a lei Amintore mi prese in simpatia e mi chiamava «Oh Barbarossa! hi che tu fai? Perché non mi vieni a trovare?». E attaccavamo certe conversazioni astruse storiche o bislacche che non finivano mai. Lei, Maria Pia, era come uno di quei bei cani eleganti nei quadri del Tiepolo, un po' levriere e un po' spirito del mondo, apprensiva, sottile, vigilante, provvidente, engagé, mondana con gli arcipreti ma gaudente con i comunisti da salotto, di buona educazione e famiglia, ma non bacchettona, non baciapile come erano in genere tutte le democristiane di partito, o martiri o staffette partigiane in bicicletta, donne culone con nei pelosi, modello di riferimento la Signora Carlomagno del disegnatore satirico romano, surrealista e iperrealista Jacovitti, una donna anziana e terribile energumena che sapeva mettere a terra ogni peso massimo tipo Brutus. A differenza della signora Carlomagno, Maria Pia Tavazzani nata a Pavia nel 1922 anno della marcia su Roma era nata elegante e austeramente sexy ma quasi monacale se non fosse stato per la sua voglia di recuperare i privilegi dell'identità femminile anche all'interno della sacrestia democristiana che sapeva di calzettoni infeltriti, figure asessuate oppure sessuate nei momenti sbagliati. Lei invece era bella, charmant, e dominante come un'educatrice severa dai tacchi a spillo sul piccolo baffuto Amintore, l'unico che ancora portasse dei baffi quadrati alla Hitler. Amintore era stato un uomo piccolo e mentalmente ardito, quasi violento, la sua opposizione al divorzio e poi all'aborto, era stata epica e a suo modo eroica, distrutta dalla famosa vignetta di Giorgio Forattini che lo dipinse sul tappo saltato di una bottiglia di champagne dei divorzisti. Lei era un'ottima fotografa indipendente, una super volontaria di ogni causa umana, ciò che la portò non soltanto alla vetta della Croce Rossa, ma anche della Mezzaluna Rossa che sarebbe quella musulmana. Onu e viaggi all'estero, cocktails e ambasciatori, salotti cene e aperitivi, quello era il mondo in cui tesseva le sue relazioni tutte utili al suo potente marito già più volte presidente del Consiglio. Amintore era stato uno dei fascistissimi dell'era fascista e si era spinto molto oltre la soglia del comprensibile e tollerabile con articoli di genere razzista che non smisero di perseguitarlo. Basso, diventò famoso anche per la pedana di libri che gli misero sotto i piedi durante un comizio e che poi crollò mettendolo a disagio, come quando un finto fan venne per baciarlo a un tavolo ufficiale per prenderlo per le orecchie e tirandogliele facendogli sbarrare gli occhi davanti ai fotografi. Era di casa a Ginevra dove svolge la sua opera di crocerossina, ma più che altro rappresentò il porto sicuro del vecchio democristiano che aveva lambito il potere assoluto, mancandolo del tutto. Fanfani fu un rivoluzionario sindacalista anticomunista ma di sinistra, amico di La Pira e di tutta la sinistra Dc, fu un uomo assolutamente di destra, reazionario e felice di esserlo. Quando mi raccontava la sua storia negli ultimi anni della sua vita, Maria Pia veniva a portarci bicchieri di analcolici con patatine e lui diceva: «Oh rosso! è lei che m'ha salvato, e tu lo sai». Io non sapevo ma annuivo gravemente, Maria Pia spariva con i bicchieri e tornava nel cuore della festa tra preti e arcipreti, vescovi e ambasciatori.

·         È morto Fred Bongusto.

È morto Fred Bongusto, cantò l'amore degli italiani. Aveva 84 anni. I funerali saranno celebrati a Roma lunedì 11 novembre. La Repubblica l'8 novembre 2019. E' morto il cantante Fred Bongusto, voce amata della canzone italiana. Aveva 84 anni. La sua canzone più nota era Una rotonda sul mare. Bongusto, nato a Campobasso e nome d'arte di Alfredo Antonio Carlo Buongusto, era da qualche tempo era alle prese con problemi di salute. In una nota l'ufficio stampa del cantante scrive che "la notte scorsa, alle 3,30 circa, ha cessato di battere il cuore di Fred Bongusto". I funerali saranno celebrati a Roma lunedì 11 novembre, con inizio alle 15, nella Basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa degli artisti), piazza del Popolo.

Mario Luzzatto Fegiz per il Corriere della Sera il 9 novembre 2019. L' artista di «Una rotonda sul mare», «Spaghetti, insalatina e una tazzina di caffè» era sparito da anni. Colpito da quella che è la peggior punizione per un cantante: la sordità. Nel corso dei decenni centinaia di coppie hanno confessato di essersi innamorate ballando guancia a guancia «Una rotonda sul mare» cantata da Fred Bongusto, grandioso interprete e musicista romantico, stile da crooner, la cui marcia in più rispetto a coetanei come Nicola Arigliano, Teddy Reno, Emilio Pericoli e Peppino di Capri (un' amicizia che portò anche ad un' alleanza artistica) era il legame stilistico col Sudamerica. Legame che lo portò a collaborare, tra gli altri, con artisti come Vinícius de Moraes, Antônio Carlos Jobim e João Gilberto, dei quali, nel repertorio sussurrato e accattivante di Bongusto, figurano classici come «Garota de Ipanema», «A Felicidade», «Samba de Orfeo». I suoi modelli artistici erano Gershwin, Louis Armstrong e Nat King Cole. Fu amico e incrociò la sua carriera anche col jazzista Chet Baker. Nato a Campobasso il 6 aprile 1935, visse gran parte della sua vita, quando non era in tour, a Sant' Angelo d' Ischia, solcando il mare col suo entrobordo Riva, un gioiello tutto di legno pregiato. Inizia a suonare la chitarra in piccoli locali. Il debutto discografico avviene negli anni del boom economico. E degli anni Sessanta è rimasto il simbolo con brani come «Spaghetti a Detroit», «Accarezzame», «Frida», «Malaga» (incisa anche da João Gilberto). E nel decennio successivo con le colonne sonore di vari film come Matrimonio all' italiana , Malizia , Un dollaro bucato e Fantozzi contro tutti. Dopo due apparizioni nel 1965 («Aspetta domani») e nel 1967 («Gi»), nel 1986 partecipa a Sanremo con «Cantare» e tre anni dopo torna con «Scusa». Il Festival, ha annunciato ieri il conduttore e direttore artistico Amadeus, gli dedicherà un tributo. Nella sua lunga carriera Bongusto ha frequentato molti generi musicali, sempre restando un italiano caldo, melodico e confidenziale. La sua versione di «Guarda che luna» resta un capolavoro di classe e atmosfera. «Tre settimane da raccontare» è ancor oggi un simbolo dell' estate anni Settanta. I suoi dischi avevano copertine allusive non sempre di... buon gusto: ad esempio la nudità femminile esagerata di «Lunedì» del 1979. Fra i momenti migliori della sua carriera, l' alleanza artistica con l' amico-rivale Peppino di Capri nell' agosto 1995. Nello show, tenutosi nel porto di Sant' Angelo, Bongusto dette fondo a tutto il suo vasto repertorio romantico: «Amore fermati», «Tre settimane da raccontare», «Sei bellissima», «Indifferentemente», «Frida», «Non dimenticar» e, in duetto con di Capri, «When I Fall in Love» di Nat King Cole, punto di riferimento comune fra i due. Sempre nel '95, Fred incise a sorpresa un brano, scritto con Califano, che era una invettiva violentissima contro i cantautori. Titolo: «Ma dove sei...», che cominciava così: «Un insulto lungo una vita, una maschera da poeta senza mai esserlo/ Generoso, ma solo a patto che un fotografo col suo scatto fissi la tua bontà... che fine hai fatto cantautore, non hai più niente da raccontare». E in una intervista al Corriere rincarò le dosi attaccando Guccini, Bob Dylan, ma soprattutto De Gregori: «Da musicista ho sempre considerato vergognoso il livello delle canzoni lanciate da questi signori. Prenda ad esempio uno dei più grandi successi di De Gregori, "Buonanotte Fiorellino". È musicalmente banale, elementare. Un' offesa a chi come me ha vissuto per 30 anni di musica vera, quella che ha spessore, dura nel tempo e non ha bisogno di sponsor politici». De Gregori replicò pacatamente spiegando che era un errore «dividere la musica per generi e compartimenti stagni». Curiosa e semplice la vita sentimentale di Bongusto. Si era sposato con l' attrice Gabriella Palazzoli (mancata quattro anni fa), dalle cui prime nozze con l' attore americano John Drew Barrymore era nata una bimba, Blyth Dolores Barrymore. Bongusto l' ha cresciuta come se fosse sua figlia, dandole anche il suo cognome. È stata lei ad accudirlo fino alla fine.

È morto Fred Bongusto, cantò l’Italia del boom. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. Quello di «Una rotonda sul mare», «Spaghetti, pollo, insalatina e una...» era sparito da anni. Colpito da quella che è la peggior punizione per un cantante: la sordità. Nel corso dei questi decenni centinaia di coppie hanno confessato di essersi innamorate ballando guancia a guancia «Una Rotonda sul mare» cantata da Fred Bongusto, grandioso cantante e musicista romantico, stile da crooner la cui marcia in più rispetto, a coetanei come Nicola Arigliano, Teddy Reno, Emilio Pericoli e Peppino di Capri (una amicizia che portò anche ad una alleanza artistica) era il legame stilistico col Sudamerica che lo portò a collaborare con artisti del calibro Vinicius De Moraes, e Joao Gilberto. Nel suo repertorio sussurrato e accattivante molti classici di Jobin e De Moraes come Garota di Ipanema, A Felicidade, Samba De Orfeo I suoi modelli artistici erano Gershwin, Luis Armstrong e Nat King Cole. Fu amico e collaborò anche col grande jazzista Chet Baker. Era da tempo malato. Ma ciò che più lo angustiava era la perdita quasi totale dell’udito. Bongusto (all’anagrafe Alfredo) era nato a Campobasso il 6 aprile 1935. Ha vissuto gran parte della sua vita, quando non era in tour, a Sant’Angelo d’Ischia, solcando il mare col suo entrobordo Riva, un gioiello tutto di legno pregiato. Inizia a suonare la chitarra in piccoli locali. Il debutto discografico avviene nel 1960. E degli anni Sessanta lui è rimasto il simbolo con brani come «Spaghetti a Detroit», Accarezzame, Frida, Malaga (incisa anche da Joao Gilberto).E poi colonne sonore di vari film come Matrimonio all’italiana, Malizia, Un dollaro bucato. Bongusto nella sua carriera ha frequentato molti generi musicali, sempre restando un italiano caldo e confidenziale. La sua versione di Guarda che Luna resta un capolavoro di classe e atmosfera. Tre settimane da raccontare è ancor oggi un simbolo dell’estate anni Settanta. I suoi dischi avevano copertine allusive non sempre... di Buon Gusto. Fra i momenti migliori della sua carriera una alleanza artistica con l’amico-rivale Peppino di Capri nell’agosto 1995. Nello show, tenutosi proprio nel porto di Santangelo a Ischia, Bongusto dette fondo a tutto il suo vasto repertorio romantico: «Amore fermati» «Tre settimane da raccontare» (night patinato), «Sei bellissima», «Indifferentemente». «Frida», «Non Dimenticar» e, in duetto con Di Capri «When I fall in love» di Nat King Cole, punto di riferimento comune dei duellanti. Sempre nel 95 Bongusto incise a sorpresa un brano, scritto con Califano, che era una invettiva violentissima: contro i cantautori. Titolo «Ma dove sei...», che cominciava così «Un insulto lungo una vita, una maschera da poeta senza mai esserlo, hai parlato di cose serie, poi cantato le tue miserie tirate a lucido. E quanti calci alla buona fede di chi ancora ti ascolta e crede con la sua ingenuità. Generoso, ma solo a patto che un fotografo col suo scatto fissi la tua bontà... che fine hai fatto cantautore, non hai più niente da raccontare». E in una intervista al Corriere rincarò le dosi attaccando Guccini, Bob Dylan, ma soprattutto De Gregori: «Personalmente da musicista ho sempre considerato vergognoso il livello delle canzoni lanciate da questi signori. Prenda ad esempio uno dei più grandi successi di De Gregori, “Buonanotte Fiorellino”. E musicalmente banale, elementare. Un’offesa a chi come me ha vissuto per 30 anni di musica vera, quella che ha spessore, dura nei tempo e non ha bisogno di sponsor politici».

Da agi.it l'8 novembre 2019. La notte scorsa, alle 3.30 circa, è morto il cantante Fred Bongusto. Il celebre artista aveva compiuto 84 anni il 6 aprile scorso (era nato a Campobasso) e da qualche tempo era alle prese con problemi di salute. I funerali saranno celebrati a Roma lunedì 11 novembre, con inizio alle 15, nella Basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa degli artisti), piazza del Popolo. 

Da cinquantamila.it - di Giorgio dell’Arti.

(Alfredo Antonio Carlo Buongusto) Campobasso 6 aprile 1935. Cantante. Crooner. Timbro pastoso e caldo, tutti i suoi più significativi successi risalgono agli anni Sessanta: Amore fermati e Una rotonda sul mare, Frida, Prima c’eri tu (vincitrice di Un disco per l’estate nel 1966) ecc. «Ho cominciato a Torino che era piena di locali. Era il 1959, avevo appena finito il liceo con una voglia matta di fare musica sulla scia di Bruno Martino, Don Marino Barreto. Sognavamo i locali che portavano cento persone, atmosfera raccolta, diretta a gente attenta che aveva bisogno di musica persuasiva per parlare d’amore all’orecchio della ragazza. Tutto inizia con una sigla musicale, non mi si vedeva ma mi si sentiva, Amore fermati.

Nel 1963 vivo l’anticipo del boom. Escono Doce doce e Frida. Una rotonda sul mare l’ho capito subito che era perfetta. Mi ricordo che incontrai Gorni Kramer in Galleria a Milano e gli dissi: “Ho scritto una canzone nuova, se non fa successo cambio mestiere”. Andò tutto bene eppure quella canzone ebbe un’infinità di traversie. Ero in Rca per l’arrangiamento, mi volli affidare a un brasiliano che però partì per impegni improvvisi dopo aver preparato solo quattro battute d’arrangiamento. Io, disperato, mi affidai ad Augusto Martelli che all’epoca era innamorato pazzo di Mina e dunque il giorno della registrazione, visto che doveva vedere lei, mi mandò il padre al suo posto. Io volevo uccidermi. Si incominciò così, alla ventura, senza capire bene dove si andava. Alla fine ci accorgemmo che una mano divina era intervenuta sul pezzo. Ancora adesso è la canzone sinonimo dell’estate, delle vacanze, del mare. La cantavo a Riccione e alla Bussola che in quegli anni raccoglieva il meglio del mondo internazionale».

Il 21 aprile 2013 partecipò al concerto a Roma in onore di Franco Califano (1938-2013), morto da poco.

Da giovane giocò prima a calcio e poi a tennis, anche a livello agonistico.

Carla Vistarini per Dagospia l'8 novembre 2019. “Ciao Fred Bongusto, ciao Rotonda sul mare, Malaga, Frida... Ciao a quelle estati piene di sole e stelle, di quiete, amori di ragazzi e futuro. A me piacevano i Beatles, il rock, gli americani, ma la tua Rotonda sul mare, il tuo "Amore fermati, questa sera non andartene", il tuo "T'aggio voluto bene", mi piacevano lo stesso. Tanto. Raccontavi quei luminosi anni ‘60, in cui eravamo immersi senza nemmeno rendercene conto. Quegli stessi anni del “Sorpasso”, della “Dolce vita”, delle spider e dei capelli cotonati delle ragazze che li fermavano con le gonne a pois e i foulards bon ton, come Brigitte, come Mylène, per non spettinarsi quando si volava sulla vespa o sulle macchine scoperte. Gli anni dei jukebox, dei mangiadischi, del twist, di quella lingua italiana ancora antica, intimidita dalle parole nuove di un presente che si annunciava vorticoso e un futuro che rotolava via su quei tratti lisci, infiniti dell’appena nata Autostrada del Sole, da cui si partiva per dovunque, senza sapere dove questo dovunque fosse. Quelle rotonde sul mare lungo l’Aurelia cantata anche, nella sua prosecuzione francese, da Charles Trenet nella sua “National Sept” , dalla nostalgia bruciante come quella che ci hai lasciato tu, Fred Bongusto, con quell’”Amore fermati” che voleva dire fermati giovinezza, fermati sogno, fermati, splendida vita che corri come il vento verso un domani che è sempre migliore dell’oggi e sempre più lontano. Io avevo 15 anni, e della vita sapevo poco e niente, ma da quelle tue canzoni, così in fondo semplici, la semplicità della bellezza, intuivo che mille e mille cose meravigliose, nella vita, possono accadere. Come ballare qualche istante, al chiaro di luna, di fronte al mare, sotto le stelle, nel magico tempo dei sogni. Ciao Fred, e grazie, di tutto.

È morto Fred Bongusto, cantava l'amore e faceva sognare italiani. Il Corriere del Giorno l'8 novembre 2019. Il suo nome è indissolubilmente legato all’Italia degli anni Sessanta e soprattutto alle “rotonde sul mare“. Ad una in particolare: quella che ispirò la sua canzone più famosa sulle cui note migliaia di coppie si scambiarono all’epoca promesse d’amore e che gli regalò il successo. Aveva compiuto 84 anni lo scorso 6 aprile. I funerali saranno celebrati a Roma lunedì 11 novembre nella Basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa degli artisti), piazza del Popolo, con inizio alle 15. ROMA – Si è spento la notte scorsa alle 3.30, nella sua abitazione nella Capitale il cantante Fred Bongusto, malato da tempo, il cui nome completo è Alfredo Antonio Carlo Buongusto nato a Campobasso, indimenticata ed amata voce della canzone italiana. Aveva compiuto 84 anni il 6 aprile scorso. Un’intera vita quella del grande chansonnier italiano dedicato alla musica, che ha dato la sua voce a un’epoca con le sue canzoni romantiche ha tenuto alto il nome della canzone italiana e ha siglato un passaggio innovativo degli anni Sessanta, Fred cantava negli eleganti night club d’inverno frequentati dal jet-set italico; una delle sue canzoni più note è legata alla rotonda in stile Belle Epoque, il candido tempietto sospeso tra cielo e mare sul litorale di Senigallia, è lì che si ispirò a Fred nel 1964 per il famoso brano, sulle cui note migliaia di coppie hanno ballato e sognato. Chansonnier leggero, si è ispirato apertamente allo stile musicale di Louis Armstrong e a quello confidenziale di Nat King Cole, ma vantava anche collaborazioni con Chet Baker. Bongusto aveva iniziato a suonare nel gruppo I 4 Loris, che in molti casi reinterpretava in italiano canzoni straniere. La prima canzone con cui ebbe successo da solista fu “Bella bellissima”, del 1962. “Una rotonda sul mare” uscì nel 1964 e poco dopo entrò anche nella colonna sonora di Vaghe stelle dell’Orsa... di Luchino Visconti. Sempre negli anni Sessanta Bongusto partecipò ad alcuni film musicali e si dedicò all’arrangiamento di colonne sonore per il cinema come “Matrimonio all’italiana”, “Malizia”, “Un dollaro bucato” (in tutta la sua vita ne realizzò alcune decine). Bongusto continuò comunque a cantare anche in seguito, per vari decenni con la sua musica senza tempo, partecipando ad alcune edizioni del Festival di Sanremo dove ha portato la sua voce di velluto e il suo stile intimistico: nel 1965 con “Abbracciami forte”, nel 1967 con “Gi”, nel 1986 con “Cantare“, e nel 1989 con “Scusa”. I suoi successi sono davvero tanti: “Una rotonda sul mare”, “Spaghetti a Detroit”, “Balliamo”, “Accarezzami ancora”, “Frida o Prima c’eri tu” che vinse nel 1966 Un disco per l’estate, ma anche “Doce doce” scritta all’età di 18 anni e “Malaga”, incisa dal grande cantante brasiliano Joao Gilberto. Il suo nome è indissolubilmente legato all’Italia degli anni Sessanta e soprattutto alle “rotonde sul mare“. Ad una in particolare: quella che ispirò la sua canzone più famosa sulle cui note migliaia di coppie si scambiarono all’epoca promesse d’amore e che gli regalò il successo. Nel 1964 uscì “Le canzoni di Fred Buongusto“, suo secondo album. “Una Rotonda sul Mare” era la prima traccia del Lato A. Per molti anni si è pensato che quel luogo di passione e sentimenti fosse a Termoli, essendo lui nato a Campobasso. Poi, nel 2006, la rivelazione. In un’intervista al quotidiano La Repubblica, Fred Bongusto spiegò che la rotonda si trovava a Senigallia. Nella città molisana c’era in quegli anni giusto uno stabilimento dove in estate si esibivano giovani artisti. Qualche anno dopo un’altra smentita. Questa volta, parla Franco Migliacci autore del testo della canzone. La rotonda non è sul mare, ma sul lago, dice, e precisamente è quella dell’Hotel Lido di Passignano sul Trasimeno. Insomma si trattò di una licenza poetica e niente più del mare e dell’estate fa sospirare gli innamorati infelici. Tra le ultime sue apparizioni pubbliche, quella del 22 aprile 2013, in occasione del concerto in ricordo di Franco Califano, quando ha cantato “Questo nostro grande amore“, la canzone scritta per lui dallo stesso Califano. Nel 2013 ha duettato in “Amore Fermati” con Iva Zanicchi nel disco della cantante “In cerca di te”. I suoi funerali saranno celebrati a Roma lunedì 11 novembre, nella Basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa degli artisti), piazza del Popolo, con inizio alle 15.

Classe, umorismo e stoccate. Era un gigante della canzone. I grandi successi estivi, le rotonde sul mare, l'ironia e la polemica contro i cantautori con «sponsor politici». Antonio Lodetti, Sabato 09/11/2019 su Il Giornale. La sua ultima apparizione è del 22 aprile 2013... Fu al concerto in ricordo di Franco Califano (di cui era molto amico) dove cantò Questo nostro grande amore, il brano che il cantautore romano aveva scritto per lui. Ma era ancora in contatto con l'ambiente musicale che conta, e di cui ha fatto parte per oltre mezzo secolo. Fred Bongusto, il cantante confidenziale per eccellenza, se n'è andato a 84 anni dopo una lunga malattia. Faceva parte di quella generazione di crooner che animarono i night club e facevano innamorare e ballare la gente negli anni Sessanta e Settanta, sfidando Nicola Arigliano (più spostato sul versante jazz), Johnny Dorelli (più pop), Teddy Reno, Emilio Pericoli e il suo amico Peppino Di Capri che lo ha commemorato dicendo: «Quello che posso dire è che la vera voce del night era la sua! Aveva questa voce particolare, molto originale e una timbrica confidenziale unica». Una voce sensuale, profonda e avvolgente, che portò al successo brani ormai classici come Una rotonda sul mare, il suo vero cavallo di battaglia. Ma non è tutto qui. «Ci lascia un patrimonio di successi - ribadisce Di Capri - che continueremo a cantare e ci aiuterà a ricordarlo per sempre». Le sue radici affondano nel jazz americano, con l'ascolto di giganti come Nat King Cole e Louis Armstrong (senza dimenticare la collaborazione con Chet Baker), di cui in concerto riprendeva alcuni standard. Amava la parodia intelligente, per questo cantò a ritmo di swing la suadente cronaca di un amore non corrisposto Spaghetti a Detroit («spaghetti pollo insalatina e una tazzina di caffè riesco a malapena a mandar giù»). Era un artista aperto, schietto e simpatico con i colleghi, ma non dimenticava di attaccare quei cantautori che - secondo lui - proponevano musica troppo leggera. Celebre è il suo duetto polemico con Franco Califano intitolato Che fine hai fatto cantautore?, seguito da un'intervista molto «forte» in cui dirà: «personalmente da musicista ho sempre considerato vergognoso il livello delle canzoni lanciate da certi signori. Ad esempio uno dei più grandi successi di Francesco De Gregori, Buonanotte Fiorellino. È musicalmente banale. Elementare. Un'offesa a chi come me ha vissuto per trent'anni di musica vera, che dura nel tempo e non ha bisogno di sponsor politici». Lui che aveva iniziato la gavetta nella sua città, a Campobasso, nel 1960, come voce solista de I 4 Loris, suonando nei piccoli locali e studiando la batteria insieme a Massimo Boldi, amico fraterno che ha dichiarato: «la vita finisce ma se sei stato come Fred sei immortale». Un discografico dall'occhio lungo qual era Giovanni Ansoldi (boss della Primary e in seguito della Carisch Edizioni oltre che ex marito di Iva Zanicchi) li mette subito sotto contratto e il gruppo debutta nel 1961 con il 45 giri dall'impronta jazz Madison italiano, con sul lato B Notte d'amore, rilettura italiana di Jealous Lover di Charles Williams (con testo in italiano di Misselvia) tratta dal divertentissimo film di Billy Wilder L'appartamento con Jack Lemmon. L'anno successivo debutta come solista grazie a Ghigo Agosti, che scrive per lui Bella bellissima e l'accorata ballata napoletana Doce doce, che comincia a farlo conoscere nel mondo dello spettacolo che conta. Il successo travolgente arriva poi nel '64 con la ballata confidenziale Una rotonda sul mare, (ispirata dalla struttura circolare che si trova a Senigallia) il suo marchio di fabbrica. Senza farsi coinvolgere o distrarre dall'onda beat, Bongusto incide brani rimasti nella storia della canzone popolare come Frida, Malaga, Amore fermati, La mia estate con te, Tre settimane da raccontare. Rimanendo fedele al suo stile un po' sdolcinato rivaleggia con le canzoni pop e beat partecipando più vole a «Un disco per l'estate», che addirittura lo vedrà vincitore nel 1966 con la melanconica Prima c'eri tu. La sua partecipazione a «un disco per l'estate» è assidua anche negli anni precedenti e fino all'inizio degli anni Settanta, con una serie di canzoni che ha come tema il mare come Mare non cantare, Il mare quest'estate, Una striscia di mare. «Sono un grande romantico - disse in proposito - amo far ballare la gente ma anche farla riflettere: questo è il mio obiettivo». Sempre attivo nel giro dei night club e dei locali da ballo, nonostante il cambio di generazione e la nuova musica, Fred Bongusto nel 1976-1977 scocca ancora due successi estivi dal suo arco: sono La mia estate con te e la spensierata Balliamo che - molto anni prima di Eros Ramazzotti e Laura Pausini - conquisterà il mercato sudamericano, anche nella versione di Manolo Otero. Non si contano poi le sue tournée in Sudamerica (il suo ultimo giro di concerti da quelle parti è del dicembre 2007) ed è importante il suo rapporto artistico con Toquinho (anche lui originario del Molise) e Vinicius de Moraes. Dotato di spiccato senso dell'umorismo, nel 1973 Fred interpreta il supersuccesso di Stevie Wonder Superstition traducendo il suo nome in inglese come Fred Goodtaste. In quegli anni le sue canzoni spopolano nei piano-bar e Fred decide di fare il salto di qualità. Dopo aver partecipato come attore a due film «musicarelli» senza troppe pretese (Obiettivo ragazze e Questi pazzi pazzi italiani) comincia a scrivere musiche da film. Da vero musicista ha curato e arrangiato la colonna sonora di una trentina di film d'autore tra cui Il tigre di Dino Risi, Malizia (film candidato ai Nastri d'Argento), Peccato Veniale di Salvatore Samperi, Venga a prendere il caffè da noi e La cicala di Umberto Lattuada. «Così ho potuto far vedere le mie doti di vero musicista, senza badare alla lunghezza delle canzoni e seguendo il ritmo delle scene cinematografiche», disse a proposito di questa esperienza. Negli anni Ottanta riesce ancora a piazzare qualche zampata d'autore; per esempio nel 1985 incide l'album Dillo tu... con il successo «napoletano» Ammore scumbinato, e l'anno successivo ottiene un ottimo successo al Festival di Sanremo con Cantare (scritta da lui in tandem con Di Francia e Iodice) che divenne uno dei brani più suonati di quell'estate, e nell'89 si fa valere - sempre a Sanremo - con Scusa, accompagnato dall'album Le donne più belle. Durante la sua lunga malattia, molti artisti suoi colleghi avrebbero voluto andarlo a trovare per testimoniare la loro amicizia ma - come ha detto Peppino Di Capri - «la figliastra purtroppo non ha mai voluto». (Bongusto è stato sposato con l'attrice Gaby Palazzoli, che aveva una figlia dall'attore John Barrymore, a sua volta padre di Drew Barrymore). Se n'è andato serenamente e oggi il mondo della musica lo rimpiange. Da Pippo Baudo a Iva Zanicchi (di cui era grande amico e con cui ha duettato nel 2013 nell'album della cantante In cerca di te) chiedono di rendere omaggio al prossimo festival di Sanremo a un personaggio che ha fatto ballare e innamorare mezzo mondo.

·         È morto Omero Antonutti, attore feticcio dei fratelli Taviani.

È morto Omero Antonutti, attore feticcio dei fratelli Taviani. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. È morto, all’età di 84 anni, a Udine, Omero Antonutti. Attore di cinema e teatro fu celebre soprattutto per i film con i fratelli Taviani, in particolare in Padre Padrone del 1977 e poi come doppiatore, nelle saghe del Signore degli Anelli e Guerre Stellari.

Nato a Basiliano, in Friuli Antonutti esordisce nel cinema nel 1966 con una piccola parte in Le piacevoli notti con Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida e Ugo Tognazzi. Nel 1974 fa parte del cast di Processo per direttissima e Fatevi vivi, la polizia non interverrà, ma il suo primo ruolo di spessore è del 1977, quando viene aappunto scritturato per il ruolo del padre di Gavino Ledda in Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani. La collaborazione con i due fratelli registi prosegue nel 1982 con La notte di San Lorenzo e nel 1984 con Kaos. L’attività di Antonutti fin dagli anni settanta prosegue alternando cinema e teatro, oltre al lavoro di doppiaggio. Tra gli altri film, ricordiamo Farinelli - Voce regina di Ge’rard Corbiau, Un eroe borghese di Michele Placido, I banchieri di Dio - Il caso Calvi di Giuseppe Ferrara e Tu ridi ancora dei fratelli Taviani. Tra le produzioni recenti, la miniserie televisiva Sacco e Vanzetti, N - Io e Napoleone, La ragazza del lago e, nel 2008, Miracolo a Sant’Anna. Infine, è stata la voce narrante nel film La legge degli spazi bianchi, regia di Mauro Caputo, tratto da un racconto di Giorgio Pressburger, presentato alla mostra di Venezia nel 2019.

Marco Giusti per Dagospia il 5 novembre 2019. “Gavino, devi andare a pascolare le pecore!” era la frase tormentone di Omero Antonutti, padre padrone nell’omonimo film dei Fratelli Taviani, quando andavo a riprendersi il figlio a scuola e lo rispediva sui monti con le pecore. Se fu forse l’attore prediletto dei Taviani, Omero Antonutti, friulano, grande presenza del nostro cinema, che se ne è andato a 84 anni, fu anche attore e protagonista per maestri del cinema serio come il greco Theo Anghelopoulos, gli spagnoli Victor Erice e Carlos Saura, lo svizzero Villi Herman. Se i Taviani, con Padre padrone, ma anche con Good Morning, Babilonia, La notte di san Lorenzo, Kaos lo portarono al successo internazionale, furono poi Anghelopoulos con Alessandro il Grande, Victor Erice con El Sur e Miguel Littin con Sandino a rilanciarlo come icona di un certo cinema. Fu famosissimo nel cinema spagnolo. E con quella faccia dura, baffetto e pelata alla Bersani, fu molto richiesto dal cosiddetto cinema civile italiano. Eccolo come perfetto Michele Sindona per Michele Placido in Un eroe borghese, perfetto Calvi in I banchieri di Dio di Giuseppe Ferrara, eccolo con Franco Giraldi, La frontiera, Marco Bellocchio, La visione del sabba, Elio Petri, Le mani sporche, e con Emidio Greco, Una storia semplice, con Paolo Virzì in N-Io e Napoleone, in un percorso che lo porterà fino a Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee e al recentissimo Hammamet di Gianni Amelio. Grande voce del nostro cinema, fu anche doppiatore, ad esempio di Christopher Lee, e narratore per film come Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi e La vita è bella di Roberto Benigni. Nato nel 1939 in Friuli, entrò molto presto nel cinema, il suo primo film dovrebbe essere il boccaccesco Le piacevoli notti di Crispino e Lucignani del 1966, ma lo troviamo più attivo negli anni ’70 nei polizieschi Processo per direttissima di Lucio De Caro e Fatevi vivi, la polizia non sparerà di Giovanni fago, Anno Uno di Roberto Rossellini, La donna della domenica di Luigi Comencini. Ma fu l’incontro coi Taviani a cambiargli decisamente la vita.

·         Marie Laforet rip.

Marco Giusti per Dagospia il 3 novembre 2019. Si sono chiusi per sempre i bellissimi occhi di Marie Laforet, volto e voce degli anni ’60, ribattezzata per sempre La ragazza dagli occhi d’oro, che era poi il titolo di uno dei suoi primi film diretta da Jean-Gabriel Albicocco, suo primo marito, ne ebbe ben cinque. Ma il suo vero esordio, davvero esplosivo, era stato ancora ventenne a fianco di Alain Delon e di Maurice Ronet nello spettacolare giallo In pieno sole di René Clement, 1960, nel ruolo di Marge. Il pubblico non se la poteva certo scordare. Nata Maiténa Marie Brigitte Douménac nel 1939 a Soulac-sur-mer, di origini catalane-occitane, fu da subito e per sempre conosciuta come Marie Laforet. Grazie proprio ai suoi due primi film, la sua carriera era lanciata per sempre. Si divise tra Francia e Italia per tutto il resto della sua vita. La troviamo così in produzione diverse, quasi sempre a fianco delle star del tempo, di Annie Girardot in Amori celebri di Michel Boisrond e di Jacques Charrier in Il diavolo sotto le vesti di Michel Deville. In Italia è una delle protagoniste assieme a Anna Karina di Le soldatesse di Valerio Zurlini, un film molto discusso al tempo. Non si può dire una delle muse della Nouvelle Vague, anche se in qualche modo la sfiorò con Claude Chabrol nel divertente Marie Chantal contro il Dottor Kha, dove è appunto la protagonista, Marie Chantal. Si mosse decisamente meglio nel noir e nel poliziesco, da Colpo grosso a Parigi a La gang dei diamanti, e dove trovò il suo regista di riferimento nel prolifico Georges Lautner, che la diresse più volte, soprattutto con Jean-Paul Belmondo in Poliziotto o canaglia e Irresistibile bugiardo, ma anche con un vecchio Robert Mitchum in Presunto violento. Dopo essersi spostata in Svizzera già nel 1978, dove aprì anche una galleria d’arte e ebbe ben tre matrimoni, lavorò molto in Italia. La troviamo così con Alberto Sordi in L’avaro di Tonino Cervi, con Francesca Dellera in La bugiarda di Franco Giraldi, con Marcello Mastroianni in A che punto è la notte, ultimo film diretto da Nanni Loy, con Nancy Brilli in Tutti gli uomini di Sara di Gianpaolo Tescari e con Michele Placido nella fortunata serie La piovra 3 diretta da Luigi Perelli. Sempre bella e elegante, non cambiò mai il suo stile e illuminò coi suoi occhi, magari non essendo mai stata una grande attrice, i tanti set che frequentò tra un matrimonio e l’altro.

·         E’ morto il produttore Robert Evans.

Marco Giusti per Dagospia il 30 ottobre 2019. “Quando è il regista che assume il produttore, sei nella merda. Il regista ha bisogno di un boss, non di un yes man”. Sette mogli e innumerevoli amanti, tre infarti, la villa che fu di Greta Garbo, “Woodland”, una serie di successi planetari, da Il Padrino a Love Story, da Il maratoneta a Chinatown, da Serpicoa Harold e Maude, un declino per abuso di cocaina, almeno tre resurrezioni, un’autobiografia che non dice tutto, ma quasi, il mondo del cinema perde Robert Evans, 89 anni, detto il Padrino di Hollywood, ma anche Bob “Cocaine” Evans. Forse il più grande produttore americano rimasto. Una leggenda. Non solo portato sullo schermo prima da Robert Vaugn in S.O.B. di Blake Edwards e poi da Dustin Hoffman in Sesso e potere, ma lui stesso in grado di interpretare il personaggio di Irving Thalberg, il primo dei grandi tycoon di Hollywood, come attore all’inizio della sua carriera, e poi invitato da Elia Kazan a riprenderlo per Gli ultimi fuochi. Non lo fece, però, lasciando l’onore a Robert de Niro. Non ci sarà più un Robert Evans a Hollywood. Con le donne ebbe qualche problema. Sposò una serie di bellissime attrici, come Ali McGraw, la protagonista di Love Story, che gli dette un figlio, Josh, Camilla Sparv, Sharon Hugueny, Catherine Oxenberg, in un matrimonio che durò solo dieci giorni. Ma sposò anche la Miss America 71 e Miss Texas 70 Phyllis Ann George e Lady Victoria White. Ebbe storie con star del calibro di Ava Gardner, Grace Kelly, Lana Turner, Margaux Hemingway e con la bellissima Barbara Carrera (“è donna al 100%, lei sa come farti sentire uomo”). Rispetto alle sue tante love story diceva: “Una storia d'amore può durare una sera, una settimana, un mese, anche per sempre. Ma c'è una grande differenza tra piacere, amore, innamoramento e lussuria”. Fascinoso e potente, Evans aveva le idee chiare sul suo ruolo nel mondo del cinema, ma non fu un produttore sporcaccione alla Weinstein. I suoi consigli alle giovane attrici erano: “Se ti avvicinano con la frase ‘Dovresti fare del cinema, sono un produttore", dì al tipo di fottersi di fottersi. È una truffa e i film in cui ti vuole mettere non andranno al cinema”. Dopo una piccola carriera da attore, una decina di film, da La rivolta di Haiti a Sinuhe l’Egiziano, da Il sole sorgerà ancora di Henry King a L’uomo dei mille volti, dove ebbe il ruolo di Irving Thalberg, entrò nella produzione e divenne capo della Paramount nel 1967 realizzando una serie di film innovativi e di successo, da A piedi nudi nel parco a La strana coppia, da The President’s Analyst a The Detective, da Il grintaa Harold e Maude, fino a successi planetari come Il Padrino e Love Story, oltre a Il Grande Gatsby, La conversazione, Rosemary’s Baby. Fu nel 1974 che decise di mettersi in proprio lasciando che la Paramount distribuisse i suoi film. Ma non ebbe sempre lo stesso successo. Se Chinatown, Il maratoneta e Black Sunday andarono benissimo, il Popeye di Robert Altman fu un flop. Rifiutà almeno tre film di grande successo, Airport, Lo squalo e Il braccio violento della legge. Ma il vero disastro fu la produzione di Cotton Club di Francis Coppola nei primi anni 80, un film che doveva produrre assieme a un impresario teatrale, Roy Radin, che venne ucciso nel 1983 in quello che verrà ricordato come il “Cotton Club Murder”. Glielo aveva presentato una sua amica, Karen Greenberger, sua amante e pusher di cocaina. Dalla storia non ne uscì benissimo, anche se era totalmente estraneo all’omicidio di Radin. E’ allora che sentenziò “Sulla mia pietra tombale vorrei che fossi conosciuto come Bob Cocaine Evans”. Da allora produsse pochi film e non sempre di successo, come il pur bellissimo Two Jakes, sequel di Chinatown diretto e interpretato da Jack Nicholson, Jade di William Friedkin, Silver di Philip Noyce, fino a Come farsi lasciare in 10 giorni. Fu un grande personaggio della New Hollywood a cavallo fra i 60 e i 70 che non riuscì sempre a ritrovarsi negli anni successivi, anche per colpe di droghe e eccessi di ogni tipo. Ma di certo lasciò un segno. “Il produttore”, diceva, “è l'elemento più importante di un film. È il produttore che assume il regista. . . Il produttore acquista la proprietà sulla storia, assume lo sceneggiatore, il regista; è coinvolto nella scelta di tutti gli attori, coinvolto nella produzione, nei costi, nella post-produzione e nel marketing. È su un film da quattro o cinque anni e gli viene dato molto poco credito”.

·         È morta l’Itala di Boris, Roberta Fiorentini.

È morta l’Itala di Boris, Roberta Fiorentini. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. Rischiò di uccidere Boris, il pesce rosso più celebre d’Italia, dandogli da mangiare il lardo di colonnata. Malmostosa, irascibile, annoiata, pronta a difendere con i denti il posto di lavoro, conquistato grazie a misteriose raccomandazioni. Ovvero la sedia da segretaria di produzione, nullafacente ma molto rispettata. Nome d’arte, Brunella da Montalcino, per via di una spiccata passione per il vino. Un personaggio di culto Itala, che Roberta Fiorentini, scomparsa oggi a Roma, ha interpretato in Boris. È stata proprio l’account dedicato alla popolare serie di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo a dare l’annucio via social network: «Con grande dispiacere vi annuncio che oggi è venuta a mancare Roberta Fiorentini. Le mie più sentite condoglianze alla famiglia». E i fan hanno rilanciato alcune scene memorabili, come quella, sublime, con Paolo Sorrentino (che la volle per L’amico di famiglia) in visita sul set con Itala che si risveglia dal torpore. “Sai che stai proprio in grande forma? Pari proprio un ragazzino! Quando mi hanno detto: quello è Alan Sorrentino, mi è pjato un coccolone! Ce so’ rimasta... Ma qual è il segreto? Non mangi carne?”. Avrebbe compiuto 71 anni il prossimo 22 novembre. Figlia d’arte, suo padre era Fiorenzo Fiorentini, attore, sceneggiatore, musicista, la madre Lia agente cinematografica, aveva iniziato a recitare da piccola. Anche il figlio Martino ha seguito le orme di famiglia e fa l’attore. Roberta aveva fondato la Scuola di Teatro popolare intitolata al padre dove ha insegnato per molti anni. Volto popolare di molte fiction (Un medico in famiglia, I ragazzi del muretto, Edda Ciano, Papa Luciani), aveva recitato anche in diversi film. I più recenti: Io e lei di Maria Sole Tognazzi, Assolo di Laura Morante, Beata ignoranza di Massimiliano Bruno, Un Matrimonio da Favola di Carlo Vanzina, Henry di Alessandro Piva. L’ultimo ruolo è stato in Un Natale a 5 stelle di Marco Risi su soggetto dei fratelli Vanzina.

"Boris", è morta Roberta Fiorentini, indimenticabile Itala della serie cult.  Una vita dedicata al cinema e alla tv, ma il successo è arrivato con la serie dove interpretava la mitica segretaria di edizione. Aveva 70 anni. la Repubblica il 24 ottobre 2019. È morta l'attrice romana Roberta Fiorentini, una vita dedicata alla recitazione. Aveva 70 anni, ne hanno dato l'annuncio su Facebook gli ex colleghi della serie tv Boris, che le ha dato il successo grazie al ruolo della segretaria di edizione Itala. Figlia d'arte, il padre Fiorenzo Fiorentini è stato attore e sceneggiatore per l'avanspettacolo, la tv e il cinema, Roberta Fiorentini per anni ha lavorato nel cinema partecipando a film come Io e lei di Mariasole Tognazzi, Un Matrimonio da Favola di Carlo Vanzina, Henry di Alessandro Piva e L'amico di famiglia di Paolo Sorrentino. Il successo però è arrivato grazie al ruolo della segretaria di edizione Itala con le sue battute in romanesco, sempre sospettosa che conosce il mestiere da tanti anni ma è attaccata alla poltrona non per la sua esperienza ma per tutte le sue conoscenze. L'ultimo ruolo è stato in Un Natale a 5 stelle, il cinepanettone dei Vanzina sotto il segno di Netflix. "Se n'è andata prematuramente dopo una fulminea e impietosa malattia -  scrive la famiglia in una nota - inaspettata e implacabile che ha sconvolto parenti e amici. E sono loro, la mamma Lia, il figlio, Martino e la sorella Monica, compagna d'arte anche lei, quelli che ora ne sentono la profonda e insostenibile mancanza". Domani mattina, 25 ottobre, alle ore 10 e 30, nella chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo l'ultimo saluto.

Da repubblica.it il 24 ottobre 2019. Figlia d'arte, il padre Fiorenzo Fiorentini è stato attore e sceneggiatore per l'avanspettacolo, la tv e il cinema, Roberta Fiorentini per anni ha lavorato nel cinema partecipando a film come Io e lei di Mariasole Tognazzi, Un Matrimonio da Favola di Carlo Vanzina, Henry di Alessandro Piva e L'amico di famiglia di Paolo Sorrentino. Il successo però è arrivato grazie al ruolo della segretaria di edizione Itala con le sue battute in romanesco, sempre sospettosa che conosce il mestiere da tanti anni ma è attaccata alla poltrona non per la sua esperienza ma per tutte le sue conoscenze. L'ultimo ruolo è stato in Un Natale a 5 stelle, il cinepanettone dei Vanzina sotto il segno di Netflix.

Daniela Seclì per tv.fanpage.it il 24 ottobre 2019. Si è spenta oggi, giovedì 24 ottobre, l'attrice Roberta Fiorentini. Interpretava il personaggio di Itala nella serie televisiva Boris. Nata il 22 novembre 1948, aveva 71 anni. La pagina Facebook dedicata alla fiction, ha pubblicato un messaggio nel quale ha rivolto le condoglianze alla famiglia: "Con grande dispiacere vi annuncio che oggi è venuta a mancare Roberta Fiorentini. Le mie più sentite condoglianze alla famiglia". 

La carriera di Roberta Fiorentini. Figlia dell'attore e sceneggiatore Fiorenzo Fiorentini, Roberta ha iniziato ad appassionarsi alla recitazione già da giovanissima. Crescendo ha tenuto alto il nome del padre, fondando la Scuola di Teatro Popolare di Fiorenzo Fiorentini, di cui è stata docente per 12 anni. Nel 2007 è entrata a far parte del cast della serie televisiva ‘Boris' e ha preso parte anche a ‘Boris – Il film' uscito nel 2011. Tra le pellicole a cui ha lavorato anche ‘SMS – Sotto mentite spoglie' di Vincenzo Salemme, ‘Due vite per caso' di Alessandro Aronadio, ‘Un matrimonio da favola' di Carlo Vanzina e ‘Assolo' di Laura Morante.

Il personaggio di Itala in Boris. Uno dei personaggi che le hanno permesso di entrare nel cuore degli italiani, che in queste ore la stanno commemorando, è sicuramente Itala. Nella serie televisiva e nella pellicola ‘Boris – Il film', infatti, interpretava una segretaria di edizione raccomandata e non particolarmente amante del lavoro. Alessandro (interpretato da Alessandro Tiberi), ragazzo appassionato di spettacolo che riusciva a entrare come stagista dietro le quinte della produzione di una fiction, doveva scontrarsi con la sua irascibilità. Da quando è stata diffusa la notizia della morte di Roberta Fiorentini, si stanno moltiplicando i messaggi di affetto.

Una Brunella di Montalcino amante di Alan Sorrenti. Itala è stato uno dei personaggi di Boris più legati al folklore locale, non solo nazionale. Una Lella Fabrizi messa dietro le quinte invece che protagonista in scena, amante del vino, tanto da essere soprannominata Brunella di Montalcino, e delle raccomandazioni dell'amministratore delegato Romanelli. Indivisibile da René Ferretti durante le riprese, oziosa e assolutamente poco professionale, Itala è la raffigurazione di un'Italia sciatta e cialtrona, che la passa costantemente liscia perché protetta dal politico di turno, al quale ciclicamente presta i suoi favori di votante durante le elezioni. Famose le scene in cui uccide accidentalmente il pesce rosso di René, Boris appunto, dandogli da mangiare un pezzo di lardo di Colonnata; quella in cui confonde Paolo Sorrentino con Alan Sorrenti, "ma sembri un ragazzino? Il segreto qual è? nun magni a carne…"; o quella in cui si complimenta con lo stagista Alessandro perché "parla un sacco bene l'italiano", scambiandolo per un migrante, in una delle sue sbronze sul set. E se Glauco (Giorgio Tirabassi) la sprona a continuare bere vino e a farsi uno shampoo, senza sortire grandi effetti, il resto della troupe evita di andarle sotto, vista l'irascibilità che la contraddistingue. "Se non sai chi votà domenica, questa è na brava persona, c'ha un figlio disabile" così Itala introduce il piccolo tutorial per la cabina elettorale con il voto venduto al miglior offerente, consuetudine tutta italiana che le ha restituito ancora una volta un registro amaro, servito col sorriso, in una delle scene più iconiche di Boris.

·         E’ morto a settant' anni lo scrittore Nick Tosches.

Gian Paolo Serino per “il Giornale” il 23 ottobre 2019. Domenica sera è morto a settant' anni Nick Tosches, scrittore americano che negli Stati Uniti è un artista di culto per aver raccontato il dietro le quinte del mondo dell' alta finanza, del cinema, del rock svelandone i lati più oscuri. Nato a Newark, New York, nel 1949 da una famiglia di origini pugliesi, sin da giovane giornalista ha sempre voluto far comprendere come «le ancelle della cultura di massa e le muse dell' analfabetismo abbiano dato voce all' America». Per questo Nick Tosches ha sempre pubblicato romanzi d' inchiesta: la biografia dedicata all' inventore del rock' n'roll Jerry Lee Lewis, artista maledetto incapace di convivere con i dettami religiosi di una famiglia e di una nazione che lo ripudiò come un diavolo (per far posto a un più tranquillizzante giovane Elvis Presley). Oppure quella magnifica dedicata a Dean Martin, attore famoso per essere stato la spalla del comico Jerry Lewis e cantante di That' s Amore: si chiamava Dino Paul Crocetti e rappresentava il successo che chiunque può ottenere negli Stati Uniti. Nella realtà Dean Martin è stato «una delle più prodigiose macchine tragiche allestite dall' Era dello Spettacolo» perché dietro la maschera costruita dell' attore brillante si nascondeva un uomo tormentato da tragedie familiari (la morte di un figlio), matrimoni mandati a rotoli per colpa dell' alcol sino agli ultimi anni: ripudiato da tutti, persino dall' amico di sempre Frank Sinatra che non lo invitò neppure al suo compleanno. Lo stesso mondo che lo aveva creato lo distrusse sino a farlo morire in solitudine. Nella biografia Il diavolo e Sonny Liston, Tosches raccontò il campione del mondo di boxe, sfruttato e poi ridotto alla demenza dall' abuso di morfina. Nick Tosches ha sempre scritto libri capaci di mandare al tappeto le «icone americane» come quello, documentatissimo, sul finanziere faccendiere Michele Sindona, in un una storia che rivela i suoi rapporti «oscuri» con Enrico Cuccia, Papa Paolo VI, Giulio Andreotti, Licio Gelli, Richard Nixon, Gheddafi, sino alla morte misteriosa causata dal famoso «caffè avvelenato» somministratogli in carcere. O ancora l' indagine che tra le prime svelò l' esistenza della mafia cinese sino a La mano di Dante, rocambolesco romanzo alla Dan Brown opzionato da Johhny Depp per un film con la regia di Julian Schnabel e mai realizzato. Molti i suoi libri pubblicati in Italia ma con una dispersione editoriale (Alet, Longanesi, Mondadori) che lo ha relegato ad autore da noi relativamente sconosciuto.

Matteo Persivale per il “Corriere della sera”. il 23 ottobre 2019. «L' oscurità è un' alleata preziosa, ma finisce per divorare coloro che si servono di lei». Nessuno tra gli scrittori americani della nostra epoca ha conosciuto - e attraversato - l' oscurità più a lungo di Nick Tosches, scomparso l' altro giorno a 69 anni nella sua casa nel Greenwich Village a New York, il suo quartiere da mezzo secolo, da quando si era trasferito dal natìo New Jersey dei bar di terz' ordine frequentati da persone che gli insegnarono i rudimenti dei lati oscuri della vita. I lati oscuri sui quali indagò attraverso una carriera letteraria straordinaria e impossibile da definire. Tosches è stato un critico di musica rock - faceva a gara con gli altri due «Noise Boys», Lester Bangs e Richard Meltzer, a chi scriveva l' articolo più letto (e imitato). Ecco poi il libro sulla musica country e la biografia di Jerry Lee Lewis largamente considerata di riferimento ( Con me all' inferno. La vita straordinaria di un re del rock , volume pubblicato in Italia da Alet), un altro libro sugli «eroi sconosciuti del rock' n'roll». E poi il libro che nel 1986 gli cambia vita e carriera, Il mistero Sindona (edito in Italia prima da SugarCo in versione tagliata e poi da Alet integralmente). «Di Michele si diceva sedesse sul trono del male del mondo. Chi poteva intrigarmi di più?», spiegò anni dopo. Sindona è il simbolo di tutto quello che interessò a Tosches come scrittore: il mondo dell' oscurità indispensabile per quello visibile agli occhi del mondo, il riciclaggio come motore dell' economia e la duplicità come metodo. Da qui in poi Tosches comincia a scrivere romanzi: Le Triadi (Tea), e soprattutto La mano di Dante (Mondadori), il più riuscito. Uno scrittore autodidatta e esperto di letteratura classica e di Dante che si chiama «Nick Tosches» viene ingaggiato da un gangster per autenticare il manoscritto, rubato, della Divina Commedia. Tosches viaggia nel tempo e racconta Dante ragazzo, sdraiato sull' erba che immagina «nove cieli, non sfere celesti ma cieli della terra, cieli di nube e soffio d' aria», dà una spiegazione plausibile del misterioso motivo che portò un uomo freddo, pieno di astio, ossessionato dal ricordo di una donna che non era sua moglie, a scrivere la Commedia - era condannato a vedere Dio ovunque posasse lo sguardo, anche sulle vene della fronte della donna amata. Qui c' è il talento di Tosches allo stato più puro: la bellezza dello stile e l' erudizione letteraria e la conoscenza diretta del mondo della malavita, dei suoi rituali. Ne La mano di Dante attraversa registri diversissimi, gioca con il postmoderno (che disprezzava, ovviamente): perfino una delle rare stroncature, Oltreoceano, del romanzo, consigliava di leggerlo per il talento viscerale dell' autore capace di prendere alla gola il lettore. Un dono raro nel 2002, quando uscì, come lo è oggi. Tosches, malfermo nella salute a causa del diabete e dei segni di una vita vissuta a tutto volume, ebbe tempo per scrivere altre biografie di classe assoluta, raccontando la vita di Dean Martin in un libro lunghissimo con quasi 200 pagine di note e fonti bibliografiche ( Dino. Dean Martin e la sporca fabbrica dei sogni, Dalai): Tosches usa Martin per raccontare il lato oscuro dello show business, la storia di un uomo miracolosamente non cinico che sopravvisse a Hollywood. E poi Il diavolo e Sonny Liston (Mondadori) sul pugile che secondo l' autore morì in modo non accidentale, ucciso dai mafiosi che l'avevano convinto a truccare un match. Un saggio per intenditori, Where Dead Voices Gather sul cantante - dimenticato - Emmett Miller, un'altra biografia di gangster ( King of the Jews ), un romanzo scritto in extremis , negli anni della malattia, Sotto Tiberio (Mondadori), nel quale tornano i suoi temi - il Vaticano, la filologia, il giallo, il volto nascosto e osceno del potere. Quando morì il suo amico fraterno Hubert Selby jr, autore di Ultima fermata Brooklyn , Tosches scrisse su «Libération» che «i miei santi sono sempre venuti dall' inferno, e ora non ho più un santo da venerare». Non ci sarebbe nulla di male se qualcuno, tra i lettori famosi e non famosi che hanno amato libri di Tosches, oggi pensasse la stessa cosa.

·         E’ morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi.

(ANSA il 16 ottobre 2019) - E' morto a Roma, dopo lunga malattia, Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi e parlamentare.

BIOGRAFIA DI PAOLO BONAIUTI. Da cinquantamila.it, sito a cura di Giorgio Dell'Arti.

Firenze 7 luglio 1940. Politico. Del Pdl. Giornalista. Parlamentare dal 1996. Eletto senatore nel 2013, prima deputato (Forza Italia, Pdl). Portavoce di Silvio Berlusconi. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel Berlusconi II, III e IV.

«Ho avuto un’educazione severa. Se mangiavo con i gomiti larghi subito arrivava la sberla e a letto senza cena. Vengo da una famiglia con un nonno carabiniere, un padre ispettore generale di una delle più grandi banche del Paese, e un altro nonno amministratore del manicomio di Firenze» (a Barbara Romano).

Maturità classica conseguita al liceo Berchet di Milano dove «per sostenere la prova di ginnastica ho sbattuto su un gradino e mi sono incrinato un malleolo, va da sé che quell’esame non l’ho più sostenuto. La gamba però mi faceva così male che la sera stessa mi sono dovuto ingessare» [S24 20/6/2012].

Laurea in Giurisprudenza, deve la sua passione per il giornalismo al nonno materno «che era un grandissimo lettore di giornali e un vero socialista». Prima al Giorno poi al Messaggero «di cui è stato inviato, editorialista, vicedirettore fino al 1996, quando su un titolo di prima pagina non sapevano più che pesci prendere a tarda ora il direttore Mario Pendinelli lanciava un urlo: “Chiamate Paolino”. E il titolo arrivava dopo pochi minuti» (Paola Sacchi).

«Nato e cresciuto a sinistra, orgogliosamente socialista».

Fedelissimo di Berlusconi (lo conobbe nel 1994 per un’intervista, il Cavaliere lo chiama «mia suocera»): «Non è un rapporto di lavoro quello tra me e Berlusconi, ma di affetto. Io non ho più mio padre, né mia madre. Per me lui è un fratello maggiore. Io gli voglio bene. Se mi arrabbio, lo faccio con affetto, il nostro è un rapporto tra due familiari, di stima e di fiducia».

«È la reincarnazione dell’abate Dinouart, per difendere il suo Luigi XIV ha appreso l’arte del tacere fino a sublimarla, perché tacendo non rimane mai in silenzio e neppure mente, piuttosto omette, anzi parla d’altro. Colpisce di nascosto alle caviglie il Cavaliere per frenarne la verbosità» (Francesco Verderami).

Fu molto corteggiato dal Pdl fiorentino per una candidatura a sindaco nel 2009, lui rifiutò: «È noto a tutti l’interesse di Bonaiuti alle vicende politiche della sua città, in particolare da quando c’è in ballo la storia della tramvia che lo vede in prima linea nella battaglia contro i binari in piazza del Duomo» (Simona Poli).

«La vedo sempre in tv... finalmente la incontro di persona» (Benedetto XVI a Bonaiuti durante una visita in Vaticano).

Sposato con Margherita.

Da giovane ha giocato ai cavalli. «Fino ai miei 28 anni. Ma puntare soldi sui cavalli è praticamente un lavoro. Ho smesso» (Vittorio Zincone) [Magazine, ottobre 2007].

Appassionato di Dante: «È alla base della nostra lingua, del nostro essere italiani (…) Consiglierei di far diventare testo scolastico il bellissimo cd in cui il grande Carmelo Bene recita alcuni canti della Divina Commedia: una lezione altissima» [Radio24 11/8/2009].

Collezionista di lapidi e memorabilia garibaldine.

E' morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Berlusconi. Il Cav: "Piango l'amico, mi è mancato molto". La Repubblica il il 16 ottobre 2019. Fiorentino di origine, aveva 79 anni. E' stato anche parlamentare di Forza Italia e sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E' morto Paolo Bonaiuti, giornalista ed ex portavoce di Silvio Berlusconi. Originario di Firenze, 79 anni, Bonaiuti fece diverse esperienze giornalistiche arrivando sino alla vicedirezione del Messaggero prima di assumere l'incarico a fianco del fondatore di Forza Italia. E' stato anche parlamentare e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi Berlusconi II, III e IV. "Piango, con tutti i miei collaboratori, la scomparsa del senatore Paolo Bonaiuti. A lui, che era un giornalista di successo, chiesi di diventare il mio portavoce e di accompagnarmi nella mia esperienza alla Presidenza del consiglio, dove è stato a lungo un apprezzato Sottosegretario. E' stato un collaboratore particolarmente prezioso e soprattutto un grande amico col quale ho condiviso un lungo percorso. Mi è mancato molto in questi ultimi anni e mi mancherà a maggior ragione ora che è scomparso prematuramente". Così, in una nota, Silvio Berlusconi. "Lascia un grande vuoto - scrive ancora leader di Forza Italia - in tutte le persone che gli hanno voluto bene, a partire dalla moglie Daniela alla quale mi unisco con un forte ed affettuoso abbraccio". Bonaiuti era nato a Firenze il 7 luglio 1940. Laureato in Giurisprudenza, da giovane ha insegnato inglese e ha anche lavorato nella pubblicità come copywriter. Lunghissima la sua carriera come giornalista, prima al "Giorno", poi, dal 1984 al "Messaggero", dove arriverà alla vicedirezione nel 1992, prima di diventare lo storico portavoce di Silvio Berlusconi. Nel 1996 viene eletto parlamentare nelle file di Forza Italia per la prima volta: dopo 4 legislature consecutive alla Camera, nel 2013 entra al Senato. Il 21 aprile 2014 abbandona Forza Italia ed aderisce al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Il 18 marzo 2017, con lo scioglimento del Nuovo Centrodestra, confluisce in Alternativa Popolare. "Molto addolorato per la scomparsa di Paolo Bonaiuti, è stato un gentiluomo a Palazzo Chigi", scrive subito su Twitter Filippo Sensi. Oggi deputato del Pd, Sensi ha ricoperto lo stesso incarico di portavoce del premier nel governo Renzi e in quello Gentiloni.  "Sono addolorato per la scomparsa di Paolo Bonaiuti. Con lui abbiamo condiviso tante battaglie elettorali, di partito e di comunicazione. Ma soprattutto con lui abbiamo condiviso una storia politica ed umana e mi sento di dire anche una sincera amicizia. Ci mancherà'', commenta il deputato Maurizio Lupi. 

L’ultima risata di Paolo Bonaiuti. Dal profilo Facebook di Marco Molendini il 17 ottobre 2019. Se ne è andato un altro pezzo di vita al Messaggero, Paolo Bonaiuti, persona sensibile, giornalista intelligente, amico vero. Abbiamo passato giornate, anni a via del Tritone ridendo, lavorando, prendendoci in giro. Quando è arrivato Paolo faceva l’inviato, veniva da Milano e dal Giorno con un gruppo di colleghi di grande valore come Vittorio Emiliani, Sergio Turone. Era un gran Messaggero. Lavoravamo in settori diversi ma ci siamo subito intesi, per comuni interessi e sensibilità. A un certo punto Paolo è diventato vicedirettore, incarico che ha svolto con discrezione e attenzione. Dal Messaggero se ne è però andato in malo modo, non per colpa sua. Sono rimasto sorpreso quando ha cominciato a lavorare con Berlusconi, perché non immaginavo che si sarebbe trovato bene, lui abituato a fare la vita comoda del giornalista, sballottolato da una parte all’altra del mondo, chiamato a qualsiasi ora del giorno e delle notte. E non me lo sarei immaginato alle prese con le brutalità della politica. Non consideravo la suggestione, la fascinazione del vivere accanto al potere. Paolo lo ha fatto, però, con discrezione, a volte perfino troppa, non ha approfittato del suo ruolo, quando tutti lo cercavano e lo chiamavano. E se ne è andato in punta di piedi quando hanno pensato che non servisse più. So che ne ha sofferto, ma la sua discrezione, il suo spirito gentile, gli ha impedito di lamentarsi. Come durante la malattia. L’ho sentito qualche giorno fa, parlava con difficoltà, ma era affettuosissimo. Sono andato a vedere su whatsapp il suo ultimo messaggio: era una risata.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 17 ottobre 2019. Paolo Bonaiuti, che ieri se n' è andato, era una persona amabile e molto civile; e se non suonasse inopportuno in questa circostanza, e magari anche un po' pretestuoso rispetto a una vita piena e tutto sommato felice, si potrebbe aggiungere che questa sua rara e benigna civiltà risaliva dal suo essere, nel novero dei berlusconiani, il più originale e scanzonato e in fondo, paradossalmente ma fino a un certo punto, il meno berlusconiano. Bonaiuti, che pur essendo alto e grosso molti suoi ex colleghi chiamavano affettuosamente "Paolino", aveva 79 anni; era nato a Firenze e prima di entrare stabilmente nel giro stretto del Cavaliere, sottosegretario portavoce in almeno tre governi, aveva lavorato a lungo nei giornali, al Giorno e poi soprattutto al Messaggero , viaggiando molto in Italia e all' estero. Adesso conta poco che prima del 1994 avesse simpatie socialiste e che anche dopo nutrisse un certa diffidenza nei confronti dell' imprenditore della tv sceso in politica. Berlusconi è un seduttore implacabile e fulminante, e nel 2001, tornato al governo, gli serviva uno come Bonaiuti, e insomma: lo fece suo. Per un giornalista passare dall' altra parte non è mai facile, specie quando lo si fa acquistando di colpo influenza, prestigio, cariche e potere. Indimenticabile in questo senso l' espressione incredula di Paolino inseguito da un nugolo di cronisti fin dentro le "maioliche", che sarebbero i bagni di Montecitorio. Eppure si può pensare che la curiosità più di ogni altra virtù, lo abbia preservato dal divenire, come tanti di quella corte per tanti versi sciagurata, una specie di robot in permanente estasi idolatrica. Così, avvicinandolo, si capiva subito che certo il suo ruolo era importante, a volte decisivo, ma poi per fortuna nella vita e nel mondo c' era altro: la storia, la bellezza, i sentimenti, i mosaici, i viaggi nella città più a sud del pianeta, sullo stretto di Magellano, l' oste toscano che declamava la Divina commedia, la cremolata al pistacchio del cavalier Matranga... Che poi tutto questo i giornalisti della Rai e di Mediaset trasformassero in serviziucci e marchettine da tg per far contento l' uomo più vicino a Berlusconi è un' altra faccenda, ma che ci vuoi fare? Del resto, il Cavaliere se lo teneva a fianco perché pronto, disponibile, fedele, educato, di bell'aspetto e anche galante; ma non gli dispiaceva anche perché diverso: un po' dandy, ma premuroso, dopo tutto scettico. Ciò detto, nel periodo d' oro (2001-2008) Bonaiuti ha svolto dignitosamente il mestiere più difficile perché gestire la comunicazione del Comunicatore più ingestibile del mondo comportava una pazienza e una resistenza da santo laico. I giornalisti ricorderanno certamente gli ameni siparietti per cui «è la mia suocera» diceva Berlusconi, ma pure «il mio mentore», o anche «quasi quasi lo mando via e lo sostituisco con una bella donna...», ah-ah-ah! Ma il potere è in realtà una bestiaccia crudele e in tempi di visioni a distanza, e con un leader come nessun altro abituato ad assegnare le parti facendo sembrare tutti quelli attorno a lui come dei servi, beh, insomma tra corna, spropositi, chirurgie e malattie, adulazioni e approssimazioni, crisi internazionali e miserie domestiche, si può dire che Bonaiuti è riuscito a non annullarsi nel suo ruolo, nonostante tutto - e nel "nonostante" s' annida forse il miglior encomio. Intorno al 2010, quando fu chiaro che gli scandali sessuali non erano una bagattella, ma una torva faccenda che attirava telecamere dal Brasile alla Corea, cominciò a emergere un disagio, all' inizio clandestinamente, comunque da entrambe le parti: occhi al cielo, scatti di insofferenza. A Palazzo Grazioli, dove si compilava un superfluo Mattinale, s' insediò il cerchio magico: Dudù, Francesca Pascale, con tanto di recriminazioni su preziosissimi fagiolini. Sul piano politico, lo smottamento del berlusconismo. «Di questo passo - si limitò a rimare lui con lo spirito di un Maccari o Flaiano - andremo a Patrasso». La fine, come tutte le fini, fu triste: una mattina Bonaiuti trovò la stanza occupata da Toti e i suoi scatoloni nel cortile. Detta così stride, ma passò con Alfano. Stava già male. In realtà la vita era tornata a essere più importante del potere; ora che se n' è andata tutto diventa più chiaro, e anche più lieve.

Il Bonaiuti liberale e moderato tentò di convincere Silvio a rimanere se stesso. Con la scomparsa di Paolo Bonaiuti se ne va un pezzo della storia di Forza Italia. Sandro Bondi il 18 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Con la scomparsa di Paolo Bonaiuti se ne va un pezzo della storia di Forza Italia. Anzi, la sua vicenda personale e politica esemplifica meglio di altre il percorso del movimento fondato da Silvio Berlusconi. Il suo allontanamento da Forza Italia e dall’ex premier, cui era stato legato da oltre 18 anni di collaborazione, scaturì da problemi umani più che politici. La sua fedeltà a Berlusconi non sarebbe stata scalfita da fratture o contrasti di carattere politico. In fondo, Bonaiuti, come tanti altri, lasciò Forza Italia per aderire al movimento fondato da Angelino Alfano per restare fedele alla primigenia vocazione liberale e moderata di Forza Italia e, ancor di più, per "aiutare" Berlusconi a restare fedele a se stesso. Solo in seguito, la rottura umana nata da vicende di cui non rimarrà traccia nella grande storia ma in tante storie personali sì, divenne una rottura politica. Questo avvenne in occasione della formazione del governo Letta e successivamente di quello guidato da Renzi. Due scelte cruciali in cui si decise il futuro di Forza Italia e del nostro Paese. Da quel momento la storia di Forza Italia è segnata per sempre. Il socialista libertario e laico Bonaiuti, con la sua raffinata cultura e la sua garbata e graffiante ironia di giornalista, lo aveva capito subito. E gli rimase l’amarezza di non aver saputo convincere Berlusconi: per il suo bene.

Angelino Alfano e Silvio Berlusconi si rincontrano, l'abbraccio ai funerali di Paolo Bonaiuti. Libero Quotidiano il 18 Ottobre 2019. Nella triste occasione del funerale di Paolo Bonaiuti, Angelino Alfano ha rincontrato Silvio Berlusconi. "Mi fa piacere vederla ma mi dispiace che sia stato per questo avvenimento" ha riferito dopo l'abbraccio con il Cav. I funerali del braccio destro del leader di Forza Italia si sono tenuti alla chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza a Roma.

Vittorio Sgarbi sbrana Angelino Alfano: "Silvio, i traditori non si baciano". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. "Silvio, i traditori non si abbracciano". Questo il ferocissimo commento su Facebook di Vittorio Sgarbi al gesto di Silvio Berlusconi, che ai funerali di Paolo Bonaiuti ha abbracciato l'ex delfino Angelino Alfano, il quale ha lasciato la politica per tornare al mestiere di avvocato. Sgarbi si riferisce al noto tradimento dell'ex ministro che lasciò Forza Italia che l'aveva cullato politicamente. Sgarbi ha sempre odiato Alfano, questo va ricordato. Da Daria Bignardi, nel 2015, aveva detto che era il peggiore politico della storia. "Alfano mi fa schifo fisicamente, sembra Frankenstein!", aveva detto. In un'altra occasione lo aveva definito un ladrone. Insomma, una grandissima stima. 

Da corriere.it il 18 ottobre 2019. Si sono svolti nella chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza i funerali di Paolo Bonaiuti, lo storico portavoce di Silvio Berlusconi e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri in tre governi del Cavaliere. A scortare il feretro la moglie Daniela, i parenti e amici più stretti, e Silvio Berlusconi appena arrivato da Perugia, Il leader di FI s’è diretto verso Angelino Alfano, che ha salutato e abbracciato. Nell’edificio del Borromini, a un passo da palazzo Madama, tante le persone arrivate a dare l’ultimo saluto a uno dei personaggi simbolo del ventennio berlusconiano: Antonio Tajani, Angelino Alfano, Gianfranco Fini, Gianni Letta, Clemente Mimun, Denis Verdini. E poi ancora Paolo Gentiloni, Pierferdinando Casini, Maurizio Sacconi, Ugo Sposetti, Luigi Zanda, Lorenzo Cesa. «Mi fa piacere vederla, ma mi spiace che sia per questa occasione»: le parole rivolte da Angelino Alfano a Berlusconi (Ansa)

·         E’ morto Harold Bloom: il fustigatore delle mode letterarie.

Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” il 16 ottobre 2019. Per chi segue i sentieri e insegue i pensieri della letteratura occidentale è come se Dante avesse perso Virgilio, come se fossero rimorti Tom Wolfe o George Bernard Shaw, insomma qualcuno di cui ci mancherà sapere che cosa pensa. A 89 anni, lunedì 14 ottobre, è morto Harold Bloom, l' ultimo schiaffeggiatore della critica letteraria mondiale e per questo, in tempo di recensioni che sono poco più di risvolti di copertina, uno degli uomini più fuori moda del mondo. Adoratore di Sophia Loren («ne sono stato innamorato per un terzo di secolo», confessò), ha vissuto «bevendo, fumando sigari e trascurando l' esercizio fisico», non ha acceso un televisore fino a quarant' anni, ha odiato i litigi per tutti i giorni della sua vita perché, diceva, gli rubavano tempo alla lettura. Eppure Harold Bloom è anche colui che, come il poeta Orazio disse di sé molto prima di questo americano, ultimo di cinque figli, nato nel 1930 da una famiglia di ebrei ortodossi immigrati dalla Russia nell' Est Bronx di New York, ha realizzato un monumento più perenne del bronzo, Canone Occidentale: pubblicato nel 1994, il critico scalpellò per sempre i ventisei autori irrinunciabili (tra cui Dante, Chaucer, Cervantes, Montaigne, Molière, Goethe, Jane Austen, Whitman, Dickens, Tolstoj, Joyce, Proust, Ibsen, Freud, Virginia Woolf, Kafka, Borges) «accomunati solo dalla misteriosità, dalla capacità di far sentire il lettore un estraneo in casa sua», coloro che sono stati capaci di «aggiungere bizzarria alla bellezza», dalla Divina Commedia a Finale di partita" di Samuel Beckett. I canoni, definiti da un altro grande della critica letteraria, l' inglese Frank Kermode nel suo Forme d' attenzione (1985), come «strumenti di sopravvivenza dagli assalti del tempo», in questo tempo di contemporaneità istantanea e "instagrammabile", sono forse destinati a morire con lui? Chi altro avrà l'autorevolezza, la competenza, il tempo per nutrirli e conservarli? Harold Bloom se n' è andato in un ospedale di New Heaven, in Connecticut, il 10 ottobre aveva tenuto una lezione all' università di Yale. Nato bambino prodigio - imparò l' inglese da solo all' età di sei anni e si racconta che in un' ora riuscisse a ricordare un libro di quattrocento pagine - è vissuto (si laureò nel 1951 alla Cornell University, e i professori lo congedarono dicendogli che «non potevano insegnargli più nulla») ed è morto da prodigio. Aedo del Novecento, leggeva in greco, in ebraico, in latino, in inglese, in francese, in spagnolo, in tedesco, in portoghese, in italiano, ha pubblicato oltre venti volumi di saggi di critica letteraria tradotti in più di quaranta lingue, poteva ripetere tutto Shakespeare a memoria, il Paradiso Perduto di Milton, tutto William Blake, la Bibbia ebraica. Per quel canone di scrittori, lo accusarono si aver imposto «una egemonia culturale e politica». Lui rispose: «Il '68 ha distrutto l' estetica, introducendo una finta controcultura politically correct in base alla quale basta essere una esquimese lesbica per valere di più come scrittrice. Mentre il resto dei critici li buttava alle ortiche in quanto "elitari e non rappresentativi delle altre culture", io ho osato riesumare i cosiddetti "maschi europei bianchi defunti". Beccandomi l' accusa di razzismo, elitismo e sessismo. Ho osato sostenere che la grande letteratura non ci rende più altruisti o generosi». Recuperate l' intera intemerata, è un' intervista ad Alessandra Farkas, nell' ebook Cosa resta della letteratura. E così, come leggere non ci rende esseri umani migliori, gli scrittori non sono morali, tantomeno devono avere una vocazione politica: pretendere responsabilità politica dallo scrittore è come esigerla da un giocatore di baseball, diceva. Maltrattò la saga di Harry Potter, considerò un oltraggio l'assegnazione del National Book Award alla carriera a Stephen King. Le Clézio, Nobel nel 2008: «Illeggibile»; di Doris Lessing disse che aveva scritto «un solo libro decente quarant' anni fa»; il Nobel a Dario Fo: «Ridicolo»; David Foster Wallace: «Dotato ma la sua opera non arriva da nessuna parte»; Salinger, un giorno verrà dimenticato. I salvati? Tra i contemporanei Roth, Pynchon, DeLillo, McCarthy; tra gli italiani, oltre a Dante, Manzoni e Leopardi, Campana, Saba, Ungaretti, Svevo, Primo Levi; delle donne adorava Emily Dickinson: «Eccezion fatta per Shakespeare, la Dickinson dà prova di maggiore originalità cognitiva di ogni altro poeta occidentale dopo Dante». Suo «dio» (sic), appunto, era Shakespeare: «Chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario», perché «i suoi personaggi hanno dato forma alla percezione occidentale di ciò che è umano».

BLOOM, IL FUSTIGATORE DELLE MODE LETTERARIE. Marina Valensise per “il Messaggero” il 16 ottobre 2019. Ha continuato a insegnare fino alla fine il grande critico letterario americano, Harold Bloom. Ebreo russo di origine, professore emerito all'Università di Yale, autore di più di quaranta saggi molti dei quali cruciali, diceva di scrivere per il lettore ordinario, come aveva imparato dal suo maestro Samuel Johnson, vissuto tre secoli prima, che volle emulare tutta la vita, inseguendo anche lui «la vera critica, che aveva la funzione di trasformare opinioni in conoscenza». È morto vecchio e malato lunedì scorso a 89 anni. Fino all'ultimo riuniva i suoi studenti nella sua casa di Linden Street, per leggere insieme a loro l'Amleto di Shakespeare, autore che venerava («Non c'è Dio all'infuori di Dio e il suo nome è Shakespeare»), i versi del poeta Hart Crane, che aveva scoperto da bambino e considerava uno dei più grandi del mondo. Era un uomo dall'apparenza dolce e remissiva, ma in realtà irascibile e severo e molti l'amavano proprio per questo, per l'insofferenza epica nei confronti dei cretini, alfieri dei falsi miti del culturame contemporaneo, per l'odio aperto verso le pose alla moda come il neomarxismo, il neostoricismo, il femminismo, l'afrocentrismo, e tutti gli ismi che infestavano la purezza della letteratura, per non parlare del politicamente corretto, frutto bacato della contestazione: «Il 68 ha distrutto l'estetica con una finta cultura politically correct», dichiarò contro il trionfo dilagante della così detta Scuola del Risentimento, che anteponeva i valori ideologici ai valori estetici, allontanando i lettori dalla verità dell'arte e dall'assoluto della letteratura, che per essere tale doveva essere monda di messaggi ideologici. Era un cultore dei classici e da cultore esclusivo, intransigente e settario, considerava la cultura umanistica un valore irrinunciabile e una virtù da praticare con la stessa devozione di una religione. E infatti, figlio di un commerciante di stoffe fuggito da Odessa durante la rivoluzione bolscevica per approdare nell'East Bronx, era rimasto un ebreo ortodosso, cresciuto nella lingua e nella cultura yiddish, discepolo di Gerschom Scholem e di quell'antica eresia ebraica che è lo gnosticismo, tant'è che per tutta la vita ha continuato a riversare nella critica quella forma di intelligenza del bastian contrario, allenato sin da piccolo al contenzioso infinito col creatore. Anche per questo, in fondo era un critico senza pietà. Discettava con sicura perfidia di grandi e piccoli, annoverando fra i sommi Dante, («Alighieri è il più aggressivo e polemico dei grandi scrittori occidentali»), e Petrarca, e Shakespeare, «l'insuperabile», «lo scrittore degli scrittori»,, e Marlowe, e Chaucer e Milton, e fra i francesi Montaigne, Balzac, Stendhal, e fra i moderni Kafka e Proust, sino a includere nel suo empireo Philip Roth e Cormac McCarthy, che per il Meridiano di sangue s'avvicinava a Melville, e Thomas Pynchon e Don De Lillo, e persino il conservatore Michel Chabon. Intanto però si accaniva a bollare senza pietà certe star della narrativa contemporanea come Salinger («non resisterà»), David Forster Wallace («uno scrittore dotato, che però non va da nessuna parte») David Franzen (Liberty? una specie di sottoprodotto di Pynchon), Donna Tartt (mai sentita). E infilzava come insetti i maghi del mass market come J.K. Rowling, la mamma di Harry Potter, o Stephen King, indegno vincitore del National Book Award, per non parlare dei Premi Nobel comminati dai socialdemocratici svedesi a certi «idioti di quanti categoria», come il francese Patrice Modiano «uno scrittore che nessuno conosce», l'illeggibile Le Clézio, l'autrice di un unico libro decente come Doris Lessing, scivolata verso fantascienza femminista, una scrittrice indegna di tanti onori come Toni Morrisson, che pure era amica sua, per non citare il caso del nostro amato Dario Fo che ai suoi occhi era «semplicemente ridicolo». Dotato di una forma di ironia corrosiva che lo rendeva inviso ai seriosi e apprezzatissimo dagli spiritosi, coltivava il gusto del paradosso. Una volta ammise che l'unica persona che avrebbe voluto conoscere, e non aveva mai conosciuto, non era né Emily Dickinson, né Virgina Wolff, ma Sophia Loren... E un'altra volta dichiarò serissimo di considerarsi «un vero critico marxista», salvo specificare subito: «Più che di Karl, sono seguace di Groucho, però, e infatti il mio motto è quello suo. Qualunque cosa si dica, io sono contro'».

·         Come è morto Massimo Colonna, in arte Crash Kid?

DAGONOTA  il 16 ottobre 2019. Come è morto Massimo Colonna, in arte Crash Kid? Sulla sua fine, avvenuta il primo novembre 1997 a Milano, è scesa una densa cortina fumogena. In rete, ad esempio, non circola nessuna informazione a riguardo, né ufficiale né ufficiosa. La vox populi sostiene che a portarlo via sia stato un incidente avvenuto in metropolitana, dove l’artista stava realizzando dei graffiti. Ma le indiscrezioni raccolte da Dagospia svelano un’altra storia: Massimo Colonna si sarebbe suicidato. Per rispetto alla sua memoria, la comunità di writers e ballerini di hip hop romani crearono un muro di silenzio (e mistero) sulla sua morte, rimasto in piedi fino a oggi.

Maria Egizia Fiaschetti per il “la Lettura - Corriere della sera” il 16 ottobre 2019. Una rete sociale prima di internet. «Generatore di connessioni» nate dalla strada e lanciate dal passaparola. Sono trascorsi più di trent' anni da quando Crash Kid, ragazzino cresciuto nel quartiere Portuense a Roma, ribolliva di energia, scalpitando all' idea di spingere il proprio corpo oltre ogni limite, fino a conquistare un' aura mitologica dopo essersi esibito davanti a mostri sacri come Ice T e Afrika Bambaataa. Una gara dopo l'altra, si affermò come campione di headspin (virtuosismo atletico che consiste nel ruotare vorticosamente sulla testa) e animatore carismatico della scena, non solo italiana. Nell' underground e in televisione. Memorabile la performance a Fantastico, nel '90, condotto da Pippo Baudo e con la partecipazione di Jovanotti. Linguaggi d'oltreoceano reinterpretati con originalità e senso identitario, tra grandi raduni e concerti epici (Public Enemy, Run Dmc...). E, a dispetto di un'obsolescenza sempre più rapida e implacabile, la sua storia conserva la freschezza di una favola metropolitana. Va oltre il tributo, dunque, il ritratto corale intriso di nostalgia del volume “Crash Kid. A hip hop legacy”, in uscita il 18 ottobre (Drago editore) dedicato appunto a Massimo Colonna, vincitore nel' 95 della più importante competizione mondiale di breakdance, la Battle of the Year, scomparso nel '97 in un incidente a 26 anni. Autori del libro, nel quale la biografia si fonde col ritratto di una generazione, sono gli amici e compagni di strada Marcello «Napal» Saolini e Ben Samba Matundu: una sorta di operazione di restauro conservativo che mette insieme ricordi, storia del costume, estetica giovanile, neo-tribalismo. Testimone dei suoi esordi da ballerino Sebastiano Ruocco, in arte Ice One, 53 anni, che ha attraversato tutte le discipline dell'hip hop: graffiti, beatboxing (riproduzione di suoni attraverso l'uso della bocca e della voce), rime rap, acrobazie al ritmo dei beat sparati dal ghetto blaster , l'iconico registratore portatile dei videoclip o di cult movie come Fa' la cosa giusta di Spike Lee. Lo stesso utilizzato per allenarsi sul pavimento della Galleria Colonna, poi intitolata ad Alberto Sordi, in via del Corso, vicino a «Babilonia», leggendario negozio di abbigliamento eletto a punto di ritrovo. «Massimo - racconta Ice One a "la Lettura" - sapeva che a Ostia io e il mio gruppo, la Special Breaking Crew, ballavamo. Quando il padre me lo portò aveva 13 anni, era esile e non si muoveva ancora in modo fluido ma in poco tempo diventò un fuoriclasse». Tra le molte scorribande che ancora profumano di spirito adolescenziale ne sceglie una: «Eravamo sul bus e un signore lo prendeva in giro per il caschetto e le ginocchiere. Per provocarlo, gli disse: "Hai sbagliato linea, l' aeroporto dei paracadutisti è da un' altra parte". Per tutta risposta lui scese e si mise a ballare con uno stile così sorprendente da lasciarlo a bocca aperta. Massimo sapeva come trasformare la beffa in energia creativa». Napal, writer della prima ora, oggi quarantatreenne artista e illustratore, non voleva rassegnarsi all' idea che la mole di materiale raccolta da Crash Kid fosse andata perduta, fino al ritrovamento in una soffitta polverosa grazie alla sorella: «Dopo aver riscoperto l'archivio, tre anni fa, ho curato il restauro fotografico per pulire i negativi e scansionare le immagini: uno spaccato ricchissimo del periodo 1982-1997». Che cosa ha significato la vostra amicizia? «Quando abbiamo iniziato a fare graffiti io avevo 12 anni, lui 17. A volte non riuscivo a dipingere nella parte più alta del muro, lui mi prendeva sulle spalle e mi incoraggiava: "Su, finisci". Nel libro ho cercato di restituire quel clima, penso che mai come oggi l'arte debba tornare a parlare di sentimenti più che di like e visualizzazioni». Dj Baro (Colle der fomento), alias di Alessandro Tamburrini, ha come stampata nella retina l'istantanea del suo primo incontro con Crash Kid, nel febbraio dell' 89: «Mi colpì il modo di vestire: sneakers Puma, cappello Kangol e giacca di una squadra di football. L'abbigliamento tipico di artisti hip hop visto sulle copertine di qualche vinile che possedevo». Dalla curiosità all'amicizia, cementata dalla passione comune: «La sua voglia di trasmettere quello che scopriva in giro per il mondo coinvolgeva tutti. Era un tipo tosto, si allenava ogni giorno al punto di diventare uno dei migliori power mover di quel periodo». Se potesse rivivere uno dei momenti più intensi condivisi con Massimo sarebbe «la prima jam internazionale di breakdance come gruppo (i Ready to Fight) a Berna, in Svizzera, nella quale ho avuto la fortuna di essere al fianco di uno dei più forti del settore». L'editore, Paulo von Vacano, ha sposato il progetto per celebrare un movimento «che rappresenta un modello di società civile pionieristico, in cui le pulsioni negative della strada si trasformano in positive». Perché lo considera ancora attuale?

«Perché quei ragazzi sognavano di rafforzare la loro famiglia, il loro quartiere e molti sono ancora impegnati a costruire quel sogno. Per i nativi digitali sono l' esempio vincente, non utopistico, di chi continua a lottare per il diritto di vivere».

·         È morto Manuel Frattini, il divo italiano del musical.

È morto Manuel Frattini, il divo italiano del musical. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 da Corriere.it. È morto improvvisamente sabato sera a Milano Manuel Frattini, danzatore, cantante e attore teatrale, il divo italiano del musical. Frattini ha avuto un malore che gli ha provocato un arresto cardiaco irreversibile, nonostante i soccorsi tempestivi dei presenti e del personale medico chiamato immediatamente. L’artista si trovava a Milano per fare quello che più amava nella vita, il musical: aveva voluto essere presente, insieme ad altri performer, ad una serata di beneficenza. Era felice e circondato da tutti gli amici e colleghi più cari. Nato 54 anni fa a Corsico (a pochi chilometri da Milano), dopo aver mosso i primi passi come primo ballerino e coreografo in numerose produzioni Rai e Mediaset, Manuel Frattini iniziò a farsi notare nel 1991, quando venne chiamato dalla Compagnia della Rancia, diretta da Saverio Marconi, per interpretare il ruolo di Mike Costa nel musical «A Chorus Line». La consacrazione arrivò nel 1998 con «Sette spose per sette fratelli», nel quale interpretò, al fianco di Raffaele Paganini e Tosca, il ruolo di Gedeone. Tra i suoi lavori più celebri il musical-kolossal «Pinocchio», prodotto dalla Compagnia della Rancia, con la regia di Saverio Marconi e le musiche dei Pooh; «Peter Pan» con le musiche di Edoardo Bennato in una tournée che sfiorò 300 repliche sold out; quindi «Robin Hood», «Aladin» (con le musiche dei Pooh); «Priscilla» nel ruolo di Bernadette. Accanto alla sua attività di performer, Manuel Frattini si è dedicato all’insegnamento, tenendo corsi di perfezionamento e stage nelle più prestigiose Accademie italiane.

FIORELLO TWEET. Mi fece da coach per un tip tap che avrei dovuto fare in uno show. Un persona bellissima . Un grandissimo artista. Addio manuel. Maurizio Porro per il “Corriere della sera” il 14 Ottobre 2019. Sembra davvero un colpo di scena ed invece è vero: a soli 54 anni, Manuel Frattini, divo del musical, ballerino acrobata, coreografo ed anche cantante attore, è morto improvvisamente sabato a Milano per un aneurisma cardiaco nell' intervallo tra due repliche di uno spettacolo di beneficenza cui partecipava con molti altri colleghi. Era Italy Bares , prima edizione italiana di uno show in scena a Broadway da anni per sostenere la ricerca sull' Aids. Manuel aveva fatto la sua partecipazione, un breve cameo, poi era tornato in camerino quando un improvviso colpo al cuore lo ha abbattuto in pochi secondi. E niente è più straziante e ingiusto per un artista che morire dietro le quinte. Amici e colleghi sostengono che non aveva mai avuto allarmi né patologie ed era stato brillantemente in scena come sempre. Ora sono tutti sconvolti, anche perché, come tutti gli attori di musical, Frattini si sottoponeva quotidianamente ad allenamenti sportivi per tenersi in forma e chi lo vide in Cantando sotto la pioggia sa quanto fosse preparato. Nativo di Corsico, il 25 maggio 1965, Frattini era diventato in pochi anni una star del nostro musical, studiando danza classica e moderna, corsi di recitazione e dizione e in tv fu ballerino e coreografo in «La sai l' ultima?», «Fantastico», «Pronto è la Rai». Nel 91 abbandona il piccolo schermo e si dedica al teatro: fu lanciato da Saverio Marconi, che oggi lo piange, con la Compagnia della Rancia. Debutta in A chorus line nel 1990, nel gruppo di ragazzi in attesa dell' audizione nel musical capolavoro, Manuel interpretava Mark, il giovane che balla il tip tap e vuole imitare la sorella. La sua carriera corre e con Marconi mette a segno colpi grossi e di successo: in Cantando sotto la pioggia fa acrobazie nel ruolo di Cosmo Brown e non fa rimpiangere quelle del famoso film di Donald O' Connor, e in 7 spose per 7 fratelli è il tenero e giovane, Gedeone, a fianco di Paganini e Tosca. Dal 1999 per tre stagioni partecipa al musical omaggio su George Gershwin al fianco di Christian De Sica. La sua abilità era conquistare il pubblico con quel suo fisico tenero, piccolo di statura, adattissimo a indossare corpi e fantasie degli eroi delle favole. Sempre con Marconi interpreta infatti per molte stagioni, dal 2003 al 2006, Pinocchio , arrivando fino a New York e Seul, con le musiche dei Pooh, e ben 7 importanti premi vinti. E poi è Peter Pan con musiche di Bennato, Aladdin , Robin Hood e Cercasi Cenerentola , sempre con Marconi, e da ultimo era stato molto apprezzato nella nuova versione di Priscilla , che avrebbe dovuto riprendere a breve nel ruolo di una delle tre protagoniste. Nel maggio 2001 è la star di Musica maestro con regìa e coreografie di Fabrizio Angelini, che era da sempre il suo coreografo, cui segue La piccola bottega degli orrori , altro titolo leggendario della Rancia. Il suo regista di fiducia, Saverio Marconi, lo ricorda davvero come un pezzo unico, un talento eccezionale e versatile: «Aveva fatto con me un' audizione, era molto acrobatico, ballava, recitava, avevamo progetti. L' ho visto in Priscilla ed era eccezionale proprio come attore. Per me un pezzo di vita che se ne va, era unico, non uno dei tanti, con un fisico strano, piccolino. Era eccezionale, mai volgare». Aveva solo paura, dice Marconi, di restare imprigionato nel musical family, nei personaggi delle fiabe, mentre sapeva anche guardare in faccia la realtà: non a caso è morto nell' intervallo di uno show - un po' come ne Il boxeur e la ballerina di Stanley Donen - cui partecipava per difendere le cause dei diritti e della libertà. Danzando, esprimeva anche queste idee oltre che una forza atletica e ritmica per cui sembrava senza forza di gravità.

Manuel Frattini, l’amica Cristina D’Avena in lacrime: «È morto facendo la cosa che più amava al mondo». Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 da Corriere.it. «Sono sempre prontissimo per te Cri! Piuttosto mi libero». Non vedevano l’ora di ricominciare a lavorare insieme Manuel Frattini, scomparso improvvisamente domenica durante uno spettacolo per un arresto cardiaco, e Cristina D’Avena. Da poco lei gli aveva accennato a un progetto che aveva in cantiere e in cui lo voleva al suo fianco. Mentre ne parla, Cristina scoppia a piangere: «Volevo ritornare a cantare le mie canzoni coreografandole, come si faceva sul set di Bim Bum Bam. È sempre stato Manuel a guidarmi nei passi di danza e quindi non poteva essere che lui ad accompagnarmi in questa avventura. Era sempre pronto ad aiutarmi. Adesso sono in crisi e non so come farò». Avevano entrambi 24 anni quando si conobbero proprio sul set del programma icona di tutti i bambini degli anni 80. Cristina doveva ballare in scena con un ragazzino, «mi presentarono questo giovane ballerino-racconta- dicendomi che si sarebbe occupato delle mie coreografie. Era adorabile, insieme ci divertivamo tanto. Ridevamo sempre, dentro e fuori dal lavoro». Tra loro si instaurò una grande empatia che negli anni non è mai venuta meno. Sono quelle amicizie nate da ragazzi e che hanno una purezza diversa: «Era di una generosità unica. Se mi servivano dei ballerini per gli spettacoli ci pensava lui. Mi chiedeva sempre di essere presente ai suoi musical, ci teneva davvero. Ovviamente non ci vedevamo tutti i giorni, io a Bologna e lui a Milano non era possibile. Ma la nostra era un’amicizia vera. Era un artista meraviglioso». La notizia l’ha avuta dal web e ha sperato fino all’ultimo che si trattasse di una bufala. Proprio domenica Cristina era in concerto a Linate dove ha chiesto ai presenti di dedicare un applauso al suo amico Manuel, «è stato molto bello, anche grazie alle luci suggestive dell’aeroporto. Ho cercato in tutti i modi di trattenere le lacrime, per fortuna il mio pubblico se ne è accorto e ha iniziato ad applaudire prima che mi lasciassi travolgere dall’emozione». È morto poco prima di entrare in scena Frattini, un malore lo ha colto provocandogli un arresto cardiaco da cui non si è più salvato. «Se n’è andato facendo la cosa che più amava al mondo, per lui il musical era tutto. Attorno aveva i suoi amici più cari e i colleghi. È una cosa terribile e bella al tempo stesso. Sono certa che gli angeli lo abbiano accolto indicandogli tutto l’amore che lo stava circondando».

·         Morto Paco Fabrini. Fu il «figlio» di Tomas Milian.

Roma, Paco Fabrini morto in scooter. Fu il «figlio» di Tomas Milian. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Aveva 46 anni ed è stato travolto da un’auto a Ronciglione (Viterbo) Recitò in alcuni film della saga del commissario Girardi, «er monnezza». Dopo essere stato travolto da un’auto mentre rincasava in scooter sabato notte vicino Ronciglione (Viterbo), Paco Fabrini, il «figlio» Rocky del commissario Nico Giraldi, meglio noto come «er monnezza», interpretato da Tomas Milian in una fortunata serie di film poliziotteschi, era stato trasportato in gravi condizioni all’ospedale di Civita Castellana. Ma l’attore romano di 46 anni è purtroppo deceduto poco dopo. Sul caso indagano i carabinieri che hanno svolto i rilievi dell’incidente. Fabrini era sposato ed era padre di due ragazzi. Da tempo si era trasferito nel comune del viterbese dove seguiva la sua passione per la cucina. Da bambino aveva recitato anche come figlio in scena di Milian in «Manolesta», prima ancora in «Squadra antigangster», e ancora in «Delitto sull’autostrada», «Delitto in Formula Uno» e «Delitto al Blue Gay». Ma incidenti stradali gravi sono avvenuti purtroppo anche a Roma. Nella notte di sabato un ragazzo di 22 anni è deceduto dopo essere uscito di strada con la sua Smart, forse a causa di un colpo di sonno. La tragedia poco dopo le 5 in via Casilina, all’altezza della Borghesiana. Inutili anche in questo caso i soccorsi.

Marco Giusti per Dagospia il 13 ottobre 2019. Paco Fabrini, più noto nel mondo del cinema come Rocky Giraldi, il "figlio" del Monnezza in una serie di film con Tomas Milian, ha perso la vita in un brutto incidente a Ronciglione. Paco,  figlio della costumista dei film di Milian Sandra Cardini, era nato e cresciuto sul set e è stato sempre considerato da Tomas come un secondo figlio. Fa il suo esordio a soli 5 anni in Delitto sull'autostrada nel ruolo del piccolo Rocky, vestito come il padre con i riccioli sotto al berretto. Lo troviamo anche in Manolesta, sempre come figlio di Milian, anche se non sono Rocky e Nico. Poi nei superclassici diretti da Bruno Corbucci, Delitto al Blue Gay e Delitto in Formula Uno. Film che tutti i fan conoscono bene. Anche quando finì la grande stagione del Monnezza e Tomas decise di vivere a Miami, Paco Fabrini rimase in contatto con lui e fece spesso da tramite per chi lo volesse incontrare e intervistare. Per Stracult giro' anche dei video a Miami con Tomas. Smise col cinema quando Tomas ritornò in America, si fece una famiglia e andò a vivere a Ronciglione, vicino a Roma. Tornando dal lavoro sul motorino è stato investito nella notte da un pirata della strada che non si è nemmeno fermato a soccorrerlo e si è costituito solo stamane. Paco aveva 46 anni. 

·         Morto il poeta John Giorno, voce sperimentale della Beat Generation.

Da repubblica.it il 13 ottobre 2019. Il leggendario poeta statunitense John Giorno, figlio di emigrati italiani della provincia di Matera, è morto a New York, all'età di 82 anni, dopo una lunga battaglia contro un tumore. Figlio della Beat Generation, era considerato il mostro sacro della Performance Poetry portando lo Spoken Word (la parola parlata) ad alta forma d'arte, l'autore che con i suoi scritti, le sue incisioni e i suoi spettacoli dal vivo ha cambiato il modo in cui il mondo vede la poesia. L'annuncio della scomparsa, che risale a venerdì scorso, è stato dato da ArtNews, che cita come fonte le gallerie d'arte Almine Rech e Sperone Westwater, che rappresentavano l'artista. Performer di notevole impatto sul pubblico per la sua presenza scenica e le sue qualità vocali, ardito sperimentalista della poesia sonora, e storico attivista delle battaglie contro l'Aids, John Giorno è stato amico e amante del re della Pop Art, Andy Warhol e dello scrittore Beat William Burroughs. La sua storia lo vede in stretta collaborazione con artisti e poeti di diverse generazioni con cui ha condiviso opere e progetti: da Robert Rauschenberg a Jasper Johns, da Keith Hearing a Brion Gysin, da John Cage a Robert Mapplethorpe, oltre all'esperienza poetica Beat, condivisa con autori come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso e naturalmente Burroughs, con cui ha realizzato centinaia di performance e condiviso un edificio situato al numero 222 della Bowery a New York fino al 1997, anno della sua morte alla quale assistette. È suo il corpo nudo e addormentato in Sleep, il primo 'antifilm' girato da Warhol nel 1963, ripreso nel sonno per oltre cinque ore, che celebra di fatto la nascita performativa del poeta della Pop Art. Alla prima del film a New York nel 1964 erano presenti in sala nove persone e due lasciarono la sala dopo la prima ora. Poeta dalle parole dissacranti e ruvide ma dal suono dolce e tagliente, John Giorno è stato uno dei primi artisti a sperimentare il reading, le letture ad alta voce nei luoghi più inconsueti. Celebri i suoi poem paintings, frasi espresse in forma d'arte tra le quali "Life is a killer", "I Want To Cum In Your Heart", "Eating The Sky", "Filling What Is Empty, Emptying What Is Full", "Inside delusion / everything is delusion / including wisdom",. Nel 1968 il poeta fonda il Giorno Poetry System Institute, centro per veicolare l'arte della poesia al pubblico attraverso nuove forme di espressione. Nel 1969 dal MoMa di New York fa partire il progetto Dial-A-Poem che permetteva, digitando un numero di telefono, di ascoltare cinque minuti di poesia all'apparecchio. Con la fondazione Giorno Poetry Systems introduce definitivamente l'uso della tecnologia nella poesia, lavorando con materiali elettronici e mulitmedia, creando nuovi luoghi d'incontro e facendo così conoscere la poesia a un nuovo pubblico. Con il libro You Got To Burn To Shine (1994, tradotto in italiano con il titolo Per risplendere devi bruciare, City Lights Italia, 1997), John Giorno offre i dettagli delle sue intime memorie personali, includendo (fra l'altro) la storia della sua relazione con Warhol, del suo anonimo incontro sessuale con Keith Haring (John e Keith rimangono poi buoni amici) e raccontando i suoi pensieri sulla morte nell'età dell'Aids, dal punto di vista del suo credo religioso di buddista tibetano. L'Aids Treatment Project, fondato nel 1984, è il modo in cui John Giorno ha cercato di combattere con compassione la catastrofe epidemica dell'Aids. Lo scopo è stato quello di fornire sostegno economico per le situazioni di emergenza: alloggi, telefono, assistenza, cibo, medicinali, tasse e qualsiasi altra necessità. Nel 1971 ha girato il film September on Jessore Road al quale prese parte Allen Ginsberg. Nel 1982 ha lavorato nel film di Ron Mann Poetry in motion. Nel 2007 è stato il protagonista di Nine Poems in Basilicata, film di Antonello Faretta incentrato sulla sua performance e sulle sue poesie e girato nella regione di origine della sua famiglia, la Basilicata. Poeta giramondo, John Giorno è stato spesso in Italia: nel settembre del 1994 ha partecipato alla rassegna che la città di Cesena ha dedicato alla Beat Generation e ha partecipato a Napolipoesia 1999, Parole di Mare (2000) e Il cammino delle comete (2002). Nato a New York il 4 dicembre 1936, la sua famiglia materna, i Panvino, proveniva da Aliano (noto per essere il luogo d'ambientazione del libro Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi) e da Tursi, comuni in provincia di Matera. Il 9 ottobre 2013 il consiglio comunale di Tursi gli ha conferito la cittadinanza onoraria e Aliano gli ha dedicato un museo. Giorno Poetry Systems è stata anche un'etichetta discografica, con la quale John Giorno ha pubblicato su vinile l'intera avanguardia poetica americana e i maggiori sperimentatori, tra i quali Laurie Anderson, Glenn Branca, Patti Smith, Richard Hell, Frank Zappa, Arto Lindsay, Lydia Lunch. Ha girato anche il film No Accident di Michael Negroponte (1996) e nel 2011 l'ultimo video musicale dei R.E.M. Autore di numerosi libri di poesia, in Italia sono stati pubblicati i volumi La saggezza delle streghe (2006), a cura di Domenico Brancale e Jonny Costantino, da Stampa Alternativa, e John Giorno in Florence, 1983-1998 (Recorthings, 2012).

Morto il poeta John Giorno, voce sperimentale della Beat Generation. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 su Corriere.it da Edoardo Sassi. Di origini italiane, l’artista fu un esponente della Beat Generation. Nel 1968 fondò il «Giorno Poetry Systems Institute» sulla comunicazione tra poeti e pubblico. È scomparso a New York all’età di 82 anni il poeta e artista John Giorno, tra i più importanti lirici americani, performer, e protagonista della Beat Generation. Muovendosi a cavallo tra scrittura e linguaggio dell’arte, Giorno è stato anche uno dei primi artisti a sperimentare il reading, le letture ad alta voce in luoghi inconsueti. Nato il 4 dicembre 1936 a New York, Giorno aveva origini italiane: la sua famiglia materna, i Panvino, proveniva da Aliano (città protagonista di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che a Giorno ha dedicato un museo) e da Tursi (di cui il poeta era cittadino onorario), comuni in provincia di Matera. Artista innovativo, dagli anni Sessanta inizia a lavorare con testi e immagini provenienti dai media, imitando in letteratura quello che la Pop Art stava facendo con la pittura. In questi anni frequenta artisti provenienti da quel mondo, come Bob Rauschenberg, Jasper Johns e Andy Warhol, per il quale gira il video Sleep (1963), in cui appare mentre dorme nudo per sei ore. Nel 1968 fonda il «Giorno Poetry Systems», una struttura destinata a promuovere lo sviluppo della comunicazione tra poeti e pubblico attraverso nuove forme di espressione e con cui realizza testi per dischi, video, radio e a cui partecipano numerosi artisti, come Burroughs, John Ashbery e il fotografo Robert Mapplethorpe. Il Poetry System diventa anche un’etichetta discografica con cui Giorno pubblica su vinile l’avanguardia poetica americana, con nomi che vanno da Laurie Anderson, Glenn Branca, Patti Smith e Frank Zappa. Con questa fondazione introduce la tecnologia nella poesia, lavorando con materiali elettronici e multimediali. Per esempio, nel 1969 dal Moma di New York fa partire il progetto Dial-A-Poem: digitando un numero di telefono si potevano ascoltare 5 minuti di poesia. Nel 1971 gira il film September of Jessor Road, che coinvolge anche Allen Ginsberg; nel 1996 No Accident di Michael Negroponte e nel 2007 è protagonista di Nine Poems in Basilicata, film di Antonello Faretta. Nel 2011 gira l’ultimo video musicale dei Rem. Autore di numerosi libri di poesia, tra i titolo usciti in italiano: La saggezza delle streghe (2006), a cura di Domenico Brancale e Jonny Costantino (Stampa Alternativa) e John Giorno in Florence, 1983-1998 (Recorthings, 2012). Con Per risplendere devi bruciare (City Lights Italia, 1997) racconta le sue memorie, dalle relazioni con artisti come Warhol e Keith Haring (il suo storico compagno è stato l’artista Ugo Rondinone), al suo pensiero religioso, il buddismo tibetano. La copertina de «la Lettura» #380 del 10 marzo 2019Nel 1984 fonda L’Aids Treatment Project per fornire sostegno economico ai malati in situazioni di emergenza. Giorno ha pubblicato versi di poesie su supporti più diversi, dalle scatole di fiammiferi alle tavolette di cioccolata e ha esposto i suoi versi sui quadri. Per «la Lettura» #380 del 10 marzo 2019 ha realizzato la copertina «God is man made».

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 14 ottobre 2019. A chi gli chiedeva come fosse entrato nella vita di Andy Warhol, John Giorno - morto venerdì a New York all' età di 82 anni - rispondeva che s' erano incontrati a una mostra collettiva nel 1963. All' epoca il figlio degli immigrati italiani originari della Basilicata aveva ventisei anni ed era sicuramente un uomo molto bello. Nel dettagliare quell' incontro Giorno aggiungeva che dopo tre giorni era andato a trovare Andy alla sua prima personale, quella dove esponeva le lattine con la zuppa Campbell, ed erano diventati subito amici. In realtà John è l' amante del giovane talentuoso artista, che sta conquistando New York. In confronto all' astemio Warhol, John si distingue subito per essere un bevitore abituale, e così gli capita di smaltire la sbornia a letto dormendo. Perciò, rispondendo alle telefonate di Warhol che gli chiede: «Cosa fai adesso?», Giorno dichiara: «Dormo ». I due fanno viaggi insieme per gli Usa mentre Andy sta diventando sempre più famoso. Un giorno nel Connecticut, mentre se ne stanno a letto insieme, Andy è sotto l' effetto delle anfetamine, di cui fa uso. Quando John si sveglia lo vede che lo fissa. La cosa va avanti così per un po', racconta Giorno, e da quella strana situazione nasce l' idea di Sleep, il primo film di Warhol: John dorme mentre la macchina da presa lo riprende per cinque ore. Fissa il suo viso e anche il petto, che è quello di un uomo meravigliosamente desiderabile. John intanto è entrato nella Factory di Warhol, fondata nel 1962, e lo aiuta a fare le serigrafie con cui l' amico accumula il primo milione di dollari. Da movie-star a collaboratore, cosa che poi genererà una storia di falsi mai chiarita. La relazione va avanti con alti e bassi, ma intanto John è nel giro della New York artistica. La Pop Art decolla e insieme a lei la nuova poesia nella versione incarnata da Allen Ginsberg. Giorno scrive anche lui testi e comincia a partecipare a reading. Le sue sono performance fondate sulla voce. Incide un album con le sue poesie, il primo di una serie. L' elemento vocale diventa immediatamente lo stigma della sua attività. Dial-A-Poem, realizzato nella sua forma più spettacolare al Moma nel 1969, diviene il progetto per chiamare un numero telefonico da qualsiasi luogo degli Stati Uniti e sentire una poesia nella cornetta. Nel periodo in cui John ha frequentato Warhol ha imparato da lui la sublime arte della riproduzione, e insieme il valore che ha il telefono; non a caso proprio al telefono Andy detterà i suoi diari alla segretaria. Poi nella vita di Giorno entra un altro profeta della nuova generazione: William Burroughs. Arriva nel 1964 a New York, insieme a Brion Gysin, e John diventa subito loro amico. Vivono insieme, perché per John Giorno vita, sesso e arte sono sempre andate a sommarsi in una mescolanza di fatti ed eventi che è difficile distinguere tra loro. Con Burroughs fa numerosi spettacoli e reading pubblici. Una collaborazione che continua per almeno tre decenni, dove sono molte le cose che John prende da William, e probabilmente anche il contrario, per quanto nel caso dell' autore di Pasto nudo, non è facile segnare l' influenza dell' uno sull' altro e viceversa. Per un lungo periodo Giorno, che è a suo modo originale, cammina nella strada dell' arte affiancato a un artista che gli è mentore, e che per vari motivi gli getta un' ombra. La sua invenzione, se così si può dire, visto che non era il primo, è la "spoken word". Memore delle esperienze della avanguardia newyorkese lavora con la voce: parte da un testo e lo trasforma in suono, ne fa una musica. Il corpo è stato per lui un elemento fondamentale, non solo perché molto bello e solare nelle sue forme - si vedano le sue fotografie a torso nudo già anziano - , ma perché l' ha usato come elemento scenico, oltre che indubitabile strumento di seduzione. Dial-A-Poem è un perfetto esempio della sua sensualità, che ha sempre manifestato nella vita come nell' arte. In questo la sua origine italiana ha giocato un qualche ruolo, difficile da definire, e tuttavia c' è. A un certo punto della sua esperienza, che ha anche comportato la diffusione di testi dalla radio di Hanoi durante la guerra nel Vietnam, ha incontrato all' inizio degli anni Settanta, come altri poeti americani, l' Oriente e il buddismo, una religione che non ha mai abbandonato. Negli anni Ottanta incontra Keith Haring, di cui diventa, lui cinquantenne, l' amante, nel clima della promiscuità sessuale della Grande Mela. L' arrivo dell' Aids lo vede coinvolto come protagonista in associazioni a favore dei malati. Giorno non ha mai nascosto la sua identità gay e neppure di aver fatto ampio consumo di droghe, tra cui l' Lsd. Tornato nel 2013 in Italia, per visitare la terra d' origine dei suoi genitori, a Tursi e Aliano, ha partecipato a spettacoli e performance. Ultimo segno di una vitalità che Warhol e gli altri amici avevano perfettamente compreso e ammirato.

CONVERSAZIONE CON JOHN GIORNO. Massimo Marino - doppiozero.com. Scandisce con voce dagli echi profondi l’anziano poeta che è stato amico e amante di Andy Warhol e di William Burroughs, e sembra un mantra: “deluded inside delusion inside delusion, inside delusion, / everything is delusion / including wisdom”, tutto è illusione, perfino la saggezza. A settantasette anni John Giorno conserva un fisico roccioso, una voce senza tentennamenti, un volto che sembra scolpito nella pietra di una pieve di campagna. A Prato, al Festival Contemporanea, è ospite dei Kinkaleri, una compagnia che ha portato la danza oltre tutti i limiti. Someone In Hell Loves You inizia con una vitale coreografia che poi scopriamo essere un alfabeto realizzato con movimenti del corpo; continua con un’intervista a John Giorno, intorno a uno scheletro, con una spiegazione del codice gestuale; si conclude con il poeta, uno dei primi a sperimentare il reading, che dà corpo, fiato, voce alle proprie parole scritte. La danza diventa alfabeto e si smarrisce, di nuovo, nei ghirigori ipnotici del movimento; la parola si trasforma in altra presenza materica, densa, in inquietudine, in esperienza. Questo di Kinkaleri è il più recente atto di un progetto, All!, che ha esplorato musiche, architetture, poesie, con un particolare interesse per la cultura underground americana. E ora che ne abbiamo davanti questo esponente illustre e sudato (siamo alla fine della prova, prima dello spettacolo serale), anche noi proviamo a ricostruire frammenti di quella storia.

Come è diventato poeta John Giorno?

“A scuola. Ho iniziato a scrivere a quattordici anni. Uno dei compiti era: scrivi una poesia a casa. Fu uno shock. Da allora non ho più smesso. Era circa il 1950”.

Hai fatto altri lavori, prima di decidere di dedicarti totalmente alla poesia?

“Poca roba. Ho deciso di fare il poeta e l’ho fatto”.

Un momento fondamentale della tua biografia è l’incontro con Andy Warhol.

“Lo conobbi una prima volta in una mostra collettiva, nel 1963. Tre giorni dopo tornai a trovarlo alla sua prima personale, quella con le lattine Campbell, e da allora siamo diventati amici e lo siamo rimasti per anni”.

Dopo sei stato l’interprete del primo film di Warhol, Sleep.

“In quel periodo bevevo molto e dormivo anche molto. Ogni volta che Andy mi chiamava e mi chiedeva: cosa stai facendo? io rispondevo: sto dormendo. Nel 63 eravamo nel Connecticut insieme, dormivamo insieme: io dormivo, Andy era sotto anfetamina; quando mi sono svegliato l’ho trovato che mi stava guardando. Mi osservò a lungo: ogni volta che mi svegliavo lo vedevo con gli occhi su di me… Così gli è venuta l’idea di questo film su me che dormo per alcune ore, e io sono diventato il primo soggetto da filmare. Effettivamente allora io volevo fare cinema, e lui mi ha chiesto: vuoi diventare la mia movie-star? E io gli ho risposto: oh yes!”.

È vero che alla prima proiezione c’erano nove spettatori e due sono andati via?

“Sì, la gente entrava e usciva: è un film che dura più di cinque ore e quindi c’era questo movimento continuo”.

Hai mai pensato di scrivere un libro su Andy Warhol?

“Sto scrivendo un libro di memorie dove parlerò ampiamente di Warhol, ma non ho ancora pubblicato niente su di lui, se non qualche ricordo in altri volumi, come Per risplendere devi bruciare (Giunti, 2005)”.

Sei stato molto vicino alla Pop Art, non solo a Warhol, ma anche a Rauschenberg e a altri protagonisti di quel movimento. Cosa ha significato per te e per la tua poesia?

“In quel periodo c’era Allen Ginsberg, che era rivoluzionario perché già scriveva certe cose, però era ancora  molto lirico,  conservatore nella scrittura: lavorava dentro argini tradizionali. Dall’altro lato c’erano gli artisti pop che stavano rivoluzionando tutto, facevano piazza pulita di tutto il passato. Loro mi hanno dato il coraggio di cominciare a modificare il rapporto con la poesia. Non mi sono mai rifatto alla tradizione: vedendo come loro utilizzavano la contemporaneità, ho iniziato anch’io a fare cose simili”.

In che cosa consiste questa rivoluzione poetica?

“Negli anni sessanta ho iniziato l’attività di un’associazione no-profit, John Giorno Poetry Sistem. La prima cosa che ho fatto, attraverso l’associazione, è stata organizzare in Central Park, in uno spazio dove normalmente facevano dei concerti, nove giorni di reading di poeti che potevano dire, fare, mostrare in tutte le forme che volevano i loro lavori. Poeti che lavoravano sulla performance, con loro stessi e la loro voce. Successivamente ho inciso un album con le mie poesie sperimentali, legate molto al suono. E dopo è partita l’idea di Dial-A-Poem”.

Cos’è Dial-A-Poem?

“È stata la prima idea di divulgazione della poesia con uno dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, il telefono. Prima la poesia si leggeva, in un rapporto uno a uno; il reading ha creato un altro tipo di rapporto, raggiungeva più gente. Con Dial-A-Poem qualsiasi persona, da qualsiasi parte degli Stati Uniti, poteva chiamare e sentire una poesia al telefono”.

In quegli anni ti avvicinasti molto a William Burroughs…

“Lui è arrivato a New York nel 1964 e insieme a Bryan Gysin siamo diventati molto amici. . Abbiamo vissuto insieme. Lui cucinava. Io facevo la spesa. Ci alternavamo nel lavare i piatti. Lui amava le pistole, io non ho mai capito come si spara. Abbiamo fatto performance e reading insieme”.

Che cosa vi siete scambiati, nell’amicizia e nella poesia?

“Quando passi trent’anni al fianco di qualcuno non riesci a dire: ho preso questo, ho dato quello… Sei sempre insieme alla sua mente, e quindi è un continuo scambio, che non si può quantificare. È uno stare sempre in mezzo alle cose insieme, e condividerle”.

Dire la poesia, trasformare la parola scritta in “spoken word”, che cambiamento comporta nel poeta?

“Io lavoro continuamente con la voce. Comincio a scrivere i versi e poi inizio a dirli e attraverso il suono che questi versi producono inizio a strutturare la poesia, comincio a lavorare nel suo ritmo, che non è solo la forma scritta ma anche quella sonora. A un certo momento comincio a provarla, ogni giorno, per mesi, e chiaramente scopro lentamente la qualità musicale di questo brano nel corpo, come succede ai danzatori. Quando sento che è chiusa, diventa il testo definitivo”.

La performance modifica anche la forma finale scritta, quindi?

“La poesia ha a che fare con la saggezza e nel dirla può succedere che provando un ritmo si possono modificare le parole, che sulla carta sono uscite in una certa maniera. Nel ritmo trovi quella variante minima che ti consente di avere uno scarto anche nella parte scritta”.

In certi tuoi versi prima enunci una frase, poi la spezzi, la spezzi diversamente, la ricomponi… È un frutto di questo continuo confronto con l’oralità?

“Questi procedimenti appartengono al passato, ora non faccio più quel tipo di sperimentazione. Ogni poesia, ogni periodo ha la sua ricerca”.

Cosa stai sperimentando ora?

“Ogni cosa che faccio è una sperimentazione. Io scopro le cose facendole”.

E cosa succede a lavorare con danzatori, come stai facendo con Kinkaleri?

“È come un episodio che si può sviluppare insieme. Entrambi lavoriamo con il respiro, con l’idea della struttura, quindi è mettere in parallelo due mondi che si incontrano sulla scena”.

È importante il respiro?

“Io non ho una tecnica, come quella del cantante per esempio. Perciò ho dovuto sempre imparare da solo: ho trovato molte cose semplicemente facendole”.

Entrano nel tuo modo di affrontare il respiro le pratiche della meditazione buddhista?

“Ho sviluppato una tecnica che spinge il respiro dall’alto al basso e viceversa, creando una sorta di nucleo centrale che produce calore e fa uscire tutta l’energia. Questo, io che sono diventato buddhista tibetano negli anni settanta, l’ho ritrovato in una pratica tradizionale e ho scoperto che andavo in quella direzione. C’è una pittura con monaco nudo in mezzo alla neve che emette dall’interno il calore che lo riscalda”.

Da un certo punto in poi ti sei molto impegnato nelle associazioni di assistenza e aiuto ai malati di Aids.

“Negli anni ottanta, quando è arrivata l’Aids, ho visto tanta gente morire. Una catastrofe, che ha coinvolto tanti amici. Ero così abbattuto che ho pensato che dovevo fare qualcosa, che dovevo aiutare gli altri. Mi ricordavo che nell’età dell’oro della promiscuità sessuale nella New York di un certo periodo, quando incontravi qualcuno non ti ponevi minimamente il problema se fosse malato o meno. Lo vedevi e, se ti piaceva, andavi con lui. A un certo momento avrei voluto trattare questi malati, tutti così evidentemente malati, perché diventavano vecchi, invecchiavano precocemente, avrei voluto trattarli come avrei fatto con una qualsiasi persona incontrata negli anni d’oro, quando c’era solo l’idea di condivisione e di promiscuità”.

In quale relazione è la poesia con la tua identità gay? Ti ha aiutato a liberarti, a uscire allo scoperto, a superare i pregiudizi sociali, in anni in cui non era facile essere omosessuale?

“Ho accettato la mia identità, per lavorare nella poesia. Penso che quello che sono mi abbia aiutato a essere poeta, e quello che ho scritto, non intenzionalmente, ha contribuito ad aiutare qualcuno. Ho dato forza all’identità di altri”.

Sulle droghe?

“A un certo punto della vita per me sono state molto importanti. Non solo la marijuana ma anche l’Lsd e droghe psichedeliche, quelle che ti permettono di trovare altri stati. Aiutano a conoscere la propria mente. Aiutano. Molti artisti ne facevano uso. On The Road di Kerouac non sarebbe stato scritto così, di getto, senza staccare per giorni, senza le anfetamine”.

Il famoso allargare gli stati della coscienza?

“Esattamente questo. Serve ad andare avanti nel conoscere quello che fa parte di te”.

Dove eri l’11 settembre del 2001?

“Nella mia casa a New York. Appena sono crollate le torri gemelle, sono salito sul tetto e ho visto un ammasso di polveri e detriti. Da buddhista ho meditato: è stato un momento molto potente, perché ho sentito nell’aria migliaia di persone morte. Era l’ora di pranzo, e la città era deserta, silenziosa”. (Questa domanda-risposta la prendo in prestito dallo spettacolo, ndr.)

Che cosa è rimasto oggi in America e nel mondo della rivoluzione della Beat Generation e della Pop Art?

“Beat Generation è una sigla che esiste solo in Italia. Comunque, quei due movimenti hanno cambiato il mondo, ma sono cose di cinquant’anni fa. Sono entrate nella cultura, nel corpo, nel Dna e ognuno ne è pieno. Il mondo ha metabolizzato l’Underground e la Pop Art, e ne è stato cambiato. Tutti siamo intrisi di quello che hanno scoperto quei movimenti artistici”.

Oggi cosa ricerca John Giorno?

“Continuo a lavorare. Mi trovo in mezzo alle cose, e cerco di comprenderle”.

Qualche anno, fa sei tornato in Basilicata, la terra dei tuoi genitori. In che modo senti queste radici?

“Domani parto per la Puglia e la Basilicata. La mia famiglia viene da Tursi e Aliano, posti che amo. A Tursi c’è una vecchia chiesa che conserva le ossa delle varie famiglie come fosse un ‘minestrone’, perché sono tutte mischiate. I teschi sono stati rubati e sono rimaste solo quelle ossa anonime del corpo che sono femori, tibie, peroni… Sono probabilmente tutti cugini, perché le famiglie hanno continuato a sposarsi tra cugini: sento quelle ossa come miei parenti. Le adoro. Hanno avuto un finanziamento per fare qualcosa con questo ossario. Loro, i parenti viventi, sono nel panico. Io gli ho consigliato di lasciare tutto com’è, perché loro, i morti, sono felici di stare così, tutti insieme…”.

Ne approfitto per chiedere qualcosa sul rapporto con la morte, che risalta, forte, in molte tue poesie.

“Io sono buddhista. Lavoro con l’idea della morte da molti, molti anni nella mia pratica. Per allenare la mente al momento del trapasso. Questo è il mio rapporto con la morte”.

Eserciti la mente alla morte anche attraverso le poesie?

“Proprio così. Solo la morte mi farà smettere di scrivere”.

·         Se ne va Esmeralda Barros: “la mulata più famosa del pianeta”.

Marco Giusti per Dagospia il 12 ottobre 2019. Il cinema di genere internazionale perde un’altra stella. Se ne va Esmeralda Barros, 75 anni,  definita negli anni ’60 “la mulata più famosa del pianeta”, prorompente attrice e ballerina brasiliana molto attiva anche in Italia negli anni ’60 e ’70. La ricordiamo protagonista di Eva, la venere selvaggia di Roberto Mauri, una sorta di Tarzan al femminile dove viene allevata dalle scimmie e se la vede col cacciatore Brad Harris. Ma anche in strange movies capolavoro come Il plenilunio delle vergini di Luigi Batzella assieme a Mark Damon e Rosalba Neri, nel delirante Le porno detenute di Paolo Galante e Luiz Castellini, supertrashate brasiliane come Ben dotato e O castelo do taras. Per non parlare di una decina di western dove ha fatto ogni tipo di ruolo. Nella Roma di allora fece perdere la testa a parecchi uomini. Già fidanzata di Maurizio Arena, nel 1969 finì all’ospedale per un tentativo di suicidio per amore di un altro fusto brasiliano. Playboy Brasil le dedicò una copertina e un numero nel luglio del 1976. Da anni aveva smesso col cinema, viveva tranquilla a Rio e faceva la nonna. Grande bellezza nera, nata come Esmerlinda Barros a Ilhéus, a Bahia, nel 1945, dopo essere stata infermiera capo a Rio, viene scoperta da Carlos Machado, re delle notti di Rio, e lanciata sia come ballerina sia come regina di bellezza, anzi “rainha do café”. Vince il concorso di Regina del Verao, ma per quello di Miss Renascença 1964 arriva seconda, dietro un’altra celebre mulatta, Vera Lucia Couto Santos, che diventerà poi Miss Guanabara, vice-Miss Brasil e terza Miss Beleza Internacional. Anni dopo Vera Lucia ricorderà che Esmeralda “aveva un'enorme presenza, un bel corpo e un ottimo effetto da palcoscenico perché aveva lavorato in spettacoli, ecc. Ma ho finito per vincere io. (..) Perché Esmeralda era entrata nella fase di quelle che dicono "ho già vinto", "sono davvero bravo ...", "non c’è nessun altro", e il pubblico lo ha notato questo, e anche la giuria”. La rivalità fra le due ragazze le rese molto popolari. Alla fine degli anni’60 la troviamo in piccoli ruoli al cinema sia in produzioni brasiliane, come Historia de um crapula di Jece Valadao, che italiane girate in Brasile, come Se tutte le donne del mondo di Henry Levin, una specie di 007 all’italiana dove sfilano tutte le belle ragazze messe sotto contratto da Dino De Laurentiis, da Marilù Tolo a Nicoletta Machiavelli. O come Duello nel mondo di Luigi Scattini, un altro 007. Ma la troviamo anche nel film a episodi As cariocas con Norma Benguell, nello storico Cristo De Lima. Durante la lavorazione di un film italiano in Brasile, un tipo della produzione assieme alla moglie le dicono che lei è proprio il tipo di donna che gli europei amano vedere sullo schermo. La invitano in Italia. Non ci pensa due volte. Vende la sua auto, si compra il biglietto e arriva a Roma, in cerca di fortuna, senza conoscere una parola di italiano. Fa un bel po’ di porta a porta con produttori e agenzie accettando qualsiasi cosa. Ma lamentandosi delle sguaiate attenzioni di produttori e registi, che “ …approfittano della posizione per rendere noi donne una specie di mercato ... Preferiscono il sesso." Poteva far di più ma non le andò male. Visto che di lì a poco venne lanciata come protagonista da Dick Randall, figure chiave dell’exploitation internazionale del tempo come protagonista di Eva, la venere selvaggia diretto da Roberto Mauri, il suo film più folle, noto come uno dei Tarzan più assurdi di ogni tempo. In un’intervista del 1969 per il “Correio de Manha”, Esmeralda sostiene che rispetto a Rio,  “Roma è un affare. Sono decisa a abitare là. A Roma ho tutto: fama, soldo e il lavoro per realizzarmi, cose che sfortunatamente non mi è capitata nel mio paese. Qui molta gente mi ha dato le opportunità. In Brasile la cosa è diversa”. A quel tempo ha una bella casa a Casal Palocco, e un fidanzato famoso come Maurizio Arena. In Italia gira una serie di piccoli spaghetti western come Chiedi perdono a Dio, non a me di Vincenzo Musolino con Giorgio Ardisson, W Django con Anthony Steffen, che è in realtà il brasiliano Manuel De Teffé, ma anche in produzioni maggiori come Corri, uomo, corri e E per tetto un cielo di stelle.  Contemporaneamente in Brasile la troviamo nel più che interessante Viagem ao fim do mundo di Fernando Coni Campos con Joel Barcelos, O homen nu, O homen e sua jaula. Da noi diventa una delle attrici preferite di Luigi Batzella, curioso regista sardo che si firma spesso Paolo Solvay. Con lui gira da protagonista femminile Anche per Django le carogne hanno un prezzo, Quelle sporche anime dannate, La colt era il suo Dio, oltre all’horror erotico Il plenilunio delle vergini. Con Barbara Bouchet e Femi Benussi è anche tra le protagoniste dell’erotico Finalmente le mille e una notte diretta da Antonio Margheriti. Nella stagione del porno la troviamo in Nelly con Willeke van Ammelroy, e in Le porno detenute di Paolo Galante e Luiz Castellini, che dovrebbe segnare non solo il suo ritorno in Brasile, ma anche la grande stagione del porno carcerario di “Boca do Lixo”, il cinema di genere brasiliano più scatenato. Il film venne funestato da una serie di scontri sul set. Il regista ufficiale, Castellini, buttò via la sceneggiatura per fare di testa sua, al punto che il produttore, Paolo Galante, lo cacciò chiamando al suo posto Osvaldo de Oliveira. Anche la protagonista ufficiale, Nicole Puzzi, venne mandata a casa, e una sconosciuta, Patricia Scalvi, prese il suo posto. Ma il film fu un successo, figurando tra i primi dieci incassi brasiliani del 1977 e dando vita a un genere. Esmeralda girerà da allora film solo in Brasile, commedie e avventurosi, Ben dotato con Nuno Leal Maia, Elas sao do baralho, O caçador de Esmeraldos, fino a O castelo das taras di Julius Belveder, che dovrebbe essere il suo ultimo film nel 1982. 

·         È morto Robert Forster, l'attore di Jackie Brown di Tarantino.

È morto Robert Forster, l'attore di Jackie Brown di Tarantino. Aveva 78 anni. Ha recitato in "Mulholland Drive" e "Breaking Bad". Di sé aveva detto: "La mia carriera è stata di 5 anni di successi e 25 di insuccessi". Simona Santoni il 12 ottobre 2019 su Panorama. Robert Forster, attore statunitense nominato all'Oscar nel 1998 per la sua interpretazione nel film Jackie Brown di Quentin Tarantino, è morto venerdì 11 ottobre all'età di 78 anni, nella sua casa di Los Angeles. A ucciderlo un cancro al cervello. Nato a Rochester, New York, figlio di un allevatore di elefanti da circo, Robert Forster aveva abbracciato la recitazione quasi per caso. Mentre si preparava a laurearsi in Storia nel 1964, un'amica - poi diventata sua moglie e madre dei suoi quattro figli - lo spinse a parteciparte al casting di Bye Bye Birdie: ottenne il ruolo. È iniziata da lì una carriera d'attore dalla lenta ascesa e con non pochi momenti di oscurità. Dopo aver partecipato alla produzione di Broadway Mrs. Dally Has a Lover nel 1965, nel 1967 ha recitato in Riflessi in un occhio d'oro di John Huston accanto a Elizabeth Taylor e Marlon Brando. Poi eccolo in diversi film come Il boss è morto di Richard Fleischer (1971), The Lady in Red di Lewis Teague (1979) e in alcune serie televisive come Nakia (1974). All'inizio degli anni '80 Robert Forster ha accumulato quasi un centinaio di B-movie e film d'azione. Dopo un passaggio a vuoto, Quentin Tarantino gli ha rivoltato la carriera. Nel 1992 Forster ha superato il casting per Le Iene ma alla fine non ebbe il ruolo. Quentin però gli promise di non dimentercarsi di lui e cinque anni dopo lo scelse per essere Max Cherry nel film Jackie Brown, ruolo che avrebbe voluto anche un certo Robert De Niro ma che Tarantino preservò per Forster. Come garante di cauzioni, accanto alla hostess interpretata da Pam Grier, Robert Forster si guadagna una nomination all'Oscar come migliore attore non protagonista. Quell'anno però, in quella categoria ebbe la meglio Robin Williams in Will Hunting di Gus Van Sant. "Vedo molte somiglianze tra me e Max Cherry", aveva detto Forster. "È un uomo che ha lottato per anni per rimanere onesto in un lavoro non propriamente cattolico. Arriva a una certa età e si rende conto che questo non durerà per sempre e che non andrà mai molto più in alto". Lo stesso Gus Van Sant poi volle Robert Forster per il suo successivo film Psycho (1998), remake del classico di Hitchcock. Abbiamo visto Forster anche in Human Nature di Michel Gondry (2001), Mulholland Drive di David Lynch (2001), Paradiso amaro (2011) di Alexander Payne e nella serie tv cult Breaking Bad. Recentemente ha preso parte a Attacco al potere - Olympus Has Fallen (2013) e Attacco al potere 2 (2016). In un'intervista a IndieWire del 2011 aveva dichiarato: "Non ho grandi cose che mi impediscano di essere modesto. La mia carriera è stata di cinque anni di successi e di venticinque di insuccessi".

Morto Robert Forster, fu candidato all’Oscar per «Jackie Brown». Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 da Corriere.it. Robert Forster, attore con oltre cento film all’attivo, candidato all’Oscar per il ruolo di Max Cherry in «Jackie Brown» di Quentin Tarantino, è morto venerdì 11 ottobre nella sua casa di Los Angeles. Lo ha confermato il suo agente a The Hollywood Reporter. Forster aveva 78 anni e aveva un cancro al cervello: lascia quattro figli e l’attuale compagna, Denise Grayson. Moltissime le condoglianze sui social media. Bryan Cranston ha scritto su Twitter che Forster era un «uomo adorabile e un attore consumato». I due si sono incontrati sul set del film «Alligator» del 1980 e hanno lavorato di nuovo insieme in «Breaking Bad» e nello spin-off della serie di culto, «El Camino: il film di Breaking Bad», lanciato venerdì su Netflix. «Non ho mai dimenticato quanto fosse gentile e generoso con un ragazzetto che aveva appena iniziato a Hollywood», ha scritto Cranston. Il co-protagonista di «Jackie Brown», Samuel L. Jackson, ha twittato invece che era «davvero un attore di gran classe !!». Nato a Rochester, New York, Forster si era letteralmente imbattuto nella recitazione quando era al college, dove studiava per diventare un avvocato: seguì una studentessa con cui stava cercando di parlare in un auditorium dove si tenevano le audizioni per «Ciao, ciao Birdie». Finì che venne scritturato per il musical e che June Provenzano, la compagna di studi, divenne sua moglie (dalla quale ha avuto tre figlie). Un ruolo fortuito nella produzione di Broadway del 1965 «Mrs. Dally Has a Lover» lo mise sul radar del produttore Darryl Zanuck, che gli fece firmare un contratto. Di lì a poco fece il suo debutto cinematografico nel film di John Huston del 1967 «Riflessi in un occhio d’oro», con Marlon Brando ed Elizabeth Taylor. Lavorò con il regista Haskell Wexler in «America, America, dove vai?» e nella serie televisiva poliziesca «Banyon», e negli anni ‘70 e ‘80 in b-movie per lo più dimenticabili. «Avevo quattro figli, prendevo qualsiasi lavoro capitasse — ricordò l’anno scorso in una intervista —. Ogni volta che scendevo un po’ più in basso cercavo di sopportarlo, ma la volta dopo sivolavo sempre un po’ più in giù. Verso la fine non avevo nessun agente, nessun dirigente, nessun avvocato, niente di niente». Fu il film di Quentin Tarantino del 1997 «Jackie Brown» a rimetterlo in carreggiata. Il regista dichiarò di aver creato il ruolo di Max Cherry proprio pensando a Forster. La performance al fianco di Pam Grier è diventata una delle storie di ritorno a Hollywood più toccanti, che valse a Forster la sua prima e unica nomination all’Oscar. Alla fine avrebbe perso la statuetta d’oro contro Robin Williams, che vinse quell’anno con «Will Hunting - Genio ribelle». Da allora, Forster ha preso parte a film come «Mulholland Drive» di David Lynch, «Io, me & Irene» con Jim Carrey, «Paradiso amaro» con George Clooney e «Attacco al potere» con Gerard Butler, e in programmi televisivi come «Breaking Bad» e il revival di «Twin Peaks».

Marco Giusti per Dagospia il 12 ottobre 2019. Se ne va un’altra icona del cinema tarantiniano e non solo. Robert Forster, 78 anni, il Max Cherry protagonista assieme a Pam Grier di Jackie Brown, ma anche lo sceriffo Frank Truman di Twin Peaks e il detective McNight di Mulholland Drive di David Lynch, ma è famoso anche per il suo ruolo misterioso in Breaking Bad. Un duro appesantito dagli anni, con una grande vena di tristezza nello sguardo. Tarantino gli aveva cucito addosso il personaggio di Max Cherry, il perdente che riuscirà a cambiare il corso della sua vita. Del resto, anche nella realtà, Forster, nato a nel 1941 Rochester, New York, figlio di un ammaestratore di elefanti del circo Ringling, aveva avuto molti alti e bassi, pur essendo stato lanciato come una star negli anni ’70. Il suo esordio è addirittura sotto la regia di John Huston in Riflessi in un occhio d’oro. E’ l’oggetto del desiderio del contorto maggiore Pendleton di Marlon Brando, che se innamora vedendolo cavalcare nudo all’alba. Una scena che volle fare lui stesso, anche se non era mai andato a cavallo. Giovane, bello, aitante, con una buona esperienza teatrale, lo troviamo subito dopo accanto a Gregory Peck nel western The Stalking Moon di Robert Mulligan, a Dirk Bogarde in Justine di George Cukor, nel bellissimo noir Il boss è morto di Richard Fleischer, in Cover Me Babe di Noel Black, fino al ruolo da protagonista nel primo film da regista di Haskell Wexler, Medium Cool, un manifesto del nuovo cinema americano anni ’70. Non ebbe però la fortuna dei Dustin Hoffman e dei Jon Voight, fece qualche film sbagliato, come il fantascientifico della Disney The Black Hole, finendo presto in produzioni di serie B, come Alligator di Lewis Teague, Vigilante di Wiliam Lustig, Maniac Cop, addirittura Delta Force di Menahem Golan. Un percorso che lo portò molto in basso. "Sono rimasto senza lavoro per 21 mesi”, disse in un’intervista dell’anno scorso. “Avevo quattro figli, ho preso qualsiasi lavoro che potessi ottenere.. La mia carriera è andata così per cinque anni e poi così per 27. Ogni volta che ha raggiunto un livello inferiore pensavo di poter tollerarlo, intanto cadevo un po’ di più, e poi un po' di più. Verso la fine non avevo nessun agente, nessun manager, nessun avvocato, niente di niente. Stavo prendendo tutto ciò che è caduto nelle fessure." E’ a quel punto che lo incontra Quentin Tarantino, suo fan fin da ragazzino. Sia dei film buoni che dei suoi tanti telefilm come Nakia e Banyon, e dei film di serie B. Lo avrebbe già voluto nel 1992 nel ruolo di Joe Cabot per Le iene. Un ruolo che andò a Lawrence Tierney. Ma pensa a lui per Jackie Brown. "Erano passati anni e l'ho incontrato in un bar. A quel punto la mia carriera era davvero morta. Abbiamo parlottato per alcuni minuti, e poi sei mesi dopo si è presentato nello stesso bar con una sceneggiatura in mano e me l'ha consegnata. Quando l'ho letto, non riuscivo a credere che mi avesse in mente per me Max Cherry, tranne per il fatto che nient'altro aveva senso. Quindi quando gli ho chiesto a questo proposito, ha detto:" Sì, è Max Cherry che ho scritto per te. ' Fu allora che gli dissi: "Sono sicuro che non ti lasceranno la libertà di prendermi". Disse: "Prendo chiunque io voglia". E fu allora che mi resi conto che avrei avuto un'altra possibilità in una carriera ". Da allora, infatti, la carriera di Robert Forster è totalmente rinata. Non solo grazie a Tarantino, ma anche a David Lynch, che lo adorava, ma anche a Breaking Bad. Il suo ultimo ruolo è infatti legato a Breaking Bad nel film-sequel della serie che sta uscendo, El camino. 

·         Si è spento l’attore Carlo Croccolo da Totò. Ha lavorato accanto Totò ed Eduardo De Filippo.

Rita Celi per la Repubblica il 12 ottobre 2019. "Questa mattina, alle prime luci dell’alba, si è spento il maestro Carlo Croccolo": un breve post su Facebook annuncia la scomparsa dell'attore napoletano. Aveva 92 anni. "Ha vissuto una vita straordinaria come straordinario è stato il suo talento" prosegue il breve messaggio. Croccolo ha lavorato nel cinema sin dagli anni Cinquanta accanto ai più grandi comici italiani, da Totò a Eduardo De Filippo, in oltre cento film. Ha vinto un David di Donatello nel 1989 per la sua interpretazione di 'O re, il film storico di Luigi Magni. È stato anche il padre della sposa in Tre uomini e una gamba (1997) con Aldo, Giovanni e Giacomo. I funerali si terranno a Napoli domenica 13 ottobre alle 16 presso la Chiesa San Ferdinando. Nella sua lunghissima carriera Croccolo ha lavorato soprattutto nel cinema . A teatro è stato diretto da Giorgio Strehler in La grande magia di Eduardo De Filippo e ha recitato nelle commedie di Garinei e Giovannini Rinaldo in campo nell'edizione del 1987 con Massimo Ranieri e Aggiungi un posto a tavola con Johnny Dorelli nel ruolo del sindaco nell'edizione del 1990. Ha partecipato anche a sceneggiati televisivi e fiction, tra cui Capri nel ruolo del pescatore Totonno. È stato anche doppiatore prestando la sua voce a Oliver Hardy (prendendo il posto di Alberto Sordi) negli anni 50 e 60, arrivando anche a doppiare entrambi i personaggi di Stanlio e Ollio. A partire dal 1957 ha dato la voce anche a Totò, unico doppiatore autorizzato dall'attore. Tra i suoi leggendari racconti si ricordano le scottanti rivelazioni fatte una decina di anni fa quando, a 81 anni, rivelò di aver avuto una breve relazione con Marilyn Monroe. "Sì, purtroppo è vero. Marilyn Monroe e io abbiamo avuto una storia d'amore. È durata soltanto tre mesi ma io ero pazzamente innamorato di lei. Solo che stare con lei era un inferno e io, alla fine sono fuggito" aveva detto in un'intervista a Tv Sorrisi e canzoni. "Ho conosciuto Norma (il vero nome di Marilyn era Norma Jean Baker) nel periodo peggiore della sua vita: sarebbe morta circa un anno dopo, nel 1962" ha raccontato ancora l'attore. "L'ho incontrata a una festa a Los Angeles, attraverso Sammy Davis e l'entourage del presidente John Fitzgerald Kennedy. Io me ne stavo in disparte finché non ho visto lei. Abbiamo iniziato a parlare e poi... E' cominciata così, come cominciano tante storie". Croccolo ha vissuto con la moglie Daniela Cenciotti per oltre 25 anni a Castel Volturno e due anni fa, per i suoi 90 anni, il sindaco del comune del litorale casertano gli ha consegnato le chiavi della città con la dedica "A Carlo Croccolo, per i suoi  90 anni di passione tra teatro e cinema". Un'occasione in cui l'attore ha ricordato la sua lunga carriera: "Li ho pagati a caro prezzo i miei 90 anni di attore. I miei anni dati al cinema e al teatro sono stati di passione sì, ma come Gesù Cristo, perché non ho avuto molti riconoscimenti e quelli che ho avuti, me li hanno fatti pagare tantissimo".

Marco Giusti per Dagospia il 12 ottobre 2019. Non si è mai fatto mancare proprio nulla nel mondo dello spettacolo Carlo Croccolo, che si è spento dopo una lunga vita piena di successi. Più di cento film come attore assieme a Totò, ma anche assieme a Eduardo, a Peppino, diretto da registi come Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, Giorgio Bianchi, Dino Risi, non si sa quanti come doppiatore, addirittura voce ufficiale di Totò, capace di doppiare nella stessa comica Stanlio e Ollio, una carriera americana in film internazionali, come Una Rolls-Royce tutta gialla o Caccia alla volpe, un David di Donatello per ‘O re di Luigi Magni, infiniti programmi e sceneggiati tv, ma anche due regie di spaghetti western con falso nome, Lucky Moore, altre regie di misteriosi hard (avete capito bene, hard) girati in America agli inizi del genere, una storia addirittura con Marilyn Monroe (lo diceva lui, certo… però…). Tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, quando esordì nel cinema, si dice con I cadetti di Guascogna, ma non ne sarei così sicuro (Il conte di Sant’Elmo?), non c’era film comico che non lo volesse. Fu il soldato Pinotto, zoticone del nord interpretato da un napoletano di pelo rosso, irresistibile per il pubblico di allora, ma soprattutto fu cameriere di fiducia di Totò in capolavori come 47 morto che parla e Totò lascia o raddoppia?,e poi a suo fianco in Miseria e nobiltà, Signori si nasce, Totò Tarzan, Totò sceicco. Capace di interpretare qualsiasi ruolo, non solo di napoletano, attenzione, era anche capace di duettare con qualsiasi attore. E nella stagione delle coproduzioni e della Hollywood sul Tevere, era uno dei nostri pochi caratteristi in grado di recitare con i grandi attori americani anche in inglese. O di finire in film western assurdi in giro per l’Europa. Non aveva, ahimé, nemmeno da giovane, un fisico da protagonista. Sempre un po’ tracagnotto, goffo. E quando Sergio Citti gli cucì addosso il ruolo di fidanzatino attempato in Casotto dove deve pure apparire nudo, fu una sorpresa clamorosa. Come lo fu nella serie tv Capri nel ruolo di Totonno, uno dei pochi in grado di duettare con Isa Danieli. Ma, del resto, Carlo Croccolo, in tutta la sua carriera, non ci deluse mai, nemmeno negli ultimi film, con apparizioni sempre divertenti tra un Vincenzo Salemme, Cose da pazzi, e un Aldo, Giovanni e Giacomo, Tre uomini e una gamba, dove dimostrò di saper far ridere e di incutere spavento al tempo stesso. Con lui se ne va anche l’ultima memoria storica di Totò, la sua ombra, l’unico in grado di sapere rifare la sua voce alla perfezione, come dimostrò non solo nei tanti film dove il Principe, cieco, non poteva doppiarsi da solo nelle scene di esterni, ma anche in produzioni tv come Un uomo da ridere di Lucio Fulci, dove è un Totò protettore di Franco Franchi. Ma anche l’unico a ricordarsi perfettamente certe lavorazioni complesse dei film di Totò, e a supplire, come dimostrò al Festival di Venezia di una quindicina d’anni fa chiamato per il “ridoppiaggio” dal vero delle tante scene censurate di Totò e Carolina, della mancanza di audio originale e di lista dialoghi. Croccolo ci fece sentire il film come se fosse nuovo. 

·         Morto il cosmonauta russo Alexei Leonov, il primo a "passeggiare" nello spazio.

Morto il cosmonauta russo Alexei Leonov, il primo a "passeggiare" nello spazio. L'impresa nel 1965. Era considerato una leggenda dell'esplorazione spaziale. Fece parte dell'equipaggio che, nel 1975, agganciò la Soyuz alla capsula Usa Apollo. La Repubblica l' 11 ottobre 2019. Il cosmonauta russo Alexei Leonov è deceduto, all'età di 85 anni, dopo una lunga malattia. Lo riportano i media russi. Leonov è stato il primo essere umano a compiere, nel 1965, una passeggiata nello spazio e ha fatto parte dell'equipaggio che, nel 1975, ha agganciato la Soyuz alla capsula Usa Apollo. Undicesimo cosmonauta sovietico, era considerato una leggenda dell'esplorazione spaziale. L'uomo che rischiò la vita "passeggiando" per primo nello spazio divenne un eroe per i russi, ma fu celebrato anche dagli americani. Nonostante non fosse stato il primo uomo ad andare sulla luna, il cosmonauta russo si guadagnò il titolo di "primo astronauta" a muoversi lontano dalla Terra, nel "nero più profondo", in quella corsa alla conquista dello spazio che impegnò Stati Uniti e Unione Sovietica per decenni. Era il 18 marzo del 1965 quando Leonov uscì dalla capsula Voskhod 2 e, per dodici interminabili minuti, attaccato a una corda, "passeggiò" nello spazio. "Ero pienamente concentrato - raccontò due mesi dopo alla rivista americana Life - con il sangue freddo e, relativamente, non eccitato. Ma la vista fu straordinaria: le stelle non brillavano, era tutto fermo, tranne la terra". Ciò che non aveva rivelato era che lui e il suo compagno di viaggio, Pavel Belyayev, erano stati fortunati a sopravvivere. La tuta di Leonov si gonfiò durante l'uscita, rendendo impossibile il rientro dentro la capsula, mentre il tempo scorreva. "Sapevo che non dovevo farmi prendere dal panico", confessò nel libro scritto nel 2004 assieme all'astronauta americano David Scott, "Two Sides of the Moon". Leonov sgonfiò la tuta, liberando ossigeno, ma rischiando così di restare senza aria. La manovra si rivelò vincente. "Quando entrai dentro la capsula - raccontò - ero sudato fradicio e il cuore mi batteva all'impazzata. Ma era solo l'inizio dei problemi". A bordo la pressione dell'ossigeno era salita a livelli di guardia, con il rischio che una scintilla avrebbe potuto far esplodere tutto. Il livello poi tornò alla normalità, e senza che i due astronauti abbiano mai capito come. La missione fu salva e con essa il primato sovietico nello spazio. Il primo cosmonauta Usa a replicare la "passeggiata" fu Ed White, ma soltanto tre mesi dopo. Troppi per non passare nell'archivio della storia come il più grande smacco subito dalla potenza a stelle e strisce.

Addio ad Alexei Leonov, il primo uomo a «passeggiare» nello spazio. Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 da Corriere.it. L’Apollo-Soyuz Test Project (ASTP) con le foto dei tre astronauti statunitensi (Thomas Stafford, Vance Brand e Donald Slayton) e dei due cosmonauti statunitensi (Alexei Leonov e Valeri Kubasov). Archivio Nasa

Un’immagine dell’Apollo-Soyuz Test Project (ASTP). I cosmonauti Alexei Leonov e Valeri Kubasov furono lanciati dal cosmodromo di Baikonur vicino a Tyuratam nel Kazakistan, Repubblica socialista sovietica, alle 8:20 il 15 luglio 1975. Gli americani Thomas Stafford, Vance Brand e Donald Slayton a bordo, dal Launch Complex 39B, Kennedy Space Center, Florida, alle 15:50 (archivio Nasa)

Addio a Alexei Leonov, il primo uomo al mondo ad aver effettuato la prima attività extraveicolare della storia: il 18 marzo 1965, tre mesi prima degli americani (con Ed White, il 3 giugno 1965, durante la missione Gemini 4) e mentre in Italia si abroga la messa in latino. Undicesimo cosmonauta sovietico, Alexei è morto a 85 anni, dopo una lunga malattia. Una leggenda dell’esplorazione spaziale. Non solo «passeggiò», per primo, nello spazio, con una tuta pressurizzata e trattenuta da un fragile cordone ombelicale, ma prese parte, dieci anni più tardi, all’equipaggio che agganciò la Soyuz alla capsula Usa Apollo comandando la missione congiunta che ha segnato il disgelo nella corsa allo spazio fra Stati Uniti e Unione Sovietica, cominciata nel 1957 ai tempi del primo satellite sovietico, lo Sputnik 1, e da allora proseguita a ritmo serrato. «Ero pienamente concentrato, con il sangue freddo e, relativamente, non eccitato. Ma la vista fu straordinaria: le stelle non brillavano, era tutto fermo, tranne la terra”. Così, Alexei, ricordò l’impresa nel corso della sua missione Voskhod 2 del 18 marzo 1965 alla rivista americana Life. Con quei 12, interminabili, minuti e 9 secondi nello spazio, agganciato a un cavo lungo 5 metri che lo ancorava alla navetta mentre il suo compagno di equipaggio Pavel Belyayev restava ai comandi, stava scrivendo una pagina storica dell’umanità che rischiò però di finire in tragedia. Inconvenienti alla tuta di Leonov quasi impedirono il rientro dell’astronauta russo all’interno della capsula Voschod. La tuta si era gonfiata e l’unico sistema per ridurre la pressione era aprire una valvola. Quel giorno, mentre il leader sovietico Leonid Brezhnev faceva sapere a Leonov di essere «orgoglioso di lui insieme a tutti i membri del Politburo», Alexei rischiò di morire intrappolato in una tuta spaziale inadatta. Contravvenendo alle regole, affrontò ogni ostacolo autonomamente. Nessuno, da Terra, sarebbe stato in grado di aiutarlo. Si salvò, ma anche il rientro fu un miracolo. Lui e Pavel Belyayev atterrarono a 400 km più dal campo previsto, nelle foreste degli Urali. Quando aprirono la navicella, trovarono una landa sommersa dalla neve, orsi e lupi che li costrinsero ad aspettare nella capsula i soccorsi. Il terzo giorno, i due raggiunsero — sci ai piedi — l’elicottero militare di soccorso. Poco o nulla trapelò nella versione ufficiale.Dopo Leonov passarono appena tre mesi prima che anche un astronauta statunitense, Edward White, riuscisse nell’impresa, anch’egli con qualche grande rischio. White indossava il cosiddetto scafandro a «guscio di aragosta», sviluppato inizialmente per le missioni lunari Apollo, molto ingombrante con la sua robusta protezione posteriore ma adatto ad assorbire le forti accelerazioni e decelerazioni del lancio e del rientro nell’atmosfera. La prima donna fu invece la russa Svetlana Savitskaya nel 1984, durante la missione della Soyuz T 12, mentre il primo europeo Jean-Loup Chre’tien nel 1988. Da allora, anche grazie allo sviluppo di tute sempre più flessibili, gli esempi di riparazioni fatte con attività esterne sono numerosissimi: dal salvataggio della stazione americana Skylab nel 1973, alla riparazione della protezione termica di una Soyuz nel 1990 per consentire a un equipaggio russo di rientrare a Terra, a quelle conseguenti una collisione tra la stazione russa Mir e una capsula Progress in fase di aggancio, avvenuta nel 1997. Grazie alle attività extraveicolari è stato possibile fare anche le tre manutenzioni al telescopio spaziale Hubble. «La morte del cosmonauta Alexei Leonov è una notizia davvero triste per il mondo spaziale che perde così uno dei suoi storici protagonisti», ha detto il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Giorgio Saccoccia, nel ricordare il cosmonauta russo. «Nel 1965 la sua uscita nello spazio rappresentò una pietra miliare e ancora oggi tutti gli astronauti che si accingono a compiere delle attività extraveicolari ricordano quell’impresa. È stato un passo che ha dato il via alla realizzazione di grandi opere ingegneristiche fuori dal nostro pianeta, prima fra tutte la Stazione Spaziale Internazionale». Nato il 30 maggio 1934, Leonov aveva affrontato la carriera militare nell’Aeronautica sovietica e contemporaneamente aveva seguito le sue due grandi passioni artistiche: la pittura e la scrittura, mai abbandonate. In pensione dal 1992, dopo essere stato al comando del corpo dei cosmonauti, Leonov si era dedicato ai saggi sui voli spaziali e alla fantascienza. Per ricordare la vita di quest’uomo straordinario, l’Agenzia Spaziale Italiana proietterà venerdì 25 ottobre nell’auditorium della sua sede a Roma il film «SpaceWalker. Il tempo dei primi». La pellicola, per la prima volta sul grande schermo, sarà l’occasione per rivivere e ricordare la grande impresa di Alexei Leonov.

·         Morto Ettore Spalletti, pittore e scultore, maestro dell'arte concettuale.

Morto Ettore Spalletti, pittore e scultore, maestro dell'arte concettuale. L'artista si è spento a 79 anni nella sua casa di Spoltore. Le sue opere esposte in tutto il mondo, dalla Biennale di Venezia al Guggenheim di New York. La Repubblica l'11 ottobre 2019. E' morto a 79 anni, nella sua casa di Spoltore (Pescara), Ettore Spalletti, scultore e pittore di fama internazionale, maestro dell'arte concettuale. Era nato nel 1940 nella vicina Cappelle sul Tavo, in provincia di Pescara. Già dalla metà degli anni Settanta, Spalletti si è dedicato alla ricerca tesa a valorizzare il risalto del tono cromatico, indagato sia in pittura che in scultura, realizzando strutture in legno e marmo di forme minimali, dalla cui monocromia traspaiono una manualità pittorica, un colore intriso di materia e di luce in armonia con lo spazio circostante. Le opere di Spalletti sono state presentate a Documenta di Kassel (1982, 1992), alla Biennale di Venezia (1982, 1993, 1995, 1997) e in mostre personali a Parigi (Musée d'art moderne de la Ville de Paris, 1991), New York (Osmosis, S. R. Guggenheim Museum, 1993, con Haim Steinbach), Anversa (Museum van Hedendaages Kunst, 1995), Strasburgo (Salle des fêtes, Musée d'art moderne et contemporain, 1998-99), Napoli (Museo nazionale di Capodimonte, 1999), Leeds (Henry Moore Foundation, 2005). Nel 2014 è stata realizzata la più completa retrospettiva dell'opera dell'artista, intitolata "Un giorno così bianco, così bianco", allestita in un circuito museale formato dal MAXXI di Roma, dalla GAM di Torino e dal Museo Madre di Napoli. Ogni sede ha approfondito un aspetto diverso della produzione dell'artista abruzzese presentando in tutto circa 70 opere, capaci di testimoniarne la ricchezza e la complessità dell'arte di Spalletti. A dominare nell'esposizione al MAXXI era il bianco assoluto dell'opera che dava il nome alla mostra: un cubo candido in cui si poteva entrare (non più di quattro persone per volta). Lì uno splendore abbagliante avvolgeva le tele leggermente scostate dalle pareti, a far vedere i margini dipinti di oro brillante. La dimostrazione che la pittura di Spalletti diventava solida e la luce teneva assieme il tutto. Da aprile scorso al prossimo novembre una grande mostra dedicata a Spalletti - Ombre d'azur, transparence - è ospitata a Villa Paloma, nel Principato di Monaco, al Noveau Musée National de Monaco. Nel 2017 il maestro era stato insignito della laurea honoris causa in architettura dall'università Gabriele D'Annunzio dì Pescara.

·         Morto Filippo Penati, dirigente del Pd, fu presidente della provincia di Milano.

Morto Filippo Penati, dirigente del Pd, fu presidente della provincia di Milano. Aveva 66 anni, era malato da tempo: "E' il cancro la mia sfida", aveva detto alla fine di luglio quando aveva reso pubbliche le sue condizioni di salute. Andrea Montanari il 9 ottobre 2019 su La Repubblica. E' morto Filippo Penati, dirigente del Partito democratico e presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Avrebbe compiuto 67 anni a dicembre. Era malato da tempo. "E' il cancro la mia sfida", aveva detto alla fine dello scorso mese di luglio. Penati è morto nella notte alla Multimedica di Sesto San Giovanni, la città dove fu sindaco per due mandati. Fu poi presidente della Provincia di Milano e capo della segreteria politica di Pierluigi Bersani quando era segretario del Pd. Nel 2011 sono iniziati i suoi guai giudiziari, a partire da quelli per un presunto sistema di tangenti, il cosiddetto 'sistema Sesto', per cui è stato assolto e in parte prescritto. Lo scorso luglio, quando la Corte dei Conti della Lombardia lo condannò in appello, insieme ad altre 11 persone per la vicenda della compravendita del 15% delle azioni della Milano-Serravalle dal gruppo Gavio che risale al 2005, Penati rivelò pubblicamente la sua malattia: "Un anno fa - spiegò - mi è stato riscontrato un cancro, e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria. Da un anno sto combattendo. Questa è la sfida più importante della mia vita. Della vicenda Serravalle - aveva concluso - si occuperanno i miei legali". L'inizio della carriera politica di Filippo Penati, classe 1952, è stata fulminante. Prima assessore comunale nella sua Sesto San Giovanni, poi sindaco della ex Stalingrado d'Italia e segretario provinciale del Ds. Il vero salto è nel 2004 quando a sorprese riesce a battere Ombretta Colli e a riportare il centrosinistra alla guida della Provincia di Milano. Una vittoria che lo ha proiettato anche sulla ribalda della politica nazionale. Prima con Walter Veltroni che lo vuole nel coordinamento nazionale del nuovo partito e poi Pierluigi Bersani che lo chiama come suo braccio destro. Nella tornata elettorale amministrativa del 2009 si ricandida, ma viene battuto al ballottaggio da Guido Podestà.  Sposato con Rita, Penati aveva due figli, Simone e Ilaria. Prima di dedicarsi alla politica a tempo pieno ha svolto la professione di insegnante e assicuratore, ed è stato inoltre vicepresidente regionale dell'Associazione circoli cooperativi lombardi, un settore della Lega delle Cooperative. Nel 1999 si candida alle elezioni per il Parlamento europeo nella circoscrizione Nord - Ovest, ottenendo 13.698 voti di preferenza e piazzandosi al 6º posto dei 23 candidati dei Democratici di sinistra, 3º dei non eletti. Nel 2010 è il candidato del Pd con il centrosinistra alla presidenza della Lombardia: viene rieletto presidente Roberto Formigoni del centro-destra per la quarta volta, mentre Penati in rappresentanza delle minoranze viene eletto dal Consiglio regionale vicepresidente dello stesso. A causa di indagini che lo vedono coinvolto, nel 2011 si dimette dalla carica (gli subentra alla vicepresidenza del Consiglio lombardo Sara Valmaggi, sempre del Pd). Nell'ottobre 2012, a seguito delle dimissioni di quasi tutti i consiglieri regionali della Lombardia, si scioglie il Consiglio regionale e si va a elezioni anticipate; Filippo Penati annuncia così il suo ritiro definitivo dalla politica. Il 20 luglio 2011 viene indagato dalla Procura della Repubblica di Monza per concussione e corruzione in merito a presunte tangenti intascate sulla riqualificazione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Il 25 agosto 2011 il giudice per le indagini preliminari respinge la richiesta d'arresto che era stata formulata dalla Procura nei suoi confronti, pur riconoscendo "gravi indizi di reato", mentre il Pubblico ministero aveva ravvisato "gravissimi episodi di corruzione". Penati ha commentato la decisione ribadendo la "totale estraneità ai fatti che mi sono addebitati". Decide inoltre di autosospendersi dal Partito democratico e di uscire dal gruppo consiliare regionale, per "scindere nettamente la mia vicenda personale dalle questioni politiche" e "per non creare problemi e imbarazzi al partito", dichiarando anche l'intenzione di rinunciare alla prescrizione. Il 5 settembre successivo la Commissione di garanzia del Pd formalizza la sospensione di Penati dal partito. Un anno dopo, il 1º ottobre 2012, i pm di Monza chiedono il rinvio a giudizio per Penati nell'ambito del cosiddetto "Sistema Sesto"; il consigliere ribadisce nell'occasione la sua estraneità ai fatti e chiede il giudizio immediato, annunciando inoltre le dimissioni dal consiglio regionale lombardo in caso di accoglimento della richiesta di giudizio da parte del giudice dell'udienza preliminare. Il 28 febbraio 2014 la Corte suprema di Cassazione dichiara il non luogo a procedere per la sopraggiunta prescrizione del reato, cui Penati - a differenza di quanto diversamente dichiarato due anni prima - non ha rinunciato. Il 10 dicembre 2015 viene assolto in primo grado, assieme agli altri dieci imputati, per i rimanenti reati, in quanto "il fatto non sussiste": nelle motivazioni della sentenza i giudici ravvisano "vischiosità" e "inopportunità", ma ciò "attiene alla sfera dell'etica e non del penalmente rilevante"; definirono inoltre le indagini "superficiali" e "lacunose" nonché in contrasto con i princìpi basilari della Costituzione. Penati ha anche pubblicato due romanzi, "La casa dei notai" del 2013 e "Nemesi" dell'anno successivo. Nel maggio del 2017 è stato nominato presidente della Geas Basket, società di pallacanestro femminile di Sesto San Giovanni. Il 7 novembre uscirà il suo ultimo libro, "L'uomo che faceva le scarpe alle mosche" (La Nave di Teseo), un romanzo sull'Italia del Novecento, sulle passioni perdute e su quelle destinate a durare per sempre. Una storia d'amore e politica nella Milano del dopoguerra. Filippo Penati, morto il 9 ottobre a 66 anni, si era ritirato da tempo dalla vita politica. Deluso dal Pd, il suo partito al quale però, per sua stessa ammissione, non aveva rinnovato la tessera. È il partito che lo espulse appena scoppio la vicenda giudiziaria dell'inchiesta sul "sistema Sesto" per poi riabilitarlo quando alla segreteria piddina arrivò Matteo Renzi. Lui, che si era sempre definito "estraneo" a quelle vicende aveva rotto il silenzio.

(ANSA il 9 ottobre 2019) - E' morto nelle scorse ore Filippo Penati, ex presidente della provincia di Milano e sindaco di Sesto San Giovanni. Nato a Monza nel 1952, Penati era malato da tempo.

BIOGRAFIA DI FILIPPO PENATI. Da cinquantamila.it, sito a cura di Giorgio Dell'Arti. Monza 30 dicembre 1952. Politico (Pd). Presidente della Provincia di Milano (dal 2004 al 2009). Candidato nel 2010 alla presidenza della regione Lombardia, fu sconfitto da Roberto Formigoni. Quindi consigliere regionale dal 2010 al 2012. Dall’85 al 1993 fu assessore al Bilancio e all’Urbanistica al Comune di Sesto San Giovanni, nel 1994 e 1998 fu eletto sindaco. «Falce e martello è un simbolo che appartiene al Novecento, oggi non ha più alcuna ragione di esistere».

«Occhiali, barba, ex insegnante di Educazione tecnica poi assicuratore, padre operaio alla Breda e nonno – Filippo pure lui – morto a Mauthausen dove era stato deportato dopo gli scioperi a Sesto nel 1944. Anche il suo privato è senza scosse: sposato con Rita, due figli (Simone e Ilaria - ndr), ama leggere, il Milan da prima che arrivasse Berlusconi e la musica, classica e jazz in uguali dosi. Le vacanze sono sempre a Piazza Torre in vall’Imagna. La sua carriera è tutta interna al partito, prima comunista e poi Ds, prima alla guida della federazione metropolitana e poi nella direzione nazionale».

«Presidente post-ideologico. Nel centrodestra oggi lo chiamano Davy Crockett, assediato com’è nel Fort Alamo di palazzo Isimbardi dalla marea di amministrazioni azzurre o verde padano (...) Nel Pd milanese è l’unico che dispone della virtù rara di parlare anche a chi è fuori dalla cerchia stretta della politica» (Marco Cremonesi).

Molto criticato per l’acquisto del 15 per cento dell’autostrada Milano-Serravalle Scrivia (pagato 238 milioni, 8,83 euro per azione, un pacchetto che il venditore Marcellino Gavio aveva messo insieme diciotto mesi prima a 2,9): «La Provincia deteneva già una quota di Milano-Serravalle quando ho avuto l’onore di prenderne la guida. Ho voluto allora compiere lo sforzo di assumerne il controllo, con il fermo obiettivo di valorizzarla per farla diventare aggregatore anche di risorse private».

Ha fatto discutere la sua posizione sui rom: «Espulsione o carcere per i delinquenti, accompagnamento alla frontiera per chi in Italia non ha mezzi di sussistenza». Gad Lerner gli ha dato del leghista di sinistra: «È il metodo della vecchia politica. Ti appiccicano etichette e scagliano contro di te anatemi senza confrontarsi sul merito».

Poco ortodosso anche sul problema della moschea di viale Jenner a Milano: appoggiando le proteste della Lega, ha proposto che i musulmani che pregano sulla strada vengano multati per intralcio del passaggio. «I casi sono due. Se quello è un posto pericoloso, il ministro dell’Interno dovrebbe provvedere a chiuderlo. Se invece pericoloso non è, bisogna trovare una soluzione. Vera: perché da lì il centro se ne deve andare. Su questo dubbi non ce ne sono». E sulla sicurezza: «Ben vengano i soldati, senza illudersi però che 300 uomini in più risolvano il vuoto delle nostre periferie».

Il 20 luglio 2011 è stato indagato dalla Procura della Repubblica di Monza per concussione e corruzione in merito a presunte tangenti che avrebbe preteso per far avanzare i lavori di riqualificazione dell’area ex Falck di Sesto San Giovanni: questo è ciò che raccontano due imprenditori Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina. Il Gip ha respinto la richiesta d’arresto che era stata formulata dalla Procura nei suoi confronti, pur riconoscendo «gravi indizi di reato». Penati, da subito, ha proclamato la sua «totale estraneità ai fatti che mi sono addebitati», decidendo di autosospendersi dal Pd e di uscire dal gruppo consiliare regionale, per «scindere nettamente la mia vicenda personale dalle questioni politiche» e «per non creare problemi e imbarazzi al Partito», dichiarando anche l’intenzione di rinunciare alla prescrizione. Un anno dopo, il 1º ottobre 2012, i pm di Monza hanno chiesto il rinvio a giudizio. Nel frattempo, a seguito delle dimissioni di quasi tutti i consiglieri, il 26 ottobre 2012 si è sciolto il Consiglio regionale lombardo e si è andati a elezioni anticipate. Il 27 febbraio 2014 la Corte suprema di Cassazione ha dichiarato il non luogo a procedere per la sopraggiunta prescrizione del reato, cui Penati - a differenza di quanto diversamente dichiarato due anni prima - non ha rinunciato. Ha annunciato il suo definitivo ritiro dalla politica e il ritorno all’insegnamento.

Filippo Penati diceva: “Tra le cause del mio tumore c'è anche la vicenda giudiziaria”. Andrea Montanari il 9 ottobre 2019 su la Repubblica. Il 28 febbraio 2014 la Corte suprema di Cassazione dichiara il non luogo a procedere per la sopraggiunta prescrizione del reato, cui Penati - a differenza di quanto diversamente dichiarato due anni prima - non ha rinunciato. Il 10 dicembre 2015 viene assolto in primo grado, assieme agli altri dieci imputati, per i rimanenti reati, in quanto "il fatto non sussiste": nelle motivazioni della sentenza i giudici ravvisano "vischiosità" e "inopportunità", ma ciò "attiene alla sfera dell'etica e non del penalmente rilevante"; definirono inoltre le indagini "superficiali" e "lacunose" nonché in contrasto con i princìpi basilari della Costituzione. Penati ha anche pubblicato due romanzi, "La casa dei notai" del 2013 e "Nemesi" dell'anno successivo. Nel maggio del 2017 è stato nominato presidente della Geas Basket, società di pallacanestro femminile di Sesto San Giovanni. Il 7 novembre uscirà il suo ultimo libro, "L'uomo che faceva le scarpe alle mosche" (La Nave di Teseo), un romanzo sull'Italia del Novecento, sulle passioni perdute e su quelle destinate a durare per sempre. Una storia d'amore e politica nella Milano del dopoguerra. Filippo Penati diceva: “Tra le cause del mio tumore c’è anche la vicenda giudiziaria”.

La mamma di Penati: «Filippo, mio figlio, morto senza niente e tradito dal partito». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it da Candida Morvillo. Elena Penati, 89 anni, madre dell'ex presidente della Provincia di Milano morto il 9 ottobre: «Dal partito un tradimento. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep, mio marito». Questa è la storia di una madre che sopravvive al figlio, lei 89 anni e malata da tempo, lui 67, che se ne va il 9 ottobre scorso, portato via da un cancro che lo colpisce al culmine di anni di processi finiti in niente. Filippo Penati, già sindaco di Sesto San Giovanni, poi presidente della Provincia di Milano, braccio destro di Pier Luigi Bersani, era stato indagato per corruzione, concussione e altri reati, in parte assolti, in parte prescritti. Questa è anche la storia di un mondo di lotte antifasciste e operaie tramandate di generazione in generazione, e di speranze che non sopravvivono né alla madre né al figlio, se non cristallizzate nell’autobiografia di una famiglia che lui si siede a scrivere negli ultimi mesi. «L’uomo che faceva le scarpe alle mosche» esce postumo per La nave di Teseo giovedì. Elena Penati ha appena letto le bozze. Sta seduta con le spalle curve e lo sguardo indomito nel salottino del suo bilocale a Sesto. Sulla parete, decine di foto dell’unico figlio, col grembiule alle elementari, con la fascia tricolore… Sapeva che il suo Filippo lavorava a un libro, non che avrebbe scritto la storia sua e di suo marito, il Pep, e insieme la storia di una cittadina e di un secolo. S’inizia con lo sciopero generale del 1920 dove s’incontrano i suoi nonni paterni, Teresa e Pippo, che morirà in un campo di concentramento, si prosegue coi nonni materni, Turiddu e Melina, emigrati dalla Sicilia nel 1946, primi «terroni» in tutto il circondario, si atterra nel dolore degli ultimi giorni. Elena fissa il piccolo televisore spento. Dice: «Ormai non guardo più i telegiornali, non m’interesso più. Da quando hanno indagato mio figlio, ho perso la fiducia».

In cosa l’ha persa? Nella giustizia?

«Nel partito. Il partito gli ha chiesto subito indietro la tessera e si è costituito parte civile contro di lui».

Lei aveva la tessera del Pd?

«No, ma era qualcosa in cui credevo. Mio marito ha avuto il padre ucciso a Mauthausen perché aveva scioperato alla Breda controllata dai nazisti. Vennero a prenderlo, gli dissero: Penati è venuta la tua ora. Filippo stesso ricordava sempre con orgoglio che il nonno s’era rifiutato di nascondersi e s’era fatto trovare a casa, pronto e vestito di tutto punto».

Suo figlio, nel luglio 2018, annunciando di avere un tumore, disse che era conseguenza delle vicende giudiziarie.

«Così è. Aveva fiducia nella giustizia, ma la politica l’aveva addolorato e si arrabbiava perché la verità non veniva fuori. Cercava di resistere. Diceva “sono forte”. Anch’io lo dico, ma ora che lui non c’è più, la mia testa funziona e il corpo sento che mi abbandona di momento in momento».

Il libro si apre con suo figlio che l’accompagna dal medico.

«Sono stata ricoverata due volte, ma finché lui c’era, tenevo duro. Sono stata io a capire che stava male: l’ho visto a Telenova e gli ho sentito un fischio nella voce. Gli ho prenotato una visita. Dopo la diagnosi, passava a trovarmi e faceva la battuta: mamma, facciamo come quelli della Lega… Teniamo duro».

Che pensò quando lo seppe indagato?

«Fu uno shock, ma ero sicura al cento per cento della sua innocenza. È stato un bravo bimbo, un bravo giovanotto, un bravo sindaco… È morto senza niente. Stava in affitto in 50 metri qui a Sesto. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep a Rapallo e i soldi non sono bastati».

Il 7 dicembre avrà l’Ambrogino d’oro alla memoria.

«Caspita se ci andrò. E coi miei due nipoti, che sono i suoi figli, due gioielli».

Com’è stato leggere il libro?

«Ho pianto. Di più quando lui racconta che mi vede nella sala d’aspetto del dottore, minuta, curva, ma in ordine e coi capelli fatti. Ho pianto quando mi chiama “la terrona del ‘30”».

La prima «terrona» di Sesto.

«Al Pep, per sicurezza, dissi che ero toscana. Poi, lo portai a casa e mi fece: però tuo papà l’è terùn. E io: lui sì, io no. Mio padre, prima di conoscerlo, invece, aveva preso informazioni. Gli dissero: è comunista. E lui: allora, è un bravo ragazzo».

Quanto era comunista il Pep?

«Quando la Garelli andò in crisi, lo chiamarono alla Ercole Marelli. Passò tutte le selezioni, poi fu convocato da un dirigente che gli chiese che quotidiano leggesse e lui: l’Unità. Poi disse “scusi ingegnere, perché me lo chiede? Abbiamo lottato vent’anni per la libertà e ognuno legge il giornale che vuole”. Non lo presero».

Lei non se ne rammaricò?

«No: era nel giusto. Lo era anche quando, chiamato alle armi dalla Repubblica di Salò, disertò, per non andare con chi gli aveva ucciso il padre. Stette mesi nascosto nella paglia e perciò soffrì di fegato tutta la vita. Ci sposammo il 28 ottobre 1950, ma abbiamo sempre fatto l’anniversario il 29, per non festeggiare il giorno della marcia su Roma. E il 25 aprile, a casa nostra, era come Natale: col pranzo e tutto».

Sfumata la Marelli, suo marito che fece?

«Io vendetti la casa ereditata al paese e aprimmo una latteria. Poi dovemmo chiuderla e aprimmo una cartoleria. Filippo aveva 16 o 17 anni e, d’estate, vendeva i nostri prodotti ai negozi: s’era fatto clienti che gli compravano di tutto. Era bravo. Gli abbiamo insegnato sincerità, lavoro e onestà».

Chi gli ha raccontato le cose scritte nel libro?

«Il papà, finché c’è stato. È mancato nel ‘99, a 73 anni. Aveva nei polmoni la polvere dell’acciaieria, ma aveva amato tanto la fabbrica. Era un operaio specializzato. Si vantava dicendo che, col tornio, faceva pure le scarpe alle mosche. Più di recente, Filippo mi chiese di raccontargli bene: il giorno della Liberazione in cui fui presa ostaggio col mitra da un soldato canadese e il giorno del ’45 in cui il Pep venne inseguito e sparato da due fascisti che, invece, colpirono e uccisero un vecchio che passava di lì; mio padre che aveva perso i denti e io, ragazzina, che a pranzo, gli portavo la zuppa con la bici; i vestiti che cucivo da sarta già a 13 anni e poi “la curt del Cairo”, dove il Pep era nato e dove anch’io andai a vivere. La chiamavano così perché era zeppa di gente. Era favolosa per l’umanità e la solidarietà che c’era».

Com’è adesso Sesto San Giovanni?

«Non ci sono più le fabbriche, ma la gente è ancora bella e sana. Il mio vicino, Mosè, egiziano, ha la moglie velata, ma ha quattro figli molto educati. Quando Filippo stava in ospedale, mi ci accompagnava ogni volta che volevo. Non m’aspettavo che Filippo morisse, non me l’aspettavo neanche quando a tutti diceva: io muoio tranquillo».

Filippo Penati, il ricordo di Renato Farina: "Un comunista per bene, ecco chi era davvero". Libero Quotidiano il 9 Ottobre 2019. In morte di Filippo Penati mi viene in mente il volto di una persona che portava bene addosso il nome di comunista, non al modo astuto dei capi, ma come mi capitava di vederne, tipi così, nel fumo dei bar fuori dalle acciaierie di Sesto San Giovanni prima dell'alba. Erano gli anni 80, e c'erano ancora gli operai. Penati era sindaco di quella gente lì. Insegnava nelle scuole superiori, e militava nelle file del partito. Era tardivamente un Peppone, intriso di umanesimo cristiano. Un Peppone colto. Tutti lo ricordiamo per gli ultimi anni della sua vita. Le accuse di essere stato il capo del sistema-Sesto, un modello di corruzione inventato per pompare risorse verso la Ditta in quel momento gestita da Pierluigi Bersani. Di quest'ultimo, uomo della sua stessa pasta, Penati fu segretario organizzativo. Posso dirlo in coscienza: Filippo era una persona specchiata. Lo conobbi, lo frequentavo. Non aveva lo sguardo risentito di certi compagni che disprezzavano il diversamente pensante, come se fosse un essere moralmente inferiore, da trattare al massimo con condiscendenza opportunistica. Da presidente della Provincia cercò di difenderne gli interessi economici, magari calcolando male, ma certo in buona fede. Era fazioso come i bravi compagni, quando si discuteva, ma non era di parte quando c'era da difendere il popolo e le buone cause. Il processo per corruzione lo offese profondamente. Ci sono cose più pesanti del carcere ed è la lo sfregio alla reputazione. Si difese con coraggio a Monza. Come è capitato a molti, il virus iniettato a tradimento nell'anima, quella di essere un ladro e di aver tradito la buona fede dei cittadini, si trasforma in un cancro che ammazza. Tutti abbiamo in mente la vicenda di Enzo Tortora: la stessa infezione è toccata a Penati, che si è fatto fotografare ancora pochi mesi fa smagrito ma allegro, con la coppola in testa a nascondere la caduta dei capelli per la chemioterapia, senza vergognarsi di dover usare la carrozzina per scoprire che la città non è pensata per i deboli ma per i forti. E da lì il suo invito ai sindaci di provare a girare le città dal punto di vista di chi deve farsi spingere su un attrezzo che ciascuno di noi crede sia sempre destinato agli altri. Ora i giornali scrivono che in parte Penati è stato assolto, in parte prescritto, e che comunque la Corte dei conti lo aveva condannato a un risarcimento milionario. Quando era potente mi capitò di imbattermi nella sua capacità di vedere oltre le apparenze. E qui mi riferisco alla mia personale vicenda che coinvolse anche Libero. Fu nel 2006 che, caricato di accuse in merito al rapimento di un imam in odore di terrorismo, fui oggetto con la mia famiglia di una serie di intimidazioni molto pesanti di una frangia delle Brigate rosse. Non si mosse nessuno tra i politici a manifestare solidarietà pubblica. Ci pensò un ex (?) comunista, Filippo Penati, a quel tempo presidente della provincia di Milano, giunta rossa. Sono cose che tirano su il morale, allora e sempre, e vorrei rendere più lieve la terra a un uomo di antico stampo, che avrebbe meritato un Giovannino Guareschi a raccontarne vita e morte. Renato Farina

Addio a Penati, perseguitato dalla giustizia spettacolo. Simona Musco il 10 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Nel 2011 I magistrati lo accusarono di aver fatto parte di un presunto sistema di tangenti. Fu assolto nel 2017, ma carriera e salute ormai erano compromesse. Filippo Penati è morto ieri e, come hanno scritto i due figli, se n’è andato «senza clamore». Aveva 66 anni e gran parte della sua vita l’aveva dedicata alla politica. Fu funzionario del Pci, poi dei Ds e infine del Pd, partito col quale venne eletto presidente della provincia di Milano. Ma con l’elezione arrivarono i guai giudiziari. Nel 2011 la procura lo accusò di far parte di un sistema di tangenti, il cosiddetto «sistema Sesto». Furono anni terribili nei quali, come spiegò lui stesso, si insinuò il male che di li a qualche anno lo avrebbe ucciso: «Un anno fa – raccontò al Corriere nel 2018 – mi è stato riscontrato un cancro, e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria». Un vicenda durata sei lunghissimi anni che finì con un’assoluzione ma anche con una carriera politica ridotta in cenere. Negli ultimi anni si era dedicato allo sport e ai nipoti. Guardava alla politica con malinconia e con preoccupazione: «No, non ho mai pensato di rientrare in gioco. Sono tempi di populismo». «Mi è stato riscontrato un cancro e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria. Da un anno sto combattendo. Questa è la sfida più importante della mia vita». Quando, nel luglio scorso, venne condannato in appello dalla Corte dei Conti per la vicenda Milano - Serravalle, Filippo Penati svelò al mondo la malattia che ieri notte l’ha portato via a 67 anni, alla Multimedica di Sesto San Giovanni, città che amministrò per due mandati. Prima assessore comunale della ex Stalingrado d’Italia, poi sindaco e segretario provinciale del Ds, l’ex braccio destro di Pierluigi Bersani nel 2004 venne eletto presidente della Provincia di Milano, consacrando una carriera politica in ascesa. Un percorso di successo che si è però scontrato contro il muro della giustizia il 20 luglio 2011, giorno in cui la Guardia di Finanza bussò alla sua porta per perquisire la sua casa e il suo ufficio. Alla base di tutto c’era una storia di tangenti, prontamente ribattezzata da tutti i media “sistema Sesto”. Quella narrazione, rimbalzando di giornale in giornale, distrusse in un colpo solo tutto quanto. Ma di quel sistema i giudici non riuscirono a trovare nulla negli indizi portati in tribunale dall’accusa, mai trasformati in prove, tanto da decidere di assolverlo laddove non era già intervenuta la prescrizione a chiudere tutto. «Manca l’assoluto riscontro in termini probatori», avevano scritto a dicembre 2017 i giudici d’appello, riferendosi all’accusa di corruzione. «Non risulta – proseguivano – che le condotte attribuite agli imputati possano oggettivamente qualificarsi come atti contrari ai doveri di ufficio». L’eco mediatica di quell’inchiesta, però, portò Penati ad autosospendersi dal Pd, per poi vedersi sbattere la porta in faccia dai compagni di partito, che lo espulsero. «Sulla base di un semplice avviso di garanzia – raccontò all’Adnkronos – senza sentire il dovere di ascoltarmi, in violazione dello statuto e delle più elementari norme costituzionali sulla presunzione di innocenza, sono stato espulso da un giorno all’altro dal partito a cui avevo dedicato tanta parte della mia vita, accrescendo così la gogna mediatica verso di me. Ancora più grande è stato il mio dolore quando i Democratici di Sinistra decisero di costituirsi parte civile contro di me nel processo». Penati rinunciò anche alla poltrona di vicepresidente del Consiglio regionale, imboccando la strada che lo portò al ritiro dalla politica, subito dopo lo scioglimento del Consiglio regionale. Il processo, però, terminò nel 2017, dopo sette anni di udienze, con una conferma in appello dell’assoluzione di 11 imputati imputati perché «il fatto non sussiste». Per la procura di Monza, Penati avrebbe fatto parte di un presunto sistema di tangenti da quattro miliardi di lire, pagate tra il 2001 e il 2002. Un’indagine partita dopo le dichiarazioni dell’ex proprietario delle aree Falck e Marelli di Sesto San Giovanni, che nel 2010 si presentò spontaneamente dai pm milanesi per raccontare di essere stato vittima di soprusi da parte degli amministratori locali di Sesto San Giovanni. Secondo l’accusa, Penati aveva intascato soldi in cambio di agevolazioni sul rilascio di alcune concessioni o per impostare, secondo determinati criteri, il Piano di governo del territorio ( Pgt) in relazione alle due aree dove una volta sorgevano la Falck e la Ercole Marelli. Una tesi bocciata sonoramente dai giudici, secondo cui le indagini sarebbero state «lacunose e superficiali». Per i pubblici ministeri, invece, a provocare quella debacle giudiziaria sarebbe stata la prescrizione, che avrebbe «sfasciato l’indagine», facendo cadere l’accusa di concussione nei confronti di Penati. «Mi riprendo la vita», aveva giurato quel 28 settembre dopo la lettura della sentenza, pur annunciando di voler rinunciare alla prescrizione. L’istanza, però, non venne mai formalizzata, salvo poi presentare ricorso in Cassazione per poter essere giudicato nel merito. Una richiesta respinta dai giudici, secondo cui sarebbe stato Penati stesso a decidere di non farsi processare. L’ultimo colpo di coda giudiziario è arrivato a luglio scorso, quando la Corte dei Conti lo ha condannato in appello, dopo un’assoluzione in primo grado, a risarcire 19,8 milioni per il danno erariale causato alla Regione Lombardia per l’acquisto, da parte della Provincia di Milano, del 15 per cento delle azioni della Milano – Serravalle dal gruppo Gavio, una compravendita portata a termine con con una sopravvalutazione del valore delle azioni. «Condannare una persona normale – io sono un insegnante in pensione – a risarcire 20 milioni di euro è un assurdo, credo mai visto nella storia della magistratura contabile. Quale cittadino si avventurerà a candidarsi a guidare una comunità con una spada di Damocle del genere sulla testa? – aveva commentato – Sentenze così intimidiscono chi si occupa di pubbliche amministrazioni, che al contrario dovrebbe essere una vocazione incentivata, perché è la quintessenza della nostra Costituzione democratica». Dopo la condanna, Penati aveva dunque confessato di avere un cancro. «Nonostante una diagnosi dura ho fiducia nei medici che mi curano – aveva aggiunto Certo, sentenze ingiuste ed irragionevoli sono colpi durissimi da parare». Era, dunque, comunque ottimista. «Sono convinto che le cure, che mi danno tanta sofferenza, avranno ragione delle lungaggini della giustizia aveva affermato – e mi consentiranno di vedere riconosciuta la mia piena innocenza anche sul piano della giustizia contabile, dopo che quella penale mi ha già riconosciuto innocente». Una lunga vicenda giudiziaria che aveva contato due assoluzioni al tribunale di Monza e una in appello a Milano, che lo aveva sfibrato non soltanto per gli anni trascorsi in tribunale, ma anche e soprattutto per il processo mediatico, le cui «stigmate», aveva sottolineato, «rimangono indelebili», nonostante l’assoluzione. Un processo «sommario avvenuto a tambur battente su tv, giornali e sui social. In ogni caso ho sempre fiducia nella giustizia, ma come diceva Giulio Andreotti bisogna avere vita lunga per affrontare un processo in Italia», aveva aggiunto. Dopo l’annuncio della morte, i figli Simone e Ilaria hanno chiesto riserbo e rispetto della volontà dell’ex sindaco di andarsene «senza notizia e senza clamore», con funerali in forma strettamente privata, per suo stesso volere. «Non è il momento di giudizi politici e non voglio ricordare il suo profilo istituzionale – ha commentato il sindaco di Milano, Beppe Sala, su Twitter – Per me è stato solo un amico a cui ho voluto bene e che ho accompagnato nell’ultima, dolorosa, fase della sua non banale vita». E dopo averlo abbandonato, il Pd si stringe attorno al dolore per la scomparsa di un «progressista», un uomo «di grande coraggio e valore», che ha «sofferto con dignità», trovandosi a combattere, oltre che con la malattia, con la giustizia e i suoi tempi.

Penati: «Il vero colpevole del mio processo è la stampa». Giulia Merlo il 29 Settembre 2017 su Il Dubbio.  «Il sistema dell’informazione ha molte colpe. Purtroppo fino all’apertura del processo si sente solo e soltanto la voce dell’accusa». «Sono doppiamente soddisfatto: per la conferma dell’assoluzione e la condanna alle spese delle parti civili, accanite contro di me». Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano e vicepresidente del consiglio regionale lombardo, ha incassato la conferma della sua assoluzione in appello: non c’era nessun “sistema Sesto”, ma la sua carriera politica è uscita in pezzi dall’inchiesta. «Col senno di poi, però, le dico che non ho rimpianti: oggi in politica sarei una mosca bianca. Ora sono sereno, ho rimesso in fila i valori della mia vita».

La sentenza d’appello conferma l’assoluzione in primo grado. Aveva dubbi?

«Nessuno. Era una sentenza attesa e ha solo confermato il fatto che si sia trattato di un processo senza alcun elemento a sostegno di un impianto accusatorio che era suggestivo quanto un romanzo giallo, ma frutto di pura fantasia. Confesso però che questa sentenza di appello mi ha dato una doppia soddisfazione».

E quale sarebbe?

«Le parti civili, ovvero l’ex provincia di Milano e la Serravalle, sono state condannate alle spese processuali. Per me è una soddisfazione perchè è una sanzione contro l’accanimento sia della Procura di Monza che delle parti civili, che non hanno voluto riconoscer- si in una sentenza di primo grado ben argomentata e hanno deciso comunque di appellare, al termine di un processo durato più di due anni, in cui sono stati ascoltati decine di testimoni».

Esiste sempre il ricorso in Cassazione.

«Ecco, io sinceramente mi auguro che questa sentenza metta fine a questo lungo iter processuale durato quasi sette anni. Spero che anche la Procura si sia convinta e che ogni elemento sia stato chiarito».

Sette anni non sono pochi. Si è sentito intrappolato in questo processo?

«Ricordo come fosse ieri la mattina del 20 luglio 2011. Alle 7 del mattino si è presentata la Guardia di Finanza e mi ha informato dell’indagine, poi hanno perquisito la mia casa e gli uffici della Regione Lombardia, dove allora ero vicepresidente del consiglio regionale. Sono stati anni durissimi, in cui ho vissuto lo sconcerto di non riuscire a capire quali fossero le contestazioni a mio carico ma soprattutto l’angoscia al pensiero delle ricadute di una cosa del genere sulla mia famiglia e su me stesso».

C’è stato un momento in cui ha iniziato a sperare nell’assoluzione?

«Guardi, appena è partito il processo ho capito che tutto si sarebbe risolto in un nulla. Sin dall’inizio ero certo che non ci fosse niente a mio carico e, non appena l’accusa ha svelato le carte, ne ho avuto la certezza. E’ stato allora che ho trovato in me la forza di essere sereno, convinto che tutto si sarebbe risolto positivamente. Questi sei anni, però, mi sono sembrati interminabili e mi hanno segnato in modo indelebile: solo dopo la sentenza di primo grado ho ripreso in mano la mia vita».

Una vita che, prima dell’inchiesta, era tutta votata alla politica, con una carriera che in quella fase era all’apice.

«Indubbiamente il processo ha bruscamente interrotto la mia carriera. Sono passato dalle stelle alle caverne, diciamo. Dopo la sentenza di primo grado, però, ho ricominciato a vivere scoprendo altri interessi: oggi sono presidente della più gloriosa società di basket femminile in Italia, dal 1 settembre sono in pensione e sono anche diventato nonno. Insomma, ho rimesso in fila i valori e le priorità della vita e oggi sono tranquillo e, soprattutto, sereno».

Dica la verità, la politica non le manca nemmeno un poco?

«La passione politica rimane e non si cancella, ma non ho intenzione nel breve periodo di tornare ad avere un ruolo attivo. Tra l’altro, le confesso che questo particolare momento politico non mi affascina per nulla. Lo considero una fase di imbarbarimento, in cui prevale la deriva demagogico- populista e la politica ha abdicato al proprio ruolo: la linea la dettano i sondaggi e non le convinzioni personali».

Davvero non si porta dentro alcun rimpianto?

«Glielo dico sinceramente: con il senno di poi posso dire che questa indagine, che pure non ha portato a nulla e mi ha colpito in maniera così pesante, non mi ha privato di qualcosa che oggi ambirei a continuare a svolgere. Non ho grandi rimpianti, ecco».

Si sente, allora, di indicare qualche responsabile?

«Il sistema dell’informazione ha molte colpe. Purtroppo, fino all’apertura del processo si sente solo e soltanto la voce dell’accusa e io sono stato processato dal sistema mediatico, solo sulla base della voce di chi mi accusava».

La sua sentenza d’appello segue all’assoluzione dall’accusa di associazione per delinquere a Ottaviano del Turco e a quella piena dell’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. Il sistema politico si sta prendendo la rivincita?

«Io credo che le ultime sentenze debbano almeno far riflettere il mondo dell’informazione, che in molti casi ha ecceduto nel dare per definitive le accuse, come se fossero già una condanna. D’altra parte, le dico anche che proprio queste sentenze mi rafforzano nella convinzione della bontà del sistema giudiziario e nella fiducia nella giustizia».

Eppure prima parlava di accanimento da parte della Procura di Monza.

«Si ma io mi sono difeso nel processo e ho trovato giudici che, superando la pressione mediatica, hanno espresso un giudizio attinente a quanto emerso nella fase dibattimentale, senza far prevalere un pregiudizio sorto sulla base dell’esposizione sulla stampa. Dopo questi sette anni, si è rafforzata in me la fiducia che in Italia ci siano giudici capaci di non essere condizionati dalla pressione dei media e dallo strapotere dell’accusa nella fase istruttoria, ma decisi a fare giustizia».

·         Morto Beppe Bigazzi, volto de «La prova del cuoco».

Morto Beppe Bigazzi, volto de «La prova del cuoco». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. È morto Beppe Bigazzi, volto storico de «La prova del cuoco». Aveva 86 anni ed era malato da tempo. Era stato protagonista di una grande polemica dopo aver spiegato in tv come cucinare i gatti. È morto il giornalista e gastronomo, con un passato da dirigente di azienda, Giuseppe «Beppe» Bigazzi, noto al grande pubblico per la partecipazione al programma televisivo «La prova del cuoco» con Antonella Clerici sulla Rai Uno. Aveva 86 anni ed era malato da tempo. L’annuncio della scomparsa è stato dato dallo chef Paolo Tizzanini, del ristorante «L’Acquolina» di Terranuova Bracciolini, il comune dove Bigazzi era nato il 20 gennaio 1933. L’amico Tizzanini, con cui aveva condotto un programma su Alice Tv, ha scritto su Facebook: «A cerimonia avvenuta vi comunico la perdita di un amico fraterno un grande uomo in tutti i sensi». Bigazzi iniziò a dedicarsi alla sua passione per la gastronomia curando, dal 1997 al 1999, sul quotidiano «Il Tempo» la rubrica «Luoghi di Delizia» e sempre nel 1997 pubblicò il libro «La Natura come Chef» che vince il premio «Verdicchio d’oro». In televisione curò dal 1995 al 2000 la rubrica «La borsa della spesa» all’interno del programma Unomattina su Rai 1 e dal 2000 ha partecipato a «La prova del cuoco» insieme ad Antonella Clerici, sempre sullo stesso canale. In seguito, è passato a Sky, sul canale Alice, dove è stato co-conduttore del programma «Bischeri e bischerate». Nel 2010 fu sospeso dalla «Prova del cuoco» dopo aver proposto una ricetta per cucinare i gatti. Dopo le proteste degli animalisti e le accuse dei Verdi, intervenne anche il sottosegretario alla Salute parlando di «gravità assoluta dell’episodio». Bigazzi provò a spiegare di essere stato frainteso ma fu sanzionato.

Claudia Failli per Arezzonotizie.it il 9 ottobre 2019. E' morto all'età di 86 anni Giuseppe Bigazzi. Noto al grande pubblico con il diminutivo di Beppe è stato per anni protagonista al programma “La prova del cuoco” con Antonella Clerici di cui, nel 2000, divenne pure co-conduttore. Valdarnese di nascita, Bigazzi lottava da tempo contro grave una malattia. La sua passione per la gastronomia lo aveva portato da prima a curare una rubrica sul quotidiano Il Tempo e poi sbarcare in televisione a "La borsa della spesa", sezione all'interno del programma Unomattina su Rai 1. In seguito, è stato co-conduttore del programma Bischeri e bischerate sul canale Sky, Alice. Il 28 febbraio 2013 fece infine il suo ritorno alla La prova del cuoco. Bigazzi fu al centro di un caso televisivo culminato, il 15 febbraio 2010, con la sua sospensione da La Prova del Cuoco. Le ragioni sono tutte da attribuire alla citazione del proverbio "a Berlingaccio chi non ha ciccia ammazza il gatto" (che significa "il giovedì grasso chi non ha più carne da mangiare si ciba del gatto") durante la diretta tv Rai. In quella circostanza spiegò la procedura utilizzata per trattare la carne dell'animale per migliorarne il sapore, riferendo di averla consumata in diverse occasioni durante la sua infanzia passata a Terranuova Bracciolini, suo paese natale. A seguito delle polemiche suscitate dal caso, lo stesso Bigazzi - in un'intervista al Corriere della Sera - ebbe modo di spiegare il reale senso delle sue frasi dichiarando: "Negli anni '30 e '40 come tutti gli abitanti del Valdarno a febbraio si mangiava il gatto al posto del coniglio, così come c'era chi mangiava il pollo e chi non avendo niente andava a caccia di funghi e tartufi non ancora cibi di lusso. Del resto liguri e vicentini facevano altrettanto e i proverbi ce lo ricordano. Questo non vuol dire mangiare oggi la carne di gatto, ho solo rievocato usanze". La scomparsa di Beppe Bigazzi è stata accolta dalla popolazione terranuovese e di tutta la provincia di Arezzo con grande sconcerto. Numerose le dimostrazioni di cordoglio che sono apparse pubblicamente sui social.

Beppe Bigazzi, il pianto di Antonella Clerici: "Quando ti ho sentito l'ultima volta l'ho capito". Libero Quotidiano il 9 Ottobre 2019. Antonella Clerici piange la morte di Beppe Bigazzi, il volto noto della Prova del cuoco di qualche anno fa. Quando ti ho sentito qualche settimana fa ho capito che era un congedo definitivo. Porterò sempre nel cuore le tue ultime parole. Ti ho conosciuto a Unomattina e con te e Anna Moroni abbiamo portato al successo la Prova del cuoco. Tanti anni insieme, indimenticabili". La Clerici ricorda Bigazzi come un vero pioniere: "Tutto quello che oggi è di moda tu l'avevi scoperto già negli anni 90. Eri avanti in tutto. Burbero dal cuore tenero. E io ti volevo bene, tanto. Mi mancherai. Si chiude un altro capitolo... La conclusione del post di Instagram è da far gelare il sangue: "Niente sarà più come prima. Non rimproverare troppo gli angeli se non cucinano con i prodotti giusti... sono imperfetti anche loro".

Laura Rio per “il Giornale” il 10 ottobre 2019. Di lui resterà impressa nella memoria del pubblico televisivo la cacciata dalla Rai nel 2010 per consumo di carne di gatto. Che nella nostra società pare un reato gravissimo. Giuseppe Bigazzi, volto popolare de La prova del cuoco, diventato famoso accanto ad Antonella Clerici, è morto all' età di 86 anni. Conosciuto da tutti come Beppe, era stato un dirigente d'azienda, ma le sue grandi passioni erano il cibo e la divulgazione. Passioni che lo avevano portato in tv fino ad affiancare la Clerici nel più importante programma culinario. L'annuncio della morte è stato dato, a cerimonia avvenuta, dall' amico e chef Paolo Tizzanini, del ristorante l'Acquolina di Terranova Bracciolini ad Arezzo, il paese dove il giornalista e gastronomo era nato il 20 gennaio 1933. Dunque, una conclusione della vita lontano dai riflettori a cui era abituato. Accanto alla Clerici era tornato nel 2013, riformando il famoso trio con Anna Moroni che tanto successo e soddisfazione di ascolti ha dato allo show del mezzogiorno. «Addio Beppe. Quando ti ho sentito qualche settimana fa ho capito che era un congedo definitivo - così Antonella saluta via Instagram l' amico e collega - porterò sempre nel cuore le tue ultime parole. Tutto quello che oggi è di moda tu l' avevi scoperto già negli anni 90. Eri avanti in tutto. Burbero dal cuore tenero. E io ti volevo bene, tanto. Mi mancherai». E conclude: «Non rimproverare troppo gli angeli se non cucinano con i prodotti giusti... sono imperfetti anche loro». Dal primo canale Bigazzi era stato allontanato nel 2010 quando, in una puntata, aveva spiegato come si cucinano i gatti, sollevando un' ondata di polemiche. A nulla era valsa la sua difesa, asserendo di essere stato frainteso. «Negli anni '30 e '40 come tutti gli abitanti della Val d'Arno a febbraio si mangiava il gatto al posto del coniglio - aveva spiegato -. Del resto liguri e vicentini facevano altrettanto e i proverbi ce lo ricordano. Questo non vuol dire mangiare oggi la carne di gatto, ho solo rievocato usanze». Ma Bigazzi è stato molto altro. Cuoco, giornalista, instancabile divulgatore dei prodotti sani, aveva fatto molti mestieri e tutti con grande passione. Dopo una vita da dirigente d' azienda, nel 1997 si era dedicato al suo amore per la gastronomia scrivendo la rubrica «Luoghi di Delizia» per il quotidiano Il Tempo. In tv era arrivato curando, dal 1995 al 2000, lo spazio «La borsa della spesa» all' interno di Unomattina, passando poi alla Prova del cuoco. Negli ultimi anni sul canale Alice conduceva con l' amico Tizzanini Amici miei... Bischeri, storie e segreti della cucina contadina. Prima di dedicarsi alla cucina aveva lavorato alla Banca d' Italia e nel mensile Il Nuovo Osservatore; aveva anche curato, con Renzo De Felice, un' edizione critica degli scritti di Giulio Pastore. Nel 1970 era stato assunto all' Eni dove aveva lavorato fino al 1993, anno del pensionamento. Ma per tutti resterà «quello che fu cacciato dalla Rai per aver dato la ricetta di come si cucinano i gatti».

Antonella Clerici, l’addio a Beppe Bigazzi: “Niente sarà più come prima”. La conduttrice saluta per l’ultima volta il gastronomo volto noto del programma “La prova del cuoco”, malato da tempo e scomparso a 86 anni. Alessandro Zoppo, Mercoledì 09/10/2019, su Il Giornale.  Beppe Bigazzi, il giornalista e gastronomo volto noto del programma La prova del cuoco, è morto all’età di 86 anni. Malato da tempo, Bigazzi è stato custode della tradizione delle campagne toscane in tavola e deve la sua popolarità alla trasmissione di Rai1 condotta dal 2000 al 2018 da Antonella Clerici, che ha voluto salutarlo con un commosso messaggio affidato ai social. “Addio Beppe – scrive la Clerici –. Quando ti ho sentito qualche settimana fa ho capito che era un congedo definitivo. Porterò sempre nel cuore le tue ultime parole”. La conduttrice ripercorre il primo incontro con Bigazzi, avvenuto alla fine degli anni ’90 quando il gourmet “controcorrente” curava la rubrica La borsa della spesa all’interno del programma Unomattina. “Ti ho conosciuto a Unomattina – ricorda la Clerici – e con te e Anna Moroni abbiamo portato al successo La prova del cuoco. Tanti anni insieme, indimenticabili”.

La Clerici: “Beppe Bigazzi avanti in tutto”. Nonostante le polemiche che lo hanno accompagnato (Bigazzi venne sospeso dalla trasmissione nel 2010, quando spiegò la procedura utilizzata per cucinare il gatto in umido nella tradizione del Valdarno degli anni ‘30 e ’40), il giornalista enogastronomico è sempre stato un punto di riferimento per “Antonellina”. “Tutto quello che oggi è di moda – continua la presentatrice – tu l’avevi scoperto già negli anni ‘90. Eri avanti in tutto. Burbero dal cuore tenero. E io ti volevo bene, tanto. Mi mancherai”. “Si chiude un altro capitolo... – conclude la Clerici – Ti abbraccio ricordando una delle tue celebri massime: ‘La conoscenza fa la differenza’. Niente sarà più come prima. Non rimproverare troppo gli angeli se non cucinano con i prodotti giusti... sono imperfetti anche loro. La tua Antonellina”.

Elisa Isoardi ricorda Beppe Bigazzi: ​"Ha dato voce alla qualità in tv". La conduttrice ha aperto il programma con un ricordo e il video del loro primo incontro, dedicando a Beppe Bigazzi un sentito omaggio. Novella Toloni, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. La puntata odierna de La Prova del Cuoco si è aperta con un sentito omaggio a Beppe Bigazzi. Elisa Isoardi e la produzione hanno voluto ricordare Bigazzi, morto nei giorni scorsi, come personaggio cardine delle prime edizioni del programma culinario della Rai. La conduttrice, visibilmente commossa, ha salutato il pubblico, esordendo: "La puntata di oggi comincia sotto tono perchè dobbiamo salutare una persona davvero molto importante. Una persona che mi ha accolto, la prima volta nel 2009, in questo modo". Sul maxi schermo è partito, così, il video del primo incontro tra la Isoardi e il popolare gastronomo toscano. Al rientro in studio, Elisa Isoardi ha dedicato a Beppe Bigazzi parole di elogio: "Lui ha insegnato a tutta Italia il valore del legame tra la terra e la cucina, senza di lui non esisterebbe la tv che parla di qualità. Lui è stato il primo, 20 anni fa, oggi lo fanno tutti e non esiterebbe questa Prova del Cuoco. Grazie Beppe, soprattutto per quello che ci hai regalato". Anche il co-conduttore, Claudio Lippi, si è unito al commosso saluto a Bigazzi: "Beppe 20 anni fa diceva delle cose per cui è stato scambiato per un marziano. Invece diceva cose attualissime". Un coro unanime di saluti e ricordi che è uscito anche dagli schermi televisivi, trasferendosi sui social dove Antonella Clerici ha omaggiato l'amico con un post social toccante. Loro due, insieme a Anna Moroni, hanno portato il programma culinario più longevo e seguito della televisione italiana al successo. Poco importa se la Rai fu costretta a metterlo alla porta, nel 2010, per le dichiarazioni su come si cucinavano i gatti al posto dei conigli. Nel cuore del pubblico rimarrà sempre semplicemente Beppe Bigazzi.

"Bigazzi non era gravemente malato, si è lasciato andare". Morto all'età di 86 anni, Beppe Bigazzi non soffriva di una grave malattia. Lo ha chiarito un suo amico, lo chef Paolo Tizzanini. La persona che ha diffuso la notizia della morte a esequie avvenute. Raffaello Binelli, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. Sulla morte di Beppe Bigazzi, avvenuta alcuni giorni fa, si sono lette tante cose. Ma uno dei suoi amici più cari, lo chef Paolo Tizzanini, dice che si è diffusa una grande inesattezza. Vediamo subito di cosa si tratta: Bigazzi non sarebbe stato gravemente malato. Lo chef parla invece di una scelta, più o meno consapevole, di "lasciarsi andare". Una scelta che, ovviamente, va rispettata. Così come la decisione di Bigazzi di rendere nota la notizia della sua morte solo a esequie avvenute, stilando una lista di poche persone, tra amici e parenti, da informare affinché potessero partecipare al funerale. In un’intervista a Fanpage.it Tizzanini rivela che il suo amico Bigazzi "ha scelto di andarsene tranquillamente senza troppi clamori. Si era ritirato a vita privata dal momento in cui aveva deciso di chiudere con la televisione ma la sua mente è stata lucidissima fino all’ultimo giorno". Nessuna grave malattia, però. "Non mangiava più ma era a casa tranquillo, sereno nel suo letto". E quando il suo medico l'ha visitato l'ultima volta, giovedi della scorsa settimana, loavrebbe pure bonariamente rimproverato: "Lei non ha una malattia. È lei che non reagisce". In realtà un problema di salute lo aveva avuto Bigazzi, "di quelli che capitano a chi ha 80 anni", spiega Tizzanini, "ma l’aveva superato abbastanza bene... La sua non era la cartella clinica di un malato terminale. Non lottava contro alcun male. Ha scelto di lasciarci in modo sereno. Non era intubato o gravemente malato".

La prova del cuoco: addio al gastronomo Beppe Bigazzi. È morto a 86 anni l'ex manager, diventato uno dei più celebri esperti di gastronomia. "Era colto, irriverente, antesignano del moderno mangiare", dice Antonella Clerici. Francesco Canino il 9 ottobre 2019 su Panorama. Quel "bischero" di Beppe Bigazzi se n'è andato. A 86 anni è morto lo storico e irriverente volto de La prova del cuoco, che per molti anni affiancò Antonella Clerici nel cooking show di Rai 1. Ad annunciarlo è stato è stato l'amico chef Paolo Tizzanini, con un post su Facebook nel pomeriggio del 9 ottobre, a funerale avvenuto: malato da tempo, l'ex manager ed esperto di enogastronomia, se n'è andato in punta di piedi provocando una commossa reazione sui social.

La prova del cuoco, addio al "bischero" Beppe Bigazzi. Quante vite abbia vissuto Beppe Bigazzi, classe 1933, è difficile dirlo. Dopo la Laurea in Scienze Politiche, nel 1959 all'Università di Firenze, lavorò presso la Banca d'Italia fino al '66, anno in cui curò con lo storico Renzo De Felice I Lavoratori dello Stato, un'edizione critica della raccolta di scritti e discorsi di Giulio Pastore. Nel '68 fu nominato vicesegretario generale del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno e nel 1970 fu assunto all'Eni, dove lavorò fino al 1993, anno del pensionamento, svolgendo diversi incarichi dirigenziali, dalla presidenza della Maserati al ruolo di Amministratore delegato di Agip Petroli. La passione per l'enogastronomia la coltivò in parallelo, facendone un lavoro vero e proprio, collaborando prima con diversi giornali fino ad approdare in tv. "Ha girato il mondo, ha avuto una carriera importante e negli anni ha sviluppato una vera e propria !"mania degli ingredienti". Aveva amore e sapienza, non cedeva ad alcun compromesso quando si trattava di cucina. Era irreprensibile quando si parlava di cibo",  spiega a Panorama.it Luisanna Messeri, altro volto di punta dei tele-fornelli italiani, che con Bigazzi co-condusse il programma Bischeri e bischerate su Alice Tv. "Il nostro era un vero e proprio corpo a corpo. Lui era di ferro, non lo smontavi con nessuna argomentazione", ricorda ancora la Messeri. "Mi sentiva di famiglia perché il mio babbo era di Terranuova Bracciolini, il suo paese, nel Valdarno. Per me è stato un incontro incredibile: era un dizionario vivente, un enciclopedico e non perché lo aveva imparato a memoria ma perché aveva assaggiato e toccato con mano". E con la Messeri condivideva il "culto" per Pellegrino Artusi, forse il più celebre gastronomo italiano, autore dell'iconico La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. "Nella case di noi toscani, l'Artusi non manca mai. Beppe gli riconosceva la funzione di codificatore della cucina e proprio come l'Artusi, non sapeva cucinare nulla: in compenso di ogni ricetta sapeva come doveva essere fatta e quali ingredienti andavano scelti. Era goloso e granitico nella cura di ogni dettaglio di un piatto. Per questo sapeva mangiare bene". 

Il ricordo di Antonella Clerici . "Un burbero dal cuore tenero", così Antonella Clerici lo ha definito via Instagram, postando un lungo ricordo di Bigazzi, al suo fianco in tante edizioni de La prova del cuoco, palcoscenico delle sue invettive gastronomiche e dei siparietti cult con la conduttrice e con la cuoca Anna Moroni. "Era davvero unico, avanti, antesignano del moderno mangiare", spiega a Panorama.it Antonella Clerici, che lo conobbe a UnoMattina, ci lavorò per due anni e poi lo volle anche nel cast del cooking show di Rai 1. "Era irriverente e colto, adoravo la sua cultura e la sua saggezza. Sapeva essere duro e tosto ma per lui ero come un figlia. Leggendo in queste ore i commenti sui social capisco quante generazioni abbiamo divertito ed educato. Per me è come se fosse calato il sipario su un'epoca", aggiunge commossa. 

L'episodio che gli costò la sospensione dalla Rai. Cultore di cibo, prodotti e ricette della tradizione, di cui era un conoscitore profondo, è stato tra i primi a difendere l’immenso patrimonio enogastronomico italiano e lo ha fatto con passione e intransigenza, anche andando in scontro diretto e non sottraendosi alle provocazioni. E fu proprio Antonella Clerici a richiamarlo a La prova del cuoco, dopo una lunga sospensione avvenuta nel 2010, durante la prima edizione condotta da Elisa Isoardi, quando durante una diretta spiegò di come negli anni '30 e '40 la gente si cibava anche di carne di gatto per sopperire alla mancanza di proteine.

"Come tutti gli abitanti del Valdarno, a febbraio, si mangiava il gatto al posto del coniglio, così come c'era chi mangiava il pollo e chi non avendo niente andava a caccia di funghi e tartufi non ancora cibi di lusso. Del resto liguri e vicentini facevano altrettanto e i proverbi ce lo ricordano. Questo non vuol dire mangiare oggi la carne di gatto, ho solo rievocato usanze", spiegò in seguito. 

Solo pochi intimi al funerale di Beppe Bigazzi. L’elenco lo aveva scritto lui. Arno.it il 10 ottobre 2019. L’elenco delle persone che hanno partecipato al funerale di Beppe Bigazzi, morto a 86 anni, l’aveva scritto lui stesso. Ed era un elenco assai ristretto: solo venti persone. L’annuncio della morte lo ha dato uno dei suoi amici, lo chef Paolo Tizzanini, sulla propria bacheca Facebook: “A cerimonia avvenuta vi comunico la perdita di un amico fraterno un grande uomo in tutti i sensi”. Sotto campeggia la foto di Bigazzi, con la copertina di un suo libro, “Orti Custodi”. I due oltre che amici erano colleghi, insieme avevano condotto un programma sul canale Alice Tv (“Bischeri e bischerate”). Le esequie si sono svolte lunedi 7 ottobre in una piccola chiesa di Roma. “Beppe – rivela Tizzanini – non si è mai sentito un vip e aveva espresso la chiara volontà di avere un funerale riservato solo ai parenti e agli amici stretti. Ecco perché abbiamo annunciato la sua scomparsa solo dopo le sue esequie”. Amici di lunga data, Tizzanini racconta di essere stato a trovare Bigazzi pochi giorni prima della morte, lo scorso 3 ottobre: “Gli ho portato le eccellenze del nostro territorio che lui amava tanto: fagioli zolfini, pane di Gorgiti e del vino buono”. Fabrizio Diolaiuti, giornalista, scrittore e autore tv, molte volte ospite della “Prova del cuoco”, ha ricordato l’ultimo colloquio che ha avuto con Bigazzi: “Come stai? Fabrizio, ti voglio tanto bene ma non mi chiamare più. Ci siano salutati così. Che carattere. Un uomo incredibile. Intelligente e allegro. Diretto, sincero. Che bello aver condiviso il lavoro e la ricreazione del dopo lavoro insieme a te. Anch’io ti ho voluto e ti voglio tanto bene. Viva Beppe”. Bigazzi aveva espresso il desiderio che le proprie ceneri venissero sparse sulle Balze del Valdarno, spettacolari rilievi di detriti stratificati formati per erosione in seguito al prosciugamento di un lago che ricopriva la zona due milioni di anni fa. Il primo ad accorgersi della loro particolarità fu Leonardo da Vinci, che ne parlò nei suoi manoscritti.

·         Lionello Massobrio.

Lionello Massobrio. Marco Giusti per Dagospia il 22 novembre 2019. Cosa dire di un regista che ha passato la vita tra la regia di caroselli, davvero una marea, dai primi anni’60 in avanti, con tutti i marchi possibili, Facis, Durban’s, Camay, Isolabella, Piaggio, e l’attività politica, diventando addirittura fondatore del quotidiano “Lotta Continua” e editore de “Il Male”? Al tempo ben si addiceva a lui il soprannome di “Motta Continua”. Lionello Massobrio, pisano, raffinato uomo di cinema, montatore e poi regista, scrittore, attivista politico, editore, se ne va in quel di Montagnano, dove da anni si era ritirato. Anche se non aveva certo smesso di fare cinema. Lo faceva, e benissimo, quasi amatorialmente, ma i suoi piccoli film d’arte era assolutamente godibili, come uno dedicato ai centenari pisani, o quello dedicato a Adriano sofri negli anni del carcere, L’erba voglio. Del resto era nato e cresciuto nel cinema, visto che sua mamma, Maria Rosada, traduceva a Parigi le didascalie dei film muti, e a 32 anni dirigeva il Reparto Montaggio a Cinecittà, diventando poi insegnante di Montaggio al Centro Sperimentale di Cinematografia. Lui stesso diventa montatore a 18 anni con un film di grande successo come Domani è un altro giorno di Léonide Moguy. Ma lavorò anche per Raffaello Matarazzo, I figli di nessuno, Marco Ferreri, L’ape regina, Controsesso, per film di puro consumo come Cocco di mamma, Il tesoro di Rommel e con Joris Ivens per il documentario L'Italia non è un paese povero, con Valentino Orsini e i fratelli Taviani, pisani come lui, nel loro film d’esordio, Un uomo da bruciare. Furono proprio i Taviani, già attivissimi nel mondo del documentario industriale e nella pubblicità a portarlo alla Recta Film, prima come montatore, lavorò con loro alla serie dei Flippers, celebre gruppo musicale capitanato da Max Catalano, Stefano Torossi e Lucio Dalla, e poi da solo come regista. Dal 1966 alla fine degli anni ’70, gli anni di Carosello insomma, diresse un numero incredibile di pubblicità, prima alla Recta Film di Cesare Taurelli e Vittorio Carpignano poi alla Film Makers di Gianni Baroncelli. Passa dalla serie “Ciao amici” con The Rokes, Dino per le caramelle Lys ai Facis con Alberto Lupo, dalle bibite ai prodotti per capelli dirigendo Catherine Spaak, Laura Antonelli all’Amaro 18 Isolabella con Corradi. Celebre è la sua serie “Tre volti un problema”, che durò dal 1970 al 1976, con Ugo Gregoretti protagonista sul problema della calvizie risolta con il magico Endoten Control. Come tanti registi del tempo, da Ugo Gregoretti a Nanni Loy, agli stesso Taviani, non si vergognò affatto di fare pubblicità, anche se per lui diventò presto il lavoro principale, con la quale poi finanziò gran parte delle sue attività politiche. Fonda così con Pio Baldelli, Angelo Brambilla Pisoni, Marco Boato la Tipografia 15 Giugno e da lì fonderà presto il quotidiano “Lotta Continua”. Dirige in pieno ’68 un film, ovviamente impegnatissimo, Il rapporto, con Giulio Brogi e Isabel Ruth protagonisti, ma ci sono anche Ivan Della Mea e Randi Lind, la moglie di Adriano Sofri. Fu uno dei capi del boicottaggio della Mostra del Cinema di Venezia. Fu attivissimo addirittura nel movimento per la liberazione dell'Angola con il documentario La vittoria è certa. Rimase ben otto mesi in Angola, con i cinque leader di Lotta Continua, per realizzare il film che doveva celebrare la lotta di liberazione dell' Mpla di Agostinho Neto. Il titolo integrale era «A luta continua, a vitória é certa». Tutto quello che guadagnava, come altri milutanti, lo metteva nell’attività politica e nelle cause più disparate. Fu anche editore de “Il Male”. Lavorò come volontario nel carcere Don Bosco di Pisa, dove era rinchiuso il suo amico Adriano Sofri. Se ne va, insomma, un cineasta militante come pochi, anche se fondamentale per la storia della nostra pubblicità. Ricordava che il nonno, prima di morire, gli aveva detto questa massima: «La memoria, fijetto mio, è solo la colla che usamo pe' cercà de rimette assieme i cocci de la vita».

·         Addio a Michael J. Pollard, l'attore di Gangster Story.

Addio a Michael J. Pollard, l'attore di Gangster Story. All'età di 80 anni è morto Michael J. Pollard, mito della Hollywood anni '60 che ha preso parte al celeberrimo Gangster Story. Carlo Lanna, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. La notizia ha sconvolto e rattristato il mondo del cinema. È morto Michael J. Pollard, celebre attore americano, che con le sue interpretazioni ha lasciato il segno firmamento di Hollywood durante gli anni ’60. Protagonista di numerosi film che sono diventati veri e propri cult, Michael J. Pollard è ricordato soprattutto per ruolo che ha ricoperto in Gangster Story. Serafico e con uno sguardo di ghiaccio, l’attore è riuscito a interpretare diversi ruoli durante tutta la sua carriera. Dare voci ai "cattivi" era il suo forte. Aveva il fisico e la prestanza di raccontare il punto di vista dei villain con grande disinvoltura, regalando tutte le volte grandi prove da attore. La notizia della sua morte è trapelata sull’Hollywood Reporter, in cui Dawn Walker, il suo amico più caro, ha informato la stampa di quando è accaduto. È deceduto a 80 anni al Ronald Regan Medical Center dell’Università della California, precisando che il decesso è avvenuto nella giornata di giovedì. Michael J. Pollard ha esordito nei cinema negli anni ’60, e di quel periodo, sono tanti i film a cui ha preso parte come "Le avventure di un giovane" e "I Selvaggi", ruolo che lo ha consacrato al successo. Ma è con "Gangster Story" che la sua bravura e il suo talento è stata riconosciuta da tutti, dato che per il film è stato candidato agli Oscar come Miglior attore non protagonista e vincendo un Bafta come miglior attore esordiente. Successivamente ha ricoperto ruoli di un certo rilievo come "La straordinaria fuga dal campo 7 A" e "Lo Spavaldo!, dove ha diviso lo schermo con Robert Redford. Celeberrimo è il film del 1972 in cui ha interpretato lo psicopatico Billy The Kid nel film "Dirty Little Billy" che in Italia è conosciuto come "Il Piccolo Billy". Ma ha recitato anche in Roxanne, in "La casa degli orrori" e "Tango & Cash". L’ultimo film in cui è apparso è del 2003, diretto da Rob Zombie, e anche questo è diventato un vero e proprio cult. "È stata una persona straordinaria. Ho amato il suo lavoro e la sua presenza scenica – si legge nel cordoglio sui social – . Ha rappresentato un mito per me ed è stato uno degli attori che ho sempre voluto dirigere". Rob Zombie è solo uno dei tanti che piange la scomparsa di Michael J. Pollard. È stata una presenza scenica in molte generazioni. Persino l’attore Michael J. Fox ha adottato la "J" nel suo nome in omaggio a Pollard, di cui è stato un grande ammiratore.

Michael J. Pollard rip. Marco Giusti per Dagospia il 23 novembre 2019. Stavo proprio ascoltando “Wanted Man”, la canzone che Bob Dylan scrisse nel 1967 per Johnny Cash inserita come colonna sonora del film Lo spavaldo o Little Fauss and Big Halsy di Sidney J. Furie, e che cantano insieme nella recente raccolta di inediti “Traveling’ Thru”, quando leggo che se ne è andato a 80 anni, attacco cardiaco, proprio Michael J. Pollard, il co-protagonista del film assieme a Robert Redford. Il piccolo Pollard era Little Fauss mentre l’alto Redford era Big Halsy. Assieme giravano in moto per l’America post-Easy Rider con le canzoni di Johnny Cash e Bob Dylan. Del resto Pollard aveva già girato un film di motociclisti pazzi come I selvaggi di Roger Corman con Peter Fonda e Bruce Dern. Aveva il ruolo di Pigmy. Bei tempi. Tempi dove un semisconosciuto, come era allora Michael J. Pollard, buffo, piccolo, riccioluto, figlio di un barista polacco, faccia da bambino che nascondeva una tipica cattiveria da cinema, poteva essere candidato all’Oscar come non protagonista nel capolavoro di Arthur Penn, Bonnie and Clyde. Era Clarence W. Moss, il terzo della banda assieme a Warren Beatty e Faye Dunaway, ovviamente il verme, quello che farà la spia alla polizia. Ma erano anche tempi in cui, drogato e sempre ubriaco, Pollard poteva essere il co-protagonista di un attore ancora più pazzo e ubriaco di lui, cioè Oliver Reed, in Hannibal Brook di Michael Winner, film di fuga da un campo di nazisti situato vicino a uno zoo e girato in Austria. “Perché non la smetti con gli abusi di droga e alcol?”, gli chiese Winner. “Ma tu sei mai stato in un albergo con Oliver Reed?”, fu la risposta più che convincente, visto che Oliver Reed beveva qualsiasi cosa e poi pisciava sulle bandiere degli alberghi, soprattutto quella austriaca e tedesca salvando solo le bandiere inglesi. Così dovevano cambiare albergo ogni settimana. Furono proprio questi abusi a segare la carriera più che promettente, dopo la nomination agli Oscar, di Michael J. Pollard. Negli anni ’60, appena uscito dall’Actor’s, aveva fatto colpo a Broadway recitando con George C. Scott in “Comes The Day” e in “A Loss of Roses” di William Inge. Lo avevano così lanciato in tv, un mare di serie come Gunsmoke, Il virginiano, Star Trek, Lost in Space, e al cinema, dove ebbe anche un contratto per la Universal in film non troppo riusciti, ricordo Jigsaw di James Goldstone, un giallo che uscendo dopo Bonnie And Clyde lo rilanciò come protagonista. Diventato popolare poteva fare coppia con Robert Redford e con Oliver Reed. Ma gli eccessi dovevano davvero essere troppi per Hollywood, visto che lo relegano presto in ruoli minori o in piccoli film d’arte come Little Dirty Billy di Stan Dragoti, dove è appunto il Piccolo Billy The Kid in versione punkeggiante. O come Enter Laughing di Carl Reiner con Elaine May. Robert Altman lo vorrebbe come protagonista di Brewster McCloud, ma poi sceglie Bud Cort. Creava meno problemi. Finisce negli spaghetti western, spalla di Brigitte Bardot e Claudia Cardinale in Le pistolere di Christian-Jacque e poi socio di Fabio Testi nel western sadico di Lucio Fulci I 4 dell’Apocalisse, dove non solo interpreta l’ubriacone Clem, ma si sentì pure male sul set per il troppo alcol e venne sostituito da una comparsa di spalle. Lo ritroviamo, di quando in quando, in film interessanti girati da vecchi amici o da giovani fan. Un elenco che comprende S.O.S. Fantasmi con Bill Murray, Tango & Cash, Arizona Dream di Emir Kusturica con Johnny Depp e Faye Dunaway, Dick Tracy di Warren Beatty. Nel Superman giovanile della tv Superboy, 1988, è il cattivo Mister Mxyzptik. Lo riscopre più recentemente Rob Zombie nell’horror rock La casa dei 1000 corpi e gli affida un bel ruolo. Lo troviamo in parecchi film recenti, anche nell’ancora inedito The Next Cassavetes diretto da Steven Lysenko e Alexander Yurchikov, ancora un film sul cinema degli anni ’60.

·         Morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra.

Morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra, aveva 68 anni. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. È morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra. Presidente dell’Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico e direttore scientifico di Bioequilibrium, aveva 68 anni. Specializzata in diverse tecniche di approccio al paziente (psicoterapia, analisi bioenergetica, gestalt, terapia individuale e di gruppo, training autogeno, E.M.D.R., mindfulness), ha partecipato a numerose conferenze, eventi divulgativi e trasmissioni televisive (frequente la sua presenza a «La vita in Diretta») e radiofoniche (da radiorai a Rtl) su argomenti riguardante temi psicologici e sociologici. Ha collaborato per dieci anni con il reparto di scienze neurologiche della Sapienza. Ha scritto e pubblicato articoli scientifici e divulgativi e testi monografici. Fin dal 1980 ha organizzato e tenuto workshop per aziende e istituzioni, su varie tecniche per il miglioramento del rapporto di fiducia con se stessi, la gestione dell’ansia-stress, l’imparare a essere vincenti, il riorganizzare le energie per affrontare momenti di precarietà e corsi che hanno riguardato le difficoltà individuali e relazionali. I funerali si terranno a Roma sabato alle 11 nella chiesa di San Gioacchino in Prati, via Pompeo Magno 25. La camera ardente è aperta oggi, venerdì, tutto il giorno, presso la clinica Quisisana.

Morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra. Aveva 68 anni. Specializzata in diverse tecniche di approccio al paziente (psicoterapia, analisi bioenergetica, gestalt, terapia individuale e di gruppo, training autogeno, Emdr, mindfulness), ha spesso fatto divulgazione in tv e radio su argomenti a carattere psicologici e sociologici. E collaborato con l'unione nazionale consumatori sui temi della ludopatia e della digital addiction. La Repubblica il 22 novembre 2019. E' morta a Roma Paola Vinciguerra, psicoterapeuta, presidente Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) e direttore scientifico di Bioequilibrium. Aveva 68 anni. Specializzata in diverse tecniche di approccio al paziente (psicoterapia, analisi bioenergetica, gestalt, terapia individuale e di gruppo, training autogeno, Emdr, mindfulness), ha partecipato a numerose conferenze, eventi divulgativi e trasmissioni televisive e radiofoniche su argomenti riguardante temi psicologici e sociologici. Vinciguerra ha firmato numerosi articoli scientifici e divulgativi e testi monografici. Fin dal 1980 ha organizzato workshop per aziende e istituzioni su tecniche per il miglioramento del rapporto di fiducia in se stessi, la gestione dell'ansia-stress, per riorganizzare le energie e affrontare momenti di precarietà. Vinciguerra aveva collaborato con l'Unione nazionale consumatori sui temi della ludopatia, della digital addiction. "In situazioni come queste -dichiara in una nota il presidente dell'Unc, Massimiliano Dona - al dolore per la scomparsa di figure così importanti si affianca un fortissimo senso di riconoscenza. Paola Vinciguerra ha illuminato con la sua professionalità molte delle iniziative realizzate dall'Unione nazionale consumatori, portando nella nostra organizzazione una ineguagliabile carica propulsiva. Non è stata soltanto una guida preziosa nelle problematiche delle dipendenze, ma anche fonte di ispirazione durante corsi di team building interni". "Quando penso a Paola Vinciguerra - conclude Dona - piuttosto che al lavoro fatto insieme (a cominciare dai libri scritti a quattro mani) penso al lascito di consapevolezza che ci ha donato: tutto il team di Unc si stringe ai familiari, in particolare al marito Valdo e alla figlia Eleonora". I funerali si terranno domani a Roma alle ore 11.00, alla chiesa di S. Gioacchino in Prati (via Pompeo Magno 25).

·         Morta Adriana Spazzoli, moglie di Giorgio Squinzi.

orta Adriana Spazzoli, moglie di Giorgio Squinzi: aveva 71 anni. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Era anche presidente della Fondazione Sodalitas, il volontariato di impresa: «Innovazione, sostenibilità, attenzione alle persone e presenza forte nella comunità sono i valori condivisi dalle aziende aderenti a Fondazione Sodalitas», aveva dichiarato in occasione della nomina. «Oggi più che mai è necessario che le imprese più avanzate si impegnino a fondo per realizzare un nuovo modello di sviluppo, sostenibile e inclusivo».

La moglie di Squinzi morta 50 giorni dopo il decesso del marito. Adriana Spazzoli, moglie dell'ex Presidente del Sassuolo Giorgio Squinzi, non ce l'ha fatta ed è deceduta quest'oggi dopo una lunga malattia: "Che riposino in pace, insieme". Marco Gentile, Venerdì  22/11/2019 su Il Giornale. Sono passati 51 giorni dalla morte del patron del Sassuolo ed ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, ma il club neroverde deve incassare un'altra brutta notizia: anche la vedova dell'ex numero uno del club non ce l'ha fatta. Adriana Spazzoli era anche lei malata da tempo e non ce l'ha fatta vincere la sua battaglia. Le sue condizioni di salute tra l'altro erano notevolmente peggiorate subito dopo la morte del marito e oggi la Mapei ha dato questa triste notizia: Ecco il comunicato ufficiale diramato dalla società dell'ex patron Squinzi: "La dottoressa Adriana #Spazzoli è tornata al fianco del dottor Giorgio #Squinzi. Non smetteremo di "pedalare" anche per lei, che insieme al marito ha guidato #Mapei SpA e ognuno di noi con carisma, competenza, rigore, passione e umanità. Che riposino in pace, insieme". La dottoressa Adriana #Spazzoli è tornata al fianco del dottor Giorgio #Squinzi. Non smetteremo di "pedalare" anche per lei, che insieme al marito ha guidato #Mapei SpA e ognuno di noi con carisma, competenza, rigore, passione e umanità. Che riposino in pace, insieme pic. Squinzi ha fatto tanto per la Mapei e per il Sassuolo, era nato a Cisano Bergamasco nel 1943 e nel 1969, e all'età di 26 anni, si laureò in Chimica Industriale all'Università Statale di Milano e l'anno successivo sposò Adriana Spazzoli nella chiesa di Polenta, sua moglie dunque per 50 anni. Per la morte del patron Squinzi il Sassuolo aveva chiesto ed ottenuto di rinviare la partita contro il Brescia e la Lega calcio aveva accolto di buon grado la richiesta del club neroverde con il club lombardo che aveva dato il suo consenso a spostare la gara a dicembre. Squinzi, grande tifoso del Milan oltre che patron del Sassuolo, aveva ricevuto messaggi di cordoglio proprio dalla sua squadra del cuore nel giorno della sua scomparsa: "Giorgio Squinzi, un grande uomo d'industria e sport, un dirigente illuminato e appassionato, da ricordare e onorare. Il cordoglio di tutto il Milan è commosso e rispettoso nei confronti del presidente del Sassuolo. Sentite e sincere condoglianze rossonere alla sua famiglia". Sicuramente la sfida di domenica, ore 15, contro la Lazio di Simone Inzaghi non sarà rinviata ma di certo i tifosi del Sassuolo sapranno onorare al meglio la memoria della signora Adriana, deceduta a soli 71 anni, a cui sarà dedicato un minuto di silenzio da parte tutto il pubblico del Mapei Stadium.

Adriana Spazzoli, la moglie di Giorgio Squinzi è morta 50 giorni dopo il marito. Aveva 71 anni, era malata da tempo. L'ex presidente di Confindustria era scomparso da appena un mese e mezzo. La Mapei Sport: "Non smetteremo di 'pedalare' anche per lei". Tanti messaggi di cordoglio. La Repubblica il 22 novembre 2019. A un mese e mezzo dalla morte del marito Giorgio Squinzi si è spenta a Milano Adriana Spazzoli, all'età di 71 anni. La vedova Squinzi era malata da tempo e dopo la perdita del marito, che è stato amministratore della Mapei e ha ricoperto anche il ruolo di presidente di Confindustria, le sue condizioni di salute erano peggiorare ulteriormente. Adriana Spazzoli era forlivese, si era sposata con Squinzi nel 1971 a Bertinoro, in provincia di Forlì-Cesena. La coppia ha due figli, Marco e Veronica, da tempo già impegnati nella Mapei. "Nella serata di ieri ci ha lasciato la nostra cara Dottoressa Spazzoli - si legge nella nota dell'azienda - In questi anni la sua straordinaria energia, la sua innata e contagiosa passione hanno contribuito significativamente allo sviluppo ed alla crescita mondiale del Marketing e della Comunicazione di Mapei". La Mapei Sport ha condiviso la notizia del lutto sui social: "La dottoressa Adriana Spazzoli è tornata al fianco del dottor Giorgio Squinzi. Non smetteremo di 'pedalare' anche per lei, che insieme al marito ha guidato Mapei spa e ognuno di noi con carisma, competenza, rigore, passione e umanità. Che riposino in pace, insieme". L’ex presidente degli industriali italiani è stato proprietario del Sassuolo calcio dove la moglie ricopriva il ruolo di vice-presidente. Il sindaco di Sassuolo, Gian Francesco Menani, ricorda Adriana Spazzoli: "A fianco del marito ha saputo fare cose immense tanto nel mondo imprenditoriale quanto nello sport, con la professionalità di un manager capace e, al tempo stesso, il sorriso dolce di una donna gentile. Da lei arrivano alcune delle intuizioni più felici, in termini di marketing e comunicazione, che hanno trasformato un Sassuolo con pochi tifosi e scarse speranze di salvezza in C2 in una squadra ammirata in tutto il mondo, la 'seconda squadra' di molti italiani". Tanti i messaggi di cordoglio: "Imprenditrice, madre e moglie modello", "grande donna". "Apprendo con tristezza della scomparsa di Adriana Spazzoli - scrive il sindaco di Milano Beppe Sala - Mi stringo calorosamente intorno ai figli Veronica e Marco, portando loro l'affetto di tutta la città che ne ricorderà per sempre i meravigliosi genitori". Si unisce al ricordo Antonio Patuelli, presidente di Abi e della Cassa di Ravenna: "Di Giorgio e Adriana conserverò tanti bei ricordi di confronto intellettuale e professionale". Il presidente del gruppo Kerakoll Romano Sghedoni che, insieme col suo amministratore delegato Andrea Remotti, commenta: "Oggi è mancata una grande imprenditrice, una moglie e una madre modello. Non si poteva parlare del dottor. Squinzi senza pensare anche a lei, alla dottoressa Spazzoli. Le loro vite si sono trasformate, il loro spirito vive, in una unità che rimarrà per sempre". Cordoglio per la vedova Squinzi è espresso dal sindaco di Forlì Gian Luca Zattini: "Illustre concittadina e donna dalle solide radici forlivesi. Insieme al marito, il compianto Giorgio Squinzi, la signora Adriana è stata un punto di riferimento solido, saggio e prezioso in virtù della quotidiana attenzione, della passione e dell'affetto dimostrati nel sostenere costantemente il nostro territorio". Cordoglio è stato espresso anche dalla senatrice leghista Lucia Borgonzoni, candidata per il centrodestra alla presidenza della Regione Emilia Romagna: "La Romagna perde una sua cittadina illustre".

·         Muore a Milano Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria.

Muore a Milano Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria. L'amministratore unico della Mapei, 76 anni, era malato da tempo. "Alla guida degli industriali, ho cercato di comportarmi da imprenditore nato in una famiglia di imprenditori", aveva detto lasciando l'incarico. Il suo impegno nel calcio e nel ciclismo. La Repubblica il 02 Ottobre 2019. E' morto nel tardo pomeriggio all'ospedale San Raffaele di Milano Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria e proprietario del Sassuolo Calcio ma soprattutto amministratore unico della Mapei, azienda chimica fondata dal padre negli anni '30 diventata leader mondiale nella produzione di adesivi, sigillanti e prodotti chimici per l'edilizia. Malato da tempo, era ricoverato da due settimane nella struttura alle porte di Milano, dove non gli sono mancati l'affetto della moglie Adriana e dei due figli Marco e Veronica, già da tempo impegnati nella Mapei. Nato 76 anni fa a Cisano Bergamasco, laureato in Chimica al Politecnico di Milano, Squinzi è diventato presidente di Confindustria nel 2012. Un incarico che ha mantenuto fino al 2016 con lo stile che lo contraddistingueva. "Io sono nato imprenditore, in una famiglia di imprenditori - ha detto nel suo ultimo messaggio come capo degli industriali - ed ho cercato anche in questi anni di comportarmi come imprenditore per il bene di tutto il nostro sistema associativo". Squinzi aveva però anche altre passioni. A partire dallo sport: per dieci anni ha sostenuto la squadra ciclistica Mapei-Quick Step, fino al 2002 quando in pieno scandalo doping nel mondo delle biciclette ha interrotto la sponsorizzazione. In quell'anno lui, tifoso milanista, ha acquistato il Sassuolo Calcio che ha portato dalla C2 in Serie A. Non a caso il Comune emiliano ha proclamato il lutto cittadino. Squinzi era malato da tempo ma non ha mai permesso alla sua malattia di fermarlo. Appassionato di musica, era entrato nel 2016 nel consiglio di amministrazione proprio della Scala, dove si presentava puntualmente alle riunioni, nonostante le difficoltà di deambulazione. Almeno fino a quella di due giorni fa dove non ha potuto essere presente.

Da fanpage.it il 2 ottobre 2019. È morto a 76 anni il proprietario del Sassuolo e della Mapei Giorgio Squinzi. Da tempo era gravemente malate, ma non sono stati diffusi ulteriori dettagli sul decesso. Ex Presidente di Confindustria per 12 anni,  è stato vicepresidente degli industriali con delega alla ricerca e all'innovazione. Appassionato di ciclismo, il padre Rodolfo era stato per qualche anno professionista di questo sport per questo la sua azienda ha sponsorizzato per dieci anni la squadra professionistica Mapei-Quick Step, con la quale ha vinto quasi tutto. Secondo molti, è stato proprio lui a rivoluzionare il mondo delle due ruote in Italia. Dal 2002 era diventato anche il proprietario della squadra di calcio del Sassuolo, che ha riportato alla ribalta. Lascia la moglie e due figli, Marco (44 anni) e Veronica (43 anni).

Morto Squinzi, da chimico industriale a numero uno di Confindustria. Classe 1943, Squinzi, nato a Cisano Bergamasco, si è laureato in Chimica industriale nel 1969 ed ha prestato la sua attività lavorativa nell'azienda di famiglia, specializzata nella produzione di collanti per pavimentazioni leggere. Nel 1970 insieme al padre, ha poi fondato la Mapei Snc, diventata Spa 6 anni dopo e della quale ha assunto prima il ruolo Direttore generale e poi di Amministratore unico. Nel 1997 è stato eletto Presidente della Federazione Nazionale dell'Industria Chimica, poi riconfermato nel 2005. Nel 2006 è stato nominato Vicepresidente della Confederazione delle Industrie Chimiche Europee e nel 2008 ha ricoperto la carica di Vicepresidente di Assolombarda e di Membro del Consiglio Direttivo di Assopiastrelle. Infine, nel 2012 diventa il numero uno di Confindustria, posizione che ricopre per ben 12 anni.

Squinzi, la passione per il ciclismo e il calcio. Giorgio Squinzi è diventato famoso per la sua passione per lo sport. Amante del ciclismo, la sua azienda ha sponsorizzato per dieci anni la squadra professionistica Mapei-Quick Step, con la quale ha vinto molto, ed è anche il proprietario del club di calcio Sassuolo dal 2002.

Da cinquantamila.it Cisano Bergamasco (Bergamo) 18 maggio 1943. Imprenditore. Dal 22 marzo 2012 presidente di Confindustria (93 voti contro gli 82 dell’altro candidato, Alberto Bombassei, presidente uscente Emma Marcegaglia). Dall’84 amministratore unico della Mapei (Materiali ausiliari per l’edilizia e l’industria, fondata nel 1937 dal padre), 2,20 miliardi di euro di fatturato all’anno (nel 2011). Ex presidente di Federchimica. «Mio padre mi ha attaccato l’ossessione per la crescita, io la sto inculcando nei miei due figli che lavorano con me. Investiamo il 5% del fatturato in ricerca» (da un’intervista di Giuliana Ferraino). • «Campione del made in Italy, uomo di sport, appassionato di musica. L’intuizione di fare della Mapei (azienda fondata dal padre Rodolfo nel 1937 alla periferia di Milano) una “multinazionale tascabile” scatta nel lontano 1976 quando vince l’appalto, insieme con l’azienda piemontese Mondo, per realizzare la pista olimpica di Montréal. Giorgio Squinzi (laureato in Chimica industriale all’Università di Milano) segue la parte vendite, inizia a girare il mondo e impara le lingue: “Dopo aver visitato il cantiere – ammette – ci siamo accorti delle potenzialità del mercato canadese”. Trascorsi due anni viene avviata la prima fabbrica in Canada che si affianca allo stabilimento. Da allora è iniziato un processo di globalizzazione che ha portato Mapei ad aprire 60 impianti produttivi distribuiti in [...]

Paola Pica per il “Corriere della sera” il 3 ottobre 2019. È morto ieri all' ospedale San Raffaele, nella «sua» Milano, il patron della Mapei e del Sassuolo Calcio, Giorgio Squinzi. L' ex presidente di Confindustria era nato il 18 maggio del 1943 a Cisano Bergamasco ma del capoluogo lombardo aveva fatto il luogo di elezione. Prima con gli studi in chimica industriale all' Università Statale, poi buttandosi a capofitto nell' allora piccola ditta di famiglia che il padre Rodolfo aveva avviato nel '37 con quattro operai, in viale Jenner. «Milano è bellissima», ripeteva e non solo perché - il 7 dicembre del 1996 - aveva ricevuto dal sindaco Marco Formentini la massima onorificenza cittadina, l' Ambrogino d' Oro. La città la girava a piedi e qualche volta si spostava in metropolitana. Giorgio Squinzi lascia la moglie Adriana Spazzoli e i due figli, Veronica e Marco. In quasi cinquant' anni - il primo stabilimento della «nuova» Mapei è del 1970 - Squinzi ha creato una multinazionale di materiali edilizi e industriali presente in 81 paesi con 9 mila dipendenti. Il «principe della chimica» come qualche volta veniva chiamato nelle pagine delle cronache si è tenuto a distanza anche negli anni ruggenti. Fedele interprete del credo lombardo «famiglia povera, azienda ricca», Squinzi non distribuiva dividendi. E non licenziava. La Mapei non ha mai chiuso un bilancio in perdita. Sul Corriere una volta disse: «I private equity? Noi non li facciamo neanche sedere!». Eravamo alla fine degli anni 90, ma nel 2016 nell' ultima intervista da presidente di Confindustria ribadì: «La ricetta per me non cambia, non ho mai speculato finanziariamente, preferendo sempre reinvestire nel mio gruppo. E mi fa piacere constatare che nelle nuove generazioni qualcosa va in questo verso». Coltivava, quello sì, un grande interesse per i mercati globali. Nel 1978 iniziò il lungo percorso di internazionalizzazione, aprendo il primo presidio estero in Canada. Parlava senza difficoltà diverse lingue straniere - inglese, francese, tedesco e spagnolo - e fu chiamato a ricoprire incarichi di rilievo in organismi e comitati internazionali. Tra le altre cose, è stato presidente dell' Associazione dell' industria chimica europea, il primo imprenditore a capo di un' organizzazione (Cetif) che raccoglie quasi 30 mila aziende e in precedenza era sempre stata guidata da manager. Tantissimi i riconoscimenti ricevuti nella lunga carriera: Cavaliere di San Gregorio Magno in Vaticano, Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana,Commandeur de l' Ordre de la Couronne in Belgio.Il Politecnico di Milano gli conferì la laurea ad honorem in Ingegneria Chimica, che aggiunse a quella in Chimica industriale, il capo dello Stato Giorgio Napolitano il prestigioso Premio Leonardo Qualità Italia. È stato consigliere superiore della Banca d' Italia, due volte presidente di Federchimica e presidente di Confindustria dal 2012 al 2016. Uno degli ultimi atti della sua presidenza fu guidare dal Papa una delegazione di 7 mila imprenditori, il primo Giubileo degli imprenditori. «L' impresa resta al centro del sistema sociale», disse. La ricerca era un suo pallino e avviò più di un accordo con istituti come il Cnr e le Università. L' altro era il mondo sportivo. La bicicletta una delle grandi passioni ereditate dal papà che era stato corridore professionista fu anche un' esperienza amara. La sponsorizzazione decennale di una squadra di grande successo, la Mapei,s' interruppe un giorno davanti al muro del doping, un fenomeno divenuto per lui insopportabile. Il Sassuolo è rimasto sempre invece un' oasi di serenità. Il Comune ha proclamato ieri il lutto cittadino. Decine di messaggi di condoglianze. L' ex premier Paolo Gentiloni, oggi commissario europeo: «Un imprenditore che ha guardato al mondo forte delle radici nella propria terra». «Grande imprenditore e grande uomo di sport», ha detto il presidente di Rcs Mediagroup, Urbano Cairo. E poi la commozione dell' amico Gene Gnocchi: «Piango Giorgio, un galantuomo».

Pier Bergonzi per gazzetta.it il 3 ottobre 2019. Ha lottato come un leone, come per tutto quello che ha fatto nella vita, ma ieri sera poco dopo il tramonto ha chiuso gli occhi. Per sempre. Giorgio Squinzi è morto nella clinica di Milano dove era ricoverato da due settimane, all'ultimo chilometro di una lunga corsa contro il male. Aveva 76 anni, lascia la moglie Adriana (altra leonessa), i figli Veronica e Marco che lavorano in Mapei, l'azienda gioiello a cui aveva dedicato la vita, e 4 nipoti. Uomo di grande integrità morale è stato il Presidente di Confindustria tra il 2012 e il 2016, per noi è stato anche il patron della Mapei che ha vinto tutto nel ciclismo (squadra numero uno al mondo dal 1994 al 2002) e il proprietario del Sassuolo, un altro dei suoi "miracoli". La famiglia, azienda, il ciclismo (anche pedalato perché è stato un grande cicloamatore), il Milan e il Sassuolo, l'arte contemporanea e la musica lirica hanno allargato la sua esistenza di uomo colto, intraprendente di alto profilo etico. Andarlo a trovare nel megaufficio al sesto piano del fortino Mapei di viale Jenner a Milano era sempre un'esperienza indimenticabile. L'accoglienza di Squinzi era discreta, ma calorosa. Riusciva a comunicare le sue passioni, la sua conoscenza. Mai sopra le righe, mai troppo esposto, era uno di quegli imprenditori della vecchia scuola della grande provincia lombarda, guidata dall'impegno. Quelli della "famiglia povera e azienda ricca", del pensare globale e agire locale. Era nato a Cisano Bergamasco nel 1943. Il papà Rodolfo sognava di diventare un corridore professionista nell'era di Alfredo Binda. Corse anche una Coppa Bernocchi da "indipendente". Come ciclista non sarebbe arrivato lontano e un leggendario "signor Lattuada - come ci raccontava Squinzi - gli propose un posto di lavoro nella sua azienda di intonaci". Papà Squinzi imparò in fretta e nel 1937 si mise in proprio fondando la società che sarebbe diventata la Mapei, nella quale Giorgio entrò dopo la laurea in Chimica industriale. Squinzi, con la moglie Adriana Spazzoli sempre al suo fianco, ha fatto crescere l'impresa di famiglia fino a farla diventare una delle più grandi aziende al mondo nel settore della chimica e dell'edilizia con 83 stabilimenti in 36 Paesi, oltre 10 mila dipendenti e un fatturato che nel 2018 è stato 2,5 miliardi di euro.

SPORT E SOGNI —   Lo sport, con l'arte contemporanea (era molto vicino alla fondazione Guggenheim di Venezia) e la musica lirica (legatissimo alla Scala) è sempre stato in cima alle sue passioni. Girava il mondo per aprire nuovi stabilimenti, assumeva migliaia di operai, ma tornava a casa per pedalare la domenica mattina sulle strade della Brianza (appuntamento al rondò di Monza...) con il gruppo ristretto degli amici di sempre e qualche operaio della Mapei con la stessa dedizione alla bicicletta. Ercole Baldini, l'olimpionico di Melbourne '56, lo implorò di "salvare" la Eldor di Giovannetti e Della Santa alla vigilia del Giro '93. Fu la porta d'ingresso nel grande ciclismo. L'anno dopo la sua Mapei si fuse con la Clas di Tony Rominger per diventare la formazione numero uno al mondo. La squadra con la maglia a cubetti, vinse tutto con campioni come Olano, Bartoli, Bettini, Museeuw, Tafi, Bugno e Ballerini, il fuoriclasse delle Roubaix (vinse le edizioni 1995 e '98) che Squinzi ha amato di più. Nel 1996, per il centenario della Parigi-Roubaix (la sua corsa del cuore) tre dei suoi entrarono nel velodromo dopo aver staccato tutti. Primo Musseuw, secondo Bortolami e terzo Tafi: tre Mapei. Il momento più alto e iconico di quella corazzata che vinceva tutto. Poi, la consapevolezza che il doping aveva contaminato le radici del "suo" sport allontanarono Squinzi dal ciclismo. Ma non da quello pedalato, amava scalare lo Stelvio da Bormio con Romano Prodi, e non dal calcio. Lui, milanista convinto, comprò il Sassuolo nel 2002 per farne una squadra modello di cui era orgoglioso. Una scommessa vinta, come quella del Centro Studi e Ricerche Mapei di Castellanza, un "laboratorio" di scienza a disposizione degli atleti di tutto il mondo con l'obiettivo dichiarato: lo sport "pulito". In qualche modo Giorgio Squinzi è stato un sognatore capace di realizzare tanti dei suoi sogni. Una storia esemplare. Mancherà all'Italia seria che si rimbocca le maniche tutti i giorni e mancherà, tanto, al mondo dello sport.

Dalla politica al calcio, folla nel Duomo di Milano per l’addio a Giorgio Squinzi. Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Il mondo dell’imprenditoria, della politica e dello sport si è raccolto lunedì pomeriggio nel Duomo di Milano per l’ultimo saluto a Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria, patron della squadra di ciclismo della Mapei e del club di calcio del Sassuolo e amministratore unico della Mapei, l’azienda chimica fondata dal padre Rodolfo negli anni Trenta e diventata leader mondiale nella produzione di adesivi, sigillanti e prodotti chimici per l’edilizia. Squinzi, scomparso il 2 ottobre dopo una lunga malattia, aveva 76 anni. La messa funebre, nella cattedrale gremita, è stata celebrata da monsignor Erminio Descalzi, vescovo ausiliare di Milano, mentre l’omelia è stata pronunciata dall’Arciprete del Duomo monsignor Gianantonio Borgonovo, che ha ricordato i mandati di Giorgio Squinzi nel Cda della Veneranda Fabbrica del Duomo e ha riservato un pensiero ai famigliari. In chiesa anche don Antonio Mazzi. Oltre alla moglie Adriana e ai due figli Marco e Veronica, già da tempo impegnati nella Mapei, alla cerimonia hanno partecipato accanto ai famigliari molti nomi noti, a partire dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, dalla ex numero uno dell’associazione degli industriali Emma Marcegaglia e da Fedele Confalonieri. E poi il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, il presidente e amministratore delegato di Omr Marco Bonometti, il presidente dell’Abi Antonio Patuelli, l’ad del gruppo Pirelli Marco Tronchetti Provera, Diana Bracco, presidente e ad del Gruppo Bracco, il presidente di Prelios Fabrizio Palenzona. Dal mondo della politica erano presenti, tra gli altri, il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, l’ex premier Romano Prodi, l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, l’ex ministro Maurizio Lupi e il sindaco di Sassuolo, Francesco Menani, il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, i deputati Maurizio Martina e Andrea Rossi in rappresentanza del gruppo del Pd alla Camera, Mariastella Gelmini, Ivan Scalfarotto. Moltissimi gli sportivi, a partire dalla squadra del Sassuolo con l’amministratore delegato Giovanni Carnevali, il tecnico Roberto De Zerbi e il presidente Arrigo Braida, e le rappresentanze di ciclisti e delle squadre di serie A e di B. Visibilmente commossi i calciatori, ex Sassuolo, Alessandro Matri e Francesco Acerbi. E ancora Stefano Sensi e Matteo Politano dell’Inter, Giuseppe Marotta, Kevin-Prince Boateng, i mister Eusebio Di Francesco e Massimiliano Allegri, l’ex capitano del Milan Franco Baresi, Daniele Massaro, il presidente della Sampdoria Massimo Ferrero, il presidente della Lega serie A Gaetano Miccicché, il manager della Fiorentina Giancarlo Antognoni e l’ex presidente Andrea Della Valle, i ciclisti Ivan Basso e Paolo Bettini, il presidente della Federazione ciclistica italiana Renato Di Rocco. «Siamo qui raccolti per sciogliere il debito di riconoscenza nei confronti di Giorgio Squinzi, dare un estremo saluto, con affetto, a chi si è distinto per pietà cristiana», ha detto monsignor Descalzi. «È stato un grande imprenditore, un grandissimo uomo di sport», è il ricordo del presidente e ad di Rcs, Urbano Cairo. «Ha fatto benissimo nel calcio, nel ciclismo e nelle sue tante attività - ha aggiunto il presidente del Torino -. Era una persona low profile che faceva bene le cose. Il suo motto era: “Famiglia povera, azienda ricca”. Non sottraeva mai risorse alle sue aziende ma reinvestiva. Teneva davvero tanto al Sassuolo». Il difensore della Lazio e della Nazionale Francesco Acerbi ha ricevuto un permesso da Mancini per poter presenziare ai funerali . «Dovevo esserci perché è una persona di valore riconosciuta anche all’estero - ha detto-. Un grande uomo, ho pianto quando ho appreso la notizia, è il minimo essere qui per ricordare la sua persona, non potevo mancare. Lui mi è stato vicino il primo anno anche se non lo conoscevo benissimo, mi impressionava l’umiltà che aveva e la chiarezza con la quale diceva le cose. Non ha mai alzato la voce, quelle poche parole che diceva erano ben chiare». Squinzi è stato fondamentale nel passaggio di Acerbi dal Sassuolo alla Lazio: «Non voleva che io andassi alla Lazio, ma come un padre che lascia andare il suo figlio, mi ha fatto partire», ha concluso il difensore. «Il dottore era una persona fantastica, un uomo semplice. Il suo ricordo resterà indelebile», ha detto l’attaccante del Brescia Alessandro Matri. «Mi aveva accolto - aggiunge Matri - in un periodo calcisticamente non facile per me. Con poche parole trasmetteva valori importantissimi e una forza incredibile. Non ha mai fatto pesare la sua malattia, spesso era lui a tirare su noi nei nostri momenti difficili. Aveva uno spessore umano immenso, mi chiedeva sempre come stavano moglie e figli a casa». La scomparsa di Squinzi ha destato profonda commozione nei giorni scorsi. Tante le manifestazioni di affetto e stima arrivate dai big dell’imprenditoria e del mondo dello sport italiano: da Berlusconi a Malagò, passando per i suoi pupilli ex neroverdi Acerbi, Allegri e Di Francesco. Giorgio Squinzi è stato l’assoluto protagonista del miracolo Sassuolo: ha preso la squadra in serie C2 e l’ha portata in serie A e addirittura in Europa League. Durante un momento di preghiera a lui dedicato, la dirigenza neroverde ha espresso l’auspicio di riuscire, un giorno, a conquistare la Champions, «un sogno del patron». «Ho avuto la fortuna di conoscerlo all’inaugurazione del Football center, l’ho scoperto come una persona umana e con i piedi per terra e una persona attaccata al Sassuolo: l’ha fatta conoscere a tutto il mondo»: così l’ha ricordato il sindaco di Sassuolo, Gianfrancesco Menani. Nella sede romana di Confindustria, all’apertura del convegno di presentazione del rapporto sulle previsioni del centro studi, si è tenuto un minuto di silenzio con le parole della Dg Marcella Panucci: «Giorgio Squinzi è stato un grande imprenditore, uno dei padri nobili dell’industria italiana. Lungimirante e tenace nella vita d’azienda, nelle sue imprese sportive come in Confindustria. Noi tutti lo ricordiamo per la forza, la determinazione e la passione con cui ha interpretato la missione di rappresentare le imprese italiane». «Non si è risparmiato, nonostante la malattia, non confondendo mai gli aspetti privati della sua vita con quelli pubblici», ha ricordato Panucci. «Con lui Confindustria perde un grande industriale e un uomo apprezzato e stimato in Italia, in Europa, e in tutto il mondo. Alla sua famiglia va il pensiero affettuoso e commosso di tutti noi che abbiamo avuto l’onore di collaborare con Giorgio Squinzi nei suoi anni alla presidenza di Confindustria».

·         Morto Guido Carandini. Deputato del Pci, chiese di cambiarne il nome.

Morto Guido Carandini. Deputato del Pci, chiese di cambiarne il nome. Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 su Corriere.it da Paolo Franchi. Deputato comunista, nipote di Luigi Albertini e studioso del pensiero economico di Marx, già nel 1985 anticipò la svolta della Bolognina. Se ne è andato, a novant’anni, Guido Carandini. Chi spara a zero sulle élite, di cui Guido è stato sicuramente parte, farebbe bene a riflettere un po’ sulla sua vita. Sua madre era Elena Albertini, nipote di Giuseppe Giacosa, figlia di Luigi, senatore, antifascista, direttore e socio del «Corriere» che, estromesso per volere di Benito Mussolini dalla proprietà del giornale, con la lauta buonuscita acquistò, alla metà degli anni Venti, il grande possedimento di Torrimpietra, alle porte di Roma. Suo padre, Nicolò, se possibile ancora più elegante di lui nel tratto e nel portamento, prima bonificò con il cognato Leonardo la tenuta, poi ne fece un allevamento modello. Ma sempre portandosi appresso una grande passione intellettuale e politica. Nicolò Carandini fece parte, per i liberali, del Cln di Roma, poi fu ministro nel secondo governo Bonomi, artefice principale dell’accordo De Gasperi-Gruber sull’Alto Adige, leader dei liberali di sinistra, fondatore, con Bruno Villabruna, del Partito radicale e del Movimento federalista europeo, ambasciatore a Londra, e pure, per un decennio, presidente dell’Alitalia. Guido seguì le sue orme nella passione per l’azienda, di cui cominciò ad occuparsi in prima persona a 23 anni, ma anche nella passione per la politica. Solo che, a differenza della schiatta di liberali non tutti di sinistra da cui proveniva (il salotto di casa Carandini, a due passi dal Quirinale, era stato frequentato assiduamente da Benedetto Croce, Carlo Sforza, Alessandro Casati, Alberto Tarchiani, Mario Pannunzio; e vi si erano tenute le ultime riunioni di redazione del «Mondo», del quale Nicolò era stato assiduo collaboratore) fu marxista, prima ortodosso, poi sempre più critico, sì, ma sempre rifiutandosi di liquidare, con il Marx utopista, anche lo scienziato sociale, come spiegò dettagliatamente nel suo libro Un altro Marx, pubblicato da Laterza. E fu, a lungo, comunista (un comunista piuttosto di frontiera, e non troppo disciplinato), e per il Pci venne eletto deputato nel 1976 e nel 1979. Sul finire degli anni Ottanta, e soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, quello del cambiamento del nome e della natura stessa del Pci sarebbe diventato il tormentone per eccellenza della politica italiana. Ma, nel 1985, il tema, almeno ufficialmente, era ancora un tabù. Fu lui, Carandini, il primo a mettere i piedi nel piatto, in un articolo su «Repubblica». Aldo Schiavone aveva appena pubblicato per Laterza un libro molto critico, Per il nuovo Pci, che però non lo aveva proprio convinto: «Per il nuovo Pci? Ma non sarebbe invece ormai maturo il tempo di abbandonare, almeno in questa parte del mondo, lo stesso vocabolo “comunista”? (…) Per noi, nel bel mezzo di questa vecchia Europa, è un vocabolo ormai insensato, quanto lo è l’alchimia per descrivere il compito di far avanzare la chimica e la fisica nell’era atomica». Meglio, molto meglio, almeno per chi ambiva «a respirare un’aria diversa da quella che spira nel Pci e nel Psi», chiedere «un congresso straordinario per decretare la fine dell’era eurocomunista», e dar vita, anche a costo di una scissione degli ortodossi, a un partito «veramente nuovo». Che a Carandini sarebbe piaciuto si chiamasse Partito democratico del lavoro. Nel distratto silenzio degli stati maggiori comunisti e socialisti, la cosa sarebbe finita lì, se a Giancarlo Pajetta non fosse saltata la mosca al naso. In una durissima intervista all’«Espresso», sostenne che non avrebbe avallato la chiusura del partito in cui militava da una vita, e per il quale era stato 12 anni in galera, per dar retta a un «proprietario fondiario», a un «padrone». E a Carandini, che gli aveva scritto piccato che l’uso stesso di questi termini era infondato scientificamente, perché in ogni epoca storica avevano assunto significati diversi, rispose più piccato ancora: era certo, Pajetta, che gli oppressi — fossero schiavi, servi della gleba, braccianti, operai salariati — i loro sfruttatori li avevano sempre chiamati così. Non aveva obiezioni sul fatto che non pochi dei loro discendenti, per una scelta anzitutto morale, militassero nel Pci. Ma, quanto a lui, poche chiacchiere: «Monotono, e con una cocciuta e non scientifica coerenza, con i padroni non sono stato mai».

·         Addio a Jacques Chirac:  l’ex presidente francese  morto.

Addio a Jacques Chirac:  l’ex presidente francese  morto a 86 anni. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. È morto, a 86 anni, l’ex presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac. Lo ha annunciato giovedì la famiglia. «Il presidente Jacques Chirac si è spento questa mattina nel cerchio della sua famiglia, pacificamente», ha dichiarato Salat-Baroux, marito di Claude Chirac. Presidente della Repubblica francese dal 1995 al 2007, si era ritirato da diversi anni dalla politica e della vita pubblica. Viveva con la moglie Bernadette nella sua casa a Parigi. Nel 2005 fu vittima di un ictus e prima di lasciare l’Eliseo fu costretto a diversi ricoveri in ospedale. Negli ultimi tempi era apparso pochissimo in pubblico. Subito dopo l’annuncio della morte, l’Assemblea nazionale e il Senato francesi hanno osservato un minuto di silenzio. Di centro-destra, ha ricoperto negli anni vari incarichi: prima di arrivare all’Eliseo, dove ha avuto due mandati presidenziali, è stato sindaco di Parigi, primo ministro e ministro dell’Interno. Una volta persa l’immunità presidenziale, nel 2011 fu condannato nell’ambito del dossier dei falsi impieghi al Comune di Parigi con le accuse di appropriazione indebita di fondi pubblici, relative al suo periodo alla guida della capitale. La sua presidenza fu segnata dall’adozione dell’euro, dal taglio del mandato presidenziale da sette a cinque anni, dalla fine del servizio militare e dal rifiuto di intervenire in Iraq a fianco degli Usa nel 2003.

BIOGRAFIA DI CHIRAC. A cura di Giorgio Dell’Arti, scheda aggiornata al 28 novembre 2018.

Jacques Chirac (Jacques René C.), nato a Parigi il 29 novembre 1932 (86 anni). Politico. Membro del Consiglio costituzionale (dal 16 maggio 2007). Ex presidente della Repubblica francese (1995-2007). Già primo ministro (1974-1976; 1986-1988); ministro per i Rapporti con il Parlamento (1971-1972), dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale (1972-1974), dell’Interno (1974); deputato (1967; 1968; 1973; 1976-1986; 1988-1995); sindaco di Parigi (1977-1995). Cofondatore nel 2002 dell’Union pour un mouvement populaire (Ump, inizialmente denominato «Union pour la majorité présidentielle»); già cofondatore nel 1976 del Rassemblement pour la République (Rpr), da lui presieduto dal 1976 al 1994

«Chirac è d’origini borghesi. Suo padre, François, era un funzionario di banca. Sua madre, Marie-Louise Valette, era la figlia di un istitutore di Sainte-Féréole. Poco rispettoso della disciplina di famiglia, è un figlio ribelle. Quando s’accorge che vende L’Humanité sul sagrato della chiesa di Saint-Sulpice, suo padre è disperato. Ma Jacques è sempre più inquieto. Lascia la famiglia e s’imbarca a Dunkerque, come mozzo, su un cargo, il Capitaine Saint-Martin, direzione Stati Uniti. Siamo nel 1950. È l’anno americano di Chirac, lavapiatti ad Harvard, guardia del corpo di una ricchissima signora di 82 anni, fidanzato della figlia del re del cotone in Carolina del Sud. L’anno successivo, torna a Parigi. Frequenta Sciences Po. Nel 1954 entra all’Ena, l’École national d’administration, dove vengono allevati i migliori puledri di Francia. Il servizio militare lo fa in Algeria, nel 1956, sottotenente del 6° reggimento degli “Chasseurs d’Afrique”. Nel 1958 è contrario alla politica algerina di De Gaulle. Come consigliere dipartimentale della Corrèze, si prodiga per aiutare i quattro generali del “putsch d’Algeri”. Dopo essere stato eletto deputato della Corrèze, nel 1966, con l’aiuto del “re” degli aerei Marcel Dassault, Chirac entra nel governo di Pompidou. È sottosegretario agli Affari sociali. Poi viene trasferito alle Finanze come vice di Valéry Giscard d’Estaing. Durante il maggio 1968 è molto vicino a Pompidou. Partecipa a tutte le riunioni d’emergenza con i sindacati. La leggenda vuole che a quei tempi girasse sempre con la rivoltella in tasca. Quando nel 1969 De Gaulle si ritira e Pompidou diventa presidente della Repubblica, Jacques Chirac entra nel governo di Jacques Chaban-Delmas come ministro dell’Agricoltura. A Bruxelles si fa conoscere per il suo modo irruento di trattare i dossier. È un ministro temuto, ma non raccoglie il massimo della stima. Quando abbandona la sala del Consiglio dei ministri sbattendo la porta, i colleghi europei ridono. Va d’accordo soltanto con il ministro italiano, Lorenzo Natali, del quale diventa grande amico. Finita l’esperienza all’Agricoltura, passa agli Interni. Quando, dopo una lunga malattia, Pompidou muore, Chirac tradisce il leader gollista Jacques Chaban-Delmas e favorisce l’elezione di Valéry Giscard d’Estaing alla presidenza della Repubblica. È il 1974, Chirac diventa primo ministro. A Matignon resta solamente due anni: fra lui e Giscard non corre buon sangue. Mentre Raymond Barre prende le redini del governo, Chirac compie due capolavori politici: rianima il Movimento gollista chiamandolo “Rassemblement pour la République” e nel 1977 diventa il primo sindaco di Parigi. Uomo abituato al tradimento politico, non si smentisce nel 1981. Si presenta alle presidenziali di quell’anno, ma, quando viene eliminato al primo turno, anziché sottomettersi alla disciplina della destra per promuovere la rielezione di Giscard, agisce nell’ombra provocando la vittoria di Mitterrand. […] Nel 1986, al momento della prima coabitazione, è nuovamente primo ministro. Considera Matignon come il trampolino di lancio verso la presidenza della Repubblica. Ma nel 1988 deve fare i conti con Mitterrand, che nella competizione elettorale lo umilia. […] Jacques Chirac sembra un uomo finito. È a pezzi, ha l’esaurimento nervoso. Sulle sue fortune politiche, nessuno scommetterebbe un centesimo. Un’altra traversata del deserto, con approdo felice, sarebbe veramente un record. Calcoli sbagliati: Jacques Chirac è come un gatto dalle mille vite» (Ulderico Munzi). «Chirac, che continua ad essere sindaco di Parigi e presidente del Rpr, è di nuovo a capo dell’opposizione di destra. Critica il progetto di moneta unica ritenendo che sarebbe troppo favorevole alla Germania e afferma che “l’Europa non è la soluzione a tutti i problemi della Francia”. Sul Trattato di Maastricht, che sancisce l’Unione europea e prevede la creazione dell’euro, il Rpr è diviso. Philippe Séguin esalta la sovranità nazionale. Ma Chirac decide per il “sì” al referendum del 20 settembre 1995 (dove la vittoria è risicata, con il 51,04% dei voti a favore), ritenendo che una posizione contraria potrebbe ostacolare le sue ambizioni presidenziali. […] Le elezioni legislative del 21-28 marzo 1993 riportano all’Assemblea nazionale una maggioranza di destra, e si rende così necessaria una nuova coabitazione. Chirac, che ha fatto campagna per il ritiro del presidente, non vuole più tornare a Palais Matignon. Mitterrand, che deve scegliere un primo ministro nelle file del Rpr, nomina Édouard Balladur. […] È una “coabitazione di valori” che C. critica, rincarando la dose per spingere alla crisi con il presidente della Repubblica. Alle presidenziali del 1995 Chirac si candida per la terza volta, pur non essendo favorito nei sondaggi, che danno in testa il suo amico trentennale Édouard Balladur. A quest’ultimo tuttavia manca il contatto con la popolazione, mentre Chirac organizza, come di consueto, una campagna calorosa e bonaria, centrata sul tema della “frattura sociale” che è necessario ricomporre e sul suo impegno nella lotta alla disoccupazione. Al primo turno, il 23 aprile, prevale il candidato socialista Lionel Jospin con il 23% dei voti, mentre la destra è divisa, ma Chirac con il 20,8% è in seconda posizione davanti a Balladur, che ottiene il 18,6%. Quindi può affrontare il secondo turno. Balladur invita a votare Chirac, che il 7 maggio è eletto presidente della Repubblica con il 52,6% dei voti contro il 47,4% di Jospin. Ormai presidente, Chirac sceglie come suo primo ministro il fidato Juppé, che dà attuazione ad una politica di rigore per consentire alla Francia di entrare nella zona euro il 1° gennaio 1999. Ma questa politica provoca un’ondata di malcontento e di scioperi. La disoccupazione cresce, la maggioranza presidenziale è preoccupata. Chirac allora ritiene strategico arrivare alle elezioni legislative anticipate, in modo da ricompattare il suo campo. Tuttavia i risultati delle elezioni (25 maggio-1° giugno) vedono la vittoria della sinistra, che ottiene 320 seggi all’Assemblea nazionale contro i 139 del Rpr e i 109 dell’Udf. Chirac nomina primo ministro Jospin, trovandosi nuovamente costretto ad una coabitazione, questa volta come presidente. Deve consentire ai socialisti di governare, pur senza risparmiare le critiche alla loro politica interna. Ma in politica economica convince Jospin a corrispondere ai criteri di Maastricht per l’euro e ad accettare il Patto di stabilità e di crescita, al quale il primo ministro è ostile. […] Le condizioni per l’euro sono soddisfatte il 1° gennaio 1999 e la nuova moneta comincia a circolare il 1° gennaio 2002. Per quanto riguarda la politica internazionale e la partecipazione all’Unione europea, la coabitazione non provoca conflitti: entrambi, Chirac e Jospin, sono “euro-realisti” più che “euro-entusiasti” e parlano unanimemente nei Consigli europei» (Pierre Gerbet). In vista delle successive elezioni presidenziali, «per il suo settantesimo compleanno, si è offerto un nuovo partito e un nuovo profilo politico. Il movimento neogollista, l’Rpr (Rassemblement pour la République), da lui stesso fondato nel ’76 sui resti di un movimento protogollista, si è sciolto per dar vita, attraverso vari passaggi, all’Ump (Unione per un movimento popolare) in cui si raccolgono, per la prima volta, le tre anime storiche della Destra democratica francese: quella bonapartista, quella legittimista e quella orleanista. Vale a dire, in termini attuali, quella gollista, quella centrista (democristiana) e quella liberale» (Bernardo Valli). «Alle presidenziali del 2002, al primo turno, il 21 aprile, raccoglie solo il 19,98% dei voti, ma a causa delle divisioni della sinistra Lionel Jospin, candidato socialista, ottiene solo il 16,18% ed è distanziato da Jean-Marie Le Pen, leader del Front national e unico concorrente di Chirac al secondo turno del 5 maggio. Per evitare il successo – peraltro problematico – dell’estrema destra, i socialisti fanno votare Chirac in nome della difesa della Repubblica, permettendogli di essere rieletto con l’82,2% dei voti contro il 17,8% di Le Pen. Autentico “miracolato del suffragio universale”, Chirac dichiara di “aver capito il messaggio”. Alle elezioni legislative del 9-16 giugno Chirac, che non voleva un’altra coabitazione e aveva chiesto “una vera maggioranza parlamentare”, ottiene all’Assemblea nazionale la maggioranza assoluta dell’Union pour la majorité présidentielle (Ump). Per tre anni mantiene nel ruolo di primo ministro Jean-Pierre Raffarin, suo fedele collaboratore ma politico impopolare e inefficace, mentre la sinistra vince alle elezioni regionali del 21-28 marzo e alle europee del 13 giugno successivo» (Gerbet). «Dopo la trionfale rielezione del maggio 2002 Chirac si era fissato come obiettivo prioritario "la coesione nazionale e il patto repubblicano". E nel quadro di questo ambizioso ed essenziale progetto, in un Paese in preda a forti tensioni comunitarie, è stato promosso il coraggioso dibattito sulla laicità; e al contempo, per compensazione, al fine di attenuare le reazioni dei francesi musulmani, non sono mancate le condanne alle discriminazioni razziali o religiose. Con lo stesso principio, la legge che proibisce il velo islamico nelle scuole [così come ogni altro simbolo religioso, inclusi quelli ebraici e cristiani – ndr] è stata accompagnata da infervorate orazioni in favore dell’uguaglianza di opportunità da garantire ai figli di immigrati diventati cittadini francesi. Ma, quando poi s’è trattato di passare agli atti, l’Ump, il partito del presidente, s’è guardato bene dall’inserire nelle liste elettorali candidati musulmani. L’immagine del presidente più incline agli slogan che ai fatti si è accentuata: e non soltanto agli occhi delle comunità direttamente interessate, che ormai in larga parte fanno parte dell’elettorato; ma anche della massa di coloro che nel maggio 2002 lo votarono (turandosi il naso) per respingere il razzista Le Pen. […] Sull’altro grande tema, l’occupazione, le cose non sono andate meglio. […] Alla promessa d’una "grande legge di mobilitazione" sono seguite soltanto azioni episodiche, mirate per favorire il tradizionale elettorato di destra. Ad esempio il ribasso della tassa professionale per le piccole e medie imprese e il pubblicizzato accordo con il cancelliere tedesco per abbassare l’Iva nei ristoranti. Al tempo stesso i ricercatori di tutta la Francia manifestavano per gli scarsi investimenti e gli ancor più precari salari, accompagnati dalla solidarietà del Paese, sensibile al prestigio che la ricerca scientifica dà al nome della Francia nel mondo» (Valli). In ambito internazionale, Chirac «si oppone all’unilateralismo americano. Ma questa posizione presuppone una politica estera europea, che in realtà non esiste, nei confronti degli Stati Uniti, come ha dimostrato la crisi irachena. Mentre il primo ministro Blair si allinea alle decisioni americane per l’intervento militare in Iraq, Chirac se ne dissocia, subordinando qualsiasi iniziativa al mandato delle Nazioni unite. Conta sull’appoggio del cancelliere Schröder, che esprime sentimenti pacifisti. I due uomini politici, nel quarantesimo anniversario del Trattato franco-tedesco dell’Eliseo (22-23 gennaio 2003, a Parigi), si dichiarano contrari a qualsiasi intervento militare e sostenitori dell’Europa. Ma gli altri governi europei non seguono il loro esempio, preoccupati di salvaguardare i rapporti transatlantici e pronti, ad eccezione dei Paesi neutrali, a partecipare alla spedizione inglese e americana. Anche i Paesi dell’Europa centrale e orientale, candidati all’Unione europea, si allineano. Chirac li tratta da “maleducati, perché hanno perso un’occasione per stare zitti”, una dichiarazione che non sarà priva di strascichi. L’Europa si divide ancora di più, in quanto il presidente russo Vladimir Putin si unisce alla coppia franco-tedesca. Chirac, sostenuto da Putin, minaccia di ricorrere al diritto di veto della Francia al Consiglio di sicurezza nei confronti di qualsiasi mozione che preveda un intervento contro l’Iraq. Questa decisione peraltro sarà del tutto inefficace, in quanto il presidente americano Bush interverrà senza un mandato dell’Onu. […] Per quanto riguarda la gestione dell’Unione europea, il presidente Chirac si preoccupa soprattutto di salvaguardare i vantaggi acquisiti. […] Alla ratifica della Costituzione europea del 29 maggio 2005, dopo una campagna referendaria lunga e appassionata, prevale il “no” con il 54,87% e un’alta partecipazione, il 70% degli elettori. […] Dopo il “no” alla Costituzione europea, Chirac – dopo aver rifiutato sia di dimettersi che di sciogliere l’Assemblea per indire nuove elezioni – nomina un nuovo primo ministro, Dominique de Villepin, per procedere all’indispensabile risanamento della situazione, cominciando dalla lotta contro la disoccupazione» (Gerbet). La parabola politica di Chirac stava però ormai volgendo al tramonto, mentre appariva sempre più brillante l’astro nascente dell’ambiziosissimo e spregiudicato ministro dell’Interno in guerra aperta con la «feccia» delle banlieue, «quel Nicolas Sarkozy vera e propria creatura politica di Chirac fino al 1995, anno in cui il giovane Nicolas ha pugnalato alle spalle il suo padre politico, con la scelta di sostenere Balladur. Da qui l’inizio della lunga traversata nel deserto della destra francese, culminata con il “furto” del partito (nel 2004 Sarkozy ha strappato l’Ump a Chirac) e con il definitivo colpo di grazia del 2007: candidatura alle presidenziali al posto del nuovo delfino di Chirac, il poeta-diplomatico De Villepin, e ingresso trionfale all’Eliseo» (Michele Marchi). «Jacques è come svanito dalla vita pubblica il giorno in cui ha lasciato l’Eliseo, ai primi di maggio del 2007, quando ha dovuto ingoiare forse il boccone più amaro di tutta la sua avventura politica: la successione di Nicolas Sarkozy. […] Ultima battuta “politica” che si ricordi del vecchio Jacques: intercettato da un giornalista poco prima delle presidenziali, l’ex presidente rivelò ridendo che avrebbe votato Hollande e non Sarkozy» (Cesare Martinetti). Il 15 dicembre 2011 il Tribunale di Parigi ha condannato Chirac a due anni di reclusione con la sospensione condizionale della pena, facendone il primo presidente francese dopo Pétain a subire una condanna penale, per accuse riguardanti il periodo in cui era sindaco di Parigi. «Chirac aveva infatti creato 21 posti di lavoro finti presso il Comune, apposta per poter pagare con denaro pubblico altrettanti stipendi di persone che lavoravano invece a tempo pieno per il suo partito. Avrebbe potuto avere anzi fino a 10 anni. Ma l’ex presidente […] ha vuoti di memoria, e al momento della sentenza non era neanche presente in tribunale, proprio per motivi di salute. Insomma, i giudici non hanno voluto infierire. Hanno però tenuto a confermare il principio che l’ex presidente andava punito: anche perché lo stesso Chirac aveva fatto consacrare nella Costituzione il principio secondo cui i procedimenti contro il capo dello Stato sono sospesi per tutto il periodo in cui rimane all’Eliseo come pure la prescrizione, e il tutto riprende dopo la fine del mandato» (Maurizio Stefanini). Pur contestando il verdetto, Chirac rinunciò a ricorrere in appello. Nel 2002 scampò a un attentato. «Era il 14 luglio 2002. Rieletto all’Eliseo, Jacques Chirac sfilava sulla sua auto lungo gli Champs-Élysées per l’anniversario della presa della Bastiglia quando un giovanotto mescolato al pubblico punta il fucile contro di lui. Il colpo devia, non ci sono feriti, lo sparatore è subito arrestato. Si chiama Maxime Brunerie, ha 25 anni, frequenta l’ambiente dell’estrema destra» (Raphaëlle Bacqué). Condannato a dieci anni di reclusione, Brunerie è uscito dal carcere nell’agosto 2009 grazie agli sconti di pena per buona condotta e a un apparente ravvedimento.  Sposato dal 1956 con Bernadette Chodron de Courcel, da cui ha avuto due figlie: Laurence (1958-2016), medico, morta prematuramente per una grave forma di anoressia nervosa, e Claude (1962), consulente, votata come la madre alla carriera politica del padre; nel 1979 la famiglia adottò inoltre una profuga vietnamita, Anh Dao Traxel (1958), oggi presidente di un’organizzazione di beneficenza • Tra i suoi principali interessi, il vino, il cibo (in particolare la testina di vitello) e, soprattutto, le donne. «Vero Casanova dell’Eliseo. […] Anche sua moglie Bernadette ammetteva la debolezza del presidente per le donne: “Les femmes, ça galopait”. La fama è stata confermata dall’autista, che in tanti anni di servizio l’ha accompagnato a innumerevoli appuntamenti con elette, consigliere e attiviste politiche. Tutti incontri che si consumavano rapidamente: “Cinque minuti, doccia compresa”, puntualizza lo chauffeur. Secondo Renaud Revel, giornalista del settimanale L’Express e autore del saggio Amazones de la République, nella notte del 31 agosto 1997 in cui morì Lady Diana Chirac era a casa dell’attrice Claudia Cardinale: “Né il primo ministro né la moglie, Bernadette, sapevano dove fosse – ha raccontato Revel –. Fu il suo autista, che lo attendeva impaziente sotto la casa parigina della Cardinale, a informarlo dell’accaduto appena il presidente si congedò dalla bella attrice alle tre di notte. Chirac si precipitò direttamente sul luogo dell’incidente, dove si trovavano già il ministro dell’Interno e l’ambasciatore inglese. Mancava solo lui”» (Leonardo Coen) • Smodata passione per il sumo. «Un giorno, prima di uno dei suoi numerosi viaggi in Giappone, mostrò al Club franco-japonais des entreprises un dépliant con i partecipanti a un campionato di sumo. Chirac indicò loro chi doveva vincere, e […] venne accontentato. Il presidente gollista andava pazzo per lo sport nazionale giapponese, tanto che chiamò il suo barboncino Sumo» (Mauro Zanon). «Fin da giovane, Chirac ha avuto una sola ambizione: sedurre uomini e donne, vecchi e giovani, poveri e ricchi, città e campagne, conservatori e riformisti con l’unico obiettivo di raggiungere il potere. […] “Quell’uomo ha preso la Francia in braccio”, disse di lui François Mitterrand, un altro gran seduttore. E per un uomo politico l’amore di un Paese significa la conquista del potere. Chirac ne sa qualcosa. Ha battagliato sempre, contro tutto e tutti. Come i vecchi radicali francesi d’altri tempi, è stato un uomo di destra, di centro e di sinistra, a seconda delle stagioni e dei suoi interessi. È stato di centro quando si è alleato con Valéry Giscard d’Estaing ed è stato con lui primo ministro per due anni, facendo approvare la legge sull’aborto e aprendo le porte della Francia alle famiglie degli immigrati; è stato di destra nell’86-88, quando fu di nuovo primo ministro e il suo ideale era il liberalismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; infine, è stato di sinistra nel 1995, quando per sconfiggere il suo rivale moderato, Édouard Balladur, puntò tutte le sue carte sulla "frattura sociale", fece promesse mirabolanti ai ceti popolari e dimenticò tutto una volta eletto. Non è fuori luogo definirlo una banderuola. Lo è stato spesso, ma forse bisognerebbe chiamarlo Zelig per la sua capacità di indossare sempre nuovi panni. La sua instabilità e i suoi frequenti cambiamenti di idee sono leggendari: non a caso, al primo turno delle presidenziali non è mai andato al di là di uno striminzito 20,47 per cento, ottenuto nel 1995. […] Anche se ha spesso cambiato idea, Chirac non si è mai compromesso con l’estrema destra. Ne ha avuto la tentazione, a quel che si dice, ma l’ha sempre respinta. Un rigore che ha pagato caro politicamente, perché gli ha fatto perdere le presidenziali dell’88 e le politiche del ’97, ma al quale oggi tutti rendono omaggio» (Giampiero Martinotti). «Sin dal 1995 Chirac ha tentato in ogni modo di cancellare dalla memoria dei francesi l’amato "Tonton". L’ombra di Mitterrand ha perseguitato Chirac in tutte le sue grandi scelte politiche, così come l’ossessione per le "memorie", per qualche segreto intimo da rivelare. All’atlantismo del presidente socialista nella crisi degli euro-missili si è contrapposta la patologia antiamericana di Chirac. Perfino il referendum chiracchiano sul Trattato europeo è stato motivato da un banale antagonismo con quello mitterrandiano sui Trattato di Maastricht. Con esiti opposti: Mitterrand sarà ricordato come uno dei costruttori dell’Unione europea, mentre Chirac è e rimarrà il presidente francese che ha affossato il progetto europeo. […] L’ultimo e forse unico atto politicamente rilevante di Chirac è stato in continuità con il primo gesto politico di Mitterrand presidente: l’iscrizione nella Costituzione francese dell’abolizione della pena di morte. Il resto è l’immagine di quanto avvenuto il 28 aprile del 1988, durante il duello televisivo tra Mitterrand e Chirac alla vigilia del voto presidenziale. "Questa sera io non sono il primo ministro e lei non è il presidente della Repubblica: siamo due candidati, e mi permetterà di chiamarla ‘signor Mitterrand’", aveva detto Chirac. "Lei ha perfettamente ragione, signor primo ministro", aveva risposto Mitterrand. Ecco: il presidente uscente [Chirac – ndr] è sempre stato un primo ministro, uno dei tanti, uno di quelli che passano e che la storia dimentica» (David Carretta).«Non vivo nel culto del passato. Mi sono impegnato totalmente nella missione che mi era assegnata al servizio dei francesi. La si può approvare, criticare: poco importa».

Addio a Chirac, il gollista dai mille volti. Daniele Zaccaria il 27 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’ex presidente francese (1995-2002) muore a 86 anni. Il mondo intero lo celebra da grande statista. Una vita politica intensa e contraddittoria, segnata dall’amore viscerale per il suo Paese. Mezzo secolo di vita politica bevuto in un sorso. Intrecciando  passione e ambizione, devozioni e tradimenti, coraggio e opportunismo. E annusando sempre l’aria del cambiamento da vero segugio qual era, capace di giravolte improvvise, capriole, acrobazie cambi di rotta che hanno puntualmente spiazzato alleati e avversari. Non da freddo e cinico calcolatore quale non è mai stato. Lui era di un’altra razza, seguiva l’istinto, amava la battaglia, si tuffava nella mischia come un «Don Giovanni della politica» per citare le parole dell’amico e collega Philippe Seguin. E non aveva paura di capitolare, perché dietro ogni disfatta c’è la luce appagante della rivalsa. Tra cadute e resurrezioni ha stretto milioni di mani, gli abbracci, le pacche sulle spalle, i bagni di folla tra i contadini, gli operai, i piccoli commercianti, tutto il modesto Pantheon della “Francia profonda” che ha amato in modo viscerale diventandone l’interprete più credibile. Jacques Chirac è morto ieri a 86 anni ricevendo un tributo unanime dai leader mondiali che lo omaggiano come un gigante della politica, uno statista al pari di De Gaulle e Mitterrand. Una bella rivincita per chi è stato vittima per anni della sua stessa caricatura: dicevano che era un ignorante, che amava le birre ghiacciate e i film western, divoratore telefilm polizieschi e di testine di vitello nelle sagre paesane; quando la gauche caviar ( ma anche le élites golliste e liberali) parlava di lui inarcava il sopracciglio, storceva la boccuccia, arricciava il naso, lo liquidava con sufficienza. E invece non sapevano ( o non volevano sapere) che “Jacquot” era un esperto di arte e civiltà orientali, un collezionista di libri antichi, un appassionato di poesia, solo che non frequentava i salotti del quartiere latino, le confraternite letterarie, le gallerie d’arte, i cenacoli soffocanti e autoreferenziali della cultura con la “c” maiuscola. La sua storia, la sua corsa sfrenata nell’arena del potere è una piccola biografia della nazione. Una vicenda che inizia in Corrèze, regione povera e rurale della Francia centrale. Come ricorderà più avanti negli anni la passione civica gli venne trasmessa dal nonno maestro elementare, repubblicano e massone. Nel dopoguerra, appena ventenne, era un militante comunista, vendeva porta a porta l’Humanité dimanche, partecipava alla campagna contro l’arma nucleare americana, proprio lui che 50 anni dopo da presidente subì una contestazione planetaria per gli esperimenti atomici di Mururoa. La politica gli piace, ma non ancora abbastanza; con i suoi modi schietti e guasconi, il sorriso largo, il fisico da attore di Hollywood è in cerca di emozioni forti, vuole viaggiare, conoscere il mondo. Si imbarca come marinaio su un nave per gli Stati Uniti, attraversa in lungo e in largo quell’immenso paese e alla fine approda a New Orleans, ex colonia francese, perché va pazzo per il jazz. Scrive anche un articolo sul Times Picayune, il giornale locale, vantandosi di essere amico  di Cab Calloway e Duke Ellington, circostanza che non è mai stata confermata ma in fondo che importa? Il periodo americano non durerà molto, la famiglia lo fa tornare in patria, destinazione Parigi. Si iscrive nella prestigiosa facoltà di Science Po, poi il passaggio obbligato dell’Ena (la scuola nazionale di amministrazione che ha fabbricato l’intera classe dirigente francese). Nel frattempo il gollismo ha preso il posto del socialismo, ammira il generale De Gaulle e diventa un “giovane lupo” del primo ministro George Pompidou per il quale nutre una sincera devozione. Nel 1967 viene eletto in Asssemblea nazionale nella sua Correze e a 34 anni è nominato viceministro del lavoro. Passa indenne il ’ 68 e il movimento studentesco che travolge il Generale e, sempre sotto l’egida di Pompidou, fa la spola tra vari ministeri fino a quando, tra un rimpasto e l’altro approda all’agricoltura come ministro. Alla morte prematura di Pompidou sale sul cavallo del liberale Valery Giscard d’Estaing voltando le spalle al compagno di partito e gollista Chaban- Delmas. I suoi gridano al «tradimento» ma lui, intanto, si fa nominare premier. Un ruolo che non apprezza particolarmente, specie sotto la guida di un Capo di Stato asfissiante e azzimato come Giscard. Due anni dopo, nel ’ 76, si dimette e ritorna nell’orbita gollista creando l’Rpr, vera e propria macchina elettorale che lo proietta all’Hotel de ville di Parigi di cui diventa sindaco. Nella capitale crea un sistema politico ramificato e clientelare che lo porterà a difendersi più volte in sede giudiziaria, subendo anche una condanna per lo scandalo degli impieghi fittizi agli amici e agli amici degli amici. Le presidenziali dell’ 81 segnano il trionfo di Mitterrand con la sua Union de gauche e la fine di Giscard; anche Chirac è candidato, arriva terzo, con il 18% ma sarà lui il leader dell’opposizione. Nel 1986 i gollisti vincono le legislative e, a 12 anni di distanza, è primo ministro per la seconda volta. Inizia una faticosa fase di coabitazione con il machiavellico Mitterand che culmina con l’umiliante sconfitta alle presidenziali del 1988. In molti a quel punto lo davano per spacciato, sul viale del tramonto, travolto dalla sua stessa ambizione e bulimia politica. Anche perché in Francia sta nascendo l’astro di Eduard Balladur che trascina i gollisti a una schiacciante vittoria nelle legislative del ’ 93. Mitterrand, gravemente malato non ha eredi di spicco, per le presidenziali del ’ 95 Balladur è dato vincente senza margine di errore da tutti i sondaggi. Chirac però non ci sta, vuole candidarsi lo stesso malgrado nel suo entourage tutti lo sconsiglino. Decisivo l’incontro con il sociologo di area comunista Emmanuel Todd il quale, in un’iniziativa elettorale, gli si avvicina e gli dà un suggerimento: «Balladur è un liberista sfrenato e questo non può piacere ai francesi, recupera le radici popolari del gollismo e punta sulla “frattura sociale”, vedrai che diventerai il prossimo presidente». E così fu. I suoi due mandati sono costellati di alti e bassi, da un imponente movimento di contestazione sindacale, dalla sciagurata dissoluzione dell’Assemblea nazionale che riporta la sinistra a Matignon; sono gli anni della coabitazione con Lionel Jospin, premier con il quale in modo inaspettato costruisce un eccellente rapporto. Ma le luci prevalgono sulle ombre; nel 2002 è rieletto con un astronomico 82% nella sfida con lo spauracchio Jean Marie Le Pen, la sinistra, in massa invita a votare per lui che diventa un involontario baluardo repubblicano e democratico contro l’ascesa della destra radicale. È però con l’opposizione, feroce e determinata alla guerra in Iraq e all’amministrazione di George W. Bush che acquisisce la statura di un leader planetario. La sua politica estera è segnata dalla ragionevolezza e dalla lotta per un mondo multipolare spesso in opposizione all’atlantismo delle cancellerie occidentali. Per questo è stato un politico molto amato e rispettato nel mondo arabo Celebre il suo viaggio in Cisgiordania in cui si scaglia contro i militari israeliani che gli impediscono di ricevere il tributo di migliaia dei palestinesi che lo acclamavano per le strade. «Sono il più filo arabo degli amici di Israele», amava ripetere a chi gli chiedeva la sua posizione sull’eterna crisi mediorientale. Una formula che riassume alla perfezione lo stile e la sostanza di Jacques Chirac, il gollista dai mille volti.

Francia, morto l'ex presidente Jacques Chirac. L'Assemblée Nationale: "Una parte della nostra storia". La notizia è stata data dal genero, Frédéric Salat-Baroux: "Il presidente si è spento questa mattina nel cerchio della sua famiglia, pacificamente". Si era ritirato da diversi anni dalla politica e negli ultimi tempi era apparso pochissimo in pubblico. Viveva con la moglie nella sua casa di Parigi, aveva 86 anni. La Repubblica il 26 settembre 2019. È morto l'ex presidente francese Jacques Chirac. Aveva 86 anni. La notizia della sua morte è stata data alla France Presse dal genero, Frédéric Salat-Baroux, marito della figlia Claude, a lui sempre molto vicina anche all'Eliseo: "Il presidente Jacques Chirac si è spento questa mattina nel cerchio della sua famiglia, pacificamente". Si era ritirato da diversi anni dalla politica e della vita pubblica. Viveva con la moglie Bernadette Chodron de Courcel nella sua casa a Parigi. Nel 2005 fu vittima di un ictus e prima di lasciare l'Eliseo fu costretto a diversi ricoveri in ospedale. Negli ultimi tempi era apparso pochissimo in pubblico. Chirac fu tre volte sindaco di Parigi, in tutto rimase primo cittadino per 18 anni. Proprio nel periodo in cui fu sindaco ebbe origine il caso degli impieghi fittizi nel suo partito (RPR, neogollisti) che gli costò, nel 2011, la condanna in tribunale, la prima di un presidente francese. All'Eliseo fu rieletto dopo un primo mandato, restando in tutto presidente per 12 anni, dal 1995 al 2007. Per due volte fu anche primo ministro, a ripetizione capo del partito neogollista e ministro. I suoi mandati all'Eliseo restano caratterizzati dal suo "no" alla seconda guerra in Iraq, alla fine della leva obbligatoria, al riconoscimento della responsabilità della Francia nei crimini nazisti, al passaggio dal mandato presidenziale di 7 anni a quello di 5. Due sconfitte nella corsa all'Eliseo - nel 1981 e nel 1988 sempre contro Francois Mitterrand - non lo fecero desistere e al terzo tentativo centrò l'obiettivo.

Gli omaggi dei presidenti francesi. Emmanuel Macron, ha deciso di annullare l'odierna visita a Rodez, nel sud della Francia, dove avrebbe dovuto lanciare una "grande consultazione" pubblica sul futuro della riforma delle pensioni. L'attuale presidente francese pronuncerà un discorso in tv alle 20 di questa sera in omaggio a Chirac. Le bandiere di tutti gli edifici della capitale saranno esposte a mezz'asta. "È una parte della mia vita che sparisce oggi", ha detto l'ex capo dello Stato Nicolas Sarkozy, esprimendo la sua "profonda tristezza": "Ha incarnato una Francia fedele ai suoi valori universali e al suo ruolo storico" e "non ha mai ceduto sulla nostra indipendenza, e al tempo stesso sul suo profondo impegno europeo". Francois Hollande, ex presidente francese socialista, ha saluta la memoria del neogollista Chirac, "un combattente, che "seppe stabilire un legame personale con i francesi".

L'Assemblea nazionale e il Senato francesi hanno osservato un minuto di silenzio per rendere omaggio all'ex presidente: "Abbiamo appena appreso della morte di Jacques Chirac, vi chiedo gentilmente di rendere omaggio alla sua memoria osservando un minuto di silenzio", ha detto il presidente dell'Assemblea, Richard Ferrand. I deputati e i membri del governo presenti si sono alzati prima di sospendere temporaneamente i lavori: "Jacques Chirac è ormai parte della storia di Francia", ha detto Ferrand.

Le reazioni. "Apprendo con tristezza la notizia della scomparsa di Jacques Chirac". E' il messaggio del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella per ricordare Chirac. "Per molti anni figura eminente della vita politica francese, nei numerosi incarichi che ricoprì fu sempre un lucido e tenace interprete della vocazione europeista della Francia, di cui seppe incarnare i più alti valori repubblicani. Nel ricordarne il contributo all'amicizia tra Parigi e Roma, desidero porgere a lei, al popolo francese e alla famiglia Chirac le più sincere condoglianze del popolo italiano e mie personali". Ricorda l'ex capo dello Stato scomparso anche l'attuale sindaca, Anne Hidalgo: "Parigi è in lutto, per noi parigine e parigini sarà per sempre il nostro sindaco, che amava appassionatamente la sua città e i suoi abitanti". Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker è "commosso e devastato" per la morte dell'ex presidente francese: "Un grande statista" e "un grande amico", ha detto la sua portavoce per conto del capo della Commissione. "La sua eredità per la Francia e l'Unione europea rimarrà per sempre", ha aggiunto la portavoce Mina Andreeva, "il presidente Juncker non ha parole per esprimere il suo dolore". "La storia di Francia volta pagina. Accogliamo la tristezza perché ha il suo motivo di essere. Amava la Francia più di altri da allora. E per questo, gli siamo riconoscenti" scrive in un tweet il leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon. "Nonostante tutte le divergenze che si potevano avere con Chirac, ha dimostrato un grande amore nei confronti dei territori d' Oltremare ed è stato il presidente capace di opporsi alla follia della guerra in Iraq, ripristinando la tradizionale posizione di equilibrio e di diplomazia della Francia", affida la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, in un sullo stesso social. "Un formidabile partner e amico", è il saluto della cancelliera tedesca Angela Merkel. "Sono molto rattristata dall'annuncio della sua morte. Era per noi tedeschi, un grande partner e un amico". Il presidente russo, Vladimir Putin, ricorda Chirac come un "uomo di stato saggio e visionario". Lo riferisce il Cremlino. In passato Putin aveva detto che Chirac era uno dei leader che più ammirava. "Grande tristezza per la scomparsa del presidente Chirac. Durante 3 anni, a Matignon, avevo costruito con lui una relazione di fiducia e di affetto. Mi ha dato tantissimo, il suo legame alla coesione sociale, il gusto della Cina. La mia gratitudine è immensa, di cuore sono vicino alla sua famiglia", è invece il tweet di Jean-Pierre Raffarin, ex premier di Jacques Chirac dal 2002 al 2005. L'ex premier socialista Lionel Jospin, che governò - in coabitazione per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica francese, con Chirac  dal 1997 al 2002: "Ho avuto il privilegio di governare la Francia sotto la sua presidenza. Era la 'coabitazione' ma abbiamo entrambi fatto in modo che la Francia parlasse costantemente con una sola voce e venisse rispettata sulla scena internazionale". Anche l'ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea, Romano Prodi, esprime il proprio cordoglio: "Noi, che in teoria eravamo così diversi - argomenta il professore bolognese in una nota - nella pratica invece non siamo mai stati tanto d'accordo come al tempo delle missioni internazionali in Albania e in Libano e quando insieme abbiamo lavorato perché i rapporti tra Italia e Francia fossero sempre più stretti e proficui". "È con grande tristezza che apprendo della morte di Jacques Chirac. Presidente della Repubblica francese, un uomo legato al suo paese e allo stesso tempo un grande europeo. Deputato europeo di lungo corso ha sempre sostenuto la pace e la democrazia, i valori fondanti dell'Europa", scrive su Twitter il presidente del parlamento europeo David Sassoli. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha ricordato Chirac su Twitter. "Sono molto rattristata di apprendere il decesso di Jacques Chirac: un grande dirigente, un grande Europeo e un uomo che ha ispirato tutta una generazione. Dobbiamo sforzarci di onorare la sua eredità costruendo un'Unione più forte e più unita". 

Da Lettera 43 11 Giugno 2013. La notte del 31 agosto 1997, quando Lady Diana morì insieme a Dodi Al-Fayed in un incidente stradale a Parigi, l’allora presidente francese Jacques Chirac era introvabile. Nessuno sapeva dove fosse, né il primo ministro né sua moglie. Fu il suo autista ad informarlo dell’accaduto sotto la casa parigina dell’attrice italiana Claudia Cardinale. Cosa ci faceva lì Chirac? Il giornalista francese de L’Express, Renaud Revel, ha dato una risposta a questa e altre domande nel suo libro Les Amazones de la Republique, pieno di aneddoti e curiosità piccanti tra flirt e scappatelle dei capi di Stato della V Repubblica. Nel mirino sono finiti così François Mitterrand, Valery Giscard d’Estaing, Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy. Secondo la ricostruzione di Revel, la notte della morte di Diana sotto il tunnel dell’Alma, poco distante Chirac (ignaro di tutto ciò) si intratteneva con l’attrice italiana Claudia Cardinale. «Né il primo ministro né la moglie, Bernadette, sapevano dove fosse – ha raccontato Revel -. Fu il suo autista, che lo attendeva impaziente sotto la casa parigina della Cardinale, a informarlo dell’accaduto appena il presidente si congedò dalla bella attrice alle tre di notte. Chirac si precipitò direttamente sul luogo dell’incidente, dove si trovavano già il ministro dell’Interno e l’ambasciatore inglese. Mancava solo lui». Che il presidente socialista Mitterrand fosse un grande seduttore si sapeva (una delle sue figlie, Mazarine, nacque da una relazione extraconiugale): quello che si scopre è che aveva messo gli occhi anche su Valerie Trierweiler, la compagna dell’attuale capo di Stato, François Hollande. Mitterrand e Valerie si incontrano nel 1994, durante una cerimonia all’Eliseo: lei all’epoca aveva solo 25 anni ed era bellissima. Il presidente non poté resistere al suo charme e la invitò a pranzo. L’autore precisa che tra i due non ci fu una relazione. Ma fu grazie a quell’incontro che il direttore di Paris Match, Roger Therond, decise di assumere la Trierweiler per le sue relazioni privilegiate all’Eliseo. «Questo libro offre un altro sguardo sulla funzione presidenziale», ha spiegato Revel. «Grazie alle confidenze di alcune giornaliste ho raccontato le relazioni tra i politici e quelle che ho chiamato le “amazzoni”, cioé le donne, spesso giornaliste, che hanno contribuito a fare la storia di palazzo». E ha aggiunto: «L’Eliseo è uno specchio che ingigantisce, un universo di sfumature che stravolge i sensi e disorienta le bussole interne. Non si varca impunemente e innocentemente la soglia di quest’edificio senza misurarne gli effetti o i rischi. Tutto cambia una volta avuto l’accesso. Il visitatore si sorprende a trovarsi importante mentre il padrone di casa diventa improvvisamente sessuato».

La Francia piange Chirac il presidente più amato. Una gran folla ieri a Parigi per l’ultimo saluto. Clinton, Sarkozy, Putin, Mattarella e il presidente Macron tra i presenti alla cerimonia funebre, assente la Le Pen. Valentina Longo l'1 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La signora Florence che applaude commossa: «Bravo, merci, Jacques!» mentre il feretro inizia il suo viaggio verso il cimitero di Montparnasse e l’ex presidente americano Bill Clinton accolto da un lungo applauso, che poi ha dichiarato «mi mancherà», sono solo due delle istantanee scattate ieri nella piazza Saint- Sulpice eppure dicono molto dell’uomo Jacques Chirac. Che per tutta la vita «ha cercato di farsi voler bene», dice l’ex presidente François Hollande, che amava la gente e voleva essere amato, che «stava bene nei saloni dell’Eliseo come al Salone dell’agricoltura», ha ricordato il vescovo Michel Aupetit. Si piange così davanti alla seconda cattedrale di Francia il presidente più amato dai francesi, scomparso dopo una lunga malattia a 86 anni. Al momento della sepoltura in forma privata, un minuto di silenzio lo ricorderà. Insieme ai visitatori del museo che lo celebra, Quai Branly, e a quelli che si sono messi in coda dalla domenica pomeriggio, in un intenso omaggio popolare durato fino alle 7 del mattino di ieri e per il quale ogni partecipante ha ricevuto in ricordo un libretto dei discorsi più noti di Chirac. Dopo la cerimonia privata e gli onori militari a Saint- Louis des Invalides, centoventidue personalità tra cui una trentina di capi di stato e di governo sono stati accolti a Saint- Sulpice, molti dei quali saranno poi ricevuti all’Eliseo. Uno speciale omaggio in musica di Schubert lo ha firmato Daniel Barenboim, Legione d’onore nel 2007 per la musica ricevuta proprio da Chirac ( perché “niente sa parlare meglio al cuore e alla pancia”). C’erano tra tante personalità politiche di ogni schieramento – Le Pen esclusi – gli ex presidenti Sarkozy, Hollande e Valéry Giscard D’Estaing. C’era il presidente Sergio Mattarella, che così ha scritto al suo omologo Macron: «Fu sempre un lucido e tenace interprete della vocazione europeista della Francia, di cui seppe incarnare i più alti valori repubblicani», un uomo che aveva contribuito «all’amicizia tra Parigi e Roma». Dentro, la messa solenne racconta l’uomo di stato: l’attenzione per la frattura sociale, il “vero amore per le persone”, un politico «con una visione» dalla scienza all’ecologia, il suo famoso allarme “la casa brucia”, colui che si astenne dal portare il paese in guerra contro l’Iraq. Fuori, nella piazza sferzata da un vento fresco d’autunno, già dalle prime ore del mattino stazionano alcune centinaia di persone, fino a riempirla. Si noteranno gli applausi per Clinton e Sarkozy, i mormorii quando i maxi schermi mostrano Vladimir Putin già nella chiesa. Tante persone che come in una sola voce dicono “non potevo non essere qui”, una folla che è stato anche “un grande conforto” per la moglie Bernadette, alla quale la salute non ha permesso di prendere parte a tutte le cerimonie. E per il figlio Claude tanto calore e tanti grazie che a sua volta, quando la messa è finita, ha sentitamente ricambiato.

·         E’ morto Barron Hilton.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 22 settembre 2019. Per alcune generazioni l'insegna Hilton fu sinonimo di hotel made in Usa : un lusso "modernista", efficiente e standardizzato, un brand globalizzato nell'era in cui l'American way of life esportava le prime ondate del turismo di massa. Erano i magnifici anni Sessanta. Poi venne un'epoca in cui il cognome Hilton seguiva il nome Paris: modella glamour, specialista nel catturare l'attenzione dei media (non ancora social), professionista dello scandalo e della trasgressione a scopi auto-promozionali. Era l'inizio del nuovo millennio. A collegare due epoche così distanti, c'è la figura di Barron Hilton: il magnate dell' omonima catena alberghiera, nonno di Paris, si è spento a Los Angeles all' età di 91 anni. La sua parabola è interessante perché percorre e anticipa molti degli affari che hanno attirato Donald Trump: dallo sport ai casinò. In quanto all' attenzione dei media, nell' era social Trump si avvicina più a figure come le Kardashian, «celebri per il fatto di esser celebri». Paris Hilton è stata surclassata, è finita nell' ombra, in confronto agli influencer attuali sembra un' aristocratica decaduta. Ma non c' è nulla di aristocratico nella dinastia degli Hilton. Le radici originarie sono nel Texas del boom petrolifero, è da lì che parte la costruzione dell' impero alberghiero con il capostipite Conrad. Che già aveva qualche talento per la visibilità nei gossip mondani, visto che sposò in seconde nozze l' attrice Zsa Zsa Gábor. È il figlio Barron, però, che fa fare alla catena Hilton il grande salto di qualità. Quando ne diventa chief executive a metà degli anni '60, accelera la "rivoluzione industriale" del settore alberghiero. Con il marchio Hilton l' espressione "catena alberghiera" finisce per evocare quella di "catena di montaggio": gli alberghi si assomigliano sempre di più, il taylorismo-fordismo dopo le fabbriche fa la sua irruzione dirompente nel mondo dei servizi. Una clientela sempre più vasta si abitua a trovare da un hotel all' altro lo stesso stile di arredamento, lo stesso design, gli stessi asciugamani, gli stessi menu. (Prima, ci crediate o no, non era così). È un' esperienza rassicurante per il turista americano quando atterra a Bangkok o ad Acapulco. Ma all' origine è un' operazione di controllo centralizzato dei costi, l' alberghiero fa il salto in una dimensione manageriale moderna. Col tempo la standardizzazione si è logorata, il brand Hilton ha perso il glamour del lusso, il centro di profitto si è allargato ad attività massificate come le convention aziendali, i congressi. Non è un caso che nel fatidico 8 novembre 2016 Donald Trump abbia affittato proprio l' Hilton di Mid-Town Manhattan come sede del proprio quartier generale. (O che abbia battezzato Barron il figlio avuto con Melania?) La storia della dinastia Hilton infatti prefigura molte delle cose che Trump desiderava. Prima di lui gli Hilton sotto la guida di Barron penetrarono nel business dei casinò. Barron fu tra i più importanti proprietari di squadre nell' American Football League dopo l' acquisto dei Los Angeles Chargers. Seppe far leva sul business come trampolino verso la notorietà: gli stessi alberghi acquistati come trofei, dal Waldorf Astoria di New York al Mayflower di Washington al Sir Francis Drake di San Francisco, talvolta furono macchine da glamour più ancora che centri di profitto. Il business alberghiero ha avuto cicli e mode, l'era gloriosa degli Hilton è ormai un ricordo. La catena aveva raggiunto i 2.800 hotel quando fu venduta per 26 miliardi di dollari nel 2007 ad un gruppo finanziario, Blackstone. In seguito ad altre fusioni e acquisizioni è finito dentro il mega- conglomerato che controlla altri marchi di massa come Sheraton e Marriott. Curiosamente si è consolidato un divario tra l' immagine e la qualità di queste in America, o nel resto del mondo: mentre sul mercato interno degli Usa la massificazione e la standardizzazione di queste catene le ha fatte scivolare su un segmento di mercato medio, in Estremo Oriente o in Sudamerica, in Russia o perfino in qualche paese europeo gli Hilton conservano ancora qualche sprazzo di lusso. In ricordo di un American way of life che sprigionava seduzione negli anni Sessanta.

·         Morto Charlie Cole, scattò la foto simbolo di piazza Tienanmen. 

Morto Charlie Cole, scattò la foto simbolo di piazza Tienanmen. Le immagini inedite del massacro. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it. La sua foto che cambiò la storia, diventando simbolo della rivolta contro il governo cinese, fu scattata dal balcone di un hotel con un teleobiettivo, e gli valse il World Press Photo. Ritrae un «rivoltoso sconosciuto» — questo era poi diventato il titolo della foto — che ostacola pacificamente la marcia dei carri armati su piazza Tien An Men, arrampicandosi poi su una torretta di uno dei cingolati, al secondo giorno di brutale repressione della protesta studentesca. Charlie Cole, il fotografo nato in Texas che fece fare il giro del mondo a quest’immagine poi pubblicata su Newsweek, è morto a Bali, dove abitava da una quindicina di anni. Non fu il solo a fotografare il «tank man»: ne esistono altre quattro foto non distrutte dai servizi segreti cinesi, ma la sua vinse il premio più importante del fotogiornalismo. Aveva 64 anni.

È morto l'autore di uno degli scatti più famosi della storia: Charlie Cole fotografò il coraggio dello sconosciuto di Piazza Tienanmen. La foto di Charlie Cole vincitrice del World Press Photo del 1990. Charlie Cole aveva 64 anni. Realizzato il 5 giugno 1989, lo scatto diventò il simbolo delle proteste democratiche che quell'anno sconvolsero il regime di Pechino. La Repubblica il 13 settembre 2019. È morto in Indonesia all'età di 64 anni l'autore di una delle foto più famose della storia. L'americano Charlie Cole fu uno dei quattro fotografi che riuscirono a immortalare il famoso "Tank Man", spiega la Bbc, durante le proteste di Piazza Tienanmen il 5 giugno 1989, il giorno dopo la morte di migliaia di civili. Si tratta dell'immagine simbolo delle proteste democratiche del 1989: un uomo disarmato che in piedi e solo si contrappone a una colonna di carri armati. Del coraggioso individuo non si conosce l'identità. Il fotografo realizzò lo storico scatto con un teleobiettivo dal balcone di un hotel a Pechino. Grazie alla foto, pubblicata poi su Newsweek e diffusasi nel mondo, Cole vinse nel 1990 l'importante premio World Press Photo. Charlie Cole era nato in Texas, Stati Uniti, nel 1955 ma aveva vissuto gli ultimi anni a Bali in Indonesia. 

·         Scaramucci, la voce libera che raccontava i mondi nuovi.

Scaramucci, la voce libera che raccontava i mondi nuovi. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Massimo Rebotti su Corriere.it. È morto a 82 anni. Cronista con un dichiarato punto di vista, a sinistra, fu tra i fondatori di Radio Popolare alla fine degli anni Settanta e tornò a dirigere la radio all’inizio dei Novanta: nel 2001 ricevette l’Ambrogino d’oro. Ai tempi dell’alluvione in Valtellina, era il 1987, Piero Scaramucci divenne un volto familiare per molti telespettatori del Tg2. In maglione di lana grezza, umano e preciso, raccontò ogni giorno, e senza enfasi, l’evoluzione di quel disastro. L’alluvione in Valtellina è un buon esempio per raccontare che tipo di giornalista è stato Scaramucci, morto mercoledì all’età di 82 anni. Cronista con un dichiarato punto di vista, a sinistra, dimostrò in quella e altre occasioni che avere una propria «visione del mondo» non è necessariamente un ostacolo al racconto rigoroso dei fatti. Da giornalista Rai iniziò occupandosi dei misteri legati alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei nel 1962, e poi, seguendo le sue passioni civili e politiche — erano i tumultuosi anni Settanta milanesi — prevalentemente di conflitti sociali e sindacali. Insieme ad altri reporter orientati a sinistra, curò una «contro-inchiesta» sulla strage di piazza Fontana e, su quegli anni, scrisse con la vedova dell’anarchico Pino Pinelli Una storia quasi soltanto mia, ormai un piccolo classico tra i libri su quella vicenda. Inviato per la trasmissione Rai Samarcanda, spesso su vicende di mafia, durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, tornò ad essere un «volto», guidando l’edizione notturna del Tg3. Tra i fondatori di Radio Popolare alla fine degli anni Settanta, tornò a dirigerla all’inizio dei Novanta, diventando una figura nota e non solo agli ascoltatori più affezionati dell’emittente. All’inizio degli anni Novanta la radio guidata da Scaramucci, pur chiaramente schierata a sinistra, intercettò tra i primi i cambiamenti nell’«umore» della città, cogliendo l’ascesa della Lega Nord, che culminò poi con l’elezione a sindaco di Marco Formentini nel 1993. Questa curiosità verso «altri» mondi, pur non rinunciando al proprio punto di vista, è stata la cifra distintiva dell’impegno giornalistico di Scaramucci che, nel 2001, ricevette dall’amministrazione comunale un Ambrogino d’oro per Radio Popolare, il progetto di una vita, che, nelle motivazioni, così veniva definita: «Una voce libera e autonoma nel panorama dell’informazione, un luogo aperto al confronto delle idee».

·         È morto il neofascista Stefano Delle Chiaie.

È morto il neofascista Stefano Delle Chiaie,  fu accusato della Strage  di Bologna. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. Stefano Delle Chiaie, accusato di concorso in strage nell’attentato di Bologna ma poi assolto con la formula allora in uso dell’«insufficienza di prove», esponente della destra radicale e della destra spiritualista in seno al Movimento Sociale Italiano e fondatore di Avanguardia Nazionale, è morto la notte scorsa all’ospedale Vannini. Nato a Caserta nel 1936 per anni, pur di sfuggire alla giustizia italiana, ha vissuto da latitante fino a quando il 27 marzo del 1997 a Caracas non venne catturato dalla polizia italiana. Il suo nome, oltre che alla strage di Bologna, era stato associato anche al tentato golpe Borghese del 1970 e ad alcuni attentati ai treni.

È morto Stefano Delle Chiaie, accusato di concorso esterno nella strage di Bologna. Aveva 83 anni. Latitante fino al 1997, era stato arrestato a Caracas. Nei processi per l'attentato alla stazione del 1980 e per quello di piazza Fontana è stato assolto per insufficienza di prove. Viveva a Roma dove animava il dibattito della destra estrema. La Repubblica il 10 settembre 2019. Stefano Delle Chiaie, accusato di concorso in strage nell'attentato di Bologna, esponente della destra radicale e della destra spiritualista in seno al Movimento Sociale Italiano e fondatore di Avanguardia Nazionale, è morto la notte scorsa presso l'ospedale Vannini. Nato a Caserta nel 1936 per anni, pur di sfuggire alla Giustizia italiana, ha vissuto da latitante fino a quando il 27 marzo del 1997 a Caracas non venne catturato dalla Polizia italiana. Fu assolto per insufficienza di prove. "La repressione non ci piega, ci moltiplica": così lo scorso marzo Stefano Delle Chiaie scriveva sul blog della rinata Avanguardia nazionale. E dietro la recente aggressione al Verano di due giornalisti c'è il sospetto potesse esserci proprio Avanguardia. Ricercato per anni, latitante in Sud America per sfuggire alla giustizia italiana (che poi lo ha scagionato da ogni accusa) Stefano Delle Chiaie è stato collaboratore, con il boia di Lione Klaus Barbie, della dittatura boliviana negli anni '80: un gruppo che ha seminato morte e terrore. Una volta tornato in Italia nel 1997, estradato dal Venezuela, processato per le stragi di Bologna e piazza Fontana a Milano, scagionato in primo e secondo grado, Stefano delle Chiaie nel 1991, grazie alla concessione del Comune di Roma, ha aperto una sede tv di Avanguardia Nazionale. Alle sue trasmissioni hanno presenziato i massimi esponenti della destra, sia nazionale che europea, suscitando non poche polemiche e controverse teorie.

È morto Stefano Delle Chiaie, l'ideologo del neo fascismo. Si è spento a 82 anni Stefano Delle Chiaie. Dopo anni di latitanza in Spagna e Sud America aveva provato a riorganizzare la destra italiana. Andrea Riva, Martedì 10/09/2019 su Il Giornale. Stefano Delle Chiaie, storico esponente della destra italiana, è morto oggi a 82. Delle Chiaie nasce a Caserta il 13 settembre del 1936, durante gli "anni del consenso", per usare un'espressione coniata da Renzo De Felice. Vive la guerra e la sconfitta della dittatura, ma rimane - seppur giovanissimo - un ardente fascista. Nel 1950, a soli 14 anni, si iscrive al Movimento sociale italiano nella sezione Appio-Tuscolano di Roma. Ma questa esperienza dura poco. Sei anni dopo segue Pino Rauti, che ha da poco fondato Ordine Nuovo. Ma non gli basta. La sua vita politica si gioca sempre più lontano dalla destra parlamentare. Per questo, nel 1962 fonda Avanguardia nazionale giovanile. Ma l'anno della svolta è il 1968. Mentre i giovani, tendenzialmente di sinistra, infiammano il mondo con la loro rivoluzione, Delle Chiaie comprende che è arrivato il suo momento. È il primo marzo di quell'anno quanto Delle Chiaie - insieme ad alcuni ragazzi che lo avevano seugito in Avanguardia nazionale e con le sezione Fuan Caravella e Primula Goliardica - guida l'attacco contro la polizia a Valle Giulia, a Roma, riuscendo poi ad occupare la facoltà di Giurisprudenza. Due settimane dopo, però Giorgio Almirante si presenta in università e insieme ai Volontari nazionali riesce ad allontanare Delle Chiaie. È l'immagine plastica di una rottura profonda di due modi di vedere la destra. Sempre più lontano dall'Msi, Delle Chiaie si avvicina così al principe nero: Junio Valerio Borghese.

Delle Chiaie e la strage di piazza Fontana. Ci addentriamo così in uno dei periodi più oscuri della storia repubblicana italiana: gli anni di piombo. In quel periodo, fatto di bombe e proiettili, sinistra e destra parlamentare finiscono nel mirino. A volte (molte) a ragione, altre a torto. Il 12 dicembre del 1969 una bomba esplode all'interno della Banca nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, e contemporaneamente altri ordigni deflagrano anche a Roma. Molti la considerano la "madre di tutte le stragi" o come "il momento più incandescente della strategia della tensione", come ha scritto Rita di Giovacchino nel suo Libro nero della Prima repubblica. Fatto sta che l'Italia piomba all'improvviso negli anni di piombo. Gli inquirenti inziano subito a seguire la pista dell'estrema destra e, grazie all'informatore Stefano Sarpieri, si mettono sulle tracce di Delle Chiaie. Arriva il mandato di comparizione, ma Delle Chiaie scappa in Spagna, dove cerca di fare da ponte tra la destra iberica e quella italiana. Nel 1974, va in Cile insieme al principe Borghese, dove conosce Augusto Pinochet. Due anni dopo, decise proprio di trasferirsi nel Paese sudamericano. Dopo anni di latitanza, si fece arrestare in Venezuela nel 1987 per poi essere estradato in Italia. Il resto è cronaca. Adriano Tilgher, storico volto della destra italiana, ha così commentato all'AdnKronos la morte di Delle Chiaie: "Se n'è andato un pezzo importante della mia vita e della mia storia. Stefano lascia un esempio per tutti gli italiani di coerenza, di lealtà, di stile, di comportamento, quello che serve e che manca nella società di oggi: un riferimento prima umano e poi politico perché è stato un uomo sempre coerente, sempre leale, forte. Ha affrontato accuse ignobili a testa alta. A testa alta ha vissuto e a testa alta è morto". Sempre alla stessa agenzia, Mario Tuti, fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario, ha affermato: "L'ho incontrato una volta in una situazione conviviale. Mi disse: 'saprai che sono stato molto chiacchierato' e io gli risposi che a me delle chiacchiere non interessava. Ma non ho mai avuto relazioni né con lui né con Avanguardia Nazionale. Mi dispiace perché è un altro camerata che se ne va, noi sopravvissuti a quegli anni siamo sempre meno. Stiamo morendo tutti perché siamo vecchi, è naturale".

Stefano Delle Chiaie, morto l'uomo-chiave del Neofascismo. Bologna, Piazza Fontana, stragi, Cia: i misteri. Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. È morto la notte scorsa a Roma Stefano Delle Chiaie, 82 anni, esponente della Destra radicale, già nel Movimento Sociale Italiano e fondatore di Avanguardia Nazionale, assolto per insufficienza di prove per la strage di Bologna. Nato a Caserta nel 1936 per anni, ha vissuto per anni da latitante fino a quando il 27 marzo del 1997 a Caracas non venne catturato dalla Polizia italiana. A 14 anni, aveva aderito al Movimento Sociale Italiano per poi uscirne pochi anni dopo insieme a Pino Rauti e fondare il Centro Studi Ordine Nuovo. Nel 1962 lascia anche Rauti per fondare l'Avanguardia Nazionale Giovanile che in seguito si scioglierà con gli arresti dei suoi militanti. Nel 1965 prende parte al convegno dell'hotel Parco dei Principi dei neofascisti italiani e nel 1966 organizza la prima azione di depistaggio affiggendo manifesti che inneggiavano all'Unione Sovietica Stalinista: anni dopo affermò che si trattava di un'azione voluta dalla Cia e da ambienti anticomunisti italiani. Nel 1969 Delle Chiaie finisce nell'inchiesta su Piazza Fontana e, poco prima di testimoniare, decide di fuggire in Spagna. Nel 1974 conosce Pinochet e si trasferisce in Cile. Troverà poi rifugio in diversi paesi sudamericani dove è inseguito da un mandato di cattura per concorso in strage. Durante una di queste fughe, in Bolivia, viene ferito gravemente da agenti italiani del Sisde e della Cia. Il 27 marzo 1987, dopo 17 anni di latitanza e da 5 inseguito da mandato di cattura per associazione sovversiva, banda armata e concorso in strage Delle Chiaie si lascerà arrestare a Caracas in Venezuela dalla polizia per essere estradato in Italia. "La prima volta che l'ho intervistato erano i primi anni Novanta - spiega Nicola Rao, giornalista e storico dell'estrema destra all'agenzia AdnKronos -. È un personaggio con una lunga storia di processi nei quali era stato coinvolto e che aveva attraversato indenne. Aveva conosciuto, incontrato tutti i grandi vecchi del neofascismo degli ultimi cinquanta anni, nel momento della cosiddetta Internazionale Nera degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta aveva avuto un ruolo significativo. È un personaggio che ha attraversato la storia d'Italia anche nelle sue pagine più nere e misteriose, sono certo che non ci abbia raccontato tutto quello che ha visto, vissuto e fatto. Se ne va uno dei grandi vecchi del neofascismo e porta con lui anche molti misteri d'Italia".  

“ER CACCOLA”, L'UOMO DEI MISTERI NERI. Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' l'11 settembre 2019.Nella sua autobiografia pubblicata nel 2012 (L'aquila e il condor - Memorie di un militante politico , edita da Sperling&Kupfer, Stefano Delle Chiaie commenta così la strage di piazza Fontana: «Quel giorno l' Italia si scontrò con il mistero della violenza nichilista. Fu l' inizio di anni tormentati che permisero errori, depistaggi, falsificazioni e strumentalizzazioni di parte a danni della verità. Con inimmaginabili conseguenze per molte persone strette nella morsa di quella macchinazione». Lui - il Comandante neofascista morto ieri a Roma tre giorni prima di compiere 83 anni - per la strage del 12 dicembre 1969 fu inquisito, processato e assolto, come per molti altri attentati o progetti aversivi degli anni Sessanta e Settanta; fino alla bomba di Bologna del 2 agosto 1980. Sospettato, accusato e infine scagionato sul piano della responsabilità penale. Ma la propria appartenenza al mondo nero che fece da sfondo e coltivò la «strategia della tensione», con tanto di protezioni e coperture negli apparati statali, l' ha sempre rivendicata, senza però mai svelarne i misteri. Anzi, spesso negandoli, a cominciare proprio dal disegno complessivo che teneva insieme i diversi episodi. «Certamente in quel periodo la tensione era presente nel Paese - sosteneva Delle Chiaie -; non per una strategia studiata a tavolino, ma come conseguenza di una situazione storica obiettiva. La "strategia della tensione" e lo "Stato parallelo" sono formule che hanno istigato una violenza antifascista, che venne poi giustificata con la difesa della democrazia». Come se le vittime fossero lui e la sua parte; come se le trame che hanno inquinato e deviato la storia del Paese non fossero state tessute anche tramite lui e i movimenti della destra extraparlamentare di cui è stato protagonista: da Ordine nuovo a Avanguardia nazionale, fino a quella sorta di internazionale nera che gli ha garantito diciassette anni di latitanza all' estero, prima nella Spagna franchista e poi nel Sud America dei generali golpisti; Cile, Argentina, Bolivia, infine Venezuela. A chi gli chiedeva perché non si decidesse a raccontare quello che sapeva rispondeva che era compito degli inquirenti ricostruire la verità. Lui s' è limitato - nelle deposizioni, nelle memorie e nelle interviste - a dire quel che riteneva necessario per essere scagionato dai reati e provare a difendere la genuinità politica delle proprie gesta. Per esempio quando raccontò che nel 1964, 14 anni prima che ci pensassero le Brigate rosse, un gruppo di ex repubblichini gli propose di sequestrare il presidente del Consiglio Aldo Moro; richiesta rifiutata con un freddo e sbrigativo saluto, ha precisato il militante all' epoca non ancora trentenne ma già tra i protagonisti più importanti del neofascismo italiano. Dai forti legami con Junio Valerio Borghese, quello del tentato colpo di Stato del 1970, per il quale pure Delle Chiaie è stato chiamato in causa. Lui però diceva che all' epoca era in Spagna, ma ha sempre mostrato di sapere molte cose. Forse troppe per uno assente.

Come su altre vicende oscure della storia italiana. Il sedicente anarchico Mario Merlino, accusato insieme a Valpreda per piazza Fontana, era anche un fascista di Avanguardia nazionale a stretto contatto proprio con Delle Chiaie. E per la strage di Bologna il «Caccola» (un soprannome che gli fu affibbiato da ragazzino per la bassa statura) era stato inserito nella catena che da Licio Gelli e la P2 portava agli esecutori materiali; anelli che uno dopo l' altro si sono spezzati, ma senza mai cancellare i sospetti di complicità e connivenze. Estradato in Italia nel 1987 e finito il tempo delle inchieste e dei processi, Delle Chiaie ha tentato nuove avventure politiche con scarso successo, che ieri gli sono valse il saluto solidale dell' ex eurodeputato leghista Mario Borghezio a «un alfiere della lotta contro la sovversione comunista». E sono rimasti i legami con i «camerati» di ieri e di oggi. Fino a Massimo Carminati, che intercettato nel 2014 diceva ai suoi amici: «Io sono un soldato politico... io i soldi li do al Caccola».

Delle Chiaie, funerali blindati per il "comandante" nero. La Repubblica il 12 settembre 2019. La bara portata a spalla dagli amici di vecchia data di Avanguardia Nazionale e poi avvolta nel tricolore, qualche saluto romano, una corona di fiori firmata "i camerati" e sull'altare uno stendardo dell'organizzazione neofascista da lui fondata nel 1960 e formalmente disciolta 16 anni dopo. Si sono svolti a Roma, a San Lorenzo Fuori le mura i funerali di Stefano Delle Chiaie, esponente della destra radicale  morto nei giorni scorsi a Roma a 83 anni. Tre i blindati della polizia posizionati davanti alla basilica, una cinquantina gli agenti dispiegati in zona. I 'camerati' lo hanno ricordato cantando l'inno politico col pugno chiuso al cuore e qualche braccio teso. Tra loro Domenico Gramazio, ex parlamentare del Msi e Maurizio Boccacci, già leader di Movimento politico e di Militia che ha definito l'amico "un vero comandante, il comandante di tutto un mondo fascista".  Don Pietro, il parroco che ha celebrato la funzione, ha ricordato la sua amicizia con Delle Chiaie. "Lo abbiamo stimato, abbiamo condiviso la sua storia, lo abbiamo amato e ci ha amati", ha detto durante l'omelia, "eravamo molto amici pur avendo idee diverse". Delle Chiaie, che era stato coinvolto in diversi misteri italiani e accusato di concorso in strage nell'attentato di Bologna, negli ambienti della Destra radicale era soprannominato "er caccola". In vista dei funerali era apparso a Porta Maggiore uno striscione con la scritta "Delle Chiaie stragista nero, una caccola al cimitero" affisso dai movimenti antagonisti romani.

Funerali Delle Chiaie, saluti romani per l’addio al neofascista. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Saluti romani all’ingresso del feretro di Stefano Delle Chiaie, l’ideologo neofascista fondatore di Avanguardia nazionale, finito sotto inchiesta per le stragi di piazza Fontana e alla stazione di Bologna, nonché per il tentato Golpe Borghese (fu anche arrestato per la «battaglia» di Valle Giulia nel 1968 e gli scontri all’interno dell’Università La Sapienza), ma sempre assolto o prosciolto dalle accuse, morto il 9 settembre scorso a 83 anni all’ospedale Vannini. Un’ottantina di persone, alcune in maglietta e camicia nera, con il simbolo di An (Avanguardia Nazionale), hanno partecipato alle esequie nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma. I camerati di Delle Chiaie, originario della provincia di Caserta ma da sempre residente a Roma dove si era iscritto a 14 anni nella sezione Msi dell’Appio Tuscolano, hanno portato a spalla la bara, poi avvolta nel tricolore. Accanto al feretro anche quattro corone di fiori, rose rosse, e un picchetto composto da sei persone. Durante l’omelia il sacerdote, Don Pietro, ha ricordato Delle Chiaie dicendo che «pur non condividendo le sue convinzioni politiche e quello che faceva, comunque gli volevo bene». Fuori dalla basilica al Verano, alcune squadre del Reparto mobile della polizia per tenere sotto controllo la situazione. Al termine della celebrazione i ricordi di alcuni dei camerati di Delle Chiaie. E le parole della moglie, Carola, che dal pulpito ha voluto rinnovare le promesse nuziali: «Mi hai insegnato tutto, ma non a fare a meno di te. Prima o poi porteranno avanti quello che sei stato». Mentre, all’uscita del feretro, il tradizionale picchetto d’onore del comandante con i tre «presente» dei camerati. A dare l’ultimo saluto a Delle Chiaie c’erano anche Adalberto Baldoni (giornalista e politico), Domenico Gramazio (esponente della destra e papà di Luca, consigliere regionale del Lazio coinvolto nell’inchiesta di Mafia Capitale) e Maurizio Boccacci.

·         Morta Annalisa Cima, addio all’ultima Musa di Montale.

Morta Annalisa Cima, addio all’ultima Musa di Montale e alla verità sui segreti del «Diario». Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Paolo Di Stefano su Corriere.it. Annalisa Cima era nata a Milano nel 1941 da una famiglia lecchese di industriali fondatori, in zona Castello, di famose cartiere eponime. Viveva in Svizzera con il marito Friedrich da molti anni, in seguito a una tubercolosi che le suggerì di lasciare la metropoli per stabilirsi a Castagnola, nella collina che si affaccia sul Lago Ceresio. Nella sua casa di Lugano è morta il 5 settembre. Una sua scheda biografica, scritta a suo tempo dall’amico editore Vanni Scheiwiller, racconta nel dettaglio la genealogia, il rapporto privilegiato con il nonno paterno Francesco, antifascista gobettiano, nonché gran cacciatore e giocatore di poker. Con lui Annalisa sarebbe cresciuta dopo la separazione dei genitori Giovanni Battista e Ileana Anna, figlia unica di Alice Schlesinger, ebrea viennese rifugiata in Svizzera durante la guerra.

Anna Elisa (così all’anagrafe) aveva seguito studi di arte, musica (il pianoforte), filosofia, che dovette interrompere a sedici anni a causa della malattia, per poi riprenderli conseguendo una laurea in Ingegneria cartaria e in Filosofia (è sempre la scheda di Scheiwiller a parlare). Vittime entrambe le famiglie, paterna e materna, di gravi collassi finanziari, Annalisa Cima si dedicò ben presto alla pittura oltre che alla poesia. La prima esposizione è del 1964 a Locarno, mentori illustri Max Bill e l’architetto Alberto Sartoris; seguono altre mostre a Losanna, a Venezia e in giro per il mondo (Brasile e Giappone, dove conosce Akira Kurosawa). Donna dal grande fascino e di straordinaria bellezza nordica, Annalisa Cima ha modi eleganti, personalità ammaliante, curiosità intellettuale e facilità di relazioni, e negli anni tra i 60 e i 70 avvicina i grandi della critica e della letteratura, da Roman Jakobson a Meyer Shapiro, da Marianne Moore a Ezra Pound, da Ungaretti a Palazzeschi. Frequenta Pasolini, Visconti, Lattuada, conosce Contini e Feltrinelli, oltre ad avere amici nell’avanguardia del Gruppo 63. Scheiwiller comincia a ospitarla nelle sue preziose plaquette colorate All’insegna del Pesce d’Oro. Ne verranno fuori raccolte poetiche come Terzo modo (1969), La genesi e altre poesie (1971), Immobilità (1974), con brevi testi accompagnati da disegni a matita dalle forme semplici, e prefazione di Cesare Segre. Nel 1968 in via Bigli a Milano l’incontro con Montale, non ancora premio Nobel: sarà un’amicizia destinata a far molto discutere a partire dal 1986, quando Annalisa Cima all’Hotel Splendid di Lugano rivela che il vecchio poeta le ha lasciato 84 liriche inedite, scritte tra il 1969 e il ’79 e a lei dedicate, con la raccomandazione di pubblicarle in 12 plaquette dopo la sua morte. Il tutto sotto la sigla della Fondazione Schlesinger, nata nel 1978 sotto l’egida dello stesso Montale e con un comitato scientifico presieduto ad honorem da Rita Levi Montalcini. I dubbi sull’affidabilità dell’«ultima Musa» del poeta, soprattutto da quando nel 1996 esce presso Mondadori il cosiddetto Diario postumo che raccoglie tutti i componimenti, nascono dal fatto non secondario che i manoscritti di quei testi rimangono inaccessibili. La polemica esplode nel luglio 1997 sulle colonne del «Corriere» grazie a un intervento del grande filologo Dante Isella che denuncia con molte prove il mediocre falso (i suoi scritti sul Diario sono raccolti nel volumetto Dovuto a Montale). Discussioni infuocate ne seguono, finché con l’intenzione di diradare le fitte nebbie la Musa chiama a raccolta il 24 ottobre, ancora allo Splendid, amici e filologi per un seminario e una mostra in cui promette di esibire gli autografi. In realtà i dubbiosi hanno buone ragioni per rimanere ancora più dubbiosi: le carte restano pressoché inaccessibili, sorvegliate da guardie «gallonate» e tenute debitamente sottovetro a distanza. Scrive Maria Antonietta Grignani, ricordando quella assurda serata: «Avevano una vaga parvenza della grafia di Montale, ma di lui ben più giovane e per giunta c’era da dubitare fossero opera di una sola mano». Sulla spinosa questione si erano formati due netti schieramenti: da una parte gli «autenticisti» (tra questi anche studiosi autorevolissimi come Rosanna Bettarini e Maria Corti), dall’altra i decisamente scettici (tra questi, sin dalla prima ora, Giorgio Orelli e Giovanni Raboni, cui si sarebbe aggiunto Mengaldo). In mezzo, alcuni scettici e «possibilisti», tra cui il poeta Zanzotto, che ritenevano quei versi frutto di una collaborazione «scherzosa» tra il vecchio poeta e la giovane ispiratrice. A detta di Gina Tiossi, la fedelissima governante di Montale, «la signora» andava a trovare il poeta, sia a Milano sia d’estate in Versilia, sempre dotata di registratore. Non se ne parlò per almeno un decennio, del Diario postumo (che intanto circolava in libreria con il nome di Montale), fino a quando, nel 2014, il dibattito fu riacceso da nuove ricerche filologiche (di Federico Condello, Alberto Casadei, Paola Italia e altri) che confermavano la tesi di Isella: si tratta di un «falso in toto o in gran parte, frutto di collage o di registrazioni audio». Annalisa Cima ha assistito pressoché in silenzio al ritorno di fiamma dell’affaire attributivo. Qualche intervento occasionale qua e là, mai convincente. Soprattutto, le carte sono rimaste sepolte nell’invisibilità. E da domani chissà che cosa ne sarà.

·         Morto l'attore Federico Palmieri.

Shock a Piazza Bologna, trovato morto l'attore Federico Palmieri. L'uomo di 41 anni era il fondatore del Teatro dei Balbuzienti. Stefano Damiano, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. L'attore romano Federico Palmieri è stato trovato morto nella propria abitazione in zona di Piazza Bologna. L'uomo di 41 anni si sarebbe impiccato nel giardino condominiale della sua residenza in via Michele di Lando, nel tardo pomeriggio di ieri. A fare la scoperta una sua amica che ha chiamato i soccorsi ma il personale sanitario, una volta arrivato sul luogo, non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. La donna si trovava li perché doveva portare fuori il cane di Federico, Rocco, che viveva con l'attore e con la madre. Sul posto sono intervenuti anche gli agenti della polizia del commissariato Sant'Ippolito; sulla vicenda sono ancora in corso le indagini. Attore, regista e autore di teatro e cinema, Federico Palmieri era il fondatore del Teatro dei Balbuzienti, era figlio del regista e scultore Gaetano Palmieri. Si avvicina alla recitazione da ragazzo proprio per risolvere il suo disturbo del linguaggio. Aveva ottenuto notorietà internazionale grazie al premio, nel 2017, per il premio miglior corto al Milano Film Festival; poi aveva ottenuto il Premio miglior attore al BucharestShortCut Cinefest (2018) con il cortometraggio "Anna e Marco", presentato nel stesso anno al Pigneto Film Festival. Oltre al teatro anche il cinema con la partecipazione al film "Ride" di Valerio Mastandrea.

Mauro Cifelli per Roma Today il 6 settembre 2019. E' morto a Roma Federico Palmieri, attore cinematografico e teatrale. Quarantuno anni, nato e cresciuto nella zona di piazza Bologna l'artista è stato trovato privo di vita nella sua abitazione di via Michele di Lando nel pomeriggo di giovedì 5 settembre. Fondatore con la sua socia del Teatro dei Balbuzienti, Federico Palmieri viveva con la madre, al momento della tragedia fuori Roma, ed il suo adorato cane Rocco nell'appartamento dove è poi stato trovato morto. Attore, regista e autore di teatro e cinema, Federico Palmieri aveva ottenuto nel 2017 il premio miglior corto al Milano Film Festival (2017) e il Premio miglior attore al BucharestShortCut Cinefest (2018) con il cortometraggio "Anna e Marco", presentato nel 2018 anche al Pigneto Film Festival. Una vita dedicata al teatro ed al cinema che lo aveva visto recitare sul grande schermo nel film "Ride" di Valerio Mastandrea. A ricordarlo a RomaToday Andrea Liburdi, amico da una vita di Federico Palmieri, con il quale aveva condiviso l'infanzia frequentando la stessa scuola proprio nella zona di piazza Bologna, l'istituto San Giovanni Evangelista. "Ci siamo incontrati martedì scorso, era un po' giù di morale - lo ricorda il rappresentante istituzionale di zona -. Mai avrei pensato che fosse stata l'ultima volta". Conosciuto nel quartiere con il nomignolo di MAF, "Federico viveva con la madre ed in totale simbiosi con il suo amato cane, Rocco. Una persona speciale, che aveva dedicato tutta la sua vita al cinema ed al teatro". Sempre pronto ad aiutare il prossimo "Federico era balbuziente ed aveva elaborato un metodo per superare questa difficoltà fondando il Teatro dei Balbuzienti, proprio dedicato a chi aveva queste difficoltà linguistiche". Un progetto quello del Teatro dei Balbuzienti "con il quale aveva aiutato decine di ragazzi, anche diversamente abili". Oltre a ciò, "Federico era un animalista convinto e molte volte aveva collaborato con noi alla distribuzione di cibo ed alimenti alle persone con difficoltà economiche del quartiere". "Purtroppo - prosegue Andrea Liburdi - non ha avuto il giusto riconoscimento per le sue capacità artistiche. Mi diceva sempre di quanto fosse difficile poter lavorare nel mondo del cinema e del teatro senza le giuste conoscenze". "Nonostante questo mancato riconoscimento, aveva con il suo progetto del Teatro dei Balbuzienti creato qualcosa di meraviglioso, dimostrazione del fatto che nella vita si può riuscire ad emergere anche solamente con le proprie forze, e lui di coraggio e bontà d'animo ne aveva per tutti". Quarantuno anni, romano, Federico Palmieri è stato trovato privo di vita nella sua casa di via Michele di Lando nel tardo pomeriggio di giovedì. A chiamare i soccorsi una sua amica "a cui Andrea aveva detto di portare fuori il cane Rocco", ricorda ancora il suo amico d'infanzia Andrea Liburdi. Allertati i soccorritori dalla sua amica una volta entrati nella casa di piazza Bologna vigili del fuoco ed agenti del Commissariato Sant'Ippolito di polizia lo hanno trovato impiccato con una corda ad una trave del giardino condominiale. Nonostante i tentativi di rianimarlo per Federico Palmieri non c'è stato nulla da fare, i soccorritori non hanno potuto far altro che constatarne la morte. 

·         Vaticano, morto  a 95 anni il cardinale Achille Silvestrini.

Vaticano, morto  a 95 anni il cardinale Achille Silvestrini. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Corriere.it. È morto oggi — giovedì 29 agosto — a Roma il cardinale Achille Silvestrini, 95 anni, prelato che per anni è stato ai vertici della diplomazia vaticana. Prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, l’ultimo dei tanti incarichi ricoperti in Vaticano, Silvestrini è «sempre stato attento alle persone, con un occhio di riguardo ai giovani, prima che ai documenti, ha svolto per decenni con scrupolo e rigore incarichi diplomatici per la Santa Sede», ricorda il portale della Santa Sede. Stretto collaboratore dei segretari di Stato Domenico Tardini e Amleto Giovanni Cicognani, viaggia, tra le altre cose, con l’allora arcivescovo Agostino Casaroli nel periodo dell’Ostpolitik e guida le trattative con le autorità italiane per la revisione del Concordato lateranense. Nel ministero sacerdotale svolge un’azione tra i giovani a “Villa Nazareth”, istituzione ideata nel 1945 dal cardinale Tardini. Dal 1969, anima una “Comunità” sorta da un gruppo di ex-alunni laureati, professionisti e amici di Villa Nazareth.

Morto il cardinale Silvestrini, per anni ai vertici della diplomazia vaticana. Aveva 95 anni. Fu lui a guidare la delegazione della Santa Sede per la revisione del Concordato lateranense. La Repubblica il 29 agosto 2019. E' morto oggi a Roma il cardinale Achille Silvestrini, 95 anni, per anni ai vertici della diplomazia vaticana. Una vita spesa al servizio della Chiesa e del Papa, era prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali. "Sempre attento alle persone, con un occhio di riguardo ai giovani, prima che ai documenti, ha svolto per decenni con scrupolo e rigore - così lo ricorda Vatican News - incarichi diplomatici per la Santa Sede". Stretto collaboratore dei segretari di Stato Domenico Tardini e Amleto Giovanni Cicognani, viaggia, tra le altre cose, con l'allora arcivescovo Agostino Casaroli nel periodo dell'Ostpolitik e guida le trattative con le autorità italiane per la revisione del Concordato lateranense. Nato a Brisighella, nella diocesi di Faenza, il 25 ottobre 1923, entra diciannovenne nel Seminario Diocesano, dove è ordinato sacerdote dal vescovo Giuseppe Battaglia, il 13 luglio 1946. Nel dicembre 1953 entra nel servizio diplomatico della Sezione per gli affari ecclesiastici straordinari della Segreteria di Stato, occupandosi del Vietnam, della Cina, dell'Indonesia e, in generale, del sud-est asiatico. Promosso all'episcopato nel 1979, riceve l'ordinazione il 27 maggio da san Giovanni Paolo II. Il nuovo incarico lo porta a guidare la delegazione della Santa Sede per la revisione del Concordato lateranense, trattative condotte con le autorità italiane fino alla firma dell'Accordo del 18 febbraio 1984. Innumerevoli le missioni diplomatiche compiute nel corso di quegli anni. E' sempre san Giovanni Paolo II a crearlo cardinale, nel concistoro del 28 giugno 1988, evento che precede di tre giorni la nomina a prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Dal 24 maggio 1991 al 25 novembre 2000 ricopre l'incarico di prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Nel ministero sacerdotale svolge un'azione tra i giovani a "Villa Nazareth", istituzione ideata nel 1945 dal cardinale Tardini, dove ha anche abitato il premier Giuseppe Conte. Dal 1969, anima una "Comunità" sorta da un gruppo di ex-alunni laureati, professionisti e amici di Villa Nazareth. Da questa nasce, nel 1986, la Fondazione "Comunità Domenico Tardini", che prende in affidamento dalla Fondazione Sacra Famiglia di Nazareth la responsabilità delle attività formative e di gestione. Di entrambe le Fondazioni il cardinale Silvestrini era presidente.

Maria Antonietta Calabrò per Huffingtonpost.it il 30 agosto 2019. Una coincidenza, un segno del destino. Nel giorno in cui Giuseppe Conte riceve l’incarico di formare un nuovo Governo, muore in Vaticano, a quasi 96 anni, il cardinale Achille Silvestrini, gigante della diplomazia vaticana, e soprattutto della Ostpolitik, che di Conte è stato il mentore dagli anni in cui frequentava il collegio di Villa Nazareth, il prelato a cui più di tutti il premier incaricato deve le sue entrature ecclesiastiche. Fu infatti Silvestrini - cardinale romagnolo di orientamento progressista - a rilanciare Villa Nazareth come collegio universitario. Alcune decine di studenti (prevalentemente non abbienti, soprattutto provenienti dal Sud) furono scelti e sostenuti su basi di merito. Conte non ebbe una borsa di studi, proveniente da un piccolo comune pugliese (Volturara Appula, proprio a metà tra i due paesi di Padre Pio, San Giovanni Rotondo e Pietrelcina), è stato in stretti rapporti da universitario con l’Istituzione e soprattutto è rimasto fedele a Silvestrini e alla sua creatura Villa Nazareth, che ha aiutato in alcuni rapporti con gli Stati Uniti. E sicuramente fino all’inizio del suo primo governo faceva ancora parte del Comitato Scientifico di Villa Nazareth (un compendio con residenze, aule di formazione, sala conferenze e giardino che si trova a due passi dal Policlinico Gemelli). Silvestrini, nell’arco degli anni, ha intessuto una serie di rapporti rivolti principalmente alla sinistra Dc (Sergio Mattarella e gli ex-morotei); all‘ex presidente Oscar Luigi Scalfaro (abitava vicino a Villa Nazareth). Ma anche a personalità laiche come gli ex presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Celebre la sua omelia per la morte di Federico Fellini (il cui film La strada è uno dei preferiti di Papa Francesco). Ha tra l’altro sposato l’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli. Stretto collaboratore dei segretari di Stato Domenico Tardini e Amleto Giovanni Cicognani, Silvestrini accompagnò l’allora arcivescovo Agostino Casaroli nel periodo dell’Ostpolitik e guidò le trattative con le autorità italiane per la revisione del Concordato lateranense ( dal 1979 sino alla firma il 18 febbraio 1984 ) . Ha seguito come inviato speciale di Giovanni Paolo II la crisi delle Malvine-Falklands (1982); e quelle in Nicaragua e in El Salvador (1983); quella della Polonia (1983); a Stoccolma fu come capo della delegazione della Santa Sede alla sessione inaugurale della Conferenza sul disarmo in Europa (1984); si recò ad Helsinki, per la celebrazione del decimo anniversario della firma dell’atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Dal 1969, Silvestrini è diventato l’anima di una “Comunità” sorta da un gruppo di ex-alunni laureati, professionisti e amici di Villa Nazareth. Da essa nacque, nel 1986, la Fondazione “Comunità Domenico Tardini”, che prende in affidamento dalla Fondazione Sacra Famiglia di Nazareth la responsabilità delle attività formative e di gestione. Di entrambe le Fondazioni il cardinale Silvestrini ha ricoperto il ruolo di presidente. Direttore di Villa Nazareth è stato anche l’attuale Segretario di Stato di Papa Francesco, Pietro Parolin. Oggi, il capo è monsignor Claudio Celli, romagnolo pure lui, come Silvestrini, una carriera coronata - dopo essere stato capo dell’Apsa, Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica - dal nuovo deal concluso da Papa Francesco con la Cina, che ha portato nei giorni scorsi alla nomina d’intesa tra il Vaticano e il Governo cinese dei due primi vescovi, con l’ok comune. Secondo indiscrezioni, Celli nelle settimane della crisi agostana del Governo gialloverde si è molto speso a favore di Giuseppe Conte, il pupillo del cardinale Silvestrini. Silvestrini è stato uno dei cardinali e vescovi che si sono incontrati ogni anno dal 1995 al 2006 a San Gallo, in Svizzera, per discutere di riforme in merito alla nomina di vescovi, collegialità, conferenze episcopali, primato del papato e  moralità sessuale. La cosiddetta “Mafia di San Gallo”, cosi battezzata da uno dei suoi partecipanti.  Differivano tra loro, ma condividevano l’opinione che il cardinale Joseph Ratzinger non fosse il tipo di candidato che  speravano di vedere eletto dopo Giovanni Paolo II. Troppo vecchio per partecipare al conclave del 2005 per scegliere il nuovo Papa, Silvestrini fu tuttavia un vigoroso oppositore anche pubblico di Ratzinger, e invitava i giornalisti a guardare al cardinale di Canterbury O’ Connor ( che fu uno dei grandi elettori di Papa Francesco) . Evidentemente anche su questo fronte Giuseppe Conte e Matteo Salvini (che ha indossato la maglietta, “Il mio Papa è Benedetto” ) si sono ritrovati su sponde opposte.

·         Carlo Delle Piane è morto a 83 anni.

Carlo Delle Piane è morto a 83 anni, lavorò con Sordi, Totò, De Sica e Avati. L’attore aveva da poco festeggiato i 70 anni di carriera. La notizia è stata data dalla moglie Anna Crispino. Paolo Foschi il 24 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. È morto a Roma all’età di 83 anni l’attore Carlo Delle Piane. Ne dà notizia la moglie, Anna Crispino. L’attore aveva da poco festeggiato i 70 anni di carriera, durante i quali aveva lavorato con alcuni dei più importanti registi e attori, ricordando i molteplici successi al fianco di Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Totò, De Sica e molti altri ancora, fino al fortunatissimo decennio con Pupi Avati.

L’esordio. Nato a Roma, nella centralissima piazza Campo de’ Fiori, il 2 febbraio del 1936, era il secondo dei tre figli di Francesco Delle Piane, un sarto originario di Casoli di Atri, frazione di Atri (in provincia di Teramo), e di Olga Rossi, una casalinga romana. Il debutto nel mondo dello spettacolo da giovanissimo: nel 1948, appena dodicenne, fu scelto da Vittorio De Sica e Duilio Coletti per interpretare Garoffi nel film “Cuore”. La selezione avvenne nel corso di una serie di provini nelle scuole della Capitale. «Ero alle medie al Pio XI di Roma e lì arrivarono gli assistenti del regista Duilio Coletti che cercavano tra gli alunni i ragazzi per il film Cuore. Io, che ero sempre all’ultimo banco e non andavo troppo bene a scuola, non capivo chi fossero, pensavo che stessero per interrogarmi e quasi mi nascondevo. Ma fui scelto, anche se allora sembravo un extraterrestre piccolo e con le gambe sottili sottili. Da allora mi ritrovai a lavorare con grandi artisti, ma non davo loro importanza, per me il cinema era un modo per non andare a scuola e mettermi qualche soldo in tasca» raccontò anni dopo. Nel 1950 venne chiamato per il suo secondo film: “Domani è troppo tardi” diretto dal regista francese Léonide Moguy. A quel punto era diventato un volto noto del nuovo cinema e nel 1951 Steno e Mario Monicelli gli affidarono una parte al fianco di Aldo Fabrizi e Totò in “Guardie e ladri”.

L’incontro con Sordi. Nel 1954 nel film “Un americano a Roma” veste i panni di Romolo Pellacchioni detto “Cicalone”, l’amico di Nando Mericoni, interpretato da Alberto Sordi. Dopo un brutto incidente automobilistico nel 1973 che lo tenne in coma per più di un mese, riprese a lavorare anche grazie all’intuizione di Pupi Avati, che riuscì a esaltarne le doti drammatiche nel film “Tutti defunti... tranne i morti”. Con lo stesso regista ottenne grande successo in “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale”. Fra i numerosi riconoscimenti, la Coppa Volpi (1986) , il Nastro d’argento, il Globo d’oro e il Premio Pasinetti (nel 1986). Nel 1997 diresse il suo unico film da regista, “Ti amo Maria”, nel quale recitò anche come attore, mentre nel 2006 incise il disco “Bambini”, scritto da Massimo Bizzarri e Giuseppe Marcucci. Ha lavorato, come autore e attore, anche in teatro. Ancora provato dall’emorragia cerebrale che lo ha colpito nel gennaio 2015 e che lo aveva portato fino al coma, aveva festeggiato con l’amorevole moglie, la cantante Anna Crispino, i 70 anni di carriera lo scorso anno alla mostra del cinema di Pesaro. 110 film all’attivo, di cui una quindicina sotto la direzione del suo grande amico Pupi Avati.

CARLO DELLE PIANE. Da cinquantamila.it.

Roma 2 febbraio 1936. Attore. Film: Guardie e ladri (1951), Una gita scolastica (1983, Nastro d’argento miglior attore protagonista), Festa di laurea (1984), Regalo di Natale (1986, Leone d’Oro a Venezia come Miglior attore protagonista), La rivincita di Natale (2004) ecc.

Nel 2008, assieme a Stefania Sandrelli, in Ogni giorno, sul tema dell’Alzheimer. «L’attore culto di Pupi Avati. Dopo esser stato prima attore-bambino nel dopoguerra con Cuore di De Sica e altro, poi attore-caratterista nei musicarelli di Claudio Villa o nelle commedie di Totò» (Simonetta Robiony).

«Da bambino andavo a recitare perché non volevo studiare. Il cinema l’ho scoperto e amato da grande, quando passavo intere giornate nei cineforum vedendo tutto il meglio dei grandi autori».

Nel 2011 pubblica Signore e signori, Carlo Delle Piane, biografia scritta con Massimo Consorti (Testepiene).

«L’attore più timido e riservato del cinema italiano» (Maurizio Caverzan).

E' morto Carlo Delle Piane, 110 film in 70 anni di carriera. Aveva 83 anni. Aveva lavorato con i grandi del cinema italiano e in particolare con Pupi Avati. La Repubblica il 24 agosto 2019. E' morto a Roma all'età di 83 anni l'attore Carlo Delle Piane. Ne dà notizia la moglie, Anna Crispino. L'attore aveva da poco festeggiato i 70 anni di carriera, durante i quali aveva lavorato con alcuni dei più importanti registi e attori, ricordando i molteplici successi al fianco di Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Totò, De Sica e molti altri ancora, fino al fortunatissimo decennio con Pupi Avati. Ancora provato dall'emorragia cerebrale che lo ha colpito nel gennaio 2015 e che lo aveva portato fino al coma, aveva festeggiato con la moglie, la cantante Anna Crispino, i 70 anni di carriera lo scorso anno alla mostra sel cinema di Pesaro. 110 film all'attivo, di cui una quindicina sotto la direzione del suo grande amico Pupi Avati, Delle Piane aveva realizzato il suo primo film quando aveva solo 12 anni. "Ero alle medie al Pio XI di Roma e lì arrivarono gli assistenti del regista Duilio Coletti che cercavano tra gli alunni i ragazzi per il film Cuore. Io, che ero sempre all'ultimo banco e non andavo troppo bene a scuola, non capivo chi fossero, pensavo che stessero per interrogarmi e quasi mi nascondevo. Ma fui scelto, anche se allora sembravo un extraterrestre piccolo e con le gambe sottili sottili. Da allora mi ritrovai a lavorare con grandi artisti, ma non davo loro importanza, per me il cinema era un modo per non andare a scuola e mettermi qualche soldo in tasca", raccontava. Un film dietro l'altro per lui, in genere commedie brillanti ed ha recitato con tutti, Sordi, Totò, Gassman, Fabrizi, diretto da De Sica, Vadim, Steno, Monicelli, Polanski e Corbucci. Ma il suo grande amico è stato Aldo Fabrizi, "uno non troppo amato dai colleghi per la sua schiettezza. Ho fatto con lui La famiglia Passaguai e poi Rugantino di Garinei e Giovannini. Mi ricordo poi che Fabrizi usava svuotare un rosetta e riempirla di rigatoni al sugo. Era fatto così". Suo attore di riferimento Buster Keaton: "Volevo essere come lui. Mi piaceva la sua asciuttezza nella recitazione, la sua maniacalità nel sottrarre". Infine per Carlo Delle Piane la terapia per tutto, anche per la sua idiosincrasia nell'essere toccato, stava nel lavoro: "Quando sono sul set faccio tutto tocco abbraccio apro le porte".

Delle Piane. L’attore che visse due volte. Pubblicato domenica, 25 agosto 2019 da Corriere.it. Carlo Delle Piane, morto il 23 agosto a 83 anni, è stato un attore capace di stare sul filo di equilibrio psicologico, ma prima un grande caratterista: i miracoli del cinema. Chi fece il miracolo fu Pupi Avati che lo scelse per un suo film gotico horror. «Mi resi conto che qualcosa di grosso ribolliva in quel talento inespresso. Giorni fa andammo a trovarlo a Roma, era incosciente, ma quando mio fratello gli disse che stavo scrivendo per lui un personaggio bellissimo gli spuntò un sorriso: gli attori sono fatti così, dagli una parte e rinascono». E infatti Delle Piane era rinato, attore che visse due volte. Nato a Roma, in Campo de’ Fiori, il 2 febbraio 1936, fu scelto da De Sica e Coletti per Cuore nel 1948. Delle Piane non era il primo della classe e, quando arrivarono quei signori, si nascose pensando volessero interrogarlo. Per Carlo si apriva una stagione fortunata di piccoli ruoli con grandi partner. Data l’età, faceva spesso il figlio (Pecorino, gli rimase addosso) in film che fecero storia come Guardie e ladri e la Famiglia Passaguai, oltre che in decine di titoli di consumo. E quel nasone che andava subito in primo piano era frutto di una pallonata in faccia. «Come Lucio Dalla, anche Carlo» dice Avati «con quel fisico così particolare, coltivava dentro una voglia di rivalsa, una potenzialità e una malinconia che formavano un insieme esplosivo». Il 25 agosto a Roma, nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo, si svolgeranno i funerali di Delle Piane che affiancò giganti come Eduardo, Rascel, Sordi, De Sica, Totò. Con Aldo Fabrizi divennero amici, tanto che quando l’attore fu il boia nel musical Rugantino, Delle Piane fu in scena come Boietto, il figlio. Intanto si esauriva quel filone ingenuo di B movies e Delle Piane si trovò in panne. Nel 1973 ebbe un incidente d’auto per cui rimase un mese in coma. Quando si risvegliò non era ragazzino, aveva sfruttato i doni della giovinezza, era a un bivio. E come il Pierino Alvaro Vitali incontrò l’Amarcord di Fellini, così Delle Piane incontrò l’amarcord di Avati che operò il miracolo di trasformarlo in vero attore, tramutando il comico in tragico. In realtà Delle Piane aveva già tutto l’occorrente, era provvisto di malinconia esistenziale, come quel Buster Keaton che amava. Ricorda Pupi: «All’inizio non lo volevo, ma scoprii un po’ alla volta in Carlo uno spessore che non avevo immaginato. Girai Una gita scolastica, travestendolo all’inizio con una parrucca bionda perché al produttore non piaceva ma fu un successo. Anni belli e pieni: Carlo viveva un rapporto fraterno con me e Nik Novecento, continuavamo a lavorare e divertirci, fino a Regalo di Natale che fu la nostra fortuna». L’attore studiava l’anatomia del personaggio, ma l’uomo Delle Piane combatteva battaglie con complessi che venivano da lontano. Dice Avati: «Non era un uomo facile, psicosomatizzava tutto, partendo da se stesso e da ipocondriaco non toccava nulla. La cosa triste è che, a parte Olmi per Tickets, nessuno dei miei colleghi l’ha mai preso in considerazione; forse si identificava troppo nel mio cinema. A Roma, poche settimane fa, hanno festeggiato i suoi 70 anni di carriera ma nella folla non c’era un regista». Dotato di quelle nevrosi che fanno parte del bagaglio di un attore, quel ragazzino, che aveva obbedito a Polanski e Monicelli, stava imboccando la discesa nella commedia scollacciata, ma mostrò con Avati di essere attore preciso, sensibile. Il primo incontro fu Tutti defunti…tranne i morti del 1977: Avati promosse Carlo Delle Piane, abituato a fare il moccioso, a interprete premiato, di dieci film, oltre la tv. In queste storie era spesso malmenato dal destino, solo e solitario, infelice dentro e bisognoso di rivalsa, come l’avvocato Santella, pokerista traditore in Regalo di Natale per cui vinse la Coppa Volpi a Venezia nell’86 (poi La rivincita di Natale). Ma il suo debutto maggiorenne, nell’83, fu il professore inutilmente innamorato di Una gita scolastica per la prima volta protagonista in un ruolo di minimalismo sentimentale e come sarà per Festa di laurea, sempre un gioco di timidezze incrociate. Con Pupi recita Le strelle nel fosso, Noi tre, Via degli angelie I cavalieri che fecero l’impresa, partecipando anche in tv a Jazz Band, Cinema!!!, Dancing Paradise. A teatro, passa da Garinei e Giovannini a una commedia spirituale, Ti amo Mariadi Manfridi, che Delle Piane trasformò nel suo unico film da regista; poi scrive Io, Anna e Napoli dedicata alla cantante Anna Crispino, sposata il 16 maggio 2013. Il declino della carriera gli addossa mali spesso di stampo neurologico: nel 2015 è ricoverato per emorragia cerebrale, ma si ristabilisce. Il titolo finale è Chi salverà le rose? di Cesare Furesi in cui Delle Piane torna ad essere il Santella pokerista, ricordo di un uomo qualunque fra i molti suoi, e ciascuno fu gigante nella sua piccolezza.

Marco Giusti per Dagospia il 24 agosto 2019. “Tema: Mio padre. Mio padre non è quello che si può dire un bell’uomo…”. “Ma come… un po’ di fantasia, perbacco!”. Ricordate questo dialogo a tavola tra lo scolaretto Carlo Delle Piane e suo padre Totò in Guardie e ladri? Non avremmo accettato nessun altro figlio di Totò al di fuori di Carlo Delle Piane. Ma era grandioso anche come Cesarione in Totò e Cleopatra…O compare del ladro Alberto Sordi nel fondamentale Ladro lui, ladra lei di Luigi Zampa. Ora che se ne è andato, a 83 anni, va detto che Carlo o Carletto Delle Piane, noto in quegli anni soprattutto come “Pecorino”, prima della riscoperta di Pupi Avati, che gli fece fare una quindicina di film, fu una delle colonne della commedia all’italiana di Steno, Monicelli, Girolami, fin da piccolissimo, recitando a fianco di mostri come Aldo Fabrizi, Walter Chiari, Vittorio De Sica, Alberto Sordi e naturalmente Totò. Pupi Avati, che lo diresse la prima volta nel 1977 con Tutti defunti… tranne i morti, per poi proseguire con Le stelle nel fosso, Una gita scolastica e Regalo di natale che gli fece vincere una discussa Coppa Volpi a Venezia perché la tolse di fatto al povero Walter Chiari che l’aveva già in tasca con Romance di Massimo Mazzucco, di fatto lo salvò dalla brutta deriva che stava prendendo. Dopo la grande stagione della commedia all’italiana, ancor giovane, Delle Piane si riciclò un po’ nel musicarello, perfino nello spaghetti western, All’ovest di Sacramento, trovò qualche ruolo simpatico di molestatore con Roman Polanski, in Che?, e poi con Jerzy Skolimowski, Le avventure di Gerard, ma la sua buffa faccia lunare venne soprattutto utilizzato nella commedia sexy del tempo, da La signora gioca bene a scopa a L’insegnante, dal terribile La bella governante di colore a La moglie dell’amico… è sempre più buona. Avati lo salvò da un declino che ci sembrava inevitabile, reinventandolo di sana pianta addirittura come protagonista, lui che era sempre stato un caratterista, del suo cinema piagnone e cattolico, ma d’autore. Riuscendo anche a farci scordare la sua lunga militanza nella commedia romana e il suo soprannome non proprio simpatico, quello di “Pecorino”. Carletto Delle Piane era stato scoperto a dieci anni in una scuola romana, il Pio XI, dagli assistenti di Duilio Coletti per il ruolo del bambino Garoffi nella prima versione di Cuore. Non si era mai vista una faccia così. Ripete più o meno lo stesso ruolo in Domani è un altro giorno di Leonid Moguy. Aldo Fabrizi lo volle con sé nella serie di La famiglia Passaguai e da lì scivolò in grandi film comici come Mamma mia, che impressione!, dove incontro Alberto Sordi, oltre a Fabrizi. Negli anni ’50 è presente ovunque, in Un americano a Roma, I pappagalli, L’amico del giaguaro, perfino in Fortunella di Eduardo De Filippo. Marino Girolami lo chiama per qualcosa come quindici film di successo, da Sette canzoni per sette sorelle del 1956 a Veneri al sole del 1965. Lì incontra Walter Chiari, allora protagonista di grande successo, ricordiamo Walter e i suoi cugini. Negli anni ’60 torna a recitare con Totò, ma ha un buon ruolo anche in Caccia al ladro di De Sica con Peter Sellers, per poi passare al musicarello di Ettore Maria Fizzarotti, utilizzato già come un vecchio caratterista quando ha appena trent’anni. Dobbiamo però aspettare fino alla metà degli anni ’70 per vederlo protagonista del cinema di Pupi Avati. Un cinema che lo fece rinascere totalmente agli occhi del pubblico. Ma che non poteva certo fargli ritornare più la freschezza dei suoi ruoli da ragazzino a fianco di Fabrizi e di Totò.

Giuliano Benvegnù per Il Corriere.it il 26 agosto 2019. Un lungo fragoroso applauso ha accompagnato l'uscita del feretro di Carlo delle Piane dalla chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo a Roma. Tanta la gente, anche non del mondo dello spettacolo che è venuta a salutare l'attore morto il 23 Agosto. «Grande e Bravo» ci ha tenuto a specificare Paola Saluzzi. «Lui forse solo adesso ha avuto il premio che doveva avere - ha aggiunto Enzo Garinei — era forse il più grande caratterista di tutti i tempi, ma contano solo i grandi attori. «Pupi Avati: «Attore fondamentale della mia vita. Fellini mi disse non posso chiamarlo perché è troppo vostro. Il cinema Italiano — ha poi detto il regista — fa schifo, non gli ha portato rispetto. Dove era oggi?»

Claudio Guaitoli per Il Corriere.it il 26 agosto 2019. La camera ardente di Carlo Delle Piane è stata allestita, lunedì 26 agosto, al policlinico Gemelli di Roma. Parenti ed amici sono giunti per rendere omaggio al noto attore italiano scomparso il 23 agosto. Il ricordo della moglie Anna Crispino: «Il cinema italiano ha perso un grande attore e una voce vera, perché lui era autentico», conclude, emozionata, la moglie. Alle 15, i funerali, nella chiesa degli Artisti di piazza del Popolo.

 “MI ODIO DAI PIEDI AI CAPELLI”. Giancarlo Dotto per la Stampa il 27 ottobre 2008. Strana coppia. La faccia più dadaista del cinema italiano e la  moglie del ministro. Lui è Carlo Delle Piane, lei  Sabina Negri, ex di Calderoli, imperversante bionda da Chiambretti, autrice teatrale e ora anche attrice nella sua pièce sull’orrore chirurgico della società moderna (“Ho perso la faccia”, a Milano dal 4 novembre, al San Babila), attendibile nella parte di una siura libidinosa, incluso il vocione cavernicolo alla Sandro Ciotti. Diventano definitivamente complici la sera in cui lei gli strofina la schiena con acqua e sapone nel bagno di un ristorante romano. Carlo delle Piane è un ossessivo grave. Il mondo per lui è un agguato permanente. Mani contagiose ovunque. Quella sera aveva incrociato tre comici molto espansivi. Aldo, Giovanni e Giacomo lo  riconoscono e prendono a tastarlo per la felicità, pacche e abbracci. Delle Piane s’incupisce, si sente mancare, chiama Sabina. Implora. “Accompagnami in bagno”. E’ il rito lustrale dell’acqua che purifica. In mancanza di un Gange sotto casa, si ricovera in qualunque bagno pubblico. Non a lavarsi, ma a scorticarsi vivo. A strapparsi letteralmente la pelle. Ha le tasche piene di kleenex, non tocca mani, soldi, carte di credito, accendini, nemmeno il proprio. Sistema tre sigarette in fila sul tavolo e se le fa accendere dagli altri.  Stasera è di ottimo umore. Ha incredibilmente intrecciato le mani con i compagni di scena a fine spettacolo, nella chiamata in proscenio. Resta l’inflessibile divieto a varcare il suo camerino. Sabina è l’eccezione. La vuole vicino a sé. Ogni tanto la sfiora con una carezza lieve sulla fronte, il massimo che gli è consentito. Fumano come ciminiere allegre. Igienista ma non salutista, Delle Piane. A 72 anni e 60 di carriera è pronto a ricevere dalle mani (in questo caso farà un’eccezione) del presidente della Repubblica, prossimo 14 novembre, il premio “Vittorio De Sica”. Un vero signore. Mi fa passare davanti all’ingresso del ristorante. Stare dentro un corpo. Nel suo caso, un ring per fobici o per folli. “Con gli anni mi ci sono affezionato. Lo tengo in ordine. A 72 anni non ho  rotoli, un filo di pancia. Certo, è quello che è, un corpicino non modellato al meglio...Coltivo un sogno da sempre vivere almeno una settimana con le fattezze di George Clooney”.

Cosa non le piace del suo corpo?

“Tutto. Dai capelli ai piedi”.

Che cosa farebbe in quella settimana con la faccia di Clooney?

“Intanto manderei a fare in culo le molto donne che non ne vogliono sapere di me”.

Le farebbe cadere ai suoi piedi per poi respingerle?

“Si...Intendiamoci, ho un grande rispetto per le donne. Quei pochi rapporti che ho avuto, sono stati sempre molto sofferti. Colpa del mio carattere. Si stancavano di me. Del mio egoismo”.

Geloso?

“Delle mie cose, dei miei dischi, dei miei libri, delle mie case, del mio telefono anche”.

Geloso del telefono?

“Impedivo loro di toccare qualunque cosa. Le vedevo sul set o nel residence dove dormo ogni tanto. Loro si sentivano delle prostitute e mi lasciavano....E’ la mia mania dell’igiene. Era così anche mia madre. La trovavo a mezzanotte che strofinava i vetri”.

Più che una casa, un bunker di filo spinato.

 “Non sto bene con me stesso, più gli anni passano e mi deprimo. Non è tanto la sofferenza della solitudine, quanto la consapevolezza di questo mio carattere. Vivo isolato...E’ la mia fatica di andare avanti”.

A un certo punto si presenta in scena in bermuda e camicia a fiori. Boato del pubblico in sala. Sembra di rivedere Pecorino, l’asimmetrico monello dei film con Totò.

“A salvarmi dalla depressione e dal rancore è quella che io chiamo la mia amica follia. Se dovessi rinascere vorrei essere un delfino, immerso in ogni secondo della mia vita nell’acqua profonda dell’oceano. Pulito che più pulito non si può, dentro e fuori. Ci parlo con il delfino che è in me”.  

Parla con il delfino che è in lei?

“Fino a qualche tempo era un rapporto conflittuale, non capivo, ero stordito. Oggi mi sento meno inquinato, mi sento più delfino”.

C’è anche un passaggio nello spettacolo in cui fa il verso a E.T.

“Ci abbiamo scherzato con Carlo Rambaldi a Procida sul fatto che si era ispirato a me per il suo extraterrestre di Spielberg. Non ho mai avuto il complesso della mia bruttezza, ma da giovane quando mi segnavano per strada non capivo se lo facevano per ammirazione o per dire: “dove cazzo va quell’alieno”. 

Il sesso è sfrenata corporalità. Proibitivo per un fobico.

“Non è il mio caso”.

Chiede le analisi del sangue alle sue fidanzate?

“Qualcosa del genere. Superati i test igienici, il corpo della donna mi piace. Mi lascio andare. Il rimpianto è un altro. Aspetto che i miei nipoti crescano per spiegare loro perché non li ho mai abbracciati, perché non ho mai giocato con loro”.

Gli ossessivi si vedono di solito quando vanno a letto.

“Mi lavo molto. A furia di lavarmi, ho le mani logore, rovinate...Dormo completamente nudo da sempre. Non mi addormento subito. Rivedo ogni volta il film della giornata, tutte le persone con cui mi sono comportato male e mi rimprovero”.

L’incidente automobilistico del ’73. In coma per un mese. Il lento risveglio.

“Un anno, prima di tornare alla normalità. In questi casi qualcosa nel cervello è toccato in modo irreversibile”.

Mai pensato a un’analisi, magari interminabile?

“Il papà di una mia amica è un grande psicanalista, ma ho sempre evitato per la paura di essere condizionato. Io sono un credente a modo mio. Ho un rapporto diretto con l’aldilà. Con la Madonna soprattutto ci parlo spesso....Non mi confesso, non racconto i miei fatti a un estraneo che magari è peggio di me, ma prendo la comunione. Con le mie precauzioni...”.

Quel naso, si fa per dire, è un dono di natura?

“No. Una tremenda pallonata in faccia da bambino. Certo, non è che prima avessi un nasino alla francese. Più che un naso, lo definisco un percorso improbabile”.

Deve tutto a Pupi Avati.

“Gli devo molto. Ma anche lui mi deve molto. Certi suoi personaggi, senza di me rischiavano il patetico”.

Scopre con Pupi Avati di essere un grande attore o ne aveva già il sospetto?

“Dopo l’incidente, a metà degli anni ’70, ero sempre incazzato. Pensavo di avere delle qualità, mi sentivo pronto per ruoli importanti, più impegnativi”.

Erano gli anni in cui figurava nelle locandine di “Siamo tutti pomicioni”, “I sette magnifici cornuti”, “La signora gioca bene a scopa?”. Si era lasciato un po’ andare. 

“Anni di confusione. Poi con Pupi la svolta. In America impazzirono per “Una gita scolastica” e “Regalo di natale”. Sembravo una star americana. Mi applaudivano per le strade di Miami. “Un attore straordinario da Oscar”, scrissero i giornali locali”.

Suona strano che alla festa del cinema di Roma non ci sia uno spazio dedicato ai sessant’anni di Delle Piane.

“Me lo sarei meritato, ma il cinema italiano non mi ha mai dato un cazzo. Solo premi, tanti premi”.

La coppa Volpi a Venezia per “Regalo di Natale”.

“Era così sicuro di vincere Walter Chiari, che la notte prima aveva festeggiato con i suoi amici. Stavo a casa con mia madre, a Roma, dovetti partire in fretta e in furia”.

Ha dovuto stringere molte mani quella sera.

“Purtroppo sì”.

Gioca a poker?

“Si, mi piace. L’ideale al tavolo è Alessandro Haber. Perde sempre”.

Pupi non l’ha chiamata per il suo ultimo film.

“Si è allontanato da me da un po’ di anni. Non lo so perché, chiedetelo a lui...”.  

Ha lavorato con i più grandi, Totò, Sordi, Gassman, Mastroianni, Aldo Fabrizi.

“Il più grande di tutti era Alberto Sordi. Ma l’unico con cui ho avuto una frequentazione al di fuori del set è stato Aldo Fabrizi. Un attore molto sottovalutato. Ostico ai più per la sua sincerità”.

Rapporto col denaro?

“Pessimo. Non so curare i miei interessi. Mi offrirono una parte importante ne “Il nome della rosa”, un cast prestigioso con Sean Connery. Mi avrebbero dato anche un coach per imparare l’inglese. Ci pensai una notte e poi rifiutai: non ce la faccio”.

Il solitario pensionato di “Nessun messaggio in segreteria” s’inventa di vendere casa per scambiare due chiacchiere con qualcuno. Autobiografico?

“Per niente. Io non farei entrare nessuno in casa mia. Sabina mi dice sempre con affetto: “Tu vivi su un albero”. Si, vivo su un albero, ma per una mia scelta. Perché mi fa schifo quello che c’è sotto”.

(Sabina): “Mi ha conquistato di lui che, pur sentendosi un delfino, non è mai uno fuori dal mondo. L’ho sentito piangere al telefono per quello che stava capitando ai bambini del Rwanda, come fossero a casa sua...”.

·         Morto a Roma pm Antonio Marini, magistrato antiterrorismo.

Morto a Roma pm Antonio Marini, magistrato antiterrorismo. Lavorò a grandi inchieste, dal rapimento Moro all'attentato a papa Wojtyla, dall'omicidio D'Antona al caso Marta Russo. La Repubblica il 21 agosto 2019. Antonio Marini. Il magistrato romano, 78 anni, è morto la scorsa notte a Roma. È morto la scorsa notte nella Capitale il magistrato Antonio Marini, storico pm della Procura di Roma. Marini, già Procuratore generale facente funzioni, avvocato generale della Corte d'appello capitolina ed in pensione dal 2015, aveva 78 anni ed era malato da tempo. Antonio Marini, conosciuto per essere il "magistrato antiterrorismo", durante la sua carriera si è occupato dei più grandi casi di cronaca giudiziaria italiana dagli anni '70 in poi. Tra questi, il processo per l'attentato a papa Wojtyla ad opera di Alì Agca; il processo relativo al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse; il processo cosiddetto del "7 Aprile" contro Toni Negri ed altri; il processo "Metropoli" contro Franco Piperno ed altri; il processo relativo all’organizzazione terroristica denominata "O.R.A.L" di matrice "Anarco - lnsurrezionalista"; il processo riguardante l'omicidio della studentessa universitaria Marta Russo e quello contro le nuove Brigate Rosse legato all'omicidio di Massimo D'Antona.

·         Morto Giovanni Buttarelli, garante europeo della privacy.

Morto Giovanni Buttarelli, garante europeo della privacy. Il magistrato è scomparso nella notte all'età di 62 anni. E' stato tra i più grandi esperti mondiali di diritto delle nuove tecnologie e diritto alla protezione dei dati personali. La Repubblica il 21 agosto 2019. E' morto nella notte, all'età di 62 anni Giovanni Buttarelli, magistrato e Garante europeo della protezione dei dati. In precedenza aveva ricoperto il ruolo di Segretario Generale dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali, dal 1997 al 2009 e, su nomina del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Unione europea, aveva assunto la carica di Garante aggiunto presso il Garante europeo della protezione dei dati (GEPD) dal 2009 al 2014. A darne notizia è l'ufficio comunicazione del Garante europeo: "Siamo addolorati dalla tragica perdita di un uomo brillante e visionario, che si è sempre dedicato con passione alla famiglia e al lavoro, servendo fino in fondo la magistratura italiana e l'Unione Europea, e onorandone i valori". "E' una notizia dolorosissima, per il Paese, per l'Autorità e per me personalmente perché perdo un amico - dichiara in una nota Antonello Soro, Garante della Privacy. - La prematura scomparsa di Giovanni Buttarelli  rappresenta una perdita inestimabile per la comunità italiana ed europea. A lui il nostro Paese deve enorme gratitudine per l'introduzione, lo sviluppo e la difesa di un diritto fondamentale per la democrazia e la libertà della persona, come il diritto alla privacy e alla protezione dei dati". Secondo Soro, "il ruolo svolto da Buttarelli a livello nazionale e internazionale, tra i fondatori dell'Autorità italiana prima e in Europa, poi, da Garante europeo, ha contribuito in maniera determinante alla crescita di una nuova cultura del diritto e ad una visione della tecnologia più rispettosa dell'uomo. Ci lascia in eredità la sua esperienza, la sua passione, il suo grande impegno profuso fino all'ultimo a difesa dei valori più alti della persona". Buttarelli è stato tra i più grandi esperti mondiali di diritto delle nuove tecnologie, diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali. Durante il suo mandato al Gepd ha attivamente contribuito alla promozione dei valori europei dando vita a dibattiti internazionali sulla necessità di un approccio etico alle nuove tecnologie per affrontare con una visione globale le sfide che l'uso dei dati e i meccanismi di disinformazione pongono ogni giorno al funzionamento e alla qualità delle democrazie contemporanee. Recentemente era stato insignito di due prestigiosi premi da parte di organizzazioni internazionali: l'Iapp Privacy Leadership Award e l'Epic International Privacy Champion Award 2019, assegnati a coloro che dimostrano un continuo impegno nel promuovere i diritti fondamentali alla privacy e alla protezione dei dati personali.

Tim Cook: «Il mio amico Buttarelli lottava per l’etica nell’era digitale». Pubblicato giovedì, 22 agosto 2019 da Tim Cook su Corriere.it. Cinquant’anni esatti dopo il giorno in cui fu firmata la Dichiarazione di indipendenza, mentre una giovane America stava celebrando il 4 luglio, due dei suoi Padri fondatori e primi presidenti, John Adams e Thomas Jefferson, morirono a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Durante l’elogio dedicato ai leader di una nazione che era ancora alla ricerca della propria identità, il grande oratore americano Daniel Webster disse: «Solo una piccolissima parte di ciò che è grande e buono può morire! Per il loro Paese sono ancora vivi, e lo saranno per sempre». Questo è ciò che provo per Giovanni Buttarelli. Ma chi sono in verità i suoi concittadini? Era certamente un motivo di orgoglio per l’Italia. Senza dubbio è stato un «gigante» dell’Europa. Ma lo sforzo più grande della sua vita, Giovanni lo ha compiuto come pioniere determinato e visionario di un mondo digitale ancora giovane e non regolamentato. Nelle sue distese, vedeva opportunità illimitate di miglioramento per gli esseri umani. Nei suoi eccessi, vedeva battaglie che valeva la pena di combattere e un ordine migliore in attesa di nascere. Lascia noi tutti in condizione di essere migliori difensori dei nostri stessi diritti, migliori promotori di una tecnologia etica e migliori cittadini di una società digitale in via di maturazione. Ho incontrato Giovanni per la prima volta a novembre del 2015 a Milano. Chi lo conosceva non si sorprenderà se dico che ha iniziato poco dopo a interrogarmi. Perché un executive di un’azienda tecnologica americana parla così liberamente di privacy e crittografia (ndt protezione) dei dati in un momento in cui tutti gli altri sembrano muoversi nella direzione opposta? Di certo non l’ho biasimato per avermelo chiesto. Dopotutto il suo ruolo richiedeva un forte scetticismo. Ma ho trovato il suo essere appassionato, la sua verve e il suo senso dell’umorismo completamente disarmanti, e ci siamo resi conto durante quella prima conversazione di quanti punti di vista avessimo in comune. Abbiamo deciso di incontrarci ancora, cosa che abbiamo fatto diverse altre volte. Nonostante fosse un leader incaricato, fra l’altro, di supervisionare l’applicazione della legge più radicale in materia di privacy dei dati nella storia, Giovanni trovava comunque tempo per tutti. Non era una di quelle persone che si dedicano esclusivamente ai politici più importanti e ai leader industriali. Era molto amato da tutte le persone a tutti i livelli della sua organizzazione, e la sua scomparsa ha colpito profondamente le molte persone di Apple che lo conoscevano e avevano lavorato con lui. Suscitava non solo un grande rispetto, ma una sorta di profondo affetto e ammirazione che i leader di oggi ottengono raramente. Tale affetto è stato il risultato di oltre vent’anni di leadership sui temi della privacy e della tecnologia. È difficile immaginare una figura più essenziale in questo momento storico. Giovanni aveva una capacità impareggiabile di relazionarsi con tutti i punti di vista. Non scendeva mai a compromessi sui propri valori o sul pubblico interesse, ma era in grado di concentrarsi sempre su elementi di possibile intesa piuttosto che sulle differenze. Sull’importanza della protezione, per esempio, era risoluto. Ma non ha mai messo in discussione le ragioni o i valori delle forze dell’ordine o di altri funzionari preoccupati per le implicazioni della crittografia. Piuttosto, era convinto che un dialogo aperto e onesto potesse persuadere chiunque a cogliere i benefici universali della tecnologia. La sua appassionata ricerca di soluzioni, invece che di conflitti, ha reso possibile e durevole il Gdpr (Regolamento generale sulla protezione dei dati), il suo più grande successo.

Mi addolora dire addio al mio amico Giovanni, ma mi conforta e rasserena sapere che ha vissuto e l’ha fatto così bene. Tutti noi beneficeremo per molti anni a venire del suo lavoro. E sono convinto che le basi che ha gettato dimostreranno di essere fondamenta solide per uno dei progetti più grandi dell’umanità.

Martina Pennisi per il “Corriere della sera” il 22 agosto 2019. La privacy del presidente del Garante europeo per la privacy è stata violata. Proprio ieri, nel giorno della morte del magistrato che da più di 20 anni si occupava con competenza e dedizione della protezione dei dati personali, se un utente qualsiasi digitava su Google «Giovanni Buttarelli causa morte» poteva vedere scritto a chiare lettere il nome di una malattia. Peccato che l' informazione non fosse pubblica - come non lo è tuttora, motivo per cui non la scriviamo in queste righe. Tradotto: non se ne trova traccia da nessuna parte - siti web, giornali, blog - perché come confermano fonti vicine alla famiglia di Buttarelli al Corriere «la causa del decesso è un' informazione riservata e personale di cui hanno preferito non parlare e a proposito della quale non avevano mai fatto cenno in precedenza». Come faceva Google a sapere della malattia? Perché l' ha resa pubblica? Perché ha dato l' informazione come certa senza linkare alcuna fonte e in assenza di conferme? Abbiamo posto le domande all' azienda californiana che ha risposto così: «In seguito alla presa in carico della segnalazione stiamo intervenendo per sistemare il risultato. Ci dispiace per l' accaduto». In parole povere: non sa cosa sia successo, ma risolverà il problema. L' informazione per adesso è ancora visibile nel cosiddetto «snippet di primo piano», formato che BigG ha cominciato a spingere con convinzione lo scorso anno per provare a dare agli utenti la risposta che cercano senza obbligarli a cliccare su uno dei link delle pagine che indicizza ed elenca. L' avrete visto comparire più volte cercando l' ora esatta o in risposta a quesiti sul meteo o sull' età di qualcuno. Che tempo fa oggi a Milano? 31 gradi. Quanti anni ha Milly Bobby Brown? 15 anni. Qual è l' isola greca più bella? Santorini (seguita da una lista e dal link del sito che le ha classificate). Risposte secche e immediate, che secondo i dati di Jumpshot relativi agli Stati Uniti hanno reso il motore di ricerca una sorta di motore di risposta: ormai al 50 per cento delle domande non corrisponde alcun clic successivo. Tutto molto comodo, lato utente, soprattutto se si consulta Google da smartphone e, lato Mountain View, molto utile alla causa dell' Assistente vocale, che quando viene interrogato a voce deve dare una sola risposta. Però: Google dove pesca le informazioni che poi decide di evidenziare, pur chiarendo che non vanno intese come fonte unica? Dalle pagine che indicizza e, come detto, anche mentre scriviamo non ce n'è alcuna in lingua italiana o in lingua inglese che abbia un testo con il nome e il cognome di Buttarelli e un riferimento alla sua malattia. C'è un altro quesito da porre: anche se ci fosse stata una citazione della malattia, perché Google, che ovviamente non agisce manualmente ma in modo automatico, dà per scontato che sia stata la causa della morte? Sembra un dettaglio, ma non lo è. Facciamo un esempio: la conduttrice e inviata delle Iene Nadia Toffa ha parlato apertamente del suo tumore e giornali e siti Internet ne hanno scritto per mesi. Quando è venuta a mancare, martedì 13 agosto, è stata pubblicata ovunque la notizia del decesso e il suo contesto. L'algoritmo di Google aveva entrambe le informazioni: sapeva del tumore e a un certo punto, a una determinata ora di un determinato giorno, è stato in grado di evidenziare che è stato la causa del decesso di Toffa. Infatti lo scrive nello snippet e linka uno degli articoli in merito. Il caso di Buttarelli, paladino della privacy, è andato diversamente.

·         Addio a Cosimo Cinieri l’avanguardia della Puglia.

Addio a Cosimo Cinieri l’avanguardia della Puglia. Avrebbe compiuto tra pochi giorni 81 anni. Dai primi passi al sud alle collaborazioni importanti. Pasquale Bellini il 20 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Addio a Cosimo Cinieri, una vita dedicata al teatro e alla recitazione. Una lunga malattia ha stroncato l’attore pugliese che viveva a Roma. La camera ardente per l’ultimo saluto al drammaturgo sarà nella Sala del Carroccio al Campidoglio, il 21 agosto alle ore 16. A seguire dalle 18 la commemorazione con interventi tra gli altri di Pasquale Panella, Bibiana Carusi, Nicola Vicidomini. Nato il 20 agosto 1938 (avrebbe compiuto 81 anni domani) a Taranto, Cinieri - che in molti ricorderanno anche per aver prestato per anni il suo volto alla pubblicità, partecipando agli spot televisivi dei panettoni di una nota marca nel periodo natalizio - era considerato tra i nomi più importanti del teatro italiano. Celebre il sodalizio con Carmelo Bene con cui divise per anni la scena da comprimario, per capolavori come «Sade» e «Otello» o la «Deficienza della Donna». Nel 1968 Cinieri fece anche parte del gruppo di attori che sostenne Carmelo Bene alla Mostra del Cinema di Venezia, dove presentava «Nostra Signora dei Turchi», il capolavoro che aveva suscitato accese polemiche alla proiezione. Avevo sentito Cosimo Cinieri, per l’ ultima volta, in marzo: fu una conversazione faticosa, stava male, ma volle offrirmi un ricordo su un amico comune e autore di teatro, Nicola Saponaro, su cui di lì a poco si sarebbe pubblicato un volumetto di interventi (Adda ed. a cura di Michele Roberto e Mary Sellani). Cinieri aveva curato la regia di un testo di Saponaro, Don Juan, una rielaborazione in chiave «pugliese» del mito di Don Giovanni, da Molière. Era il 1977 e il lavoro debuttò al Teatro Purgatorio, crogiuolo in quegli anni, di idee originali e curiosità, sotto l’ egida di Beppe Stucci. Quello scorcio degli anni ‘70 vide il tarantino Cosimo Cinieri (fra l’ altro era nipote per parte di madre del commediografo Cesare Giulio Viola) spesso frequentare Bari e i suoi teatri e i suoi teatranti: bazzicò il Centro Universitario S. Teresa dei Maschi (allora egemonizzato dal Cut), realizzò spettacoli di strada al Cep-San Paolo insieme alla neonata Bedda Compagnie-Anonima G.R., infine un notevole debutto ci fu nel 1978, al Teatro Piccinni, con Beat-Generation, testo scritto con Irma Palazzo, da allora e poi per sempre sua compagna e affettuosa collaboratrice. Del resto Cosimo Cinieri, se negli anni ‘70 segnava il clou della sua carriera grazie al sodalizio tenace con Carmelo Bene con il quale aveva messo in scena già nel 1974 il S.A.D.E.: libertinaggio e decadenza del complesso della gendarmeria salentina e cui seguirà (nel 1979) un formidabile Otello, aveva già dagli anni ‘60 intrapreso la strada del teatro sperimentale e di avanguardia. Nella Roma delle «cantine» si era fatto notare con Finale di partita, Aspettando Godot, Atto senza parole, tutti testi di Samuel Beckett realizzati nel ‘65 in collaborazione con Giuliano Scabia. Poi nel ‘66 una Fantesca di Della Porta, Libere stanze di Roberto Lerici, con la regia di Quartucci. In collaborazione con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, nel ‘71, un San Sebastiano in forma di «teatro di strada». Insieme a Irma Palazzo ha poi realizzato, dopo Beat Generation, diverse versioni di Show in versi, anche un Macbeth di Shakespeare. Ha interpretato anche Mandragola di Machiavelli (regia di Mario Missiroli), poi ancora testi di De Filippo, Garcia Lorca, Pirandello, Cechov. Innumerevoli le sue «letture sceniche» dove la poesia era protagonista accanto alla musica: Canzoniere italiano, Poesia in concerto, Garcia Lorca in flamenco, Luoghi della memoria dai Sepolcri, Giocar di versi, Café della Voce, tutti realizzati tra la fine degli anni ‘90 e l’ inizio dei 2000. Ancora un paio di stagioni fa, in estate, da bravo teatrante e professionista indefesso, «batteva» siti, location e piazze da teatro con il suo recital di poesie, musiche, canzoni, riflessioni. Alla sua attività teatrale Cinieri ha sempre alternato partecipazioni in produzioni cinematografiche e televisive, nonché la conduzione di stage di recitazione e tecnica espressiva. Non si era tirato indietro neanche dalla pubblicità. Perché no, del resto? Per anni è stato il testimonial di una nota marca di biscotti: con la sua barba bianco-brizzolata era il bonario Signor B... che invitava i ragazzini a degustare biscotti, croccanti e dolciumi vari. Un grande serio professionista, figlio di una Puglia di cui ha portato in giro, sempre con garbo e ironia, la cultura, il linguaggio, l’ arte della sperimentazione e della ricerca. Un saluto a te, Cosimo, insieme all’ ultimo applauso. A te un abbraccio Irma.

È morto l'attore tarantino Cosimo Cinieri. Il Corriere del Giorno il 20 Agosto 2019. Nel 2016 era tornato nella sua Taranto per partecipare al progetto “Past Forward”, finanziato dall’ Apulia Film Commision, con  nove cortometraggi realizzati per il web ambientati in Puglia: in “Iaco2 racconta la storia di Erasmo Iacovone, indimenticato ed amato dal pubblico,  calciatore del Taranto morto a soli 25 anni. Una lunga malattia ha stroncato l’attore pugliese Cosimo Cinieri nato a Taranto il 20 agosto 1938.  Oggi avrebbe compiuto 81 anni. Era un’artista eclettico, irrequieto, smanioso, vertiginoso,  e creativamente caratteriale, e viveva a Roma . La camera ardente per l’ultimo saluto sarà nella Sala del Carroccio al Campidoglio, domani mercoledì 21 agosto dalle ore 16. Cinieri è stato popolare scegliendo degli isolamenti acuti, ha lavorato con infinita solerzia per una sua compagnia e con un’artista sua compagna, poi il destino ha voluto che la sua vita teatrale abbia conosciuto il sodalizio verificatosi  per cinque anni, dal 1974 al 1979 con Carmelo Bene. L’attore tarantino stato unico nell’accostare linguaggi e sentimenti , avventure e solitudini, sperimentazioni poetiche. Negli anni Sessanta Cinieri seguì il carrozzone laborioso e agitato delle regie di Quartucci con testi di Beckett, di Scabia, di Lerici, finché dal 1968 al 1972 divenne autore e regista, attuando un teatro di strada che lo portò a collaborare con Leo De Berardinis e Perla Peragallo. Poi, la collaborazione teatrale che lo uni a Carmelo Bene, in Sade: libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina , ed assieme a Bene dividerà anche il palcoscenico dell’Otello nel 1979. Cinieri ha formato la sua ditta con Irma Immacolata Palazzo, con la compagnia Cinieri-Palazzo, un marchio che definitivamente, per gli anni a venire, guiderà criteri, drammaturgie, rapsodie, reinvenzioni di classici. Tra versi osceni da Catullo a Henry Miller al Macbeth, da favole africane a un duetto d’amore con Piera Degli Esposti a Rai3, da un canzoniere che andava da Francesco d’Assisi a Pasolini fino a un piano bar con versi di Mario Luzi, e via alternando Dante, Omero, Neruda, Cesare Giulio Viola (di cui era nipote), Pessoa, Adonis, Orazio, Ovidio, Svevo, Gramsci, Socrate, Petrarca, Nietzsche. Nel 2016 è tornato nella sua Taranto per partecipare al progetto “Past Forward”, finanziato dall’ Apulia Film Commision, con  nove cortometraggi realizzati per il web ambientati in Puglia: in “Iaco” racconta la storia di Erasmo Iacovone, indimenticato ed amato dal pubblico,  calciatore del Taranto morto a soli 25 anni , che ha dato il nome allo stadio della sua città. In tempi più recenti molti lo ricordano nei panni del “signor Balocco” in una serie di spot pubblicitari, soprattutto nel periodo natalizio. Va ricordata la sua rassegna Atti unici in repertorio variabile, del 1989,  con Harold Pinter che stava accanto a Vittorio Metz, con Mirbeau che accompagnava Dario Fo, con Schnitzler vicino a Peppino De Filippo e a Garcia Lorca, con Ionesco a far da prologo a Feydeau.  Cinieri sosteneva che la rapidità è sintesi, è minimalismo, è contemporaneità. Perciò accoglieva testi brevi assemblandoli per tema: il delitto, il furto, il tradimento, la discordia. E scopriva punti di contatto. Combatteva il teatrese, con geniale fermezza, con quei suoi toni foschi. Toni che risuonarono nel 2015 all’Argentina in Pier Paolo poeta delle ceneri.

Marco Giusti per Dagospia il 20 agosto 2019. Poteva passare dal ruolo di Jago a fianco di Carmelo Bene al cinema violento di Lucio Fulci, dalla pubblicità del panettone Balocco al cinema pugliese di Edoardo winspeare. Il teatro d’avanguardia italiano, ma anche il cinema e la pubblicità perdono un attore di grande talento come Cosimo Cinieri, che proprio oggi avrebbe compiuto 81 anni. Nato a Taranto nel 1938, figlio del commediografo e sceneggiatore Giulio Cesare Viola e fratello del regista Francesco Cinieri, studia recitazione con Alessandro Fersen e presto si trova a dividere le scene con Carmelo Bene, Carlo Quartucci e con sua moglie Irma Immacolata Palazzo. Con Bene lo troviamo anche a Venezia a presentare e a difendere Nostra Signora dei Turchi, seguendo da vicino gli scontri con la critica e con il giornalista televisivo della Rai Carlo Mazzarella, che aveva osato attaccare il film. Degno braccio destro di Carmelo, ha lavorato spesso in film sperimentali o non facili, come Tre nel Mille di Franco Indovina, L’albero di Guernica di Ferdinando Arrabal, ma ha frequentato con grande candore anche i set del cinema di genere, legandosi principalmente a un maestro dell’horror come Lucio Fulci. Con lui ha recitato in Lo squartatore di New York, Manhattan Baby, Murderock, I guerrieri dell’anno 2072. A differenza dei tanti che hanno descritto Fulci come intrattabile, Cinieri si era sempre trovato benissimo con lui. Dal volto fortemente caratterizzato, lo troviamo anche in film molto diversi, da La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci a Secondo Ponzio Pilato di Luigi Magni, da Le vie del Signore sono finite di Massimo Troisi a Pizzicata di Edoardo Winspeare. Arrivato al successo televisivo proprio con gli spot della Balocco, dove era un “Sognor Balocco” molto divertente, ha molto lavorato in questi ultimi anni sia al cinema, ricordiamo Cavie dei Manetti bros, La vespa e la regina, che in tv, Fortezza Bastiani, che al teatro, che non ha mai interrotto. Assolutamente da recupere un buffo film tv di Piero Panza, Il matrimonio di Rosa Palanca, del 1974, dove divide la scena con un altro celebre pugliese, Lino Banfi. 

·         Morta Ida Colucci, ex direttrice del Tg2.

Morta Ida Colucci, ex direttrice del Tg2: aveva 58 anni. Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 su Corriere.it. È morta la cronista parlamentare ed ex direttrice del Tg2, Ida Colucci. Si è spenta a 58 anni dopo una malattia. Nata a Roma il 22 agosto 1960, dopo le esperienze in Asca, Nuova Ecologia, Legambiente, entrò in Rai nel 1991, al Giornale Radio, per passare poi nel 2002 al Tg2, di cui diventò inviata nel 2005. Il 4 agosto del 2016 subentrò a Marcello Masi, assumendo su proposta dell'allora direttore generale Antonio Campo Dall'Orto la direzione del Tg2, di cui era vicedirettrice dal 2009. È restata alla guida fino al 31 ottobre del 2018: era stata a sua volta sostituita da Gennaro Sangiuliano. A ricordarla sui social network amici, colleghi e anche diversi esponenti della politica. Riccardo Laganà, consigliere di Amministrazione della Rai, ha scritto: «Ida lascia un vuoto incolmabile nelle redazioni del Tg2 Rai e in tutta la Rai». Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, l'ha ricordata come una «professionista di altissimo valore. Capace. Infaticabile. Obiettiva. Un grande direttore di telegiornale attenta a tematiche sociali, diritti e donne. Cara Ida Colucci, ci mancherai tantissimo!».

Rai, gravissimo lutto: è morta Ida Colucci, ex direttore del Tg2. Stroncata dal male, il suo ultimo sforzo. Libero Quotidiano il 19 Agosto 2019. Lutto in Rai, è morta Ida Colucci, ex direttore del Tg2. La giornalista è stata stroncata a quasi 60 anni da una lunga malattia. Nata a Roma il 22 agosto del 1960, aveva iniziato la sua carriera presso l'agenzia di stampa Asca e in seguito ha lavorato per Nuova Ecologia e Legambiente. Ha fatto il suo ingresso a viale Mazzini nel 1991, al Giornale Radio, per passare poi al Tg2 occupandosi di giudiziaria. Promossa inviata nel 2005, dal 2009 al 2016 ne è stata vicedirettrice. Ad agosto 2016 è stata nominata direttrice del telegiornale della seconda rete Rai, restando alla guida fino al 31 ottobre del 2018. Aveva seguito in prima persona, pur già malata, la tragedia del ponte Morandi dopo aver organizzato tra 2016 e 2017 tutti gli speciali e le dirette sui principali fatti di cronaca nazionale e internazionale, dal terremoto di Amatrice agli attentati jihadisti in Europa e le elezioni americane di Donald Trump.

Dagoreport il 20 agosto 2019. C’è chi la descrive come gentile e amabile, disposta ad ascoltare e dare consigli ai colleghi più giovani. C’è chi, invece, la ricorda come grintosa e determinata, mai disposta a cedere uno scoop o un’intervista della “sua” notizia. Le fotografie sono entrambe vere. Certo è che Ida Colucci era una cronista di razza, amante della vita, dei libri, del mare e dei viaggi con la passione della politica, che guardava e descriveva con profonda capacità di analisi e meticolosa passione ,attraverso quei grandi occhi tra il celeste e il verde, che - lo ricordava lei stessa  in alcune occasioni- un giorno in aeroporto avevano incrociato quelli di Madre Teresa di Calcutta, restandone affascinati per sempre. Giovane cronista giudiziaria negli Anni Novanta, ai tempi delle stragi Falcone e Borsellino e del processo Sisde, Ida Colucci diventa poi giornalista parlamentare e inviata all’estero : Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Giappone, Cina, Brasile. Nel 2009 è Vicedirettore e poi, nell’agosto 2016, arriva la nomina a Direttore del Tg2. Pochi mesi dopo, aveva scoperto di essere malata di cancro ma questo non l’aveva fermata. Anzi ne aveva aumentato l’impegno “per rispetto della Rai- diceva ai pochissimi con i quali si confidava- ma soprattutto dei telespettatori” e dell’occasione che aveva per sfruttare le grandi opportunità della rivoluzione digitale, per poter “shakerare” obsolete formule informative , che considerava stereotipate, sempre uguali in Tv da troppo tempo. Così ha trasformato il Tg2 a sua misura: originale e coinvolgente ma sempre puntuale e rigoroso, capace di sorprendere con scalette che non ti aspetti, scelte editoriali controcorrente e, allo stesso tempo, di garantire continuità informativa in ogni circostanza , soprattutto durante le emergenze con lei a coordinare sempre in prima linea:  dal violentissimo terremoto in Umbria e Marche, nell’agosto 2016, alle presidenziali in USA con l’elezione di Donald Trump. Poi i numerosi speciali sulla catena di attentati che avevano sconvolto il cuore dell’Europa ,tra la fine del 2016 e il 2017: Berlino, , Londra, Stoccolma, Parigi , Barcellona e le dirette dal Mercatino di Natale di Strasburgo, dove muore il giovane giornalista italiano Antonio Megalizzi. Esclusive, speciali, fili diretti, segnano il grande impegno del Tg2 nella tragedia del Ponte Morandi, nell’agosto dello scorso anno. Del resto- le dicevano i medici che l’avevano in cura- l’impegno nel lavoro è una parte importante della terapia”. La sua parola d’ordine  era “innovare”, valorizzando la sequenza di dirette dai luoghi degli avvenimenti e aprendo il telegiornale a temi e argomenti come l’arte, la lettura, la musica di qualità, il teatro e tanto altro ancora. Un contatore ogni sera, in un angolo dello schermo, era lì a ricordare l’assurdo dramma dei femminicidi in Italia. Durante la sua direzione del Tg2 le sono stati assegnati numerosi riconoscimenti, tra i quali i prestigiosi premi Guido Carli e Marisa Bellisario. Una donna coraggiosa e intelligente, che avrebbe compiuto 59 anni il prossimo 22 agosto. Ci mancherà.

·         Morto Richard Williams, il papà del coniglio Roger Rabbit.

Morto Richard Williams, il papà del coniglio Roger Rabbit. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Corriere.it. Addio al «papà» del coniglio Roger Rabbit. Si è spento a 86 anni nella sua casa a Bristol in Gran Bretagna circondato dai suoi cari l’animatore anglo-canadese Richard Williams, vincitore di tre Oscar e tre Bafta. Aveva un tumore ma come riferisce la figlia Natasha Sutton Williams «ha lavorato senza sosta fino al giorno della sua morte disegnando e animando». Nato a Toronto nel 1933, si era innamorato dell’animazione già a 5 anni quando aveva visto il capolavoro Disney Biancaneve e i 7 nani, come lui stesso aveva raccontato recentemente. «Da bambino ho sempre voluto andare alla Disney - ha raccontato alla Bbc qualche anno fa - ero un tizio intelligente così portai i miei disegni e alla fine ci entrai. Scrissero addirittura un articolo su di me, visto che negli Studio ci rimasi per due giorni, e potete solo immaginare che cosa rappresentò per ne, un bimbo». Arrivato negli anni Cinquanta in Gran Bretagna, lavorò a Casino Royale (1967), La Pantera Rosa colpisce ancora (1975) e La Pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau (1976). Ma il grande successo e molti premi (tra i quali un Bafta e due Oscar) arrivarono con Chi ha incastrato Rober Rabbit, il film con protagonista Bob Hoskins girato con tecnica mista nel 1988 da Robert Zemeckis. Oltre che per Roger Rabbit vinse un Bafta per The Little Island (1958) e nel 1971 un Oscar per l’adattamento de Il canto di Natale di Charles Dickens.

Marco Giusti per Dagospia il 17 agosto 2019. Tutto il mondo dell'animazione piange la scomparsa di un venerato maestro come Richard Williams, 86 anni, non solo l'autore delle animazioni e dei personaggi originali di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, che gli dette due Oscar e una fama immortale, la mano dietro i titoli di testa di decine di film strepitosi, da Ciao Pussycat a La carica dei 600, ben  due Pantere Rose di Blake Edwards, Casino Royale, Dolci vizi al foro, il geniale logo de Il laureato, ma anche l'uomo che per anni ha funzionato da tramite tra il mondo dei grandi vecchi del cinema animato e le giovani generazioni. Grazie soprattutto a un fondamentale libro, The Animator Survival Kit, che é diventato la bibbia di chiunque abbia studiato animazione. Canadese, nato a Toronto nel 1933, entra nel mondo dell'animazione a 16 anni. A 22 anni è in Inghilterra, dove diventerà in poco tempo un giovane genio esplosivo, pronto a disegnare i sogni della swinging London degli anni 60. Cerca di mettere in piedi un lungometraggio complesso, The Thief and the Cobbler già a metà degli anni 60, coinvolgendo vecchi animatori americani come Grim Natwick, ma riuscirà a finirlo solo una quarantina d'anno dopo. In mezzo ci sarà un premiatissimo A Chrisrmas Carol, premio Oscar nel 1971, decine di titoli di testa e di grafica, ma soprattutto un capolavoro come Chi ha incastrato Roger Rabbit?. L'unico al mondo che avrebbe potuto unire mondi così lontani come i cartoon della Disney e della Warner Bros, la modernità di Robert Zemeckis e le vecchie tecniche tradizionali. Williams si inventa il coniglio Roger e la bella Jessica, i ratti cattivi, ma soprattutto funziona da ponte con tutto ciò che verrà. E si lascia per sé il piacere di doppiare il cagnetto Droopy.

·         Muore in bici Marcello Musso, pm del processo alla coppia dell’acido.

Muore in bici Marcello  Musso, pm del processo alla coppia dell’acido. Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Cesare Giuzzi e Gianni Santucci su Corriere.it. Il caso della coppia dell’acido gli aveva dato una notorietà mediatica che mal digeriva. Ma la sua storia alla Procura di Milano, e a quella di Palermo prima, era legata soprattutto alle inchieste antimafia e sui narcos della droga. Marcello Musso, 67 anni, sostituto procuratore di Milano è stato investito e ucciso nel pomeriggio di venerdì 16 agosto nell’Astigiano mentre era in sella alla sua bicicletta. Il magistrato si trovava nella zona tra Agliano e Costigliole d’Asti, dove vive l’anziana madre. Un evento raro, quello di trovarsi in ferie, per uno dei pm da sempre più presenti nel Palazzaccio milanese. Una sola settimana di vacanza all’anno che si concedeva solo per trascorrere un po’ di tempo con la famiglia. Musso, stando alla prima ricostruzione dei carabinieri, è stato investito da un’auto guidata da un agricoltore del posto che seguiva la sua bicicletta. L’uomo s’è subito fermato, ma per il magistrato non c’è stato nulla da fare nonostante l’intervento dell’elisoccorso del 118. L’incidente poco prima delle 16. La notizia della tragedia ha lasciato sgomenti i colleghi e i tanti inquirenti che in questi decenni avevano lavorato fianco a fianco al magistrato. Tra le sue ultime indagini anche quelle sull’omicidio di Francesco Carvelli, figlio di uno dei boss di Quarto Oggiaro, ucciso nell’estate del 2007, sul clan Crisafulli e sul latitante Francesco “Gianco” Castriotta. Grazie alle sue indagini era arrivato anche l’ultimo ergastolo per il boss Toto’ Riina in un’inchiesta su una serie di delitti di mafia nel Milanese avvenuti negli anni Ottanta e Novanta. La visibilità pubblica che non aveva mai cercato l’ha avuta nell’inchiesta e nei processi sulla “coppia dell’acido”, i due fidanzati che iniziarono a sfigurare tutti gli ex della ragazza. Quell’indagine gli finì sul tavolo nella notte del 28 dicembre 2014, perché la polizia arrestò Alexander Boettcher che inseguiva la sua vittima con un martello, e Musso era il pm di turno in Procura. Nei primi mesi era in qualche modo deluso per questa notorietà, amareggiato per il fatto che l’opinione pubblica fosse così attratta da quella storia torbida e non si fosse mai accorta dei suoi processi “pesanti”, quelli per criminalità organizzata e traffico di droga. Poi però, giorno dopo giorno, era entrato con tutto il suo scrupolo, il suo senso sacro dell’approfondimento giudiziario, in quell’indagine a ritroso sulle aggressioni, quasi turbato dallo scoprire ogni giorno un pezzo in più di quel male quasi inconcepibile. Ed era infine arrivato ad ipotizzare l’accusa di associazione a delinquere e a ottenere condanne altissime.

Asti, investito e ucciso in bici il pm Musso: indagò a Milano sulla coppia dell'acido Levato- Boettcher. L'incidente sulla strada tra Agliano e Costigliole d'Asti, non lontano dalla casa dei genitori. Cristina Palazzo il 16 agosto 2019 su La Repubblica. È stato investito e ucciso lungo la strada tra Agliano e Costigliole d'Asti, il pm Marcello Musso. Il procuratore di Milano, 67 anni a luglio ha fatto parte per lunghi anni della Dda di Milano, occupandosi anche del processo su alcuni omicidi di mafia che vedevano imputato Totò Riina. Ma è stato con il processo a Martina Levato e Alexander Boettcher, la cosiddetta coppia dell'acido che 'puniva' le loro vittime gettando loro in viso sostanze caustiche, a diventare noto alle cronache. Martina Levato è stata condannata definitivamente a 19 anni e 6 mesi, Boettcher a 21 anni. Per quel caso era stato anche minacciato con delle lettere anonime che aveva ricevuto a casa, in seguito la prefettura di Milano gli aveva assegnato  la scorta di protezione. Piemontese d'origine, Musso era in vacanza ad Agliano, nell'Astigiano, dove tornava ogni estate per stare con sua madre, quando è rimasto vittima di un incidente stradale. Proprio per la festività di Ferragosto, aveva scelto di passare un paio di giorni con tutta la sua famiglia, i fratelli, la sorella e i nipotini; dopo pranzo era uscito per una passeggiata in sella alla bici, che tanto amava, ma mentre stava rientrando, intorno alle 15, a circa venti metri dalla casa dei suoi genitori, un'auto lo ha investito e ucciso. Da una prima ricostruzione, viaggiava sulla strada provinciale a scorrimento veloce, con il limite a 70 chilometri orari; stava svoltando a sinistra per entrare nel vialetto quando u Fiat Stilo, guidata da un agricoltore  di 49 anni, lo ha travolto. Il conducente si è fermato per soccorrerlo e ha lanciato subito l'allarme ma per lui non c'è stato nulla da fare: le ferite erano profonde ed è morto sul colpo. L'equipe medica del 118 intervenuta con l'elisoccorso non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Il conducente dell'auto è stato portato in ospedale per gli accertamenti tra cui l'alcool test a cui è risultato negativo, è ancora sotto choc. I carabinieri della Compagnia di Canelli stanno lavorando per ricostruire ogni attimo e poter capire cosa sia successo, se non ci sia stata la segnalazione della svolta o quale sia stata la causa. 

Il regalo per il figlio della coppia dell'acido e le maxi inchieste di mafia: addio al pm Marcello Musso. Aveva 67 anni, venerdì è rimasto vittima di un incidente in bicicletta nell'Astigiano. Da anni pm a Milano dopo Palermo e Torino. I colleghi: "Sempre discreto e senza retorica, lascia un grande vuoto". Oriana Liso il 17 agosto 2019 su La Repubblica. Quattro anni fa fece una delle cose più inaspettate, ma solo per chi non lo conosceva: si presentò alla clinica Mangiagalli di Milano con un pacchettino. Dentro c'erano due scarpette da neonato e un biglietto: "Con infinita tenerezza per un lungo cammino". Lui era Marcello Musso, il pm di Milano che ieri è morto nell'Astigiano, travolto da un'auto mentre era in bicicletta, ed era il titolare dell'inchiesta sulla “coppia dell'acido”. Il bambino appena nato era proprio il figlio di quella coppia, Martina Levato e Alexander Boettcher. "Un atto umano di solidarietà verso il bambino", l'aveva definito Musso uscendo dalla clinica, con quel fare sbrigativo e quasi timido che tutti, a Palazzo di Giustizia, conoscevano. Un atto umano che nulla c'entrava con le indagini, con la condanna della coppia che Musso aveva ottenuto in aula, lavorando duramente su tutti gli atti. "Purtroppo poche ore fa a causa di un fatale incidente stradale ha perso la vita Marcello Musso - scrive l'Associazione nazionale magistrati in una nota -. Ci lascia con lo stesso stile con cui ha sempre vissuto, con discrezione e distanza da ogni retorica, lasciando un grande vuoto nella sua Procura e nell'animo di tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato in questi lunghi anni di magistratura". Non solo parole formali, quelle dei colleghi di Musso, 67 anni, una lunga carriera costruita con centinaia di inchieste soprattutto sulla criminalità organizzata e il traffico di droga, allergico alla notorietà, tanto da non capire tutto quell'interesse che definiva "morboso" per la coppia Levato-Boettcher. Era stato lui a ottenere l'ultima condanna all'ergastolo per Totò Riina, da anni aveva la scorta, uomini pazienti che aspettavano fuori dalla porta del suo ufficio dal primo mattino fino a tarda sera, abituati - non tutti, però - alle intemerate del capo, a capire il suo umore - e quindi le richieste a volte stravaganti - dagli acuti della voce e dall'ispessirsi dell'accento piemontese. Piemontese schivo, gran lavoratore. Lo dice con parole sincere un suo collega, Bruno Giordano, con un post su Facebook: "Lavoratore indefesso, chiese l'applicazione a Palermo, dopo le stragi. Rientrato a Torino, poi in Procura a Milano. Sono stato il suo pretore a Torino e il suo gip a Milano in centinaia di processi, faldoni su faldoni ricchi di prove contro la criminalità organizzata e i trafficanti di droga. Un giorno all'imputato che ammetteva la sua responsabilità, chiese "lei quanto si darebbe?", e l'imputato che non si aspettava quella domanda, abbasso' gli occhi e rispose " quello che dice lei è giusto". Marcello sempre nel suo ufficio, ogni anno prendeva solo due giorni di riposo a Natale e a Ferragosto, e proprio oggi è stato travolto da un'auto mentre si concedeva un giro in bicicletta nell'astigiano. E questo non è giusto". Due giorni di ferie all'anno - e quest'anno lo scherzo del destino è stato il venerdì di ponte, che Musso aveva deciso di usare per allungare di un giorno la visita a sua madre -, e lo sapevano magistrati, avvocati e giornalisti, che erano sempre certi di trovarlo nel suo ufficio al quarto piano, in procura, tra centinaia di faldoni, appunti presi minuziosamente a penna e con un righello per scrivere in maniera ordinata. E poi, tra gli aneddoti che si tramandano da generazioni di cronisti: il sacchetto con carote, pomodorini e frutta a portata di mano come suo unico cibo conosciuto (almeno nelle lunghe ore di lavoro), l'amore per la sua terra che raccontava con passione a chi passava a salutarlo, il rispetto vecchio stampo per le regole e la forma - che non voleva dire formalismo, vedi quella visita in ospedale -, le tantissime sigarette fumate senza sosta (ma fino a quando non aveva smesso) nel suo ufficio-rifugio. L'incidente è avvenuto nel paese d'origine, nell'Astigiano, tra Agliano e Costigliole: stava rientrando a casa della madre 94enne in bicicletta quando, all'altezza di un incrocio, un'auto che lo stava sorpassando l'ha travolto. Alla guida un agricoltore di 47 anni che si è subito fermato a soccorrerlo. Ma non c'è stato nulla da fare.

 

·         È morto Felice Gimondi.

È morto Felice Gimondi: malore mentre faceva il bagno a Giardini Naxos. Mercks: "Stavolta ho perso io". Il campione dei tre Giri d'Italia aveva 76 anni. Moser: "Stava bene. Beveva sempre il mio vino, ogni anno glielo mandavo". La Repubblica il 16 agosto 2019. Felice Gimondi è morto per un malore mentre faceva il bagno nelle acque di Giardini Naxos. L'ex grande campione del ciclismo italiano avrebbe compiuto 77 anni il prossimo 26 settembre. Gimondi, in vacanza assieme alla famiglia, era ospite di una struttura alberghiera di Giardini Naxos, la località turistica del messinese nei pressi di Taormina. Quando si è sentito male stava facendo il bagno. Nello specchio d'acqua è intervenuta anche una motovedetta della Guardia Costiera, ma tutti i tentativi di rianimarlo da parte dei medici sono stati inutili. L'ex campione italiano di ciclismo, che era sofferente di cuore, secondo i soccorritori sarebbe morto per un infarto. Felice Gimondi ha scritto la storia del ciclismo. Altro che "eterno secondo", come qualcuno l'aveva definito per quella lunga e durissima sfida con Eddy Merckx ed i tanti piazzamenti alle spalle del belga. Originario di Sedrina, in Val Brembana, classe 1942, fu l'unico a resistere alla vena vorace del 'Cannibale' Merckx, secondo in assoluto - dopo Anquetil - a completare la Tripla Corona nei Grandi Giri, campione del Mondo nel 1973 a Barcellona, padrone del pavé di Roubaix e delle insidie della Sanremo. Gianni Brera, che ne descrisse le imprese, per lui aveva coniato i soprannomi Felix de Mondi e Nuvola Rossa. La sua carriera cominciò nel decennio dopo la fine di quella di Magni. Si presentò al Tour de France del 1965, vinse a sorpresa e solo l'indomani si dimise da postino, "perché al posto di lavoro ci tenevo" spiegò. Quel Tour, per l'esuberanza fisica e il modo spericolato di correre, è uno dei tre momenti fondamentali della sua carriera. "Poi c'è il Giro del 1976 (il terzo vinto dopo quelli del '67 e del '69, ndr), quando in gruppo ero considerato un vecchietto, per la tattica e la gestione della corsa - raccontò lui stesso anni dopo - E il Campionato del Mondo (del 1971, ndr), per averci creduto fino in fondo anche sapendo di essere battuto", ancora una volta dal 'Cannibale'. Quello era un po' il motto di Gimondi, costretto ad arrendersi solo contro Merckx. Rimase a lungo la sua "delusione più grande" essere battuto dal belga a cronometro per la prima volta, al Giro di Catalogna: "Ho impiegato due anni a capirlo: Merckx era più forte di me". "Dietro alla sua ruota ci sarò" recita anche un verso della canzone che gli dedicò Enrico Ruggeri, "Gimondi e il Cannibale". L'ultimo giro d'Italia cui partecipò fu quello del 1978: si piazzò undicesimo, ma contribuì in maniera decisiva al successo finale di Johan De Muynck, che aveva battuto due anni prima, ora diventato suo compagno di squadra. Concluse la carriera su strada nell'ottobre 1978 partecipando al Giro dell'Emilia. Sotto contratto da professionista con la Bianchi-Faema anche nel 1979, ottenne come ultimo piazzamento, nel febbraio di quell'anno, il terzo posto nel campionato italiano di omnium indoor. Nelle quindici stagioni da pro vinse in totale 141 corse. Dopo il ritiro Gimondi fu direttore sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988, e successivamente, nel 2000, presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani.

Il dolore di Di Rocco (Federciclismo). "Una tristezza enorme. C'è rammarico, delusione, un pianto nel cuore. Ho seguito tutta la sua carriera da dirigente, l'ho sempre ammirato e apprezzato", ha detto il presidente della Federciclismo Renato Di Rocco, commentando la notizia. "L'oro al mondiale di Barcellona nel 1973 è il ricordo più bello e poi è stato uno dei pochissimi ad aver vinto tutti e tre i grandi giri. La rivalità con Merckx? Ma erano anche amici, e lo erano ancora adesso. Si rispettavano sia in bici che da ex corridori. Felice era una persona che stava bene con tutti ed era apprezzato da tutti", ha concluso il numero uno della Federciclismo.

Il tweet di Enrico Ruggeri che gli ha dedicato una canzone. "Se ne va una parte della mia infanzia, un ragazzo che mi ha fatto sognare, una persona dolce e meravigliosa, un simbolo, un grande uomo. Un abbraccio a Tiziana", così su Twitter il cantante Enrico Ruggeri ricorda il grande ciclista morto per un malore nelle acque di Giardini Naxos, postando il video della canzone che gli aveva dedicato, "Gimondi e Il cannibale".

I ricordi di Moser, Cassani, Bugno e Motta. "Era un corridore vero, un duro che non mollava mai, eravamo avversari ma ci siamo sempre rispettati. Per tanti anni siamo stati assieme nel consiglio Uci, spesso viaggiavamo assieme dall'Italia a Ginevra, ci raccontavamo di tutto". E' il ricordo di Francesco Moser, che di Felice Gimondi è stato avversario e poi amico. "Non ce l'aspettavamo, l'ho visto l'ultima volta al Giro precisamente nella tappa di Courmayeur che il Giro lo ha anche deciso. Stava bene. Beveva sempre il mio vino, ogni anno glielo mandavo, di solito prendeva il moscato giallo" ha detto Moser. "Un ricordo? Al Giro del '76, che poi vinse, quando l'aspettammo dopo una caduta e sembrava che quasi non ce la facesse". "Ho avuto un solo idolo nella mia vita: Felice Gimondi. Ogni volta che lo vedevo era un'emozione perché quando ti innamori di un campione è per tutta la vita. Sei stato un grande Felice", così il ct della Nazionale di ciclismo Davide Cassani ha ricordato su Twitter il campione scomparso. "E' una grave mancanza che lascia stupiti, non ci aspettavamo questa notizia", ha detto Gianni Bugno. "Ricordo un grande campione che non ha mai fatto parlare o cercato di mostrarsi al pubblico, è sempre stato schivo, è un campione che ha fatto la storia del ciclismo italiano. La rivalità con Merckx? Certamente senza il belga avrebbe vinto di più, ma ha avuto comunque la fortuna di diventare tra i più grandi della storia del ciclismo. Non parlava molto se non con i fatti e ha sempre espresso le sue opinioni senza clamori". "E' un colpo durissimo che mi lascia senza parole. Eravamo nemici sempre, ma c'era grande rispetto per l'uomo, per l'atleta e per il rivale", ricorda il campione Gianni Motta. "Con lui se ne va un pezzo della storia d'Italia e anche della mia - prosegue Motta -. Eravamo entrambi nati poveri e siamo cresciuti a forza di colpi sui pedali. Eravamo rivali, litigavamo - ricorda -. Una volta lo chiamai e gli dissi basta litigare, Felice, pensiamo solo a correre".

Giovanni Finocchiaro per gazzetta.it il 16 agosto 2019. Il malore nel pomeriggio, sotto il sole neanche tanto fastidioso delle 18. Felice Gimondi alloggiava all’Hilton, uno degli alberghi più suggestivi di Giardini Naxos, a due passi da Taormina: camere con vista sulla baia taorminese, spiaggia privata presidiata dal personale dell’hotel, catering a due passi dagli ombrelloni, naturalmente il servizio di salvataggio a presidiare un angolo meraviglioso della Sicilia invasa dai turisti. Gimondi era appena entrato in questa parte di mare in cui l’acqua si mantiene bassa per metri e metri. Per immergersi ci si deve distendere, non ci si può tuffare. Appena entrato, l’ex ciclista si è sentito male. Dalla spiaggia sono intervenuti amici e bagnini in un batter di ciglia. Portato sul bagnasciuga non dava più segni di vita. Più volte è stato tentato il massaggio cardiaco, ma non c’è stato nulla da fare. Lo hanno scritto sul referto ufficiale, i carabinieri di Taormina, primo tra tutti il comandante, capitano Arcangelo Maiello: Gimondi è morto sul colpo, probabilmente per un infarto. Lo stesso hanno costatato il personale della guardia Costiera di Giardini Naxos col comandante Cosimo Roberto Arizzi, l’aliquota dei carabinieri di Taormina e quelli di Naxos. Un intervento massiccio prima ancora che si scoprisse l’identità del campione. Dopo l’intervento del medico nefrologo, la salma di Gimondi è stata trasferita in una camera dello stesso albergo per i rilievi, per il rapporto ufficiale: morte naturale, la conferma non dà adito a nessun dubbio. Alle 21.30 la moglie Tiziana è uscita dalla struttura seguendo il furgone in cui è stato trasportato il corpo di Gimondi. La salma è stata portata nel vicino ospedale di Taormina e nella notte sono cominciate le operazioni per autorizzare il trasferimento a casa. Gimondi, uno dei più grandi corridori della storia del nostro ciclismo, avrebbe compiuto 77 anni a settembre. Nato a Sedrina, in provincia di Bergamo, verrà ricordato sempre per essere stato uno dei pochi (sette in tutto) ad aver vinto tutti e tre i grandi giri: Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta. Nel suo ricco palmares spiccano infatti i tre successi al Giro d’Italia, ottenuti nel ‘67, nel ‘69 e nel ‘76, la vittoria del Tour de France nel 1965 e quella della Vuelta nel 1968. Senza dimenticate il Mondiale vinto a Barcellona nel 1973. Un campione a 360 grandi, capace nei circa quindici anni vissuti da professionista di imporsi in tutti i modi: in fuga, da grande scalatore, in volata, da sprinter, e anche nelle prove a cronometro. Nelle classiche monumento si è imposto una volta nella Parigi-Roubaix, una volta nella Milano-Sanremo e in due occasioni al Giro di Lombardia. Gianni Brera, che ne descrisse le imprese, per lui aveva coniato i soprannomi Felix de Mondi e Nuvola Rossa. La sua carriera cominciò nel decennio dopo la fine di quella di Magni. Si presentò al Tour de France del 1965, vinse a sorpresa e solo l’indomani si dimise da postino “perché al posto di lavoro ci tenevo” spiegò. La rivalità col “Cannibale” Merckx ha fatto la storia, con Gimondi costretto a ripetizione a finire secondo dietro il campionissimo belga. Disse poi: “Ho impiegato due anni a capirlo: Merckx era più forte di me”. Ma proprio Gimondi fu l’unico capace di tenere testa a ripetizione e battere Merckx: una rivalità meravigliosa che ha fatto la storia dello sport. “Dietro alla sua ruota ci sarò” recita un verso della canzone che gli dedicò Enrico Ruggeri “Gimondi e il Cannibale”. Nelle quindici stagioni da pro vinse in totale 141 corse. Dopo il ritiro Gimondi fu direttore sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988, e successivamente, nel 2000, presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani.

Da Gazzetta.it il 16 agosto 2019. Le lacrime di un compagno di vita. “Stavolta perdo io”. Nelle ore dell’addio a Felice Gimondi, il ricordo dell’amico-rivale di sempre Eddy Merckx è il più toccante. “Perdo prima di tutto un amico e poi l’avversario di una vita. Abbiamo gareggiato per anni sulle strade l’un contro l’altro - ha detto il ‘Cannibale’ all’Ansa - ma siamo diventati amici a fine carriera. L’avevo sentito due settimane fa così come capitava ogni tanto. Che dire, sono distrutto”. Sebbene scosso, Merckx tratteggia con lucidità le virtù di Gimondi: “Felice è stato prima di tutto un grande uomo, un grande campione, purtroppo ce lo hanno portato via. È una grande perdita per il ciclismo. Mi vengono in mente tutte le lotte che abbiamo fatto insieme... Un uomo come Gimondi non nasce tutti i giorni, con lui se ne va una fetta della mia vita. È stato tra i più grandi di sempre”.

Felice Gimondi morto per un malore, lutto nel ciclismo: addio all'ex grande campione. Libero Quotidiano il 16 Agosto 2019. Lutto nel mondo del ciclismo: Felice Gimondi è morto in seguito ad un malore che lo ha colpito mentre faceva il bagno nelle acque dei Giardini di Naxos. L'ex grande campione del ciclismo italiano avrebbe compiuto 77 anni il prossimo 26 settembre. I carabinieri hanno dato conferma della tragica notizia. Gimondi è stato subito soccorso da alcuni bagnanti ma tutti i tentativi di rianimarlo, anche da parte del personale del 118, sono stati vani. Il suo ultimo Giro d'Italia lo corse nel 1978, l'ultimo vinto fu quello del 1976 ma in carriera i suoi successi hanno superato il centinaio, 118 per la precisione le vittorie da professionista nonostante l'ingeneroso soprannome di "eterno secondo", affibbiatogli negli anni dello strapotere del "cannibale", Eddy Merckx. Felice Gimondi, Bergamasco roccioso di Sedrina, all'imbocco della Val Brembana, classe 1942, ha amato la strada e praticato la pista, Gimondi ha chiuso come dirigente sportivo una carriera aperta nel 1959 da allievo, prima vittoria l'1 maggio 1960 alla Bergamo-Celana, passando dilettante nel 1962 e arrivando a rappresentare l’Italia ai Giochi olimpici di Tokyo, trentatreesimo nella prova su strada vinta dal connazionale Mario Zanin. Professionista dal 1965 al 1979, Gimondi può vantare, con pochi altri colleghi, la vittoria di tutte le tre grandi gare ciclistiche: il Giro d’Italia, nel 1967, 1969 e 1976, il Tour de France nel 1965 e la Vuelta a España nel 1968. Incassò inoltre il campionato del mondo su strada del 1973, una Parigi-Roubaix, una Milano-Sanremo e due Giri di Lombardia. Il confronto diretto con Merckx ha contraddistinto gran parte della carriera di Gimondi, e nel loro eterno duello il bergamasco ha battuto il belga in termini di maggiore longevità sportiva: prima vittoria ai massimi livelli al Tour del 1965 e ultima al Giro del 1976.

Malore durante il bagno, muore Felice Gimondi. Aveva 77 anni, la tragedia a Giardini Naxos in Sicilia, dove l'ex campione del mondo era in vacanza. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Agosto 2019. Era simbolo di un’Italia felice, che ora appare ancora più vuota e lontana. Felice Gimondi, un monumento dello sport italiano, ha scelto l’estate per andarsene, la stagione del Tour de France, uno dei grandi giri che ha conquistato nella sua lunga e straordinaria carriera. La morte lo ha colto in mare, quello sì ambiente inusuale per un ciclista abituato alle ampie pianure e alle grandi salite. Lo ha colto un malore mentre faceva il bagno nelle acque di Giardini Naxos, nei pressi di Taormina, dove era in vacanza insieme alla famiglia. Inutili tutti i tentativi di intervento. Gimondi, che avrebbe compiuto 77 anni il 29 settembre, era sofferente di cuore e secondo i soccorritori sarebbe rimasto vittima di un infarto. Il cuore, che insieme a due gambe d’acciaio lo aveva spinto spesso oltre i limiti, facendogli toccare tra il 1965 e il 1979 tutte le vette della gloria sportiva in un palmares unico, che comprende tra l’altro tre Giri d’Italia, un Tour de France, una Vuelta, un Mondiale, una Roubaix, una Sanremo e due Giri di Lombardia. Vittorie ma anche sconfitte, in una stagione d’oro del ciclismo che viveva su grandi rivalità. In Italia, i suoi «nemici» erano Vittorio Adorni (classe 1937) e Gianni Motta (1943) ma sulla sua strada si trovò troppe volte davanti il «Cannibale», Eddy Merckx. «Stavolta perdo io»: è il commento a caldo del campionissimo belga, che si dice distrutto. «Perdo prima di tutto un amico e poi l’avversario di una vita. Abbiamo gareggiato per anni sulle strade l’un contro l’altro, siamo diventati amici a fine carriera. L’avevo sentito due settimane fa, come capitava ogni tanto». C’era il campione, ma non solo. Romano Prodi, ex presidente del consiglio e grande esperto di ciclismo, è commosso nel ricordare Gimondi. «Di lui mi ha colpito soprattutto l’aspetto umano, lo stile della persona. Era così quando correva, è rimasto tale a fine carriera. Mi dispiace davvero che il Paese perda un uomo come lui, era veramente un personaggio di grande spessore». Prodi ricorda l’imprenditore, lì’uomo che dopo aver lasciato lo sport è riuscito a costruire e a gestire «strutture economiche importanti con saggezza, calma e serenità». «L’oro al mondiale 1973 è il ricordo più bello. Felice era una persona che stava bene con tutti ed era apprezzato da tutti». «Ho avuto un solo idolo nella mia vita: Felice Gimondi», le parole del ct azzurro, Davide Cassani, tra i tantissimi a reagire con dolore e stupore alla notizia.

Gimondi, la figlia Norma: «Papà, ti scrivo come facevo quando partivi per il Giro». Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Norma Gimondi su Corriere.it. Caro papà, da bambina quando partivi per il Giro d’Italia la mamma faceva scrivere a me e Federica una letterina per farti compagnia la sera, di rientro dalla tappa. Era un modo per dirti e farti capire che anche se non eri con noi, noi eravamo con te ovunque. Scrivo questa — la lettera che più ho temuto di dover scrivere — perché oggi più che mai io, mamma e Federica abbiamo bisogno che tu sia con noi. Con le tue poche parole ma con i tuoi tanti fatti, ci hai amato immensamente. Altrettanto abbiamo fatto noi e oggi non ci sembra vero vederti in questa camera mortuaria, nell’ospedale di Taormina. Il tuo cuore grande e forte non ha retto e ora sei qui su questo tavolo, in questa stanza gelida. Vorrei poterti dire: alzati papà, ci sono tanti che fanno il tifo per te. Ci sono gli amici di sempre, i «gimondiani» che sono ancora qui ad acclamarti e ci siamo anche noi: io, mamma e Federica che vogliamo vederti ancora una volta sorridere. Ci hai cresciuto come te: poche parole, azioni concrete. Ci hai insegnato il rispetto per l’avversario e, soprattutto, a non arrenderci mai come faremo anche noi: le tre donne di cui devi essere orgoglioso sono forti e unite. Promettimi che da lassù continuerai a guardarci, a tenerci per mano, anzi, a ruota. Tu che hai lottato fin dall’inizio, partendo a 22 anni da Sedrina e arrivando in giallo a Parigi. Vorrei portarti sempre nel mio cuore con quella maglia gialla numero 123 perché tutto è iniziato lì. Ora tutto sembra finito ma tu ci hai insegnato che nella vita si lotta tutti i giorni per ciò in cui si crede anche quando gli altri ti danno per perdente. Ora riposa, papà: questa tappa è finita. Sei il miglior papà che si possa avere. Ti amiamo sempre, fino alla fine.

Merckx contro Gimondi Quando il Cannibale divenne un... gregario. Pochi mesi fa l'incontro fra i due campioni Felice: «Eddy, per il Mondiale ti girano ancora». Pier Augusto Stagi, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. Era il 22 ottobre e quella sera sono arrivati assieme. Uno al fianco dell'altro. Quasi a braccetto, come due buoni amici. Merckx con Gimondi. Gimondi con Merckx. Dopo anni di battaglie e sfide al limite delle loro possibilità. Una rivalità vera e autentica, come la stima che accompagna da sempre questi due immensi campioni del pedale. Gimondi assieme a Merckx, uno di fianco all'altro, per una buona causa: la Fondazione Pietro e Ambrogio Molteni, la famosissima maglia blu-camoscio voluta dai figli Pierangela e Mario, creata per dare un aiuto ai corridori in difficoltà. «Se conosco la maglia Molteni? Nessuno la conosce meglio di me. Ce l'avevo sempre davanti agli occhi, visto che quel sacramento mi teneva sempre alle sue spalle», esordisce Felice Gimondi, che quella sera di fine ottobre è davvero un fiume in piena. Lui sempre parco e misurato, quasi schivo, si lascia andare e prende la scena con personalità e aneddoti di vita a non finire. Con un Merckx che per la prima volta nella sua vita non è comparsa, ma sicuramente comprimario, incapace questa volta di restargli a ruota, nonostante sul palco della Sala Buzzati della Gazzetta dello Sport siano seduti uno di fianco all'altro. «Pensavo di averti fatto soffrire così tanto da averti tolto la parola, ma è chiaro che mi sbagliavo», dice sornione di rimando il fuoriclasse belga, quasi intimorito dal nostro Felice. In sala sono tutti incantati e sorpresi da questi due simboli di sport. Gimondi ironico, ma anche sincero e autentico, come sempre. «Mi chiedete sempre se Merckx mi ha rovinato la vita. Mi ha rovinato quella di corridore, perché ho dovuto soffrire troppo per batterlo, ma che soddisfazione quando ci sono riuscito». E Merckx? Asciutto più di Felice. «Contento io quando Felice vinceva? Mai, sarei un bugiardo. Io quando perdevo non ero mai contento. Certo, con il senno di poi, oggi posso dire meglio lui di un altro, ma contento no. Quello mai!». Di conseguenza, non può essere diversa la risposta sul mondiale di Barcellona, quello del 2 settembre 1973, sul circuito del Montjuïc. «Meglio far vincere Felice piuttosto del giovane belga Freddy Maertens? Sciocchezze! racconta il Cannibale -. Io quel mondiale lo volevo vincere e invece ho finito per perderlo, perché Felice quel giorno è stato il più forte e il più astuto di tutti noi». Felice gongola a sentir quelle parole. «Ti girano ancora eh. Non è bello perdere. Ma quel giorno hai perso tié!», con quel sorriso pieno e dolce, da eterno bravo ragazzo cresciuto a pane e latte. Quando Eddy venne al mondo, nel 1945, Felice aveva quasi tre anni di vantaggio. Il sorpasso nella cronometro di Rosas al Giro di Catalogna del 1968. Fu un capolavoro del belga e Felice passò la serata a passeggiare sulla spiaggia interrogandosi con Giancarlo Ferretti senza trovare una risposta a quell'inaspettata batosta. In verità la trovò. «Era chiaramente di un altro pianeta: era più forte di me racconta -. Io fino a quel momento ero davvero l'uomo da battere: nessuno come me. In verità Eddy mi riportò immediatamente sulla terra, anche perché lui era un extraterrestre». Gimondi-Merckx. Il bergamasco e il fiammingo. Nuvola Rossa e il Cannibale. La tenacia contro la forza impersonificata. «Felice è stato l'avversario più tenace e incredibile che abbia mai affrontato. Era un testone, esattamente come me: io volevo sempre vincere, lui non ci stava mai a perdere», ricorda Eddy. Felice quella sera ha sorriso più di ogni altra volta. Finirà con un bicchiere in mano: Merckx che beve di gusto e Felice, come al solito, che fa finta. «Quando senti dolore, allora è quello il momento in cui puoi fare la differenza», spiega Eddy. «Confermo, anche se la differenza io non l'ho mai sentita: il dolore l'ho sentivo sempre». E giù a ridere, con Eddy che sorseggia un buon vino rosso e Felice che fa finta.

L’ultimo gigante. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Corriere.it. Nell’età dell’oro del ciclismo, come brillava Felice Gimondi, il più grande corridore italiano dopo i padri della patria, Coppi e Bartali: «Mi vedrei bene sul podio dietro a loro, anche per rispetto degli anziani...» scherzava lui, che da ragazzo era stato battezzato come il «nuovo Fausto». È stato tradito dal cuore, in vacanza a Giardini Naxos, a poco più di un mese dal suo 77° compleanno. Quasi una beffa per un faticatore bergamasco che ha costruito la sua leggenda sulle montagne del Tour vinto a 22 anni, su quelle del Giro e della Vuelta, sul pavé della Roubaix e sulla collina del Montjuic di Barcellona, dove diventò campione del mondo nel 1973. La lezione eterna che lascia Gimondi, è proprio questa: andare oltre le apparenze, i proprio limiti, i luoghi comuni. Con valori scolpiti nella pietra, a testa alta, ma sempre sui pedali, aspettando la propria occasione, contro il più forte di sempre, Eddy Merckx. E contro una muta di avversari feroci e di classe, come Ocana, Adorni, Anquetil, Poulidor, Maertens, Motta. Di quegli anni ruggenti, Felice raccontava che «se non avessi trovato l’Eddy avrei vinto come Coppi. Però essere stato un suo grande avversario dà più valore a tutto quello che ho fatto». Perché per battere Merckx, Gimondi ha sempre dato di tutto e anche di più «e quando lui si è ritirato mi sono sentito svuotato. Lui era una parte di me». Per questo ha conquistato la gente e l’immaginario popolare: negli anni del grande cambiamento Felice andava controvento, vinceva attaccando, volava a cronometro. Con quell’aria da duro dei film western, uno che parla con i fatti e che a forza di essere vento è entrato nelle case e nei cuori degli italiani, per le vittorie, tante e pesanti, da corridore completo, ma anche per le «bastonate» (così le chiamava) prese dal belga: «Il ciclismo è una grande scuola di vita perché ti insegna a perdere. E questo ti torna utile quando smetti e devi trovare il tuo posto nel mondo reale».

Ma il figlio della postina di Sedrina, che sostituiva la madre nelle consegne in bici, il senso della realtà non lo ha mai perso nemmeno in sella, affidando ai suoi diari le annotazioni del professionista e i pensieri di «un uomo corretto e onesto, che ha fatto anche le corse in bici, certo. Ma le cose che contano sono altre». Quello che contava per lui erano le figlie Norma e Federica: «Il mio più grande rimpianto è essere arrivato in ritardo alla nascita della seconda, per il maltempo di rientro da una corsa». E la compagna di una vita, Tiziana, conosciuta dopo una Sanremo, in un albergo di Diano Marina gestito dai nonni di lei. C’è una foto bellissima di quegli anni, con loro due in riva al mare. Lei ha appena scritto «Felice» sulla sabbia. E niente potrà mai cancellare quel nome.

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 17 agosto 2019. Una volta è successo che un uomo qualunque, che di mestiere guidava dei camion con sei o anche otto ruote e sul suo camion guardava il mondo da un metro e mezzo più in alto, abbia avuto un figlio cui di ruote ne bastavano due, sottili sottili, che gli tiravano fango sulla faccia, e tutti sapevano il suo nome. Il figlio non trasportava merci, ma le cose ugualmente pesanti e ingombranti che porta sulle spalle un campione: talento, sudore, tenacia, solitudine, infine gloria. Sto parlando di Felice Gimondi, bergamasco, ciclista, vincitore per tre volte del Giro d' Italia (nel 1967, 1969, 1976), del Tour de France nel 1965 - l' anno prima aveva conquistato il Tour de l' Avenir, corsa francese per gli under 23 - e della Vuelta a España nel 1968. Ho scritto "bergamasco" come primo aggettivo, non a caso: ho deciso di raccontare di Gimondi perché è uno sportivo memorabile, certo, 81 vittorie in quattordici anni di carriera, ma anche perché i bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l'Atalanta, e Gimondi. Nato nel settembre del 1942 a Sedrina, a quindici chilometri dal capoluogo orobico, Felice è il secondo di tre figli. La mamma faceva la postina, pedalava su e giù per la montagna - ché Sedrina, un comune che ora conta duemila abitanti o poco più, è proprio all' imbocco della Val Brembana ed è già montagnoso - e il babbo aveva una piccola impresa di trasporti con i cavalli: passò dieci anni in Brasile, poi tornò in Italia e cominciò con i camion: il primo, racconta Gimondi, era un Bl che andava a legna, con la cisterna su un lato. Il papà compra a Felice la prima bicicletta come premio per essere stato promosso in terza elementare. Era una "Ardita", rossa: «Avevo sette o otto anni. Ero così contento che la inforcai subito, ma caddi e mi ruppi un dente». Come esiste la fortuna dei dilettanti, un caso di sfortuna dei campioni. Ma la prima bici vera, da corsa, arriva a sedici anni. Come nella maggior parte delle famiglie, in quei tempi di soldi non ce ne sono granché e allora il padre promette al secondogenito che se l' avesse accompagnato a fare una consegna nel cremonese (il trasporto era di sabbia del Po, allora non si usava il gesso per costruire le case) e se avesse ricevuto subito il denaro - era un cliente che non pagava mai - avrebbe fatto l' acquisto tanto desiderato. Al ragazzino andò grassa: il cliente saldò 30mila lire e Felice ebbe la bici, una Maffioletti usata. «Lasciai gli zoccoli in mano a mio padre, saltai in sella e pedalai a piedi nudi fino a casa. All'inizio non arrivavo nemmeno ai pedali e allora mettevo una gamba di traverso in mezzo ai tubi del telaio per poter pedalare». In realtà, Felice "correva" già da un po': capitava spesso che sostituisse la madre nel lavoro di postina e percorreva le strade sterrate della Val Brembana su una bici da donna per consegnare lettere, pacchi, cartoline. Fu una palestra formidabile. Il telaio allora pesava quindici chili, e in più c' era il portapacchi. Così, con le gambe forti da postino di riserva, il giovane Gimondi entrò nella Sedrinese, una piccola società con cinque o sei corridori, «dove non c' era pressione di fare risultato ma ci si divertiva molto», racconta, «e ognuno faceva la sua corsa». Ha 22 anni quando diventa professionista, vince a sorpresa il Tour de France: non avrebbe nemmeno dovuto correre e pensava di puntare, al massimo, alla maglia bianca di miglior giovane. Arrivò alla gara sostituendo Battista Babini, come gregario di Vittorio Adorni, suo compagno di squadra. Ovvero, avrebbe dovuto aiutare Adorni a vincere, che quell' anno, il 1965, se la vedeva con il favoritissimo francese Raymond Poulidor. Gimondi aveva una bici color del cielo, una Chiorda marchiata Magni («Ci vinsi anche la Roubaix e il Lombardia», racconta), e una forza esuberante, spregiudicata. Mai si era visto un giovane, uno appena arrivato, andare in fuga da solo. Dopo la terza tappa non mollò più la maglia gialla: a un certo punto Adorni dovette ritirarsi per un' intossicazione alimentare e i piani finirono stravolti. Gimondi resistette a Poulidor sul Mont Ventoux e vinse due tappe a cronometro, che gli valsero la vittoria al suo primo tentativo. A portare a casa quell' impresa, prima di lui, c'era riuscito solo Fausto Coppi. E così, il giovane di Sedrina che avrebbe dovuto correre solo la prima delle tre settimane del tour - il padre lo aspettava a casa perché all' epoca Felice lavorava con lui - divenne il quinto italiano nella storia a vincere la Grande Boucle. Nel frattempo, Gimondi si era sposato con una ragazza che aveva conosciuto in Liguria, a Diano Marina, in vacanza, prima di diventare famoso. Tiziana Bersano è nata in una famiglia di albergatori ed era abituata alle discoteche, a stare in mezzo a gente in ferie, e ha 19 anni quando si ritrova a Sedrina. «Un incubo», dice del suo primo periodo bergamasco; e «disastroso» il suo primo impatto con gli "indigeni". «Il primo ricordo che ho di Sedrina è una panchina in pietra su cui erano sedute delle signore vestite di nero, con dei vestiti luuuunghi e neri». Felice sostiene che metà delle sue vittorie sono merito di Tiziana, ed è vero: hanno passato la vita insieme, mai si è sentito un pettegolezzo su di lei o su di lui, innamoratissimi l' uno dell' altra («per me andava bene lei, e basta»), con due splendide figlie, Norma e Federica. La prima delle due, Norma, avrebbe avuto la voglia e le capacità per seguire le orme del padre: «Sono stata io a impedirle di fare l' agonista. Volevo che studiasse. Studia che è meglio, il ciclismo quanto ti dura?, le dissi», racconta Tiziana, «Però lei è un' atleta, ha uno stile perfetto, una bella postura. E poi ha grinta»). Tiziana ha imparato ad amarci, noi bergamaschi, testoni e chiusi e montanari («L' unica festa che Felice mi lasciava fare era quella di Capodanno, venivano anche sessanta persone»), il nostro dialetto è diventato la sua lingua e dice di aver imparato da noi l'affetto vero, «l' ho capito il giorno che hanno festeggiato i settant' anni di mio marito. Una festa bellissima. Un affetto sincero». Tiziana, quindi, è la prima persona, oltre a Gimondi, che ha fatto grande Gimondi. La seconda è quel bandito di Eddy Merckx, quel belga, considerato il più grande, il ciclista più completo di tutti i tempi. Lo chiamavano il Cannibale, tanto era cattivo (Vittorio Adorni, che corse in quegli anni, ha raccontato che Merckx era competitivo anche quando partecipava a una gara insignificante: se c' era un traguardo parziale con un salame come premio, «lui faceva la volata per vincere il salame»), e Gimondi, che invece era un campione gentile, psicologicamente agli antipodi, se lo trovò sempre tra i piedi. «Ho dovuto correggere il mio modo di essere, il mio modo di correre. Prima non prenderle e poi, se possibile, dargliele. Perché era dura dargliele, a quello lì». Certamente una sfortuna, ma fu anche una delle sfide più appassionanti della storia del ciclismo: «Lottavamo sempre con il coltello tra i denti», sintetizza Felice, «la nostra generazione ha reso il ciclismo epico e leggendario. Abbiamo corso insieme tanti anni (dal 1964 al 1978, ndr) e sono stati anni di battaglie». Insomma, Gimondi per noi era stato il più grande di tutti, finché non è arrivato quel belga a rovinarci la festa. Ai Mondiali nel 1971, Merckx gli soffiò la vittoria in volata, negli ultimi chilometri c' erano stati solo loro due. Il giorno dopo, il titolo del giornale era: «Eddy Merckx campione del mondo. Gimondi batte il resto del mondo». Ma il bergamasco aveva già metabolizzato l' andazzo: nel 1970, durante un' intervista su TeleMarche, una rete francese, Felice disse: «Ritengo che Merckx mi abbia preparato alla vita, che mi abbia insegnato che non tutto è facile». L' intervistatore, lo punzecchiò: «E cioè? Battendola?» - «Sì». Per questo, la gara più bella, quella che è rimasta nel cuore di tutti, è il Campionato del mondo nel 1973, a Barcellona, al Circuito del Montjuic: quattordici chilometri e mezzo da percorrere diciassette volte, Gimondi ha già 31 anni e oltre a Merckx ci sono l' olandese Freddy Maertens, che in volata è un drago, l' olandese Zoetemelk, lo spagnolo Ocaña. E il caldo è da capogiro, l' asfalto sembra sciogliersi tanta afa c' è. All' undicesimo giro, a ottanta chilometri dal traguardo, Merckx - che mai come in quella stagione era sembrato un dio, imbattibile: aveva vinto la Parigi-Roubaix, la Liegi Bastogne Liegi, il Giro d' Italia e la Vuelta di Spagna - lancia l' attacco. Gimondi riesce a portarsi a ruota con Ocaña, l' altro spagnolo Domingo Perurena, il compagno di squadra Giovanni Battaglin, Zoetemelk e Maertens. Ma Merckx al quindicesimo giro fa un altro allungo, e rimangono in quattro: il Cannibale, Maertens, Gimondi e Ocaña. «Maertens era il più veloce. Sento che lui e Eddy si mettono a parlare: non capisco una parola di fiammingo, però sapevo cosa stava succedendo», racconta Felice, «Maertens gli tira la volata, ma quando Eddy gli arriva alla pedaliera, afferro che per una volta non è lui che dovrò battere». E infatti sul rettilineo finale Maertens è impegnato a lanciare lo sprint a Merckx, che però, un po' per stanchezza un po' perché Maertens aveva avviato la volata con un impeto eccessivo, perde l' attimo buono per lo sprint finale. Sulla linea del traguardo, Maertens e Gimondi si tirano una spallata, poi con un colpo di reni l' italiano mette la ruota davanti e alza il braccio al cielo. Felice Gimondi è campione del mondo. «Maertens voleva darmi una gomitata», dirà poi, «ma alla fine la spallata gliel' ho data io. È stata la mia volata perfetta». Da quel momento il bergamasco, dalla penna geniale di Gianni Brera, divenne "Felix de Mondi" (più tardi, nel 1976, dopo aver vinto il Giro d' Italia a 34 anni e dato per finito, divenne "Nuvola rossa"). Ancora oggi nessuno è riuscito a battere il suo record al Giro: nove volte sul podio con tre primi, due secondi e quattro terzi posti). La prima cosa cui pensò, dopo la vittoria spagnola, è casa: «Mia moglie aspettava la mia bambina, Federica. È nata il 20 settembre e avevo paura di aver creato un negativo di emozioni». Ancora oggi, superati i settant' anni e nonostante gli acciacchi - dopo una frattura alle vertebre deve andarci cauto - continua a sputare la vita in bici. Ha fondato una scuola di mountain bike insieme con monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè (è un piccolo comune a meno di dieci chilometri da Bergamo) per i ragazzini dagli 8 ai 13 anni. E da 23 anni a Bergamo si corre la Granfondo Internazionale dedicata al campione: una gara internazionale aperta a tutti coloro che, su e giù per le montagne della provincia - da Colle del Gallo a San Pellegrino Terme fino a Costa Valle Imagna - adorano sudare come leoni marini. Corrono nel mese di maggio, questi umani bizzarri che amano la fatica, e la città si ferma.

Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti il 17 agosto 2019. Quanti sono i ricordi? Cento? Mille? So solo che adesso fanno tutti male. Anche quelli che fino a oggi mi rendevano felice. Già, Felice… Ora è difficile persino pronunciare questo aggettivo: che diventa subito un nome… Perché tutto quello che era piacere, tenerezza, dolcezza, improvvisamente assume il sapore aspro del dolore. E quei ricordi più sono vicini al cuore e più lo feriscono. Scrivere di Gimondi la sera della sua morte è un esercizio crudele. Ma sento di doverglielo. E di doverlo a me stesso. C’è solo un problema: che quasi tutti i termini che forse con troppa facilità usiamo (soprattutto) nello sport in questo momento diventano inadeguati e sprecati rispetto alla grandezza umana prima che sportiva di Felice. Tenacia, lealtà, umiltà, onestà, generosità, correttezza, eleganza… E, usandoli, non sappiano se attribuirli al campione o all’uomo: che - non sempre accade - si assomigliavano terribilmente. E’ morto in mare: lui uomo di mezza montagna. Ancora quest’anno il Giro d’Italia aveva voluto onorarlo durante la 17esima tappa passando dalla sua Sedrina, all’imbocco della Val Brembana. E Felice, come sempre, aveva ringraziato con sincerità e modestia, come se le cose non gli fossero mai dovute. Era apparso nel 1964 nelle nostre vite di appassionati di ciclismo (in quegli anni un po’ digiuni di soddisfazioni) vincendo a neanche 22 anni il Tour de l’Avenir quando questa corsa si era già segnalata come un prologo rivelatore di campioni autentici (e in fondo mantiene ancora il suo fascino e il suo significato se è vero che due anni fa vi ha trionfato Egan Bernal davanti, pensate un po’, al povero Bjorg Lambrecht). Diventò subito professionista alla Salvarani per imparare il mestiere accanto a Vittorio Adorni: che infatti vinse il Giro del 1965, con lo stesso Felice, devoto e incredulo, sul podio dietro a Zilioli. Ovviamente non sarebbe dovuto andare al Tour, ma il grande Luciano Pezzi, che ne aveva intuito le doti, fece “infortunare” il povero Bruno Fantinato, un onestissimo gregario, e lo imbucò nella squadra che aveva sempre Adorni come capitano. “Tu stai vicino a Vittorio, tieni gli occhi aperti e impara” gli disse. Felice tenne gli occhi talmente aperti che al terzo giorno, azzeccando un’azione all’ultimo chilometro a Rouen, vinse la tappa e conquistò la maglia verde della classifica a punti, la maglia bianca come miglior giovane e la maglia gialla di leader. La sera stese tutte le maglie sul letto e arrivò tardi a cena per guardarle. Dopo quattro giorni perse il primo posto in classifica perché Adorni, il “capitano”, forò e lui, in giallo, si fermò ad aspettarlo senza che nessuno glielo avesse chiesto. “Perché ero in Francia per quello. Non feci altro che il mio dovere”. Poi il “capitano” dovette ritirarsi e per il giovane Felice iniziò il trionfo: tanto “facile”, malgrado la resistenza del povero Poulidor, quanto inarrestabile. Durante quel Tour che lo aveva proiettato nel mondo della gloria e delle favole pianse una volta sola: quando qualcuno gli disse che fuori dall’albergo c’era suo padre Mosè che lo aveva raggiunto, ma - da perfetto bergamasco - non aveva voluto disturbarlo. Lo trovò col cappello in mano che guardava le Alpi. Lo abbracciò in lacrime. Al suo ritorno a Sedrina con l’Italia impazzita, la prima cosa che fece fu di andare all’Ufficio Postale per dimettersi da vice-portalettere (la titolare era sua madre Angela). Aveva capito che…poteva fare il ciclista. E se ci pensate già nel racconto di questa sua prima, straordinaria vittoria c’è tutto Gimondi: la sua tenacia, la sua lealtà, il suo talento, la sua modestia, la sua classe di uomo e di campione. Il resto è storia ed albi d’oro: vincitore dei tre grandi Giri (secondo in assoluto a compiere quest'impresa), campione d’Italia e del Mondo, trionfatore di classiche-monumento. Coraggioso e mite allo stesso tempo. Durante il “Processo alla Tappa” del Giro del 1966, quando era già riconosciuto come un fuoriclasse, pronunciò una parola “proibita” (per l’esattezza disse “quelli della Molteni facevano un gran casino là davanti…”). La Rai lo “sospese” dal video intimandogli di scrivere una lettera di scuse per poter tornare ad essere intervistato. Lui lo fece: con convinzione e rispetto. In quel momento era il potenziale dominatore assoluto del ciclismo mondiale: poi arrivò il Cannibale. Che ora piange più di tutti. “Stavolta ho perso io” ha detto in lacrime. D’altra parte Gimondi, a chi lo stuzzicava su Merckx ha sempre risposto: “Perdere da lui non è mai stata una sconfitta, ma un onore”. E pensare che Felice, che era esploso "prima", sopravvisse sportivamente al suo rivale, vincendo l'ultimo Giro a 35 anni con Eddy ormai in declino. Di lui Enrico Ruggeri in “Gimondi e il Cannibale” ha scritto e cantato: “…devi dare tutto prima che ti faccia passare. Io non mi lascio andare. Non ci pensare, non mi staccherò.…” Ecco, oggi se n’è andato un uomo così.

«Felice, entra in paradiso in volata» L’addio a Gimondi, da Saronni e Moser ai dilettanti in sella. Pubblicato martedì, 20 agosto 2019 da Corriere.it. Sono un omaggio spontaneo da parte del mondo del ciclismo, i funerali di Felice Gimondi. Fin dalle 10, fuori dalla chiesa parrocchiale di Paladina, hanno iniziato a radunarsi appassionati dilettanti delle due ruote, in sella, con le proprie personali divise da allenamento, incluse alcune maglie iridate. Un’immagine in cui ci sono Bergamo e la Bergamasca con la loro passione per il ciclismo, e più in generale il mondo delle due ruote, delle competizioni o della sgambata domenicale. Oltre agli appassionati ci sono anche gli ex campioni, che avevano conosciuto bene Felice Gimondi. Tra loro anche Beppe Saronni, Gianbattista Baronchelli e Francesco Moser, uniti per l’ultimo saluto. È in nome del ciclismo, dei successi, ma soprattutto del «suo stile semplice», che ha parlato il vicario generale della Curia di Bergamo, monsignor Davide Pelucchi, all’inizio della Messa. «Felice Gimondi era fatto a immagine della Val Brembana, della nostra terra bergamasca. Diceva: “Partito dall’oratorio di Sedrina e arrivato in giallo a Parigi”. Una frase che noi leggermente modifichiamo dicendo: “Partito dall’oratorio di Sedrina ora va in paradiso di corsa, come è stato capace di vincere in salita, a cronometro, in volata, come ha fatto in bicicletta e come si dovrebbe fare percorrendo le strade esistenziali nelle diverse stagioni della vita». In chiesa ha poi parlato uno degli amici più cari di Felice Gimondi, monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè: « Sentiamo il bisogno di stare in silenzio, per stare vicino ai familiari e condividere il loro dolore. Felice Gimondi è stato un campione che ha ricercato nella sua vita i valori di sempre: la famiglia, il lavoro, la fede nei semplici. Ha ricercato le virtù della costanza, della tenacia, dell’onestà, della prudenza, della fedeltà. Ciascuno di noi potrebbe trovare 10, 100, 1000 episodi in cui Gimondi è entrato nella sua vita. Grazie alle sue prestazioni di campione, alle sue vittorie che infondevano coraggio, gioia. Grazie anche alle sue sconfitte, con cui ci ha insegnato a lottare sempre, a non cedere mai, perché nella vita non si può sempre vincere. Ma siamo qui in questo momento per sentire la preghiera del signore, per pregare per Felice, per la sua famiglia, per tutti noi, per chiedere al signore il conforto alla nostra sofferenza».

Funerali di Gimondi a Paladina, il cartello fuori dalla chiesa: "Ciao Felice, salutaci Pantani". La Repubblica il 20 agosto 2019. Tantissime persone, ieri, lo hanno salutato, e molti lo hanno fatto nel modo che a Felice Gimondi sarebbe piaciuto: arrivando davanti alla chiesa di Paladina, provincia di Bergamo, in bicicletta e in tenuta da corsa. Dopo la camera ardente, oggi è il giorno dei funerali del campione, morto venerdì a Giardini Naxos, in Sicilia, mentre faceva il bagno. Un malore per Gimondi, che avrebbe compiuto 77 anni il mese prossimo. L'arrivo della salma è stato accolto da un lungo applauso. Presenti fra gli altri anche molti nomi noti delle due ruote come Francesco Moser e Beppe Saronni, Paolo Salvoldelli e Moreno Argentin, Giambattista Baronchelli. La bara dell'ex campione è stata portata a spalla dall'abitazione di Gimondi fino in Chiesa dove è stata celebrata la funzione funebre. La Chiesa è piena di gente e una grande folla staziona in piazza. A celebrare il funerale nella chiesa parrocchiale del piccolo paese in cui Gomindi viveva con la moglie Tiziana sono in rappresentanza del vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi il vicario generale della diocesi di Bergamo, monsignor Davide Pelucchi, che concelebra insieme al parroco di Paladina, don Vittorio Rossi, a monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè e guida spirituale della famiglia Gimondi e ad altri sei sacerdoti, oltre ai padri Giuseppini. "Oggi abbiamo bisogno di fare memoria: ciascuno di noi potrebbe ricordare oggi uno, dieci, cento episodi in cui Gimondi è entrato nella nostra vita, per dirgli grazie delle sue vittorie di campione, che infondevano coraggio orgoglio e gioia anche agli italiani che erano all'estero a lavorare come boscaioli in Savoia o minatori in Belgio". Lo ha detto monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè e amico di lunga data della famiglia Gimondi nell'omelia. "Ma grazie lo diciamo non solo per le tue vittorie - ha aggiunto il sacerdote -, ma anche per le sue sconfitte da campione: ci hai insegnato a lottare sempre, a non cedere mai e a non arrendersi mai, perché nella vita non si può sempre vincere. Ora siamo qui a pregare per Felice e la sua famiglia, ma anche per tutti noi, per chiedere al Signore il conforto alla nostra sofferenza e la luce a tanti nostri interrogativi oscuri: perché Lui ci illumini attraverso la sua Parola". Presenti in prima fila tutte le autorità bergamasche, tra cui il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, il prefetto Elisabetta Margiacchi e i comandanti delle forze dell'ordine. Tra i tanti che hanno reso omaggio a Gimondi ieri alcuni ex ciclisti professionisti come Claudio Corti, Mirco Gualdi, Gianluca Valoti, Rossella Di Leo e Beppe Manenti. Tra le rose bianche, ieri, è spuntato anche un cartello: "Felice, salutaci Marco Pantani". La pagina Facebook 'La Felice Gimondi', dedicata alla gara che da 23 anni veniva organizzata a Bergamo dal campione, lo saluta con un post, chiedendo a tutti gli appassionati di ciclismo di lasciare un ricordo.

·         Morto Peter Fonda.

Morto a Los Angeles Peter Fonda, star di «Easy Rider». Aveva 79 anni. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Carlo Baroni su Corriere.it. Era l’anno di Woodstock. L’America si faceva crescere i capelli e viaggiava su moto dai manubri lunghi come quelli dei bisonti. La musica lasciava i juke box e si scatenava con ritmi mai sentiti prima. L’America bigotta e perbenista si scopriva debole e indifesa. Sprofondata nella palude del Vietnam. Era la nuova America di Peter Fonda, un cognome che voleva dire cinema. L’attore che, ieri, è morto a Los Angeles. Aveva 79 anni. Da tempo era malato ai polmoni. Figlio di una leggenda come Henry e fratello di Jane, la barricadera attrice icona dei diritti civili. E padre di Bridget che recitò anche con Bernardo Bertolucci. E anche Peter aveva capito che il suo mestiere aveva anche un valore sociale. In quel 1969 che capovolgeva il mondo usciva Easy Rider, la pellicola di una generazione nuovo. C’era dentro tutta la voglia di un Paese che cercava di spostare i confini della Nuova Frontiera. Quella evocata dai Kennedy che avevano pagato con un tributo di sangue quel sogno di un Paese più giusto. Peter Fonda incarnava gli ideali ribelli. «C’era nell’aria in quei tempi un’atmosfera rivoluzionaria: Hollywood era pronta per essere reinventata, la vecchia guardia aveva perso il contatto con il pubblico, soprattutto i giovani — disse in un’intervista di qualche anno fa — Ed ecco che arriviamo noi, giovani e pieni di idee che la vecchia generazione non capiva; mentre i giovani ci capivano benissimo, e non a caso hanno subito amato Easy Rider. E non eravamo soli: tanti film all’ epoca andavano fuori dalle regole, film come “Bonnie and Clyde”, per esempio. Ma Easy Rider era speciale perché noi protagonisti facevamo davvero parte della generazione del sesso, droghe e rock ‘n roll». Ma Peter Fonda era anche un attore talentuoso. Che ha ottenuto meno riconoscimenti di quanti meritasse. Ha ricevuto il Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico e la nomination all’Oscar al miglior attore per il film L’oro di Ulisse (1997). È stato inoltre nominato all’Oscar alla migliore sceneggiatura originale per il film Easy Rider, da lui prodotto nel 1969. Poco per un attore come lui. Pagò la vendetta della majors e di un mondo che negli anni Settanta cercò la restaurazione. E un ribelle come Peter dava fastidio. La sua moto di Easy Rider tormentava gli incubi dei benpensanti americani. Lui e Dennis Hopper, l’altro attore protagonista era diventati dei simboli da abbattere. Peter venne anche arrestato durante una delle manifestazioni degli anni Sessanta. Era amico anche dei Beatles e di tutto quel mondo artistico e musicale. Ci sono anche ombre nella vita di questa star di una Hollywood così poco usuale. Come l’uso di droghe e atteggiamenti ben al di là della trasgressione. Ma come per altri grandi talenti gli è bastato il successo planetario di Easy Rider per passare alla storia. Il road movie dove recitò anche un giovane Jack Nicholson. Vedere il film, il viaggio in moto da Los Angeles alla Louisiana di questi motociclisti con bandana sulla testa e un chopper sotto di loro, come un cavallo dei primi pionieri del West. C’erano gli echi dei romanzi di Jack Kerouac, l’andare su una strada dove non era importante la destinazione, ma solo il viaggio. L’America faceva i conti con una gioventù che non ne poteva più delle menzogne del potere. Ma Easy Rider fu anche il punto più alto della rivolta, lo spartiacque dopo il quale il Paese tornò a impaurirsi sotto la presidenza Nixon. Ma Peter Fonda restò un’icona di un futuro possibile.

Gloria Satta per Il Messaggero il 19 agosto 2019. «Il dolore che provo è immenso. Se n'è andato anche Peter Fonda... è troppo per me». Asia Argento appare scossa e, a tratti, cede alle lacrime. Conosceva bene l'attore-simbolo di Easy Rider, eterno ribelle di Hollywood, morto a Los Angeles a 79 anni: «Nel 2005 lo avevo diretto nel mio film Ingannevole è il cuore più di ogni cosa ed eravamo diventati molto amici, da allora non abbiamo mai smesso di scriverci e sentirci», racconta. «Quando, alla fine del 2017, denunciai di essere stata violentata da Harvey Weinstein, Peter è stato tra i primi a sostenermi, a incoraggiarmi e a prendere pubblicamente le mie parti. Bravissima, mi scrisse sui social, vai e sbrana quel cane rognoso. Non potrò mai dimenticarlo». Ora il dolore per la morte di Fonda si aggiunge all'ultimo, tumultuoso periodo della vita di Asia che, protagonista proprio del caso Weinstein e del movimento #MeToo, ha dovuto affrontare il suicidio del compagno Anthony Bourdain, la denuncia per molestie dell'attore Jimmy Bennett (che per un curioso caso del destino era il protagonista-bambino proprio di quel film da lei diretto e interpretato anche da Peter), la cacciata dalla giuria di X Factor e gli attacchi degli haters sui social, da lei chiusi all'inizio dell'anno. Ma non si è fatta piegare dagli eventi e, con forza e dignità, è andata avanti: è in post-produzione Sans Soleil, il film da lei girato in Francia e diretto dalla regista belga Banu Akseki. E mentre Easy Rider si prepara a tornare in sala il 9 settembre, distribuito dalla Cineteca di Bologna che lo ha restaurato, l'attrice-regista ripercorre commossa il suo rapporto con Fonda. «Era un uomo d'altri tempi, semplicemente meraviglioso», dice. «Fisicamente bellissimo, un vero e proprio figo, dimostrava di possedere una libertà totale sia dal punto di vista intellettuale sia da quello artistico. Era dotato di un grande senso dell'umorismo e, per quello che ho potuto sperimentare personalmente, molto generoso». E in che modo manifestava la sua generosità? «Accettò di girare il mio film, nonostante fossi una regista italiana di appena 28 anni, venendo a Los Angeles dal Tennessee dove abitava e non volle nemmeno essere pagato perché credeva troppo nel progetto». L'argomento del film era per lui cruciale, spiega Asia. «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa parla di violenze sui bambini. E Peter mi confessò che da piccolo, in casa, era stato picchiato duramente. Se a batterlo fosse stato il padre, il grande attore Henry Fonda, non volle rivelarmelo. Ma si augurava, sul set, di esorcizzare quel trauma e denunciare gli abusi sui più piccoli». Nemmeno a farlo apposta nel film (tratto dall'omonimo, controverso romanzo di J.T. Leroy), l'attrice gli aveva riservato il ruolo del nonno cattivo, fanatico religioso e manesco: «Ma quando si trattò di girare la scena in cui prende a cinghiate il piccolo protagonista, Peter si rifiutò. Non posso farlo nemmeno per finta, mi spiegò. Così, per rendere l'idea della violenza dovetti ricorrere a un gioco di ombre». Finite le riprese, i due attori rimangono in contatto. «Era una magnifica amicizia epistolare, la nostra. Il mio compagno Anthony, come me grande fan di Fonda, ne era geloso. Allora rivedevamo i film del mio amico e, alla fine, gli scrivevamo insieme. Magari per dirgli che, per la sua interpretazione in L'inglese di Steven Soderbergh, avrebbe meritato l'Oscar...». Nonostante il perdurante affetto, Asia non ha più avuto modo di lavorare con l'attore appena scomparso. Invece ha girato due film (The Keeper e La terra dei morti viventi) con l'altro protagonista di Easy Rider, Dennis Hopper, scomparso nel 2010. «Anche con lui ho vissuto una bella amicizia», racconta l'attrice e regista, «quando vivevo in California, a Venice Beach, eravamo vicini di casa. Ma scoprii presto che Peter e lui avevano rotto ogni rapporto. Anzi si detestavano, erano gelosi l'uno dell'altro e io dovevo stare attenta a non parlare di Fonda con Hopper e viceversa». Sospira, Asia: «La morte di Peter è per me una perdita irreparabile. Gli ho voluto molto bene. È stato un uomo speciale, di quelli che nella vita s'incontrano raramente».

Morto Peter Fonda, con il film cult Easy Rider segnò una generazione. Era da tempo malato di tumore ai polmoni, aveva 79 anni. L'annuncio della famiglia. Era figlio di Henry e fratello di Jane. La Repubblica il 17 agosto 2019. Addio a Peter Fonda, il leggendario attore di Easy Rider, simbolo di un'intera generazione. Fonda è morto nella sua casa a Los Angeles all'età di 79 anni. L'attore è deceduto a causa di problemi respiratori dovuti a un cancro ai polmoni, che di recente lo aveva costretto a entrare e uscire dall'ospedale. "E' uno dei momenti più tristi delle nostra vita e non siamo in grado di trovare le parole adatte per descrivere il nostro dolore", afferma la famiglia di Peter Fonda, fratello di Jane Fonda e figlio di Henry Fonda, invitando tutti i suoi fan "a celebrare il suo indomabile spirito e il suo amore per la vita. In onore di Peter, per favore brindate alla libertà". Il ruolo più importante che ha interpretato, quello che lo ha reso famoso, è stato nel film Easy Rider, il 'road movie' per eccellenza del 1969, con Dennis Jopper e Jack Nicholson. Fonda non ha solo interpretato un ruolo in Easy Rider, il manifesto della cultura hippie degli anni '60, ma ha anche partecipato alla stesura della sceneggiatura e alla sua produzione. Il 14 luglio scorso è stato il cinquantesimo anniversario del film e Peter Fonda aveva organizzato festeggiamenti per settembre. Sposato tre volte, Fonda era uno scettico di Donald Trump e nel 2018, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, stava celebrando il fatto che Paul Manafort stava per andare in prigione. Nato a New York, Fonda ha esordito nel mondo dello spettacolo nel 1961 con il debutto a Broadway. Due anni dopo invece arrivò l'esordio a Hollywood in Tammy and the Doctor prima e nella saga sulla Seconda Guerra Mondiale The Victors poi. Come Wyatt in Easy Rider diventò simbolo di un'intera generazione. Successivamente con ruoli Uleès e in altre produzioni guadagnò diversi riconoscimenti, fra i quali due Golden Globe, due nomination all'Oscar e una agli Emmy. "Con Easy Rider - disse l'attore - travolgemmo ogni regola e scatenammo le ire degli studi, che odiavano me e Dennis Hopper" racconta Peter Fonda "Solo Jack Nicholson se l'è cavata. A Hollywood pensavano che volessimo fare una rivoluzione: ci chiamavano giacobini. Il governo posso capirlo, ma perché Hollywood aveva tanta paura di noi? Certo, allora solo in certi film europei trovavo qualcosa di interessante. Ma per noi erano anni molto eccitanti". "C'era nell' aria in quei tempi un' atmosfera rivoluzionaria: Hollywood era pronta per essere reinventata, la vecchia guardia aveva perso il contatto con il pubblico, soprattutto i giovani. Ed ecco che arriviamo noi, giovani e pieni di idee che la vecchia generazione non capiva; mentre i giovani ci capivano benissimo, e non a caso hanno subito amato Easy Rider. E non eravamo soli: tanti film all' epoca andavano fuori dalle regole, film come "Bonnie and Clyde", per esempio. Ma Easy Rider era speciale perché noi protagonisti facevamo davvero parte della generazione del sesso, droga e rock 'n roll". "Quando andammo a Cannes con quel film non sapevano come prenderci: io, Dennis e Jack avevamo i capelli lunghi, fumavamo spinelli, bevevamo, eravamo come i personaggi del film, e la gente impazziva per noi. Il movimento del cinema indipendente di oggi non sarebbe esistito senza i registi di quegli anni. C' era un' atmosfera molto simile a quella che si vive qui a Sundance, con tutti questi giovani pieni di idee, all' inizio delle loro carriere, che vogliono imparare e sperimentare".

Peter Fonda: dal padre Henry alla figlia, storia di una famiglia di attori. Il ribelle di «Easy rider» è figlio di Henry e fratello di Jane. Ma la dinastia è ormai alla terza generazione. Barbara Visentin il 17 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. Peter Fonda, morto ieri a Los Angeles all’età di 79 anni, viene da una famiglia di attori fra le più celebri di Hollywood. A capo della «dinastia» c’è il padre Henry, attore leggendario, e accanto a Peter c’è la sorella Jane Fonda, star e icona dei diritti civili. Ma la tradizione continua anche con la terza generazione.

Henry Fonda. Il capostipite Henry Fonda (1905-1982) mosse i primi passi a Hollywood nel 1935 e collezionò una filmografia lunghissima fino a vincere il Premio Oscar nel 1981 con il suo ultimo film. Recitò in classici come «Alba fatale» o «Furore», fu un attore versatile, conosciuto per i ruoli positivi, fra commedie e western, ma in grado anche di virare verso personaggi più oscuri come il Frank di «C’era una volta in America» di Sergio Leone.

Jane e Peter. Henry Fonda si sposò cinque volte e diventò padre di Jane e Peter al secondo matrimonio, con Frances Ford Seymour Brokaw. Poi Fonda chiese il divorzio, facendo sprofondare la moglie in una grave depressione: Brokaw si tolse la vita nel 1950 quando era ancora sposata con l’attore. Entrambi i figli seguirono le orme hollywoodiane del padre: Jane riuscì anche a recitare con lui, proprio nell’ultimo film «Il lago dorato» del 1981 che fu anche quello che gli valse l’Oscar. Nel film debutta anche il figlio di Jane Fonda Troy Glarity che al tempo ha appena otto anni.

Il rapporto difficile con il padre. Sia Peter che Jane Fonda raccontarono di aver avuto un rapporto distaccato con il celebre padre. Peter scrisse nella sua autobiografia del 1988, intitolata proprio «Don’t tell dad» (non dirlo a papà) che non percepiva mai segnali di affetto dal padre, freddo e distante, e che solo in tarda età si dissero «ti voglio bene».

Bridget Fonda. Peter Fonda era stato sposato tre volte. Dal primo matrimonio nacquero i suoi due figli, Bridget e Justin. Bridget, classe 1964 inaugura la terza generazione di attori, studiando recitazione e prendendo parte a vari film, fra cui «Piccolo Buddha» di Bernardo Bertolucci e «Jackie Brown» di Quentin Tarantino. Smette di recitare nel 2005 per dedicarsi alla famiglia. Suo figlio Oliver, però, sembra voler dedicarsi alla musica più che alla recitazione.

Troy Garity. Anche il figlio di Jane Fonda Troy Garity ha deciso di fare l’attore. Classe 1973, ha all’attivo vari ruoli fra cui quello in «Bandits» di Barry Levinson e quello nella commedia «La bottega del barbiere», con il suo sequel. Ha ricevuto una nomination ai Golden Globe per il film «Soldier’s girl».

Marco Giusti per Dagospia il 17 agosto 2019. "We blew it, Billy!" È la misteriosa frase che chiude Easy Rider. La pronuncia il personaggio di Peter Fonda, Wyatt come Wyatt Earp, rivolto al suo amico Billy come Billy the Kid, Dennis Hopper. Chissà cosa volevano dirsi. Ora che a 79 anni se ne è andato anche Peter Fonda, l'unico rimasto tra i protagonisti del film è forse Jack Nicholson a poterci dire qualcosa. Ammesso che si ricordi qualcosa di tutto quel pazzo set. Terry Southern, che scrisse una sceneggiatura che nasceva giorno dopo giorno, ricordava un finale alternativo dove i due eroi, Wyatt e Billy, stuntman e trafficanti di coca, comprano una barchetta a Key West e se ne vanno via verso un tramonto rosseggiante. È quello che un'intera generazione di ragazzi che sono cresciuti con Easy Rider avrebbe sperato per i loro eroi. In fondo così vicini e così lontani dai personaggi di Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, che si muovono proprio nella Los Angeles del 1969,  l'anno che uscì il film cambiando per sempre Hollywood. Come fece rimase un mistero. Peter Fonda e Dennis Hopper non ripeteranno mai più da registi o da protagonisti un successo planetario del genere. E pensare che il film nasce come mezzo disastro. Un set dove tutti litigavano tra loro sepolti in un mare di canne e oltre. Nessun copione. Perfino Roger Corman, che pure aveva diretto e prodotto Wild Angels e The Trip, capolavori di bike movies con Peter Fonda protagonista accanto a Bruce Dern il primo e a Hopper il secondo, scappò a gambe levate pensando al disastro produttivo dei due neoregisti strafattoni. E fu il più grande sbaglio della sua vita. Peter Fonda aveva preparato tutto. Si era disegnato lui stesso il giubbotto di Capitan America che indosserà nel film. I due chopper li aveva costruiti invece un meccanico afro-americano già responsabile delle moto dei film di Corman precedenti. Quello di Peter Fonda, ricostruito dopo l'incendio finale, troneggia oggi in un museo delle moto in qualche luogo assurdo D'America. Il montaggio finale di Fonda e Hopper è un polpettone di 4-5 ore che oggi farebbe felice qualsiasi cinefilo. Un film immontabile. Nessuno ci capisce nulla. Henry Fonda solo aver visto il film guarda il figlio e sconsolato gli chiede dove vuole andare con questa roba. Ma Leo Jaffe, dirigente della Columbia, pur ammettendo di non capirci niente, sostiene che il film farà un sacco di soldi e lo sostiene fino in fondo. Bob Rafelson, amico dei protagonisti e produttore esecutivo, chiede a Henry Jaglom di rimontare il film tagliandolo a una lunghezza normale. Lo farà e sarà il film che conosciamo. Sui titoli comparirà solo come editing consultant. Hopper prima non ci sta, poi accetta il montaggio. Come ha dimostrato il disastro del suo secondo film da regista, titolato The Last Movie, Hopper non era allora in grado di portare a casa un film. Né di scriverlo. E Fonda, pur più motivato, non era tanto più lucido. Ma Rafelson, Jaglom, Nicholson e Terry Southern, che si inventa anche il titolo, in un primo tempo si chiamava The Loners, riescono a ricucire le quattro ore di premontato in qualcosa che farà scalpore non solo fra i giovani del tempo. A Cannes vince addirittura un premio come opera prima assieme al film italiano girato in un kibbuz L'assedio di Gilberto Tofano. Hopper e Fonda chiamano il loro regista preferito  Michelangelo Antonioni e glielo fanno vedere in anteprima. Pochi anni dopo Antonioni chiamerà Nicholson come protagonista di Professione reporter. Nel film si vedono per la prima volta degli attori che fumano marijuana di fronte alla macchina da presa. La coca e gli acidi sembra che non fossero veri. Crederci ? La musica è costruita per la pruma vomta o quasi tutta con canzoni del tempo. Fonda voleva affidare tutto a Crosby Stills e Nash, ma un pezzo scritto appositamente da Stills non viene neanche inserito. Per il soliloquio finale di Wyatt fatto d'acido al cimitero Fonda chiede a Bob Dylan di poter usare "It's Alright, Ma". Dylan vede la scena e accetta. Il film esploderà su Hollywood come una bomba, cambiandone le mode e le regole come abbiamo visto in Once Upon a Time...in Hollywood. Non a caso sarà il film preferito di Charles Manson. E segnerà per sempre la carriera dei suoi protagonisti che diffcilmente riusciranno a uscire dai ruoli di Wyatt e Billy. Decisamente meglio andrà a Jack Nicholson che pur avendo solo 17 minuti a sua disposizione grazie a Easy rider diventerà una star di prima grandezza. Ma Hopper si rovinerà con The Last Movie per poi risorgere molto dopo da attore, grazie anche al suo personaggio di cattivo pippatissimo di Blue Velvet, mentre Peter Fonda seguiterà a recitare in ruoli non molto dissimili da quello del suo Capitan America o che ne ricordano l'umore. Penso a Dirty Mary, Crazy Larry o a Race With the Devil o a Outlaw Blues. Il suo secondo film da regista, The Hired Hand, un bel western dove recita insieme al suo amico Warren Oates, era troppo sofisticato e inerte rispetto ai film di Sam Pechinpah e di Sergio leone del tempo, ma non era affatto male. Lo ripresentò lui stesso a Venezia nel 2001. Lo intervistai allora. Era identico al suo Wyatt, bello, freddo, distaccato dal mondo. Alle donne di tutto il mondo, dopo Easy Rider, piaceva moltissimo. Aveva distrutto l'immagine dei tanti Rick Dalton di allora, i Ty Hardin e Edd Byrnes che circolavano nei film italiani in cerca di nuova gloria. Fonda era venuto da noi con la sorellina Jane per un episodio di Tre passi nel delirio diretto da Jane Fonda e ci tornerà molti anni dopo per fare il protagonista di una versione Mediaset de Gli indifferenti di Mauro Bolognini con Laura Antonelli e Liv Ullman che nessuno si ricorda. In realtà ha seguitato a lavorare con gran tranquillità fino a a oggi, vincendo anche due Golden Globe, con Ulee's Gold e The passion of Ayn Rand, giostrandosi tra un film con Nicholas Cage e uno diretto da Asia Argento, Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa dal romanzo scandalo di J.T.Leroy. Tra un John Carpenter, Fuga da Los Angeles, e un Steve Soderbergh, The Limey e Ocean's Twelve, ma non riuscendo mai più a uscire dal tragitto che proprio il personaggio di Wyatt gli aveva indicato. Non capisco dove vuoi andare gli aveva detto il padre. Forse da nessuna parte era la risposta.

 “Easy Rider”, la colonna sonora di una generazione. Indimenticabile la scena in cui le Harley Davidson guidate da Peter Fonda e da Dennis Hopper sono accompagnate da "Born to be wild" degli Steppenwolf. Gabriele Antonucci il 17 agosto 2019 su Panorama. "Siate liberi di guardare lontano anche oltre l’orizzonte, liberi di viaggiare veloci o lentissimi, dove vi porta il suono schietto della moto, che annuncia il vostro arrivo come un tuono annuncia il temporale", afferma il pilota e scrittore Roberto Patrignani in un celebre aforisma sulla musica emanata dalla sua fedele due ruote.  Il rapporto tra musica e moto è sempre stato molto stretto, basti pensare all'iconica scena inziale di Easy Rider, con la trascinante Born to be wild degli Steppenwolf ad accompagnare le immagini delle rombanti Harley Davidson guidate da Peter Fonda e da Dennis Hopper. Curioso come il protagonista di uno dei film più iconici della controcultura americana, Peter Fonda, sia morto proprio nei giorni in cui si celebra il cinquantennale di Woodstock, il concerto-evento simbolo di una generazione che sognava un mondo diverso. Ancora più singolare il fatto che la colonna sonora del film, anch’essa entrata nell’Olimpo della cinematografia mondiale, non fu prevista originariamente da Dennis Hopper, che si limitò a utilizzare come commento sonoro alcuni dei suoi brani preferiti tra quelli trasmessi alla radio in quel periodo. Solo in un secondo momento propose a Crosby, Stills, Nash & Young di scrivere le musiche appositamente per la pellicola, salvo poi tornare (per motivi mai del tutto chiariti) sui suoi passi e mantenere la selezione originale. Dopo il clamoroso successo al botteghino del film nell'estate del 1969, la ABC/Dunhill Records decise di pubblicare ufficialmente la colonna sonora del film, da cui fu esclusa la celebre versione di The Weight di The Band perché la Capitol Records non ne concesse i diritti legali. La canzone fu inserita ugualmente nella versione del gruppo statunitense Smith (da non confondere con gli Smiths di Morrissey e Johnny Marr). Anche Let's Turkey Trot di Little Eva e Flash, Bam, Pow degli Electric Flag, che già facevano parte della colonna sonora del film Il serpente di fuoco di Roger Corman, furono esclusi dall’album di Easy Rider. Gli Steppenwolf sono protagonisti della colonna sonora con due brani indimenticabili, la già citata Born to Be Wild e The Pusher, così come Roger McGuinn, che ha interpretato It’s Alright, Ma (I’m only bleeding), composta da Bob Dylan, e Ballad of Easy Rider. Non poteva mancare Jimi Hendrix, il chitarrista più influente della storia del rock, con la straordinaria If 6 Was 9, tratta dall'album Axis: Bold as Love del 1967 e utilizzato anni dopo anche nella colonna sonora di Point Break - Punto di rottura.

·         Addio a Nadia Toffa. 

Addio a Nadia Toffa. L’annuncio delle Iene: «Ciao, niente sarà più come prima». Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Corriere.it. «Niente per noi sarà più come prima, ciao Nadia». Con queste poche parole affidate a Twitter, la redazione della Iene ha dato la notizia che nessuno avrebbe voluto leggere. Nadia Toffa, la giovane inviata e poi conduttrice della trasmissione, è morta. Aveva 40 anni e da tempo lottava contro il cancro. Da un mese non c’erano più notizie sui social network. Lei che, con grande dignità e senza perdere mai il sorriso, aveva deciso di condividere con chi la seguiva questo capitolo complicatissimo della sua vita con grande onestà. Lo aveva fatto dopo che la notizia di un suo malore aveva letteralmente lasciato tutta Italia con il fiato sospeso: era il 2017. Anche in quel caso, era inviata per la trasmissione di Italia 1: si trovava a Trieste quando ha perso i sensi per quello che allora era stato definito «un malore». Erano seguite due settimane di ricovero in ospedale. Dopo qualche settimana, aveva raccontato l’episodio senza indugiare sull’aspetto tragico della vicenda, ma, semplicemente spiegando: «All’inizio ho pensato fosse successo un incidente perche’ sentivo un’ambulanza, ma dopo un po’ mi sono resa conto che forse sentivo la sirena un po’ troppo vicina. Quindi ho realizzato e mi sono detta: “Vuoi vedere che è la mia ambulanza?”».

Addio a Nadia Toffa: è morta la conduttrice de Le Iene. L'inviata del programma di Italia 1 è scomparsa un anno e mezzo dopo l'annuncio della malattia, in diretta tv. Aveva raccontato senza ipocrisie le cure sui social. Francesco Canino il 13 agosto 2019 su Panorama. "Niente per noi sarà più come prima, ciao Nadia". Dopo aver combattuto un anno e mezzo con grinta contro la malattia, Nadia Toffa non ce l'ha fatta ed è morta a 40 anni, nelle prime ore di martedì 13 agosto. Ad annunciarlo, attraverso i loro profili social, sono stati gli amici e colleghi de Le Iene e in pochi minuti la notizia, che ha lasciato tutti senza parole, è diventata virale.

È morta Nadia Toffa, addio alla conduttrice de Le Iene. Il malore nel dicembre del 2017, l'annuncio della malattia in diretta tv - proprio a Le Iene - e poi la voglia di continuare a lavorare e vivere nonostante le cure continue per provare a fermare il male che non sembrava proprio volersi arrestare, come aveva confermato lei stessa a Verissimo. Nadia Toffa, 40 anni compiuti il 10 giugno scorso, non ce l'ha fatta ed è morta martedì 13 agosto.  "Le Iene che piangono la loro dolce guerriera, inermi davanti a tutto il dolore e alla consapevolezza che solo il tuo sorriso, Nadia, potrebbe consolarci, solo la tua energia e la tua forza potrebbero farci tornare ad essere quelli di sempre", scrivono Davide Parenti e gli altri colleghi de Le Iene, annunciando con un lungo post via social la sua scomparsa. 

La battaglia contro la malattia raccontata via social. L'ultimo post pubblicato su Facebook da Nadia Toffa risale al 1° luglio scorso. Il viso gonfio per le cure, gli occhi sofferenti, ma l'immancabile sorriso di una donna che ha voluto mordere la vita fino all'ultimo istante. Non si è arresa mai, racconta chi la conosce. Si è aggrappata ad ogni grammo di speranza, ha creduto nelle cure, ne ha parlato e ha condiviso il suo Golgota, ha sfidato il tabù parlando di malattia beccandosi insulti - dopo quel suo "il cancro è un dono" - becere insinuazioni e persino minacce di morte. "Perché avrei dovuto rinunciare a essere me stessa nei momenti difficili? Perché mettere a tacere questo mio essere così estroversa, piena di voglia di vivere, di voglia di farcela e di voglia di condividere quello che mi accade?", spiegava risoluta. Parrucca in testa, trucco e via in diretta tv. Ecco che cosa ci resta di lei: le sue inchieste, il suo lavoro (era una stakanovista di ferro, anche quando il cancro aveva preso il sopravvento, proprio come Fabrizio Frizzi) ma soprattutto la forza dirompente del suo messaggio, che spesso è stato frainteso o poco compreso. Lavorare, andare avanti, provare a vivere una normalità minata dalla paura e dal dolore, condividere con gli altri anche la sofferenza più profonda per dare voce ai migliaia di malati che di voce non ne hanno. "Rivendico il diritto di parlare apertamente della nostra malattia, che non è esibizionismo né un credersi invincibili, anzi: è un diritto a sentirsi umani. Anche fragili, ma forti nel reagire", provava a spiegare. C'è riuscita? Stando ai migliaia di messaggi di affetto che in poche ore hanno intasato i social, si direbbe proprio di sì. Forse perché anche chi non la conosceva, viveva con lei la malattia, ne condivideva la voglia di non piegarsi, il tentativo di scrollarsi di dosso quella sofferenza bastarda che ogni giorno vivono centinaia di migliaia di persone. Addio Nadia. 

Addio a Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene morta a 40 anni. È morta oggi Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene a cui era stato diagnosticato un tumore nel dicembre 2017. Francesco Curridori, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. È morta oggi a soli 40 anni la ‘Iena’ Nadia Toffa a cui, nel dicembre 2017, era stato diagnosticato un tumore. L'annuncio è arrivato dai profili social de Le Iene, la trasmissione televisiva che l'ha resa famosa. "Niente per noi sarà più come prima", si legge nel lungo post.

Morta a 40 anni Nadia Toffa. Il suo ultimo post risale al primo luglio, quando ha pubblicato una foto sorridente con il suo cane: "Io e Totò unite contro l’afa", scriveva, "E dalle vostre parti come va? Vi bacio tutti tutti tutti".

Gli esordi nelle reti locali. Nadia nasce il 10 giugno 1979 a Brescia dove prende il diploma di maturità classica e, poi, si trasferisce a Firenze per laurearsi in lettere con percorso storico-artistico con una tesi sulla Storia della chiave iconografica di San Pietro. La sua prima partecipazione televisiva arriva a 23 anni su Tele Santerno, una tivù locale dove ha presentato il programma di intrattenimento Dolce e amaro. Prima di iniziare a lavorare per Mediaset, per quattro anni conduce vari programmi e telegiornali su Retebrescia.

L'arrivo di Nadia Toffa alle Iene. Nel 2009 diventa un'inviata del programma di Italia Uno, Le Iene, per il quale confeziona numerosi servizi sulle sale di slot machine, sullo smaltimento illegale dei rifiuti in Campania ad opera della camorra e sui casi di tumori riscontrati nel "triangolo della morte" tra Napoli e Caserta e sulla "terra dei veleni" a Crotone. Finisce sotto processo per presunta diffamazione dopo la sua inchiesta sulle truffe che alcune farmacie avrebbero compiuto ai danni del servizio sanitario nazionale. Nel 2014 pubblica il libro Quando il gioco si fa durosul fenomeno della ludopatia in Italia e, nel 2015, vince il primo premio nella sezione TV del Premio Internazionale Ischia di Giornalismo.

I servizi sui vaccini e sul Gran Sasso. Sempre nello stesso anno debutta su Italia1 con Open Space, un talk show di prima serata tutto suo. Qui innescherà molte polemiche una puntata dedicata al tema dei vaccini con ospiti molto particolari. Da una parte Red Ronnie sosterrà che se ne può fare a meno e che basta curarsi con rimedi naturali, dall’altra Alice Pignatti, una mamma che aveva iniziato una campagna a favore delle vaccinazioni pediatriche e due medici su posizioni completamente opposte sul tema. Dopo questa puntata la Toffa si ritrova contro tutto il mondo novax. Dal 2016 conduce, insieme a Pif e Geppi Cucciari, Le Iene, nella puntata infrasettimanale, mentre dall'autunno dello stesso anno cambia partners e passa alla puntata domenicale. Un suo servizio del novembre 2017 sul SOX, uno degli esperimenti di fisica delle particelle realizzato nei Laboratori nazionali del Gran Sasso, viene smentito dal mondo accademico che critica la Toffa per aver paragonato quello che sarebbe potuto succedere in Abruzzo con il disastro di Fukushima. Il filosofo Gilberto Corbellini, sul Foglio, aveva contestato “il metodo Iene” dicendo: “Nel caso del Gran Sasso l’effetto paura è scatenato dalla parola 'nucleare' e dall’associazione mistificante tra un esperimento con materiale radioattivo, condotto in condizioni super-controllate, e centrale nucleare, che nell’immaginario collettivo è associata a catastrofi devastanti”. E ancora: “Naturalmente la manipolazione psicologica va condita con opportune falsità. E cosa c’è di più manipolatorio che affermare, falsamente, che gli scienziati dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) hanno tenuto nascosto l’esperimento e i rischi?”. Il magazine Focus, invece, aveva confutato ogni paragone con il Giappone: “Il confronto, o anche la semplice associazione di idee, tra il disastro di Fukushima e l’esperimento SOX non si fonda su argomenti concreti né realistici, ed è un’operazione mediatica scorretta che ha come effetto quello di diffondere tra le persone uno stato di ingiustificato allarme”.

Il malore e la scoperta del tumore. Il 2 dicembre 2017 ha un malore nella sua camera d'albergo a Trieste e viene ricoverata nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale di Cattinara. L'11 febbraio 2018 ritorna a condurre Le Iene e rivela di aver sconfitto un tumore grazie alla chemioterapia e alla radioterapia. “Ho avuto un cancro. In questi mesi mi sono curata: prima ho fatto l’intervento, poi la chemioterapia e la radioterapia. L’intervento ha tolto interamente il tumore, ma poteva esserci una piccola cellula rimasta e quindi ho seguito i consigli del medico e ho seguito le cure previste. Ora è tutto finito: il 6 febbraio ho finito la radio e la chemio”, aveva detto nel corso della trasmissione. Affermazioni che avevano suscitato forti polemiche sui social da parte dei malati di cancro tanto che la Toffa aveva, poi, precisato su Instagram: “Nessuno di noi può parlare di guarigione e nemmeno la sottoscritta lo ha fatto”. Una frase che, forse, lasciava presagire che non tutto era risolto. Domenica 8 aprile, infatti, annuncia via Twitter che non avrebbe partecipato al programma: “Ciao ragazzi, - si legge sul suo profilo - stasera non sarò alla conduzione del mio programma preferito, #LeIene, perché negli ultimi giorni ho fatto delle cure che mi hanno provata un bel po' e quindi mi tocca saltare la puntata di questa domenica. Vi prometto comunque che da settimana prossima tornerò”.

L'amore di Nadia Per il Salento. Le iene show, la puntata del 30 novembre 2015. Samuele Perotti Lunedì, 30 Novembre 2015.  È andata in onda su Italia1 una nuova puntata de Le Iene Show, condotto da Ilary Blasi e Teo Mammucari con le voci fuori campo del Trio Medusa. L’atteso documentario che per la prima volta racconta il calcio dal punto di vista degli arbitri con protagonista Nicola Rizzoli, è andato in onda in chiusura di puntata. Riviviamo tutti i servizi odierni. Soliti inizio danzante, con successive simpatiche prese in giro tra i due conduttori, spalleggiati dal Trio Medusa. Il primo servizio è di Nadia Toffa, che ancora una volta si trova in Puglia. Tra Manduria e Sava si vuole costruire un depuratore che scarica in mare. Il geologo Del Prete aveva presentato un progetto di scarico al suolo, con la possibilità di riutilizzarle in agricoltura, ma non ha ricevuto consensi delle istituzioni, così come tutte le soluzioni alternative. Ad approvare questo è stato l’ex governatore della regione Puglia Nichi Vendola, che oltre a rigettare le varie opzioni, gira la patata bollette all’attuale presidente Michele Emiliano; prima di salutarla con un numeroso vaffa. Nemmeno lui però ha rispettato le promesse preelettoriali. Nadia Toffa si reca in Puglia, nel territorio compreso tra Manduria e Sava. Quest’area protetta rischia di essere compromessa a causa di un progetto che prevede la costruzione di un depuratore che raccolga gli scarichi fognari e che, grazie a una tubatura di qualche chilometro, scarichi poi direttamente in mare. Tutto è iniziato 10 anni fa quando la Regione Puglia si è trovata a dover risolvere un problema: da una parte Manduria, con un depuratore vecchio e inquinante che andava sostituito, dall’altra il paese di Sava, non dotato di depuratore. Contro l’implementazione del progetto si sono schierati ben 16 comuni. La Iena intervista in merito il Sindaco di Avetrana Mario De Marco, Francesco Di Lauro del WWF Taranto, Mario Del Prete, geologo e professore Università di Potenza, il Sindaco di Manduria Roberto Massafra, il Direttore Legambiente Puglia Maurizio Manna, che sottolineano come siano state presentate alla Regione Puglia diverse proposte alternative e come una misura di questo tipo possa provocare ingenti danni ambientali, nuocendo profondamente anche al turismo. Nadia Toffa raggiunge infine Nichi Vendola, l’allora Presidente della Regione Puglia che sposò fin dal principio il progetto, e Michele Emiliano, attuale Presidente Regione Puglia.

Che fine farà lo scarico a mare di Manduria? Giovanni Drogo l'1 Dicembre 2015 su Next Quotidiano. Ieri le Iene hanno mandato in onda un servizio di Nadia Toffa sull’annosa questione del depuratore con annesso scarico a mare tra Manduria e Avetrana a poche centinaia di metri dalle aree protette diFoce del Chidro, le Saline Monaci-Palude del Conte senza dimenticare le dune di Torre Colimena. Un mese fa dello scarico fognario alla foce del fiume Chidro a Marina di Manduria se n’era occupato Pinuccio per Striscia La Notizia.

La storia dello scarico a mare di Marina di Manduria. La situazione è grossomodo questa, da diversi anni è in progetto la creazione di un sistema fognario per le marine del litorale di Manduria, nonché i comuni di Manduria e Sava. Il problema, se vogliamo chiamarlo solo così, è che il progetto approvato dalla Regione Puglia nella scorsa legislatura prevedeva lo scarico in mare delle acque reflue del depuratore. Scarico la cui ubicazione era stata individuata sul litorale tra due aree marine protette in prossimità della foce del fiume Chidro tra San Pietro in Bevagna, Specchiarica e Torre Colimena. Vale la pena di notare che il Chidro è un fiume già fortemente inquinato; già nel 2009 Legambiente e Goletta Verde avevano denunciato la presenza di numerosi scarichi abusivi lungo il corso del fiume. Cosa prevede il progetto? Innanzitutto la costruzione del depuratore e dei collettori fognari, dal depuratore poi dovrebbe partire un’ulteriore conduttura verso la spiaggia da dove proseguirà in mare per altri novecento metri fino a raggiungere i 14 metri di profondità. E lì, di fronte a uno dei litorali più belli del Salento verranno rilasciate in mare tonnellate di cacca. Non che sia proprio un’idea innovativa, anzi è un progetto vecchio dal punto di vista delle soluzioni tecniche, ma la società Acquedotto Pugliese, che si occupa della gestione delle fognature, l’ha già adottata altrove in Salento. Anche lì all’interno di un’area marina protetta, quella di Torre Guaceto. Dal 2011 le comunità di Manduria e dei comuni limitrofi hanno iniziato una battaglia, al grido di No allo scarico a mare, e sono state avanzate diverse proposte alternative. Perché, spiegano, un’opera del genere anche se necessaria (come in altre parti d’Italia i comuni interessati non hanno uno sistema di fognature) rischierebbe di provocare danni irrimediabili all’ambiente e di conseguenza alla principale industria salentina: il turismo. Chi mai vorrebbe fare il bagno in acque contaminate? Nessuno. Però l’ammodernamento del sistema fognario resta una necessità e quindi la Regione in questi anni non ha saputo fare di meglio che mandare avanti il progetto. Il professor Mario Del Prete(ordinario di Geologia e Idrogeologia all’Università della Basilicata e consulente scientifico del Comune di Avetrana) ha proposto una depurazione totale degli scarichi fognari in modo da poter riutilizzare l’acqua impiegandola per l’irrigazione delle colture e per altri scopi civili. Maurizio Manna di Legambiente Puglia propone anche l’utilizzo della fitodepurazione, ovvero il trattamento delle fogne successivo al passaggio in depuratore in appositi bacini dove le piante verrebbero utilizzate per raffinare la depurazione delle acque.

Le responsabilità di Nichi Vendola. La colpa di tutta questa situazione è imputabile all’ex-Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, che pure appartiene ad un partito che si chiama Sinistra Ecologia e Libertà. Intervistato dalla Toffa Vendola nega ogni addebito scaricando (lol) tutto sul nuovo Presidente Michele Emiliano. Vendola, dicendo che tutto è stato fatto in ottemperanza ai criteri normativi vigenti (in realtà già nel 2010 il TAR aveva bloccato la costruzione del depuratore di Manduria-Sava) ad un certo punto sbotta e manda affanculo la Toffa. Vendola oggi su Twitter tace, ma ieri aveva retwittato un tweet di Sinistra Italiana molto critico nei confronti dell’atteggiamento poco ambientalista del Governo Renzi.

No alle trivelle in mare ma sì alle fogne in mare? Eppure, come riporta il quotidiano La Voce di Manduria, all’epoca la Regione Puglia aveva dichiarato che tra tutte le varianti del progetto ce n’era una (condotta sottomarina lunga 3600 metri e profonda 35) considerata “la più cautelativa” mentre quella adottata nella fase finale e che si dovrebbe costruire (condotta di 1000 metri e 10 di profondità) veniva definita “non ottima, in quanto lo scarico dei reflui depurati avviene all’interno dell’area Sic” (Sito di interesse comunitario). Come mai la Regione ha scelto di mandare avanti questo secondo progetto?  

Emiliano ha già bloccato i lavori,  ma solo fino al 4 dicembre. A questo punto la palla passa a Michele Emiliano, che in campagna elettorale aveva promesso proprio alla Toffa di fare il possibile per fermare la costruzione dello scarico a mare di marina di Manduria. A quanto pare Emiliano ha mantenuto la promessa, appena eletto ha bloccato i lavori. Ieri su Twitter il Presidente della Regione aveva detto di aver mantenuto la promessa: Alcuni utenti però lo incalzano, è vero che il progetto del depuratore è stato bloccato ma solo fino al 4 dicembre, come mai? Emiliano spiega che manca un progettista che firmi il nuovo progetto, quello alternativo. Davvero la Regione Puglia non è riuscita a trovare in sei mesi qualcuno in grado di farlo?

NADIA TOFFA IL VAFFA DI VENDOLA E IL DEPURATORE IN PUGLIA CHE SCARICA IN MARE. VIDEO LE IENE. Scritto da Lorella Casella il 30 novembre 2015. Ancora una volta uno dei servizi più attesi in questa serata di lunedì 30 novembre di Le Iene Show è stato quello di della iena Nadia Toffa. La Toffa questa volta si è recata in Puglia, precisamente alle porte del Salento, per occuparsi del progetto di un depuratore che scarica direttamente in mare. Cosa ha portato a casa? Un Vaffanculo dell’ex presidente della regione, Nichi Vendola. Nadia Toffa questa volta si è recata nella bellissima Puglia, precisamente nel territorio compreso tra Manduria e Sava, per occuparsi di una questione che da anni indigna l’intera regione. Quest’area protetta, e ribadiamo protetta, rischia di essere compromessa gravemente e irrimediabilmente a causa di un progetto che prevede la costruzione di un depuratore che raccoglie gli scarichi fognari e che, grazie a una tubatura di qualche chilometro, scarichi poi direttamente in mare. Ebbene sì, avete capito bene, lo splendido mare del salento e il turismo si questi comuni, potrebbe essere presto compromesso a causa di questa spiacevole vicenda iniziata ben 10 anni fa, quando la regione Puglia si è trovata a dover risolvere un problema: da una parte Manduria, con un depuratore vecchio e inquinante che andava sostituito, dall’altra il paese di Sava, non dotato di depuratore. Per ovviare a questo problema, ha quanto pare, è stato scelto il metodo peggiore, visto che la stessa Toffa ci ha presentato delle proposte alternative ben più ecologiche. E a proposito di ecologia, la iena ha deciso di interrogare a riguardo l’ex presidente della regione Puglia, Nichi Vendola (presidente di Sinistra Ecologia Libertà), che nel 2011 ha approvato il progetto, sposato sin dall’inizio. Se avete perso il servizio di Nadia Toffa su un mare di… cacca, andato in onda nella puntata di stasera lunedì 30 novembre 2015 a Le Iene Show.

È morta Nadia Toffa, i malati di Taranto perdono la loro voce più importante. Ci mancherai. Gianluca Lomuto bari. Ilquotidianoitaliano.com il  13 Agosto 2019. Dopo tutto il clamore che l’ha circondata per mesi, tra l’affetto dei fan e l’odio dei famigerati hater, alla fine se n’è andata in silenzio. Nadia Toffa non c’è più, il cancro se l’è portata via. La Iena più famosa dl bel paese, nota in ugual misura per il suo sorriso e la sua tenacia di conduttrice e inviata della trasmissione televisiva di Italia1, non ce l’ha fatta a vincere la sua personalissima battaglia di cui non ha fatto mistero, battaglia che tanto per cambiare le ha attirato una valanga di critiche dei soliti leoni da tastiera. La notizia, a dirla tutta, era nell’aria da un po’, il misterioso silenzio, calato improvvisamente su di lei, non faceva presagire niente di buono. Moltissimi hanno sperato fino all’ultimo che si riprendesse, lei stessa via social ha più volte mandato messaggi di incoraggiamento e di speranza. Alla fine la malattia ha vinto sul corpo, ma non su Nadia, le cui fotografie oggi riempiono le bacheche di facebook: “Quelli come te non perdono mai” scrive la redazione del programma nel dare il triste annuncio, e hanno ragione. In Puglia era diventato il volto dei malati di Taranto, d quei morti di inquinamento che per molto tempo tantissimi politici, locali e nazionali, hanno fatto finta di non vedere. Di Taranto era anche diventata cittadina onoraria. Si era battuta anche per la Xylella, che sta flagellando gli ulivi del Salento. In Italia era diventata la faccia di una trasmissione, che nel bene e nel male, tra alti e bassi di credibilità, ha riportato l’approfondimento giornalistico in prima serata. È arrivato per lei il momento di passare il testimone, certa che qualcun altro porterà avanti le sue battaglie. Riposati ora, guerriera. Ci mancherai.

Morta Nadia Toffa, la Iena sempre in prima linea a difesa degli ulivi del Salento. Leccenews24.it il 13 Agosto 2019. La popolare conduttrice è morta a causa di un grave male che l’aveva colpita. È stata spesso in Salento per parlare di emergenza xylella. Le Iene, “Niente per noi sarà più come prima”. “E forse ora qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, NON PERDE MAI. Hai combattuto a testa alta, col sorriso, con dignità e sfoderando tutta la tua forza, fino all’ultimo, fino a oggi. D’altronde nella vita hai lottato sempre. Hai lottato anche quando sei arrivata da noi, e forse è per questo che ci hai conquistati da subito”, con questo post commovente sul loro profilo facebook “Le Iene” hanno annunciato la morte di Nadia Toffa. La popolare conduttrice della trasmissione di Italia Uno aveva compiuto da poco 40 anni e da tempo lottava contro una grave malattia. Tutto era iniziato nel dicembre 2017, quando, a Trieste per un servizio, avvertì un malore. Da qui la diagnosi di una grave malattia contro la quale ha combattuto fino all’ultimo, con dignità e senza mai nascondersi. Nadia Toffa è stata molto legata al Salento, tantissime, infatti, sono state le sue visite sul territorio per occuparsi dell’emergenza xylella. “Le Iene”, infatti, è stata tra le primissime trasmissioni scese in campo per difendere gli ulivi e porre un fascio di luce sul dramma che hanno vissuto tantissimi agricoltori e diversi sono stati i servizi, firmati proprio dalla conduttrice, nei quali non solo si è parlato del batterio ma, con l’aiuto di esperti, si è cercata una soluzione per debellarla.

“Le Iene che piangono la loro dolce guerriera– concludo i colleghi – inermi davanti a tutto il dolore e alla consapevolezza che solo il tuo sorriso, Nadia, potrebbe consolarci, solo la tua energia e la tua forza potrebbero farci tornare ad essere quelli di sempre. Niente per noi sarà più come prima”.

Xylella. Le Iene portano bene…speriamo! Nadia Toffa tra gli ulivi del Salento. Leccenews24.it il 28 Marzo 2015. Le Iene accendono i riflettori sulla xylella fastidiosa e sulla sperimentazione targata Copagri. Fabio Ingrosso ha accompagnato l’inviata Nadia Toffa nelle campagne del Salento. Gli ulivi del Salento non sono solo e soltanto una questione che interessa quel lembo di terra compreso tra l’Adriatico e lo Ionio, o tutt’al più l’intero tacco dello stivale. Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali. La faccenda Xyllella fastidiosa, che di per sé è seria, merita di essere letta con la lente di ingrandimento della cultura e della scienza che insieme devono dare risposte concrete a quei contadini che – come raccontato a Leccenews24 – nel giro di pochi anni si sono ritrovati senza quelle piante considerate quasi “amiche”. Oggi, a volerne sapere di più, sono state Le Iene, la nota trasmissione di approfondimento giornalistico di Italia1 che prova ad andare dietro alle questioni per vederne risvolti spesso trascurati. A visitare il Salento ed i suoi ulivi è giunta così Nadia Toffa, viso noto per le sue inchieste nel settore del gioco d’azzardo e delle prescrizioni farmaceutiche. La bionda inviata ha voluto conoscere i dettagli della ricerca coordinata da Copagri, una ricerca che non vuole mettersi di traverso al piano presentato dal commissario straordinario, Giuseppe Silletti, nominato dalla Protezione Civile per la costituzione del famoso e famigerato cordone sanitario, ma fornire una chiave di lettura diversa e, perché no, una soluzione prima di giungere a ciò che deve essere l’extrema ratio e non il punto di partenza per fronteggiare l’emergenza. Così, Fabio Ingrosso e Nadia Toffa hanno fatto visita ad alcuni uliveti situati nel Nord Salento che saranno oggetto della sperimentazione portata avanti dall’Università di Foggia con i professori Lops e Carlucci e dell’Università di Lecce con Luigi De Bellis, attraverso l’uso di molecole naturali. Ci si è fermati anche in appezzamenti che, pur trovandosi, in un’area drasticamente colpita dal batterio killer presentano alberi non infetti, ma anzi rigogliosi a testimonianza che sulla Xylella e sulla sua capacità di propagarsi non solo non è stato detto tutto, ma forse ancora tutto non si sa. Ecco perché sulla ricerca bisogna spingere e accendere i riflettori – come stanno facendo Le Iene –  non può che essere positivo per il nostro territorio. 

“LE IENE”, NADIA TOFFA NEL SALENTO PER SALVARE GLI ULIVI. Paolo Pagnotta il 10 Novembre 2015 su zon.it. Nadia Toffa è tornata in Puglia dopo l’abbattimento di ulivi secolari, simbolo della regione. È stata trovata una cura per sconfiggere il batterio della Xylella. Il pianto inconsolabile di un contadino, mentre pronuncia la frase: «Mi si spezza il cuore», ha aperto il servizio sugli ulivi del Salento dell’inviata Nadia Toffa, andato in onda ieri sera durante la 7ª puntata de “Le Iene”, su Italia 1. Dopo la parentesi di “OpenSpace”, la “iena” torna in Puglia, precisamente in provincia di Brindisi, dove hanno iniziato a sradicare centinaia di ulivi centenari a causa del batterio della Xylella; la giornalista bresciana aveva già affrontato il problema nella puntata andata in onda il 2 aprile scorso, dopo che gli ulivi erano stati colpiti da uno strano disseccamento in forte espansione, costituendo il primo caso al mondo, dopo che questo batterio killer aveva già devastato i vigneti della California e degli agrumeti in Brasile. L’UE ha chiesto all’Italia un intervento drastico per prevenire il contagio di altre piante, ma un assurdo decreto per l’emergenza Xylella stabilisce che oltre a estirpare gli ulivi infetti, bisogna abbattere anche quelli sani nel raggio di 100 metri, così molti ulivi carichi di olive sono già stati rasi al suolo, creando zone desertiche. «Vedere abbattute delle piante sane con delle olive sopra, piene di vegetazione, ti fa male al cuore» dice Fabio Ingrosso, presidente della Copagri (Confederazione Produttori Agricoli) di Lecce. Ma un barlume di speranza lo restituisce la prof.ssa Antonia Carlucci, dell’Università di Foggia, secondo la quale questo batterio che ammala gli alberi può essere curato, dimostrando questa tesi con l’illustrazione di fotografie che ritraggono alberi “scheletrici” che dopo i trattamenti hanno ripreso a fiorire e persino a fruttificare, sottoponendo questi risultati di una rinascita insperata al ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, che si è mostrato immediatamente disponibile a incontrare i ricercatori per trovare delle soluzioni. Uno studio positivo che ha convinto anche Francesco D’Alonzo, presidente degli Agronomi della provincia di Brindisi, il quale scarta categoricamente l’ipotesi dell’abbattimento, aggiungendo che la cura è l’unico metodo per risolvere il problema. Il servizio prosegue con l’abbraccio dell’inviata al contadino affranto, mentre un altro non ha la forza di guardare quando abbattono gli ulivi sotto i suoi occhi disperati, invece un altro ancora si interroga sul futuro di questi terreni e dei suoi figli. L’inchiesta poi si chiude con la Toffa che mostra un ulivo secolare di valore inestimabile, con la targhetta che lo certifica come patrimonio UNESCO, che secondo Al Bano, originario proprio del brindisino, ha 900 anni, la stessa età della Torre di Pisa e più giovane di due secoli rispetto alla nascita del Sommo Poeta Dante Alighieri, in un’idea straordinaria di antichità. «Questi ulivi sono le mie braccia, la mia infanzia, la mia fantasia; questi giganti della natura hanno ancora diritto alla vita. La Puglia senza ulivi è come il Vaticano senza la Cappella Sistina» ha asserito il cantante di Cellino San Marco, mentre scruta il simbolo della sua terra. La “iena” ha interpellato anche Caparezza, un altro pugliese appartenente al mondo musicale: «L’albero di ulivo è esattamente come un parente, per cui quando si ammala un parente la prima cosa che pensi è salvarlo, non abbatterlo» ha dichiarato ai microfoni de “Le Iene” il rapper di Molfetta. Speriamo che l’Unione europea ponga fine a questi folli abbattimenti degli ulivi, fonte di ricchezza e simbolo della regione più bella del mondo (un riconoscimento testimoniato anche da National Geographic); non ricordiamoci della Puglia solo d’estate per soddisfare i nostri desideri vacanzieri, la nostra voce può salvare i giganti del Salento!

La giornalista de “Le Iene” Nadia Toffa torna in Salento per occuparsi di ulivi, Xylella, eradicazioni e responsabilità. Olio Salve 29 febbraio 2016. Xylella, eradicazioni e responsabilità: Nadia Toffa, torna in Salento. La giornalista, da quest’anno anche co-conduttrice de “Le Iene”, nota trasmissione di Italia1, è tornata in Salento dopo il primo servizio per affrontate il problema che affligge gli ulivi: la Xylella. L’intento della giornalista è quello di informare su ciò che sta accadendo realmente in Salento e descrivere la situazione attuale, analizzando la condizione degli ulivi e le eventuali responsabilità del Governo e del Ministero delle Attività Agricole. L’Unione Europea con il “Decreto emergenza Xylella” ha ordinato le eradicazioni coatte di interi uliveti. Il Decreto prevede che ogni ulivo, anche se con un solo ramo secco, sia estirpato e si taglino tutti gli alberi, anche sani, in un raggio di 100 metri. Le immagini del servizio, mostrano alcuni terreni in cui sono già iniziate le prime eradicazioni: una situazione tragica con alcune famiglie che hanno subito ingenti danni e che sono state costrette a vedersi privare dei loro ulivi, dal grandissimo valore affettivo e storico. L’inchiesta ha rivelato che la Xylella, questo batterio killer, contrariamente a quanto si possa pensare, esiste già da circa 30 anni, secondo quanto affermato dal Procuratore di Lecce, Cataldo Motta.

Xylella, eradicazioni e responsabilità: Nadia Toffa in Salento ha cercato di far luce su una vicenda che sembra quindi poco chiara. Non si riesce a capire, infatti, perché nel frattempo siano state ordinate le eradicazioni coatte. Alcuni di questi alberi, infatti, sono sopravvissuti a secoli di storia e di accadimenti, sono stati testimoni di eventi importanti, tanto da essere considerati “Patrimonio dell’Umanità” da parte dell’UNESCO, come affermato dalla giornalista. Provate a pensare: alcuni di loro erano già presenti nel Medioevo, prima di Dante. Per questo il loro valore storico e culturale è inestimabile e il nostro compito dovrebbe essere quello di tutelarli e prendercene cura, non certo quello di abbatterli. In casi come questi si dovrebbe investire nella ricerca, invece di spendere i soldi per le eradicazioni. L’Università di Foggia nel frattempo ha dimostrato che la Xylella si può curare, curando tutti e 120 ulivi che sembravano condannati a morte. Ci sono riusciti utilizzando dei prodotti biologici a basso impatto ambientale. Questo perché in molti casi si rischia di confondere la Xylella con la “sindrome di disseccamento precoce” dell’ulivo. Questo è un punto fondamentale perché sembra evidenziare la mancanza di collaborazione tra il Ministero e gli scienziati coinvolti, che potrebbe invece portare alla soluzione definitiva del problema. A tal proposito, la Procura di Lecce ha ordinato lo stop delle eradicazioni, ritenute dannose e non risolutive, ed ha aperto delle indagini per disastro ambientale colposo e per diffusione colposa della malattia delle piante perché si sospetta che le persone colpevoli delle eradicazioni, abbiano agito consapevoli del danno che avrebbero creato. Olio Salve.

Eleonora Brigliadori e il commento su Nadia Toffa. Nadia Toffa è stata oggetto di un commento raggelante di Eleonora Brigliadori che su Facebook così scrive del tumore che ha colpito la Iena: "Chi è causa del suo mal pianga se stesso il destino mostra le false teorie nella vita e dove la salute scompare la falsità avanza". Intanto monta la protesta contro la partecipazione dell'attrice a Pechino Express, soprattutto per le pericolose dichiarazioni contro la medicina tradizionale e le cure contro il cancro.

Eleonora Brigliadori attacca Nadia Toffa e viene cacciata dal cast di Pechino Express. Huffingtonpost.it il 20/06/2018. La decisione di Rai 2, dopo le dichiarazioni al vetriolo della Brigliadori sul tumore della conduttrice delle Iene. "Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Il destino mostra le false teorie nella vita e dove la salute scompare la falsità avanza". Sono queste le parole usate da Eleonora Brigliadori in un post in risposta ad un utente che ricordava un servizio di Nadia Toffa per Le Iene sul cancro. Un messaggio - rimosso da Facebook ma riportato dagli screenshot di molti utenti - che ha scatenato l'indignazione (non solo del popolo social) tanto da spingere Rai 2 a escludere l'ex annunciatrice dal programma Pechino Express - Avventura in Africa a cui doveva partecipare con il suo nome d'arte Aaron Noel assieme al figlio Gabriele Gilbo. La Toffa, che in questi mesi sta combattendo una battaglia contro il tumore ed ha annunciato in televisione di essersi sottoposta alla chemioterapia anche per dare forza e speranza agli altri malati, tempo fa aveva realizzato un servizio per Le Iene in cui mostrava i metodi con cui la Brigliadori sosteneva di poter allontanare la malattia. "A seguito delle dichiarazioni recentemente rese sul web dalla signora Eleonora Brigliadori - dice la secca nota della rete Rai - Rai 2 ha deciso di non far partecipare la stessa al programma Pechino Express - Avventura in Africa. Le suddette dichiarazioni sono, infatti, in evidente contrasto con la missione e i valori di servizio pubblico della Rai, con il codice etico aziendale e con la linea editoriale della Rete. Pertanto la coppia Madre e Figlio (Eleonora Brigliadori, in arte Aaron Noel e Gabriele Gilbo), non farà parte del cast". Nel pomeriggio in un altro post la Brigliadori annunciava: "Nonostante le violente polemiche che si sono scatenate sul Web, da qualche giorno a questa parte, e che sono totalmente inappropriate ed infondate comunico che mi presenterò regolarmente e contrattualmente, insieme a mio figlio Gabriele, nel luogo prefissato e comunicatoci, già da tempo, quale punto di raduno per la partenza del programma televisivo Pechino Express. Nel corso del programma stesso avrò modo di chiarire che non ho inteso offendere nessuno ma esprimere il mio parere, ben conosciuto, per altro, su di una materia così delicata". La Brigliadori, sostenitrice tra l'altro del "metodo Hamer" che si basa sull'autoguarigione, si è anche schierata più di una volta in tv anche contro chemioterapia, radioterapia ma anche contro i vaccini. Nel 2016 aveva polemicamente lasciato lo studio del Maurizio Costanzo Show dopo che Costanzo aveva frenato le sue accese dichiarazioni dicendole: "Tengo il tuo microfono spento, finché non impari a fare conversazioni civili". Qualche giorno fa Pechino Express aveva perso anche Filippo Magnini che avrebbe dovuto partecipare assieme alla sorella maggiore Laura. Il nuotatore aveva deciso di non partecipare per concentrarsi sulla difesa "dalle accuse mosse dalla Procura antidoping".

Le Iene - Brigliadori aggredisce Toffa.  Redazione Davide Maggio lunedì 3 ottobre 2016. È destinato a far parlare per molto tempo il servizio appena conclusosi nella prima puntata di questa nuova stagione de Le Iene. Protagonista del servizio, confezionato da Nadia Toffa, è Eleonora Brigliadori, showgirl milanese in auge negli anni ’80, recentemente balzata agli onori della cronaca per diverse prese di posizione contro la medicina tradizionale, i dottori e soprattutto cure come la radio e la chemioterapia per la cura dei tumori. Il servizio si apre con il filmato di una violenta aggressione ai danni di una complice delle Iene, ripreso proprio da una Brigliadori accecata dall’ira e molto manesca: la ragazza, affetta davvero da un tumore, ha incontrato la showgirl per indagare i metodi spirituali proposti da Hamer (santone e dottore radiato dall’Albo dei medici della quale la Brigliadori è seguace), ed è stata scoperta. Nell’incontro con la giovane ragazza – ripreso con una videocamera nascosta -  la Brigliadori espone i punti cardine della sua filosofia: il totale rifiuto dei metodi tradizionali, lo scherno nei confronti dei medici, la convinzione che "la malattia sia un loop psichico di terrorismo instillato". Una spirale di dichiarazioni aggravate da affermazioni vaneggianti sulla responsabilità di ‘demoni’ e ‘corpi astrali’ nella comparsa del tumore. Non è vero che si muore di tumore, né che il tumore viene generato da una cellula malata che si riproduce. Tutti i medici campano sulla morte, hanno sterminato milioni di persone come i gerarchi nazisti. Impediscono che le cose scoperte vengano insegnate perché fanno i soldi sulla morte. Inoltre ha condannato la medicina tradizionale in favore della guarigione spirituale(nel suo caso, per guarire da un tumore, asserisce di aver avuto solo bisogno di una pomata alla Phytolacca (usata molto in omeopatia e per la cura delle emorroidi). Durante la conversazione purtroppo la Brigliadori si accorge del microfono nascosto e aggredisce la ragazza, malata, tirandole i capelli, strattonandola, insultandola e dandole della "schiava dei demoni, senza Dio". Nadia Toffa allora ha raggiunto l’ex Isolana in un paesino ligure, trovandola impegnata in un rito (a sua detta) sacro, tanto da intimarle di andare via. La situazione ovviamente si è scaldata in pochi minuti, e mimando un gesto di preghiera ha colpito violentemente la bionda inviata in pieno volto. Incalzata, si è trovata costretta a rispondere alle provocazioni, aggravando la sua posizione, paragonandosi addirittura a Dio. ‘La guarigione è solo quella spirituale. Nessuno mi crede perché non ho pubblicato niente? Cristo ha pubblicato qualcosa?!’ continuando a minacciare la Iena di percosse, sputandole in volto e strappandole i microfono dalle mani, invitandola a posizionarlo… altrove. Eleonora Brigliadori non è nuova a queste uscite: lo scorso giugno durante una puntata del Maurizio Costanzo Show, il giornalista dovette farle spegnere il microfono e invitarla a lasciare lo studio dopo che la showgirl aveva attaccato un collaboratore del Professor Veronesi presente nel parterre.

Le Iene, Nadia Toffa in tv dopo il malore: «Mi sentivo strana, poi sono caduta di faccia. L’eliambulanza? Una figata pazzesca». Marco Leardi domenica 17 dicembre 2017 su Davide Maggio. Il volto è ancora solcato da un livido, segno di quel brutto collasso che aveva fatto temere il peggio. Ma l’ironia e la grinta sono quelli di sempre: Nadia Toffa non li ha certo perduti. A due settimane dal malore che l’aveva colta a Trieste, costringendola ad un ricovero in terapia intensiva, l’inviata de Le Iene è tornata a mostrarsi in tv e lo ha fatto in un’intervista esclusiva rilasciata proprio al programma di Italia1 di cui lei stessa è anche conduttrice. Nel documento video – che verrà mostrato integralmente stasera, 17 dicembre, in prime time – Toffa ha parlato per la prima volta di quanto le è accaduto. Ecco cosa ha detto. Il racconto della tostissima inviata parte proprio dalle intense giornate trascorse un paio di settimane fa a Trieste, dove si trovava per realizzare un servizio. “Dovevamo incontrare un segretario di un sindacato. La sera sono andata a mangiare, ho brindato con l’autore perché siamo riusciti a incontrarlo e poi sono andata a letto in hotel. Tutto normale. La mattina poi mi alzo, faccio il caffè e chiamo Davide Parenti (ndDM, ideatore del programma) per parlare di lavoro. Lui poi mi ha detto che ero molto rallentata. Io sinceramente non ricordo benissimo, mi sentivo strana…“ ha raccontato Nadia, ricordando che quella mattina – era il 2 dicembre scorso – avrebbe voluto anticipare il suo treno per Milano, così da iniziare subito a montare il servizio. “Tutto normalissimo ma io mi sentivo un po’ strana. Avevo chiuso la valigia, messo il cappotto e prima di scendere ho detto: ‘Sai che quasi quasi mi sdraio un attimo?’, ma non è da me. È raro che io mi senta stanca, non ho tanti momenti in cui dico: ‘Mi rilasso’, sono fatta così: io vado a mille, corro sempre. In effetti era una cosa strana… Ho detto ‘mi sdraio’ invece non l’ho fatto. Quindi scendo, mi ricordo benissimo la hall dell’hotel. Ho chiesto di pagare e il taxi per andare in stazione. A un certo punto, sono caduta. L’ultima frase che mi ricordo era quella della ragazza della reception che mi ha detto: ‘Vuoi che ti dia una mano con le valigie, che è arrivato il taxi?’. Poi sono caduta di faccia, ho ancora un livido ma sta migliorando“.

Le Iene, Nadia Toffa: «non ricordo il malore, ma mi ricordo l’ambulanza». E qui arriva la parte più intensa della testimonianza, quella in cui l’inviata de Le Iene ripercorre – per quelli che sono i suoi ricordi – i momenti concitati dei soccorsi ed il trasferimento in eliambulanza al San Raffaele di Milano, resosi opportuno dopo la prima assistenza ricevuta a Trieste e vissuto da Nadia quasi con entusiasmo (pur nella drammaticità di una situazione che avrebbe scoraggiato chiunque). “Io non ricordo il malore, ma mi ricordo l’ambulanza. Nella mia vita non l’avevo mai presa. All’inizio ho pensato fosse successo un incidente perché sentivo un’ambulanza, ma dopo un po’ mi sono resa conto che forse sentivo la sirena un po’ troppo vicina. Quindi ho realizzato e mi sono detta: ‘Vuoi vedere che è la mia ambulanza?’. Ho ripreso conoscenza in ambulanza. Poi a un certo punto ho visto Max (ndDM, autore storico delle Iene) ma erano passate ormai cinque ore, ho avuto un black-out. Lo vedo e gli dico: "Ma tu cosa ci fai a Trieste?". Ero lucida, ma non mi sono resa conto di ciò che stava accadendo, della gravità. Nessuno sapeva cosa avessi. Ad un certo punto, il viaggio in elicottero, che è stato una figata pazzesca. Non l’avevo mai preso e mi piacciono da impazzire queste cose: ho fatto bungee jumping… l’elicottero in effetti non l’avevo mai provato. Mi dicono: ‘Si deve andare in elicottero. C’è la bora’. Mi hanno messo le cuffie perché l’elicottero fa molto casino, avevo un microfonino e parlavo con il capitano, ero là a chiacchierare. Sorvolavamo le città, lo vedevo sulla destra. Diceva il capitano: ‘Adesso stiamo passando Porto Marghera’, poi eravamo passati per Vicenza… Quando parlavo col capitano e mi illustrava le città, io pensavo ai servizi che avevo realizzato. Quando poi sono arrivata al San Raffaele c’era un sacco di gente, io dicevo: Ma cosa ci fate qua?“.

Le Iene, Nadia Toffa: «Mi ha stupito l’affetto della gente comune». Nell’intervista rilasciata a Le Iene, Toffa ha poi spiegato di essere stata informata delle manifestazioni d’affetto e di sostegno arrivatele da tutta Italia, e anche di quelle pronunciate in tv da Maria De Filippi all’inizio di una puntata di Tu Sì Que Vales. “C’è stato poi un momento in cui è arrivata un’infermiera e mi ha detto: ‘È iniziato adesso Tu sì que vales e Maria De Filippi ha iniziato salutandoti e facendoti un grande in bocca al lupo con un pensiero per te’. Io la guardo e dico: ‘Ma chi è che gliel’ha detto? Chi ha detto a Maria De Filippi che sono stata male?’. Invece poi mi hanno detto che è successo un putiferio. Io mi sono molto commossa, mi hanno detto di città che hanno pregato per me, città intere: a Taranto hanno fatto la fiaccolata, Napoli ha pregato per me… scusate se mi commuovo ma… mi ha stupito tanto l’affetto della gente comune, perché secondo me non contava tanto il personaggio, pregavano davvero per me, per le battaglie che portiamo avanti. In ospedale, mi hanno ribaltato come un calzino. Stare in ospedale ti riporta un po’ al succo delle cose. Non è la prima volta che vado all’ospedale perché ascolto poco i segnali del mio fisico. Ogni volta che ti ricoverano però ti riportano proprio all’essenza delle cose, rivaluti anche la fisicità, le cose basilari“. L’inviata e conduttrice di Italia1 ha rivelato infine di aver ricevuto messaggi di vicinanza anche da parte di politici coi quali in passato si confrontò in modo conflittuale durante i suoi servizi di denuncia. “Adesso ci rido però ci sono tante persone che si sono preoccupate e me ne rendo conto” ha aggiunto Toffa, mostrandosi alle telecamere di nuovo sorridente. “Io prendo molto la vita con ironia, se le cose devono succedere è perché devono accadere, e ogni cosa ti insegna qualcosa, però se mi metto nei panni delle persone che si sono preoccupate per me un po’ mi commuovo. I miei genitori si sono preoccupati da morire, tutti voi…” ha concluso.

"Vi bacio tutti tutti tutti": l'ultimo messaggio di Nadia Toffa. Nadia Toffa se n'è andata, ma ha lasciato in eredità il suo sorriso, affidato ai social, speso soprattutto durante il periodo della malattia per dare speranza a chi stava lottando come lei. Francesca Galici, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. Nadia Toffa se n'è andata in silenzio dopo aver lottato per mesi, molti dei quali davanti alle telecamere per urlare che si può e si deve combattere, sempre. Nei social la iena aveva trovato un rifugio durante la sua battaglia, qui informava i suoi fan e i suoi seguaci sulle sue condizioni di salute e spesso rispondeva, soprattutto agli hater, a chi le augurava la morte. C'è una costante in tutte le foto che Nadia Toffa ha condiviso sul suo profilo di Instagram ed è il sorriso. Non l'ha mai perso davanti all'obiettivo e con questo gesto voleva dare coraggio anche alle altre persone che stavano combattendo come lei. Il sorriso che compare anche nel suo ultimo post di Instagram che risale allo scorso 1 luglio, in compagnia del suo fidato bassotto Totò. “Io e Totò unite contro l’afa! E dalle vostre parti come va? Vi bacio tutti tutti tutti. N”, scriveva Nadia Toffa guardando dritto nell'obiettivo. Quel post arrivava dopo tanti giorni di assenza che avevano turbato i suoi tantissimi fan, messi in allarme da un silenzio che non era da lei. Forse aveva deciso di tornare a farsi vedere dopo 20 giorni dall'ultimo post per rassicurare, nonostante le sue condizioni di salute fossero compromesse. Da quel 1 luglio, però, è calato il silenzio nel profilo di Nadia Toffa e più i giorni scorrevano e più i suoi seguaci si interrogavano sulla sua salute. Più il tempo passava più saliva la preoccupazione, spazzata brutalmente via dall'annuncio, tenero e straziante al tempo stesso, de Le Iene. Oggi, sotto quella foto, sono tantissimi quelli che lasciano un messaggio, un saluto, un ricordo. Non ha mai voluto usare eufemismi per definire la sua malattia: “tumore”, “cancro” sono le parole che ha sempre usato quando ne ha parlato, usando anche la cassa di risonanza de Le Iene e anche i social per diffondere il suo messaggio di speranza. “Niente sarà più come prima”, scrivono Le Iene, ed è vero. Però ci restano quei sorrisi che Nadia Toffa ha voluto regalare condividendoli sui social, così da poterli sempre sfogliare, per ricordare a tutti che qualunque cosa succeda si può sempre trovare un motivo per sorridere.

Nadia Toffa: l'intervista a Le Iene dopo il malore. Nadia Toffa: perché le sue parole sul cancro sono importanti. Parlando della sua malattia in televisione, senza mezzi termini e senza nascondersi ha rotto un tabù. Francesco Canino il 12 febbraio 2018 su Panorama. "Ho avuto un cancro". Era tornata in tv da qualche minuto, dopo il malore del 2 dicembre scorso, e Nadia Toffa per qualche istante è riuscita a togliere il fiato a tutti gli italiani che in quel momento stavano guardando Le Iene. Una confessione così, non se l'aspettava davvero nessuno. Per questo la puntata dell'11 febbraio resterà nella storia del programma di Italia 1 o forse, e non è un azzardo, in quella della televisione italiana. Perché quando si rompe un tabù, qualcosa cambia per sempre. "In questi mesi mi sono curata: prima ho fatto l’intervento, poi la chemioterapia e la radioterapia. L'intervento ha tolto interamente il tumore, ma poteva esserci una piccola cellula rimasta e quindi ho seguito i consigli del medico e ho seguito le cure previste. Ora è tutto finito: il 6 febbraio ho finito la radio e la chemio". Non ha usato metafore e artifici retorici Nadia Toffa per rivelare le sue condizioni di salute, di cui pochissime persone erano a conoscenza. Nemmeno Nicola Savino e Matteo Viviani, al suo fianco nel momento della rivelazione, tanto che non sono riusciti a nascondere lo stupore per quelle parole inattese. E quando Savino le ha chiesto se il malore dello scorso dicembre fosse legato al tumore, la Toffa ha spiegato che la sua fortuna "è stata proprio che dopo lo svenimento ho fatto un accertamento, un check-up completo". La rivelazione in diretta tv ha ovviamente provocato una fortissima reazione sui social, con una pioggia di migliaia di commenti e interazioni. Ma perché le parole della Toffa sono così importanti? Perché ha rotto un tabù, quello della malattia, di cui in tv si parla poco e spesso con toni sbagliati: la "guerriera" Toffa ha invece scelto di farlo senza filtri, facendone una battaglia personale e al tempo stesso collettiva, con ironia ma senza nascondere la paura e le fragilità vissute nei momenti difficili.  

Il coraggio della "guerriera" Toffa. Nadia Toffa ha fatto una scelta precisa: non solo ha chiamato le cose con il loro nome, ma è uscita allo scoperto invitando tutte le persone malate a farlo. Sembra facile, ma non lo è affatto. Di certo la valenza del suo messaggio è potente, visto che parla a migliaia di malati di cancro - solo nel 2017, in Italia sono stati stimati 369 mila nuovi casi di tumore - ai loro famigliari e a tutti quelli, ancora troppi, che si ritraggono quando si parla di cancro o, più in generale, di patologie oncologiche. "Ora sto benissimo. E rispetto a quello che mi è successo penso non ci sia assolutamente niente di cui vergognarsi, anzi. Ho solo perso qualche chilo che riprenderò, non mi vergogno neanche del fatto che sto indossando una parrucca, questi non sono i miei capelli. Non vi nascondo che ci sono stati momenti difficili: quando vedi le prime ciocche di capelli che ti rimangono in mano è un momento molto forte. Poi mi è venuta in mente Gabriella, una bambina di Taranto che mi aveva raccontato di quanto avesse sofferto quando le erano caduti i capelli dopo che si era ammalata. Gabriella, ti ringrazio, perché ti ho pensato: se ce l'ha fatta uno scricciolo come te, ce la posso farcela anch'io".

Tutta la verità sulle cure. L'appello alla "normalità" di Nadia Toffa è un pugno allo stomaco di quelli disarmanti, che tolgono il fiato, per poi lasciare il campo alla riflessione. "Non trattateci da malati, noi malati di cancro siamo dei guerrieri, dei fighi pazzeschi", ha chiesto la conduttrice de Le Iene, rivolgendosi anche a Savino e Viviani. "Continuate a prendermi in giro, a fare tutto come se non fosse successo niente, perché senza volerlo potreste farmi del male". Poi, il passaggio più importante, quello che la Toffa non poteva non sottolineare viste le sue battaglie in prima persona e i servizi in cui ha raccontato realtà drammatiche come la "terra dei fuochi" e dei malati di tumore di Taranto, senza dimenticare le denunce contro cialtroni e presunti guaritori. "Le uniche cure contro il cancro sono la chemio e la radio. Poi ci sono altre cose che contano: il buonumore, lo stile di vita, ma non c'è altro che possa curarti che non siano la chemio e la radio". La "guerriera" Toffa ha colpito ancora. 

Nadia Toffa è morta. Le Iene: "Per noi niente sarà più come prima". La conduttrice aveva 40 anni. Il racconto della sua lunga malattia sui social, sempre sorridente, l'ha trasformata per molti in un simbolo. La Repubblica il 13 agosto 2019. E' morta Nadia Toffa, dopo una lunga battaglia contro il cancro. La conduttrice e inviata delle Iene aveva 40 anni. Lo ha annunciato lo staff della trasmissione tv sulle proprie pagine social. Le Iene le hanno dedicato un post commosso: "Qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, non perde mai. Hai combattuto a testa alta col sorriso, con dignità e sfoderando tutta la tua forza, fino all'ultimo, fino a oggi. D'altronde nella vita hai lottato sempre. Hai lottato anche quando sei arrivata da noi, e forse é per questo che ci hai conquistati da subito. È stato un colpo di fulmine con te, Toffa". Toffa ha raccontato lungamente la sua malattia sui social network, diventando un simbolo di forza e tenacia per molti malati. Il suo ultimo post su Instagram risale al primo luglio, prima del peggioramento della malattia. È una foto di lei, sempre sorridente, con il suo cagnolino totò. "Io e Totò unite contro l’afa ! E dalle vostre parti come va? Vi bacio tutti tutti tutti". In pochi minuti, quando si è diffusa la notizia della sua morte, sotto quest'ultimo post si è riversato il cordoglio dei suoi follower. In meno di mezz'ora tremila commenti, e crescono ancora. Nadia Toffa era nata a Brescia il 10 giugno 1979. Dopo un debutto nell'emittenza locale, nel 2009 era diventata inviata delle Iene, segnalandosi per inchieste sulle truffe ai danni del servizio sanitario nazionale, sulle slot machine, sullo smaltimento del traffico di rifiuti illegali in Campania, sull'Ilva di Taranto (città che le ha conferito la cittadinanza onoraria), sull'infanzia violata. Nel 2016 era stata promossa alla conduzione del programma Mediaset. Prima della malattia, aveva raccontato il suo impegno sociale in libri come "Quando il gioco si fa duro", del 2014, dedicato al problema dell'azzardopatia. Nel 2015 aveva ricevuto il premio Ischia di giornalismo, nel 2018 il premio Luchetta. Uno dei suoi interventi più discussi fu quando definì "il cancro un dono". Una definizione provocatoria, che a molti non piacque. Ma per lei era un modo per rivendicare la forza d'animo con cui reagire, da "guerrieri". Un atteggiamento che nel bene o nel male ha contraddistinto la sua lotta. Un sorriso alla volta.

Il malore e la scoperta della malattia. Nadia Toffa si era sentita male alla fine del 2017 mentre si trovava in un albergo di Trieste. Le sue condizioni erano apparse subito molto serie. Dopo due mesi di cure, in febbraio la giornalista era tornata davanti alle telecamere delle Iene per rivelare: "Ho avuto un cancro". Da quel momento, Nadia Toffa era diventata un simbolo per chi lotta contro la malattia, prendendo anche da subito posizione contro i "medici farlocchi" e a favore della medicina e della scienza.

Il racconto della battaglia e "il dono" del cancro. Nadia Toffa aveva raccontato i primi duri mesi della lotta contro la malattia in un libro, "Fiorire d'Inverno". Presentando il volume in un post su Instagram, la conduttrice aveva definito "quello che tutti considerano una sfiga, il cancro", "un dono, un'occasione, una opportunità". Parole che, ancora una volta, le avevano attirato feroci critiche sui social e non solo. Ma al di là delle polemiche, Nadia Toffa era diventata anche e sopratutto il simbolo della possibilità di resistere e di combattere, a testa alta e con il sorriso, contro una malattia che sembra non lasciare scampo. "Non vinciamo sempre", aveva scritto meno di un anno fa in una lettera a Repubblica, "non siamo sempre i più forti, i più sani, i più intelligenti, e quando succede di inciampare, di farci male, ricordiamo di essere così fragili che tutto si può scompaginare all'improvviso, con la facilità con cui si soffiano via le briciole dalla tavola".

Il ritorno della malattia e l'ultima battaglia. All'inizio di quest'anno, Nadia Toffa aveva finalmente annunciato il suo ritorno alla conduzione delle Iene: "Torno con i miei capelli", aveva scritto sempre su Instagram. Sembrava il lieto fine di una storia durissima. Ma la gioia era durata solo poche settimane. Gli ultimi post sui social la ritraggono di nuovo alle prese con le cure, ma sempre sorridente e battagliera. Anche quando rivelava di aver lasciato il fidanzato che non la accompagnava mai alle sedute di chemioterapia. Diventando anche in quel caso simbolo e oggetto di dibattito per migliaia di malati e di donne.

Nadia Toffa, la preghiera di Matteo Salvini: "Addio leonessa". Il malore e il cancro: 2 anni di battaglie. Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. "Addio Nadia, hai lottato come una leonessa senza mai perdere il sorriso. Mancherai. Una preghiera". Così su Twitter il ministro dell'Interno Matteo Salvini ricorda Nadia Toffa, scomparsa oggi all'età di 40 anni. La inviata e conduttrice delle Iene ha combattuto una battaglia durata due anni e mezzo contro il cancro, iniziata nel gennaio 2017 quando accusò il primo malore a Trieste. Trasferita in elisoccorso al San Raffaele di Milano per iniziare gli accertamenti, due mesi dopo tornò in trasmissione, a Le Iene, e raccontò ai colleghi e al pubblico di avere il cancro: "Non lo sapeva nessuno. Ho pensato tanto a questo momento... Fra di noi c'è sempre stata sincerità". "La fortuna è stata proprio che dopo lo svenimento ho fatto un accertamento, un check-up completo". E aveva rassicurato tutti: "Ora sto benissimo. E rispetto a quello che mi è successo penso non ci sia assolutamente niente di cui vergognarsi, anzi. Ho solo perso qualche chilo, non mi vergogno neanche del fatto che sto indossando una parrucca". E aveva concluso lanciando un monito contro le false cure e i millantatori di guarigioni alternative". Bresciana, quarant'anni festeggiati lo scorso 10 giugno, la Toffa era diventata inviata delle Iene nel 2009, segnalandosi per importanti inchieste sulle truffe ai danni del servizio sanitario nazionale, sulle slot machine, sullo smaltimento del traffico di rifiuti illegali in Campania, sull'Ilva di Taranto (che le ha conferito la cittadinanza onoraria), sull'infanzia violata. Ha ricevuto tra l'altro il Premio internazionale Ischia di giornalismo nel 2015 e il premio Luchetta nel 2018. Aveva pubblicato un libro, Fiorire d'inverno in cui aveva raccontato la battaglia contro il cancro, provando a lanciare un messaggio di rinascita e di speranza (aveva definito "un dono" la malattia, non senza suscitare critiche e polemiche), come ha continuato a fare anche sui social durante i lunghissimi mesi di una battaglia alla quale oggi ha dovuto arrendersi. 

Nadia Toffa, le lacrime di Enrico Mentana: "Ha lottato con dignità e coraggio". Il ricordo dei colleghi. Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. La morte di Nadia Toffa, avvenuta a soli 40 anni dopo la lunga battaglia con il cancro, ha straziato le Iene, programma di cui è stata storica inviata e conduttrice, il mondo dello spettacolo e non solo. Tra le prime reazioni, quella di Enrico Mentana, che su Facebook scrive: "Ha avuto una forza straordinaria, ha saputo lottare con dignità e coraggio". Oltre al direttore del TgLa7, è arrivato il cordoglio dell'ex premier Matteo Renzi: "Ricorderemo una signora professionista e una splendida ragazza. Il cancro ha ucciso una giovane donna di 40 anni ma il modo con il quale lei lo ha combattuto fa riflettere, pensare e costringe ciascuno di noi a vivere più intensamente. Terremo il suo sorriso nel cuore, un abbraccio alla sua famiglia e alla redazione de Le Iene". "Purtroppo oggi ci lascia una grande guerriera come Nadia Toffa... Riposa in Pace...", è il commiato dell'attore Alessandro Siani, mentre Beppe Giulietti, presidente FNSI, la ricorda dal punto di vista professionale: "Ha saputo tenere insieme il coraggio di chi vuole illuminare le oscurità con il rispetto per la dignità di ogni persona, a partire dalle più povere e disperate".

Nadia Toffa, l'amico fisioterapista: «Non aveva paura della morte, alla fine era lei a confortare noi».  Ilaria Ravarino su Il Messaggero Mercoledì 14 Agosto 2019. Bresciano, amico di Toffa da 15 anni, Fabrizio Gardina è il medico che la giornalista ha ringraziato pubblicamente lo scorso maggio, via social, per averla «letteralmente rimessa in piedi dopo l'intervento e la chemioterapia». Dottore in fisioterapia e riabilitazione, Gardina lavora nella clinica Domus Salutis di Brescia, nella quale Toffa era stata ricoverata dai primi di luglio dopo l'improvviso peggioramento accusato durante l'estate.

Come ha conosciuto Nadia Toffa?

«L'ho conosciuta 15 anni fa, dopo un intervento di riabilitazione su suo padre. Quando mi si è presentata, per me era una persona qualsiasi: non guardavo la tv e non avevo mai sentito parlare de Le Iene. Tante volte suo padre mi aveva detto che la sua iena' voleva conoscermi, ma io non capivo».

Quando ha capito che Toffa era molto popolare?

«Un giorno l'ho vista che distribuiva magliette e cappellini, con le persone che le si stringevano intorno. Allora ho realizzato. Ma Nadia, in privato, non era diversa da come si presentava in pubblico. Era sempre naturale. Non ha mai avuto la superbia di sfruttare il suo status di vip».

Avete anche lavorato insieme...

«Si, nel 2012 mi ha chiesto di collaborare a un servizio, Quando un ospedale finge di curarti. L'ho fatto volentieri. Fu molto emozionante».

Come ricorda il suo ultimo periodo in vita?

«È stato un onore starle vicino in un momento così difficile. Sembra incredibile, ma era lei che cercava di confortarci. È stata una guerriera in vita e lo è stata fino alla fine. Non ha mai mostrato nessun segno di cedimento in questa situazione. Anzi».

La forza di vivere, allora ce l'aveva davvero?

«Sì. Non si è mai lamentata di nulla. Non ha mai voluto parlare della morte, direttamente, ma sapeva benissimo che stava per affrontare questo passaggio. Ripeto: era lei a confortarci, anche perché sapeva che la vita va oltre la vita».

Con la famiglia come si comportava?

«Nadia non ha mai fatto pesare nulla a nessuno».

Aveva paura di morire?

«Nessuna. Anzi, sa cosa diceva? Probabilmente devo fare qualcos'altro da un'altra parte. Sapeva di aver fatto tutto quello che poteva, qua. E lo ha dimostrato con i fatti. Sono sicuro che sta già lottando da qualche altra parte, così come ha fatto su questa terra».

Le lacrime di Prandelli, la moglie morta e Nadia Toffa. «Un esempio di coraggio».  Pubblicato mercoledì, 14 agosto 2019 da Alessandro Bocci su Corriere.it. «Un amico comune mi ha raccontato la battaglia di Nadia, che mi ha commosso e stretto il cuore. Così, senza pensarci troppo, sono andato a renderle omaggio». Cesare Prandelli è un uomo semplice che fa cose semplici. La sua storia di giocatore della Juventus di Platini e di allenatore che ha portato la Fiorentina a espugnare Anfield, la tana del Liverpool, e a diventare vice campione d’Europa con la Nazionale, non c’entra niente. «C’entra la vita». Che con Prandelli non è sempre stata tenera, soprattutto quando gli ha portato via Manuela, la moglie, per lo stesso male che ha spento il sorriso di Nadia Toffa. «Non eravamo amici. Anzi, neppure la conoscevo, ci siamo incontrati e salutati un paio di volte, casualmente, favoriti forse dal fatto che siamo bresciani tutti e due. Sono andato alla camera ardente spinto dal suo coraggio. Nadia ha inviato un messaggio straordinario, soprattutto a quelli che soffrono: c’è la possibilità di vivere, magari non a lungo, ma con grande dignità e senza perdere il sorriso. Lei c’è riuscita. È stata un esempio di forza e combattività». Prandelli ieri mattina si è mescolato alla gente comune, un via vai incessante dentro il teatro Santa Chiara, una lunga fila fuori. «Alla fine ero quasi imbarazzato per le emozioni forti che ho provato. Sono contento di essere andato a salutarla e di aver abbracciato la sua famiglia. Suo papà lo conosco da tempo, è una persona di grande umanità ed è un tifoso, quando mi ha visto era quasi sorpreso che fossi lì. Spero di aver lasciato qualcosa a lui e alla mamma. Perdere un figlio è disumano, la cosa più brutta che possa capitare a un genitore e non ci sono parole per colmare il vuoto che rimane dentro». Nadia era giovane, energica, sorridente, aperta alla vita. «La sua storia, in mezzo a tante altre purtroppo, è la conferma che siamo fragili e a volte indifesi. Una riflessione che non facciamo quasi mai. Non so se il suo sorriso sia una speranza contro il male, ma il suo messaggio è importante. Nadia ha affrontato la malattia con coraggio, senza nascondersi, senza vergogna. Sapeva di non avere troppo tempo a disposizione, ma non si è arresa e ha offerto la sua sofferenza affinché fosse un esempio. Si è messa a nudo. Ha avuto la forza di raccontare tutto, senza paura e con grande dignità. Non ha mollato sino alla fine». Ogni storia però, anche la più commovente, ha sempre il rovescio della medaglia: «Mi viene in mente la vigliaccheria di alcune persone sui social. Nel mondo del calcio l’insulto, anche il più cinico e volgare, è all’ordine del giorno. Ma qui si va oltre. Certe frasi contro di lei sono state di una tristezza sconfinata e la dimostrazione di dove stiamo andando a finire. Mi chiedo cosa penserà oggi chi le ha scritte. Forse però è una domanda inutile. Credo che da storie come questa dovremmo solo prendere esempio per avere un atteggiamento diverso nei confronti della vita, che è bellissima. Dobbiamo tirare fuori l’umanità. Impegnarci nelle cose che contano. Diventare migliori. E sorridere di più». Proprio come faceva Nadia. 

Nadia Toffa, atroce verità: "Sapete cosa diceva chi oggi la piange?". Estrema umiliazione. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 14 Agosto 2019. Nadia non aveva soltanto un visino da bambina, con gli occhioni lucenti e curiosi ed i dentini che sbucavano fuori ad ogni sorriso. Ella aveva un' anima da bambina. E mi accorgo che questo è il tratto che ho sempre riscontrato nelle persone che poi sono morte giovani e che recavano quel suo stesso luccichio nello sguardo. È come se esse appartenessero più al Cielo che alla Terra e fossero qui per un breve soffice passaggio nonché un motivo preciso che tuttavia non ci è intellegibile. Una figura curiosa. Una giornalista televisiva che però non cercava di apparire sexy a tutti i costi, a cui non interessava dimostrare di essere bella oltre che brava né di essere brava oltre che bella. Non gliene fregava un fico secco. Era animata da questa passione smodata, che è quasi una malattia, nei confronti del proprio mestiere, che spesso comporta notti in bianco, scarso riposo, rinuncia alle vacanze, sacrifici, poco tempo da dedicare ad amici e svaghi, occhiaie, pallore lunare. Eppure lo si fa di buon grado e tutto passa in secondo piano. Allora quando si procede così, con questo amore che scorre nelle vene e questa intensità, e si fa ciò che si desidera con successo, si vive sempre abbastanza, persino allorché poi si scompare prematuramente. Nadia è campata troppo poco sì, appena quarant' anni, ma svisceratamente come pochi. Un vulcano, una bomba. Un' esplosione. Dicono che la prima impressione sia quella che conta. Non so se sia vero, ma di sicuro basta poco a volte per arrivare al cuore delle cose, alla verità. È sufficiente persino un solo istante. Conobbi e vidi Nadia Toffa la prima e l' ultima volta ad una cena al ristorante Baretto di Milano lo scorso gennaio. Eravamo seduti ad un tavolino rotondo io, lei, Vittorio Feltri e Piero Chiambretti e Nadia era tra i commensali quella che più esprimeva e sprigionava vitalità. Parlava così tanto e con un tale entusiasmo che era persino arduo per noialtri prendere la parola, dunque ci eravamo rassegnati ad ascoltarla a becco chiuso, che detta così sembra brutto ma questa era la sensazione: Nadia era un fiume in piena, inarrestabile. Da mesi lei e Vittorio si scambiavano messaggi su WhatsApp, ed il direttore, avendone poca dimestichezza, mi chiedeva di interpretare quei simboli indecifrabili, ossia le emoticon, a cui la giornalista ricorreva spesso per colorare e vivacizzare la conversazione già ricca di immagini divertenti prese dai social network, battute, ilarità. Si erano conosciuti qualche tempo prima quando Toffa aveva intervistato Feltri nel suo ufficio. Allora il direttore aveva commentato: «Che tempra quella giornalista, è un peperino! È stata pedante, ma le ho tenuto testa». L' ammirava e credo che il pensiero di sapere che la donna avesse un cancro al cervello lo facesse addirittura struggere. Si intristiva allorché se ne ricordava. Provava nei confronti di Nadia una dolorosa tenerezza. Quella sera la conduttrice fece di tutto per farci dimenticare la sua condizione. O forse per dimenticarla. Appariva in forma, rideva, diceva la sua su qualsiasi argomento. Indossava una collana fatta da lei stessa, composta di lettere che formavano una parola che la divertiva, forse "monster", ossia "mostro". Lei se l' era attaccata al collo e ne andava fiera come una bimbetta che costruisce una collanina di pasta. Ci raccontava di avere realizzato altre opere di questo genere. E noi tutti eravamo stupiti dalla sua vena creativa nonché dal suo spirito infantile e giocoso. È strano ma soltanto questa mattina mi sono accorta che Nadia quel dì tentava di distrarre se stessa, noi, gli altri clienti del locale, persino quelli seduti in fondo alla sala, lì, dietro l'angolo, da quel quinto nostro ospite indesiderato, che se ne stava grave e beffardo al nostro tavolo. Non si parlò di lui per tutto il tempo. Eravamo arrivati al dessert e l' atmosfera si era fatta ancora più intima e rilassata, quando Piero, che fino a quel momento aveva mantenuto un certo contegno e si era limitato più che altro ad ascoltare, prese a narrarci una fantastica storia d' amore di cui lui era stato protagonista. Il racconto ci pervase a tal punto che alla fine eravamo tutti commossi. Nadia non rideva più. Era improvvisamente ammutolita. E poi scoppiò a piangere. Fu lei a tirare in ballo il quinto convitato, quello che eravamo riusciti ad ignorare per due ore buone. Ci spiegò che i medici le avevano detto che non avrebbe più potuto essere operata, poiché il cancro si era spinto in un' area del cervello in cui non si sarebbe più potuto intervenire chirurgicamente. Non le restava che continuare a bombardarsi di chemioterapia. Anche in quei giorni la stava facendo. «Lo so che devo morire. Non piango per me. Sto piangendo per mia madre, perché mia mamma resterà senza una figlia e questo non è naturale, non si può accettare», specificò Nadia con i goccioloni sulle guance. E noi giù a ripeterle le solite frasi che si affermano in simili circostanze e che sono tanto banali quanto necessarie: «Non morirai, vedrai», «Stai tranquilla, sono sicuro che guarirai», «Tu sei forte, ne uscirai». E la cosa che mi stupì di più era il suo desiderio di crederci, nonostante tutto. Ci si attacca strenuamente alla vita e alla speranza. Fino all' ultimo istante. Fu una serata bella e pure difficile per tutti quanti. Tornammo a casa provati. Feltri ebbe addirittura un grave abbassamento della pressione, tanto era stato coinvolto da quei discorsi. Accadeva sette mesi fa. Oggi Nadia non c' è più. Il suo profilo Instagram dalle prime ore del mattino di ieri, martedì 13 agosto, è tempestato di commenti che esprimono cordoglio. Li scrivono gli stessi utenti che neanche un anno addietro la insultarono, l' attaccarono, l' aggredirono, perché ella osò dichiarare: «Il cancro è un dono». Poiché intendeva crederci. E sperare. Non voleva farsi abbattere. «Le persone fragili non hanno nessuno che le difende quando vengono bullizzate in rete, la mia reazione vale anche per loro. Ho sentito un dovere, un' emergenza nel rispondere perché sapevo che la popolarità avrebbe dato un' eco maggiore alla mia voce e volevo usare quest' eco per chi è lasciato da solo a fare i conti con la malattia. Come si fa ad occuparsi della malattia, propria o altrui, e sopportare anche la violenza di chi non capisce e giudica?», scrisse Nadia in una lettera pubblicata su Repubblica lo scorso ottobre. La gente ha pietà di te solo quando sei crepato. Se sei morto a metà e tuttavia sorridi, stai sulle palle a tanti. Azzurra Barbuto

Nadia Toffa, la dura verità di Filippo Facci: "Il cancro è una faccenda troppo seria: il suo errore". Libero Quotidiano il 14 Agosto 2019. Filippo Facci, che mesi fa si era scontrato con Nadia Toffa per come aveva trattato il tema del  cancro in tv, ha pubblicato un lungo post con cui ribadisce la sua opinione: “La mia opinione sul personaggio Nadia Toffa non è cambiata, ma non mi sembra il caso di tornare a esibirla proprio oggi. Lo preciso per quanti mi chiedono stupidamente conto di un’opinione che la prevista morte della Toffa (che nel febbraio 2018 andò in tv a dire "Sono guarita") non fa che confermare". "Il cancro", dice il giornalista, "è faccenda troppo seria per lasciarla gestire alle Iene: sia spettacolarizzandolo personalmente, sia trasmettendo servizi giornalistici su stregoni secondo i quali i tumori si possono curare con l’aloe, con estratti di veleno di scorpione e altre scemenze propinate a milioni di telespettatori”. 

Nadia Toffa, il durissimo attacco di Filippo Facci: "Ora trasforma il cancro in un dono". Libero Quotidiano il 23 Settembre 2018. Pure il libro. Siamo alla spettacolarizzazione del tumore e alla sua trasformazione in core-businnes di un' attività pseudo-giornalistica: avremmo voluto non tornarci più sopra, sul penoso "caso Nadia Toffa", ma la banalizzazione dei malati che questa signorina sta perpetuando è più importante di lei e della sua egolatria. Ora siamo al libro in cui la Toffa spiega «come sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga in un dono». Eccolo il messaggio numero 2: il tumore può essere un dono. Il primo messaggio invece era del febbraio scorso: si presentò in tv e disse «ho avuto un cancro... i medici mi hanno tolto il cento per cento del tumore, ho fatto una chemio e una radio preventive... non lo sapeva nessuno e ora ve ne posso parlare». Perché sono guarita. Il messaggio, cioè, era che bastano due mesi per accorgersi di avere un tumore, asportarlo interamente, fare una chemio e radioterapia e poi tornare in onda: come se il cancro fosse stato quella cosa lì, due mesi e una parrucca e via, «non siamo malati, siamo guerrieri, chi combatte contro il cancro è un figo pazzesco». Il cancro come rapido pacchetto ospedaliero, breve come un servizio delle Iene, come a dire: «Vedete?, io ce l' ho fatta, uscite allo scoperto». Speriamo che nel libro, almeno, ammetta che il primo messaggio era una triste cazzata: se la morale era «sono guarita», infatti, la verità è che non era guarita per niente. Era come tanti servizi che aveva fatto per le Iene: notizie non verificate. Tempo un mese, infatti, ed eccola da Maurizio Costanzo a spiegare che no, «non sono guarita». Ma ormai era nel vortice. Non è chiaro che cosa vi fosse di «coraggioso» nella mancanza di riserbo e nell' incapacità psicofisica di tenere per sè qualcosa che, altrimenti, avrebbe potuto divorarla: di questo tipo di reazione occorre avere il massimo rispetto, beninteso, parlarne in effetti può essere una maniera di non sprofondare nella depressione: più che un coraggio di parlarne, però, è una rispettabile incapacità di non farlo. Ma farlo in televisione è un' altra cosa. Trasformarlo in messaggio mediatico è un' altra cosa. Ergersi a esempio leonino, come a dire «se ce l' ho fatta io», quando c' è gente che in due mesi non riesce ad avere una diagnosi, è un' altra cosa. I tumori della gente comune sono fatti di penose prenotazioni, di gente che muore senza sapere di che cosa soffrisse, di altra gente data per guarita decine di volte, di chemio e radioterapie che fanno schifo o che l' organismo rifiuta, di bambini e genitori disperati e - loro sì - eroici anche se poi, la sera. magari devono apprendere che le conduttrici guariscono in due mesi: si diano una mossa. Non era guarita: ma si pensava che almeno avesse imparato la lezione. Macchè. Ormai doveva tenere la parte, quella della malata di cancro che lo racconta senza pudori e che d' un tratto esalta la chemio e radioterapia («le uniche cure sono quelle», ha detto) dopo aver fatto servizi giornalistici su mezzi stregoni secondo i quali i tumori andavano curati con l' aloe, con estratti di veleno di scorpione e altre scemenze propinate a milioni di telespettatori. Va detto che un' autocritica decente, su questo, non l' abbiamo sentita: sarebbe stato l' unico messaggio che le spettava appieno. E ora siamo al libro, denso di positivismo surreale: «Sono riuscita a trasformare il cancro in un dono, un' occasione, una opportunità... una rinascita, un nuovo equilibrio». Da invidiarla. «Non ho mai sospeso la vita per la malattia, per il cancro, e nessuno dovrebbe farlo. Ecco come ci sono riuscita io. E se ci sono riuscita io... Ci può riuscire chiunque». È il messaggio di cui prima, una nuova frontiera del giornalismo: dal metodo Boffo al metodo Toffa. «Non sospendiamo la vita per colpa del cancro. Non diamogliela vinta, dobbiamo sorridere sempre» ha scritto su Instagram nel fare pubblicità al suo libro. Una speranza anche per le 200 donne, malate di cancro, che nel marzo scorso scrissero una lettera aperta a tutti i giornali: «Non siamo delle fighe, siamo dei rottami». Questo prima di elencare i moltissimi esami clinici a cui dovevano continuamente sottoporsi, le difficoltà a mantenere il proprio lavoro e un rapporto dignitoso con il proprio uomo. La lettera purtroppo non ebbe diffusione o quasi. Ora però c' è il libro della Toffa. Filippo Facci

Nadia Toffa morta a 40 anni, la memorabile intervista alle Iene con Feltri su Asia Argento e "le leccatine". Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. Da inviata e conduttrice, Nadia Toffa ha fatto la storia delle Iene tra scoop, inchieste molto criticate, ironia e qualche scivolone. Memorabile è il faccia a faccia con il direttore di Libero Vittorio Feltri, nell'ottobre 2017, sul caso Weinstein e lo scandalo #metoo. Feltri e Libero erano tra i più critici riguardo alla denuncia di Asia Argento sulle molestie subite e il programma cult di Mediaset ha voluto confrontarsi con il direttore senza giri di parole. Qui di seguito un breve estratto di quell'intervista. 

Feltri: "Se la leccatina l'accetta può fare piacere. O le conviene".

Toffa: "Perché dice che l'accetta?"

Feltri: "Scusami a me non ha mai leccato nessuno".

Toffa: "Queste attrici raccontano di avere avuto paura di quest'uomo. Era molto potente".

Feltri: "E allora?"

Toffa: "Avevano paura che distruggesse la carriera".

Feltri: "Beh allora nel caso di Asia Argento non l'ha mai fatta. Se mai ha ottenuto dei lavori". 

Toffa: "Perché dice così?"

Feltri: "Lei dice di essere stata violentata, io non ho mai visto uno stupro consenziente". 

Toffa: "Perché consenziente? Aveva paura".

Feltri: "Paura perché?"

Toffa: "Perché era potente".

Feltri: "Un uomo potente cosa ti può fare? Ti può uccidere? Non credo, al massimo non ti concede dei favori. Evidentemente lei teneva di più ai favori e si è fatta fare le leccatine". 

Toffa: "Ma cosa intende per abuso?"

Feltri: "Un gesto che avviene attraverso un gesto di violenza. Non so come si fa perché io ho sempre fatto fatica con quelle che me la davano volentieri". 

Quello è lo stupro. L'abuso sessuale è un altra cosa.

Feltri: "Il codice penale non prevede abuso sessuale senza violenza".

Toffan: "Ma è un problema questo".

Feltri: "La legge si fa dopo aver osservato la realtà. E la realtà è che se uno vuole ottenere dei favori e dà delle prestazioni sessuali, a casa mia è prostituzione". (...)

Nadia Toffa e quel lungo mese di silenzio: la commovente ultima foto pubblicata a luglio. Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. L'ultimo post social di Nadia Toffa risale allo scorso 1 luglio. Un mese di silenzio che aveva messo in allarme i fan e che si è concluso, purtroppo, con la peggiore delle notizie: la morte a soli 40 anni a causa di quel cancro che ha segnato da molti mesi a questa parte la sua vita. Non la carriera, perché l'inviata e conduttrice delle Iene ha lottato con tutte le sue forze anche per tornare in tv dopo il malore che l'aveva colpita nel dicembre 2017 e che aveva rivelato al mondo la verità, tragica, sulla sua salute. E nemmeno l'ironia, che ha contraddistinto le sue foto e i suoi messaggi in questi mesi di cure, ricadute, chemioterapia, speranze e difficoltà. Non mancava mai di salutare i suoi follower, di rispondere con durezza e leggerezza al tempo stesso a chi, senza vergogna, le augurava la morte, "spammava" notizie false di un suo presunto decesso. Haters, o semplicemente "fessi", che Nadia rimetteva al loro posto senza mai essere volgare, anche se ne avrebbe avuto tutti i motivi. E così quell'ultima foto su Instagram, insieme al suo amatissimo bassotto Totò, pubblicata per lamentarsi del caldo e per chiedere ai suoi fan come andasse, oggi è ancora più commovente. 

Nadia Toffa, chi lascia il fidanzato trova un amico per fare la chemioterapia: "Lui non mi abbandona mai". La presentatrice torna a farsi sentire su Instagram con un post che scatena like commenti di incoraggiamento. La Repubblica il 30 aprile 2019. "Buongiorno! Sono sveglia da un bel pezzo (penso anche voi!) ma sappiate che siete il mio primo pensiero si sorride come ogni mattina nonostante le avversità. Forza amici miei carissimi. Siete speciali e vi meritate il meglio. Arriverà! Non abbiate fretta. Vi voglio bene e viva la vita sempre. #sorridisempre #nonmollaremai": con un nuovo post Instagram Nadia Toffatorna a far parlare di sé e delle sue disavventure, non solo riguardanti la malattia - e il recente infortunio - ma soprattutto sulla separazione dal compagno e del suo nuovo "angelo custode". Una foto, nel post, la ritrae accanto a quello che definisce il suo "migliore amico": dal letto dell'ospedale, dove si sta sottoponendo alle cure, Toffa sorride spiegando che "qui si sorride sempre anche sotto chemioterapia. Lui è il migliore amico che non mi abbandona mai". La Iena aveva rotto con il fidanzato perché non la sosteneva a sufficienza, dimenticandosi persino di accompagnarla in ospedale quando necessario: "Sto con chi il tempo per me lo trova; i miei amici, tra cui ci sono colleghi adorati; la mia famiglia specialissima; voi! Chi ti vuole bene il tempo lo trova giusto?! Che ne dite?", scriveva tempo fa. I suoi sostenitori l'abbracciano così virtualmente lasciandole messaggi di incoraggiamento: "Gli amici veri si vedono proprio nel momento del bisogno. Forza, sei una guerriera!".

Nadia Toffa a Le Iene: "Un anno dal mio malore e dico viva la vita". Le Iene il 02 dicembre 2018. Oggi, domenica 2 dicembre, è passato un anno da quando la nostra Nadia Toffa si è sentita male in un albergo di Trieste. Proprio in seguito a quel malore, Nadia ha scoperto di avere un cancro. “È passato esattamente un anno dal mio malore”. Oggi, domenica 2 dicembre, è un giorno particolare per la nostra Nadia Toffa. E per tutti noi. “È stato un anno molto difficile ma grazie all’affetto dei miei amici, dei miei parenti, della mia famiglia e vostro sono qui, sorrido e dico viva la vita!”, dice all’inizio della puntata de Le Iene. Un anno fa Nadia ha avuto un malore. Si trovava in un albergo di Trieste. “La fortuna è stata proprio che dopo lo svenimento ho fatto un accertamento, un check-up completo", ha raccontato Nadia al suo ritorno a Le Iene, durante la diretta dell’11 febbraio 2018. In quell’occasione ha detto di avere un cancro. “Ho fatto l'intervento, poi la chemioterapia e la radioterapia. Rispetto a quello che mi è successo penso non ci sia assolutamente niente di cui vergognarsi, anzi. Ho solo perso qualche chilo. Non mi vergogno neanche del fatto che sto indossando una parrucca, questi non sono i miei capelli. Non vi nascondo che ci sono stati momenti difficili. Quando vedi le prime ciocche di capelli che ti rimangono in mano è un momento molto forte”, ha raccontato Nadia quel giorno. Oggi la Iena non nega che sia stato un anno difficile, ma non perde la sua grinta di sempre! “Non mollate mai! Siate forti e grazie. Vi voglio un bene dell’anima… quanto bene mi avete dato in quest’anno!”. Parte l’abbraccio con Filippo Roma e Giulio Golia. Un abbraccio che rappresenta quello di tutti noi.

Roberta Scorranese per “Liberi Tutti - il Corriere della Sera” 15 febbraio 2019.

Nadia, com'è guardarsi allo specchio con i capelli ritrovati?

«È strano. Ti guardi e dici "oddio ma sono proprio i miei capelli!" Quella sono davvero io.È tornare ad appartenere a sé stessi».

Sì, da qualche tempo i capelli di Nadia Toffa sono tornati e lei oggi li porta un poco spettinati, ciuffi riottosi. Sono capelli sottili e chiari, capelli «nuovi», rinati su quel campo di battaglia che sono le cure contro il cancro. E oggi, in questa fredda ma luminosa giornata invernale, quando la incontro in un loft di Milano, la «iena» più famosa d'Italia sembra proprio un germoglio biondo. Quello che aveva promesso di diventare nella sua autobiografia dal titolo Fiorire d'inverno.

Un anno di lotta contro una malattia che, in realtà, non si può mai dire sconfitta.

«Mai dirlo. Io adesso ho riavuto i miei capelli e sono tornata a vivere un po' di normalità, ma presto avrò un nuovo controllo e poi un altro ancora. Puoi solo sperare di guarire. Certo, puoi ripeterti, per farti forza, che "è lui che deve avere paura di me", ma la verità è che per anni e anni sarai sempre con l'ansia di ricascarci di nuovo».

Lei sui social condivide molto la sua malattia: foto, lunghi post, una cronologia precisa dei fatti, dalla chemioterapia alla convalescenza. E proprio per questo sono arrivate e arrivano diverse critiche, per non dire insulti.

«Dica pure "minacce di morte"! Ma perché avrei dovuto rinunciare a essere me stessa nei momenti difficili? Perché mettere a tacere questo mio essere così estroversa, piena di voglia di vivere, di voglia di farcela e di voglia di condividere quello che mi accade? Solo per un falso pudore? Non ci sto. Rivendico il diritto di parlare apertamente della nostra malattia, che non è esibizionismo né un credersi invincibili, anzi: è un diritto a sentirsi umani. Anche fragili, ma forti nel reagire».

Forse c'entra il fatto che nella nostra cultura il male fisico ha due sole possibilità di espressione: il riserbo assoluto o una più o meno autentica richiesta di compassione. Non è che una condivisione così calda, così empatica dà fastidio?

«È un errore. Io l'ho fatto anche perché vorrei che chi si trova nelle mie stesse condizioni si possa sentire meno solo. Mi vedono sempre come una "iena" e si fa fatica ad accettare il lato più altruistico della mia personalità. Ebbene, esiste. Se faccio del bene a una sola persona sono felice».

Ma perché augurarle la morte, come hanno fatto alcuni su Twitter? Perché tanto odio?

«È un periodo oscuro e difficile. La gente attraversa momenti duri, si sente privata di tante cose, dai diritti civili alla sicurezza economica. Ma io non vivo in un guscio: dalle persone che abitano nei pressi dell'Ilva di Taranto o della Terra dei Fuochi fino alle ragazze anoressiche: il mio lavoro è entrare nelle difficoltà delle persone, capirle, forse dare una mano. Mettere a tacere questo scontento è sbagliato».

Però lei ha denunciato alla Polizia postale un cosiddetto «hater» dei social che le augurava di morire.

«Sì, ma non l'ho fatto per me. L'ho fatto perché questi gesti possono ferire profondamente qualcuno più fragile di me. Penso ai ragazzini che si sentono bullizzati, alle ragazzine che per un insulto su Facebook possono soffrire in modi che nemmeno immaginiamo. Credo che sia una responsabilità che tocca alle persone con una grande visibilità. Bene, cominciamo».

Nadia, «Le Iene» è una trasmissione che dà un potere enorme: con un servizio si può rovinare una persona o santificarne un'altra. Come vive questo rischio continuo di sentirsi onnipotente?

«Con la disciplina e il metodo rigoroso che da Davide (Parenti; ndr ) in giù tutti siamo tenuti ad applicare. Credete che se in un servizio ci fosse anche solo il minimo dubbio lo si manderebbe in onda? Noi ricontrolliamo per mesi ogni dettaglio, frame, parola. Tutto con gli avvocati».

Il suo servizio sull'ipotetico «pericoloso esperimento nucleare sotto il Gran Sasso», che si riferiva al SOX (Short distance neutrino Oscillations with boreXino) ha fatto indignare più di un osservatore.

«Ma il servizio non era basato mica sulle mie convinzioni. Era fondato su una serie di pareri rigorosi da parte di scienziati. Certo, so che dall'altra parte ci saranno altrettanti esperti pronti a dire il contrario e così all' infinito. Resta il fatto che la Regione Abruzzo ha bloccato l'esperimento». (a onor del vero il SOX è stato fermato, sì, ma per motivi tecnici; ndr ).

Un'infanzia piena di energia, la ginnastica artistica, gli allenamenti durissimi a Brescia, nella palestra di Enrico Casella, la stessa di Vanessa Ferrari. Tutto fa pensare a una vocazione a oltrepassare i limiti.

«Pensi che a sei anni volevo provare come si sta con il gesso a una gamba e così mi lanciai dalle scale con i pattini. Sì, non fate quella faccia: io sono così, assomiglio a una di quelle stelle con la coda attorcigliata che stanno tra le emoticon di Whatsapp: mai sazia, mai paga».

È per questo che ha provato la roulette una sola volta nella vita per poi diventare immediatamente una paladina contro il gioco d' azzardo?

«Sì, ero in Sudafrica, in un resort e il brivido provato era stato allarmante. Ho capito che ci avrei rimesso l' osso del collo, trascinando anche la mia famiglia nell' abisso. Mi sono fermata in tempo, ma ho compreso quanto sia facile perdersi».

Nadia Toffa è così «senza barriere» anche in amore?

«Sono una che dà tutto. Nella mia vita c'è una sorta di compagno, o, meglio, una persona che mi sta accanto con affetto e che mi sopporta. Bene, lo sa che cosa facciamo quando ci vediamo, ogni tanto? Intrecciamo le mani e insceniamo un girotondo saltellante. Come bambini impazziti».

Un rituale sciamanico contro gli spiriti del male.

«Chissà. Ci fa bene. Io coltivo questo lato infantile, sono come mi si vede in televisione, senza pelle. Questo saper andare oltre le cose terrene mi porta a gesti apparentemente assurdi. Lo sa che cosa feci quando mi dissero che il cancro era tornato, alla prima recidiva? Andai a comprare un appartamento».

E a fare le cure ci mandò un'altra persona, Silvana. Ce ne parla?

«Costruii un' altra Nadia. Dovevo fare chemio e radio e non volevo essere vista, non tanto perché i paparazzi mi avrebbero ferita, quanto perché volevo proteggere la mia sensibilità di fronte a una cosa tanto dura. Così comprai una parrucca, un impermeabile, un maglione e mi trasformai in Silvana: lei andava a fare le cure, poi, a casa, si toglieva il travestimento e tornava Nadia. Finalmente ho potuto dirle addio: ho buttato tutto nella spazzatura e Silvana non c' è più, ciao ciao».

Le piace la televisione italiana?

«Mi piace quella televisione che ascolta e rispetta il sentire comune, quello della gente».

Mi pare che la nostra tv faccia solo quello.

«Infatti, mi piace. Ho poi le mie passioni. Per esempio trovo straordinaria Maria De Filippi: la sua professionalità sta nella capacità di scomparire per dare spazio alle sue storie e ai suoi personaggi».

Di che cosa ha paura adesso?

«Di nulla».

Non vale come risposta, Nadia.

«Va bene. Ho paura che mia madre resti sola. Penso che le madri non dovrebbero mai restare da sole, senza i figli. È troppo».

È per questo che lei ha più volte dichiarato di non essere fatta per avere figli?

«No, penso che quello dipenda dal mio temperamento iperattivo: faccio tante cose, ho così tante creazioni e idee che sembro partorire ogni giorno. Però ho nipoti meravigliosi».

Qual è stata la maggiore difficoltà in questo anno che è appena trascorso?

«Il male fisico. Ma anche l' impotenza di fronte a certe cose che non puoi governare: se il tuo organismo non è perfettamente sano certe cure non le puoi fare. E così ti ritrovi a consultare i maggiori specialisti perché non ci sono abbastanza globuli giusti. E anche un raffreddore diventa uno spauracchio che non sai governare».

Ha imparato a pregare?

«Ho re-imparato. Quando mi sono sentita male per la prima volta, mi sono tornate in mente le preghierine che recitavo da piccola. Se mi hanno fatto bene? Sono state come un abbraccio. E ne avevo tanto bisogno».

E forse ora qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, NON PERDE MAI. Le Iene il 13 agosto 2019. E forse ora qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, NON PERDE MAI. Hai combattuto a testa alta, col sorriso, con dignità e sfoderando tutta la tua forza, fino all’ultimo, fino a oggi. D’altronde nella vita hai lottato sempre. Hai lottato anche quando sei arrivata da noi, e forse è per questo che ci hai conquistati da subito. È stato un colpo di fulmine con te, Toffa. È stato tanto facile piacersi, inevitabile innamorarsi, ed è proprio per questo che è così difficile lasciarsi. Il destino, il karma, la sorte, la sfiga ha deciso di colpire proprio te, la NOSTRA Toffa, la più tosta di tutti, mentre qualcuno non credeva alla tua lotta, noi restavamo in silenzio e tu sorridevi. Sei riuscita a perdonare tutti, anche il fato, e forse anche il mostro contro cui hai combattuto senza sosta... il cancro, che fino a poco tempo fa tutti chiamavano timidamente “Il male incurabile” e che, anche grazie alla tua battaglia, adesso ha un nome proprio. “Non bisogna vergognarsi di guardarlo in faccia e chiamarlo per nome il bastardo, - dicevi - che magari si spaventa un po’ se lo guardi fisso negli occhi”. E dato che sei stata in grado di perdonare l’imperdonabile, cara Nadia, non ci resta che sperare con tutto il cuore che tu sia riuscita a perdonare anche noi, che non siamo stati in grado di aiutarti quanto avremmo voluto. Ed ecco le Iene che piangono la loro dolce guerriera, inermi davanti a tutto il dolore e alla consapevolezza che solo il tuo sorriso, Nadia, potrebbe consolarci, solo la tua energia e la tua forza potrebbero farci tornare a essere quelli di sempre. Niente per noi sarà più come prima.

Nadia Toffa, l'ultima richiesta prima di morire: "Mi costa molto ma ci andrò", chi celebrerà il suo funerale. Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. "Nadia ha voluto che fossi io a celebrare il suo funerale". Sarà padre Maurizio Patriciello a dare l'estremo saluto a Nadia Toffa, la conduttrice e inviata delle Iene scomparsa a 40 anni per un tumore al cervello. "Mi costa molto - ha annunciato il prete su Facebook -, ma vado a Brescia volentieri e con grande riconoscenza". Don Maurizio non è un nome qualunque: si tratta infatti del parroco simbolo della battaglia contro la Terra dei Fuochi in Campania, su cui la Toffa ha realizzato vari servizi. "Partirò nel pomeriggio di Ferragosto - spiega - per trovarmi in chiesa alle 10.30 del 16. Ho il dovere di portarle tutto l'affetto e la gratitudine degli abitanti della Terra dei fuochi". Don Patriciello ricorda poi che "l'ultimo video che Nadia ha postato su Istagram è stato quello che le avevo realizzato e inviato io, pregandola di aiutarmi ad amplificare il grido di dolore della Terra dei fuochi. E lei, come sempre aveva accolto la mia richiesta. Grazie, Nadia".

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 14 agosto 2019. Volto storico de Le Iene, lasciate nel 2016 dopo vent'anni, il giornalista e conduttore Enrico Lucci era il mito di Nadia Toffa. In più di un'occasione Toffa aveva ribadito la grande stima che nutriva per lui, tra le prime persone ad accoglierla quando, nel 2009, entrò per la prima volta in squadra.

Ricorda la prima volta di Toffa a Le Iene?

«Era come una bimba al luna park. Aveva una gran voglia di emergere, ma non nel senso in cui tanti lo intendono oggi, cioè mettersi in vetrina. Lei, da subito, è sempre stata una persona che voleva mettersi al servizio della comunità. Voleva rendersi utile. Mi ha sempre ricordato una guerrigliera comunista insofferente a ogni ingiustizia. Era questo Nadia, a volte anche con una veemenza che poteva sembrare eccessiva. E usava quella stessa forza di fronte a un caso clamoroso come a un qualsiasi rompiscatole che le si parava davanti. Era un'indignata sincera, non una dei tanti professionisti dell'indignazione di oggi. Di fronte all'ingiustizia si sentiva male, e partiva in tromba col Kalashnikov».

Qual è stata la prima volta che hai pensato che era brava?

«Quando ho capito che era una che non mollava mai. Le avevo detto di moderare i toni, di essere più razionale: quando i giovani venivano a Le Iene volevano subito spaccare, anche io all'inizio lo facevo. Ma la moderazione dà più valore a quello che fai. Ero convinto che la sua azione sarebbe stata più efficace, razionalizzandola».

E lei?

«Mi ha ascoltato. Ma aveva uno spirito così rivoluzionario che era incontenibile».

Ha condiviso la sua scelta di rendere pubblica la battaglia contro il cancro?

«Non mi sono infilato per niente in quella vicenda. Non frequento i social né tantomeno le migliaia di bestie che circolano sul web. Ovviamente non sono tutti così, ma tra i milioni di persone civili ci sono bestie frustrate che vanno sui social a scrivere. Mi faceva tenerezza per essersi esposta. Credo che si trattasse di un nuovo motivo di vita per cui andava semplicemente sostenuta. Era un nuovo obiettivo, perseguito in condizioni che sono sempre state drammatiche. Il mio atteggiamento è stato di rispettosissimo silenzio».

Qual è l'ultima volta che l'ha sentita?

«Al suo compleanno, ci siamo scambiati qualche messaggio affettuoso. Ci sentivamo periodicamente. Ho sempre cercato, per quanto possibile, di essere delicato e di evitare quello sguardo morboso su qualcosa che si sta consumando. Ma la delicatezza, ahimè, è una qualità molto rara oggi».

Chiara Maffioletti per il “Corriere della sera” il 14 agosto 2019. C' era anche Paolo Calabresi alla guida delle Iene quando Nadia Toffa ha debuttato alla conduzione. Ma lui la ricorda fin dall' ingresso in quel gruppo che poi è diventato la sua famiglia. «È arrivata come se ne è andata, con un grande sorriso e una grande energia.

Li ha portati in redazione, regalando a tutti tanta allegria».

Una redazione prevalentemente maschile...

«Si confondeva più tra i maschi che tra le donne. Aveva quel sorriso che ha mantenuto fino alla fine, era il sorriso di una persona determinata. Aveva una tendenza particolare alla dimensione social, da cui è arrivata anche qualche cattiveria. Ne soffriva e non riusciva ad accettarlo».

Le parlava della malattia?

«Raccontava quello che le era successo con tranquillità però non entrava nello specifico; la mia sensazione era che lo facesse per non spaventare e non spaventarsi».

Aveva chiesto di continuare a trattarla normalmente...

«Io le ripetevo che stava molto meglio con le parrucche che con i suoi capelli. Ridevamo quando dovevamo imparare i nostri balletti. Era venuta in radio da me a presentare la sua canzone, Diamante Briciola: le dicevo che era di una bruttezza senza precedenti e lei ne era consapevole, poi off line abbiamo riso parecchio».

Cosa le piaceva di lei?

«Che fosse uguale a come si mostrava davanti alle telecamere. Diceva che le Iene erano la sua vita e lo dimostrava. Ha fatto inchieste importanti. Quando si trattava di attaccare era l' inviata modello. Ti parlava a un centimetro dalla bocca e ti stava addosso finché le davi la risposta che cercava».

Sembrava appassionarsi ai temi che raccontava.

«Non c'era differenza tra quello che faceva sul lavoro e quello che si portava a casa. A settembre arrivavamo tutti in redazione con l'ansia di avere un paio di servizi già pronti...lei ne aveva otto, dieci...».

Quando l' aveva sentita l' ultima volta?

«A fine maggio, poi ci siamo scritti ma dopo poco era diventato difficile. L' ultima cosa che mi ha scritto è stata never give up ».

Veronica Cursi per Il Messaggero.it il 13 agosto 2019. Neppure la morte ferma l'odio social. Nadia Toffa se ne è andata alle 7.39 a Brescia dopo aver lottato contro un tumore e appena qualche ora dopo, su Facebook, compaiono insulti alla sua memoria. La conduttrice delle Iene in vita era stata spesso vittima degli haters che la rimproveravano di spettacolarizzare la sua malattia: il male, come lo chiamava lei, non era l'unico mostro contro cui dover combattere. E adesso che non c'è più gli haters continuano a imbrattare il web. A smascherarli stavolta è l'agenzia funebre Taffo, celebre per le sue campagne dissacranti. «Qualcuno ha utilizzato il nostro nome per pubblicare post meschini sulla morte di Nadia Toffa - scrivono sul loro profilo  Facebook - Non è opera nostra, seguiranno denunce». Poi compare il viso sorridente di Nadia, e quella frase da far rabbrividire: «Vendo protesi odontoiatrica in ceramica causa cessata attività, no perditempo. Citofonare Taffo». La Taffo pubblica screenshot con nomi e cognomi. C'è anche l'immagine di Nadia e la scritta. «Benvenuta in famiglia. Nadia Taffo». I post vengono condivisi e ricondivisi in alcuni gruppi, alcuni commentano scherzandoci su, ma  fortunatamente è maggiore lo sdegno: «E' una vergogna», «Questo odio deve finire». Tempo fa la Toffa venne attaccata per aver definito il cancro «un dono», tanto che la stessa conduttrice aveva dovuto poi spiegare: «Intendevo dire che la malattia può essere un'opportunità per diventare più forte, senza farsi condizionare come ho fatto io. E se ce l'ho fatta io, possono riuscirci tutti». Qualcuno non contento aveva commentato: «Tanto finirà presto all'obitorio» suscitando la sua risposta: «Io non gli auguro un cancro perché so cosa vuol dire e amo la vita di tutti. Se Dio l'ha messo al mondo, forse qualcosa di buono dovrà fare: siamo in attesa, illuminaci presto». Il suo modo di affrontare la malattia, le foto mentre faceva la chemio sul letto d'ospedale, il ritorno alla conduzione delle Iene, dove si era presentata sempre con il sorriso sfoggiando parrucche colorate,  dava fastidio a qualcuno. E soprattutto faceva paura. Perché Nadia, come ricordano amici e colleghi, era una guerriera e non mollava mai. E i guerrieri, si sa, sono difficili da sconfiggere.

Cristiano Sanna per Tiscali.it il 14 agosto 2019.  La odiavano. Perché era vitale fino all'ultimo, con la malattia che avanzava e l'attendeva alla sfida più difficile. La amavano per lo stesso motivo. La ammiravano perché come inviata delle Iene si lanciava, telecamere in resta, a pretendere spiegazioni e trovare dettagli in storie controverse e avendo di fronte personaggi tutt'altro che ben disposti. La detestavano per lo stesso motivo. Nadia Toffa se n'è andata a 40 anni facendo della sua vita uno show, uno spettacolo in cui la regia non esitava su niente. C'era tutto: il lavoro, la passione, il tumore al cervello, le chemio, la voglia di gridare la bellezza della vita e di esorcizzare la paura del cancro esponendolo sui social, in Rete, nelle ultime interviste. Fa paura, la sofferenza. Ed è una tremenda seccatura morire. La Iena se n'è andata, da oltre un mese non scriveva nulla e questo silenzio aveva allarmato chi ne aveva seguito la vicenda fino all'ultimo. Si temeva il peggio, il peggio è arrivato.

Dalla ginnastica artistica alle inchieste tv. E' uno strano mondo quello dei social. Allergico alle mezze misure. O ti esaltano o ti distruggono, e le due cose spesso sono fuse in una. Nadia Toffa e il suo racconto social della lotta al tumore avevano esaltato molti e irritato molti altri. Questa onnipresenza, questa voglia di non nascondersi e non tacere, veniva presa per invadenza ed egocentrismo. Peggio che mai quel post in cui diceva di aver lasciato quel compagno che si era dimostrato distratto rispetto alla sua sofferenza, che mai si era ricordato di accompagnarla ad una chemio. Davvero si possono spicciare in una serie di post questioni così importanti, piene di sfumature, e in cui sono coinvolte altre persone? Davvero si fa sempre ricerca della verità spianando le telecamere in faccia ai "sospettati", generando giudizi popolari che spesso hanno un peso più importante delle sentenze che arriveranno, se arriveranno? Queste domande, se fai la Iena di professione, sai che ti seguiranno sempre. Un esempio per tutti: molti rimasero interdetti di fronte allo spettacolo della Toffa che stava addosso, videoperatore al seguito, a Michele Placido già indicato come abusatore sessuale di minorenni dopo le denunce di Asia Argento. Placido, che incontrando il suo pubblico fuori da un teatro, veniva sorpreso da Nadia Toffa e relative telecamere, continuava a dire di non aver niente da dichiarare sulla faccenda e che quelle domande venivano fatte nel momento e nella sede sbagliata. Dovette intervenire la stessa Argento a scrivere che certi giudizi spicci e insulti all'indirizzo del regista e attore sarebbero stati responsabilità dei singoli autori, che lei non aveva fatto alcun nome preciso.

Contraddizioni ed entusiasmi. C'è chi li vive con coraggio e senza paura di esporsi. Come quando Nadia, appena ragazzina, si allenava nella palestra di ginnastica artistica di Enrico Casella, la stessa da cui è venuta fuori un'atleta d'eccellenza come Vanessa Ferrari. Spericolata fino al punto di essere costretta a portare il gesso, Nadia, che per provare quell'esperienza a sei anni si era lanciata per le scale con i pattini, come lei stessa raccontò.

La carriera e gli inciampi di una Iena. Nata a Brescia, laurea in Lettere, Nadia Toffa cominciava con il giornalismo e la televisione a Telesanterno e poi Retebrescia. Dal 2009 ecco la giacca scura de Le Iene. Le sue inchieste riguardano lo smaltimento illegale dei rifiuti, il gioco d'azzardo e le relative dipendenze, le terre avvelenate fra la Campania e la Puglia, le truffe compiute da alcune farmacie ai danni della Sanità, il caso Asia Argento. Dal 2016 la conduzione de Le Iene, fra grandi slanci e qualche inciampo. Come quando sostenne che nel laboratorio del Gran Sasso si teneva un esperimento nucleare pericoloso e tenuto segreto. Quel servizio venne smentito da altre fonti e dagli accademici. E l'esperimento con il Short distance neutrino Oscillations with boreXino (Sox) venne poi interrotto ma per problemi tecnici. Nadia Toffa, la ragazzina che in tv ci andava "senza pelle", incapace di filtri e mezze misure, perché lei era fatta così, come disse al Corriere della Sera, a ben leggere e capire aveva due missioni: far sentire meno sole le persone colpite come lei da tumore (nel suo caso al cervello, manifestatosi con un primo malore il 2 dicembre 2017 mentre era a lavoro con le Iene). E sostenere quel tipo di televisione che, nelle sue parole, "ascolta e rispetta il sentire comune, quello della gente". Costi quel che costi. Perfino che poi a quella gente bastino i processi consumati sui media o che quella stessa gente arrivi senza vergogna a condannare a morte te per esserti mostrata col sorriso e i segni della chemio addosso, senza pietismi. Fino all'ultimo.

Nadia Toffa, Selvaggia Lucarelli amara: "Meritavi di andartene in modo diverso". Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. "Meritava di andarsene accompagnata da molta più gentilezza di quanta non se ne sia vista qui dentro". Selvaggia Lucarelli commenta la notizia della morte di Nadia Toffa con queste parole. La Lucarelli si riferisce con ogni probabilità all'ondata di critiche che travolsero la conduttrice delle Iene quando annunciando l'uscita del suo libro parlò del cancro come un dono. Nadia si riferiva al fatto che una disgrazia così grande come la malattia era stata una opportunità per capire quanto preziosa fosse per lei la vita. Ha combattuto il cancro con tenacia e coraggio, parlando apertamente della malattia e diventando un simbolo. 

"La mia vita? Una corsa senza paura Quindi non trattatemi da malata". Il Giornale, Mercoledì 14/08/2019.  Per gentile concessione dell'editore Mondadori, pubblichiamo un brano dal libro di Nadia Toffa Fiorire d'inverno. La mia storia (pagg. 144, euro 18) di Nadia Toffa. "Quando avevo 9 anni mio padre aveva deciso di costruire una casa nuova, più grande, appena fuori Brescia, dove ci saremmo trasferiti. Spesso con la mamma andavamo in bici a vedere come proseguivano i lavori, mia sorella su una bicicletta rosa di Barbie, io su una BMX coi freni consumati che mi rifiutavo di cambiare e la sella lunga, da maschio, che avevo voluto a tutti i costi. Mia madre entrava per controllare l'avanzamento dei lavori e ci lasciava fuori. I garage erano stati finiti per primi. Così mi ero inventata un gioco: bisognava lanciarsi giù in bici, a tutta velocità, lungo la rampa dei box, e appena prima di spiaccicarsi contro la saracinesca buttarsi di lato su un fazzolettino di prato. Mia sorella rallentava la discesa con i freni, mentre io lasciavo scorrere le ruote. Nostra madre non ne sapeva niente, ce l'avrebbe sicuramente impedito. «Dai Silvia, andiamo». «No, questa volta no, ho paura» aveva piagnucolato lei. «Ma quale paura? I freni della tua bici funzionano benissimo». Quel giorno mia sorella non ne voleva proprio sapere e se n'è andata a fare un giro per conto suo, lasciandomi sola con la mia personale sfida. A ogni discesa alzavo la posta e mi lanciavo di lato sempre più tardi. Mi sentivo invincibile, sapevo come fare, non avevo paure o titubanze e la bici non mi avrebbe mai tradito. Mentre mi stavo rialzando dall'ultimo salto, ho visto che la gamba destra era ricoperta di sangue. Il cuore ha cominciato a battere più veloce, ho guardato meglio. Lungo la tibia si era aperta una ferita lunga e profonda, composta, un taglio preciso. Lì accanto ho visto sparsi per terra mattoni rotti, cocci, vetri di varie dimensioni lasciati dagli operai. Non mi aveva tradito la bicicletta, né i miei nervi o i miei riflessi, mi aveva tradito un imprevisto. Sono salita in sella e senza dirlo a nessuno sono andata fino a casa, poi mi sono chiusa in bagno. Mi sono medicata da sola e nel tentativo di tamponare la ferita ho inzuppato di sangue un intero asciugamano. Poi me ne sono liberata, per non lasciare tracce. Un altro bambino sarebbe andato dalla mamma a piangere, io non l'ho detto a nessuno. Per nascondere la cicatrice ho portato i pantaloni lunghi per tutta l'estate. Mi sono sempre comportata così, se facevo qualcosa di pericoloso e mi facevo male, lo tenevo per me. Se fossi andata a farmi consolare da mia madre, mi avrebbe trattato come faceva con mia sorella Silvia: non fare questo, non fare quello! E invece io volevo fare tutto. Se fossi andata da lei in lacrime, avrebbe pensato che soffrivo e si sarebbe spaventata. Ma soprattutto avrebbe pensato che ero fragile. Per questo, quando ho scoperto di avere il cancro, ho chiesto a tutti di non trattarmi da malata, perché non volevo sentirmi come la ragazzina spaurita che si è trovata all'improvviso un taglio su una gamba.

Taranto, folla alla messa per Nadia Toffa, il vescovo: «Infondeva serenità». L'abbraccio di Taranto alla "Iena" cittadina onoraria della città scomparsa per colpa del cancro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Agosto 2019. «Le siamo grati per il suo invito a sorridere sempre affrontando le prove con determinazione, infondendo serenità e coraggio». Così l’arcivescovo di Taranto, mons.Filippo Santoro nella messa celebrata questa mattina nella parrocchia Gesù Divin Lavoratore, al quartiere Tamburi, per Nadia Toffa, l’inviata e co-conduttrice delle Iene morta dopo aver lottato per due anni contro il cancro. Il 14 gennaio scorso le fu conferita la cittadinanza onoraria a Taranto. «Il suo impegno per la raccolta fondi a favore del reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale - ha aggiunto mons. Santoro - è stato un segno tangibile della sua bontà e della grandissima sensibilità, dimostrando che una cronaca negativa può essere trasformata in un racconto di speranza solo attraverso il proprio impegno». Nadia Toffa aveva realizzato diversi servizi televisivi dedicati alla questione Ilva e all’emergenza sanitaria e ambientale a Taranto. In tanti hanno raggiunto la parrocchia del rione per un momento di raccoglimento e di preghiera. Santoro ha citato le parole di Nadia Toffa, quando disse che «Il Signore mi ha dato questa sfida e io ce la sto mettendo tutta, combatto... non bisogna mollare mai, mai! Perché non siamo soli». In questa "messa - ha concluso l’arcivescovo - preghiamo per Nadia, per i suoi cari, per tutti gli ammalati e per la nostra città perché con tenacia e fiducia affronti le sue sfide».

Camera ardente Nadia Toffa, Giulio Golia: “Era una sorella, entrambi dalla parte dei più deboli”. Nadia Toffa si è spenta il giorno 13 agosto 2019, per concedere a tutti la possibilità di un ultimo saluto è stata aperta una camera ardente nel teatro Santa Chiara di Brescia. In queste ore si sono presentati diversi volti noti, concittadini e colleghi: da Omar Pedrini a Giulio Golia, fino all’ex ct della nazionale Cesare Prandelli. Ilaria Costabile il 15 agosto 2019 su Fanpage. Il 13 agosto 2019 è stata aperta la camera ardente per accogliere la salma di Nadia Toffa, giunta al teatro Santa Chiara di Brescia durante il pomeriggio, in attesa dei funerali che si terranno venerdì 16 agosto. La scomparsa dell'ex conduttrice e inviata de "Le Iene", dopo due anni di estenuante lotta contro il cancro, ha generato una diffusa commozione, non solo tra i cittadini che si sono presentati a salutarla nel giorno della sua dipartita, ma anche nel mondo dello spettacolo.

Da Giulio Golia a Cesare Prandelli. Numerosi, infatti, i volti noti che si sono presentati in queste ore alla camera ardente, per salutare la guerriera di soli 40 anni, che si è battuta con tutte le sue forze per vincere quella che lei stessa ha sempre definito una sfida. Un commosso Giulio Golia, suo amico e collega della famiglia de Le Iene, si è lasciato andare ad un commento straziante, una volta uscito dalla camera ardente: "Per me era una sorella, come aver perso una sorella. Io e lei abbiamo condiviso tante cose insieme. Entrambi abbiamo scelto di essere dalla parte dei più deboli". Insieme al celebre inviato è giunto Davide Parenti, autore del programma giornalistico di Italia 1, che si è mostrato visibilmente addolorato. Tra i personaggi noti che hanno mostrato il loro cordoglio, è intervenuto al teatro Santa Chiara anche l'ex commissario tecnico della nazionale, Cesare Prandelli, natio anch'egli di Brescia, che ha voluto sottolineare quanto il cammino di Nadia Toffa sia da considerarsi un monito: "Ha dimostrato una grande dignità nella malattia e non ha mai mollato fino all'ultimo. Resterà un esempio". 

Omar Pedrini e Max Laudadio di Striscia. Il saluto dei bresciani è quello che si fa sentire in maniera più forte. Tra i volti noti dello spettacolo, provenienti dalla città lombarda, hanno reso il loro omaggio Omar Pedrini, ex chitarrista e leader dei Timoria, e il cantautore Riccardo Maffoni. Della grande famiglia Mediaset è giunto a fare un ultimo saluto alla giornalista, Max Laudadio, di Striscia La Notizia.

"Never give up" l'ultimo messaggio di Nadia Toffa a Paolo Calabresi. Nell'ultimo sms inviato da Nadia Toffa a Paolo Calabresi c'è tutta la forza della iena che non ha mai mollato. L'attore l'ha voluta ricordare con quelle poche parole scritte quando già il tumore stava avendo la meglio. Francesca Galici, Giovedì 15/08/2019, su Il Giornale. La morte prematura di Nadia Toffa ad appena 40 anni fa ancora rumore. Sono tanti i ricordi e le parole delle persone che, direttamente o indirettamente, l'hanno conosciuta e amata e che ora vogliono dare la loro testimonianza. Uno di questi è Paolo Calabresi, l'attore che con Nadia Toffa ha condiviso la conduzione de Le Iene nel 2016. L'uomo ha deciso di ricordarla attraverso l'ultimo sms che la donna gli ha inviato solo poche settimane fa, in un'intervista al Corriere della Sera. “È arrivata come se ne è andata, con un grande sorriso e una grande energia. Li ha portati in redazione, regalando a tutti tanta allegria” dice di lei Paolo Calabresi, che la ricorda appassionata e sempre sul pezzo nel lavoro di redazione. Nadia Toffa non era sposata ma aveva già una famiglia, ed era quella de Le Iene, erano i suoi colleghi con i quali condivideva gran parte delle sue giornate: “Si confondeva più tra i maschi che tra le donne. Aveva quel sorriso che ha mantenuto fino alla fine, era il sorriso di una persona determinata.”. Amava i social la piccola Iena bionda, gli stessi da dove arrivavano fortissimi attacchi contro la sua persona, gli auguri di morte. “Aveva una tendenza particolare alla dimensione social, da cui è arrivata anche qualche cattiveria. Ne soffriva e non riusciva ad accettarlo” dice ora Paolo Calabresi, così come hanno detto Barbara d'Urso e altre persone che la conoscevano nei loro messaggi di commiato. L'attore conserva un bellissimo ricordo di Nadia Toffa, una donna senza sovrastrutture che si mostrava in tv così come era nella vita reale, energica e piena di voglia di fare e di dimostrare, forse di essere all'altezza di quel lavoro in un ambiente così maschile. “Ha fatto inchieste importanti. Quando si trattava di attaccare era l’inviata modello. Ti parlava a un centimetro dalla bocca e ti stava addosso finché le davi la risposta che cercava” dice Calabresi ed è quello che in questi anni hanno visto tutti i telespettatori de Le Iene. “Never give up” ha scritto Nadia Toffa a Paolo Calabresi nell'ultimo sms che gli ha inviato. Era fine maggio, da allora per la Iena sono stati giorni molto duri e difficili, durante i quali lei non ha smesso un attimo di lottare. “Mai arrendersi” è il messaggio che ha voluto lanciare a tutti, non solo al suo amico e collega Paolo Calabresi, e l'ha fatto sempre con il sorriso.

Nadia Toffa, l'autore delle Iene Davide Parenti: «Sapeva che sarebbe finita così, è andata avanti lo stesso». Ilaria Ravarino Giovedì 15 Agosto 2019 su Il Messaggero. Autore de Le Iene, Davide Parenti è tra i più scossi dalla perdita di Nadia Toffa. «È stato come perdere un figlio», il suo unico commento. L'ondata di affetto ricevuta sul web dalla giornalista, tuttavia, è riuscita a rincuorare anche lui.

Il web piange Nadia: se lo aspettava?

«Sono contento che così tanta gente le abbia voluto bene, se lo meritava. È una cosa che fa bene a tutti. Anche a chi, durante questo anno e mezzo di malattia, le è stato vicino. Soffrivamo il fatto che lei soffrisse. È stata bravissima a portare avanti tutto, nonostante gli attacchi e le operazioni, ma è difficile stare vicino a una persona che ha il destino segnato. E Nadia lo sapeva. È andata avanti lo stesso, ha condotto il programma sapendo che sarebbe finita così».

Lo sapeva?

«Questa era la cosa drammatica. Era su di morale, era la più up di tutti, ma fra di noi sapevamo come sarebbe finita la vicenda. Però lei aveva una parola di entusiasmo per tutti, anche per i compagni di conduzione quando facevano le prove».

Tanti, sul web, storcono il naso di fronte a chi la definisce guerriera.

«Lei diceva che non voleva essere trattata da malata. Chi ha il cancro finisce per essere considerato dagli altri quasi una non persona, e allora meglio considerarsi un guerriero che un malato. Un guerriero è uno che non ha alcuna intenzione di spegnersi».

Perché secondo lei ha continuato a lavorare?

«Il fatto che lavorasse l'ha tenuta in vita più di quanto la malattia le potesse permettere. È una malattia spietata. Quando ti dicono che hai quella cosa, in quel posto, e di quel tipo, basta che guardi su internet per leggere che hai al massimo dieci mesi. Lei ne ha fatti venti. Ovviamente sono stati bravissimi i suoi dottori, capaci di allungarle la vita con le giuste cure. Ma aver continuato a lavorare, avere un appuntamento cui tornare, un impegno con il pubblico, era per lei una delle ragioni per continuare a vivere».

Come ha vissuto le ultime puntate de Le Iene?

«È arrivata sfinita alla fine della stagione. Durante le ultime puntate faceva fatica anche a camminare. Eppure veniva, e faceva i balletti. Qualcuno sui social si è accorto della sua difficoltà. Ma lei comunque faceva tutto. Non è riuscita a venire solo all'ultima puntata, le altre le ha fatte tutte. Purtroppo le sue condizioni si sono aggravate proprio all'ultimo».

Sarebbe cambiato qualcosa per voi?

«Se fossimo riusciti a chiudere insieme avremmo forse potuto, in qualche modo, ricominciare con meno difficoltà. Ma così è stata una cosa che ci ha piegato le gambe».

Ultimenotizieflash.com il 15 agosto 2019. Una giornata lunga, piena di dolore e di rabbia per la morte di Nadia Toffa. Migliaia di messaggi sui social, decine e decine le persone che hanno scelto di dedicare un pensiero alla conduttrice. E tra i personaggi del mondo dello spettacolo che hanno omaggiato Nadia, c’è anche Renato Zero che ha dedicato un pensiero molto profondo alla dolce iena, andata via a soli 40 anni. Il 16 agosto saranno celebrati i funerali di Nadia, nella sua Brescia ma intanto, il dolore di chi l’ha conosciuta nella vita di sempre, ma anche solo attraverso il mezzo televisivo, è forte. E da Renato Zero non poteva che arrivare una dolce poesia per Nadia, le sue parole vanno dritte al cuore.

LE PAROLE DI RENATO ZERO CHE RICORDA NADIA TOFFA. Nadia cara, averti avuta qui, anche se per breve tempo, ha significato molto per tanta tanta gente. Un sorriso può essere contagioso. Aiuta chi non trova spesso, lo spunto per godere il vantaggio di una pausa di serenità, in questo povero malconcio pianeta. Qui, dove ormai si condivide appena l’effimero. Brevi sprazzi di luce, in una penombra accecante e pericolosa. Grazie a Dio sei nata. Ti sei fatta conoscere ed amare. Per fortuna guerriera e testarda. Bella al punto di avere irritato persino la morte, che ora ti piange anche lei. E sicuramente adesso ti starà chiedendo perdono, per non averti risparmiata…Raccogli anche il mio abbraccio, fatto di rispettoso silenzio e di chiassosa gratitudine. Vivici ancora intorno e dentro dolcissima sorella! Renato

«Ciao guerriera»: in migliaia  a Brescia per l’ultimo saluto  a Nadia Toffa. Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Corriere.it. Un lungo applauso e poi il silenzio. Così, alle 10 e 25, piazza Duomo di Brescia ha accolto il feretro di Nadia Toffa all’ingresso in cattedrale. Da tutta Italia sono arrivati per salutare la conduttrice, morta martedì a 40 anni per un cancro. A celebrare la messa padre Maurizio Patriciello, il parroco simbolo della lotta alla Terra dei Fuochi. Tra migliaia di persone comuni, anche tanti colleghi. Prima dell’inizio dei funerali, l’ideatore de Le Iene e autore televisivo Davide Parenti ha deposto sulla bara bianca la cravatta nera, simbolo della redazione del programma. «L’abbiamo vista arrivare, sgomitare, era la mia famiglia» ha detto Giulio Golia ai cronisti fuori dal Duomo. In chiesa, il feretro di Nadia Toffa è stata accolta dal parroco di Caivano (Napoli) Maurizio Patriciello, simbolo della lotta nella Terra dei fuochi: «Nadia era dalla parte dei deboli — ha ricordato dal pulpito —. Come Gesù è stata amata e odiata. Pagheremo la voglia di giustizia e verità come ha fatto Nadia, amata per la sua sete di verità. Ha saputo fare del suo lavoro una missione: ha messo l’Italia sottosopra, è stata amata da Nord a Sud, dalla Terra dei fuochi a Brescia. È entrata nel cuore di tutti perché è stata autentica, cocciuta perseverante, tosta. Ha avuto fame e sete di giustizia». E non si è mai vergognata della sua malattia: qualcuno, ha detto il parroco, «non lo ha compreso. Come si fa a comprendere una ragazza bella e sveglia che dice `porto una parrucca´? Nadia, hai raccontato la tua paura, le tue speranze, la tua è stata vita sino all’ultimo respiro. Hai capito che la vita è vita anche quando si fa pesante». Davanti alla famiglia, ai colleghi, agli amici, don Maurizio ha detto: «Abbiamo un debito di riconoscenza verso questa ragazza. Nadia, sei stata capace di mettere l’Italia sottosopra unendo il Nord e il Sud, la Terra dei fuochi con Brescia. In questi giorni mi sono arrivati centinaia di messaggi. Sei entrata nel cuore di tutti e non perché eri un volto della tv. Nadia è stata amata, non solo stimata. Hai chiamato il cancro con il suo nome dando coraggio a tutti noi. Hai raccontato le tue fragilità dandoci coraggio. Nadia ha avuto fame e sete di giustizia, è arrivata là dove la gente era bistrattata e maltrattata. Come nella mia terra, la Terra dei Fuochi, dove il terreno è inquinato anche dai rifiuti del Nord, con la complicità della nostra camorra. Hai gridato ai cristiani sopiti che Dio non è cattivo». Donna coraggio. Così don Maurizio Patriciello ha esortato a ricordare Nadia Toffa. «Come si fa a comprendere una ragazza bella che decide di parlare apertamente della sua malattia? Più terribile della malattia c’è solo la vergogna di essere malati — ha detto dal pulpito —. Negli ultimi giorni tutti sapevano che il suo silenzio significava la cosa peggiore. Lei ha avuto il coraggio di chiamare il cancro con il suo nome. Noi nella Terra dei fuochi non ne abbiamo il coraggio, la chiamiamo «la brutta malattia» perché abbiamo paura. Per Nadia la vita è stata vita fino all’ultimo respiro. Lei ha detto: “La preghiera è un abbraccio”. Non dimentichiamolo, abbiamo il dovere di dirlo a tutto il mondo. Abbiamo il dovere di ricordare a tutti la sua lotta. Dobbiamo raccogliere quello che ha lasciato perché nulla di quello che ha lasciato, nulla vada perduto». Gli amici del minibar di Tamburi sono arrivati in pullman: indossano tutti la stessa maglietta con scritto «Ie jesche pacce pe te!» (in tarantino «Io esco pazzo per te», che è il fulcro di un progetto benefico). Davanti al Duomo di Brescia, ai funerali di Nadia Toffa, morta per cancro a 40 anni, c’è anche la gente di Taranto. La conduttrice ha conosciuto i ragazzi del minibar in occasione di un suo servizio sull’Ilva. «Fu lei che vedendo quella maglietta che ebbe l’idea — raccontano — e, negli anni, siamo riusciti a raccogliere 700 mila euro e abbiamo aperto un reparto oncologico pediatrico. Senza di lei non sarebbe stato possibile». È iniziato e finito con un applauso lunghissimo e Halleluja di Leonard Cohen in sottofondo (una ragazza ha interpretato il brano in chiesa). Dopo la lettera del vescovo Pierantonio Tremolada, il funerale della conduttrice delle Iene Nadia Toffa si è concluso con un saluto collettivo, lungo e commosso. «Ciao, guerriera». Così uno dei partecipanti ha voluto salutare la conduttrice prima che il feretro lasciasse il Duomo di Brescia. Sono state centinaia le persone che hanno voluto partecipare alla cerimonia: in tanti non sono riusciti ad entrare nella cattedrale. Ai giornalisti che aspettavano fuori dal Duomo di Brescia, Giulio Golia, collega di Nadia a Le Iene, ha detto commosso: «Siamo una famiglia: l’abbiamo vista arrivare, sgomitare, era la mia famiglia». «La gente l’amava perché era autentica e l’ha capito. Se c’è una cosa che va valorizzata di Nadia è che, in un’epoca come questa, piena di odio, di senso di rivalsa, di cattiveria e di rabbia esplosiva Nadia, organizzandosi bene e documentandosi ha convogliato tutta questa avversità in qualcosa di concreto» le parole di Enrico Lucci, altro storico collega di Toffa.

L’addio a Nadia Toffa, la Iena che sapeva essere colomba. Il Dubbio il 17 Agosto 2019. Per l’ultimo saluto a Nadia Toffa una folla ha partecipato ai funerali che si sono svolti al Duomo di Brescia, celebrati da don Maurizio Patriciello. Donna coraggio. Così don Maurizio Patriciello ha esortato a ricordare Nadia Toffa. «Come si fa a comprendere una ragazza bella che decide di parlare apertamente della sua malattia? Più terribile della malattia c’è solo la vergogna di essere malati – ha spiegato dal pulpito -. Negli ultimi giorni tutti sapevano che il suo silenzio significava la cosa peggiore. Lei ha avuto il coraggio di chiamare il cancro con il suo nome. Noi nella Terra dei fuochi non ne abbiamo il coraggio, la chiamiamo “la brutta malattia” perché abbiamo paura. Sei stata autentica, cocciuta, tosta, coraggiosa, una “Iena” ma anche una colomba. Per Nadia la vita è stata vita fino all’ultimo respiro. Lei ha detto: «La preghiera è un abbraccio». Non dimentichiamolo, abbiamo il dovere di dirlo a tutto il mondo. Abbiamo il dovere di ricordare a tutti la sua lotta. Dobbiamo raccogliere quello che ha lasciato perché nulla di quello che ha lasciato, nulla vada perduto». Il vescovo, Pierantonio Tremolada, ha ricordato che Nadia «si è sempre detta orgogliosa di essere bresciana. Aveva passione per la vita vera». Grande commozione dentro e fuori dalla Cattedrale: «Ripeteva sempre di sorridere alla vita», ha ricordato una nipote. «Ciao Nadia, ci mancherai», così invece amici e colleghi hanno salutato il feretro alla fine della funzione. Toccante il messaggio degli autori delle Iene. «Ci aveva convinto che da questo cancro sarebbe guarita, era impossibile dire di no a Nadia Toffa», ha spiegato Max, uno degli autori della trasmissione Mediaset, «e oggi hai unito gli amici, i tuoi colleghi, la tua famiglia, la tua famiglia delle Iene. Senza di te niente sarà più come prima. Sei magica, ciao». Davide Parenti, ideatore del programma di Italia Uno, ha deposto sulla sua bara chiara la cravatta nera, simbolo della redazione del programma. «Detestava l’ingiustizia, era una rompicoglioni terribile che non staccava mai, una persona autentica e la gente l’ha capito», ha affermato l’ex Iena Enrico Lucci. La messa si è chiusa tra gli applausi commossi e con l’Hallelujah di Leonard Cohen intonato all’uscita del feretro, salutato con un «Ciao guerriera». Alcuni giovani indossavano una maglietta con la scritta «Ie jesche pacce pe te!», in tarantino «Io esco pazzo per te», un progetto benefico a sostegno dell’oncologia pediatrica che era stato «sposato» dalla conduttrice. «Siamo qui», hanno detto in piazza, «per rendere omaggio all’onestà di Nadia che ci ha insegnato a lottare a testa alta senza paura». Tra migliaia di persone comuni anche i colleghi della Tv de Le Iene e dei programmi Mediaset.

Folla ai funerali di Nadia Toffa a Brescia, don Patriciello: "Hai dato coraggio a tutti noi, eri dalla parte dei deboli". Tanta gente nella cattedrale per l'ultimo saluto, dopo la camera ardente nel teatro Santa Chiara della città dove era nata la conduttrice, morta martedì per un tumore. La Repubblica il 16 agosto 2019. Anche ieri, nel giorno di Ferragosto, la processione non si è interrotta: in questi giorni tantissime persone hanno voluto portare un saluto a Nadia Toffa, la conduttrice televisiva morta martedì scorso all'età di 40 anni dopo aver combattuto per due anni e mezzo contro un tumore. La camera ardente nel teatro Santa Chiara è rimasta aperta costantemente, per permettere a tutti di entrare: ed è qui a Brescia, la città in cui Nadia Toffa è nata e viveva, che oggi si tengono i funerali nella Cattedrale. Alle 10.30 le campane hanno suonato a lutto, mentre tantissima gente - arrivata anche dalla Puglia, da Taranto - entrava in chiesa e altrettanta restava fuori perché non c'era più spazio. In chiesa tutti i colleghi de Le Iene. Il feretro è stato accolto dal parroco di Caivano (Napoli), Maurizio Patriciello, simbolo della lotta nella Terra dei Fuochi con gli amici che hanno indossato una maglietta con la scritta "Jesche pacce pe te!", in tarantino "Io esco pazzo per te" in un progetto benefico. "Nadia era dalla parte dei deboli - ha ricordato dal pulpito don Maurizio -. Come Gesù è stata amata e odiata. Pagheremo la voglia di giustizia e verità come ha fatto Nadia, amata per la sua sete di verità. Hai saputo fare del tuo lavoro una missione". A officiare la messa ci sarà quindi anche padre Maurizio Patriciello, come aveva chiesto la stessa conduttrice, che si era occupata spesso del tema nei suoi servizi per la trasmissione Le Iene. Il prete ha aggiunto: "Abbiamo un debito di riconoscenza verso questa ragazza - ha detto don Maurizio -. Nadia, sei stata capace di mettere l'Italia sottosopra unendo il Nord e il Sud, la Terra dei fuochi con Brescia. In questi giorni mi sono arrivati centinaia di messaggi. Sei entrata nel cuore di tutti e non perchè eri un volto della tv. Nadia è stata amata, non solo stimata". "Hai chiamato il cancro con il suo nome dando coraggio a tutti noi - ha proseguito -. Hai raccontato le tue fragilità dandoci coraggio. Nadia ha avuto fame e sete di giustizia, è arrivata là dove la gente era bistrattata e maltrattata. Come nella mia terra, la Terra dei Fuochi, dove il terreno è inquinato anche dai rifiuti del Nord, con la complicità della nostra camorra. Hai gridato ai cristiani sopiti che Dio non è cattivo". Prima dell'inizio dei funerali l'ideatore de Le Iene e autore tv Davide Parenti - con lui Pablo Trincia, Matteo Viviani, Filippo Roma, Enrico Lucci e Dino Giarrusso - ha deposto sulla bara chiara la cravatta nera, simbolo della trasmissione. "In punta di piedi ma con sincero affetto vorrei farmi vicino ai familiari di Nadia Toffa, condividere nella speranza per quanto mi è possibile il loro grande dolore". Inizia così il messaggio del Vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada letto durante i funerali di Nadia Toffa. "Mi affianco - è il pensiero del Vescovo - ai suoi colleghi di lavoro e alle tante persone che l'hanno conosciuta, per rendere onore al suo indomito coraggio, al suo sorriso gentile, alla sua lotta contro la disonestà, ma sopratutto la sua passione per la vita, la vita vera". Accanto alla bara bianca, in questi giorni, ci sono sempre stati la mamma, il papà, le sorelle e lo storico ex fidanzato Emanuele. "Ci sta guardando da lassù anche in questo momento", ha ripetuto la madre Margherita stringendo centinaia di mani. Alla fine della cerimonia è stata cantata Halleluja di Leonard Cohen. I detenuti del carcere di Brescia hanno fatto una colletta per comprare una corona di fiori, i lavoratori dell'Ilva di Taranto hanno voluto mandare un messaggio alla famiglia. Tanti i fan che sono arrivati a Brescia per salutarla, assieme a colleghi storici - Giulio Golia, Max Laudadio, il regista Davide Parenti -, cantanti e amici bresciani come Omar Pedrini, l'ex ct della Nazionale Cesare Prandelli.

Funerale Nadia Toffa, un lungo applauso accompagna la bara nella cattedrale di Brescia. Repubblica tv il 16 agosto 2019. All'arrivo del feretro di Nadia Toffa, accompagnato in auto dalla madre Margherita e dal sacerdote della terra dei fuochi Don Maurizio Patriciello, la piazza antistante la cattedrale di Brescia ha salutato la conduttrice televisiva con un lungo applauso, andato avanti a più riprese durante l'ingresso in chiesa della bara. Oltre un migliaio le persone all'esterno della basilica, sulle cui porte sono state lasciate le corone di fiori donate da Pier Silvio Berlusconi e dalla trasmissione Verissimo.

Funerale Nadia Toffa, gli abbracci tra i colleghi Iene. Giarrusso: "È stata esempio per tutti". Repubblica tv il 16 agosto 2019. Si abbracciano e si salutano Pablo Trincia, Matteo Viviani, Filippo Roma, Enrico Lucci e Dino Giarrusso per l'ultimo saluto a Nadia Toffa nella cattedrale di Brescia. Con loro l'ideatore del programma 'Le Iene' Davide Parenti e tanti operatori e tecnici della trasmissione tv. "Se ne va una persona molto brava - ha detto Giarrusso prima di entrare in chiesa - per me è stata un esempio prima e lo è stata anche dopo".

Funerale Nadia Toffa, l'amico Enrico Lucci: "Era vera e lottava contro le ingiustizie". Repubblica tv il 16 agosto 2019. "In un'epoca come questa piena di odio, rabbia e cattiveria, lei era un esempio". Queste le parole dell'ex Iena Enrico Lucci a margine del funerale dell'amica Nadia Toffa a Brescia. "Nadia era una che detestava l'ingiustizia, sembra banale ma – ha spiegato Lucci - lo faceva in modo autentico e sincero, documentandosi e realizzando un'efficace azione giornalistica".

Funerale Toffa, da Taranto per abbracciare Nadia: "Ci aiuterà anche da lassù". Repubblica tv il 16 agosto 2019. Alla fine del funerale Lucia Giangrande, una delle mamme del Mini bar di Taranto a pochi metri dall'Ilva, si è prostrata piangendo sulla bara della conduttrice prematuramente scomparsa a causa di un tumore. "Io non so come fare senza te", ha sussurrato al feretro di Nadia Toffa. Lucia, che ha una figlia malata di cancro, faceva parte di una delegazione di tarantini arrivati a Brescia per il funerale di Nadia Toffa, che nella sua carriera si è impegnata a raccontare le problematiche relative all'acciaieria della città pugliese. Una decina in tutto le persone venute da Taranto, vestite con una maglietta celebrativa "Ie jesche pazzee te", in italiano "Io divento pazzo per te", indossata dalla stessa Toffa durante una puntata de Le Iene.

Nadia Toffa, l’omaggio di Taranto alla giornalista scomparsa in un murale. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 Corriere.it. Un murale per Nadia Toffa, al rione Salinella: così Taranto ha voluto omaggiare la «iena», scomparsa a soli 40 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro, per il suo impegno per le cause della città. Il disegno è in via di realizzazione, e la Toffa appare sorridente, con il classico «smoking». La giornalista bresciana con i suoi servizi sull’Ilva e sull’inquinamento ha portato all’attenzione nazionale la difficile situazione del capoluogo jonico. E anche «Le Iene», sui loro profili social, hanno ringraziato la città di Taranto, pubblicando le foto del disegno. E un pensiero, a un mese dalla scomparsa (era mil 13 agosto, ndr), un pensiero arriva anche dal comico Andrea Pucci, su Instagram: «È così, mi vieni in mente, le nostre chiacchierate brevi ma sempre ricche di contenuti, i nostri abbracci, la stima professionale ed umana reciproca, vorrei sentire il suono della tua voce», ha scritto sul suo profilo social pubblicando una foto sua insieme a Nadia. Lo scatto risale a qualche anno fa, quando i due lavorarono insieme nel programma televisivo.

"Bella", la dedica di Jovanotti a Nadia Toffa sulla spiaggia di Policoro. Repubblica tv il 14 agosto 2019. Tappa a Policoro per il “Jova Beach Party”. Durante il concerto Lorenzo ha cantato la sua Bella per Nadia Toffa, la conduttrice cui aveva già dedicato un post scrivendo: "Ci mancherai ma il tuo coraggio resta". Nella lunga serata sulla spiaggia Jovanotti ha condiviso il palco con i Tarantolati di Tricarico per una scatenata Affermativo per poi passare a una jam reggae con Alborosie.

Morta la nonna di Nadia Toffa, non ha retto al dolore della scomparsa della nipote. Scomparsa a 97 anni la nonna di Nadia Toffa, la signora Maria Cocchi. Sembra non abbia retto al dolore della morte della nipote. Roberta Damiata, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. A soli 8 giorni dalla morte di Nadia Toffa, la conduttrice de “Le Iene” scomparsa dopo una lunga malattia, se n’è andata anche sua nonna Maria Cocchi. Maria era la signora più anziana di Cerveno, il paese dove si sono svolti i funerali. Era nata a Braone il 25 gennaio del 1922, e si era poi trasferita a Cerveno dopo il matrimonio. In paese la ricordano come una donna generosa e amata da tutti, che ha dedicato la sua vita alla famiglia e in particolare al marito Enrico. Tre figlie e cinque nipoti, tra i quali anche Nadia Toffa di cui la signora Maria andava molto orgogliosa. La sua scomparsa è rimasta un fatto privato, e i funerali si sono svolti il 20 agosto alla presenza della sola famiglia e dei compaesani, nella chiesa parrocchiale di Cerveno. Nonostante l’età avanzata, sembra che la causa della morte della signora non siano stati i suoi 97 anni, ma il fatto che non abbia retto alla notizia della scomparsa della nipote e se n’è andata anche lei a solo 8 giorni dalla morte dell'indimenticata "Iena".

Nadia Toffa, da Taranto 30 mila firme per dedicarle reparto oncologico. La raccolta è stata avviata online per l'ospedale tarantino. La Gazzetta del Mezzogiorno. Oltre 30mila firme sono state raccolte dalla petizione online, attiva sulla piattaforma Change.Org, per intitolare il reparto Oncoematologico pediatrico dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto a Nadia Toffa, l'inviata e conduttrice delle Iene scomparsa il 13 agosto scorso dopo aver combattuto una lunga battaglia contro un tumore. La raccolta firme, rivolta al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, è stata lanciata nei giorni scorsi. Nel testo si ricorda che Nadia Toffa «era cittadina onoraria di Taranto, su delibera del Consiglio comunale (attestato consegnato il 14 gennaio scorso in una cerimonia a Palazzo di citt, ndr). Questo il riconoscimento che le era stato dato per le sue battaglie in difesa della salute dei tarantini, e dei bambini in particolare modo, salute costantemente minacciata dall’inquinamento del polo siderurgico». Nadia Toffa era stata testimonial della campagna di vendita solidale delle magliette con la scritta 'Ie jesche pacce pe tè (io esco pazzo per te) ideata dagli amici del Mini Bar del rione Tamburi, il più esposto alle emissioni dello stabilimento siderurgico, attraverso la quale era stata raccolta la somma di oltre 500mila euro, somme servita anche per l'assunzione di una pediatra nel reparto oncoematologico. 

Taranto, ok a reparto intitolato a Nadia Toffa, la giunta regionale ha approvato. Sono state raccolte più di 90mila firme. E stasera ripartono Le Iene con un filmato inedito dell'ultimo progetto di Nadia. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Ottobre 2019. A Nadia Toffa sarà intitolata l’Unita di Oncoematologia pediatrica dell’Ospedale SS. Annunziata di Taranto. Ad annunciarlo, ieri sera, è stato il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, che ha continuato: «In migliaia avete firmato la petizione per chiedere che venisse fatto questo gesto in sua memoria. Un gesto che abbiamo fatto con il cuore, approvando oggi in Giunta regionale la delibera che dà il via all’intitolazione. Perché Nadia si è sempre battuta per il bene di Taranto, con particolare attenzione alla tutela della salute dei bambini, e noi non la dimenticheremo mai». Per la petizione sono state raccolte più di 90mila firme. E stasera riparte il programma, su Italia 1, in cui verrà mostrato un documento in cui si ricorda Nadia Toffa: un video inedito dove la più amata delle Iene chiede di essere accompagnata a incontrare le persone a lei davvero care. Il video, che Nadia ha voluto fare pochi mesi prima di andarsene, racconta di questo suo ultimo progetto.

100 Iene in studio per l'omaggio a Nadia Toffa. 100 Iene renderanno omaggio a Nadia Toffa durante la prima puntata del programma di Davide Parenti della prima stagione senza di lei; un saluto pensato, scritto e voluto proprio dalla Toffa, l'ultimo servizio di 20 minuti dell'indimenticata iena. Francesca Galici, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. Per Le Iene nulla sarà più come prima. Il 13 agosto 2019 è stata una data segnante, uno spartiacque per il programma di Italia1, per tutti i suoi protagonisti ma anche per il pubblico da casa. La morte di Nadia Toffa, una delle colonne portanti de Le Iene, ha inevitabilmente cambiato i piani, ha rotto qualcosa che non potrà più essere aggiustato. Il programma di Davide Parenti torna in onda oggi, 1 ottobre, e lo fa proprio con un omaggio, un ricordo e un saluto a/e di Nadia Toffa. Alessia Marcuzzi nei giorni scorsi aveva già dato qualche anticipazione sull'atmosfera che si respirava nello studio de le Iene. Un post semplice, con poche parole, che ha riassunto perfettamente lo stato d'animo di chi era lì. “E c'è un forte rumore di niente”, si legge nell'immagine condivisa da Alessia Marcuzzi, tornata al suo ruolo di iena in studio. Il forte rumore di niente è il suono assordante dell'assenza, il vuoto lasciato dalla risata di Nadia Toffa che per tantissimi anni ha riempito quello studio e la redazione de Le Iene. È difficile ricominciare, è difficile andare avanti quando un pezzo importante non c'è più. Nadia Toffa era un pilastro, una sicurezza, un volto amico e si può solo immaginare quello che i suoi colleghi - la sua famiglia in giacca e cravatta . provano ogni volta che arrivano in redazione e lei non c'è. Nadia Toffa era un vulcano di idee e il video di 20 minuti che andrà in onda oggi è stato proprio una sua idea. L'ha voluto, scritto e pensato e sarà come se fosse il suo ultimo servizio, l'ultimo lavoro che ha voluto regalare ai suoi colleghi e al suo pubblico. È un saluto de Le Iene a Nadia Toffa ma è anche un saluto di Nadia Toffa a Le Iene. E in studio, oggi, ci saranno tutti a renderle omaggio. 100 Iene che si sono susseguite nel programma nel corso di questi 23 anni, per l'occasione rimetteranno la giacca, indosseranno la cravatta nera e torneranno in quello studio per salutare Nadia Toffa, per omaggiare il suo sorriso, il suo impegno e le sue lotte che negli anni hanno contribuito a rendere l'Italia un posto migliore. Tra gli altri, ci saranno Simona Ventura, Claudio Bisio, Luciana Littizzetto, Ilary Blasi, Alessandro Cattelan, Enrico Lucci, Victoria Cabello, Luca e Paolo, Cristina Chiabotto, Paolo Calabresi e il Trio Medusa, solo per citarne alcuni. C'è stato un tempo prima e c'è un tempo dopo la morte di Nadia Toffa. Le Iene faranno sempre Le Iene, gli inviati continueranno a scoperchiare ingiustizie e a fare ironia. In studio si continuerà a ridere e a far divertire il pubblico. In apparenza nulla apparirà diverso da come era, a parte l'assenza della zazzera bionda di Nadia Toffa. Eppure nulla sarà come prima di quel 13 agosto 2019.

Nadia Toffa, dalla Ventura a Bisio: 100 iene in studio per salutare l'amica scomparsa. Libero Quotidiano l'1 Ottobre 2019. Luciana Littizzetto, Simona Ventura, Claudio Bisio, Alessandro Cattelan, Geppi Gucciari, Luca e Paolo, Enrico Lucci, Fabio Volo, Enrico Brignano, sono solo alcune delle 100 iene che hanno deciso di venire in studio per salutare Nadia Toffa, scomparsa ad agosto, questa sera alle 21,25 su Italia 1, per la prima puntata de Le Iene Show. Un'unica grande famiglia pronta a stringersi nell’ abbraccio più caloroso prima di tornare in scena con questa nuova stagione. Una reunion di tutti quelli che in questi 23 anni hanno vestito i panni da iena. Una bellissima iniziativa, a cui hanno deciso di aderire (in ordine alfabetico): Agnello Fabio, Agresti Andrea, Argentero Luca, Baccaglini Paul, Bello Nic (Bugs), Bertolino Enrico, Berry Marco, Bisio Claudio, Bizzarri Luca, Blasi Ilary, Boschin Liza , Brignano Enrico, Cabello Victoria, Calabresi Paolo, Canino Fabio, Capatonda Maccio, Casciari Mauro, Cattelan Alessandro, Chiabotto Cristina, Cizco, Cordaro Michele, Corti Stefano, Cucciari Geppi, De Devitiis Nicolò, De Giuseppe Alessandro, De Luigi Fabio, Di Cioccio Elena, Di Sarno Alessandro, Duro Angelo, Facchetti Gianfelice, Fubini Marco, Gabri Gabra, Gialappa’s Band, Gauthier Laura, Gazzarrini Sebastian, Gerardi Antonio, Giarrusso Dino, Golia Giulio, Granieri Francesco, Griffith Clive, Herbert Ballerina, Innocenzi Giulia, Jnifen Afef, Kessisoglu Paolo, Lastrico Maurizio, Lamberti Tiziano (Bugs), Laudadio Max, La Vardera Ismaele, Lillo e Greg, Littizzetto Luciana, Lorenzini, Alberto, Lucci Enrico, Maisano Marco, Mago Forest, Mangalaviti Giovanni, Marcuzzi Alessia, Martinelli Alice, Matano Frank, Mitch, Monteleone Antonino, Monti Gianfranco, Morelli Giampaolo, Morini Jacopo (Bugs), Nardi Filippo, Nobile Sabrina, Onnis Alessandro, Ornano Antonio, Palmieri Nina, Parenti Alessio, Pasca Cristiano, Pecoraro Gaetano, Pelazza Luigi, Pellizzari Andrea, Pif, Pio e Amedeo, Politi Alessandro, Pulcini Pietro, Quintale Peppe, Rafanelli Angela, Rei Roberta, Roma Filippo, Rosanova Rosario, Rovazzi Fabio, Ruggeri Veronica, Sarnataro Mary, Savino Nicola, Schembri Silvio, Sortino Alessandro, Sparacino Pietro, Torielli Niccolò, Trincia Pablo, Trio Medusa, Trombetta Riccardo, Ventura Simona, Vergassola Dario, Villa Debora, Viviani Matteo, Volo Fabio, Yang Shi. Conducono il programma stasera e tutti martedì Alessia Marcuzzi e Nicola Savino, accompagnati dalle voci della Gialappa’s band. Ideatore de  Le Iene  e capo-progetto è Davide Parenti. 

Alessia Marcuzzi in lacrime alle prove de Le Iene: è la prima stagione senza Nadia Toffa. Le prove della nuova stagione de Le Iene non sono state facili: Alessia Marcuzzi e tutti i suoi colleghi hanno sentito la mancanza di Nadia Toffa e la conduttrice ha condiviso un triste pensiero sui social. Luana Rosato, Lunedì 30/09/2019, su Il Giornale. Il prossimo 1 ottobre partirà la nuova stagione de Le Iene, la prima senza Nadia Toffa, e durante la giornata di ieri, domenica 29 settembre, si sono tenute le prove durante le quali Alessia Marcuzzi non è riuscita a trattenere le lacrime. La conduttrice, che sarà al timone del programma di Italia 1 ideato da Davide Parenti insieme a Nicola Savino, ha concluso la giornata di prove rivolgendo un pensiero all’amica e collega scomparsa. “E c’è un forte rumore di niente”, ha scritto la Marcuzzi sul suo profilo Instagram senza specificare a cosa si riferisse, ma in tanti hanno intuito che la tristezza fosse dovuta proprio all’ingresso negli studi Mediaset dopo il 13 agosto scorso, giorno della scomparsa di Nadia Toffa. Se Alessia, infatti, ha scelto di non chiarire a chi o cosa stesse pensando, i suoi follower hanno immediatamente compreso che l’inizio delle prove negli studi televisivi de Le Iene aveva destabilizzato l’umore della conduttrice, solita condividere con i suoi fan momenti di gioia e spensieratezza. Questa volta, però, la Marcuzzi non è riuscita proprio a sorridere: la mancanza di Nadia si sente forte e la nuova stagione del programma di informazione di Italia 1sarà nel ricordo della inviata e conduttrice in giacca e cravatta. “Lei vi vuole col sorriso. Forza!”, “Fa strano sentirti giù...dai dai!!!!”, hanno commentato alcuni follower di Alessia Marcuzzi, “Lei vi vede e fa il tifo per voi”, “Ha bisogno di vedere il vostro sorriso per essere in pace! Manca a tutti!”, hanno aggiunto altri utenti della rete. La Marcuzzi, però, ha scelto di non replicare e si è chiusa in un religioso silenzio: la prima puntata de Le Iene sarà difficile per lei e per tutti i suoi colleghi.

Da corriere.it il 25 agosto 2019. Sono stati insieme per 10 anni e nonostante nel 2017 la loro relazione fosse finita non si sono mai lasciati davvero. E’ quanto dichiara al settimanale DiPiù Massimiliano Ferrigno della sua storia con Nadia Toffa, la presentatrice televisiva scomparsa a soli 40 anni dopo una lunga battaglia contro un tumore al cervello. L’autore storico delle Iene rivela di essere stata vicino all’ex fidanzata fino all’ultimo: «Per me Nadia era tutto: era la vita stessa - racconta - Con lei se ne sono andati dieci anni della mia vita. Non l’ho mai lasciata sola nemmeno un momento, sono stato io a raccogliere il suo ultimo desiderio».

L’ultimo desiderio. L’ultimo desiderio di Nadia è stato di avere don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, città nell’hinterland napoletano, ai suoi funerali. Patriciello aveva condiviso con la conduttrice la battaglia contro i roghi nella Terra dei Fuochi. Massimiliano ha anche raccontato come Nadia avesse avuto anche un’altra storia dopo di lui, ma di essere rimasta profondamente delusa dal nuovo compagno. In un post sui social la 40enne aveva raccontato di averlo lasciato perché la trascurava e non l’aveva mai accompagnata a fare le terapie: «Quell’uomo non ero io perché io e Nadia ci siamo visti tutti i giorni fino al giorno in cui se ne è andata».

Nadia Toffa, 100 (ex) Iene  sul palco per ricordarla.  In onda il suo video di addio. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Maria Volpe. Martedì sera, primo ottobre, su Italia 1 sono riprese «Le Iene», la prima puntata dopo la scomparsa di Nadia il 13 agosto. Tutti aspettano di vedere «Le Iene», la prima puntata senza Nadia Toffa, martedì primo ottobre alle 21.25 su Italia 1. Sono curiosi, hanno nostalgia. Il pubblico vuole vedere come verrà ricordata. Lei rideva sempre, lei ha sorriso fino alla fine. Piangere non è previsto. E il programma ideato da Davide Parenti ha deciso di ricordarla in due momenti diversi e intensi. Il primo è un video allegro, «Nadia, stiamo arrivando», dove tutte le Iene del passato si preparano, si vestono, si lavano, escono di casa, salutano i figli, prendono il treno , la macchina, la bici e vanno nello studio delle Iene lì sul palco, vestiti di neri a omaggiare Nadia. E rivedi volti che avevi rimosso in veste di Iene, personaggi noti di cui proprio non ti ricordavi, star che ora fanno tutt’altro. È straniante vederli tutti lì, però è buffo: Claudio Bisio, Enrico Lucci, Luciana Littizzetto, Simona Ventura, Luca e Paolo, Fabio Volo, Enrico Bertolino, Victoria Cabello, Geppi Cucciari, Enrico Brignano, Marco Berry, Fabio Canino, Alessandro Cattelan , Fabio De Luigi, Dino Giarrusso, Afef, Mago Forest, Matano, Pif, Pio e Amedeo, Angela Rafanelli, Favio Rovazzi, Alessandro Sortino, Dario Vergassola. E tanti tanti altri. Tutti lì per lei, per sottolineare quel senso di appartenenza che ha sempre contraddistinto il programma, per regalare quel senso di famiglia che Toffa nutriva verso tutti i suoi compagni. Ha ragione Bertolino che scrive «Ci siamo ritrovati tutti assieme, un altro piccolo grande capolavoro di Nadia. Grazie Nadia per quest’ennesimo bel Servizio». E naturalmente ci sono le «Iene » di oggi, i suoi compagni di viaggio degli ultimi mesi: Nina Palmieri, Roberta Rei e Veronica Ruggeri (il trio femminile si alternerà alla guida nella puntata del giovedì sera, con il trio maschile formato da Giulio Golia, Filippo Roma e Matteo Viviani). Senza dimenticare tutti gli inviati: Andrea Agresti, Niccolò Bello, Cizco, Michele Cordaro, Stefano Corti, Alessandro De Giuseppe, Nicolò De Devitiis, Sebastian Gazzarrini, Giulia Innocenzi, Ismaele La Vardera, Alice Martinelli, Antonino Monteleone, Mitch, Alessandro Onnis, Cristiano Pasca, Gaetano Pecoraro, Luigi Pelazza, Alessandro Politi, Roberta Rei, Alessandro Di Sarno, Silvio Schembri, Niccolò Torielli, Gaston Zama. Entrano le cento Iene sul palco. Trattengono le lacrime. Si dispongono sul palco tutte vestite di nero e non in segno di lutto, ma in segno di amicizia. Sullo sfondo una bella foto di Nadia. La musica è quella dei Rolling Stones. Qualcuno accenna un sorriso. La foto di Nadia dietro sembra volerli abbracciare tutti. Standing ovation. Gli occhi si fanno lucidi, gli applausi si fanno forti. Parla Alessia Marcuzzi la conduttrice del martedì insieme a Nicola Savino. «Abbiamo pensato mille volte come cominciare la prima puntata delle Iene senza di lei. Mi mancano le parole. La cosa migliore era restare qua tutti insieme, tutti uniti e festeggiare la vita, perchè quello era quello che voleva lei. Molti di noi non sapevano cosa sarebbe successo davvero. Nadia non ne aveva parlato con tutti. A tutti aveva detto che aveva un male terribile, ma tutti avevamo una speranza. Quando è arrivata la notizia, la botta è stata troppo forte. Anche per voi. Tutti gli abbracci del pubblico, una cosa gigante. Il potere di Nadia era unire le persone, lei era un fluidificante umano. E ci ha messo qui anche stasera . Forse non tutti sanno che Nadia era a conoscenza fin da subito che il suo cancro non le avrebbe dato più di un anno di vita. Quando lei diceva “se vai sui google e digiti il nome della mia malattia ti gira la testa e ti devi sedere”. Noi ricordiamo la Nadia combattiva, la Nadia grintosa, delle inchieste, però anche lei ha pianto tanto, ma non lo ha fatto vedere mai . Quella guerriera lì ha deciso di combattere a modo suo, lei voleva andare avanti e sorridere, anche se aveva paura voleva darla vinta alla malattia. Ha continuato a non vergognarsi, ci ha tenuto a ricordare che in quasi tutte le famiglie c’è qualcuno che combatte con dignità e forza. Lei diceva sempre che non conta quanto vivi, ma come vivi. Ha fatto sempre quello che avrebbe voluto fare, voleva fare la Iena fin da ragazza. Secondo me lei ora ci sta guardando e sta ridendo e ci sta dicendo “ma guarda ‘sti minchioni”. Tu sei una ragazza magica Nadia, ci hai riempito i cuori e ci stai guardando da qualche parte. E Nadia ha deciso di lasciarci una testimonianza, una sorpresa, guardate». Ecco lo speciale ricordo di Nadia, voluto da lei, scelto da lei, pensato da lei, con lucidità, prima di morire. Un video lungo 20 minuti dove parla Nadia. Si sente la voce di Nadia Toffa che manda un messaggio vocale a Giorgio Romiti, l’autore che più spesso ha lavorato con lei. Un amico. È il 21 dicembre 2018, La Iena sa di avere poco da vivere. Nadia lo chiama al telefono e gli chiede di andare a casa sua con la telecamera, microfono, ecc perché ha una idea, anzi una sorpresa. Del resto tutta la famiglia delle Iene — in primis il suo ex fidanzato storico, autore del programma, Max Ferrigno — dall’inizio alla fine hanno detto «sì» ai desideri di Nadia. Giorgio arriva. La telecamera si accende, compare Nadia: è seduta nella cucina di casa sua. Ha i capelli corti, spettinati, il viso gonfio, un sorriso vitale. Di fronte a lei (ma non si vedono mai) Giorgio e Max. «La sorpresa — comincia a raccontare — è che vorrei incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo mio ultimo anno tremendo, persone che contano davvero, che mi hanno dato la carica. Vorrei che tu mi aiutassi a filmare questi incontri». Luca chiede perché li vuole incontrare adesso. «Perché in questo ultimo anno sono cambiata tantissimo. Non è il quanto vivi, ma il come vivi. Quando muore una persona, trovo stupida la domanda: quanti anni aveva? Non vuol dire niente. Non contano gli anni, ma se hai vissuto intensamente. Io sto facendo il possibile per ritardare la mia morte, tutte le cure possibili. Faccio tutto ma continua a tornare sto tumore. Vedremo quanto tempo avrò ancora, ma non credo molto».

Voglio sapere la verità, quello che pensano di me. La forza delle sue parole arriva come un pugno allo stomaco. Lei vuole incontrare le persone che contano perché vuole sapere da loro cosa pensano davvero di lei, vuole vivere un momento di pura verità e lasciare un bel ricordo. «Dal fuori gli altri come ti vivono» questo voglio sapere. «Io sono gioiosa e amo la vita ma voglio sapere da loro la verità, cosa pensano davvero di me. Non ho paure di critiche, non sono permalosa, magari si tolgono qualche sassolino dalle scarpe. Mi piace la schiettezza, la verità , la naturalezza». Chi vuoi incontrare? chiede Luca «Le persone che nel momento del bisogno ci sono davvero le conti piu o meno sulle dita di una mano — sottolinea Nadia — . Un dolore ti sbatte in faccia anche questo. Capisci chi ti ama davvero». La forza delle sue parole arriva come un pugno allo stomaco.

Lei. «Voglio incontrare mia mamma Margherita, persona meravigliosa, mi spiace più per lei che per me; Max che sarà con noi alla chemio; due mie compagne del liceo classico, Margherita e Francesca; un mio amico di Brescia, Tommaso che per me è come un fratello gli voglio un bene dell’anima; il mio boss Davide Parenti. Poi la mia amica Sara, la mia nonna Maria, 97 anni, donna tutto d’un pezzo, una roccia; la mia nipotina Alice (sono orgogliosa perché mi assomiglia un sacco). E vorrei andare da Silvio Berlusconi: non l’ho mai conosciuto, ma avrei tante curiosità da chiedergli. Provo molta gratitudine per lui, perchè lui ha fatto partire l’elicottero per me per farmi portare subito al San Raffaele quando sono stata male a Trieste. È davvero preoccupato per me. Vorrei ringraziarlo. E gli direi: “Io non l’ho mai votata, non sono la migliore conduttrice di Mediaset, perché mi vuole così bene?”». Ed effettivamente Parenti conferma che «siamo profondamente grati al nostro editore. La sua stanza fissa, riservata al San Raffaele, l’ha messa a disposizione di Nadia, ha sempre chiesto sue notizie, ha fatto il possibile per lei. Le telefonava e commentava le puntate. Le diceva “Quando non ci sei tu, quelle tre cornacchie...”». (Nadia in realtà non incontrerà mai Silvio Berlusconi, ma si sentiranno spesso al telefono)

Testamento gioioso. Il video di Nadia è davvero un testamento gioioso, ma che non fa sconti: «La tragedia ti sbatte in faccia la verità, chi ti ama. E tutto è più chiaro. E capisci che gli amici veri non ti mollano». Perché vuoi fare questo film Nadia? chiede ancora Luca. «Perché potremo rivederci, fermare il momento. È congelare un istante». A questo punto arriva anche Totò, la sua bassotta adorata. si abbracciano. Fine del video. Tutti quei filmati sono stati registrati. Sono intensi, commoventi. «Non è ancora tempo di mandarli in onda — spiega Parenti — troppo doloroso. Vedremo più avanti». Ora c’è da ricominciare, da riprendere la vita, le riunioni. Il video di Nadia è davvero un testamento gioioso. Si torna in studio. Alessia Marcuzzi e Nicola Savino chiedono un sorriso per Nadia. Savino: «Iniziamo questa stagione della puntata delle Iene parlando di Sanità: il reparto dell’ospedale di oncoematologia a Taranto è stato è dedicato a Nadia Toffa del resto lei è già cittadina onoraria di Taranto. E ora passiamo a una buona notizia: l’eccellenza dell’Ospedale di Bologna». E si ricomincia davvero.

L’ultimo video di Nadia Toffa come un testamento gioioso. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Nel radunare gli amici, incontrare le persone più care l’ex iena continua a parlare e ci mette di fronte alla nostra ipocrisia, ai nostri sogni di onnipotenza. Cento Iene per ricordare Nadia Toffa. Cento volti dolenti a inizio stagione per rievocare l’amica morta. L’ultimo gesto compiuto da Nadia non è tanto quello di aver radunato gli amici per sottolineare l’appartenenza allo spirito di gruppo o per regalare quel senso di famiglia che Toffa nutriva verso i suoi compagni. C’è anche questo, sottolineato da Alessia Marcuzzi: «Il potere di Nadia era unire le persone, lei era un fluidificante umano. E ci ha messo qui anche stasera». No, la parte più sorprendente del raduno è stato il video dell’addio. In apparenza, il desiderio era quello di incontrare le persone che contano e che nell’ultimo periodo hanno contato di più: «La sorpresa è che vorrei incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo mio ultimo anno tremendo, persone che contano davvero, che mi hanno dato la carica». E Nadia ha esplicitamente chiesto agli amici Giorgio e Max di aiutarla a filmare questi incontri. Che senso ha il filmato di questi incontri, non ancora mandato in onda? E un testamento gioioso, una lettera d’addio? Sì, probabile. Nadia dice davanti alla telecamera che vuole «filmare questi incontri perché sarà come congelare un istante. Così loro potranno rivedersi». Ho pensato a lungo che cosa Nadia abbia voluto dirci con questo testamento e mi è tornato in mente un piccolo libro: toccante, originale ed estroso, L’autonecrologia di Jonathan Swift. L’idea che Nadia non vuole confessare all’amico sul cellulare è proprio questa: radunare gli amici, incontrare le persone più care ma anche erigere un piccolo, grandioso monumento a sé stessa. Senza l’amara ironia di Swift ma con l’identica determinazione a sondare l’animo umano. Lei non c’è più, ma la sua parola continua (ed è lei che ha l’ultima parola), ci mette di fronte alla nostra ipocrisia, ai nostri sogni di onnipotenza, alle nostre contraddizioni.

Le Iene Show, reunion speciale: cento «Iene» per ricordare Nadia Toffa. Oltre ai volti storici ci saranno anche alcuni tra i personaggi più insoliti che hanno fatto la storia della trasmissione. Arianna Ascione il 2 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera.

Clive Griffiths. Tra i partecipanti alla reunion ci sarà sicuramente la storica voce di Radio Monte Carlo Clive Griffiths, che ha fatto parte del cast fin dalla prima edizione (1997) tra i «boys» di Simona Ventura. Il suo è stato un esordio davvero singolare: nel primissimo servizio infatti ha inseguito Brigitte Bardot con un coniglio in braccio.

Andrea Pellizzari. Da un inglese «vero» ad un «impostore»: chi non ricorda a «Le Iene» il bizzarro insegnante d'inglese Mr. Brown (come uno dei personaggi della pellicola tarantiniana cult da cui il programma prende il nome) protagonista di surreali candid camera. Il personaggio, interpretato da Andrea Pellizzari (storica colonna dello show, oggi ricercato dj) ha praticamente vissuto di vita propria, diventando protagonista di libri e impegnandosi in progetti benefici.

Alessandro Cattelan. Attualmente impegnato su Sky, tra «X Factor» e il suo talk, Alessandro Cattelan oggi è tra i più apprezzati conduttori televisivi. Ma le ossa se le è fatte sul campo anche grazie al programma di Italia 1: è stato inviato nel 2006.

Pif. Il più timido tra le Iene (per quanto una Iena possa essere timida): parliamo di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, inviato dal 2000 al 2007. Durante la sua lunga attività ha sviluppato lo stile caratteristico dei suoi servizi, trasferito poi nel suo programma successivo «Il testimone». «Ora quando vado in redazione e vedo tante facce nuove, provo un po’ di tristezza. Un po' come quando vedo i servizi di Frank Matano - ricordava al Corriere nel 2014 - Lo vedo fare le interviste interrotte che un tempo facevo io e mi viene un po' di malinconia. Ma in fondo deve essere successo anche a Peppe Quintale quando vedeva me». 

Peppe Quintale. Il vero specialista di «interviste interrotte» infatti è stato proprio lui: Peppe Quintale. L'attore e comico nel 1997 ha fatto parte della prima tornata di conduttori accanto a Simona Ventura, insieme a Dario Cassini. Dall'anno successivo - e fino al 2000 - ha continuato a ricoprire il ruolo di inviato.

Elena Di Cioccio. Tra i servizi messi a segno dalla Iena Elena Di Cioccio (attrice e conduttrice vista anche a «Tale e Quale» e «Celebrity Masterchef») il più memorabile è sicuramente quello in cui, per prendere in giro un provvedimento allora in vigore relativo all'abbigliamento delle prostitute, si è aggirata per la Salaria indossando le mise delle protagoniste di alcuni celebri programmi tv, dalle letterine alla ragazze fast food.

Bugs. Nik Bello, Jacopo Morini, Tiziano Lamberti e Francesco Granieri (in arte i Bugs) sono partiti dal web e in poco tempo sono riusciti ad arrivare in tv con i loro scherzi «Truffati dalle Iene» e le interviste irriverenti ai vip della saga «Mortacci tua». Hanno continuato a collaborare con il programma anche separatamente.

Yang Shi. Nei suoi anni a «Le Iene» l'attore italo-cinese Yang Shi, oggi scrittore - felicemente sposato con lo stilista Angelo Cruciani -, si è travestito da finto reporter orientale alla ricerca di dichiarazioni dei politici italiani, ma ha anche raccontato la Cina (quella vera).

Le Malerbe. A ricordare in studio Nadia Toffa ci saranno anche Cristiano Pasca e Giovanni Mangalaviti, che insieme a Gero Guagliardo e Claudio Casisa formavano il gruppo Le Malerbe. Con il tormentone «Ma che minchia dici» concludevano a sorpresa (scoppiando a ridere) le loro interviste ai personaggi famosi, e in un'occasione Emma Marrone - altrettanto a sorpresa - ha baciato sulle labbra uno di loro.

Rosario Rosanova. Ex barzellettiere de «La sai l'ultima?» Rosario Rosanova ha lavorato al programma dal 2009 al 2013: le sue interviste spesso si svolgevano in napoletano e gli interlocutori, dopo un primo attimo di smarrimento, in più di una occasione hanno risposto a tono nel loro dialetto. Tra loro Robert De Niro, al quale Rosanova chiese «Voi parlate italiano?» (e l'attore Premio Oscar rispose «un pochino»).

Fabio Canino. Prima della chiamata di Milly Carlucci per far parte dei giudici di «Ballando con le stelle» Fabio Canino aveva già fatto sfoggio della sua pungente ironia nei suoi servizi per le prime edizioni del programma (1998-2000).

Angelo Duro. Reclutato da Davide Parenti, rimasto particolarmente colpito da una sua esibizione, il comico Angelo Duro è approdato a «Le Iene» con i suoi strani sogni e con Nuccio Vip, personaggio stralunato che storpia di proposito i nomi dei personaggi famosi (come «Malena Seredova», «Elenuar Casalennio» a «Gianluca Brignani») quando li incontra.

Paolo Calabresi. L'amatissimo Biascica di «Boris», l'ex Iena Paolo Calabresi, nei suoi servizi - da bravo trasformista qual è - si è finto amico dei politici, vigile urbano e persino cardinale. In occasione della scomparsa di Nadia Toffa ha condiviso con il Corriere il suo ultimo messaggino, ovvero «never give up»: «È arrivata come se ne è andata, con un grande sorriso e una grande energia. Li ha portati in redazione, regalando a tutti tanta allegria».

Paul Baccaglini. Parafrasando il motto della trasmissione «Le Iene» hanno portato particolarmente bene a Paul Baccaglini: l'ex inviato infatti nel 2017 ha preso il posto di Maurizio Zamparini, diventando così il nuovo presidente del Palermo. Per festeggiare la nomina un'altra Iena, Cristiano Pasca, lo aveva raggiunto in hotel nel cuore della notte, alla vigilia della conferenza stampa di presentazione, proponendogli di tatuarsi lo stemma della squadra (sfida ovviamente accettata).

Marco Fubini. Non poteva mancare per l'abbraccio televisivo a Nadia Marco Fubini: le due Iene infatti nel 2018, grazie al loro reportage sulla prostituzione minorile a Bari («Bari: bambini in vendita», andato in onda il 19 marzo 2017), hanno vinto il Premio Marco Luchetta, intitolato al giornalista RAI ucciso a Mostar da una bomba nell'aprile del 1994 insieme alla sua troupe.

Nadia Toffa e due assenze «stonate»: Ilary Blasi e Teo Mammucari hanno disertato la reunion. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. «Un’unica grande famiglia pronta a stringersi nell’ abbraccio più caloroso prima di tornare in scena con questa nuova stagione. Una reunion di tutti quelli che in questi 23 anni hanno vestito i panni da Iena. Una bellissima iniziativa, a cui hanno deciso di aderire 100 Iene»: l’omaggio della trasmissione di Italia 1 a Nadia Toffa ha mobilitato veramente tutti quelli che sono transitati nel programma ideato da Davide Parenti. Da Luciana Littizzetto a Simona Ventura, da Claudio Bisio a Alessandro Cattelan, da Geppi Gucciari e Luca e Paolo. E poi Enrico Lucci, Fabio Volo, Enrico Brignano... Tutti, insomma. O quasi. Perché c’è chi ha notato soprattutto due assenze. Quella di Teo mammucari e Ilary Blasi. Mammucari è stato prima inviato (nel 1999) e poi conduttore (tra gli anni 2013-2015 e 2017-2018), insomma non proprio uno di passaggio. L’assenza poi di Ilary Blasi è apparsa a molti ancor più stonata. Perché Ilary Blasi è uno dei volti storici delle Iene e ha condotto il programma per più di dieci anni. Dopo la prima volta nel 2004, è stata in onda per una lunghissima stagione dal 2007 al 2018. Insomma non una qualunque. E il fatto che non ci fosse è parso una mancanza di sensibilità. Attraverso una storia di Instagram Ilary a fatto sapere di essere a Londra per lavoro. Impegni evidentemente irrinunciabili. A Londra c’era pure il marito Francesco Totti, apparso in una delle sue storie di Instagram allo stadio di Londra per vedere Tottenham - Bayern Monaco.

Le Iene ricordano Nadia Toffa, l'ira dei fan: "Dove sono Mammucari e la Blasi?" La prima puntata della nuova stagione de Le iene ha ricevuto qualche critica sui social. Serena Granato, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Lo scorso martedì 1° ottobre e in prima serata su italia 1 è andata in onda la puntata speciale dedicata al ricordo di Nadia Toffa, che ha dato il via alla nuova stagione de Le Iene. Per l'occasione il capo-progetto del format, Davide Parenti, ha voluto riunire 100 collaboratori, tra inviati e conduttori che si sono susseguiti nel corso dei 23 anni di storia del programma di approfondimento giornalistico, per dare un ultimo saluto alla compianta autrice del libro Fiorire d'inverno, la quale è scomparsa lo scorso 13 agosto dopo una battaglia contro il cancro. La prima puntata de Le Iene, condotto quest'anno da Alessia Marcuzzi, è stata all'insegna di momenti particolarmente commoventi, tra cui quello in cui è andato in onda un video inedito che Nadia Toffa ha registrato poco prima di morire, come una sorta di testamento. Un videofilmato che in poco tempo è diventato virale sui social e ha fatto incetta di like, condivisioni e commenti, ma non sono mancate le critiche. In particolare, molti telespettatori si sono scagliati contro i due grandi assenti all'appuntamento speciale tenutosi in memoria della Toffa, parliamo dei conduttori Ilary Blasi e Teo Mammucari, i quali in passato hanno collaborato in coppia proprio al timone de Le Iene.

"Quasi 10 anni alla conduzione de Le Iene insieme alla Toffa - si legge, infatti, in un commento critico giunto in rete sul tributo a Nadia Toffa - ma Ilary Blasi se ne frega. La grande assente di sempre, visto che non è andata nemmeno al funerale". E in un altro messaggio di contestazione giunto su Twitter, vengono segnalati proprio i due ex volti volti de Le iene assentatisi in studio: "Non c'erano né Ilary Blasi, né Teo Mammucari. Zero rispetto. Zero umanità". In realtà, così come l'attore Luca Argentero e l'ex Miss Italia Miriam Leone, anche la Blasi e Mammucari hanno partecipato solo alla registrazione del video trasmesso in apertura della nuova puntata del format di Italia 1. Ad oggi i diretti interessati, Mammucari e la Blasi, non hanno risposto alle ultime critiche ricevute sui social, mentre la Leone ha voluto chiarire la sua posizione su Instagram: "Non ho potuto partecipare fisicamente, perché mi trovo su un set a chilometri di distanza”.

Nadia Toffa, il ricordo delle cento Iene: ma spunta una grande assente. È polemica. Libero Quotidiano il 2 Ottobre 2019. Tutte le Iene si sono date appuntamento a Cologno Monzese per salutare, durante la prima puntata, l'amica e collega Nadia Toffa. Da Enrico Brignano e Simona Ventura a Luca e Paolo, fino a Cristina Chiabotto. In studio c'erano proprio tutti, anche gli attuali conduttori, Alessia Marcuzzi e Nicola Savino. Eppure agli utenti di Twitter non è passato inosservato un dettaglio: l'assenza di Ilary Blasi. "Quasi 10 anni alla conduzione delle Iene insieme alla Toffa ma Ilary Blasi se ne frega. La grande assente di sempre visto che non è andata nemmeno al funerale", scrive una follower. E ancora: "Ricordo toccante di Nadia Toffa. Ma Ilary Blasi?". E c'è chi si accorge anche di un'altra assenza: "Non c'erano né Ilary Blasi, né Teo Mammuccari. Zero rispetto. Zero umanità". Stando alle sue stories su Instagram, al momento Ilary Blasi sarebbe a Londra per lavoro. Mentre dalle stories di Mammuccari non si capirebbe dove si trovi. Al momento i due ex conduttori delle Iene non avrebbero risposto ai fan che chiedono loro spiegazioni. 

Ilary Blasi rompe il silenzio dopo l'assenza al tributo a Nadia Toffa: "Back home". Ilary Blasi torna attiva su Instagram, dopo essere finita al centro di una polemica mediatica. Serena Granato, Domenica 06/10/2019 su Il Giornale. Ha fatto discutere molto la puntata speciale de Le iene dedicata al ricordo di Nadia Toffa e trasmessa lo scorso 1° ottobre. Nel nuovo appuntamento tv del format di approfondimento info-satirico si è tenuta un'emozionante reunion, a cui hanno preso parte 100 collaboratori, tra i conduttori e gli inviati susseguitisi nel corso dei 23 anni di storia del programma, che quest'anno viene condotto da Alessia Marcuzzi. E un dettaglio, emerso nella puntata-evento de Le iene, non è passato inosservato. Gli assenti in studio a Le iene, Miriam Leone, Luca Argentero, Teo Mammucari e Ilary Blasi sono finiti al centro dell'attenzione mediatica, perché accusati da alcuni utenti sui social di essersi mostrati indifferenti non presenziando all'evento organizzato per rivolgere un ultimo saluto all'ex iena Toffa, scomparsa lo scorso 13 agosto. Particolarmente bersagliata dalle critiche social è stata la Blasi. Quest'ultima, però, riattivandosi su Instagram ha diverse ore fa postato una nuova foto, che la immortala mentre viaggia a bordo di un'auto e a corredo della quale si legge una descrizione sibillina in inglese: "Back home", "Di nuovo casa". E con l'ultimo post condiviso su Instagram, Ilary a quanto pare intende rompere ufficialmente il silenzio, confermando così di non essersi presentata al tributo a Nadia, perché impegnata alla conduzione degli Eurogames 2019, motivo per cui è volata a Londra. Intanto, a difendere la consorte di Francesco Totti è stata la giudice di Ballando con le stelle, Selvaggia Lucarelli, che, infatti, ha scritto un'Instagram story in risposta agli hater della Blasi: "Questa cosa che dovesse essere presente, questa cosa che gli altri debbano decidere non solo la grammatica del dolore altrui ma pure la forma e il luogo in cui debbano manifestarsi, è l’ultimo tassello dell’abbruttimento social. Che pena".

Le iene difende Ilary Blasi. Dal suo canto anche la Redazione de Le iene ha voluto chiarire la posizione dei vip risultati assenti al tributo pensato per la compianta Toffa, con una precisazione rilasciata all’AdnKronos: "Sono polemiche infondate. Abbiamo deciso di organizzare questo omaggio a Nadia Toffa in dieci giorni, perciò all’ultimo momento, e abbiamo chiesto a tutti di venire in studio. Abbiamo chiesto inoltre a tutti di fare un video, per cui chi non è riuscito ad esserci fisicamente ha aderito all’iniziativa con il video e per questo motivo gli siamo molto grati".

Eleonora Barbieri per “il Giornale” l'1 ottobre 2019. «Ciao Giorgio, senti mi è venuta un' idea, hai tempo oggi di passare qui, a casa mia, con la telecamera tutta l' attrezzatura microfoni e cose varie? A casa mia, se ti va, se ce la fai, se mi dai conferma, c' è anche Max, così... sorpresa! Ti dico tutto quando sei qua però mi serve la camera anche capito? Camera, microfono robe varie... ti aspetto cioè aspetto tua conferma ecco... baci ciao bello». È un messaggio vocale di Whatsapp, registrato nel dicembre 2018. La voce è quella di Nadia Toffa, la conduttrice televisiva e inviata delle Iene morta il 13 agosto scorso, a causa del tumore che l' aveva colpita, ma mai abbattuta nello spirito, come da lei testimoniato nei lunghi mesi della malattia. Il «Giorgio» a cui è rivolto il messaggio - e l' invito a presentarsi con la telecamera - è Giorgio Romiti, autore con il quale Nadia ha lavorato a lungo. Che cosa succede, a casa di Nadia? Giorgio è in apprensione: «Ma cos' è che mi devi dire di... c' ho un po' d' ansia...». E lei: «Quando sei in Rec te lo dico... se no non te lo dico...». Nadia Toffa vuole la telecamera accesa, perché vuole lasciare un ricordo - un «meraviglioso ricordo» dicono oggi dall' entourage del programma o, anche, come lo chiamano, il suo «ultimo progetto». Perché quello di Nadia Toffa era un progetto: essere filmata, quel giorno, in cui sapeva non gliene sarebbero rimasti ancora molti da vivere, per farsi vedere ancora, e rivedere, in futuro; ed essere ripresa, anche, mentre incontra le persone a lei più care, amici e familiari, colleghi e parenti, tutti coloro che le sono stati più vicini nel corso della sua esistenza. E così fa Giorgio Romiti, suo amico: la filma. Il risultato di quel primo incontro con la telecamera, a casa di Nadia, va in onda questa sera, in occasione del ritorno delle Iene (a condurre, su Italia 1, Alessia Marcuzzi, Nicola Savino e la Gialappa' s): venti minuti di video, girato il 21 dicembre del 2018, una data che risulta anche dalle parole della stessa Nadia, che a un certo punto dice a Romiti: «Tra pochi giorni avrò una seduta di chemioterapia, ed è la vigilia di Natale». Nadia chiede anche all' amico se la accompagnerà, e lui le risponde di sì. In questi venti minuti c' è Nadia Toffa, come ha voluto essere ricordata, consapevole di quello che stava succedendo e che sarebbe successo: il sorriso, l'entusiasmo che l' hanno fatta amare così tanto dai suoi numerosissimi fan; e, anche, un velo di tristezza, perché sapeva che la malattia, per quanto lei fosse determinata a combatterla, non le avrebbe lasciato scampo. Però, anche in questo video, non c' è rassegnazione: «Non è il quanto vivi, ma come vivi». E ancora: «La tragedia ti sbatte in faccia la verità, tutto è più chiaro. Capisci chi ti ama, e che gli amici veri non ti mollano». Per esempio, Nadia racconta dell' elicottero che, una volta, Silvio Berlusconi le fece arrivare a Trieste, quando si era sentita male durante un servizio. Poi l' elicottero la portò al San Raffaele, l' ospedale milanese dove, sempre Berlusconi, le aveva messo a disposizione la «sua» stanza. I due si erano sentiti più volte, al telefono, in quei mesi. Romiti le chiede se voglia incontrare anche Berlusconi e lei risponde: «Voglio incontrarlo per capire perché mi vuole così bene, non sono la più brava conduttrice di Mediaset...». Gli incontri con le persone più care (la mamma, la nonna, la nipotina Alice, Davide Parenti) saranno trasmessi in un altro video, che andrà in onda più avanti, in uno speciale dedicato a Nadia Toffa.

L'ultimo video di Nadia Toffa: "Il mio testamento di gioia". Tra passato e presente, 100 iene si riuniscono in studio per Nadia. Occhi lucidi, volti tirati, "ma lei ci vuole vedere sorridere". Serena Pizzi, Martedì, 01/10/2019, su Il Giornale. Questa sera negli studi de Le Iene si respira un'aria diversa. È un inizio di stagione più pesante rispetto a quelli passati. Manca una grande protagonista: Nadia Toffa. La sua assenza si sente, in studio e a casa. Non potrebbe essere altrimenti. Lei, che con il suo sorriso ha sfidato quel brutto male che il 13 agosto ce l'ha portata via.

La Marcuzzi commossa: "Prima stagione senza Nadia". Lei, che anche prima di andarsene, ha pensato a tutti noi lasciandoci un ultimo saluto. Lei, Nadia, non se ne è mai andata davvero perché il nostro cuore è pieno di lei e dei suoi ricordi. Per tutti questi motivi e tantissimi altri, la redazione de Le Iene ha deciso di rendere omaggio a Nadia dedicandole l'intera puntata. 100 iene, tra presente e passato, sono qui per lei. Ma una semplice dedica sarebbe stata troppo riduttiva. Così hanno pensato di andare oltre. O forse, ci aveva già pensato Nadia. Questa era, infatti, la produzione ci ha mostrato un video inedito di circa 20 minuti. Un saluto voluto, scritto e pensato dalla iena come se fosse il suo ultimo lavoro. Un saluto che Nadia ha fatto a noi, a Le Iene e a quanti le hanno voluto bene. Lo scorso 21 dicembre 2018, infatti, Nadia ha chiesto a Giorgio Romiti, autore che ha più volte collaborato con lei, e Max Ferrigno, autore del programma, di recarsi a casa da lei con la telecamera. Lo ha fatto con un messaggio audio su WhatsApp. Il suo desiderio era di incontrare alcune persone a lei care e di registrare questi momenti. Le persone che Nadia chiedeva di incontrare erano la madre Margherita, Max Ferrigno, due compagne di liceo classico, Margherita e Francesca, un amico di Brescia, Tommaso, il boss Davide Parenti, l’amica Sara, la nonna Maria, la nipotina Alice e Silvio Berlusconi. La puntata parte con una sorta di promo in cui tutte le iene corrono per andare in studio da Nadia. Poi arrivano alcuni inizi di puntata del passato, dove Nadia - sorridente - saluta il pubblico. Infine, entrano le 100 iene sulle note di You Can't Always Get What You Want dei Rolling Stones. Tutti commossi. Tutti con gli occhi lucidi. Li accompagna un grandissimo applauso. Lei è sullo sfondo, loro in primo piano. Tutti lì per lei. Inizia Alessia Marcuzzi. Gli occhi sono bagnati dalle lacrime, fa fatica a parlare, "questa sera sarà un po' così". Dietro di lei tutte le altre 100 iene per darle forza. "Eccoci qui, è tutto merito suo - dice la Marcuzzi -. Abbiamo pensato mille volte a come iniziare senza di lei. Abbiamo pensato di fare tante cose, quella migliore è di stare insieme. Di festeggiare la vita. Ci diceva sempre così, lei sorrideva sempre. Ci proveremo in tutti i modi, ma non sarà mai quello che vedrete là (indica il sorriso di Nadia ndr). Nadia era una ragazza magica". Poi Alessia parla della malattia, "lei lo chiamava col suo nome: cancro". "Molti - continua la Marcuzzi - non sapevano cosa sarebbe successo, a tutti aveva detto di avere un male terribile, ma tutti - compresa Nadia - avevamo sperato che questo momento non sarebbe mai arrivato. Quando è arrivata la notizia è stata forte. Tutto l'affetto è stata una cosa gigante, lei riusciva a unire le persone. E ci ha messo insieme anche questa sera. Nadia era a conoscenza fin da subito. Lei sapeva tutto. Sapeva che il suo cancro non le avrebbe dato più di un anno di vita. E, quando lei diceva anche un po' giocando 'vai su Google e digiti la malattia che ho io ti manca il respiro e ti vuoi sedere. E non c'è altro da fare', sorrideva. Tutti noi siamo abituati a vedere Nadia combattiva, ma anche lei ha pianto. Anche Nadia si è dovuta sedere. Quella guerriera ha deciso di combattere a modo suo, di andare avanti e sorridere. Aveva tanta paura, ma non voleva dargliela vinta. Non si vergognava, non ti devi vergognare di niente. Ci sono tante persone che combattono contro questo male con dignità. Lei diceva che non conta quanto vivi, ma come vivi. Lei ha vinto, perché ha fatto nella vita quello che voleva. Lei voleva essere voi (e indica le altre iene, ndr), voleva essere una iena. Adesso lei ci sta guardando e sta dicendo "guarda questi minchioni". Tu ci stai guardando da qualche parte, lo so. Nadia ha deciso di lasciarci una testimonianza, lei la chiamava una sorpresa. Un modo per rimanere sempre con noi. Ma ora sorridiamo perché lei ci vuole così". (Abbiamo riportato volutamente parola per parola quello detto da Alessia Marcuzzi perché tocca dentro e commuove. Non servono fronzoli)

Il saluto di Nadia Toffa. La telecamera si accende. Lei è sorridente, nonostante sia provata dalla malattia. "Fammi carina per cortesia eh", dice. E qui parte il suo racconto, il suo saluto. "La sorpresa è che vorrei incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo mio ultimo anno, persone che contano davvero. Vorrei che tu (riferendosi a Giorgio Romiti, ndr) mi aiutassi a filmare questi incontri – dice Nadia Toffa -. Persone che mi sono state vicine in questo ultimo anno che è stato tremendo. In questo ultimo anno sono cambiata tantissimo. Non è il quanto vivi ad essere significativo, ma il come vivi. Quando muore una persona, trovo stupida la domanda: 'Quanti anni aveva?' Una domanda stupida, è quanto intensamente ha vissuto che conta. Io sto facendo di tutto per tardare la mia morte, ma il tumore continua a tornare. Vedremo quanto tempo avrò ancora, ma non credo molto".

Il video procede. Giorgio entra nel vivo di questa sorpresa. "Cosa vuoi chiedere?", chiede Giorgio. "Come mi hanno visto da fuori, quando tu vivi una cosa sei tu il protagonista, ma gli altri come ti vedono? Da quello che mi dicono, gioiosa ed è vero perché io amo la vita. Vorrei che fossero liberi di dirmi quello che pensano, mi piace la verità, la naturalezza", risponde Nadia. "Le persone da cui andare le hai già in mente?", domanda ancora Romiti. "Ce ne sono tante di persone, ma quelle che nel momento del bisogno ci sono davvero, le conti sulle dita di una mano. Se sei in grado di guardarti dentro tutto ti è più chiaro. Voglio dare una chance a me stessa di sapere cosa le persone pensano di me davvero. Gli amici veri non ti mollano". Questo è il suo testamento di gioia. Gli ultimi saluti di Nadia. Nadia parte dalla mamma, "lei mi ha visto soffrire tanto", per questo vuole vederla, poi arriva il turno di Max, due compagne di liceo, Tommaso che "per me è come un fratello", Davide Parenti e Silvio Berlusconi. "Io avrei tanta voglia di incontrarlo e di ringraziarlo, lui è la persona che ha fatto partire l'elicottero quando sono stata male a Triste e mi ha portato al San Raffaele. In azienda tutti mi dicono che lui è sinceramente e umanamente preoccupato per me. Mi piacerebbe ringraziarlo. Ho delle curiosità da chiedergli. La prima domanda? 'Io non l'ho mai votata, mai incontrata, non sono la miglior conduttrice di Mediaset, perché ci tiene così tanto a me?' Mi aveva anche telefonato, mi sembrava il suo imitatore". E invece era davvero il Cav. Infine c'è Sara, "una delle mie migliori amiche". Poi aggiunge anche una amica della mamma che "ha 97 anni, una roccia" e la nipotina Alice. Mentre parla arriva Totò, la sua cagnolina, "nome da maschio, ma è una femminuccia". Le due si scambiano bacini, ma "ora partiamo. Iniziamo già da adesso. Subito". Ma perché filmarli? "Potrò rivedermi, loro potranno rivedersi, è come congelare l'istante. Una fotografia del momento, delle persone importanti per me", chiude Nadia. La sorpresa è finita. In studio hanno tutti le lacrime. Tutti applaudono. Il suo ultimo video è da brividi. Anche noi siamo commossi. Ciao Nadia!

L'ex della Toffa: "Sono stato io a raccogliere l'ultimo desiderio di Nadia". Dopo la morte di Nadia Toffa, Massimiliano Ferrigno si racconta in una lunga intervista, raccontando che non ha mai lasciato da sola la iena durante gli ultimi giorni della malattia. Carlo Lanna Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Il 13 agosto la scomparsa di Nadia Toffa ha rattristato il mondo dello spettacolo e non solo. La giornalista de Le Iene non ha vinto la sua battaglia contro il contro e ora sono in molti che piangono la sua morte. Primo fra tutti è Massimiliano Ferrigno che, fra le pagine di Di più TV in una lunga intervista, rivela tutto il dolore che ha provato per la perdita di Nadia. I due sono stati una coppia affiata per molto tempo, ma due anni fa, di comune accordo, hanno deciso di guardare oltre. La stima e l’affetto è rimasta, infatti Ferrigno è stato vicino a Nadia fino alla fine. "Dopo dieci anni ci eravamo presi una pausa di riflessione. Non era facile per noi convivere con il cancro – rivela Massimiliano Ferrigno -. Lei aveva trovato un altro uomo ma con lui non ha funzionato. Anche se Nadia più volte mi ha chiamato 'il suo ragazzo', io per lei ero solo un grande amico. Ci siamo lasciati ma la stima tra di noi è rimasta. Sono rimasto al suo fianco tutti i giorni, fino a quando non ha deciso di smettere di combattere. Non sono riuscito a prendere le distanze da lei. Soprattutto sono stato io il depositario del suo ultimo desiderio". Massimiliano Ferrigno racconta che Nadia Toffa voleva avere ai suoi funerali Don Maurizio Patricello, parroco di Caivano. Era il padre spirituale dell’ex Iena e un caro amico con cui Nadia si confrontava spesso. "Io e Nadia non abbiamo pensato di sposarci – aggiunge poi Massimiliano -. Ci abbiamo pensato ma le cose tra di noi hanno preso una piega diversa".

 Nadia Toffa, l'attacco dello psicologo Tubertini: "Era una stronza e lo rimane anche da morta". Libero Quotidiano il 19 Agosto 2019. "Per me Nadia Toffa era una stronza e lo rimane anche da morta", ha scritto su Facebook Tiziano Tubertini, ex psicologo irradiato dall'Ordine per la sua controversa condotta. "Lo sapevo io chi fosse. Era una stronza che denigrava le sentinelle in piedi. Lo sono stato anche io e per un pelo non mi sono preso gli sputi di quelle teste di cazzo dei suoi amici di Bologna" ha proseguito nella sua invettiva. A denunciare il comportamento dell'ex psicologo - in passato al centro di molte polemiche per le sue dichiarazioni su omosessuali e terapie riparative - è stato il sito Bitchyf che ha allegato anche le foto del suo terribile pensiero. Tubertini fece parlare di sé non solo per la sua ideologia anti-gay, ma anche per gli attacchi rivolti a chi non la pensava come lui. Accadde con Famiglie Arcobaleno, a cui augurò – sempre su Facebook – di finire nei forni crematori. 

Nadia Toffa, le Iene contro Aldo Grasso: "Grazie per la sensibilità e l'eleganza". Commento sconcertante. Libero Quotidiano il 28 Agosto 2019. "Nel commovente comunicato con cui le Iene annunciavano la morte di Nadia Toffa, c'era una promessa finale: Nulla sarà più come prima. Ecco, speriamo davvero che nulla sia più come prima, che ci sia maggiore attenzione ai servizi: niente più complottismi, gogne mediatiche, ignoranze scientifiche, casi Stamina o i suicidi inventati della Blue Whale". Nella sua rubrica sul Corriere della Sera, Aldo Grasso commenta così, polemicamente, l'ultima puntata del programma di Italia 1 dedicato al misterioso omicidio di Willy Branchi. Il critico tv accusa gli autori delle Iene di approssimazione e sensazionalismo, e su Facebook arriva la risposta piccata e polemica: "Grazie ad Aldo Grasso per l'attenzione che dedica sempre al nostro lavoro e per la sensibilità e l'eleganza con cui tratta non solo le vicende di cui ci occupiamo, ma la nostra stessa vita". Questa mattina ci siamo svegliati e abbiamo letto sul Corriere della Sera l’analisi acuta e scrupolosa che Aldo Grasso ha dedicato allo speciale delle Iene “Willy Branchi” andato in onda su Italia 1. Una frase ci ha particolarmente toccati, e la riportiamo qui sotto. Grazie ad Aldo Grasso per l’attenzione che dedica sempre al nostro lavoro e per la sensibilità e l’eleganza con cui tratta non solo le vicende di cui ci occupiamo, ma la nostra stessa vita.

LA “CULTURA DELL’OLTRAGGIO”. Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 28 agosto 2019. Neppure la morte ferma l'odio social. Nadia Toffa se ne è andata a 40 anni dopo aver lottato contro un tumore e appena qualche minuto dopo, su Facebook, sono comparsi miserabili insulti alla sua memoria. La conduttrice delle Iene in vita era stata spesso vittima degli haters che la rimproveravano di spettacolarizzare la sua malattia: il male, come lo chiamava lei, non era l'unico mostro contro cui dover combattere. E adesso che non c'è più, gli haters continuano a imbrattare il web. Ma come è potuto succedere così velocemente la riconversione della tecnologia in strumento di violenza personale? Perché eravamo un Paese quasi normale, col bello e il brutto, e in un paio d'anni siamo diventati un popolo feroce che non ha rispetto neppure per la morte? La “cultura dell’oltraggio” in cui si viene identificati e umiliati in rete per la propria identità o per le proprie opinioni costituisce un problema sociale che è difficile contrastare perché questi haters non dispongono di evidenti centri organizzativi. Nel gergo del Web, lo chiamano “trolling” l’utente che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, insultanti con il solo obbiettivo di fomentare gli animi e di causare dolore. Il trolling è in realtà una forma di guerriglia civile dove chi non ha alcuno status o potere riconosciuto formalmente, esercita l’unico potere che ha, ovvero il “character assassination”, distruggere la reputazione di una persona, sabotarla e umiliarla tramite l'ingiuria più gratuita e volgare in base a rancori e fobie e paranoie. Le parole diventano così un’arma, strumenti di violenza che evidenziano le debolezze umane per sfruttarle. L’offesa, che i troll perseguono con godimento sadico, è spesso considerata una forma di vittoria, che arriva a sfociare nell’illegalità nei minacciosi messaggi di odio ormai costantemente inviati alle figure pubbliche, soprattutto donne (vedi il caso dell’attivista Greta Thunberg). Al posto della società reale, Internet ci offre una selezione di giochi di guerra virtuali da fare per divertimento, amicizia, convenienza o per sfogare l’emotività. Il limite tra “libertà di parola” e violenza però si confonde, mentre lo scopo finale è di causare dolore e danni psicologici ad personam. (Del resto, i computers sono in origine strumenti di guerra, così come le reti che li collegano). Questi troll cercano di fare più male possibile (trattando le parole come armi) per poi ritirarsi immediatamente sulla posizione opposta, dichiarando cioè che è solo uno “scherzo” o invocando la “libertà di parola” (trattando le parole come simboli innocui). Non basta. L’arma fondamentale nell’arsenale dei troll è spesso l’anonimato. Piattaforme come Twitter e Instagram agevolano la possibilità di partecipare alla discussione pubblica senza rivelare la propria identità. Il nemico è reso più trasparente possibile mentre il colpevole resta all’oscuro. Pura vigliaccheria. Secondo una delle interpretazioni, perché le ambizioni tecnologiche di Zuckerberg si realizzino, Facebook e Instagram hanno bisogno che i loro utenti siano sempre più espressivi e infiammabili dal punto di vista emotivo. Così la nostra rabbia, gioia, tristezza e orrore può fornire dei contenuti alle macchine, perché imparino a comportarsi come umani. In secondo luogo, esprimendo i nostri sentimenti più autentici o miserabili offriamo dati precisi su di noi, tramite i quali si può vendere ulteriore pubblicità. E’ questa ora la nostra realtà.

Nadia Toffa, a Le Iene il suo ultimo video: “È importante come vivi”. Le Iene il 30 settembre 2019. Un video inedito di 20 minuti che ha voluto, scelto e pensato Nadia Toffa come saluto. Così si aprirà la nuova stagione de Le Iene che inizierà martedì 1 ottobre dalle 21.25 su Italia1. Quest’anno per noi niente sarà più come prima. Inizieremo con uno speciale ricordo alla nostra Nadia Toffa. Un video inedito di 20 minuti che ha voluto, scelto e pensato lei. Un ricordo commovente e intenso. “La sorpresa è incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo ultimo anno tremendo, persone che contano davvero”. Sono le parole intense e commoventi che la nostra Nadia ha scelto per questo momento per noi, tutti noi. “Non è il quanto vivi, ma come vivi. Io sto facendo il possibile per ritardare la mia morte. Vedremo quanto tempo avrò ancora, ma non credo molto”. Per noi sarà un testamento di gioia, un abbraccio caldo dove ritrovarci per avere la forza di ricominciare consapevoli che niente sarà più come prima. Il video che è l’eredità di sorrisi, energia e determinazione con cui Nadia ha sempre vissuto andrà in onda martedì 1 ottobre dalle 21.25 su Italia1. Sarà sempre lei a salutarci in ogni puntata nella sigla finale che le dedicheremo. Vi aspettiamo.

Nadia Toffa, alle «Iene» il suo ultimo video: «Non conta quanto vivi, ma come vivi». Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 su Corriere.it da Maria Volpe. Domani alle «Iene» su Italia 1 un video lungo 20 minuti dove parla Nadia. La stanza al San Raffele messa a disposizione da Silvio Berlusconi: «Perché mi vuole bene?». «Siamo una famiglia e quando muore uno in famiglia si va avanti, ma è stato terribile». Davide Parenti ha inventato «Le Iene», è il papà delle Iene. È schivo, protettivo, talvolta duro, amorevole. Nadia Toffa era una delle sue tante figlie. E martedì ricomincia senza di lei. E non potrebbe essere diversamente. Domani, martedì primo ottobre, tornano «Le Iene», su Italia 1, in prima serata, con Alessia Marcuzzi, Nicola Savino e la voce della Gialappa’s. Tutto come previsto. E naturalmente ci sarà uno speciale ricordo di Nadia. Ma soprattutto ci sarà qualcosa di fortissimo, che ha voluto lei, che ha scelto lei, ha pensato lei, con lucidità, prima di morire. Domani sera ci sarà un video lungo 20 minuti dove parla Nadia. Davide Parenti non riesce neppure a rivederlo. Appena gli occhi si fanno umidi, va via. Mi siedo in una stanzetta e lo guardo. Lo schermo nero. Si sente la voce di Nadia Toffa che manda un messaggio vocale a Giorgio Romiti, l’autore che più spesso ha lavorato con lei. Un amico. È il 21 dicembre 2018, La Iena sa di avere poco da vivere. Nadia chiede a Giorgio di andare a casa sua con la telecamera accesa perché ha una idea. Del resto tutta la famiglia delle Iene — in primis il suo ex fidanzato storico, autore del programma, Max Ferrigno — dall’inizio alla fine hanno detto «sì» ai desideri di Nadia. La telecamera si accende, Nadia è seduta nella cucina di casa sua. Ha i capelli corti, spettinati, il viso gonfio, un sorriso vitale. Di fronte a lei (ma non si vedono mai) Giorgio e Max. «La sorpresa — comincia a raccontare — è che vorrei incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo mio ultimo anno tremendo, persone che contano davvero. Vorrei che tu mi aiutassi a filmare questi incontri». Luca chiede perché li vuole incontrare adesso. «Perché in questo ultimo anno sono cambiata tantissimo. Non è il quanto vivi, ma come vivi. Quando muore una persona, trovo stupida la domanda: quanti anni aveva? Non contano gli anni, ma se hai vissuto intensamente. Io sto facendo il possibile per ritardare la mia morte, tutte le cure possibili. Vedremo quanto tempo avrò ancora, ma non credo molto». La forza delle sue parole arriva come un pugno allo stomaco, anzi come uno schiaffo alla nostra inedia quotidiana. Toffa vuole incontrare le persone che contano perché vuole sapere da loro cosa pensano davvero di lei, vuole vivere un momento di pura verità e lasciare un bel ricordo. Vuole incontrare «mia madre Margherita, persona meravigliosa, mi spiace più per lei che per me; Max che sarà con noi alla chemio; due mie compagne di liceo classico, Margherita e Francesca; un mio amico di Brescia, Tommaso; il mio boss Davide Parenti. Poi la mia amica Sara, la mia nonna Maria donna tutto d’un pezzo; la mia nipotina Alice (sono orgogliosa perché mi assomiglia un sacco). E Silvio Berlusconi: non l’ho mai conosciuto ma avrei tante curiosità da chiedergli. Provo molta gratitudine per lui, ha fatto partire l’elicottero per me per farmi portare subito al San Raffaele quando sono stata male a Trieste. Gli direi: “Io non l’ho mai votata, non sono la migliore conduttrice di Mediaset, perché mi vuole bene?”». Ed effettivamente Parenti conferma che «siamo profondamente grati al nostro editore. La sua stanza fissa, riservata al San Raffaele, l’ha messa a disposizione di Nadia, ha sempre chiesto sue notizie, ha fatto il possibile per lei. Le telefonava e commentava le puntate. Le diceva “Quando non ci sei tu, quelle tre cornacchie...”». Il video di Nadia è davvero un testamento gioioso, ma che non fa sconti: «La tragedia ti sbatte in faccia la verità, chi ti ama. E tutto è più chiaro. E capisci che gli amici veri non ti mollano». Perché vuoi fare questo film Nadia? chiede ancora Luca. «Perché potremo rivederci, fermare il momento». Tutti quei filmati sono stati registrati. Sono intensi, commoventi. «Non è ancora tempo di mandarli in onda — spiega Parenti — troppo doloroso. Vedremo più avanti». Ora c’è da ricominciare, da riprendere la vita, le riunioni. Lo sanno tutti che la prima puntata sarà dura, poi forse quelle successive meno. Forse non è vero che c’è un prima e un dopo Nadia, perché Nadia è lì con loro, perché la sigla di coda sarà sempre quella di Nadia che balla al tramonto, perché nelle vere famiglie quelle che si amano e si scelgono, si va avanti più forti di prima.

Davide sulla cui spalla hanno pianto tutti rievoca gli inizi di Nadia, la sua testardaggine di 10 anni fa quando «mollò la tv di Brescia per venire qui senza nessuna garanzia. Ci credeva e basta. E in un anno ce l’ha fatta. Non solo ad entrare nella squadra, ma anche a farsi voler bene da tutti». Affiorano ricordi lievi, leggeri «non sapeva come tenere i capelli, alla fine ha fatto un bel taglio deciso ed è diventata la Toffa che tutti ricordiamo». Ripensa alla sua «capacità produttiva superiore alla media. Ha dedicato la sua vita al lavoro» . Davide ripercorre l’inizio della malattia, la prima diagnosi tremenda, la speranza dopo l’intervento, la seconda operazione con l’esito che non lascia speranze. Eppure Nadia convince le Iene e le Iene convincono Nadia che chissà, forse un miracolo, una speranza, perché no. Ricorda l’estate di un anno fa quella del 2018 «quando la colpì perfino una meningite. Ha superato tutto Nadia nella vita: ha avuto a che fare con una molestia e l’ha superata, con disturbi alimentari e li ha superati, con amici morti per eroina e l’ha superato. Eravamo tutti in modalità invincibili». Fino alle ultime puntate delle Iene a maggio «dove Nadia voleva esserci a tutti i costi anche se fisicamente non stava piedi». Il silenzio e poi la morte il 13 agosto. «Abbiamo fatto il funerale più bello che potevamo fare — si commuove Davide — tutta la famiglia delle Iene era lì. Abbiamo preso un albergo a Brescia , abbiamo mangiato, bevuto, riso e pianto. E ne siamo usciti molto più forti». Ci resta l’immagine di Davide che in chiesa non parla, ma appoggia la cravatta nera sulla bara di Nadia.

Federica Zaniboni per “Libero quotidiano” il 19 ottobre 2019. Per Nadia Toffa sembra non esserci pace. A ormai due mesi dalla sua scomparsa, qualcuno ha pensato bene di impadronirsi del suo nome e di servirsene per commettere una truffa. Come se non fosse già abbastanza vergognoso rubare denaro - per di più a dei sacerdoti -, il piano dei malviventi che hanno agito nel Bresciano era tutto incentrato sulla giornalista e conduttrice bresciana delle Iene. E più nello specifico, sulla sua morte. Come vittime della truffa, i malviventi hanno scelto tre parroci bresciani, coi quali hanno provveduto a mettersi in contatto in questi ultimi giorni. I tre uomini sono stati avvicinati dai truffatori in momenti differenti, ma a tutti è stata fatta la medesima richiesta: qualche migliaio di euro. Ai sacerdoti infatti è stato riferito che Nadia Toffa aveva lasciato la sua eredità alle parrocchie - 40 mila euro da dividere tra la parrocchia e tra il parroco stesso. Per entrarne in possesso, però, come hanno comunicato i falsi impiegati di due importanti studi notarili, sarebbe stato necessario il pagamento di una cifra compresa tra i 2mila e i 3mila euro. Soldi che, come da prassi, sarebbero serviti per le spese legali, per quelle notarili, e per le tasse di successione. Infine ai sacerdoti è stato lasciato il codice Iban su cui versare la somma, e il nome degli studi notarili della città - quelli per cui i truffatori sarebbero stati incaricati di avviare le pratiche di successione. Fortunatamente, a quel punto tutti e tre i parroci coinvolti - due della città e uno della provincia di Brescia - si sono insospettiti. Ciò che li ha fatti allertare, oltre all' assurdità di tutta la vicenda, è stata soprattutto la campagna di prevenzione alle truffe che i carabinieri e il comando provinciale hanno svolto in diversi centri e parrocchie. I religiosi hanno così deciso di contattare telefonicamente gli studi notarili menzionati dai malviventi, ed è presto emerso che non erano in nessun modo coinvolti. Da lì sono stati poi allertati i militari, che ricevendo quella denuncia, hanno chiesto ai cittadini di segnalare qualsiasi tipo di episodio analogo, perché c' è il sospetto che il nome di Nadia Toffa sia stato utilizzato altre volte per questi deplorevoli fini. Le forze dell' ordine si sono messe immediatamente sulle tracce dei malfattori, utilizzando come punto di partenza per le indagini i tabulati telefonici e i dati bancari forniti alle vittime dai truffatori. Uno di loro, al momento di mettere in atto la truffa, si è presentato di persona a uno dei parroci, il quale lo ha descritto come italiano e ben vestito. Secondo quanto scoperto fino ad ora, c'è il sospetto che si tratti di veri e propri professionisti della truffa. Ciò che colpisce maggiormente in tutta questa storia è proprio la mancanza di rispetto nei confronti di una persona deceduta, tale al punto da sfruttare il suo nome stesso per commettere un atto illegale e meschino. Nadia Toffa, scomparsa a soli quarant' anni dopo una lunga lotta contro il cancro, nel corso della sua carriera si era occupata spesso di argomenti di questo genere, dandosi da fare per smascherare truffe e truffatori.

Truffa al parroco  con la «finta eredità» di Nadia Toffa: due persone denunciate. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 da Corriere.it. Quello che in un primo momento era sembrato un nobile gesto di generosità da parte della famiglia di Nadia Toffa, si è poi rivelato un tentativo di truffa che ha visto vittima un sacerdote bresciano. I fatti risalgono alla fine di agosto di quest’anno, subito dopo i funerali di Nadia, quando il sacerdote ha ricevuto la telefonata di un sedicente funzionario di banca,che gli comunicava la volontà della famiglia Toffa di donare 100.000 euro alla sua parrocchia. L’uomo aveva poi chesto al sacerdote di contattare un determinato studio notarile per perfezionare la procedura burocratica. Durante la telefonata con il finto notaio, al sacerdote venne richiesto il pagamento, mediante bonifico bancario, di una somma di denaro, a titolo di imposte, pari al 5% della donazione. Effettuato il pagamento, il sacerdote si è premurato di darne conferma direttamente alla famiglia della compianta giornalista bresciana, scoprendo con sorpresa e sconcerto di essere stato raggirato. A seguito della denuncia immediatamente sporta dal sacerdote negli uffici di Via della Posta 2, gli investigatori della Sezione Polizia Postale e delle Comunicazioni di Brescia hanno avviato un’articolata attività di indagine sotto la direzione della Procura della Repubblica di Brescia. Al termine dell’indagine, grazie anche alla preziosa collaborazione di Poste Italiane, i poliziotti della Postale bresciana sono riusciti a identificare gli autori della frode, un cittadino italiano e una donna di nazionalità cinese, entrambi con precedenti penali, anche specifici. I responsabili dell’odiosa truffa sono stati denunciati, mentre il conto corrente intestato ad uno dei due è stato bloccato e i fondi disponibili congelati in attesa di essere restituiti alla vittima.

Francesco Chiofalo, drammatica confessione nei giorni di Nadia Toffa: "La mia vita dopo il cancro al cervello". Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. Nei giorni della morte di Nadia Toffa, anche Francesco Chiofalo torna a parlare del tumore al cervello che ha messo ance lui in pericolo di vita lo scorso inverno. L'ex protagonista di Temptation Island e Uomini e donne oggi sta bene ed è tornato a lavorare come personal trainer, e sui social aggiorna i fan sulla sua situazione sentimentale ma pure quella di salute. Al settimanale DiPiù il 30enne Lenticchio ha rivelato: "Purtroppo esiste il rischio che il male ritorni. Vivrò il resto della mia esistenza con questa paura: un secondo intervento sarebbe ancora più rischioso del primo, ci sarebbero poche probabilità di superarlo con successo". Le conseguenze della prima operazione sono evidenti e permanenti: Chiofalo ha infatti perso la sensibilità alla gamba destra, e per questo non può più correre, nuotare, andare in moto ed è costretto a guidare un'auto con comandi manuali. Ha inoltre problemi alla vista, alla memoria e al fegato, legati agli antidolorifici e alla radioterapia.

Massimo Fini per il Fatto Quotidiano il 15 agosto 2019. L' enfasi di tutte le televisioni, di tutti i giornali, di molti personaggi dello spettacolo sulla morte per cancro di Nadia Toffa la trovo oltraggiosa nei confronti delle centinaia di migliaia di ammalati di tumore che non hanno un nome e un cognome famosi. A parte questa discriminazione sociale fra Vip, o presunti tali, e quella che, senza accorgersi dello sprezzo, viene chiamata "gente comune", il fatto è che noi non siamo più capaci di accettare quelli che i filosofi, quando esistevano ancora, chiamavano "i nuclei tragici dell'esistenza", il dolore, la vecchiaia, la morte. E cerchiamo di coprire questi che ci sembrano degli "scandali", mentre sono eventi naturali della vita, con la retorica. Scrive Alberto Savinio in "Sorte dell' Europa": "La retorica è un male endemico nel nostro paese, è il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure".

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Cari malati di cancro al cervello, voi lo sapete bene, il tumore all' encefalo è una malattia serissima, che colpisce come un fulmine a ciel sereno, che all' inizio si nasconde, inganna, opera sottotraccia, si maschera da altre malattie, viene scambiata per emicrania, cefalea o peggio per sindrome da stress, e che quando viene scovata ed accertata si ribella, resiste alle terapie, a volte si rafforza e cerca di espandere le sue radici, invadere il territorio limitrofo, e purtroppo non sempre viene sconfitta, e non sempre si raggiunge un esito positivo al termine delle cure. Ma c' è un ma, a mio giudizio molto importante. Intanto non fatevi impressionare dalla morte di Nadia Toffa, perché lei ha avuto uno di quei tipi di tumori per i quali non ci sono cure certe, e per i quali la scienza e la ricerca stanno lavorando molto, in Italia e nel mondo, per raggiungere il maggior numero di certezze e di successi terapeutici, ed il suo cancro si era manifestato ed era stato diagnosticato quando ormai era già radicato nel suo cervello, era ad alta malignità, e non ha mai lasciato, nemmeno per un momento, speranza di lunga vita. Infatti non esiste un solo tipo di tumore cerebrale, perché le neoplasie che si sviluppano all' interno della scatola cranica, possono essere molto diverse istologicamente, avere diversi gradi di benignità e malignità, di dimensione, di locazione e di crescita, e ciascuna di esse ha una storia naturale differente caso per caso. Tra i benigni il più frequente è il meningioma (30,1%), mentre tra i maligni il glioblastoma (20,3%), l'astrocitoma (9,8%), i tumori della guaina dei nervi (8%), della ghiandola ipofisaria (6,3%), l'ependimoma (2,3%), ed altri tipi che raggiungono il 14%. Questi quelli che appartengono alla famiglia dei "gliomi", che colpiscono prevalentemente dopo i 21 anni, mentre il medulloblastoma o il neuroblastoma sono i tumori più frequenti nell' infanzia, che hanno un picco di incidenza nei bambini e giovani sotto i 15 anni, e che ogni anno in Italia colpiscono oltre 400 bambini. Naturalmente io sto parlando dei tumori primitivi dell'encefalo, ovvero quelli che nascono e germogliano dentro la scatola cranica, e non di quelli secondari, ovvero delle metastasi al cervello (i tumori intracranici più comuni negli adulti) che sono ripetizioni tumorali di neoplasie diffuse che provengono da altre parti del corpo, arrivando fino dentro la testa, e che derivano principalmente dal carcinoma polmonare, mammario e dal melanoma. Comunque i segni e i sintomi della presenza di lesioni occupanti spazio nel cranio sono simili, e riconoscerli allo stadio iniziale può migliorare la probabilità di guarigione e di sopravvivenza, e quando si presenta uno di questi sintomi, non bisogna pensare subito al peggio, ma è importante consultare il medico ed il neurologo per gli accertamenti necessari. In generale, se una neoplasia colpisce la parte destra del cervello, il sintomo si manifesta a sinistra e viceversa, mentre se ad essere interessato è il cervelletto, situato a livello della nuca, si hanno segnali differenti, quali disturbi della coordinazioni, dell' equilibrio e della vista. Cefalea e nausea sono i primi segni di ipertensione endocranica, segni però che possono avere molte altre cause, ma se persistono per giorni e non regrediscono con i comuni antalgici è bene richiedere un consulto. I problemi della vista riguardano la riduzione del campo visivo, perdita della visione laterale (persone che sbattono regolarmente contro gli spigoli o le porte, o strusciano la fiancata dell' auto) e la visione sdoppiata, mentre i disturbi della sensibilità e della motilità degli arti sono ulteriori campanelli d' allarme. A seconda delle aree del cervello interessate inoltre, possono comparire disturbi del linguaggio parlato o scritto, difficoltà ad esprimersi, parola inceppata, deficit dell' udito, della comprensione e della memoria, cambi della personalità e del comportamento, fino ad arrivare alle crisi epilettiche e alla perdita di coscienza o svenimenti senza una causa apparente. La terapia più adeguata del tumore cerebrale dipende dal tipo di neoplasia, dalla sua grandezza e posizione encefalica, oltre che dall' età e dallo stato di salute del paziente, e consiste principalmente nella rimozione chirurgica, quando possibile, nella chemioterapia associata alla radioterapia, ed alla radiochirurgia e terapia mirata sulla massa cerebrale da ridurre, quest' ultima eseguita con gli anticorpi monoclonali, che vanno a colpire solo ed esclusivamente le cellule tumorali del cervello e nel circolo sanguigno. Ogni paziente con un tumore al cervello ha una propria prognosi, nessuno è uguale ad un altro, perché il destino della progressione o regressione della malattia dipende da molti fattori di quel tumore, come la sede, il tipo istologico, la regione accessibile chirurgicamente dell' encefalo e soprattutto la precocità della diagnosi, perché individuare una neoplasia al primo stadio consente un trattamento terapeutico meno invasivo e con un rischio di complicanze molto ridotto. Molti tumori hanno una crescita lenta e limitata a un'area cerebrale, possono insorgere a qualsiasi età e a causarli è spesso una mutazione genetica tale, per cui le cellule colpite da questo "errore", crescono e si dividono con un ritmo più elevato rispetto al normale. Esclusi i tumori tipici dell' infanzia, il primo fattore favorente indiziato è l' età senile, poiché le persone avanti con gli anni sono decisamente le più colpite, anche se un altro fattore importante sono considerate le malattie congenite, quali la neurofibromatosi, la sclerosi tuberosa, la sindrome di Gorlin e varie altre. Non va sottovalutata neppure la storia familiare, in quanto se in famiglia ci sono stati casi precedenti di cancro al cervello, i familiari debbono obbligatoriamente seguire la prevenzione. Oggi il tumore del cervello è tra i primi 5 tipi di cancro più frequenti prima dei 50 anni, ma si registrano progressi anche nella cura di neoplasie da sempre ritenute ardue da combattere (gliomi, glioblastomi e neuroblastomi), e molti risultati incoraggianti e positivi sono stati ottenuti con la immunoterapia, basata sull' uso di particolari cellule del sistema immunitario sensibilizzate verso il tumore con peptidi sintetici. La ricerca in questo ultimo decennio ha fatto grandi passi in avanti in questo settore, aggiungendo nuove molecole come la temozolomide, oltre a nuove combinazioni di farmaci già in uso. Le più recenti tecniche chirurgiche consentono di asportare tumori che un tempo venivano giudicati inoperabili, mentre oggi è sempre più risolutiva. Inoltre la radioterapia, da sola od aggiunta alla chemioterapia, è finalizzata ad arrestare la crescita neoplastica ed a ridurre il rischio di recidiva, e le nuove analisi molecolari consentono una prognosi più precisa e permettono sempre di più di scegliere le terapie mirate a quel tipo di tumore. Poiché ogni zona del cervello è responsabile di una funzione specifica, sarà quella funzione, se colpita dal tumore, ad essere per prima compromessa, per cui quando si avverte che qualcosa è cambiato nella sensibilità, nei movimenti, nel linguaggio, nella vista, nell' equilibrio, nel tremore e in qualunque sintomo riconducibile alla testa, è bene farsi controllare da uno specialista ed approfondire l' origine del sintomo, fosse anche un semplice, ma persistente mal di testa. In un' epoca come la nostra, chiunque di noi ha avuto un familiare, un parente, un amico o un conoscente colpito da questo male, per cui la cura e la attenzione alle nostre condizioni di salute devono essere vigili e comprendere la prevenzione, l' arma più importante per intervenire in tempo, e spesso per salvarsi la vita. Ai malati di tumore cerebrale aggiungo che la storia di Nadia Toffa è tristissima e dispiace a tutti, anche a chi non la conosceva, ma voglio ricordare che sono di più le storie dei molti pazienti guariti, piccoli e grandi, famosi e sconosciuti, che spesso non arrivano alle cronache, che erano malati come voi e che hanno superato e vinto una delle patologie più infami, crudeli e terribili, con coraggio, con determinazione, superando i momenti più difficili senza lasciarsi intimidire, senza mai perdere la speranza e la voglia di lottare, un esempio da perseguire e da tenere sempre bene in mente.

Nadia Toffa e il tumore al cervello, parla l'esperta: ecco come riconoscere i sintomi. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 15 Agosto 2019. Cari malati di cancro al cervello, voi lo sapete bene, il tumore all'encefalo è una malattia serissima, che colpisce come un fulmine a ciel sereno, che all'inizio si nasconde, inganna, opera sottotraccia, si maschera da altre malattie, viene scambiata per emicrania, cefalea o peggio per sindrome da stress, e che quando viene scovata ed accertata si ribella, resiste alle terapie, a volte si rafforza e cerca di espandere le sue radici, invadere il territorio limitrofo, e purtroppo non sempre viene sconfitta, e non sempre si raggiunge un esito positivo al termine delle cure. Ma c'è un ma, a mio giudizio molto importante. Intanto non fatevi impressionare dalla morte di Nadia Toffa, perché lei ha avuto uno di quei tipi di tumori per i quali non ci sono cure certe, e per i quali la scienza e la ricerca stanno lavorando molto, in Italia e nel mondo, per raggiungere il maggior numero di certezze e di successi terapeutici, ed il suo cancro si era manifestato ed era stato diagnosticato quando ormai era già radicato nel suo cervello, era ad alta malignità, e non ha mai lasciato, nemmeno per un momento, speranza di lunga vita. Infatti non esiste un solo tipo di tumore cerebrale, perché le neoplasie che si sviluppano all'interno della scatola cranica, possono essere molto diverse istologicamente, avere diversi gradi di benignità e malignità, di dimensione, di locazione e di crescita, e ciascuna di esse ha una storia naturale differente caso per caso.

Tra i benigni il più frequente è il meningioma (30,1%), mentre tra i maligni il glioblastoma (20,3%), l' astrocitoma (9,8%), i tumori della guaina dei nervi (8%), della ghiandola ipofisaria (6,3%), l' ependimoma (2,3%), ed altri tipi che raggiungono il 14%. Questi quelli che appartengono alla famiglia dei "gliomi", che colpiscono prevalentemente dopo i 21 anni, mentre il medulloblastoma o il neuroblastoma sono i tumori più frequenti nell'infanzia, che hanno un picco di incidenza nei bambini e giovani sotto i 15 anni, e che ogni anno in Italia colpiscono oltre 400 bambini. Naturalmente io sto parlando dei tumori primitivi dell'encefalo, ovvero quelli che nascono e germogliano dentro la scatola cranica, e non di quelli secondari, ovvero delle metastasi al cervello (i tumori intracranici più comuni negli adulti) che sono ripetizioni tumorali di neoplasie diffuse che provengono da altre parti del corpo, arrivando fino dentro la testa, e che derivano principalmente dal carcinoma polmonare, mammario e dal melanoma.

Probabilità di sopravvivere - Comunque i segni e i sintomi della presenza di lesioni occupanti spazio nel cranio sono simili, e riconoscerli allo stadio iniziale può migliorare la probabilità di guarigione e di sopravvivenza, e quando si presenta uno di questi sintomi, non bisogna pensare subito al peggio, ma è importante consultare il medico ed il neurologo per gli accertamenti necessari. In generale, se una neoplasia colpisce la parte destra del cervello, il sintomo si manifesta a sinistra e viceversa, mentre se ad essere interessato è il cervelletto, situato a livello della nuca, si hanno segnali differenti, quali disturbi della coordinazioni, dell'equilibrio e della vista. Cefalea e nausea sono i primi segni di ipertensione endocranica, segni però che possono avere molte altre cause, ma se persistono per giorni e non regrediscono con i comuni antalgici è bene richiedere un consulto. I problemi della vista riguardano la riduzione del campo visivo, perdita della visione laterale (persone che sbattono regolarmente contro gli spigoli o le porte, o strusciano la fiancata dell' auto) e la visione sdoppiata, mentre i disturbi della sensibilità e della motilità degli arti sono ulteriori campanelli d' allarme. A seconda delle aree del cervello interessate inoltre, possono comparire disturbi del linguaggio parlato o scritto, difficoltà ad esprimersi, parola inceppata, deficit dell'udito, della comprensione e dellamemoria, cambi della personalità e del comportamento, fino ad arrivare alle crisi epilettiche e alla perdita di coscienza o svenimenti senza una causa apparente.

Gli interventi - La terapia più adeguata del tumore cerebrale dipende dal tipo di neoplasia, dalla sua grandezza e posizione encefalica, oltre che dall' età e dallo stato di salute del paziente, e consiste principalmente nella rimozione chirurgica, quando possibile, nella chemioterapia associata alla radioterapia, ed alla radiochirurgia e terapia mirata sulla massa cerebrale da ridurre, quest' ultima eseguita con gli anticorpi monoclonali, che vanno a colpire solo ed esclusivamente le cellule tumorali del cervello e nel circolo sanguigno. Ogni paziente con un tumore al cervello ha una propria prognosi, nessuno è uguale ad un altro, perché il destino della progressione o regressione della malattia dipende da molti fattori di quel tumore, come la sede, il tipo istologico, la regione accessibile chirurgicamente dell' encefalo e soprattutto la precocità della diagnosi, perché individuare una neoplasia al primo stadio consente un trattamento terapeutico meno invasivo e con un rischio di complicanze molto ridotto. Molti tumori hanno una crescita lenta e limitata a un' area cerebrale, possono insorgere a qualsiasi età e a causarli è spesso una mutazione genetica tale, per cui le cellule colpite da questo "errore", crescono e si dividono con un ritmo più elevato rispetto al normale. Esclusi i tumori tipici dell' infanzia, il primo fattore favorente indiziato è l' età senile, poiché le persone avanti con gli anni sono decisamente le più colpite, anche se un altro fattore importante sono considerate le malattie congenite, quali la neurofibromatosi, la sclerosi tuberosa, la sindrome di Gorlin e varie altre. Non va sottovalutata neppure la storia familiare, in quanto se in famiglia ci sono stati casi precedenti di cancro al cervello, i familiari debbono obbligatoriamente seguire la prevenzione.

Più frequente - Oggi il tumore del cervello è tra i primi 5 tipi di cancro più frequenti prima dei 50 anni, ma si registrano progressi anche nella cura di neoplasie da sempre ritenute ardue da combattere (gliomi, glioblastomi e neuroblastomi), e molti risultati incoraggianti e positivi sono stati ottenuti con laimmunoterapia, basata sull'uso di particolari cellule del sistema immunitario sensibilizzate verso il tumore con peptidi sintetici. La ricerca in questo ultimo decennio ha fatto grandi passi in avanti in questo settore, aggiungendo nuove molecole come la temozolomide, oltre a nuove combinazioni di farmaci già in uso. Le più recenti tecniche chirurgiche consentono di asportare tumori che un tempo venivano giudicati inoperabili, mentre oggi è sempre più risolutiva. Inoltre la radioterapia, da sola od aggiunta alla chemioterapia, è finalizzata ad arrestare la crescita neoplastica ed a ridurre il rischio di recidiva, e le nuove analisi molecolari consentono una prognosi più precisa e permettono sempre di più di scegliere le terapie mirate a quel tipo di tumore. Poiché ogni zona del cervello è responsabile di una funzione specifica, sarà quella funzione, se colpita dal tumore, ad essere per prima compromessa, per cui quando si avverte che qualcosa è cambiato nella sensibilità, nei movimenti, nel linguaggio, nella vista, nell' equilibrio, nel tremore e in qualunque sintomo riconducibile alla testa, è bene farsi controllare da uno specialista ed approfondire l' origine del sintomo, fosse anche un semplice, ma persistente mal di testa. In un' epoca come la nostra, chiunque di noi ha avuto un familiare, un parente, un amico o un conoscente colpito da questo male, per cui la cura e la attenzione alle nostre condizioni di salute devono essere vigili e comprendere la prevenzione, l' arma più importante per intervenire in tempo, e spesso per salvarsi la vita. Ai malati di tumore cerebrale aggiungo che la storia di Nadia Toffa è tristissima e dispiace a tutti, anche a chi non la conosceva, ma voglio ricordare che sono di più le storie dei molti pazienti guariti, piccoli e grandi, famosi e sconosciuti, che spesso non arrivano alle cronache, che erano malati come voi e che hanno superato e vinto una delle patologie più infami, crudeli e terribili, con coraggio, con determinazione, superando i momenti più difficili senza lasciarsi intimidire, senza mai perdere la speranza e la voglia di lottare, un esempio da perseguire e da tenere sempre bene in mente. Melania Rizzoli

Nadia Toffa e il cancro, la verità della oncologa sulla sua malattia: "Stiamo studiando questo tipo di tumore". Libero Quotidiano il 13 Agosto 2019. "Nadia Toffa ha avuto un tipo di tumore per il quale la ricerca sta lavorando molto a livello internazionale, ma anche in Italia". Lo afferma Stefania Gori, presidente degli oncologi dell'Aiom, l'Associazione italiana di oncologia medica, interpellata dall'agenzia Agi sulla malattia che ha colpito dal 2017 la storica inviata e conduttrice delle Iene, morta a 40 anni dopo una coraggiosa battaglia contro il cancro al cervello. "Su alcune forme tumorali dobbiamo acquisire ancora maggiori conoscenze - ammette l'oncologa - ma anche per queste la ricerca sta avendo notevoli progressi. In generale la ricerca oncologica ha fatto molti passi avanti - osserva Gori -, il 60% dei pazienti con una diagnosi di tumore ha una sopravvivenza di 5 anni, e per il carcinoma alla mammella e alla prostata la percentuale di sopravvivenza sfiora il 90%". Il cammino è ancora lungo ma oggi, proprio grazie alla ricerca, si comincia a parlare di guarigione, "un concetto che fino a due anni fa non si prendeva in considerazione".

"C'è un esercito di persone - sottolinea la presidente dell'Aiom - che hanno avuto un tumore e che oggi sono vive in Italia e sono oltre 3 milioni e 400mila". Ma quand'è che ci si può considerare guariti? "Una certa quota di pazienti - spiega Gori - può essere considerata guarita perché ha raggiunto, dopo un numero di anni dalla diagnosi che è diverso a seconda della neoplasia dalle quale era affetto, la stessa aspettativa di vita di una persona della stessa età e dello stesso sesso che non ha mai avuto un tumore". 

Dagospia. Riceviamo e pubblichiamo: il 13 agosto 2019. Caro Dago, spiace per Nadia Toffa e nessuno merita di morire così (due anni di pura sofferenza per le cure), ma possiamo dire che l'affermazione del 12 febbraio 2018 (o giù di lì) della stessa Toffa di aver sconfitto il cancro era una cazzata bella e buona? Dopo due mesi NON curi il cancro. Nemmeno con il pensiero positivo e la radio. Furono tacciati di essere cattivi e hater tutti quelli che misero in dubbio queste parole, quando magari in tanti fecero solo notare che le cose purtroppo non stanno così. Spiace per la donna dietro il fenomeno mediatico e speriamo almeno che ora possa riposare in pace. Rimane incommentabile lo sfruttamento delle IENE che ha spettacolarizzato la malattia e purtroppo morte di una loro dipendente. Aspettiamoci ora uno speciale post mortem targato IENE; evidentemente il programma ha l'esclusiva dove sapremo tutto, tuttissimo sulla morte della loro inviata. Già l'annuncio della dipartita è stato affidato alle IENE e non alla famiglia, come sarebbe usanza e anche buona norma. Domanda: ma perché le IENE hanno questa passione morbosa per la disinformazione relativa alla salute? Saluti dagli sciacalli. Lisa

Non basta essere guerrieri per sconfiggere il cancro. Guglielmo Pepe su La Repubblica il 13 agosto 2019. La morte di Nadia Toffa è dolorosa. E non solo per i suoi cari, non solo per le amiche e gli amici e chi la stimava, ma anche per altre, tantissime, persone. In particolare quelle che combattono ogni giorno con il cancro. A loro, lei ha cercato di imprimere coraggio, per lottare e lottare contro una brutta malattia. E lo ha fatto fino all’ultimo. E quello che ha saputo trasmettere, resterà nei ricordi di tanti italiani. Da malato oncologico cronico so bene quanto sia importante il modo di affrontare il tumore, perché è un nemico molto forte, che devi affrontare mettendo da parte mille paure, cercando di mitigare le sofferenze psicologiche e fisiche che porta con sé, sapendo che ogni giorno in più è una conquista, che a volte l’obiettivo non è tanto sconfiggere la malattia, ma guadagnare tempo. Tempo di vita. Però non basta sentirsi “guerrieri”, perché anche se ti comporti come tale, hai comunque di fronte un nemico fin troppo spesso imbattibile. Perché perfino quando pensi di averlo sconfitto, quando i medici si dicono ottimisti, il male si riorganizza, e ritorna più forte di prima: il cancro è molto intelligente, e nel corpo cerca e trova la linfa per cercare di distruggere il tuo corpo. Insomma, non basta essere coraggiosi. Ma c’è forse qualcosa di più importante, che va oltre le capacità individuali di affrontare la malattia. E riguarda le politiche sanitarie, il diffondersi di strutture adeguate, gli investimenti nella ricerca. Perché ancora adesso un malato su due muore. E questa è l’immensa tragedia, negata, dimenticata, nascosta. Ogni giorno, solo nel nostro Paese, il cancro uccide 500 persone. E per ridurre questo numero impressionante di decessi, è necessaria una Sanità migliore. Servono in primo luogo diagnosi precoci. E invece la prevenzione non è diffusa come dovrebbe. In alcune zone d’Italia mancano le strutture, i mezzi per fare nei tempi giusti le corrette diagnosi. E sappiamo che prima si riconosce la malattia, prima iniziano le cure, più probabile è la “guarigione”. L’accesso alle cure è un altro grave problema, che trova alimento nelle stesse cause alla base delle diagnosi tardive. Quando i nostri esperti di sanità parlano di circa 50 mila morti evitabili, ogni anno, una parte è attribuibile all’assenza, strutturale di prevenzione. Infine le cure. Che si basano, soprattutto, sulla chemioterapia, sulla radioterapia, sulla terapia ormonale. Anche se nuove ricerche stanno aprendo altri percorsi di cura, non v’è dubbio che la Medicina è ancora indietro. Un grande oncologo, il professor Veronesi, alcuni anni fa disse che il cancro sarebbe stato sconfitto entro il 2020. Veronesi se ne è andato prima di vedere realizzata la sua previsione. Che è comunque lontana dal potersi avverare. Purtroppo.

Quando e perché si muore di tumore … paoki.it. I tumori, la febbre, l’infiammazione, l’edema, non sono nemici da sconfiggere ma fanno parte di un processo biologico speciale di sopravvivenza sensato che risale alla notte dei tempi. La malattia si manifesta dopo che si è risolto un trauma o si lascia andare la tensione. L’uomo convive con centomila microbi, batteri, funghi e virus che sono suoi alleati e lavorano in simbiosi con il suo corpo; (come da studi scientifici sul microbioma umano) fanno parte del programma biologico della natura e lavorano attivandosi per aiutare a cicatrizzare, caseificare o ripulire i tessuti.

Mi pongo questa domanda, cosa vuol dire cellula maligna ? se osserviamo il nostro corpo dopo anni di evoluzione, risulta difficile pensare che un sistema creato per la sopravvivenza e l’adattamento possa generare cellule che, senza motivo, improvvisamente impazziscano e comincino a girare per tutto il corpo senza un fine. In ogni organo abbiamo diversi tipi di tessuti, quindi è necessario differenziare con precisione scientifica in quale parte c’è il problema. In presenza di un boccone che mi rimane sullo stomaco, reale o traslato, il nostro cervello comanderà alle cellule dello stomaco che producono acido cloridrico (che non è psicologico ma biologico) di aumentare la funzione e quindi di produrre più acido per digerire il boccone stesso. Se non basterà l’aumento di funzione, la natura ha previsto anche la crescita e l’aumento di cellule (tumore). In questa fase la nostra capacità digestiva funziona meglio.  Ma nel momento in cui la situazione (boccone)  viene digerita, ossia la persona ha potuto risolvere un problema della sua vita, queste cellule inizieranno a ridurre la loro funzione perché non servono più. Eventuali cellule create in esubero saranno demolite attraverso un processo di caseificazione prodotto da funghi e micobatteri;   se non ci fossero abbastanza microrganismi  simbionti il tessuto provvederà ad incistare il tumore che rimarrà lì per sempre, isolato. Tutto incomincia da un trauma emotivo che ci coglie impreparati  perché va ad attivare le nostre emozioni. Il nostro istinto animale di sopravvivenza produce l’attivazione nell’area  cerebrale dell’organo corrispondente, che è esattamente quello che serve in quel determinato momento per rispondere allo stimolo ambientale con preciso significato di sopravvivenza per se stessi o per i propri cari. Una volta riconosciuta la relazione tra il nostro stato emotivo e conseguente attivazione biologica sensata della natura, possiamo occuparci per modularla fino a conclusione, verificando anche con esami diagnostici di laboratorio il cambiamento del processo biochimico in atto. Già da queste osservazioni possiamo comprendere come la paura della malattia generata da una diagnosi nefasta possa generare ulteriori processi biologici  che vanno ad aggravare quelli precedenti. I traumi emotivi vissuti nel passato ci lasceranno più sensibili. In situazioni simili o uguali, anche se di minore entità, si attiverà lo stesso processo biologico perché si andrà ad agganciare all’evento intenso del passato. Anche un elemento ambientale presente al momento che si è verificato il primo shock emotivo (come un profumo, un cibo, un luogo ecc.),  se catturato dei nostri sensi, sarà poi associato successivamente e farà scattare le stesse reazioni mente-corpo (allergie, intolleranze). Ecco alcuni esempi di possibili correlazioni tra emozioni e parti del corpo interessate:

Polmoni: (alveoli polmonari) paura di morire per se stessi o per persona cara;

Ossa: non essere in grado di, autosvalutazione, non sentire il proprio valore;

Reni: (tuboli collettori renali) sentirsi soli al mondo, come un profugo, pesce fuor d’acqua, non accuditi, lotta per la sopravvivenza;

Seno: (ghiandola mammaria) conflitto del nido,  paura che per qualche motivo possa saltare il proprio nido (necessità di nutrire allattando qualcuno all’interno del nido), prendersi cura;

Intestino: (cellule secernenti muco e peristalsi) contrarietà ripugnante, brutto tiro; (mucosa assorbente) situazione che non ci nutre;

Stomaco: (piccola curvatura, epitelio di rivestimento) sottostare ingiustamente a qualcuno o a qualcosa, non ricevere qualcosa che si attendeva, buttare giù qualcosa troppo grosso, indigesto, non buono, o che non ci nutre;

Fegato: (ghiandole) mancanza del boccone per la propria sussistenza; (dotti biliari) rancore per ingiustizia subita;

Bronchi: (epitelio di rivestimento) minaccia per il territorio;

A seguito di una primaria diagnosi di tumore in un qualsiasi organo la persona potrebbe sentire di non valere più niente, che la vita sia finita e che non può  fare più niente, questa emozione  produce una necrosi  a livello delle ossa. Se poi la persona  dovesse tranquillizzarsi e mollare questa emozione  per qualche motivo intercorso nella sua vita o anche perché facendo la terapia si tranquillizza,  il corpo produrrà la fase infiammatoria cioè la ricostruzione dell’osso. Se verrà fatto un controllo in questa fase, questa crescita di cellule potrebbe essere interpretata o diagnosticata come tumore alle ossa a seguito delle precedenti diagnosi. La persona con questa etichetta rimarrà condizionata per sempre nella propria vita. Gli stessi medici difficilmente potranno non collegare quel determinato processo biologico al primo. Allora la persona potrebbe avere un altro shock emotivo e vivere la paura di morire (ossia di non respirare più)  che è collegata ai polmoni,  il che produrrebbe una moltiplicazione delle cellule alveolari per respirare meglio. In questa fase non avrebbe sintomi,  ma nel momento in cui riuscisse a tranquillizzarsi avrebbe i sintomi della polmonite  e rifacendo i controlli potrebbe ricevere un ulteriore diagnosi di tumore al polmone. Si comprende come la persona entri dentro ad un continuo processo recidivante di emozioni scioccanti con conseguenti attivazioni biologiche che alla lunga la vanno a sfiancare emotivamente e fisicamente considerando anche  l’utilizzo di farmaci fortemente intossicanti. In questa sensazione di non aver via di uscita,  gradualmente si arriverebbe ad una consunzione,  fino a che poi la persona molla completamente la vita. In effetti se consideriamo una crescita di cellule in un seno o in una prostata  di per sé  quella crescita non potrebbe causare morte perché non stiamo parlando di un organo vitale, infatti viene chirurgicamente asportato, ma il problema è legato alla paura delle metastasi.

Sul discorso delle metastasi ci sono ancora molti dubbi. Come mai le cellule partono da un seno e passando attraverso la circolazione del sangue e distretti del nostro corpo, solamente dopo anni vanno a finire in un organo tanto distante ? Se invece, grazie alla  conoscenza delle leggi biologiche osserviamo che quel determinato organo si è  attivato esattamente in corrispondenza di quella precisa emozione  che solo la persona può riconoscere, ecco che tutto diventa scientificamente comprensibile. Non siamo più nell’ambito della statistica e dell’ipotesi. Ulteriore prova del nove sarà il lavoro di aiuto alla persona sul piano emozionale con la corrispondente verifica di miglioramento attraverso una valutazione personale e diagnostica. Questo concetto di comprensione biologica di ciò che sta accadendo non esclude il bisogno di un intervento chirurgico o farmacologico,  d’urgenza e/o di gestione dei sintomi,  ma ci porta all’interno di una nuova stanza che ci consente di agire con consapevolezza su ciò che è veramente utile fare per il nostro corpo per aiutare la natura e per tranquillizzarci emotivamente. In questa nuova prospettiva non può più esistere un protocollo ma un lavoro mirato a quella singola persona, unica, con tutto il suo mondo alle spalle.

Perché si muore di tumore? Perché si vive più a lungo. Janet Crompton su fondazioneserono.org il 05.03.2014. Il rapporto annuale del governo americano sullo Stato dei Tumori nel Paese indica che rispetto a  50 anni fa, quando era molto più probabile che una persona morisse per una malattia cardiovascolare, oggi invece il cancro sta per superarla come prima causa di mortalità. A prima vista può sembrare preoccupante e certamente fa notizia – si sono letti titoli come “stiamo perdendo la lotta contro il cancro” - ma questo confronto diretto è ingiusto e si deve guardare la notizia in un ambito più ampio. Il cancro è un problema di gran lunga più difficile da affrontare, rispetto alle malattie di cuore e vasi, perché dipende  da meccanismi fondamentali per l’evoluzione degli organismi. Nelle cellule dell’organismo, durante la vita e nel corso delle generazioni, si possono verificare delle variazioni dei geni che si definiscono mutazioni. Nonostante le difficoltà, i ricercatori e i clinici si stanno impegnando e stanno facendo importanti passi in avanti nella lotta al cancro. Infatti, il già citato rapporto indica anche come, negli anni compresi tra il 2001 e il 2010, i decessi dovuti al cancro abbiano continuato a diminuire dell’ 1.5% ogni anno.  Risultati simili sono emersi dalla ricerca europea EUROCARE-5 che ha indicato chiaramente che, nel periodo  1999 -2007, c’è stata una tendenza all’aumento della sopravvivenza ai tumori nella maggior parte dei paesi. Miglioramenti particolarmente incoraggianti sono stati ottenuti nella sopravvivenza dei bambini nei quali, dal 1975 in poi, la mortalità da tumore è stata ridotta del 50%. Negli adulti, certi tumori sono trattati, e in qualche caso guariti, con una combinazione di chemioterapia, terapie a bersaglio, radioterapia e chirurgia. In altri casi, anche se non si riescono a guarire, i tumori sono tenuti sotto controllo per anni. Le terapie a bersaglio (dette anche farmaci intelligenti o farmaci “mirati”) sono la “nuova frontiera” della terapia contro i tumori.  Sono molecole create in laboratorio per interagire con una precisa funzione delle cellule del tumore e non hanno effetti, o hanno effetti minimi, sulle cellule normali. In particolare, nelle persone in età avanzata, oggi le malattie cardiovascolari e il cancro si equivalgono come causa di morte, ma, dato che gli sviluppi nel trattamento delle malattie cardiovascolari hanno ridotto costantemente e di molto i rischi di decesso, è probabile che presto i tumori  diventeranno la prima causa di morte anche in questa fascia di età. Non perché la mortalità da tumori sia in aumento, anzi diminuisce in valori assoluti, ma perché, appunto, diminuiscono i decessi da malattia cardiovascolare. D’altra parte, il cancro è difficile da combattere perché un “fenomeno naturale” più che una malattia. Esso è il risultato biologico di uno dei meccanismi che permette l’evoluzione della specie umana: la mutazione che consiste, come detto in precedenza, in modificazioni dei geni. Per riprodursi, ogni cellula si divide in due. Per trasmettere a queste cellule i geni si creano due copie dell’acido desossiribonucleico (in inglese desoxiribonucleic acid: DNA) della cellula dalla quale derivano.  Quindi si creano copie, di copie, di copie di una cellula originaria. Ma come tutti i meccanismi biologici, anche la copiatura del DNA può comportare errori, fra i quali le mutazioni. Le mutazioni in qualche caso possono avere effetti molto positivi, ad esempio possono rendere un individuo meno sensibile a certe malattie, in altri, invece, sono causa di malattie come, ad esempio, i tumori. Inoltre, a parte le mutazioni che si verificano casualmente durante le copiatura del DNA, altre dipendono dal contatto fra l’organismo e le radiazioni o sostanze chimiche definite “cancerogene”. Nel corso del tempo, le mutazioni si accumulano. Le cellule hanno sviluppato meccanismi per identificare e correggere molti degli errori, ma non tutti.

Fra le mutazioni che si accumulano negli anni, alcune sono potenzialmente causa di cancro. Infatti, il meccanismo dell’evoluzione può avere un prezzo da pagare: certe volte, combinazioni di mutazioni conferiscono alla cellula troppo “potere di cambiare” e, resasi indipendente dai meccanismi che danno stabilità all’organismo, si riproduce in modo incontrollato, diventando un tumore. Tutto questo fa sì che non ci sono facili rimedi. Il fatto che si muoia per malattie cardiovascolari e cancro è dovuto all’invecchiamento dell’organismo. Volendo semplificare i concetti, quando a causa di carenza di cibo, grandi epidemie e altri fattori limitanti la vita media era di 30-40 anni, malattie di cuore e tumori non “facevano in tempo” a svilupparsi e a provocare il decesso. Ora, che quelle minacce per la specie umana sono state debellate in molte popolazioni, si vive più a lungo e si diventa a rischio di malattie di cuore e tumori. Se non proprio confortante, il fatto che i tumori e le malattie cardiovascolari siano “pari” come cause di morte può essere considerato un successo. Da un lato, i trattamenti per le malattie del cuore sono diventati progressivamente più efficaci negli anni, grazie ai farmaci per diminuire la pressione arteriosa, a quelli per ridurre il colesterolo ecc. Quando si verificano problemi, come l’usura delle valvole del cuore o l’ostruzione di vasi sanguigni, si interviene con opportune riparazioni. Grazie a questi interventi, dal 1990 la mortalità attribuibile a quei danni si è ridotta del 44%.  Oggi, sempre più persone di età compresa fra 55 e 84 anni curano i loro problemi di cuore e vasi sanguini e vivono  più a lungo. Proprio per questo  possono sviluppare tumori, che come detto in precedenza sono conseguenza, in parte, dell’invecchiamento dei tessuti.

Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che mezzo vuoto …Cento anni fa l’aspettativa di vita non superava i 55 anni, oggi in molti paesi sviluppati è di quasi 79 anni.  Oggi la popolazione vive più a lungo, quindi è più probabile che le persone raggiungano un’età dove c’è maggiore possibilità di sviluppare un tumore. Inoltre, ci sono importanti speranze per il futuro. Lo strumento con risultati più incoraggianti è la prevenzione. Nel mondo, tra il 15 ed il 20% dei tumori è causato da virus; il vaccino contro il papilloma virus ha la potenzialità di eliminare il tumore del collo dell’utero quasi completamente. Le campagne contro il fumo, l’obesità e il diabete stanno contribuendo a diminuire la mortalità per cancro. Anche per le cure del cancro, i progressi della scienza continueranno. Per alcuni tumori i trattamenti definiti “immuno-terapie”, che rafforzano le difese dell’organismo contro le cellule tumorali, stanno dando i primi risultati positivi. Le immuno-terapie anti-tumorali sono trattamenti che sfruttano il sistema immunitario dell’organismo per lottare “dall’interno” contro il tumore.  I tumori rilasciano certe sostanze che “mettono il freno” alle cellule del sistema immunitario che altrimenti riconoscerebbero ed eliminerebbero le cellule tumorali. Sono stati sviluppati farmaci biologici, in gran parte anticorpi monoclonali, che bloccano questo processo, infatti, mirano alla riattivazione delle difese immunitarie fisiologiche dell’organismo colpito da un tumore  mettendole in grado di attaccare e distruggere il tumore.  L’immunoterapia potrebbe essere il quinto approccio alla cura del cancro, insieme alla chirurgia, alla chemioterapia, ai farmaci mirati e alla radioterapia. La prima immunoterapia è già utilizzata in pazienti con melanoma metastatico (tumore della pelle con tumori secondari a distanza) e nuovi anticorpi monoclonali sono in sviluppo per altri tipi di tumore. [link al news “Science”]. Inoltre, ci sono in sviluppo i nano robot, cioè microscopici dispositivi che riparano il danno cellulare. Infine si definiranno sempre meglio le alterazioni genetiche alla base dei singoli tumori e questo permetterà di mettere a punto terapie sempre più personalizzate e mirate. Insomma, non c’è la certezza che il cancro possa essere debellato, ma sicuramente la scienza fornirà strumenti sempre più efficaci per combatterlo.

Uccide più la cura che la malattia. Le autopsie rivelano che i tumori…Marcello Pamio - tratto da "Cancro Spa". Luigi De Marchi, psicologo clinico e sociale, autore di numerosi saggi conosciuti a livello internazionale, parlando con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle diagnosi e delle terapie anti-tumorali, si sentì rispondere: «Sì, anch’io ho molti dubbi. Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini delle nostre valli più sperdute ho trovato tumori regrediti e neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del tutto indipendenti dalla patologia tumorale». «Se la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli ultimi decenni - si chiese Luigi De Marchi - in tutto l’Occidente avanzato fosse solo un’illusione ottica, prodotta dalla diffusione delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e regredivano naturalmente? E se il tanto conclamato incremento della mortalità da cancro fosse solo il risultato sia dell’angoscia di morte prodotta dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della Medicina ufficiale. Insomma, se fosse il risultato del blocco che l’angoscia della diagnosi e i danni delle terapie impongono ai processi naturali di regressione e guarigione dei tumori?”. Con quanto detto da Luigi De Marchi - confermato anche da autopsie eseguite in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia - si arriva alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano) uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli. In questa specifica indagine autoptica (autopsie) fatta in Svizzera, ed eseguita su migliaia di persone morte in incidenti stradali (quindi non per malattia), è risultato qualcosa di sconvolgente:

- Il 38% delle donne (tra i 40 e 50 anni) presentavano un tumore (in situ) al seno; 

- Il 48% degli uomini sopra i 50 anni presentavano un tumore (in situ) alla prostata; 

- Il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni presentavano un tumore (in situ) alla tiroide.

Con tumore in situ s’intende un tumore chiuso, chiuso nella sua capsula, non invasivo che può rimanere in questo stadio per molto tempo e anche regredire. Nel corso della vita è infatti "normale" sviluppare tumori, e non a caso la stessa Medicina sa bene che sono migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo. Queste, poi, vengono distrutte e/o fagocitate dal Sistema Immunitario, se l’organismo funziona correttamente. Molti tumori regrediscono o rimangono incistati per lungo tempo quando la Vis Medicratix Naturae (la forza risanatrice che ogni essere vivente possiede) è libera di agire. Secondo la Medicina Omeopatica , la “Legge di Guarigione descrive il modo con cui tale forza vitale di ogni organismo reagisce alla malattia e ripristina la salute”. Cosa succede alla Legge di Guarigione, al meccanismo vitale di autoguarigione, se dopo una diagnosi di cancro la vita viene letteralmente sconvolta dalla notizia del male?  E cosa succede all’organismo (e al Sistema Immunitario) quando viene fortemente debilitato dai farmaci?

Ulteriori dati poco conosciuti. Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal prof. Hardin B. Jones, fisiologo dell’Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di cancerologia presso l’Università di Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, egli prova che i malati di tumore che NON si sottopongono alle tre terapie canoniche (chemio, radio e chirurgia) sopravvivono più a lungo o almeno quanto coloro che ricevono queste terapie. Il prof. Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da coloro che si sono invece sottoposte alle cure complete. Un'altra ricerca pubblicata su The Lancet del 13/12/1975 (che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi), dimostra che la vita media di quelli trattati con chemioterapia è stata di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 120 giorni. Se queste ricerche sono veritiere, una persona malata di tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se non segue i protocolli terapeutici ufficiali. Con questo non si vuole assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami, gli screening e i trattamenti oncologici ufficiali, ma si vogliono fornire semplicemente, delle informazioni che normalmente vengono oscurate, censurate e che possono, proprio per questo, aiutare la scelta terapeutica di una persona. Ma ricordo che la scelta è sempre e solo individuale: ogni persona sana o malata che sia, deve assumersi la propria responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che sia, per questo o quel problema. Dobbiamo essere gli unici artefici della nostra salute e nessun altro deve poter decidere al posto nostro. Possiamo accettare dei consigli, quelli sì, ma niente più.

I pericoli della chemioterapia. Il principio terapeutico della chemioterapia è semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche per uccidere le cellule cancerose. Il concetto che sta alla base di questo ragionamento limitato e assolutamente materialista è che alcune cellule, a causa di fattori ambientali, genetici o virali, impazziscono iniziando a riprodursi caoticamente creando delle masse (neoplasie). La Medicina perciò tenta di annientare queste cellule con farmaci citotossici (cioè tossici per le cellule). Tuttavia, questa feroce azione mortale, non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle neoplastiche (impazzite), cioè i tessuti tumorali da quelli sani, colpisce e distrugge l’intero organismo vivente. Ci hanno sempre insegnato che l’unica cura efficace per i tumori è proprio la chemioterapia, ma si sono dimenticati di dirci che queste sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni. Solo chi ha provato sulla propria pelle le famose iniezioni sa cosa voglio dire. «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene. L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto con la sua pelle l’avrebbe bruciata. Non potei fare a meno di chiedermi: ‘Se precauzioni di questo genere sono richieste all’esterno, che diamine sta avvenendo nel mio organismo?’. Dalle 19 di quella sera vomitai alla grande per due giorni e mezzo. Durante la cura persi manciate di capelli, l’appetito, la colorazione della pelle, il gusto per la vita. Ero una morta che camminava». Un malato di tumore viene certamente avvertito che la chemio gli provocherà (forse) nausea, (forse) vomito, che cadranno i capelli, ecc. Ma siccome è l’unica cura ufficiale riconosciuta, si devono stringere i denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’Azienda Ospedaliera o la Clinica Privata da qualsiasi problema e responsabilità. Le precauzioni del personale infermieristico che manipolano le sostanze chemioterapiche appena lette nella testimonianza, non sono una invenzione. L’Istituto Superiore di Sanità italiano ha fatto stampare un fascicolo dal titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per tutti gli addetti ai lavori, cioè per coloro che maneggiano fisicamente le fiale per la chemio (di solito infermieri professionali e/o medici). Fiale che andranno poi iniettate ai malati. Alla voce Antraciclinici (uno dei chemioterapici usati) c’è scritto che dopo la sua assunzione può causare: “Stomatite, alopecia e disturbi gastrointestinali sono comuni ma reversibili. La cardiomiopatia, un effetto collaterale caratteristico di questa classe di chemioterapici, può essere acuta (raramente grave) o cronica (mortalità del 50% dei casi). Tutti gli antraciclinici sono potenzialmente mutageni e cancerogeni”. Alla voce Procarbazina (un altro dei chemioterapici usati) c’è scritto che dopo la sua assunzione può causare: “E’ cancerogena, mutagena e teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con terapia radiante”. In un altro documento, sempre del Ministero della Sanità (Dipartimento della Prevenzione – Commissione Oncologica Nazionale) dal titolo “Linee-guida per la sicurezza e la salute dei lavoratori esposti a chemioterapici antiblastici in ambiente sanitario” (documento pubblicato dalle Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano) c’è scritto: “Uno dei rischi rilevati nel settore sanitario è quello derivante dall’esposizione ai chemioterapici antiblastici. Tale rischio è riferibile sia agli operatori sanitari, che ai pazienti”. Qui si parla espressamente dei rischi per operatori e pazienti. Il documento continua dicendo: “Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli Agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 "Protezione da agenti cancerogeni". Infatti, trattandosi di farmaci, non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/CEE e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 "Può provocare il cancro" o la menzione R49 ‘Può provocare il cancro per inalazione’”. Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché sono considerate “farmaci”. Questa informazione è molto interessante. 

Andiamo avanti: “Nella tabella 1 [vedi sotto, ndA] è riportato un elenco, non esaustivo, dei chemioterapici antiblastici che sono stati classificati dalla IARC nel gruppo ‘cancerogeni certi per l’uomo’ e nel gruppo ‘cancerogeni probabili per l’uomo’. L’Agenzia è arrivata a queste definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio ‘secondo tumore’ che nei pazienti trattati con chemioterapici antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. Infatti, nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di tumori secondari non correlati con la patologia primitiva”.

Tabella 1. Cancerogeni per l’uomo: Butanediolo dimetansulfonato (Myleran) - Ciclofosfamide - Clorambucil - 1(2-Cloretil)-3(4-metilcicloesil)-1-nitrosurea (Metil-CCNU) - Melphalan - MOPP (ed altre miscele contenenti alchilanti) - N,N-Bis-(2-cloroetil)-2-naftilamina (Clornafazina) - Tris(1-aziridinil)fosfinsolfuro (Tiotepa)

Probabilmente cancerogeni per l’uomo: Adriamicina - Aracitidina - 1(2-Cloroetil)-3-cicloesil-1nitrosurea (CCNU) - Mostarde azotate - Procarbarzina.

Certamente si tratta di un elenco incompleto perché, sfogliando una trentina di bugiardini di chemioterapici, mancano diverse molecole cancerogene per ammissione stessa dei produttori. 

In conclusione, il documento sulle “linee guida” riporta alla voce “Smaltimento”: “Tutti i materiali residui dalle operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi, siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti speciali ospedalieri. Quasi tutti i chemioterapici antiblastici sono sensibili al processo di termossidazione (incenerimento), per temperature intorno ai 1000-c La termossidazione, pur distruggendo la molecola principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di combustione che conservano attività mutagena. È pertanto preferibile effettuare un trattamento di inattivazione chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad incenerimento. Le urine dei pazienti sottoposti ad instillazioni endovescicali dovrebbero essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate concentrazioni di principio attivo”. Queste sostanze, che vengono sistematicamente iniettate nei malati, anche se incenerite a 1000°C “conservano attività mutagena”.  Ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? La spiegazione tra poche righe.

L’amara conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei discendenti).  C’è qualcosa che non torna: perché ad una persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale, debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così tossiche? Questo apparente controsenso - se non si abbraccia l’idea che qualcuno ci sta coscientemente avvelenando - si spiega nella visione riduzionista e totalmente materialista che ha la Medicina , ma questo è un argomento che affronteremo più avanti. In Appendice sono stati pubblicati alcuni degli effetti collaterali (scritti nei bugiardini dalle lobby chimico-farmaceutiche che li producono) di circa trenta farmaci chemioterapici. Uno per tutti: l’antineoplastico denominato Alkeran® (50 mg/10 ml: polvere e solvente per soluzione iniettabile che contiene come eccipiente: “acido cloridrico”) della GlaxoSmithKline. “Un alchilante analogo alla mostarda azotata”. Alchilante è un farmaco capace di combinarsi con gli elementi costitutivi della cellula provocandone la sua alterazione. Dal bugiardino si evince che questa sostanza chimica (usata nei malati tumorali), oltre a provocare la leucemia acuta (“è leucemogeno nell’uomo”), causa difetti congeniti nella prole dei pazienti trattati. Alla voce “Eliminazione”, viene confermato quanto riportato sopra: “L’eliminazione di oggetti taglienti, quali aghi, siringhe, set di somministrazione e flaconi deve avvenire in contenitori rigidi etichettati con sigilli appropriati per il rischio. Il personale coinvolto nell’eliminazione (dell’Alkeran) deve adottare le precauzioni necessarie ed il materiale deve essere distrutto, se necessario, mediante incenerimento”. Incenerimento, come abbiamo letto prima, alla temperatura di 1000-1200 gradi! La spiegazione è che queste sostanze sono analoghe alle “mostarde azotate”. Il sito del Ministero della Salute italiano, alla voce “Emergenze Sanitarie”, si esprime così: “Le mostarde azotate furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali armi chimiche. Si tratta di agenti vescicatori simili alle mostarde solforate che si presentano in diverse forme e possono emanare un odore di pesce, sapone o frutta. Sono note anche con la rispettiva designazione militare HN-1, HN-2 e HN-3. Le mostarde azotate sono fortemente irritanti per pelle, occhi e apparato respiratorio. Sono in grado di penetrare nelle cellule in modo molto rapido e di causare danni al sistema immunitario e al midollo osseo (…) che si manifestano già dopo 3-5 giorni dall’esposizione, che causano anche anemia, emorragie e un maggiore rischio di infezioni. Quando questi effetti si presentano in forma grave, possono condurre alla morte”. Per “curare” il tumore oggi vengono utilizzati degli "agenti vescicanti": prodotti militari usati nelle guerre chimiche. Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto. (Mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale). [Giuramento di Ippocrate]   

Marcello Pamio - tratto da "Cancro Spa: leggere attentamente le avvertenze".

Perché non abbiamo ancora sconfitto il cancro, anche se le cure ci sono. Il cancro è un male che continua ad ucciderci ogni giorno contro il quale esistono però cure efficaci: ma allora perché non siamo ancora riusciti a sconfiggerlo del tutto? Vediamo insieme cosa c’è davvero da sapere sul cancro, quale sia la differenza con il tumore e quali siano i trattamenti più innovativi degli ultimi anni. Zeina Ayache su Fanpage il 5 febbraio 2019.  Perché nonostante le cure il cancro uccide ancora. Ogni giorno nuove pubblicazioni scientifiche parlano di cure efficaci contro il cancro, eppure ogni giorno il cancro continua ad ucciderci. Com’è possibile che in tutti questi anni di ricerca e con così tante nuove cure confermate dagli scienziati, ancora non siamo riusciti a curare il cancro?

Cos’è il cancro. Innanzitutto va detto che è scorretto parlare di cancro al singolare, attualmente infatti esistono centinaia di tipologie di cancro, dunque la prima cosa da dire è che il cancro è un insieme di diversi tipi di malattie che colpiscono i nostri organi e tessuti in maniera diversa.

Differenza tra cancro e tumore. Parliamo di tumore in generale quando ci riferiamo alla proliferazione non controllata di cellule ‘impazzite’ che si infiltrano negli organi e nei tessuti alterandoli. Ma come è possibile? Alcune delle nostre cellule si rinnovano con il passare del tempo, stiamo parlando di miliardi di cellule ogni giorno, queste cellule hanno un ciclo di vita durante il quale possono accumulare mutazioni sporadiche del DNA e che le portano a perdere alcune delle loro proprietà facendole ‘impazzire’. Le ‘nuove’ cellule malate iniziano così a proliferare formando i tumori. I tumori possono essere benigni, quando le cellule tumorali restano confinate nel tessuto di origine, non invadendo dunque gli organi circostanti, e, come dice il termine stesso, non rappresentano un serio pericolo per la nostra salute, e maligni, chiamati cancro, quando invece le cellule escono dai confini del tessuto in cui si sono formate e invadono gli organi circostanti, diventando dunque pericolose per la nostra salute.

Come curiamo oggi il cancro? Chiarito a grandi linee cos’è il cancro e chiarito che in realtà sarebbe più corretto parlare di cancri, ci viene più facile comprendere perché non sia stato ancora possibile trovare una cura universale. Dobbiamo infatti considerare vari aspetti: il cancro ha origine in diversi organi che sono dunque differenti tra loro, il seno non è un polmone, così come non è il cervello, il fegato o il colon e riguarda più tipi di cellule, anch’esse differenti, ci sono quelle del sistema immunitario, che hanno proprietà differenti rispetto a quelle epiteliali, per esempio.

il tumore si manifesta inoltre in più fasi, ognuna delle quali richiede un intervento differente. Non è dunque certo che un trattamento valido per un cancro, abbia lo stesso effetto su un altro. Non dimentichiamo inoltre che le cellule tumorali si evolvono con il passare del tempo, questo significa che terapie un tempo efficaci, possono ad un certo punto risultare inutili. Il cancro dunque non è un’unica malattia, ma un insieme di malattie che sono in continua evoluzione.

La sperimentazione contro il cancro. Un aspetto che spesso sottovalutiamo quando leggiamo di nuove scoperte contro il cancro è che gli esperimenti che hanno dato risultati soddisfacenti sono stati effettuati sugli animali, spesso i topi. Per quanto i topi vengano ampiamente utilizzati per la sperimentazione, l’efficacia su di loro non implica con certezza assoluta l’efficacia sul nostro corpo. Questo significa che, una volta accertato che un dato trattamento è valido per uno specifico cancro sui topi in determinate condizioni, bisogna poi valutare se sia altrettanto valido per l’essere umano. Questo richiede dunque nuove sperimentazioni che, se vengono concesse, necessitano di ulteriore tempo, oltre che denaro, rendendo dunque le tempistiche molto varie: possono infatti essere necessari molti anni per dimostrare che quel trattamento specifico è valido anche per l’essere umano. Senza contare poi, come dicevamo prima, che l’efficacia varia da soggetto a soggetto.

Le terapie più utilizzate contro il cancro. Attualmente contro il cancro esistono diverse tipologie di trattamento, le più diffuse sono la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia.

La chirurgia implica la rimozione del tumore solido al quale poi sono associate chemioterapia e radioterapia.

La chemioterapia utilizza farmaci citotossici, cioè tossici per le cellule, e ha il compito di impedire la divisione cellulare così da bloccare la replicazione delle cellule e colpisce quelle malate, ma può colpire anche quelle sane: questo spiega gli effetti collaterali legati a questo trattamento, in particolare per quanto riguarda le mucose, i capelli e il sangue.

La radioterapia invece utilizza i raggi X per uccidere le cellule malate e si concentra nella zone colpite dal cancro per evitare il più possibile le cellule sane.

L’avvento dell’immunoterapia. In questi ultimi anni si è sentito molto parlare di una terapia rivoluzionaria e particolarmente efficace: l’immunoterapia. L’immunoterapia ha rappresentato una delle scoperte scientifiche più importanti di questi ultimi anni tanto da aver portato i suoi ‘padri’, James P. Allison e Tasuku Jonjo, al Nobel per la medicina 2018. Ma cos’è l’immunoterapia? L’immunoterapia sfruttano il funzionamento del sistema immunitario per contrastare i tumori. In pratica, le cellule ‘malate’ sviluppano sulla loro superficie delle molecole, chiamate antigeni tumorali, che sono diverse da quelle delle cellule sane. Grazie all’immunoterapia, gli anticorpi selettivi vengono prodotti in laboratorio per riconoscere questi antigeni tumorali così da attaccare le cellule del cancro e ucciderle. Purtroppo però questo tipo di terapia non è efficace per tutti, infatti dipende non solo dalla risposta del singolo individuo, ma anche dalle caratteristiche delle stesse cellule tumorali.

La terapia genica. C’è un’altra cura apparentemente efficace che potrebbe rappresentare il futuro della lotta contro il cancro, e cioè la terapia genica. La terapia genica interviene direttamente sul DNA ‘difettoso’ del paziente riuscendo a contrastare la malattia. La terapia genica è efficace non solo contro il cancro, ma anche contro le malattie genetiche in generale.

Il vaccino contro il cancro. Un altro grande sogno degli scienziati, oltre a quello della messa in commercio di terapie definitive contro le varie forme di cancro, è quello del vaccino universale. Ma come funziona questo vaccino? I vaccini universali per ora sperimentati hanno l’obiettivo di stimolare il sistema immunitario contro qualsiasi forma di tumore. In pratica le cellule del sistema immunitario vengono ‘riprogrammate’ per contrastare la malattia. Attualmente sono stati effettuati test sui topi e su tre pazienti umani malati di melanoma e i risultati sembrano essere soddisfacenti: il tumore è infatti rimasto ‘clinicamente e radiologicamente stabile’. Prima di cantar vittoria però dobbiamo sempre ricordarci delle differenze che ci sono tra persona e persona e tra tumore e tumore, non stiamo parlando di ‘impossibile’, ma sicuramente siamo di fronte ad un lungo percorso che solo nei prossimi anni potrà dirci se davvero un vaccino contro il cancro sia o no possibile. Insomma, è vero che la guerra contro il cancro è ancora attiva, è vero che siamo di fronte ad un nemico molto abile, è vero che la ricerca richiede grandi somme di denaro per poter progredire, ma è anche vero che grandi passi in avanti sono stati compiuti, dobbiamo dunque continuare a credere nella scienza nella speranza che un giorno il cancro sia solo un brutto ricordo, o comunque un male che possiamo tutti sconfiggere.

Nadia Toffa morta, da Oriana Fallaci a Emma Marrone e Lorella Cuccarini: tutti i vip che hanno parlato apertamente del cancro. Chi ha già superato quella sfida ne parla ormai pubblicamente, per motivi diversi e tutti legittimi. C’è chi lo fa per invitare quelli che vogliono farlo a non vergognarsene; chi per “scherzarci” sopra; chi per sfidarlo. Il ciclista Lance Armstrong, della lotta al suo cancro ai testicoli, ci fece una ragione di vita e di esempio per tutto il mondo. Francesco Oggiano il 13 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Le cose terribili hanno sempre tantissimi nomi. “Malattia inguaribile”, “male incurabile”, “lunga malattia”, “male del secolo”. Nadia Toffa aveva scelto di chiamarlo cancro fin dall’inizio. Su Instagram metteva davanti alla parola pure il cancelletto, per trasformarla in hashtag e vaffanculo. Se doveva parlare della sua malattia, tanto valeva parlarne maestosamente, senza parafrasi. Wondy, su quelle parafrasi, ci ha sbattuto la testa per anni: “Alle soglie del 2014 siamo ancora troppo imbarazzati di fronte alla parola ‘cancro’!”, scriveva sul blog che aveva aperto su Vanity Fair. Si chiamava Francesca Del Rosso, giornalista, e per anni ha raccontato tutto ma proprio tutto del suo tumore: la “crapa pelata” (non voleva usare parrucche), le terapie, le piccole lotte quotidiane. Quando è morta nel 2016, suo marito Alessandro Milan, storica voce di Radio24, l’ha ricordata elencando anche i suoi difetti. Nessuna apologia, e tre parole: “Mi vivi dentro”. La stessa lotta linguistica fu portata avanti da Oriana Fallaci, che pure spesso chiamò il suo cancro ai polmoni “l’alieno”. La giornalista fu una delle prime in Italia a parlare apertamente della sua malattia, anche per rompere il tabù di cui divenne consapevole dopo il primo intervento subito: “Il chirurgo disse: ‘Le do un consiglio. Non ne parli con nessuno’. Rimasi allibita. E così offesa che non ebbi la forza di replicare: ‘Che cosa va farneticando?!? Avere il cancro non è mica una colpa, non è mica una vergogna!”. Pochi anni prima di morire, raccontò che la malattia l’aveva “cambiata, eccome”: “È diminuita estremamente la mia energia, è raddoppiata la mia sopportazione al male fisico”. Uguale rimase invece la sua cocciutaggine, che le diede la forza di ingaggiare con l’“alieno” una sfida, un dialogo muto: “Anche quando accendo una sigaretta mi sembra di sfidarlo, “Teh brutto stronzo, che ti fumo in faccia””. A spiegare quell’abitudine di fumare in faccia al cancro è stata Emma Bonino: “È il primo guizzo di sfida. Come diceva il mio papà, io voglio morire malata, non voglio morire sana“. La leader di +Europa ha raccontato pubblicamente la sua lotta con un tumore al polmone, che lei chiama un “signore antipaticissimo” dentro al corpo: “Uno stronzo, ma capisco che non se ne volesse andare. Mangi tre volte al giorno, hai un bel terrazzo, dormi tutta la notte. Chi meglio di lui?”. Niente parrucche, per lei, solo piccoli turbanti, tantissimi. Perché la lotta ha un’estetica tutta sua. Shannen Doherty, per esempio, ha trasformato il suo profilo Instagram in un museo vivente della lotta al cancro. Foto dopo foto, da due anni la Brenda di Beverly Hills 90210 mostra al mondo gli alti e bassi della sua vita col tumore dentro al seno: la testa rasata, gli esami in ospedale, la bandana. “Credo che ciò che è bello, difficile e interessante del cancro sia il fatto che ti distrugge e ti ricostruisce. E ancora ti butta giù, e ti ricrea. E tu ti ritrovi ricostruita in modi che non pensavi nemmeno fossero possibili”. E la paura? Quella c’è, eccome, e va raccontata proprio per questo. “Non so quanto durerò. Cinque anni? Dieci?”. Olivia Newton John non vuole saperlo. La dolcissima Sandy di Grease, a 70 anni e con un cancro definito incurabile, crede alle profezie che si autoavverano e si regola di conseguenza: “Se ti dicono che ti restano sei mesi, tu ci credi e alla fine vivrai proprio quel periodo di tempo lì. Io non voglio saperlo, non voglio avere un limite temporale alla mia vita”. Dice che ha “paura”, ma in fondo “tutti abbiamo delle sfide da combattere nella vita, questa è la mia”. La lotta al cancro va di pari passo con quella al suo tabù. Emma Marrone, che ha parlato di quel tumore che la colpì 25enne poco prima di partecipare ad Amici, ha detto parole lucidissime sul tabù della malattia: “Viviamo in una società che vuole essere supertecnologica e ultramoderna, per la quale dobbiamo essere sempre perfetti e forti. In cui una malattia è una cosa da non raccontare perché ci rende imperfetti e vulnerabili nei confronti di chi ci sta vicino”. Bugia: “Le imperfezioni e le diversità ci rendono unici. Senza quelle saremmo un ammasso di cose tutte uguali che non sanno dove stanno andando”. Chi ha già superato quella sfida ne parla ormai pubblicamente, per motivi diversi e tutti legittimi. C’è chi lo fa per invitare quelli che vogliono farlo a non vergognarsene; chi per “scherzarci” sopra; chi per sfidarlo. Il ciclista Lance Armstrong, della lotta al suo cancro ai testicoli, ci fece una ragione di vita e di esempio per tutto il mondo: “Le persone, anche quelle più forti, muoiono di cancro. Questa è la verità essenziale da imparare. E dopo averla imparata, tutto il resto sembra non avere più importanza”. Ben Stiller annunciò al mondo di aver sconfitto il tumore alla prostata nel modo più divertente possibile: postando la foto di lui giovane che si tocca le parti intime durante una scena di Tutti pazzi per Mary (quella della zip incastrata): “Due anni fa ho avuto un cancro e volevo parlarne”. Lorella Cuccarini, colpita da un tumore nel 2002, ha sempre raccontato la storia della sua “tiroide perduta con il sorriso sulle labbra”. Fabrizio Frizzi, uno che tra tutti gli estroversi era il più timido, pochi mesi prima di morire raccontò con garbo che lottava “per continuare a veder crescere la mia creatura”: “Non so se mia figlia Stella abbia capito quanto è accaduto, abbiamo cercato di proteggerla, ma so che i bambini capiscono molto più di quanto immaginiamo: ogni giorno giochiamo insieme, è il suo modo di sorreggermi, mi dà l’energia per continuare a combattere”. E poi ci sono quelli che ne parlano per sfidarlo, o lo raccontano per sensibilizzare gli altri alla prevenzione. La cantante Anastacia, dopo una doppia mastectomia, posò senza veli, per mostrare al mondo quelle cicatrici al seno, “ormai parte del mio viaggio”. Hugh Jackman, operato per un tumore alla pelle anni fa, ancora non smette di ripetere ai suoi fan su Instagram di “fare i controlli e mettere la protezione solare”. Perché fa pure questo il cancro, quando è raccontato: pialla tutto, leva ogni sovrastruttura, annulla ogni vantaggio pregresso. E porta uno degli attori più famosi e strapagati al mondo a ricordarti, col tono un po’ barboso di una mamma in spiaggia coi figli, di spalmarti la crema solare.

Storie Italiane, Viola Valentino rivela: «Ho un tumore ma a settembre mi sposo». Marco Leardi mercoledì 3 aprile 2019 su Davide Maggio. Storie Italiane, Viola Valentino. “Circa tre o quattro anni fa mi hanno detto che avevo un carcinoma e bisognava operare d’urgenza“. Sofferta e inaspettata, la rivelazione di Viola Valentino è avvenuta ieri su Rai1, a Storie Italiane. Ospite di Eleonora Daniele, la cantante ed ex moglie di Riccardo Fogli ha svelato in tv la propria battaglia contro la malattia. “Circa tre o quattro anni fa mi hanno detto che avevo un carcinoma e bisognava operare d’urgenza. Non mi ero resa conto, è una malattia subdola, quando arrivano queste cose neanche te ne rendi conto. Normalmente lo prendi in ritardo, invece io ho avuto la fortuna di prenderlo in tempo, ma questo non esclude che ci sia metà e metà di sicurezza che non si propaghi (…) E’ un problema, però dipende caratterialmente come sei fatto, se sei una persona che nutre speranze nella vita ed è capace di lottare o che si abbandona“. ha dichiarato Viola Valentino. “Le persone forti possono fare in modo che le più deboli assorbano la loro energia e si tirino su” ha aggiunto la cantante, attribuendo in qualche modo una valenza pubblica alla propria disarmata rivelazione. Poco prima, del resto, era stata la stessa conduttrice a sottolineare: “Facciamo tante battaglie sociali su tante persone che vivono questo problema (…) Se tu mi hai raccontato questo, magari qualcuno che ci sta ascoltando da casa si sente meno solo“. A Storie Italiane, Valentino ha però anche dato una notizia positiva: quella del suo matrimonio con il nuovo compagno, fissato per settembre. “È arrivato il divorzio dal mio secondo marito. Era la famosa carta che stavo aspettando per sposare Francesco, con cui sto da otto anni“.

Sabrina Paravicini: "Ho guardato la ferita al seno, imparerò a volerle bene". Sabrina Paravicini, che aveva ammesso di temere la sua immagine riflessa allo specchio dopo l'asportazione del seno, ha raccontato di essere riuscita a guardare la ferita. Luana Rosato, Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. L’attrice Sabrina Paravicini, operata al seno per l’asportazione di un tumore, continua a raccontare la sua riabilitazione via social e, dopo vari tentennamenti, ha spiegato di essere finalmente riuscita a guardare quella ferita. Mostrando la fascia che copre il seno reciso, l’attrice di Un medico in famiglia ha raccontato le sue sensazioni dopo aver finalmente superato la paura dello specchio. “Ieri sera mi sono guardata allo specchio – ha esordito Sabrina Paravicini su Instagram - . Mi sono tolta la maglietta, il reggiseno post operatorio e la fascia contenitiva. Il seno destro nudo, quello sinistro, quel che ne rimane, coperto da un grosso cerotto sterile. I dolori non passano, si attenuano per poi riemergere da un lato all’altro a sorpresa”. La Paravicini, infatti, aveva già raccontato di aver sentito dei dolori lancinanti dopo l’operazione e, ancora oggi, la sua sofferenza sembra non attenuarsi. “Ieri mi sono ripetuta mille volte “passerà”, come un mantra, come una preghiera. È una sorta di sequestro emotivo. Il corpo sequestrato in casa, la mente sequestrata da un tempo sospeso e infinito che non passa più. Ma passerà, sta passando”, ha continuato a scrivere. “Questa mattina ho fatto una nuova medicazione, non so perché a un certo punto ho guardato giù. Ho visto la cicatrice, l’ho messa a fuoco per un secondo poi d’istinto ho distolto lo sguardo. La mia mente l’ha registrata sfocata, solo la lunghezza mi è rimasta in modo nitido – ha detto ancora l’attrice che, fino a qualche giorno fa, aveva scelto di non guardare quella ferita - .Attraversa il mio seno da una parte all’altra, non mi è sembrata centrata o simmetrica, immagino che quando mi inseriranno la protesi prenderà il posto giusto. Intanto si è posizionata in modo confuso e sgranato nella mia mente. Come l’immagine di una polaroid uscita dalla macchina fotografica. Sgranata, indefinita. Leggermente fuori fuoco. Imparerò a volerle bene”. Ieri sera mi sono guardata allo specchio. Mi sono tolta la maglietta, il reggiseno post operatorio e la fascia contenitiva. Il seno destro nudo, quello sinistro, quel che ne rimane, coperto da un grosso cerotto sterile. I dolori non passano, si attenuano per poi riemergere da un lato all’altro a sorpresa. Ieri mi sono ripetuta mille volte “passerà”, come un mantra, come una preghiera. E' una sorta di sequestro emotivo. Il corpo sequestrato in casa, la mente sequestrata da un tempo sospeso e infinito che non passa più. Ma passerà, sta passando. Questa mattina ho fatto una nuova medicazione, non so perché a un certo punto ho GUARDATO GIU’. Ho visto la cicatrice, l’ho messa a fuoco per un secondo poi d’istinto ho distolto lo sguardo. La mia mente l’ha registrata sfocata, solo la lunghezza mi è rimasta in modo nitido. Attraversa il mio seno da una parte all’altra, non mi è sembrata centrata o simmetrcia, immagino che quando mi inseriranno la protesi prenderà il posto giusto. Intanto si è posizionata in modo confuso e sgranato nella mia mente. Come l’immagine di una polaroid uscita dalla macchina fotografica. Sgranata, indefinita. Leggermente fuori fuoco. Imparerò a volerle bene. Fino a qui tutto bene.

5 film per vivere la malattia con coraggio. Da "Arrivederci professore" a "L'amore che resta", ecco alcuni lungometraggi che ci insegnano ad affrontare i dossi della vita. Simona Santoni il 13 agosto 2019 su Panorama. "Non siamo malati, siamo guerrieri". Questa è una delle frasi, inno di battaglia, di Nadia Toffa, conduttrice televisiva morta a 40 anni a causa di un cancro al cervello, energica combattente che ha sempre amato la vita. Un altro suo mantra: "Quando mi chiedono 'Come stai?' io rispondo sempre "Benissimo". Non sono guarita, però non posso stare benissimo?". Sulle ali di questo spirito ardito, che sa prendere la vita per come viene, segnaliamo 5 film validi, che insegnano ad affrontare la malattia con coraggio. 

1) Arrivederci professore (2019) di Wayne Roberts. Da poco uscito al cinema, Arrivederci professore ha per protagonista un Johnny Depp finalmente in grande spolvero. È lui il professore del titolo. Scopre di avere un cancro in stato avanzato ma sceglie di non curarsi e, nel frattempo, trova proprio nell'idea della mortalità la scossa per vivere con più coraggio, irriverenza e un pizzico di follia. Ai suoi studenti l'insegnamento più importante: "Non arrendetevi alla mediocrità", "vivete una vita ricca di esperienze", "ricordatevi che la vita è un canto d'uccello", ogni momento cercate di "renderlo interessante". 

2) La teoria del tutto (2014) di James Marsh. La teoria del tutto è un film biografico con Eddie Redmayne nei panni del giovane Stephen Hawking: ed è detto tutto. Il celebre astrofico è stato un modello di tenacia e vitalità, nonostante tutto. Pur vincolato all'immobilità a causa di una malattia degenerativa del motoneurone, costretto a comunicare tramite un computer e una voce non sua, ci ha lasciato decenni di studi e una grande eredità scientifica. Un esempio che spinge ad andare oltre i propri limiti. 

3) L'amore che resta (2011) di Gus Van Sant. Una piccola perla, struggente, malinconica e infinitamente poetica. Il nichilismo non può nulla contro la vita: è vinto dall'amore, mentre la mortalità diventa una consapevolezza romantica.  Henry Hopper è Enoch, un ragazzo orfano che, per esorcizzare il trauma dei genitori morti in un incidente d'auto, assiste ai funerali di perfetti sconosciuti. Qui conosce Annabel, interpretata da Mia Wasikowska, coetanea malata di tumore al cervello a cui restano tre mesi di vita. Saranno tre mesi vissuti insieme in una danza attorno alla morte, pieni di vita e di amore intenso. Enoch sopravvive ad Annabel, con il ricordo bellissimo di lei. 

4) Le invasioni barbariche (2003) di Denys Arcand. Oscar al miglior film straniero, ha per protagonista Rémy (Remy Girard), cinquantenne canadese professore di storia che, dopo una vita vissuta appieno, si scopre malato terminale di cancro. Ha accanto l'ex moglie (Dorothee Berryman) e il figlio (Stephane Rousseau) con cui non aveva più rapporti ma che, per l'occasione, ritorna al capezzale paterno. Mentre la relazione padre-figlio rinasce, il giovane organizza attorno al genitore morente una vivace rimpatriata di amici, amanti, ex alunni. Alla fine Rémy sceglie di accelerare la dipartita con un'overdose di eroina. Ma in questa eutanasia fai-da-te ha accanto un confortante nugolo di persone più o meno care. 

5) Nemiche amiche (1998) di Chris Columbus. Commedia divertente e commovente, unisce due regine di Hollywood, Susan Sarandon e Julia Roberts. I loro personaggi si contendono l'amore di due bambini, la prima come madre naturale super efficiente, la seconda come nuova compagna del padre (Ed Harris), più giovane e fotografa affermata. Tra le due sono liti furibonde e schermaglie, finché la più attempata non scopre di avere un tumore. Dalla malattia, emerge una bella amicizia. 

Nadia Toffa, la madre rivela: "Le sue ultime analisi erano perfette". In una nuova intervista la madre di Nadia Toffa, la signora Margherita, rivela alcuni dettagli del "rapporto simbiotico" avuto con la figlia negli ultimi giorni di vita della compianta conduttrice de Le iene. Serena Granato, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Sono passati diversi mesi dal giorno in cui ha chiuso gli occhi per sempre, ma i fan e i suoi cari continuano a ricordarla per il calore che riusciva a trasmettere agli altri, soprattutto attraverso il suo lavoro. La compianta ex iena, Nadia Toffa, moriva lo scorso 13 agosto 2019 e la madre è riuscita a realizzare una delle ultime volontà espresse dalla nota giornalista e conduttrice storica de Le iene, ovvero la pubblicazione del libro dal titolo Non fate i bravi, che al suo interno raccoglie le ultime memorie dell'amata Nadia. In un'intervista concessa al rotocalco di gossip, Grazia, la madre della compianta ex iena, la signora Margherita, ha rivelato il contenuto di alcune conversazioni avute con la figlia negli ultimi giorni di vita di Nadia. Delle chiacchierate toccanti, da cui trapela quanto Nadia Toffa avrebbe voluto vivere e sopravvivere alla sua malattia, nonostante da tempo fosse affetta dal cancro che l'aveva colpita nel 2017 e che lei aveva scoperto per via di alcuni accertamenti seguiti ad un malore accusato durante le riprese di un suo servizio atteso a Trieste. “Tutte le mattine ci svegliavamo e facevamo colazione insieme", ha fatto sapere la signora Margherita, nonché mamma di Nadia. “Lei amava i datteri, le mandorle e lo yogurt agli agrumi -ha poi confidato l'intervistata sul conto della daily-routine dell'amata figlia, con la quale, negli ultimi giorni di vita di Nadia, ha maturato un "rapporto simbiotico" all'insegna della massima trasparenza e della complicità-. Sedute sul divano mi leggeva le frasi che aveva scritto, magari durante la notte. Mi chiedeva cosa ne pensassi. Erano tutti capitoli bellissimi, anche quelli più difficili”.

Le ultime parole di Nadia Toffa. Incalzata dalle domande di Grazia, la signora Margherita non ha nascosto che, prima di morire all'età di 40 anni, Nadia usava spesso e volentieri parlarle di come sarebbe potuta essere la vita dopo la sua morte e non si risparmiava sul giorno in cui lei si sarebbe inevitabilmente spenta per sempre:“Sì, parlavamo sempre della sua morte, di come sarebbe stato dopo". "‘Mamma - prosegue poi Margherita, riportando le ultime parole proferite dalla figlia sulla sua imminente dipartita-, ho l’impressione di avere a che fare con qualcosa di molto più grande di me’, diceva”. Lo stile di vita condotto da Nadia Toffa era tendenzialmente sano e l'ex iena, fino agli ultimi giorni di vita, si è concessa solo due "vizietti", così come è stato riportato dalla stessa madre:“Un bicchiere di vino rosso a tavola e qualche sigaretta. Nonostante tutti i medicinali che era costretta ad assumere, le ultime analisi di Nadia erano perfette”. Margherita, senza scendere nei dettagli, nella sua intervista riserva poi delle parole anche a chi ha fatto del male a sua figlia: “Delusione evitabile per lei? Purtroppo sì. Quella causata da chi le era vicino e non ha rispettato la sua volontà. Ma voglio che oggi si parli di lei pensando positivo e guardando al futuro". Le ultime parole che le due donne, mamma e figlia, si sono scambiate tra loro sono davvero struggenti.“L’ultima notte-conclude Margherita-, ho preso la forza e le ho detto: ‘Vola amore mio’ e lei l’ha fatto”. Proprio in data odierna, 7 novembre, esce in tutte le librerie il libro delle ultime memorie di Nadia Toffa, dal titolo Non fate i bravi, un'opera tanto voluta dall'ormai ex iena come sua eredità. Una volontà che, oggi, l'indimenticabile regina delle iene è riuscita a realizzare indirettamente, attraverso l'amore della madre.

Nadia Toffa, la mamma su Facebook: «Esce un libro con i suoi pensieri, ci teneva a condividerli con voi». Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Silvia Morosi. La madre della conduttrice de «Le Iene» annuncia la pubblicazione del volume postumo I proventi saranno devoluti in beneficenza. «Non fate i bravi»: è questo il titolo del libro postumo con alcuni dei pensieri di Nadia Toffa. Ad annunciarne l’uscita, prevista per il 7 novembre con Chiarelettere, è stata Margherita, la madre della conduttrice de «Le Iene», con un post pubblicato attraverso i canali social dell’ex conduttrice. Sarebbe stata lei stessa a chiedere alla madre di pubblicare l’opera e di devolvere in beneficenza i proventi delle vendite. «Per me è importante poter condividere con voi questa iniziativa a cui Nadia teneva tanto. I proventi delle vendite saranno devoluti in beneficenza. Dopo avere scoperto di essersi ammalata, Nadia decise di scrivere il suo primo libro, Fiorire d’inverno. In quelle pagine raccontava la scoperta della malattia e il modo ottimistico in cui aveva deciso di affrontare quanto le era capitato in sorte», si legge nel messaggio su Facebook. Dopo Fiorire d'inverno (Mondadori), nel quale Toffa — scomparsa il 13 agosto scorso — aveva raccontato la battaglia contro il cancro, Non fate i bravi contiene alcuni degli ultimi pensieri della conduttrice che aveva saputo trasformare il cancro «in un dono, un'occasione, un'opportunità», come lei stessa aveva raccontato. E ancora, «Non è il quanto vivi, ma come vivi» erano state le su parole, in un video di circa 20 minuti mostrato in diretta tv da «Le Iene» martedì 1 ottobre, in occasione dell'inizio della nuova stagione con Alessia Marcuzzi e Nicola Savino. «Vorrei incontrare amici, vecchi, nuovi, persone care, parenti, colleghi che hanno lasciato un segno in questo mio ultimo anno tremendo, persone che contano davvero. Vorrei che tu mi aiutassi a filmare questi incontri», aveva detto Toffa a Giorgio Romiti, storico produttore del programme a amico.

Pino Corrias per “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Nadia Toffa era una donna che sembrava una ragazza. Era una ragazza che sembrava una roccia. Ma una roccia sottile, bionda, con gli occhi scuri, il sorriso chiaro. E il sorriso era la sua luce: "Ho energia da far impallidire la Via Lattea". Se il fine vita è una clessidra che si svuota, Nadia l' ha riempito di parole. Le parole ora formano un libro, si chiama Non fate i bravi (edizioni Chiarelettere) esce a metà settimana. È la sua ultima collana di pensieri. E dentro i pensieri ci sono parole come: "respira"; "senti i profumi"; "incrocia le braccia e dondolati"; "consolati"; "ridi"; "colleziona sogni"; "colleziona nuvole". E poi: "Arrabbiati". "Fai paura alla paura. Accecala. Affrontala". Lo ha scritto nell' anno del silenzio, l' ultimo. Lo ha scritto per salutare e salutarsi, gentilezza finale concessa dalla malattia che le ha portato via prima i capelli, e poi la vita. Ma lasciandole il tempo di tramandare qualcosa che non fosse solo lacrime o il vuoto d' ombra nella memoria di chi resta. Scrive: "Il vero viaggio è quello dell' anima, il resto è di passaggio, ha una data di scadenza". E dunque: "Stammi vicino e non avere paura". Vivendo in pubblico, ha scelto di morire in pubblico. I coglionauti le sono saltati addosso. Lei li ha scansati. Li ha canzonati. Perché rimanere in superficie, senza nascondersi, non era una gratuita esibizione, ma il suo modo migliore di mettersi al riparo dalla solitudine: "Mi butto per non buttare la vita". Con la forza di non lasciarsi spaventare da una parola nera e possente come la parola "cancro". Ma anzi di mostrarla, di farla rotolare davanti a sé, anche se le era arrivata addosso, sorprendendola alle spalle, come fa il destino. L'ha accettato senza rassegnarsi mai, in piedi, con le braccia conserte: "Una piccola parte della vita sono eventi che accadono, tutto il resto è come reagisci". Lei ha reagito senza mai chiudere gli occhi, da quando due anni fa, in una camera d' albergo di Trieste, si è sentita male per la prima volta, precipitando in un istante nella sentenza pronunciata dal medico. E dopo quell'istante, nel mondo nuovo, capace di cancellare per sempre quello vecchio. Ha reagito alla chemio che sembrava averla guarita. Con la parrucca è tornata in tv a dire che il suo inverno stava fiorendo. Non aveva perso la speranza. Ha sorriso. Ha provato a ricominciare il suo lavoro di prima, a caccia di storie, che era il suo modo di rimettersi in cammino. A prendersi gli abbracci, a godersi gli applausi. Poi ha reagito alla ricaduta, alle nuove cure, al dolore che diventa insopportabile, al calendario sempre più corto. Così corto da diventare prezioso, come i pensieri che ci tengono svegli, che annotiamo anche di notte. Scrive: "Il dolore ci rende più profondi, più forti. Non deve sopraffarci, dobbiamo girargli intorno per avere un controcampo". E poi: "Voglio un bene inesauribile alla vita", che è "leggera come la pietra pomice, sembra pesante, ma galleggia". Nadia Toffa la vita l' ha navigata al timone che ha fabbricato in proprio, "non arrendetevi mai prima del traguardo". Veniva da Brescia, famiglia di media borghesia, madre amica, infanzia allegra, la scuola ben fatta, il liceo, poi l' università sino alla laurea in Legge. Sveglia, curiosa, voleva fare la giornalista fin da ragazzina, non l' avvocato in tailleur, ma l' inviata di strada. Esordio nelle tv locali. Il salto grande nel 2009, dentro la squadra d' assalto delle Iene. A maneggiare, in giacca nera e camicia bianca, angoli di mondi contundenti, inchieste su camorra e droga, passando per le trincee della guerra, l'inferno dei profughi, gli abissi senza rimedio dei massacri veri. "Bisogna adottare i deboli per vivere, volere giustizia in un mondo sbagliato. C'è chi recita, chi scende in campo, chi sta sugli spalti applaude e giudica". Scrive: "Ho viaggiato a 3000 chilometri all' ora. Sono stata di notte nelle strade di Caracas. E in Iraq a poche centinaia di metri dalle bandiere nere dell' Isis". Ha visto e ha raccontato. Anche quando la schermo si è capovolto su di lei. L' hanno insultata, derisa, offesa, ma senza mai sfiorare la sua soglia: "Scimmie che saltellano qua e là. Alzano la voce. Ignoranza dilagante. Fogna a cielo aperto. Che olezzo assordante". E poi: "Ci vendicheremo diventando amici dei nostri nemici". In questo diario intimo, ha scritto una sola volta la parola malattia. Non aveva più tempo di recriminare sul passato, che è passato per sempre, sulle medicine che non funzionano, sugli amici che non si fanno mai vedere piangere. Sul corpo che si svuota. Non aveva più voglia di compatirsi, ma solo di guardare avanti. E ringraziare la madre, gli amici, la vita: "Abbiamo la vastità del mare negli occhi. E insieme, pur essendo solo due granelli di sabbia, abbiamo la potenza di creare una perla". Una perla è stato il suo funerale in pubblico, officiato senza retorica, dai suoi cento compagni di lavoro che la chiamavano guerriera. E una perla è questo suo ultimo rendiconto del viaggio, con lunga coda di lacrime e un piccolissimo insegnamento a rafforzare il disarmato coraggio di chi resta. Ci lascia, lasciandoci andare. Scrive: "Mi nasconderò in un pezzo di vetro, minuscola particella di un desiderio sprecato, mai espresso. Rimarrà sospeso nel pianeta dei pensieri. Mi troverete là".

La mamma di Nadia Toffa ricorda in lacrime la figlia. "Mi diceva: 'Meno male che muoio prima di te'". Nella nuova puntata di Domenica Live, la madre di Nadia Toffa ha condiviso con il pubblico alcuni pensieri maturati dalla compianta giornalista de Le iene prima della sua dipartita. Serena Granato, Lunedì 11/11/2019, su Il Giornale. Nel pomeriggio di domenica 10 novembre, è stata trasmessa la nuova puntata di Domenica live, il talk show condotto da Barbara d'Urso che ha visto presentarsi, tra gli ospiti in studio, la madre di Nadia Toffa. La signora Margherita ha voluto concedere un'intervista alla d'Urso in cui ha riportato gli ultimi pensieri maturati dalla figlia e soprattutto ha voluto testimoniare come abbia influito la malattia nella vita di Nadia Toffa, cambiandola paradossalmente in positivo. In molti, specialmente sui social, usavano criticare Nadia contestandole che volesse spettacolarizzare il suo tumore cerebrale rivelato al pubblico al mero scopo di ottenere visibilità. Ma la Toffa, in realtà, ha voluto fino alla fine combattere contro il male semplicemente con la sua forza di volontà, che ancora oggi tanto la contraddistingue. Poco prima di morire Nadia aveva pubblicato il libro Fiorire d'inverno, che raccoglie al suo interno la speranza nutrita da Nadia nel corso della sua battaglia cominciata nel 2017, ovvero quella di poter sconfiggere la sua malattia. Una speranza sfumata nel suo caso, ma non cancellata del tutto, grazie all'amore della madre dell'indiscussa regina delle iene che con la sua forza aveva fatto partire una sua inchiesta per gli abitanti nella Terra dei fuochi, nei pressi di Giugliano, tra Napoli e Caserta, dove la giornalista mostrò come il cibo coltivato in quelle terre fosse contaminato per via dello sversamento di rifiuti tossici, con il risultato drammatico dell'innalzamento del tasso di mortalità. "Tutte le notti scriveva e mi diceva “domani te le leggo mamma” e ha scritto fino a maggio. Scriveva tanto, dipingeva, andava a cantare... Era bello vivere con lei. Sempre piena di energie", ha dichiarato in studio la signora Margherita Rebuffoni. La storica iena -poco prima di chiudere gli occhi per sempre- ha lasciato in eredità alla madre degli stralci, che ora sono contenuti nel libro postumo Non fate i bravi, il cui ricavato andrà devoluto per la ricerca contro il cancro alla fondazione Nadia Toffa:"Il bullismo è dei deboli: verranno presto travolti dalle cascate e dalle inondazioni del coraggio di chi è semplicemente se stesso. L'indifferenza è la migliore arma... I figli senza genitori sono orfani e i genitori che perdono i figli sono genitori mutilati. ...Ti scongiuro non mi chiamare: in questa candida bellezza vorrei ancora danzare". Quest'ultime sono solo alcune delle struggenti memorie contenute nell'opera appena pubblicata di Nadia Toffa e che Barbara d'Urso ha reso pubbliche a Domenica Live. E all'ascolto delle profonde parole della figlia scomparsa, la signora Margherita non è riuscita a trattenere le lacrime in studio.

Gli ultimi pensieri di Nadia Toffa. Nell'intervista concessa a Domenica Live, mamma Margherita ha voluto ricordare alcune conversazioni avute con la figlia poco prima che l'indimenticabile conduttrice de Le iene si spegnesse. "Mamma ricordati sempre che non conta quanto vivi, ma quanto intensamente vivi e ricordati di me. Non vedi come corro? Faccio tante cose, Non mi sono mai sentita vecchia. Non conta quanto vivrò, conta come avrò vissuto", diceva alla madre Nadia, quando era ancora in vita. Tanti sono i ricordi che Margherita custodirà gelosamente nel cuore della sua "nanetta" Toffa, soprattutto i suoi ultimi pensieri prima della dipartita. “ “Meno male che io muoio prima di te o non sarei sopravvissuta alla tua perdita mamma - ricorda con la voce rotta dalla commozione, Margherita-, o ce ne andiamo insieme o voglio morire prima di te”. Mi disse di non lasciarla mai, gliel’ho promesso”.

Nadia Toffa, nasce a Brescia la fondazione per ricordarla: "Nel suo nome aiuti a ospedali e Terra dei fuochi". I genitori della conduttrice morta per un tumore a 40 anni l'hanno presentata con il sindaco: "Nadia nella sua vita si è sempre battuta per far sentire la voce di chi non viene ascoltato, per portare alla luce questioni lasciate ai margini e per dare un aiuto concreto". La Repubblica il 03 dicembre 2019. E' nata la Fondazione in memoria di Nadia Toffa, ed è stata presentata oggi a Palazzo Loggia, a Brescia, la città della conduttrice e giornalista morta ad agosto per un tumore al cervello. "Nadia nella sua vita si è sempre battuta per far sentire la voce di chi non viene ascoltato, per portare alla luce questioni lasciate ai margini e per dare un aiuto concreto. Con questi stessi valori diamo vita alla fondazione" ha detto Margherita Rebuffoni, la madre di Nadia Toffa, presente con il marito e le altre due figlie accanto al sindaco di Brescia Emilio Del Bono. La fondazione in particolare si concentrerà su tre ambiti: la salute e l'ambiente e il sociale. Tre ad oggi i principali destinatari individuati: per primo l'Istituto neurologico Carlo Besta di Milano, dove Nadia è stata in cura, poi il reparto di oncoematologia pediatrica dell'ospedale Annunziata di Taranto e alcune associazioni che operano nel territorio della Terra dei fuochi. "Nadia era molto legata a Taranto e ha contribuito con il suo impegno a mettere in luce le storie dei tanti bambini ammalati a causa dell’inquinamento del polo siderurgico. Con le attività della Fondazione vogliamo continuare a contribuire a questo reparto, che per Nadia era una missione" ha spiegato Mara Toffa, sorella di Nadia. "Sono tante le iniziative che verranno messe in campo per raggiungere queste finalità - ha detto Silvia Toffa -. La raccolta fondi è già iniziata attraverso i proventi del libro 'Non fate i bravi'. Sono state poi create delle magliette con un disegno che Nadia ha fatto e che celebra la vita e, grazie alla disponibilità della gente che è intorno a noi e che crede in questo progetto, verranno organizzati eventi benefici". Per il prossimo 15 giugno è stato già organizzato un evento benefico che si terrà al museo Santa Giulia di Brescia e tutti i fondi saranno devoluti per la ricerca contro il cancro. "Mai mi sarei aspettata così tanto sostegno dopo la morte di Nadia" ha detto la mamma di Nadia Toffa.

Nadia Toffa, il racconto della mamma: "Si era innamorata di un uomo dolcissimo e rispettoso". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Nadia Toffa è venuta a mancare lo scorso 13 agosto, a 40 anni, dopo aver lottato per 21 mesi contro un tumore. Questo sarà il primo Natale senza l'inviata e conduttrice de Le Iene: la madre Margherita si è raccontata in una lunga chiacchierata concessa al Corriere della Sera. "Queste interviste mi fanno bene, mi distraggono. Mi sembra di averla accanto". Nadia e sua madre sono state inseparabili durante i mesi della malattia, condividendo l’appartamento milanese della giornalista, che si divideva tra le terapie e il lavoro a Le Iene. "È sempre stata un peperino - racconta la signora Margherita - mi faceva preoccupare con le sue inchieste. Quando è andata in Iraq non ho dormito finché non è rientrata in Italia". La madre ha poi svelato di aver raccontato alla figlia la classica bugia a fin di bene all'inizio dell'estate: "Le ho detto che ero debilitata e che avevo bisogno di essere ricoverata alla Domus Salutis. Le ho chiesto di venire con me, visto che avevamo promesso di non lasciarci. Non sapeva che era una struttura per malati terminali, è venuta a mancare lì". La signora Margherita ha inoltre raccontato che, negli ultimi tempi, Nadia aveva allontanato le persone a lei più vicine perché "non voleva farsi vedere ammalata. Si era innamorata di un uomo dolcissimo, ma aveva allontanato anche lui con la scusa che l'accompagnava a fare la chemio e la radio: non era vero. Lui aveva capito e aveva rispettato la sua decisione".

Nadia Toffa, la madre scagiona l'ex: "Lo aveva allontanato con una scusa". In una nuova intervista, Margherita Rebuffoni ha svelato alcuni retroscena inediti della vita di Nadia Toffa. Serena Granato, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. Si avvicinano le vacanze natalizie e, per i cari e familiari di Nadia Toffa, quello in arrivo sarà il primo Natale senza l'indimenticabile inviata e conduttrice de Le iene. Nadia Toffa (nata a Brescia e classe 1979, ndr), si spegneva all'età di 40 anni, lo scorso 13 agosto, dopo una lunga battaglia combattuta contro il cancro cerebrale che l'aveva colpita in passato. E, a diversi mesi di distanza dalla morte del compianto volto televisivo, la madre Margherita Rebuffoni (71 anni, ndr), ha concesso un'intervista a Il corriere della sera, in cui ha rivelato alcuni inediti retroscena della vita di Nadia. “Queste interviste mi fanno bene, mi distraggono”, ha esordito la signora Rebuffoni nell'ultimo intervento, per poi palesare, non troppo velatamente, di sentire la mancanza della figlia: "Mi sembra di averla accanto". Mamma e figlia erano riuscite ad instaurare tra loro un rapporto simbiotico, tanto da raccontarsi a vicenda tutto. Ma alla luce dello stadio terminale della malattia di Nadia, la madre raccontò alla figlia una bugia a fin di bene:“Le ho raccontato una bugia: le ho detto che ero debilitata, che avevo bisogno di essere ricoverata alla Domus Salutis per delle cure. E le ho chiesto di venire con me, visto che avevamo promesso di non lasciarci. Non sapeva che è una struttura per malati terminali". A causa del suo glioblastoma, negli ultimi giorni di vita Nadia tendeva ad allontanarsi dalle persone a lei più care, così come ha rivelato la madre, scagionando del tutto l'ex della Toffa accusato di non dare all'ex iena alcune attenzioni:“Nadia non lo ammetteva, ma alla fine era molto debole. Non voleva più incontrare gli amici, per non farsi vedere ammalata. Si era innamorata di un uomo dolcissimo, ma poi aveva allontanato anche lui con la scusa che non l’accompagnava a fare la chemio e la radio: non era vero. Lui aveva capito e aveva rispettato la sua decisione".

Il ricordo di Nadia Toffa, nell'avvento del Natale. Nonostante il drammatico epilogo, che ha avuto la battaglia affrontata da Nadia contro il suo male, mamma Margherita non ha perso la voglia di amare la vita in tutte le sue sfaccettature e la gioia di vivere. “Quest’anno festeggeremo qui, in famiglia, come abbiamo sempre fatto- ha, infatti, confidato la signora Rebuffoni, ricordando la figlia in vista del Natale 2019-. Lei ci sarà, c’è. La sento, ho fede. Abbiamo parlato tanto del dopo, credeva nella reincarnazione. Diceva: ‘Mamma, meno male che ti ho incontrata. A te posso aprire l’anima’”. Nel suo ultimo intervento, la Rebuffoni ha, inoltre, ammesso di essere stata in apprensione per via di alcune inchieste condotte con tenacia dall'ex Iena:“Quanto mi faceva preoccupare con le sue inchieste… Quando è andata in Iraq, non ho dormito fino al suo rientro in Italia”. Dai momenti difficili vissuti in famiglia, per via del brutto male che ha colpito Nadia, Margherita sente di aver imparato tanto: “Ho imparato di più in quell’anno e mezzo con lei, che in tutta la mia esistenza".

Il primo Natale della madre di Nadia Toffa: «La sento accanto a me. Ora porto avanti le sue battaglie». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Andrea Federica De Cesco. Margherita Rebuffoni:  «Abbiamo parlato tanto del dopo, credeva nella reincarnazione. Diceva: "Mamma, meno male che ti ho incontrata". Gli occhi azzurri di Margherita Rebuffoni sono velati di dolore. È una sofferenza gentile, che non offusca la dolcezza e il coraggio della donna. Ci accoglie insieme al marito Maurizio Toffa a Brescia, nella casa dove hanno cresciuto le loro tre figlie: Mara, Silvia e la piccola di famiglia, Nadia. Margherita, a cui la terzogenita somigliava moltissimo, è una bella signora di 71 anni. Sprizza la forza regale tipica di chi ne ha passate tante ma non ha mai smesso di essere benevolente con il prossimo. Con lei c'è anche Totò, la bassotta nana che Nadia aveva adottato l'anno scorso a Roma. «L'ha chiamata come il cane del fratello di un suo ex fidanzato», spiega la settantunenne. «Era morto dopo essere stato investito da un'auto, lei non l'aveva mai dimenticato». Insieme a Totò, Nadia si era presentata al Quirinale dal presidente della Repubblica. «Mattarella l'aveva incoraggiata ad andare avanti nonostante i "coglionauti" (la giornalista chiamava così le persone che la insultavano sul web, ndr). La capiva, ha perso la moglie a causa di un tumore».Totò fiuta, scodinzola, salta, mentre Margherita parla senza fermarsi quasi mai. «Queste interviste mi fanno bene, mi distraggono», commenta col sorriso. «Mi sembra di averla accanto». Siamo in salotto, un ambiente caldo ed elegante con credenze in legno, piatti di ceramica appesi alle pareti e fotografie incorniciate. Nonostante il periodo, non ci sono decorazioni natalizie. Il prossimo sarà il primo Natale senza Nadia. L'inviata e conduttrice de Le Iene è scomparsa il 13 agosto, a 40 anni, dopo avere lottato per 21 mesi contro un glioblastoma. Il 24 dicembre del 2018 aveva pubblicato sul proprio profilo Instagram una foto dal letto dell'ospedale, dove si trovava per fare la chemioterapia. Nadia non era una fan del Natale. Riteneva che fosse ormai troppo commerciale, mentre per lei era una festività soprattutto spirituale. «Però era bello ritrovarsi, adorava stare con i nipoti. Quest'anno festeggeremo qui, in famiglia, come abbiamo sempre fatto», racconta Margherita. «Lei ci sarà, c'è. La sento, ho fede. Abbiamo parlato tanto del dopo, credeva nella reincarnazione. Diceva: "Mamma, meno male che ti ho incontrata. A te posso aprire l'anima"». I mesi della malattia di Nadia madre e figlia li hanno trascorsi in simbiosi. Il primo anno e mezzo hanno convissuto a Milano nell'appartamento della giornalista, che si divideva tra le terapie contro il tumore, al San Raffaele e al Besta, e il lavoro a Le Iene. «È sempre stata un peperino, un terremoto piacevolissimo. Quanto mi faceva preoccupare con le sue inchieste... Quando è andata in Iraq non ho dormito fino al suo rientro in Italia», ricorda Margherita. «Ho imparato di più in quell'anno e mezzo con lei che in tutta la mia esistenza. Avrei fatto qualunque cosa per accontentarla e lei mi ha permesso di accudirla. Le medicine però andavano controllate ogni giorno, era complicato... All'inizio dell'estate le ho raccontato una bugia: le ho detto che ero debilitata, che avevo bisogno di essere ricoverata alla Domus Salutis per delle cure. E le ho chiesto di venire con me, visto che avevamo promesso di non lasciarci. Non sapeva che è una struttura per malati terminali. È venuta a mancare lì, il giorno prima mi sono accorta che era cambiata. Ho cercato di affrontare la sua malattia con rispetto. "Quando vuoi, vola tesoro mio", le sussurravo».Era ancora una ragazzina Margherita quando capì qual era il proprio desiderio più grande: avere tre figlie. A 21 anni conobbe Maurizio, futuro dirigente di un'azienda farmaceutica, e lasciò la Val Camonica per trasferirsi a Brescia con lui. Dieci anni dopo il suo sogno dell'adolescenza si era realizzato. «Ho lavorato come maestra alle elementari e poi alle Poste. Ma dopo 19 anni di lavoro sono andata in pensione per occuparmi delle mie bambine», spiega. «Mio marito mi ha spesso rimproverato di essere stata più mamma che moglie. Sono la prima di tre sorelle e mia madre con me era assente. Forse tutto nasce da lì...». Anche la madre di Margherita, scomparsa cinque giorni dopo Nadia, ha perso la terza figlia a causa di un tumore. La morte della sorella Marilena a 21 anni segnò profondamente Margherita. «Se ne vanno sempre i più buoni, per questo dicevo a Nadia di fare la cattiva... Lei i cattivi non li perdonava. Si è consumata per la difesa dei bambini, anche se non voleva farne per via del suo lavoro. Ripeteva che non si immaginava vecchia...». Margherita riflette, con gli occhi umidi di lacrime. «Non so se siamo all'inferno o al purgatorio, ma di sicuro questo non è il paradiso. La vita è dura, per tutti... Quando sono andata in pensione per qualche tempo ho frequentato Psicologia a Padova, e ora la psicanalisi mi sta aiutando, ma il lutto va affrontato da soli».Mutilati: è così che Nadia definisce i genitori che perdono i figli in uno dei testi raccolti nel libro Non fate i bravi. La testimonianza che ci ha lasciato, pubblicato postumo da Chiarelettere. «Lei non lo ammetteva, ma alla fine era molto debole. Non voleva più incontrare gli amici, per non farsi vedere ammalata. Si era innamorata di un uomo dolcissimo, ma poi aveva allontanato anche lui con la scusa che non l'accompagnava a fare la chemio e la radio: non era vero. Lui aveva capito e aveva rispettato la sua decisione». Negli ultimi tempi Nadia per lo più dipingeva, cantava e scriveva, specialmente di notte. «La sorprendevo mentre digitava sullo smartphone al buio. In totale ha scritto oltre 450 testi. Mi aveva chiesto di farli avere a Lorenzo Fazio (direttore editoriale di Chiarelettere, ndr)». I diritti d'autore del libro della giornalista - che è insieme una raccolta di riflessioni, un diario dei suoi ultimi giorni e «un dialogo intimo con il suo cuore» - sono destinati alla Fondazione Nadia Toffa, creata per migliorare la salute e la vita delle persone più deboli e indifese. «Parte dei soldi che raccoglieremo andranno al Besta per la ricerca sui tumori rari e alla Santissima Annunziata di Taranto, dove il 20 dicembre il reparto di oncoematologia pediatrica sarà intitolato a Nadia. Si è battuta molto per la salute delle persone, e soprattutto dei bambini, che vivono lì», spiega Margherita. «Stiamo portando avanti le sue battaglie. Forse adesso che è venuta a mancare ha più potere di quando era in vita... Prima ero una donna quieta, introspettiva: l'energia che ho ora è la sua. Mi ha insegnato l'autostima. Mi diceva: "Mamma, ricordati che esisti. E quando non ci sarò più la tua vita deve andare avanti, perché la vita è sacra. Non sprecarne nemmeno un minuto. Io ti starò accanto"».

Brunella Giovara per “la Repubblica” 19 dicembre 2019. Nadia «l'ho nascosta in un posto segreto», ed è difficile pensare che la bella ragazza bionda e famosa sia adesso invisibile, niente tomba, nessuna targa, ma così ha deciso la madre Margherita Rebuffoni, per proteggerla, «erano i giorni di Halloween e abbiamo saputo che qualcuno la cercava nei cimiteri bresciani». Perciò verrà ricordata con un' altra targa, questa mattina a Taranto, il nuovo reparto di Oncoematologia pediatrica del Santissima Annunziata porterà il nome di Nadia Toffa. Margherita e il marito Maurizio e la figlia Mara con marito e nipotini sono partiti, un altro impegno per onorarne il ricordo «e anche per raccogliere altri soldi, che finiranno alla Fondazione, per la ricerca, al Sud e al Besta di Milano, dove Nadia era in cura». Nel salotto di casa, un grande mazzo di rose bianche, il trumeaux con il servizio di piatti con il filo d' oro, molte foto di famiglia, Nadia è dappertutto, sulla libreria, sul caminetto, sul tavolino, «ma era così anche prima perché la vedevamo poco, più in televisione che qui, e questa è la casa dove è nata e cresciuta».

Poi in un attimo arriva Natale.

«E Nadia sarà con noi, so che può sembrare assurdo, ma io non la sento ancora morta. La sento vivissima, vicina. Ci sarà. L' unica differenza è che non faremo il pranzo qui sotto, nella tavernetta, ma in un ristorante, ci hanno riservato una saletta. Ero io che preparavo per tutti, ma sono stanca. Andremo fuori, portandocela dietro, nel cuore».

Lei è stanca anche perché ha passato 18 mesi con sua figlia. Le cure, gli alti e bassi della malattia.

«Mi sono trasferita a casa sua a Milano e siamo vissute insieme, dormivamo nel lettone, non l' ho lasciata mai sola, il tempo di fare la spesa e risalire. E la notte, vedevo la luce del suo telefono, lei faticava a dormire e quindi scriveva, con due dita, velocissima, ha scritto 450 testi così. Dopo, ne abbiamo fatto il libro "Non fate i bravi". Era impegnativa, era un turbine, ogni giorno aveva un' idea, ha progettato il giardino d' inverno e poi siamo andate a cercare chi lo realizzasse, voleva dipingere e dovevamo trovare chi preparava le tele, ha trovato su internet il cane che voleva e siamo andate a Roma, poi siamo tornate a Milano con la cagnolina Totò, che adesso vive con noi».

Poi c' erano i bassi, la depressione.

«Questa no. Il tumore che aveva non porta dolore, piuttosto si abbatteva quando aveva male a causa delle posture sbagliate, poi è stata seguita da un fisioterapista bravo. Era iperattiva per dimenticare quello che aveva, però è sempre stata un peperino. Ma era una donna giudiziosa».

Nadia è una figlia che non muore mai, è un personaggio pubblico più di prima, più da morta che da viva. E voi, non potete permettervi di abbandonarvi al lutto, soffrire in silenzio, lontani da tutto, in pace.

«Noi soffriamo in silenzio e lontani da tutto. Io piango, con mio marito. Mi è successo di commuovermi in pubblico, in televisione. Credo sia normale. Uno mi ha scritto su Facebook che "si piange a casa". L' ho perdonato. Ho fatto tre anni di Psicologia all' università, ho lasciato perché avevo tre figlie da seguire. Capisco certi comportamenti, a volte sono esibizionisti che esistono per il post che scrivono. Ci sono quelli che scrivono "finalmente sei crepata". Quando lei era viva, le dicevo di non leggere i post, ma lei li leggeva. Oggi ce ne sono di meno, forse si sono vergognati. Ma ci sono. Comunque, io vado in televisione perché ho una missione da compiere, e me l' ha affidata Nadia. Devo raccontare, devo spiegare, la Fondazione che porta il suo nome esige il mio impegno, perciò Nadia è immortale. Per il reparto di Taranto sono stati raccolti 550mila euro, a 10 euro a maglietta, quelle con la scritta "Ie jesche pacce pe tte" (io esco pazzo per te). Non è poco. Gliene daremo ancora, i soldi vanno alla ricerca».

Come li trovate, i soldi?

«Ci sono degli sposi che rinunciano alle bomboniere e ce li mandano. Cene del Rotary, altri eventi. Perciò io vado in giro. Qualcuno mi critica? Pazienza. Io ho cambiato vita. Mi vede? Sono truccata e ben pettinata. L' ho imparato in ospedale. Mi hanno detto: "Lei si trucchi e vada dal parrucchiere. Nadia si specchia in lei, deve vedere una mamma in forma". Così ho fatto. Mi scappa la lacrima? Mi piace vedere Nadia così ingrandita e felice, nei filmati che mandano. È bello. Mi viene da piangere ma sono felice».

Ma sua figlia lo era? Negli ultimi video, le ultime foto.

«Era coraggiosa. Al mattino mi domandava "hai dormito bene?". Diceva: "Anche dopo, io ti voglio vedere sorridere". Nadia era credente, credeva nella resurrezione. Nei momenti di defaillances diceva "mi faccio scendere Gesù nel cuore, e anche la zia Marilena, che è il mio angelo custode", che era mia sorella, morta giovane purtroppo. Perciò, io non devo darle peso con la mia sofferenza. A volte ci riesco, a volte no. Lei è volata in un cielo blu, ed è felice. Mi diceva che non dovevo sentirmi mutilata, sapeva che i genitori che perdono un figlio si sentono così».

È una grande forza, è una grande fatica.

«Sì, sono presidente della Fondazione, fatta con mio marito, le figlie e alcuni amici stretti. Porto questo peso, mi tocca apparire, ma è giusto così. Penso sempre questa cosa, ed è un vecchio detto: non cade foglia che Dio non voglia. Ma va di pari passo con il libero arbitrio. Con Gesù abbiamo scelto la nostra esperienza. Questo posso dire, a chi mi critica, e li ho perdonati, eh».

·         Ascesa e caduta di Jeffrey Epstein.

Il caso Epstein: biografia non autorizzata di un predatore. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 da Corriere.it. Il gruppo di protesta «Hot Mess» manifesta davanti alla Corte suprema dello Stato di New York , lo scorso 9 luglio, mostrando cartelli con il volto di Jeffrey Epstein, arrestato 3 giorni prima (foto Stephanie Keith/Getty Images)Il 10 agosto 2019 Jeffrey Epstein viene trovato morto in carcere a Manhattan con un lenzuolo al collo. Le telecamere «non funzionavano». I due guardiani «si erano addormentati». Era in cella da solo, nonostante un precedente tentativo di suicidio. Si è ucciso — come assicurano le autorità — oppure è stato eliminato per evitare che rivelasse i suoi segreti? Ha pagato qualcuno per sfuggire alla Giustizia con una scelta “radicale”? Viviana Mazza e Marilisa Palumbo ricostruiscono per 7 la vicenda paradossale di un uomo pericoloso lasciato libero di delinquere. Sul magazine in edicola venerdì 13 settembre trovate anche due interventi degli scrittori Claudia Durastanti («Epstein progettava una stirpe di figli bionici») e Emanuele Trevi («Il suo modello era De Sade»), che potete leggere anche in Pdf su 7 nella Digital Edition del Corriere.

Il consulente finanziario aveva molti amici potenti, dal principe Andrea ai presidenti Bill Clinton e Donald Trump. Chi sapeva che Epstein pagava ragazze minorenni per soddisfarlo sessualmente? E chi era coinvolto? Virginia Roberts Giuffre afferma di essere stata reclutata a 16 anni per un lavoro di massaggiatrice e poi trasformata in «schiava sessuale» che Epstein prestava agli amici, come lo stesso Andrea, il proprietario di Victoria’s Secret Leslie Wexner, l’avvocato Alan Dershowitz e il pioniere dell’intelligenza artificiale Marvin Minsky (tutti hanno negato). Lo scandalo in realtà era già scoppiato nel 2005 dopo la denuncia della madre di una quattordicenne di Palm Beach che era andata dalla polizia. Nel giro di un anno le accusatrici erano salite a 36. Nel 2008 il finanziere patteggiò: si dichiarò colpevole di adescamento minorile e scontò appena 13 mesi di “carcere”; usciva 16 ore al giorno, grazie a un accordo ottenuto dal suo team di avvocati superstar. Oltre dieci anni dopo, il 6 luglio 2019, viene di nuovo arrestato con l’accusa di traffico sessuale di minorenni. È l’effetto dell’inchiesta di Julie K. Brown del Miami Herald, che ha identificato 60 vittime passate dalle sue residenze a Manhattan, Palm Beach, sull’isola privata di Little St. James e nel ranch in New Mexico. Pochi mesi prima di morire, Jeffrey Epstein propose al Premio Pulitzer James B. Stewart di scrivere la sua biografia. Lo invitò nella sua magione nell’Upper East Side di Manhattan e gli mostrò le foto che lo ritraevano con un numero incredibile di personaggi ricchi, famosi, potenti. Aggiunse di conoscere segreti sulle loro perversioni che avrebbero fatto sembrare un nonnulla le sue. Era quello che faceva sempre: vendersi come un «uomo del mistero», uno che collezionava persone proprio come le opere d’arte, le ville, gli aerei. Stewart rifiutò: non aveva alcuna voglia di legarsi a un criminale sessuale. Epstein aveva un «tono malinconico», notò il giornalista. I suoi amici più potenti avevano preso il largo. Persino il principe Andrea, che dopo il primo scandalo aveva continuato a fargli visita a Manhattan, da due anni evitava di recarsi negli Stati Uniti.

Il finanziere era troppo sicuro di sé per immaginare che sarebbe stato arrestato, altrimenti il 6 luglio scorso non sarebbe tornato con il suo jet privato da Parigi. L’arroganza era nutrita dall’abitudine: per anni aveva seppellito sotto montagne di soldi le cause per abusi sessuali. Al New York Post nel 2011 disse: «Non sono un predatore, ho commesso una trasgressione. È la differenza che c’è tra un omicida e uno che ha rubato ciambelle». Le ragazze che aveva pagato per “massaggi erotici” erano minorenni, sì, ma il sesso alla loro età un tempo era “perfettamente accettato”. L’inchiesta del Miami Herald, pubblicata nel novembre del 2018, stava però riportando alla luce, oltre alle testimonianze delle vittime, anche quelle di molti ex dipendenti, che avevano visto Epstein per quello che era. Chiedeva alle ragazzine di spogliarsi («ma puoi tenere le mutandine»). Le guardava e toccava fino all’orgasmo, a volte le stuprava. Dopo averle pagate, il maggiordomo ripuliva il bagno dai sex toys: «Certo, dovevano essere proprio giovani, mangiavano latte e cereali, come le mie figlie». Un poliziotto di Miami notò che «se non portano l’apparecchio per i denti, non gli interessano». Epstein faceva parte dell’élite dell’East Coast, ma le sue radici erano piccolo-borghesi, come racconta l’unica vera biografia (non autorizzata), intitolata Filthy Rich e scritta dal giallista James Patterson. Il padre Seymour e la madre Paula erano figli di immigrati ebrei sfuggiti all’Olocausto. Jeffrey, nato nel 1953, e il fratello minore Mark erano cresciuti in un modesto appartamento nella comunità residenziale privata di Sea Gate, a Coney Island. «Era cicciottello, con i capelli ricci e una risata acuta», lo ricorda Beverly Donatelli, una compagna di due anni più grande per la quale Jeffrey aveva una cotta. Eppy, come lo chiamavano allora gli amici, era un prodigio in matematica, suonava il piano e collezionava francobolli: «Ci dava ripetizioni, mi spiegò tutta la geometria in due mesi». Si baciarono sul lungomare, ma lei era italiana e lui ebreo: un amore impossibile. Era un outsider, con un forte accento di Brooklyn, quando, a 21 anni, pur senza laurea, fu assunto come insegnante di matematica alla Dalton, scuola superiore dell’élite dell’Upper East Side. È qui, tra ragazzi poco più giovani di lui ma eredi di immense fortune, che cominciò a emergere il comportamento predatorio. Fissava le ragazze nei corridoi e prendeva un po’ troppo a cuore i problemi che qualcuna gli confidava. «Alla Dalton ho capito che faticare non ti dà il successo né la felicità - dirà più tardi -. Quel che conta sono i contatti che hai». Quando il contratto non gli fu rinnovato, aveva già una chiave per salire un gradino più su e, come spesso nella sua vita, era una donna. Il flirt con Lynne Greenberg, figlia del leggendario broker Alan “Ace”, gli valse l’ingresso a Wall Street. Alan — che amava i “PSD”, i ragazzi “poveri, svegli e determinati” — lo portò con sé alla Bear Stearns. Qualche anno più tardi fu cacciato per aver mentito su alcune spese e fondò la sua società di consulenza, «J. Epstein & Co». Ancora una volta furono le donne a introdurlo in mondi inaccessibili, prima fra tutte Ghislaine Maxwell, amica del principe Andrea e dei Clinton, figlia del magnate dell’editoria britannica Robert Maxwell, misteriosamente morto cadendo dallo yacht Lady Ghislaine.

Epstein usava le donne, ma collezionava gli uomini. Con questi era brillante, carismatico e generoso. Negli anni aveva donato milioni a Harvard e al Mit. «Ho solo due interessi — avrebbe detto a un amico —: la scienza e la fica». Nel 2006 attrezzò un sottomarino perché Stephen Hawking potesse entrarci con la sedia a rotelle. «È come un’ape, parla con tutte queste persone e le “impollina”», raccontava lo psicologo Stephen Kosslyn. È il rapporto con un uomo in particolare, Leslie Wexner, proprietario di Victoria’s Secret, a restare avvolto dal più grande mistero: il miliardario diede a Epstein carta bianca per amministrare la sua fortuna. Quindici anni più anziano, era un modello, un mentore che Jeffrey imitò in tutto, tranne che nel matrimonio. Alla vigilia delle nozze Epstein gli portò il contratto prematrimoniale da firmare, posizionando il documento sulla pancia di una modella: «Sei sicuro di volerlo fare?». Wexner lo fece e cedette a Epstein il palazzo di Manhattan (valore: 56 milioni di dollari). Anche il Boeing 757 con il quale si muoveva tra New York e le Isole Vergini, soprannominato Lolita Express, era di Wexner. Nel 1996, per il 59° compleanno di Leslie, Jeffrey organizzò una cena con le persone più interessanti che aveva conosciuto: il premier israeliano Shimon Peres, il capo di Sotheby’s Alfred Taubman, l’astronauta e senatore John Glenn, Alan Dershowitz. Di nuovo, tutti uomini. Epstein spiegò: «A Leslie piace così, e anche a me». È proprio al 1996 che risale la prima denuncia per abusi sessuali. Maria Farmer era un’artista 25enne che dipingeva nudi di adolescenti. Jeffrey e Ghislaine comprarono un suo dipinto: un uomo seminudo che spia una giovane sdraiata sul divano, ispirato a un quadro di Degas intitolato Interno e soprannominato «Lo stupro». Poi Jeffrey assunse Maria come consulente artistica. «Aveva un pessimo gusto», ricorda lei (lo confermano la collezione di finti bulbi oculari, la tigre imbalsamata, il quadro di Bill Clinton vestito da donna). Maria presentò alla coppia la sorellina sedicenne, Annie, poi scoprì che Ghislaine le aveva massaggiato i seni mentre Jeffrey le spiava. La stessa Maria disse di essere stata aggredita sessualmente dai due.

Ghislaine era la «manager della vita di Esptein»: reclutava le ragazzine, le istruiva su come compiacerlo e a volte partecipava alle sue perversioni. «Non contano niente, sono solo spazzatura», ma poi si metteva a digiuno per essere magra come loro: «Faccio la dieta di Auschwitz», diceva con il gusto della provocazione la figlia di un ebreo e di una studiosa dell’Olocausto. Secondo un’amica, Ghislaine, orfana dell’adorato genitore, «amava Jeffrey come suo padre. Pensava che, se avesse fatto solo un’altra cosa per lui, l’avrebbe sposata». Nella cassaforte della casa di Manhattan, la polizia ha rinvenuto decine di foto di minorenni nude. Arrivavano dal giro di Victoria’s Secret e dall’agente di modelle francese Jean-Luc Brunel, ma anche da scuole superiori o accademie di danza. «Puntava le ragazze con difficoltà economiche», ha raccontato Courtney Wild, che a 14 anni fu pagata per i “massaggi” e per assoldare coetanee: in due anni gliene portò 80. «Era difficile dire di no a 200 dollari in contanti. E poi se lo avessimo denunciato nessuno ci avrebbe ascoltate».

Oltre a Ghislaine, quattro collaboratrici di Epstein sarebbero state sue complici: Sarah Kellen, Lesley Groff, Adriana Ross e Nadia Marcinkova, quest’ultima a lui venduta minorenne dai genitori in Europa dell’Est. «Le mie assistenti — diceva il finanziere — sono un’estensione del mio cervello, il loro intuito è qualcosa che io non ho». Quando patteggiò in Florida, si assicurò che l’accordo le proteggesse. Nel 2002 Epstein accompagnò Clinton in Africa col suo 757. L’ex presidente lo elogiò come “filantropo impegnato” e “profondo conoscitore della scienza”. Questo attirò l’attenzione dei media che il finanziere aveva sin lì accuratamente evitato. Un profilo del New York Magazine lo dipinse come un novello Gatsby. L’anno dopo Vanity Fair ne pubblicò un altro, «The Talented Mr. Epstein»: la giornalista, Vicky Ward, sembrava intrigata e divertita dalle stranezze del milionario — «l’unico libro che mi fece trovare in bella vista era Justine o le disavventure della virtù, del marchese de Sade» — ma la scrittura del pezzo divenne un incubo. Facendo pressioni sul leggendario direttore Graydon Carter, Epstein si assicurò che le interviste alle sorelle Farmer non apparissero. E Ghislaine chiamò Maria minacciandola di morte.

In pubblico raramente Epstein appariva con minorenni, ma le sue accompagnatrici erano sempre «molto giovani», come disse Donald Trump nel 2002, definendolo «un ragazzo divertente da frequentare». In breve i rapporti con le “fidanzate” diventavano grotteschi e finivano: «Mi disse che credeva nel poliamore, come i re e le regine di un tempo». A differenza delle minorenni, queste donne non avevano paura di lui. E oggi sono proprio loro a mettere a fuoco la sua psicologia. «Tranquillo ma privo di una vera vita interiore». «Passava le giornate al telefono, dai finanzieri ai capi di Stato, e gli piaceva che lo ascoltassimo». Non beveva, non fumava, non faceva uso di droghe: tanto yoga e cibi sani. Odiava i ristoranti: «È come mangiare in metropolitana». Dormiva alla temperatura di 12 gradi, a suo dire la più consona al riposo: «Faceva un freddo del cazzo, rischiavo di morire di ipotermia». Alle fidanzate diceva: «Io controllo tutto e tutti. Le persone appartengono a me e le posso danneggiare». Quando Vicky Ward entrò nella sua reggia per intervistarlo, Epstein le propose una partita a scacchi: «A te la prima mossa». «Credeva di poter vincere a prescindere dal vantaggio dell’altra parte», racconterà lei. Ci ha provato fino alla fine. Rinchiuso nella cella umida, stretta e infestata dagli scarafaggi del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, per un mese il detenuto numero 76318-054 ha tentato ogni strada per uscire su cauzione: il primo agosto ha aggiunto un nuovo avvocato al suo già nutrito team. Ma nell’ultima settimana, secondo il suo ex legale Dershowitz, «deve aver capito che non avrebbe più avuto un giorno di libertà e non poteva tollerarlo. Ha fatto un’analisi costi-benefici». L’uomo che amava farsi dieci docce al giorno smise di lavarsi, dormiva per terra. L’8 agosto fece testamento, vincolando il suo patrimonio da 500 milioni in un fondo fiduciario che renderà più ardue le cause civili. Poi, l’ultimo azzardo: togliersi la vita per dare scacco matto. «Il fatto che non avrò mai la possibilità di vedere il mio predatore sul banco degli imputati — ha detto Jennifer Araoz, una delle vittime — mi divora l’anima. Anche morto mi fa del male».

ASCESA E CADUTA DI JEFFREY EPSTEIN. Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2019. Anche l' astuto, lo scaltro finanziere Jeffrey Epstein è stato bidonato almeno una volta. Nel novembre 2004 aveva messo gli occhi su una villa con piscina, invenduta da due anni, a Palm Beach in Florida. Offrì 36 milioni di dollari per acquistarla, ma prima di chiudere la trattativa decise di chiedere un consiglio a un amico e lo portò a vedere la tenuta. Qualche giorno dopo venne a sapere che qualcuno aveva messo sul piatto 41 milioni di dollari, prendendoli a prestito dalla Deutsche Bank. Epstein scoprì chi era stato a comprare e poi a rivendere per 125 milioni a DmitriJ Rybolovlev, un oligarca russo molto vicino a Vladimir Putin. Chi? Facile: «l' amico» che aveva interpellato, l'immobiliarista e costruttore, Donald Trump. «Erano compagni di merende da anni», scrive Michael Wolff nel libro «L' Assedio» (Rizzoli, 2019), da cui è ricavato questo quadretto. Un raccontino decisamente utile per mettere a fuoco l'ascesa e la caduta di un personaggio familiare con i populisti di oggi e con i liberal di ieri. Da Trump all' ex presidente Bill Clinton. Ora sono tutti in fuga da Epstein, 66 anni, incriminato per traffico di minori e abusi sessuali. Ma è difficile immaginare che nella New York degli anni Novanta e Duemila, nell' intreccio tra affari e politica, tra opportunismi e interessi, Jeffrey passasse inosservato. Viene dalla periferia, è cresciuto a Coney Island: suo padre faceva il giardiniere, sua madre la bidella nella scuola di quartiere. Ha studiato matematica, ma ha mollato prima di laurearsi. Fino a 30 anni, niente da segnalare: fa l' insegnante e poi trova un impiego alla Bear Stearns, una banca di investimento di Manhattan. La svolta è tanto imprevista, quanto spettacolare: una conoscente comune lo presenta a Leslie Wexner, uno degli imprenditori più ricchi del Paese. Wexner è l' azionista di maggioranza del gruppo L Brands a cui fanno capo aziende come Victoria Secret' s e Bath & Body Works. Business redditizi, soldi da pompare con gli idranti. Ancora adesso, mentre scrivono note piene di sdegno, i manager di L Brands si domandano che cosa ci trovasse uno come Wexner in uno come Epstein. Sta di fatto che Jeffrey, come scrive il New York Times, cominciò a frequentare assiduamente il quartier generale del gruppo e poi la reggia privata dell' industriale a Columbus, nell' Ohio. Il suo talento indiscusso era allargare la sua sfera di influenza, senza dare troppo nell' occhio. In breve tempo Wexner gli affidò praticamente la gestione delle sue sterminate fortune. E l'advisor finanziere ne tratteneva per sé una parte cospicua. Per esempio la «town house» di 2 mila metri quadrati, valutati 56 milioni di dollari, a un isolato da Central Park. Oppure il jet privato della L Brands che ribattezzò «Lolita Express». Epstein restò la voce più ascoltata di Wexner, oggi 81 anni, fino al 2008, quando i pettegolezzi diventarono accuse formalizzate dalla procura della Florida. Era un predatore: adescava ragazzine minorenni offrendo 100-200 dollari per «un massaggio» che poi diventava un assalto sessuale. Ma fino a quel momento il tycoon dell' Ohio aveva tollerato tutto il resto. A cominciare dagli agguati tesi dal suo «amico leale» alle modelle che si proponevano per sfilare con i completini sexy di Victoria' s Secret. La rete di Jeffrey era ormai una potenza autonoma. Aveva costituito la C.O.U.Q. Foundation che usava per fare beneficenza, ma prendendo bene la mira. Nel 2006, per esempio, rivela il Daily Beast , aveva versato 25 mila dollari alla Clinton Foundation. E l' ex presidente lo aveva lodato pubblicamente: «È un grande benefattore», per poi salire 26 volte sul «Lolita Express».

Morto suicida in cella Jeffrey Epstein, miliardario accusato di abusi sessuali su minori. Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 da Guido Olimpio e Viviana Mazza, da New York, su Corriere.it. Jeffrey Epstein si è tolto la vita in cella. Ne dà notizia L’Abc. Il ricco finanziere americano, accusato di abusi sessuali su minori, aveva già tentato di togliersi la vita meno di un mese fa. Il miliardario, un tempo amico del presidente Donald Trump e dell’ex presidente Bill Clinton, oltre che del principe Andrea, era accusato di traffico e sfruttamento sessuale di ragazze minorenni tra il 2002 e il 2005 nelle sue case di Manhattan e Florida. Il caso Epstein era emerso all’inizio di luglio, quando nella cassaforte del suo attico di Manhattan erano stati scoperti dvd di foto di ragazze minorenni giovanissime. Al punto che la Procura di New York lo aveva messo in carcere, con una serie di accuse che possono portare a una condanna fino a 45 anni di cella. Dal 2002 al 2005, oltre a divertirsi con Donald Trump e a scorrazzare Bill Clinton sul suo aereo, Epstein, nato a Brooklyn 66 anni fa, adescava ragazzine a centinaia, tutte minorenni. Le portava nella sua casa di New York, a un isolato da Central Park oppure nella residenza invernale di Palm Beach, in Florida. All’inizio si faceva massaggiare, «poi le molestava e le abusava sessualmente». Alla fine della prestazioni buttava lì cento-duecento dollari e convinceva le sue vittime a reclutare altre adolescenti, per ripartire con un nuovo giro di soprusi. Nel 2008 l’uomo d’affari fu incriminato per violenza sessuale in Florida, ma se la cavò con un patteggiamento a 15 mesi, trascorsi, con grande agio in un penitenziario. L’accordo per evitare il processo fu gestito dall’allora procuratore Alexander Acosta, costretto — dopo la rivelazione dell’intesa con Epstein — a lasciare il posto di ministro del Lavoro nell’amministrazione Trump. Lunedì 7 luglio Epstein si era dichiarato «non colpevole», sostenendo di aver «intrattenuto relazioni consenzienti» con persone che pensava fossero maggiorenni. Questo articolo è in aggiornamento

L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO. Viviana Mazza per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2019. Alla fine, si è suicidato. Alle 6.30 di ieri mattina Jeffrey Epstein è stato trovato impiccato nella sua cella a Manhattan. Non sono riusciti a rianimarlo, è stato trasportato in ospedale: deceduto. L' Fbi e il ministero della Giustizia annunciano che indagheranno. La domanda sulla bocca di tutti è: perché - come emerso da indiscrezioni - il finanziere sotto accusa per traffico sessuale di minorenni non era più sotto sorveglianza speciale? A luglio era già stato trovato con segni sul collo in quella stessa cella. Eloquente la reazione delle vittime: rabbia per un suicidio che considerano «l' ultimo atto di egoismo». Ancora una volta Epstein ha evitato le sue responsabilità davanti alla Giustizia. Il finanziere, che fu amico del principe Andrea e dei presidenti Bill Clinton e Donald Trump, aveva continuato a dichiararsi non colpevole, parlando di «relazioni consenzienti» e affermando di non sapere che alcune delle donne con cui si intratteneva fossero minorenni. Ma quello di Epstein non è solo un caso di sesso con ragazzine: è un caso di traffico sessuale, che coinvolge figure di altissimo rilievo in America e nel mondo. Passato sotto silenzio per vent'anni, perché con la ricchezza, i celebri avvocati e i contatti, Epstein ha aggirato il sistema giudiziario. A luglio il ministro del Lavoro di Donald Trump, Alexander Acosta, si è dimesso perché nel 2008, da procuratore in Florida, approvò un patteggiamento che permise a Epstein di dichiararsi colpevole di incitamento alla prostituzione di minori, scontando 13 mesi ma evitando pene federali peggiori. E negli anni successivi il finanziere fu un generoso filantropo, donando a Harvard e al MIT per rifarsi la reputazione. Ma un' inchiesta del Miami Herald ha fatto riaprire il caso dai procuratori federali, ottenendo anche la pubblicazione delle carte depositate dagli investigatori. Testimonianze, rapporti di polizia, foto, ricevute: duemila pagine pesanti relative agli anni 2002-2005, rese pubbliche proprio la notte prima del suicidio. Dai documenti emerge che decine di ragazzine di 14-15 anni, reclutate nei resort ma anche a scuola, passarono dalle sue ville a Manhattan e in Florida. «Ero una schiava sessuale», dice Virginia Giuffre, 16 anni nel 2000: faceva la massaggiatrice a Mar-a-Lago, il resort di Trump, quando la compagna di Epstein, l' ereditiera inglese Gislaine Maxwell, le offrì lavoro. Le insegnò a fare massaggi erotici. Lui esigeva tre orgasmi al giorno e li regalava agli amici: c' erano tavoli da massaggi in ogni stanza, il maggiordomo ripuliva il bagno dai sex toys e le pagava con centoni e «regalini» come iPod e gioielli. Giuffre dice che le fu chiesto di avere rapporti con il principe Andrea, l' ex governatore del New Mexico Bill Richardson, l' ex senatore George Mitchell, il finanziere Glenn Dubin, mentre di Trump afferma di «non averlo visto far sesso con le ragazze». Ora tutti negano. Soprattutto Buckingham Palace: «Illazioni completamente false». Nega anche l' uomo al quale Epstein deve la sua fortuna, il proprietario di Victoria' s Secret Leslie Wexner che per 16 anni gli fece amministrare i suoi soldi finché si accorse che rubava. Ora le cause civili consentiranno alle vittime di ottenere risarcimenti. Ma l' uomo che avrebbe potuto rivelare i nomi di tutti coloro che erano coinvolti è morto. E c' è chi teme che la fine di Epstein possa essere la fine dell' inchiesta.

Viviana Mazza per Corriere.it l'11 agosto 2019.

Le domande. Alle 6:30 di sabato mattina Jeffrey Epstein è stato trovato impiccato nella sua cella a Manhattan. Non sono riusciti a rianimarlo, è stato trasportato in ospedale: deceduto. Le autorità parlano di «apparente suicidio». L’Fbi ha annunciato l’apertura di indagini, così pure il ministero della Giustizia: il ministro William Barr è tra i primi a dire che «la morte di Epstein solleva serie domande alle quali bisogna rispondere». Anche il sindaco democratico di New York e candidato alla nomination per la Casa Bianca, Bill de Blasio, ha osservato che la morte di Epstein è «troppo conveniente».

La sorveglianza. La prima domanda sulla bocca di tutti è: perché il finanziere sotto accusa per traffico sessuale di minorenni non era più sotto sorveglianza speciale? A luglio era già stato trovato disteso con segni sul collo in cella. Poi è stato messo sotto sorveglianza in quanto potenziale suicida, ma solo per sei giorni. Il 29 luglio non lo era più. Chi ha preso quella decisione e perché? La seconda domanda è come si è impiccato esattamente: che cosa ha usato per farlo? Terzo: esiste un video del suicidio? L’ex procuratore di New York Preet Bharara sostiene di sì. «Ci dovrebbe essere, e quasi certamente c’è, un video del suicidio di Epstein all’MCC (nel carcere Metropolitan Correctional Center ndr). Si spera che sia completo e al sicuro».

Le accuse. A un certo punto Epstein ha avuto un compagno di cella: Nicholas Tartaglione, ex poliziotto accusato di omicidio, anche se non lo erano al momento della morte. Qualcuno vicino a Epstein si è detto sorpreso del suicidio perché - ha detto al Washington Post -: il finanziere stava bene negli ultimi giorni, però aveva riferito che «le guardie avevano cercato di ucciderlo». Una dichiarazione pesantissima che resta però avvolta da dubbi sulla fonte. Anche se verrà confermato il suicidio, comunque, ci sono altri fattori che indicano che le autorità carcerarie non avrebbero fatto abbastanza per proteggerlo da se stesso. Secondo Reuters, le guardie non hanno rispettato il protocollo che prevede che si controllino tutti i prigionieri ogni 30 minuti (per quelli sotto sorveglianza speciale ogni 15 minuti). Ma quella notte la procedura non è stata seguita.

Le teorie del complotto. E poi ci sono le teorie del complotto: «Lo hanno ucciso i Clinton», è tra le più diffuse. Lo stesso presidente Donald Trump sabato sera vi ha dato risalto e peso “ritwittando” il video di un uomo che argomentava che chiunque parli contro Bill e Hillary viene «trovato morto» e diffondendo un altro messaggio falso secondo il quale ci sarebbero esplicite e concrete prove contro l’ex presidente.

La versione del New York Times. Jeffrey Epstein è stato lasciato da solo in cella senza che nessuno lo vigilasse nelle ore prime del suicidio. Lo riporta il New York Times citando una fonte anonima dell’amministrazione carceraria. Il detenuto avrebbe dovuto essere controllato dagli agenti penitenziari almeno una volta ogni 30 minuti, ma la procedura non sarebbe stata seguita la notte prima del suicidio. A rendere ancor più fitto l’alone del mistero, poi, è l’improvviso trasferimento alcuni giorni prima del compagno di cella di Epstein.

Guido olimpo per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2019. The box, un piccolo inferno sulla terra, un buco dove affonda ogni speranza. Questo è MCC, il Metropolitan Correctional Center di New York, la prigione dove era rinchiuso Epstein. Di qui sono passati molti criminali, tra gli ultimi un paio di terroristi e il padrino messicano Joaquín Guzmán El Chapo. Sono stati proprio i suoi legali a denunciare quello che molti sapevano: le condizioni sono al limite della tortura. In particolare nella sezione speciale, detta SAM. Niente luce naturale, celle minuscole infestate da insetti d' ogni tipo, isolamento di 23 ore per chi è a sottoposto a controlli particolari, difficoltà di comunicare con gli altri, anche se poi gli «ospiti» trovano il modo. Lo scorso inverno ci sono stati problemi con il riscaldamento, i «bracci» sono rimasti al gelo. Gli avvocati del boss avevano sostenuto che il loro cliente stava perdendo la vista e rischiava di diventare pazzo. Finito il processo, condannato, lo hanno trasferito in un' altra «tomba», a Supermax, in Colorado. Ora, proprio le regole dell' MCC aumentano gli interrogativi sulla fine del produttore. Tenuto d' occhio dalle guardie, la sorveglianza totale è stata però sospesa poche ore prima del suicidio. Sorprendente. In quanto c' era stato un primo tentativo di togliersi la vita. Storia ambigua. Infatti non si era escluso un trucco della vittima per finire in infermeria o persino un' aggressione da parte di un altro detenuto, un ex poliziotto responsabile di 4 omicidi. Particolari da chiarire tra sospetti - fondati o meno - sulla morte di uno che sapeva molto. Anche se ci sarà sempre qualcuno che contesterà la versione ufficiale. Dall' altra parte è già capitato che criminali dal gran nome abbiano fatto una brutta fine dietro le sbarre. L' ultimo episodio ha riguardato il killer della mala, James Whitey Bulger. Sapevano che sulla sua testa c' era un «contratto», sapevano che era considerato un infame per aver collaborato con l' Fbi eppure lo hanno portato in una prigione senza adeguata protezione. Un cambio avvenuto dopo molte firme d' autorizzazione. Una mattina d' autunno, all' ora della colazione, lo hanno trovato massacrato a morte, a colpi di lucchetto, dentro la cella.

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2019. Il cappio intorno al collo di Jeffrey Epstein ha ucciso il detenuto più famoso d' America, e tutti i suoi segreti. Ha strangolato insieme con lui, il procedimento penale per traffico di minorenni che rischiava di coinvolgere un numero ancora imprecisato ma sicuramente molto considerevole di nomi famosissimi (gli ultimi in ordine di tempo: l' ex governatore Bill Richardson, l' ex senatore e negoziatore per Irlanda del Nord e Medio Oriente George Mitchell). Nel momento in cui Jeffrey Epstein è stato dichiarato morto dai medici del Downtown Hospital di William street, ieri mattina, il procedimento penale contro di lui è automaticamente terminato. L' unica possibilità di giustizia per le accusatrici resta adesso quella, molto tortuosa, delle cause civili per danni intentate al suo patrimonio. Le donne che lo accusano di averle trasformate in schiave sessuali quando, spesso, erano ancora minorenni - Virginia Roberts Giuffre, Jennifer Araoz, Johanna Sjoberg, la lista è lunga e molti nomi sono ancora coperti da anonimato - potranno rivolgersi ai tribunali civili soltanto se, nello Stato in cui sarebbero stati commessi i crimini di cui accusano Epstein, non sia ancora intervenuta la prescrizione. Araoz, ieri, è stata la prima a diffondere un comunicato: «Sono arrabbiata: Jeffrey Epstein non dovrà affrontare in tribunale chi è sopravvissuto ai suoi abusi. Dovremo convivere con le conseguenze delle sue azioni per il resto delle nostre vite, mentre lui non dovrà affrontare le conseguenze dei crimini che ha commesso, il dolore e il trauma che ha causato così tante persone. Epstein non c' è più, ma la giustizia deve andare avanti. Spero che le autorità perseguiranno i suoi complici, e assicureranno un risarcimento alle vittime». Non che la condanna penale del 2008 - patteggiò 18 mesi, con modalità di detenzione e rilascio così blande che oggi paiono figlie di un favoritismo scandaloso - sia stata l' unico problema legale di Epstein, fino all' arresto del mese scorso per le nuove accuse di traffico di minorenni. Nel 2008 gli fecero causa un numero imprecisato di ragazze (Jane Does v. Epstein, 2008), e Epstein trovò un accordo extragiudiziale con le accusatrici. Stessa dinamica 7 anni dopo, quando toccò a Roberts Giuffre (Virginia Roberts Giuffre v. Epstein, 2015) fargli causa, e ancora una volta il finanziere rimediò con un accordo. Virginia Roberts Giuffre nello stesso anno fece causa - per diffamazione: l' aveva chiamata bugiarda - anche a Ghislaine Maxwell, per oltre un ventennio potentissima assistente di Epstein. Due anni dopo anche Maxwell scelse la strada dell' accordo, pagò l' accusatrice e la causa finì lì. Il caso politicamente più delicato era «Jane Doe v. Epstein and Trump, 2016», causa depositata in tribunale federale da una donna che sostiene di essere stata ripetutamente aggredita da Epstein e da Donald Trump nel 1994, quando aveva 13 anni. L' accusatrice, rimasta anonima, aveva ritirato la causa pochi giorni prima delle presidenziali del 2016. L' anno successivo «Sarah Ransome v. Epstein and Maxwell, 2017» era stata ancora una volta una causa per danni intentata da una delle ex «assistenti» di Epstein, anche qui un accordo extragiudiziale. Nell' ultimo anno, l' ultimo accordo extragiudiziali, «Bradley Edwards v. Epstein, 2018» e una causa rimasta aperta al momento della sua morte, «Maria Farmer v. Epstein and Maxwell,2019», con nuove accuse di stupro e richiesta di danni. Resta il patrimonio: quasi mezzo miliardo di euro, con una lista di proprietà immobiliari di enorme valore (la casa di Manhattan, nell' Upper East Side, vale da sola 55,9 milioni di dollari), Little St. James, 63,87 milioni. In più, 56 milioni in contanti, 300 milioni in titoli, e altre rendite. Che ora potrebbero essere attaccate dalle accusatrici e dai loro avvocati.

Stati Uniti, il Nyt: "Epstein era stato lasciato solo e senza sorveglianza".  Il finanziere avrebbe dovuto essere controllato dalle guardie ogni trenta minuti, ma la notte del suicidio la procedura non sarebbe stata seguita. Il suo compagno di cella inoltre era stato trasferito. Epstein era in attesa del processo per decine di abusi sessuali nei confronti di ragazze minorenni e per cui rischiava una condanna a 45 anni. La Repubblica l'11 agosto 2019. Jeffrey Epstein, il finanziere che si è impiccato nella cella del carcere federale di Manhattan dove era detenuto, avrebbe dovuto essere controllato dalle guardie ogni trenta minuti, ma la notte del suicidio la procedura non sarebbe stata seguita. A rivelarlo è il quotidiano The New York Times che aggiunge un altro particolare: il compagno di cella era stato trasferito, lasciando Epstein da solo appena due settimane dopo il primo tentativo di suicidio. Sul suicidio del finanziere americano aono state aperte tre indagini: una dell'Fbi, un'altra da parte del ministro della Giustizia, visto che il Metropolitan Correctional Center dipende dall'Ufficio federale delle prigioni, e una da parte della città di New York. Epstein, 66 anni, trovato impiccato alle 6.30 di sabato mattina, era in attesa del processo per decine di abusi sessuali nei confronti di ragazze minorenni e per cui rischiava una condanna che poteva arrivare anche a 45 anni di carcere. Le rivelazioni del New York Times rischiano di alimentare le teorie complottiste che fin da ieri hanno preso a girare sui social e che coinvolgono il dibattito politico. Dalle indagini parallele di Fbi, ministero della Giustizia e la città di New York sono attese risposte ad una serie di domande: perché la notte tra venerdì e sabato Epstein non era sorvegliato? Perché il suo compagno di cella era stato trasferito, lasciando il finanziere, che il 23 luglio si era tagliato le vene, da solo? Sui social molti sostenitori di Trump hanno puntato il dito su Bill e Hillary Clinton, amici di Epstein, ventilando l'ipotesi che potessero essere stati i mandanti del "misterioso suicidio" per coprire eventuali rivelazioni che li avrebbero messi in cattiva luce. Tra gli amici del finanziere c'era anche lo stesso Trump che, però, ieri aveva rilanciato il tweet di un suo sostenitore che legava la morte di Epstein all'amicizia con i Clinton. Il finanziere, che era rinchiuso nel carcere federale di Manhattan, era in attesa del processo per decine di casi di abusi sessuali su minorenni. Tra i suoi amici c'erano politici famosi, top manager, scienziati, accademici, dal presidente Trump a Bill Clinton, dal principe Andrea al proprietario di Victoriàs Secret, Leslie Wexner. La morte di Epstein, il cui corpo è stato rinvenuto alle 6.30 di sabato mattina, è avvenuta il giorno dopo la divulgazione di nuovi documenti, contenuti in una denuncia presentata alla corte federale di New York da una donna, Virginia Giuffre, che ha raccontato di essere stata per anni vittima di abusi sessuali, ridotta a "schiava del sesso". Nelle oltre duemila pagine si farebbero i nomi di personaggi molto potenti. La coincidenza è stata fatta notare dalla reporter del Miami Herald, Julie K. Brown, che con la sua inchiesta ha fatto riaprire il caso di abusi sessuali che riguardava il finanziere. "I documenti che sono stati presentati - aveva spiegato sabato alla Cnn - erano pesanti. Era come se i muri gli stessero crollando addosso. Sapeva che non sarebbe tornato libero molto presto e questo, per uno come lui abituato a un certo tipo di vita, doveva essere insopportabile". Dall'Australia, dove vive, Giuffre ha commentato la morte del finanziere, esprimendo un misto di sentimenti: "Provo sollievo perché so che non potrà più fare del male a nessuno, ma allo stesso tempo rabbia perché dopo aver combattuto tanto, non potrò vederlo rispondere della sua condotta".

Epstein: lasciato in cella senza controlli per ore. Uno degli agenti era un sostituto. Lo rivela il Nyt. Ora gli inquirenti si concentrano su Ghislaine Maxwell: l'ereditiera britannica avrebbe fatto perdere le tracce: è accusata dalle vittime di reclutare le ragazze minorenni. La Repubblica il 13 agosto 2019. Jeffrey Epstein è stato lasciato solo per ore senza che nessuno lo controllasse. E uno dei due agenti preposti a farlo non era una guardia carceraria a tempo pieno, era un sostituto. Lo rivela il New York Times, citando alcuni funzionari delle forze dell'ordine. Le rilevazioni fanno seguito alle dichiarazioni del ministro della Giustizia, William Barr, che ha parlato di serie irregolarità nel carcere. La morte in cella di Jeffrey Epstein ha spostato l'attenzione degli inquirenti su quelli che oggi lo stesso ministro della Giustizia William Barr ha chiamato i "complici" del finanziere che, secondo le accuse, gestiva un vero e proprio giro di prostituzione di minorenni sottoposte ad abusi e violenze. Ed in particolare, sottolineano oggi i media Usa, sul ruolo di Ghislaine Maxwell, ereditiera britannica trasferitasi negli Stati Uniti negli anni novanta e diventata per un breve tempo la fidanzata e poi l'inseparabile "migliore amica" di Epstein e guida nel mondo del jet set internazionale. Ma proprio il giorno prima della notizia della morte del miliardario, in quello che viene descritto come un suicidio, era stata pubblicata la notizia che molte delle accusatrici di Epstein indicano Maxwell come la persona che "personalmente reclutava le ragazze, organizzava gli appuntamenti" in modo che Epstein potesse avere anche più di un incontro al giorno, secondo quanto dichiarato alla Cbs News da Jack Scarola, l'avvocato di diverse vittime. Alcune delle quali, ha aggiunto il legale, hanno accusato Maxwell di "aver partecipato attivamente agli abusi". La 58enne figlia del tycoon del Mirror Group Robert Maxwell, morto nel 1991 in un incidente a bordo del suo yacht da 18 milioni di dollari che aveva battezzato Lady Ghislaine in onore della sua nona figlia alla quale era molto legato, nega ogni accusa. Ma intanto, sottolineano i giornali americani, avrebbe fatto perdere le sue tracce. Si ritiene che abbia lasciato gli Stati Uniti - dove finora comunque non è stato contestato nessun reato alla donna - e già tre anni fa ha venduto la sua casa a Manhattan - una townhouse da 5 milioni che le era stata regalata da Epstein - ed ha mantenuto un basso profilo da quando sono cominciate ad emergere le accuse contro il suo ex partner culminate poi nel tanto criticato accordo del 2008 con la giustizia della Florida, evitando le accuse federali. In questi anni, Maxwell ha anche fondato una associazione per la protezione degli Oceani, TerraMar Project, per la quale ha persino tenuto un discorso all'Onu. E nel 2010 è stata una degli ospiti del matrimonio di Chelsea Clinton. Nelle ultime settimane, si legge sul Guardian, non è stata vista né a Londra né a Salisbury, dove ha casa. Ed il Washington Post citando fonti vicine all'inchiesta riporta che le autorità "stanno avendo difficoltà a localizzarla".

Morto suicida in carcere il miliardario Jeffrey Epstein. Il Dubbio il 10 Agosto 2019. L’uomo, accusato di abuso sessuale su minori, è stato trovato impiccato nella propria cella. Aveva già tentato il suicidio. Jeffrey Epstein, il finanziere miliardario americano accusato di decine di casi di abuso sessuale ai danni di minorenni, è stato trovato morto suicida in una prigione di Manhattan. A riportare la notizia la Nbc, che ha citato come fonti «tre funzionari a conoscenza della questione». Epstein sarebbe stato trovato alle 7:30 nella propria cella, dove si è impiccato. L’uomo, 66 anni, era detenuto presso il Metropolitan Correctional Center di New York, dopo essere stato arrestato il 6 luglio scorso a Teterboro, nel New Jersey, mentre tornava da Parigi su un jet privato. Si è dichiarato non colpevole e gli è stata negata la cauzione. Secondo l’accusa, avrebbe reclutato decine di minorenni abusandone sessualmente nelle sue ville a Palm Beach e a Manhattan. L’uomo era anche accusato di associazione a delinquere finalizzato al traffico di minori. Epstein era tenuto sotto controllo proprio per il rischio di suicidio, dopo essere stato trovato semicosciente il 23 luglio con segni sul collo sul pavimento della cella in cui era recluso. Epstein era già registrato negli Usa come molestatore sessuale, per via di alcune vicende analoghe, risalenti al 2008, quando era accusato di aver pagato decine di ragazze minorenni, tutte di famiglia disagiata, per abusarne sessualmente nella sua villa in Florida. Quelle indagini si chiusero grazie a un controverso accordo firmato con l’allora procuratore della Florida Alexander Acosta, ex ministro del Lavoro del governo Trump, che lasciò il posto quando la notizia balzò agli onori delle cronache. Dalle carte dell’inchiesta, diffuse poco prima del suicidio, sarebbero emersi particolari agghiaccianti, come «orge con ragazze minorenni», che arrivavano da lui tramite un’assistente, mentre un maggiordomo, alla fine degli incontri, avrebbe ripulito e fatto sparire ogni traccia. Dettagli emersi grazie alle testimonianze anche di alcune delle vittime, tra tutte Virginia Robert Giuffre, che ha accusato il finanziere di averla ridotta ad una “schiava sessuale” quando aveva solo 14 anni. Stando al suo racconto, nel 2001, ancora minorenne, sarebbe stata costretta ad avere rapporti sessuali anche con amici del ricco finanziere, tra cui il principe Andrea duca di York, figlio della regina Elisabetta.

Il miliardario americano Jeffrey Epstein è morto in carcere per un apparente suicidio. Era accusato di traffico di minori e sfruttamento sessuale, aveva già tentato di togliersi la vita un mese fa. Indagano l'Fbi e il dipartimento di Giustizia. Il ministro Barr: la morte di Epstein in custodia federale "solleva serie domande a cui bisogna rispondere". La Repubblica il 10 agosto 2019. Jeffrey Epstein, il miliardario americano accusato di decine di casi di abusi sessuali su minorenni, è morto nel carcere in cui era detenuto: secondo le prime ricostruzioni dei media americani si sarebbe suicidato, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire sul suo decesso. L'Fbi ha aperto un'indagine e così pure dipartimento di giustizia. Nel pomeriggio di sabato del caso ha parlato il ministro della Giustizia, William Barr: sono "sconvolto", ha detto, la morte di Epstein in custodia federale "solleva serie domande a cui bisogna rispondere". Lo staff del penitenziario ha tentato di rianimare il detenuto che è stato poi trasportato in un ospedale vicino dove è stato dichiarato morto. Epstein aveva già tentato di togliersi la vita meno di un mese fa nel carcere di New York, ma secondo il New York Times non era nel programma di osservazione a cui vengono sottoposti i detenuti che tentato il suicidio. Il miliardario era accusato di traffico e sfruttamento sessuale di ragazze minorenni tra il 2002 e il 2005 nelle sue case di Manhattan e Florida.

Il 6 luglio Epstein era stato arrestato all'arrivo negli Stati Uniti dalla Francia e rischiava una condanna all'ergastolo. Nel 2008 era stato processato in Florida per incitamento alla prostituzione ed aveva patteggiato una condanna a un anno. Dopo l'ultimo fermo i suoi legali avevano chiesto la libertà su cauzione che però era stata respinta dal Tribunale Federale di Manatthan.

Qualche ora prima che l'uomo fosse trovato morto in carcere, apparentemente suicida, alla corte federale di New York era stato depositato un dossier sul miliardario che conteneva anche la deposizione di Virginia Roberts Giuffre, una delle testimoni più importanti nell'inchiesta che aveva portato all'arresto di Epstein. La donna lo accusava di essere stata tenuta come "schiava del sesso" da minorenne e costretta ad avere rapporti sessuali con personaggi importanti tra cui il principe Andrea, duca di York, figlio della regina d'Inghilterra.

Virginia Roberts Giuffre ha chiamato in causa per abusi anche Alan Dershowitz, un famoso avvocato americano, professore emerito ad Harvard e ospite televisivo, l'ex governatore dello stato del New Mexico, Bill Richardson, e l'ex senatore George Mitchell. Sul caso Epstein è intervenuta la deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez: "Abbiamo bisogno di risposte, molte risposte", ha scritto alludendo alla possibilità che sulla morte in carcere del finanziere non sia stata detta tutta la verità.

Suicidio Epstein, aperte due inchieste. Si infittisce il mistero sul suicidio in cella del milionario Jeffrey Epstein coinvolto in un giro di pedofilia e accusato di aver abusato decine di adolescenti. Roberta Damiata, Domenica 11/08/2019 su Il Giornale. Alcune settimane fa Jeffrey Epstein, il milionario trovato impiccato nella sua cella e coinvolto in un caso internazionale di pedofilia, aveva confidato alle guardie del carcere che qualcuno stava cercando di ucciderlo. A rivelarlo una fonte interna dell'istituto penitenziario che ha poi passato le informazioni al Daily Mail. La stessa fonte aveva incontrato il milionario caduto in disgrazia in varie occasioni durante la sua detenzione al Metropolitan Correctional Center, affermando che Epstein, normalmente riservato, sembrava invece essere di buonumore: "Non c’era alcun sospetto che facesse pensare ad un suo gesto così estremo - ha raccontato - da quello che ho visto, stava iniziando ad adattarsi alla prigione e non sembrava il tipo da volersi togliersi la vita". Invece ieri è stato trovato impiccato nella sua cella poco prima delle sette del mattino. Portato d’urgenza nell'ospedale più vicino, è stato dichiarato morto al suo arrivo. Ora il corpo verrà sottoposto ad autopsia da parte del medico legale, ma fonti del carcere parlano di un’indagine aperta dall’Fbi per capire realmente le cause del decesso. Epstein era in attesa del processo per difendersi dall’accusa di abusi sessuali e traffico di minori ed era detenuto in un carcere di massima sicurezza di New York. Il suo arresto è avvenuto il 6 luglio, con l’accusa di aver organizzato rapporti sessuali con minori nelle sue residenze di New York e in Florida da il 2002 e il 2005. Nonostante le accuse, Epstein si è sempre dichiarato innocente. Il suo suicidio arriva solo due settimane dopo essere stato ricoverato a seguito di quello che potrebbe essere stato un tentativo iniziale di togliersi la vita. Il 24 luglio, infatti, era stato portato d’urgenza in ospedale dopo essere stato trovato riverso sul pavimento della sua cella in uno stato di semi incoscienza. Dopo poche ore però, era stato riportato in carcere senza nessuna conferma del fatto che il suo fosse un tentativo di suicidio, piuttosto che omicidio consumato all’interno delle mura del carcere. Al milionario era stata tolta la sorveglianza, scatenando l’indignazione del procuratore generale William Barr: “La morte di Epstein solleva una serie di domande a cui bisogna dare risposta - ha detto Barr in una dichiarazione di ieri pomeriggio - Oltre alle indagini dell’Fbi ho consultato il ministro della giustizia, che ha deciso di aprire un’inchiesta sulle circostanze della sua morte”. Secondo un secondino della prigione, Epstein era tenuto in una sezione speciale ad alta sicurezza, ma non era sorvegliato dai funzionari della struttura che avrebbero potuto evitare il suicidio, sempre ammesso che di questo si tratti. La decisione di escludere Epstein, che era forse il detenuto di più importante del sistema carcerario federale dalla sorveglianza, ha sconcertato anche alcune ex guardie carcerarie che hanno bollato questo come un “fatto insolito”. Cameron Lindsay, un ex guardia carceraria, ha rivelato alla Bbc News che toglierli la sorveglianza è stata una decisione scioccante, soprattutto per un detenuto come lui, con accuse così gravi, e che oltretutto aveva già tentato di togliersi la vita, non si potevano assolutamente correre rischi. C’era la necessità di sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro”. Nonostante i suoi crimini, molte associazioni hanno chiesto trasparenza riguardo ai dettagli della sua morte. Grande rabbia anche tra le molte presunte vittime dei suoi abusi, che in questo modo vedono sfumare la possibilità che il finanziere possa affrontare la giustizia per i suoi crimini. Jennifer Aaoz, la ragazza che ha affermato di essere stata violentata all’età di 15 anni da Epstein, ha rilasciato un’intervista alla Nbc News: “Sono arrabbiata che Jeffrey Epstein non dovrà affrontare le vittime dei suoi abusi in tribunale. Dovremo convivere con le cicatrici delle sue azioni per il resto della nostra vita , mentre lui non dovrà mai affrontare le conseguenze dei crimini che ha commesso”. L’avvocato Lisa Bloom - che rappresenta tre delle presunte vittime della tratta sessuale del milionario - ha condiviso una dichiarazione di uno dei suoi accusatori anonimi. “Non avrò mai pace ora. Sono arrabbiata da morire che sia riuscito a togliersi la vita senza che nessuno glielo abbia impedito. Non lo vedremo mai affrontare le conseguenze delle sue orribili azioni”, si legge nella dichiarazione. La morte di Epstein arriva appena 24 ore dopo che oltre 2mila pagine di documenti secretati che descrivevano nel dettaglio i suoi abusi sessuali su ragazze minorenni sono stati resi pubblici. Venerdì mattina la corte di appello federale ha pubblicato i documenti esplosivi relativi a una causa del 2015 che Virginia Roberts Giuffre, una delle presunte vittime allora 15enne, aveva intentato contro la socia di Epstein, Ghisiane Maxwell. Giuffre affermò che Epstein e Maxwell nei primi anni 2000, quando lei era ancora minorenne, la tenevano come una “schiava sessuale”. Queste sue dichiarazioni avrebbero coinvolto nello scandalo anche un gran numero di uomini molto potenti amici di Epstein. Tra le trascrizioni, anche una deposizione dove la ragazza sosteneva di essere stata obbligata a fare massaggi erotici a politici e uomini d’affari benestanti. La ragazza racconta di essere stata “incaricata” da Maxwell di fare sesso con l'ex senatore George Mitchell e anche con l’ex governatore del New Mexico Bill Richardson. Entrambi hanno ovviamente negato le accuse. Sempre secondo i documenti, Giuffre afferma di aver anche fatto sesso in diverse occasioni con un caro amico di Epstein, il principe Andrea, anche quando era appena 17enne.

Il principe ha sempre negato qualsiasi illecito e, nel 2015, un giudice ha respinto le accuse di Giuffre ordinando che fossero cancellate dal verbale. Buckingham Palace rilasciò una dichiarazione affermando che “qualsiasi accusa di un atto inadeguato su minorenni è assolutamente falsa”. Giuffre lavorava nel resort di Mar-a-Lago del presidente Donald Trump quando incontrò Ghislaine Maxwell, che le presentò poi Epstein, ma la ragazza ha sempre negato di aver avuto rapporti sessuali con l’attuale Presidente degli Usa. Allo stesso modo, nonostante Epstein fosse amico anche di Bill Clinton, la ragazza ha dichiarato di non aver mai avuto nessun rapporto con lui. Giuffre è stata la prima donna a rendere pubbliche le accuse contro Epstein ed è la testimone più importante. La ragazza ha raccontato la modalità con cui si è trovata a viaggiare in tutto il mondo e come sia stata violentata da uomini con il triplo della sua età. “Epstein mi aveva promesso molto - ha dichiarato - e sapevo che se lo avessi lasciato avrei avuto grossi problemi, ero la testimone di molti comportamenti illegali da parte sua e dei suoi amici, potenti. Avrebbe potuto farmi uccidere o rapire, se non gli avessi obbedito. Ci teneva a farmi sapere che conosceva molta gente importante in posti di potere. Avevo molta paura, soprattutto quando ero adolescente. Quando ero con lui - si legge ancora - Epstein faceva sesso con ragazze minorenni quotidianamente, e di questo atteggiamento era a conoscenza chiunque lo conoscesse”. Jeffrey Epstein rischiava fino a 45 anni di carcere. Il 6 luglio il milionario è stato arrestato all’aeroporto de Teterboro nel New Jersey mentre alcuni agenti federali facevano irruzione nella sua casa di Manhattan da 77 milioni di dollari, scoprendo centinaia di foto pedopornografiche. I pubblici ministeri affermano che Epstein ha sessualmente sfruttato dozzine di adolescenti, alcune addirittura di 14 anni nelle sue case di Manhattan e Palm Beach in Florida tra il 2002 e il 2005 e sostengono che l’uomo d’affari fosse ben consapevole che molte delle vittime erano minori. Le ragazze sono state pagate centinaia di dollari in contanti per massaggiarlo, compiere atti sessuali e reclutare altre ragazze, e sembra che Epstein avesse un vero e proprio esercito di reclutatori, spesso non molto più vecchi dei loro obiettivi, che avrebbero avvicinato e convinto adolescenti vulnerabili a compiere atti sessuali. Dopo il suo arresto gli è stato negato il rilascio su cauzione. Epstein aveva comunque precedentemente scontato 13 mesi in una prigione della Florida dopo essersi dichiarato colpevole di un rapporto con una prostituta minorenne. Prima della sua condanna nel 2008, i suoi avvocati avevano incontrato Alexander Acosta, il Procuratore Federale di Miami, per negoziare un “patteggiamento favorevole”.

Epstein si era quindi dichiarato colpevole in cambio della breve pena detentiva in un carcere di bassa sicurezza, nonché dell’immunità da futuri procedimenti giudiziari connessi alle sue accuse. Si venne poi a sapere che gli era permesso di uscire per lavorare in un ufficio vicino al carcere. Questo trattamento “di favore” ha indignato l’opinione pubblica tanto che il procuratore Acosta è stato costretto a dimettersi dal suo incarico di lavoro nell’amministrazione Trump. Nel 2010 Epstein è stato comunque rilasciato ed è riuscito rapidamente a ritornare a frequentare gli alti circoli del potere. Pochi mesi dopo è stato notato mentre camminava a Central Park con il principe Andrea.

DAGONEWS il 10 agosto 2019. Emergono inquietanti dettagli dal dossier su Jeffrey Epstein, depositato alla corte federale di New York, poche ore prima del suicidio. I documenti contengono anche la deposizione di Virginia Roberts Giuffre, una delle testimoni più importanti nell'inchiesta che aveva portato all'arresto di Epstein. Johanna Sjoberg, una delle donne che sostiene di essere stata "attirata" nella dimora di Epstein a New York, ha raccontato che il presunto pedofilo le avrebbe confessato che doveva avere "tre orgasmi al giorno". «E’ fisiologico, come mangiare» le disse Epstein. La donna ha dichiarato di essere stata assunta nel 2001 da Ghislaine Maxwell, amica di vecchia data del finanziere, quando era studentessa al Palm Beach Atlantic College. Sjoberg era convinta di essere stata assunta come assistente personale, ma presto si rese conto che il suo lavoro consisteva nel fare "massaggi sessuali" a Epstein. Secondo il New York Times, Sjoberg fu "punita" quando Epstein non riuscì a raggiungere l'orgasmo durante uno dei suoi massaggi. I documenti fanno parte della causa che Virginia Roberts Giuffre, una delle accusatrici di Epstein, ha intentato contro Maxwell: Giuffre sostiene che la donna l’avrebbe reclutata quando aveva 16 anni per essere la "schiava del sesso" di Epstein. Giuffre ha affermato che Epstein e Maxwell l'hanno costretta a praticare massaggi erotici e fare sesso con uomini potenti, tra cui i politici George Mitchell e Bill Richardson. Un'altra presunta vittima che non è stata identificata ha testimoniato che Epstein aveva un pene "deformato" che era "a forma di uovo". Ma dalla carte emergono le testimonianze anche del personale di servizio che lavorava nelle dimore di Epstein. John Alessi, un maggiordomo, ha dichiarato in una deposizione del 2016 che il suo capo usava dildo e giocattoli sessuali "strap-on" per godere. Rinaldo Rizzo, maggiordomo di Glenn Dubin, e sua moglie, Eva Andersson-Dubin, ha raccontato di come una ragazza svedese di 15 anni fosse stata confinata sull'isola privata di Epstein e tenuta lì come schiava sessuale. Durante una deposizione del 2016, che è stata rivelata per la prima volta venerdì, il maggiordomo ha raccontato la sua conversazione con la ragazza in lacrime nella cucina del suo capo nel 2005. «Sedeva su uno sgabello della cucina nella casa dei Dubins – ha raccontato Rizzo - Era sconvolta, tremava e teneva la testa bassa mentre descriveva quello che aveva dovuto subire da Ghislaine Maxwell e dalla sua assistente, Sarah Kellen, nelle Isole Vergini statunitensi. Ha iniziato a parlare quando siamo rimasti soli. Le ho chiesto se le sarebbe piaciuto avere un po' d’acqua, dei fazzoletti, ma non rispondeva. Poi mi ha confermato di lavorare per Epstein, di avere 15 anni e di essere stata assunta per fare l’assistente esecutiva per il miliardario. Quando le ho detto che era un po’ troppo giovane per quel ruolo è scoppiata in un pianto isterico. È stato allora che ha raccontato che le era stato proposto di fare sesso. Non ha detto chi glielo avesse chiesto, ma quando si è rifiutata è stata minacciata da Maxwell. Epstein le aveva detto che doveva tacere su tutto ciò che sapeva. Tremava. Smise di parlare quando si accorse che stava arrivando qualcuno». Giuffre ha anche accusato i Glenn Dubin di aver partecipato alla tratta di minorenni, ma l’uomo d’affari e la moglie hanno sempre negato.

«Il principe Andrea molestò delle minorenni»: l’accusa al figlio della Regina Elisabetta. Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 da Corriere.it. Di Andrea duca di York, secondo figlio della regina Elisabetta, 59 anni, si parla sempre poco. Ma quando se ne parla, lui che una volta portava il soprannome di Andy the Randy, Andrea il mandrillo, addirittura «si sdoppia». E così ci sono due duchi, molto somiglianti tra loro, che si danno il cambio nei giochi erotici raccontati da Virginia Giuffre e Joanna Sjoberg ai magistrati americani che hanno mandato a processo il finanziere Jeffrey Epstein con l’accusa di traffico e sfruttamento di minorenni. Uno aspetta sul divano, mentre l’altro esce dall’armadio con il petto gonfio. Nelle duemila pagine diffuse ieri sera dal Tribunale di Manhattan ci sono testimonianze risalenti al 2015 che coinvolgono la Royal Family: Andrea è sospettato di aver avuto rapporti sessuali con Virginia Giuffre quando la ragazza aveva 17 anni, e di aver fatto sesso a pagamento con la ventunenne Sjoberg. Entrambe le giovani sono descritte come «schiave» alla mercé di capitan Epstein nel suo Lolita Express. Un episodio in particolare è finito nei titoli dei quotidiani britannici. Guiffre e Sjoberg raccontano di un incontro con Andrea nella residenza del finanziere a New York nel 2001. La regista dell’appuntamento era Ghislaine Maxwell, ex fidanzata di Epstein denunciata per sfruttamento della prostituzione e come lui «ossessionata dal sesso» (i documenti diffusi ieri si riferiscono a questo procedimento). «Ghislaine mi disse di andare a prendere nell’armadio un bambolotto gonfiabile – si legge nella deposizione di Joanna - C’era l’etichetta con la scritta Prince Andrew. Fu molto divertente, perché quando entrai nella stanza con il bambolotto davanti a me c’era il principe in persona». Secondo il racconto delle due donne, Maxwell fece sedere sul divano Joanna con il bambolotto in grembo, mentre Virginia sedeva sulle ginocchia del Duca. «Hanno preso le mani del bambolotto e le hanno messe sul seno di Virginia, mentre il vero Andrea faceva la stessa cosa su di me». Un teatrino narcisistico fatto «in modo giocoso». Quella sera Virginia Giuffre, all’epoca diciassettenne, racconta di aver fatto sesso con il principe sul lettino dei massaggi per «la solita cifra di 200 dollari». Dai documenti si evince che la stessa ragazza fu mandata da Epstein a Londra per un incontro con Andrea nella casa di Ghislaine Maxwell, la quale non ha mai prodotto una giustificazione circa quella visita provata da una serie di fotografie in cui Andrea abbraccia la ragazza all’altezza del petto. Il fiato fetido del caso Epstein arriva dunque fino a Buckingham Palace, che però si chiude a riccio con una difesa d’ufficio. Una nota ufficiale del portavoce della Regina dice che le ultime rivelazioni «si riferiscono a un procedimento giudiziario in corso negli Stati Uniti nel quale il Duca di York non è parte in causa. Ogni insinuazione su comportamenti impropri con minori – conclude la nota di Buckingham Palace - è categoricamente falsa». 

Il suicidio assistito di Jeffrey Epstein. Piccole Note de Il Giornale 12 agosto 2019. Jeffrey Epstein è stato trovato suicidato nella sua cella. La notizia fa il giro del mondo dato il clamore suscitato dal suo arresto. Clamore legato non tanto al primo reato contestato, ovvero l’abuso di ragazze minorenni, perversione purtroppo alquanto diffusa quanto sottaciuta (eccetto quando riguarda la Chiesa), quanto per il secondo reato, ovvero il traffico delle suddette, legato a quello che appariva, a stare alle accuse, il suo vero lavoro, che era quello di metterle a disposizione di ricchi e potenti.

Epstein, il giocattolaio. Il miliardario era una sorta di giocattolaio di certe élite, alle quali non solo metteva a disposizione le ragazze, ma anche privée riservati, come l’isola di Saint Thomas o le sue più che lussuose residenze sparse in giro per il mondo. Sui media sono usciti nomi importanti. Non solo Bill Clinton, che ha ammesso di aver viaggiato sui suoi aerei privati – negando ovviamente l’incontro con le ragazze -, ma anche altri molto più potenti, quei potenti tanto potenti che i media di sistema, per non rischiare di sbagliare,  dovendo dar loro una connotazione, identificano come “benefattori”. Un’attività che rendeva benissimo Un cenno alla natura della fortuna di Epstein lo si può trovare nel lungo articolo a lui dedicato, al tempo, da Vanity Fair, rivista non certo complottista, nel quale il miliardario si diceva non interessato ai modelli economici, ma piuttosto allo “stile di vita”. Faceva feste, Epstein, nelle sue residenze, invitando il fior fiore dell’élite, relazionava VF, alle quali partecipavano molte ragazze giovani. Dalle quali alcuni, e non altri, uscivano “inorriditi”. La morte dell’indagato arriva come una mazzata per l’inchiesta. Certo, come scrivono i media americani, c’è ancora la possibilità di proseguire le indagini, sia sul suo entourage che sulla sua rete finanziaria. Ma ora è tutto più arduo e fumoso.

Il suicidio assistito. Tre settimane fa Epstein fu trovato malconcio nella sua cella, vicenda derubricata a tentativo di suicidio. Così oggi i media Usa si interrogano sul perché un detenuto con asserite tendenze suicide non fosse oggetto della prassi abituale in questi casi: luce sempre accesa e vigilanza costante dei secondini. E sul perché il suo compagno di cella fosse stato trasferito in anticipo rispetto ai tempi fissati, così da lasciarlo solo. Inoltre il Dailymail riferisce che il detenuto aveva detto alle guardie che volevano ucciderlo. Ma interpellarsi sulla sua morte è inutile, tanto è chiara, ed è anche un utile modo per non parlare della sostanza della vicenda. Il decesso, peraltro, serve a rendere edotti futuri (eventuali) indagati della sorte che attende a chi solo pensa di collaborare, come aveva ipotizzato Epstein al suo arresto. Così il suicidio assistito del miliardario più che un modo per evitare sue rivelazioni, sembra altro, soprattutto per le modalità con cui è avvenuto.

Il monito. Dopo il tentato omicidio/suicidio di tre settimane fa, Epstein era ormai più che conscio della necessità del suo silenzio. In fondo, da questo punto di vista, poco cambiava che fosse sopravvissuto. Ma venerdì sono uscite 2000 pagine di accuse dettagliate nei suoi confronti. Da qui la necessità di dare un monito al mondo e dimostrare la potenza, che è poi delirio di onnipotenza, di certi ambiti. Così il decesso di Epstein suona come un monito chiaro e forte: certe élite non possono essere sfiorate da ombre. Del resto, anche l’inchiesta finora ha prodotto pochino. Non si ha notizia, ad esempio, di eventuali perquisizioni nelle altre residenze di Epstein, tra cui la famosa isola di St. Thomas, della quale abbiamo solo riprese aeree. Sarebbe interessante vedere cosa nascondono le sue viscere o vedere la natura del tempio che vi è stato edificato, uno dei pochi edifici visibili. Forse non lo sapremo mai, nonostante la prassi indichi che all’arresto di un reo consegua la perquisizione della sua abitazione (eseguita solo in quella di Manhattan). O se perquisizione si avrà, c’è stato tutto il tempo per ripulire. Per gli ambiti che hanno frequentato tali luoghi è più che agevole trovare una “ditta di pulizie” specializzata e i soldi necessari. Né sapremo mai cosa riempiva di orrore alcuni dei partecipanti ai ricevimenti di Epstein né i nomi dei tanti clienti del miliardario specializzato in “stile di vita”. Depotenziata, l’inchiesta potrebbe proseguire. Ma la dimostrazione di potenza di sabato induce a non aspettarsi troppo. Vedremo.

"UCCISO DAI RUSSI"! DAGONEWS il 12 agosto 2019. Ci mancava pure Alec Baldwin ad alimentare le teorie cospirazioniste sulla morte di Jeffey Epstein: l’attore, 61 anni, ha twittato domenica notte sostenendo che i russi hanno ucciso il finanziere. Sull’account Hilaria e Alec Baldwin Foundation si legge: «I russi hanno ucciso Epstein. Hanno incarichi in tutto adesso». Baldwin aveva già ritwittato altre teorie della cospirazione, tra cui una in cui il presidente Donald Trump, che era un amico di Epstein, potrebbe essere stato coinvolto. Lo stesso presidente statunitense ha tirato in ballo i Clinton, sostenendo che potrebbero essere coinvolti nella moarte del miliardario.

ANSA il 12 agosto 2019. Il carcere in cui era detenuto Jeffrey Epstein presenta "serie irregolarità": "arriveremo in fondo" alla vicenda perché le vittime di Epstein "meritano giustizia e l'avranno". Lo afferma il ministro della Giustizia americano, William Barr, secondo quanto riportano i media americani. "Stiamo apprendendo di serie irregolarità nel carcere, che sono molto preoccupanti. Arriveremo in fondo per capire cosa è accaduto".

DAGONEWS il 12 agosto 2019. Jeffrey Epstein avrebbe tenuto un diario segreto che conteneva informazioni sulle sue amicizie con persone potenti. Secondo una fonte che ha parlato con il “Mirror” il finanziere, che aveva frequentato in passato il principe Andrew, Bill Clinton e Donald Trump, teneva il diario come una sorta di “polizza assicurativa”. Una notizia che potrebbe mandare nel panico gli ex amici con cui il miliardario si sollazzava. «C’è scritto tutto ciò che Jeff aveva comprato, compresi i suoi amici - ha detto la fonte al Mirror - Ha usato la sua ricchezza per comprare amici e poi dare loro soldi per corteggiarli». La fonte ha aggiunto che Epstein "sapeva" che essere amico di persone ricche e famose «gli ha portato protezione» ed è per questo che ha tenuto un diario dettagliato «nel caso in cui ne avesse mai avuto bisogno». La notizia del diario segreto di Epstein è venuta a galla quando le autorità federali hanno reso noto che intendono continuare a indagare su di lui, nonostante la sua morte.

Epstein, la ricerca dei complici «Abusi nella casa di Parigi». Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Viviana Mazza, inviata in Iowa, su Corriere.it. Oltre alle ville a Manhattan e in Florida, al ranch in New Mexico e all’isola privata di Little St. James, Jeffrey Epstein aveva una residenza a Parigi, e per raggiungerla a bordo del suo «Lolita Express» (il soprannome del suo Boeing 727) usava un passaporto austriaco falso negli anni Ottanta. Il governo di Parigi ha chiesto ieri l’apertura di un’inchiesta sui legami con la Francia del finanziere accusato di traffico sessuale di minorenni, perché la sua morte «non privi le vittime della giustizia che meritano» e protegga altre ragazze da «questo genere di predatore». Lo hanno dichiarato la sottosegretaria alla Parità Marlène Schiappa e il sottosegretario per la Protezione dell’Infanzia Adrien Taquet dopo che una Ong ha scritto in una lettera pubblicata dal settimanale L’Obs che diverse vittime francesi compaiono nel caso americano. «Anche dalla casa di Parigi pare che entrassero e uscissero delle ragazze», dice al Corriere Josh Schiller, avvocato di dodici vittime di Epstein. «Finora molte testimoni avevano paura di parlare, avevano ricevuto intimidazioni anche di recente, fino a un anno fa». Intanto a New York, è stata condotta l’autopsia sul cadavere, trovato sabato in cella in quello che le autorità hanno definito un «apparente suicidio» e si attendono conferme. I suoi avvocati hanno ottenuto un ulteriore esame, affidato al patologo Michael Baden, che fu chiamato anche nel processo a O.J.Simpson. Lo scandalo ha portato ieri il ministro della Giustizia William Barr a dichiararsi furioso per le «serie irregolarità» e il «fallimento nel garantire la sicurezza del detenuto» nel sistema carcerario federale. Dalle ultime indiscrezioni, emerge che sono stati i suoi avvocati, a fine luglio, a chiedere che Epstein venisse rimosso dalla sorveglianza prevista per i detenuti a rischio di suicidio, e rimandato nella «Special Housing Unit», per detenuti di alto profilo o pericolosi. Ma qui non sono state rispettate le procedure: Epstein avrebbe dovuto avere un compagno di cella, ma disse di «avere paura di lui» e perciò era stato trasferito ma non sostituito; le guardie avrebbero dovuto controllarlo ogni mezz’ora, ma non lo fecero perché l’unità era a corto di personale (una guardia era al quinto giorno consecutivo di straordinario). Il ministro Barr ha sottolineato ieri che il caso non è chiuso: «I complici non pensino di averla fatta franca». Gli occhi sono puntati su Ghisleine Maxwell — la fidanzata-amica inglese che gestiva la vita sociale di Epstein, che gli presentò il Principe Andrea e fu invitata alle nozze di Chelsea Clinton — accusata di essere l’adescatrice delle minorenni e di aver lei stessa abusato di loro. Nel 2016 ha venduto una proprietà a Manhattan, nel 2017 un giudice disse che si trovava a Londra; i legali delle vittime credono che non tornerà negli Stati Uniti per timore di essere incriminata. Morto Epstein, resta il suo patrimonio: quando tentava di uscire di prigione su cauzione, aveva dichiarato che valesse 550 milioni di dollari, ma c’è chi crede che siano di più, nascosti in conti offshore. Sotto esame è finito anche il patrimonio del fratello di Jeffrey Epstein, Mark, due anni più giovane, che in confronto pare più ridotto. Lo scorso mese Mark ha offerto il suo appartamento in Florida, del valore di 100mila dollari per la cauzione di Jeffrey, una modica cifra rispetto allo yacht del valore di un milione che aveva regalato in autunno a una Ong per gli studi marini. I fratelli sono anche legati da un condominio di 200 unità nell’Upper East Side, che pare appartenga a Mark: convenientemente situato sulla 66esima, vicino alla magione di Jeffrey sulla 71esima, secondo le carte degli investigatori veniva usato per ospitare ragazze minorenni («appartamenti per modelle», li definiva nella sua agenda), assistenti, avvocati e i piloti del suo Lolita Express.

L’assistente, la pilota, l’amica: ecco chi «gestiva» le schiave sessuali di Epstein. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Viviana Mazza su Corriere.it. Arrabbiate e deluse perché il finanziere ancora una volta si è sottratto, con il suicidio, alla Giustizia, le vittime di Jeffrey Epstein ora porteranno avanti cause civili per ottenere un risarcimento. Non solo, vogliono che si indaghi anche sui complici: su chi ha protetto Epstein, distrutto le prove, pagato i testimoni, facilitato il traffico sessuale di minorenni. Innanzitutto, il procuratore federale dovrà decidere se indagare per complicità le sue assistenti. La più importante è Ghislaine Maxwell, figlia prediletta di un ex editore di tabloid inglesi e del New York Daily News, laureata a Oxford. Frequentava il principe Andrea, veniva fotografata con il sindaco Bloomberg e con Elon Musk. Fu la fidanzata di Epstein, poi la sua «migliore amica». Tre ragazze l’hanno accusata di aver facilitato gli abusi, offrendo loro un lavoro come assistente personale per poi trasformarle in schiave sessuali; Virginia Giuffre l’avrebbe trascinata in tribunale se nel 2017 Maxwell non avesse patteggiato e pagato. Ora una fonte dice al New York Post che Maxwell starebbe collaborando con le autorità. Poi ci sono le assistenti, mai incriminate: Sarah Kellen, accusata di «tenere la lista delle ragazze» e di portarle nella villa in Florida; Lesley Groff di organizzare i viaggi. Nadia Marcinkova di intrattenersi con «ragazze minorenni» di fronte a Epstein che la definiva «la mia schiava sessuale»: oggi dice di essere una «pilota commerciale». Jeffrey Epstein le portava in aereo a Parigi a fare shopping, pagava la baby sitter, regalava Mercedes e auto di lusso. Una delle accuse è che si servisse anche di minorenni arrivate dall’estero per lavorare come modelle attraverso l’agenza MC2 del suo amico Jean Luc Brunel, il quale nega. Quando il finanziere patteggiò in Florida nel 2008, scontando 13 mesi per evitare pene federali, si assicurò anche che l’accordo proteggesse le sue assistenti e segretarie. Nel 2005 disse: «Le mie assistenti sono un’estensione del mio cervello, il loro intuito è qualcosa che io non ho».

CHE FINE HA FATTO GHISLAINE MAXWELL? SPARITA GHISLAINE, L' EX FIDANZATA CHE "ADDESTRAVA" LE RAGAZZE. Francesco Semprini per “la Stampa” il 13 agosto 2019. C'è una donna in cima alla lista dei «ricercati» per lo scandalo Epstein: Ghislaine Maxwell, ex fidanzata del finanziere, che per lui avrebbe gestito quella che era diventata una vera e propria organizzazione di prostituzione minorile. Ghislaine, 57 anni, «socialite», è introvabile. Potrebbe essere a Londra, ma lì non ha più fissa dimora, e non è a New York, dal momento che la sua lussuosa townhouse di Manhattan è stata venduta nel 2016 per 15 milioni di euro. Un po' fidanzata, un po' maitresse, un po' manager, secondo le accuse era lei che procacciava e reclutava le ragazze minorenni, che le «addestrava» su come soddisfare gli appetiti sessuali del finanziere e dei suoi amici, che organizzava incontri e festini nel mega appartamento di Manhattan, nella villa di Palm Beach, nel ranch in New Mexico o sull' isola privata ai Caraibi. Ed era sempre lei che aveva il controllo dei conti, anche se a pagare le ragazze, rigorosamente cash, era un dipendente di Epstein. Figlia del magnate dei giornali caduto in disgrazia Robert Maxwell, e morto in circostanze misteriose, Ghislane è sempre stata nei giri che contano. Nata il giorno di Natale nel 1961 a Parigi, ha studiato Oxford, parla diverse lingue e, soprattutto, è amica dei potenti: negli Anni 90 ha frequentato John Kennedy junior e nel 2010 era tra gli invitati al matrimonio di Chelsea Clinton, dopo che nel 2007 donò migliaia di dollari alla campagna presidenziale di Hillary. Una foto ritrae lei ed Epstein con Donald Trump e l' allora fidanzata Melania. E fu Ghislaine a presentare a Jeffrey Bill Clinton e il principe Andrea d' Inghilterra. «Aveva educazione e gusto, sapeva come gestire una casa e una barca e come intrattenere», ha detto un conoscente al «Daily Telegraph». In un articolo di «Vanity Fair», nel 2003, Epstein aveva detto che Ghislane non era una dipendente, piuttosto la sua «migliore amica». Legatissima al padre, che aveva chiamato il suo super yacht «Lady Ghislane», scappò da Londra dopo la sua morte: Robert fu trovato proprio vicino allo yacht al largo delle Isole Canarie nel novembre 1991. Definito «annegamento accidentale», il mistero che circonda le circostanze della sua morte non è mai stato chiarito. fra. sem.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 13 agosto 2019. È caccia ai complici di Jeffrey Epstein, il finanziere 66enne travolto da uno scandalo sessuale e accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, trovato morto impiccato alle 6,30 del mattino di sabato nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove era recluso in attesa del processo. Si cercano i complici e i possibili cospiratori, ovvero coloro che avrebbero tramato per uccidere il milionario, o per agevolarne l' estremo atto, e il ministro della Giustizia americano William Barr fa sapere: «Nessuno può dormire sonni tranquilli». Le indagini sul caso Epstein vanno avanti per scovare coloro che negli ultimi decenni hanno fatto parte del cerchio magico del finanziere suicida. E accertare le responsabilità di ognuno in relazione a quella rete di sfruttamento di decine di ragazze trasformate in vere e proprie schiave del sesso. Oltre a capire se c' è dell' altro come affermano i sostenitori della teoria del complotto. Anche Parigi, dove il miliardario newyorchese aveva una delle sue lussuose dimore, è pronta ad aprire un' inchiesta sulle ramificazioni francesi dello scandalo. E ieri sera sono scattate le perquisizioni dell' Fbi sull' isola di Jeffrey Epstein nei Caraibi, Little St. James: decine di agenti sono sbarcati sull' isola per cercare documenti sugli affari dell' ex miliardario. Il primo nome nella lista di coloro che sanno e che potrebbero essere sentiti dagli inquirenti eccellenti in merito all' inchiesta è quello di Ghislaine Maxwell, la fedelissima di Esptein, faccendiera britannica che gestiva gran parte dei suoi affari. È intorno a questa eminenza grigia che si articola gran parte dell' inchiesta, in quanto è lei la custode di affari e segreti che probabilmente il finanziere ha tentato di portare con sé nella tomba. La donna però non si trova, ha fatto perdere le sue tracce pressoché nello stesso momento in cui si è saputo del presunto suicidio del suo ex capo. Sa che se rimettesse piede negli Usa verrebbe quasi certamente arrestata, anche se su di lei finora non pende alcun capo di accusa. Ma ci sono i racconti di molte vittime che da tempo la tirano pesantemente in ballo, a partire da Virginia Roberts Giuffre, la testimone chiave che ha raccontato di essere stata costretta nel 2001, quando era minorenne, ad avere rapporti sessuali con Epstein e altri personaggi che gravitavano nella cerchia di amicizie del finanziere. Qualcosa su di lei potrebbero dirlo anche Courtney Wild ed Annie Farmer, due delle vittime dell'orco Esptein, protagoniste di una sonora protesta in tribunale a luglio per impedire i domiciliari del finanziere. Wild aveva 14 anni quando fu portata nel «covo» del miliardario a Palm Beach, in Florida, mentre Farmer ne aveva 16 quando andò nell' altra magione del «peccato», in New Mexico. Intanto, l' attenzione degli inquirenti si sta focalizzando anche sul Metropolitan Correctional Center di Manhattan, la struttura dove il miliardario era rinchiuso, la stessa dove è stato detenuto El Chapo: «Stiamo raccogliendo elementi che rivelano una serie di irregolarità avvenute in carcere, elementi molto preoccupanti. Arriveremo in fondo per capire cosa è accaduto», spiega Barr. E in settimana dovrebbero scattare le prime cause civili che puntano al vasto patrimonio di Epstein, valutato in quasi 600 milioni di dollari tra case, beni di lusso, azioni ordinarie e asset investiti. Le autorità ipotizzano il sequestro dei beni per ricompensare le vittime. È stata infine eseguita l' autopsia sul corpo del finanziere, ma il capo dei medici legali di New York, Barbara Sampson, prende tempo, quello necessario, dice, per conoscere con certezza le cause della morte.

Suicidio Epstein, trasferito il direttore del carcere e sospese due guardie. Secondo le ricostruzioni, lasciato in cella senza controlli per ore si è impiccato con un lenzuolo. Uno degli agenti era un sostituto. Ora gli inquirenti si concentrano su Ghislaine Maxwell. L'ereditiera britannica avrebbe fatto perdere le tracce: è accusata dalle vittime di reclutare le ragazze minorenni. La Repubblica il 13 agosto 2019. Jeffrey Epstein è stato lasciato solo per ore senza che nessuno lo controllasse. E uno dei due agenti preposti a farlo non era una guardia carceraria a tempo pieno, era un sostituto. Lo rivela il New York Times, citando alcuni funzionari delle forze dell'ordine. Le rilevazioni fanno seguito alle dichiarazioni del ministro della Giustizia, William Barr, che ha parlato di serie irregolarità nel carcere. Il New York Post ha pubblicato alcuni dettagli riguardo la sua morte: il 66enne è stato trovato impiccato in cella, con un lenzuolo legato attorno al collo, fissato alla parte superiore di un letto a castello. Poi è stato trasferito in un ospedale di Manhattan, dove è stato dichiarato morto. Successivamente il direttore del carcere dove Epstein era detenuto è stato trasferito in un'altra sede e due guardie sono stati sospese dall'incarico, in attesa degli esiti dell'inchiesta sulla morte del finanziere. Lo ha annunciato il dipartimento di Giustizia, sotto la cui autorità ricade il Metropolitan Correctional Center di Lower Manhattan, dove era rinchiuso il multimiliardario accusato di traffico sessuale di minorenni. Ma proprio il giorno prima della notizia della morte del miliardario, in quello che viene descritto come un suicidio, era stata pubblicata la notizia che molte delle accusatrici di Epstein indicano Maxwell come la persona che "personalmente reclutava le ragazze, organizzava gli appuntamenti" in modo che Epstein potesse avere anche più di un incontro al giorno, secondo quanto dichiarato alla Cbs News da Jack Scarola, l'avvocato di diverse vittime. Alcune delle quali, ha aggiunto il legale, hanno accusato Maxwell di "aver partecipato attivamente agli abusi". La 58enne figlia del tycoon del Mirror Group Robert Maxwell, morto nel 1991 in un incidente a bordo del suo yacht da 18 milioni di dollari che aveva battezzato Lady Ghislaine in onore della sua nona figlia alla quale era molto legato, nega ogni accusa. Ma intanto, sottolineano i giornali americani, avrebbe fatto perdere le sue tracce. Si ritiene che abbia lasciato gli Stati Uniti - dove finora comunque non è stato contestato nessun reato alla donna - e già tre anni fa ha venduto la sua casa a Manhattan - una townhouse da 5 milioni che le era stata regalata da Epstein - ed ha mantenuto un basso profilo da quando sono cominciate ad emergere le accuse contro il suo ex partner culminate poi nel tanto criticato accordo del 2008 con la giustizia della Florida, evitando le accuse federali. In questi anni, Maxwell ha anche fondato una associazione per la protezione degli Oceani, TerraMar Project, per la quale ha persino tenuto un discorso all'Onu. E nel 2010 è stata una degli ospiti del matrimonio di Chelsea Clinton. Nelle ultime settimane, si legge sul Guardian, non è stata vista né a Londra né a Salisbury, dove ha casa. Ed il Washington Post citando fonti vicine all'inchiesta riporta che le autorità "stanno avendo difficoltà a localizzarla".

Epstein, le due guardie dormivano: controlli falsificati per coprirsi. Pubblicato mercoledì, 14 agosto 2019 da Corriere.it. I due secondini che avrebbero dovuto controllare Jeffrey Epstein ogni mezz’ora si erano addormentati, la notte in cui il finanziere Usa accusato di traffico sessuale di minorenni si è ucciso nel Metropolitan Correctional Center di New York. Per circa tre ore le due guardie — hanno raccontato alcuni ufficiali al New York Times — non sarebbero passate a vedere cosa succedeva nella stanza in cui l’uomo si trovava in isolamento. E in seguito avrebbero tentato di coprire la propria negligenza annotando (a posteriori) alcuni controlli mai effettuati. I video di sorveglianza dimostrano che quei passaggi nell’unità 9 Sud del penitenziario, registrati dalle due guardie, non furono in realtà fatti. Secondo le due fonti del quotidiano statunitense, le due guardie carcerarie — già sospese in attesa che le indagini si concludano, mentre la direttrice dell’istituto è stata trasferita — si sarebbero quindi addormentate. Hanno trovato il corpo di Epstein solo alle 6.30 del mattino: l’uomo si sarebbe impiccato con un lenzuolo legato alla sommità superiore del letto a castello.

G.G. per "il Fatto Quotidiano” il 14 agosto 2019. Il proprietario di una delle più famose, e già discusse, agenzie di modelle internazionali, la MC2 , sarebbe il perno francese dell' inchiesta sul giro di abusi su minori e incitamento e sfruttamento della prostituzione che ruota intorno al finanziere miliardario Jeffrey Epstein, suicidatosi in cella sabato scorso a New York. Secondo fonti giornalistiche, Jean-Luc Brunel, 70 anni, sarebbe stato uno dei "principali fornitori" di adolescenti del sessuomane. In base a testimonianze raccolte, fra cui quella fondamentale di Virginia Roberts Giuffre, Mediapart scrive che Brunel avrebbe avuto "un posto preponderante" nello "schema" pedofilo di Epstein: per un compleanno, gli avrebbe mandato in dono dalla Francia due ragazzine di 12 anni; e decine gliene avrebbe complessivamente fornite; facendogli poi ripetutamente visita in carcere. Inoltre, Mediapart pubblica racconti di due ex modelle e d' una ex dipendente dell'agenzia: le prime denunciano le violenze di Brunel - "Una sera, m' ha drogata e m' ha stuprata" -; l'impiegata parla dell' intreccio dei legami tra Epstein, che sosteneva finanziariamente la MC2 in difficoltà, e Brunel, che gli forniva adolescenti, a Parigi, nella casa di Av. Général Foch, e in America. In attesa che la giustizia francese faccia il suo corso, quella americana continua il proprio, lungo diversi filoni. Nell'Unione, con Trump in vacanza e la politica in ferie, il caso Epstein tiene banco sui media e ispira teorie cospirazioniste. Anche il sindaco di New York Bill de Blasio diventa complottista e mette in dubbio la versione ufficiale, "troppo comoda". E il magnate presidente torna a mestare le acque: chiede un' inchiesta, che c' è già, sulla morte del finanziere e avanza l' illazione che Bill Clinton sia stato sulla sua isola. Si attende che ricompaia l'ex fidanzata e meretrice di Epstein, Ghislaine Maxwell, e che finiscano sotto accusa altre persone, in uno scandalo che tocca presidenti, da Clinton a Trump, e protagonisti del "jet set", uomini d' affari, di spettacolo, di cultura. Le indagini avanzano più spedite sul fronte delle responsabilità nel suicidio di Epstein, favorito da negligenze forse criminali. La commissione Giustizia della Camera chiede all' Fbi informazioni sul programma di prevenzione dei suicidi in carcere, sulle condizioni in cella di Epstein e su chi avrebbe dovuto controllarlo. Dopo che il segretario alla Giustizia Usa William Barr ha ammesso anomalie e irregolarità, il New York Times scrive che Epstein è stato lasciato solo per ore senza che nessuno lo controllasse e che uno dei due agenti preposti a farlo non era una guardia carceraria a tempo pieno, era un sostituto. Secondo il New York Post, il finanziere si sarebbe suicidato legandosi il lenzuolo intorno al collo e fissandolo in alto sul letto a castello: per riuscire a strangolarsi, Epstein si sarebbe dovuto mettere ginocchioni. Il Daily Mail riferisce che decine di agenti dell'Fbi sono scesi sull'isola del finanziere nei Caraibi, Little St. James, soprannominata "isola della pedofilia" o "isola delle orge". Il NYT propone il racconto dell' incontro del suo giornalista, James Stewart, con Epstein, che nel 2018 lo ricevette nella casa di Manhattan, sulla 71ma, di fronte alla Frick Collection. Nell'alloggio, c'erano foto del miliardario con l' erede al trono saudita Mohammed Bin Salman, Woody Allen, Clinton e molti altri: pareva più "un' ambasciata o un museo" che una casa. Epstein conosceva segreti, droghe e gusti sessuali di molti vip. I due dovevano parlare off the record della Tesla, l'azienda produttrice di vetture elettriche, perché correvano voci di collaborazione tra il finanziere ed Elon Musk. Ma Epstein disse poco sulla Tesla e molto sui suoi amici potenti, che conoscevano i suoi trascorsi - era già stato inquisito in Florida per pedofilia e induzione alla prostituzione - e non erano, quindi, imbarazzati a confidargli vizi e perversioni.

Jennifer contro le complici  di Epstein: «Io adescata  all’uscita del liceo». Pubblicato mercoledì, 14 agosto 2019 da Viviana Mazza su Corriere.it. «La prima volta che entrai nel palazzo di Jeffrey Epstein, nell’Upper East Side, nell’autunno del 2001, notai le telecamere di sicurezza e, all’interno, un piccolo monitor che mostrava le immagini. Ero una bambina di 14 anni, ma il messaggio mi fu chiaro: “Sei nella casa di una persona importante, ti osservano”. Ricordo la mia immagine riflessa in quello schermo mentre entravo nella casa di quello che si sarebbe rivelato un predatore, un pedofilo, il mio stupratore». Jennifer Araoz 32 anni, vive nel Queens: solo un mese fa ha trovato il coraggio di denunciare Epstein in un’intervista con la tv Nbc, e ieri ha scritto queste parole in una lettera pubblicata dal New York Times. Dopo l’apparente suicidio del finanziere accusato di traffico sessuale di minorenni (i secondini si sarebbero addormentati e non lo avrebbero controllato per tre ore secondo nuove indiscrezioni), la causa penale contro di lui si è chiusa, ma Araoz ieri è stata la prima delle decine di accusatrici a farsi avanti in una causa civile contro il patrimonio del finanziere e le sue complici, l’ex fidanzata Ghislaine Maxwell e altre tre donne («la segretaria, la cameriera e la reclutatrice»). Molte vittime la seguiranno, come hanno già annunciato gli avvocati: possono farlo grazie a una legge entrata in vigore proprio ieri nello Stato di New York, il Child Victims Act, che consente a chi ha subito abusi sessuali da minorenne di presentare denuncia fino all’età di 55 anni, anche se sono scaduti i termini della prescrizione. Fu una donna a «reclutare» Araoz davanti alla scuola superiore dell’Upper East Side dove studiava teatro. «Mi disse che voleva farmi conoscere un uomo ricco, che poteva presentarmi le persone giuste per la mia carriera. Quando confidai che avevo perso mio padre da poco e che la mia famiglia viveva di assistenza sociale, aggiunse che quell’uomo era molto attento e ci avrebbe aiutati». Una-due volte a settimana, cominciò a visitare il palazzo, una delle più grandi residenze private di Manhattan, visitata da principi, politici, scienziati dei quali Epstein sosteneva di conoscere i segreti (ora sulla sua isola privata sono stati sequestrati dei computer). All’inizio Araoz e il finanziere parlavano soltanto, poi la segretaria le dava 300 dollari «per la famiglia»; la seconda volta lui le regalò una macchina fotografica. Dopo un mese cominciò a chiederle di fargli dei massaggi, togliendosi la maglietta («Doveva vedere il suo corpo per aiutarla a trovare lavoro come modella»). «Mi sentii a disagio e intimidita ma feci quello che diceva». Col tempo, cominciò a toccarsi e a toccarla. Dopo un anno, quando lei rifiutò di fare sesso, la tenne ferma e la violentò. Araoz non tornò più in quella casa, cambiò anche scuola. Non ha mai incontrato Maxwell, ma la accusa di aver assistito il finanziere nel suo traffico sessuale, garantendogli sempre nuove ragazze e intimidendo possibili testimoni. Maxwell, che oggi ha 57 anni e che ha negato ogni colpa, non appare più in pubblico da tre anni, ma il Daily Mail pubblicava ieri immagini di una villa sulla costa del Massachusetts, dove vivrebbe con il nuovo compagno, dirigente di una società di tecnologia.

Epstein aveva nella sua casa un ritratto di Bill Clinton vestito da donna? Nella casa di Epstein sarebbe stata nascosta una foto che ritaeva Bill Clinton vestito da donna. Gli inquirenti stanno investigando su questa immagine che un visitatore della casa ha ripreso e poi venduto alla stampa. Roberta Damiata, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Dopo le lunghe perquisizioni nelle varie lussuosissime dimore del pedofilo suicida Jeffrey Epstein, sono venute alla luce cose molto particolari, oltre a decine e decine di immagini pedopornografiche. Una di queste è particolarmente bizzarra, sembra si tratti infatti di un ritratto fotografico di Bill Clinton vestito da donna. La foto raffigurerebbe l’ex presidente sdraiato su una sedia nell’Ufficio Ovale, con i tacchi a spillo rossi e in abito da donna blu che rievoca Monica Lewinsky che aveva indossato un abito blu durante il loro famigerato incontro alla Casa Bianca. Il ritratto è stato ritrovato fuori dalle scale della casa nell’Upper East Side. Era stato nascosto nella sontuosa casa da 56 milioni di dollari nell’ottobre del 2012 sette anni prima che Epstein venisse accusato di gestire un traffico di ragazze minorenni. Epstein e Clinton erano molto amici e l’ex presidente volava spesso sull’aereo privato del finanziere soprannominato il "Lolita Express". Clinton ha comunque negato di essere mai andato sull’isola del pedofilo, una dichiarazione che Donald Trump ha cercato di mettere in dubbio. Non si sa chi o quando sia stata scattata questa foto, ma è arrivata al Daily Mail che l’ha diffusa, tramite un visitatore della casa che aveva un appuntamento con il miliardario per un affare non andata poi a buon fine. La presenza di questa immagine apre un nuovo capitolo nel rapporto tra Clinton, la sua famiglia ed Epstein. Il mese scorso prima ancora che scoppiasse la “bomba mediatica”, l’ex presidente ha dichiarato di non aver mai saputo nulla dei crimini di Epstein e di aver fatto solo quattro viaggi con lui nel 2002 e nel 2003 sebbene i registri dei voli mostrassero che nel corso di quel periodo Clinton aveva usato l’aereo almeno 26 volte. Virgina Roberts, una delle ex schiave sessuali di Epstein, ha inoltre affermato di aver visto Clinton sull’Isola per una cena in suo onore poco dopo aver lasciato l’incarico da presidente. Dopo l’apparente suicidio di Epstein, Trump ha twittato che a suo parere i Clinton erano in qualche modo coinvolti nella morte del finanziere. Un’ulteriore prova è la presenza di Ghislaine Maxwell, la socia di Epstein, come ospite al matrimonio della figlia di Clinton Chelsea, avvenuto un anno dopo che Bill aveva affermato che il suo rapporto con Epstein era terminato.

Cosa c'è sull'"isola delle orge" di Jeffrey Epstein. La perquisizione in una delle dimore caraibiche di Jeffrey Epstein è stata effettuata. Le testimonianze narrano di dettagli macabri. Tra tutti, la presenza di un "tempio", forse utilizzato per violenze e restrizioni. Giuseppe Aloisi, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Jeffrey Epstein e l'"isola delle orge": non è il titolo di un film erotico, ma la sintesi di una tragedia che si sta allargando. Il finanziere è morto suicida il 10 agosto scorso. Almeno sino a prova contraria. Gli inquirenti non hanno intenzione di lasciare nulla d'intentato. Il caso, che coinvolge un membro della élite a stelle e strisce, scotta. Considerate le accuse, pesanti, relative agli abusi sessuali e al traffico di minori, non si può che fare luce sul passato. Le perquisizioni e le ricerche continuano. Spicca allora, tra le centinaia di dimore appartenenti al magnate, una villa caraibica. L'"isola delle orge" è una delle definizioni in voga in queste ore per descrivere quel contesto. L'altra è l'"isola dei pedofili". Perché Epstein non possedeva solo una reggia, ma tutto lo spazio geografico circostante. Un'isola intera, appunto. È lì, forse più che in altre parti, che l'Fbi spera di rinvenire qualche certezza che racconti qualcosa di decisivo sulla vita, e sui comportamenti sessuali, dell'imprenditore newyorkese. Gli organi deputati a farlo, tra cui soprattutto il Bureau, come raccontato su IlGiornale, indagano e da parecchio. E quello che sta emergendo dall'investigazione nell'abitazione sopracitata, quella sull'isola, non è usuale. Da quando i riflettori sono stati accesi sulle proprietà dei Caraibi, è possibile registrare qualche ulteriore elemento: su La Stampa di oggi c'è scritto che proprio in quel luogo, in una delle residenze più lussuose, Jeffrey Epstein "organizzava gli incontri criminosi, sfruttando ragazzine minorenni, finanche di 14 anni, come è emerso dalle testimonianze". Questo è il principale aspetto giudiziario. Poi ci sono i dettagli stilistici, come quello relativo al "tempio". Ma la vera domanda riguarda quello che avveniva lì dentro. C'è una tesi secondo cui il "tempio", una complesso architettonico cubico, venisse adoperato quale luogo di violenza e limitazione. Bisognerà verificare la veridicità dei racconti di chi ha deciso di parlare. Per ora si ha conoscenza di qualche minuzia. C'erano (ora è andato tutto distrutto) mura insonorizzate. Quello spazio, in apparenza, era riservato all'esecuzione musicale. Solo che in questo racconto c'è anche la presenza di una specie di presunto Caronte. Invece di traghettare le anime verso gli inferi, avrebbe avuto anche il compito di reperire in acqua le donne che azzardavano l'evasione da quella sorta di luogo di culto: Ghislaine Maxwell, la "strega cattiva" di Jeffrey Epstein. Infine le immagini di ragazze, pare minorenni, adagiate addosso alle pareti di questa proprietà. La vicenda sfiora il macabro. Pure Donald Trump sta chiedendo chiarezza.

DAGONEWS il 26 novembre 2019. Una serie di nuove inquietanti immagini mostrano la vita apparentemente tranquilla su Little Saint James, l’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Le foto, fornite dalla presunta vittima Chauntae Davies, mostrano Epstein che viene massaggiato sulle spalle dalla sua assistente Sarah Kellen che sorride alla macchina fotografica. In un’altra immagine un gruppo di cinque ragazze è in posa su uno sfondo idilliaco, mentre un altro scatto mostra l’ape regina Ghislaine Maxwell allo stesso tavolo dove il finanziere è stato immortalato mentre sfoglia dei documenti. E poi ancora immagini di ragazze, di stanze vuote piene di letti con dei baldacchini dove si consumava l’orrore. Non si sa quando e da chi siano state scattate le foto, ma Epstein ha acquistato l'isola nel 1998 per  7,95 milioni di dollari e Davies dice di essere sfuggita alle sue grinfie nel 2005. Davies, che ha lavorato come massaggiatrice di Epstein e come hostess sul suo aereo privato "Lolita Express", ha dichiarato di essere stata violentata dal miliardario sull'isola privata. «Mi ha preso un polso e lo pregavo di fermarsi, ma questo sembrava eccitarlo ancora di più. Dopo che mi ha stuprata sono stata due settimane a vomitare». E sull’amicizia di Epstein con il principe Andrea ha raccontato: «Ero a conoscenza del loro rapporto. Epstein si vantava di quella conoscenza e di aver prestato soldi alla duchessa. Era una tattica per mostrare il suo potere. Non era possibile non sapere quello che stava succedendo lì dentro».

Francesco Semprini per “la Stampa” il 14 agosto 2019. St. thomas (virgin islands) Lunedì mattina, attorno alle 10,30 locali, uno sciame di casacche blu è sbarcata su Little St. James muovendosi freneticamente a bordo di macchinette elettriche da una parte all' altra dell' isola. Senza sosta, per diverse ore. Erano gli agenti dell' Fbi inviati dalla Procura federale di New York, per setacciare da cima a fondo la magione caraibica di Jeffrey Epstein, il finanziere 66enne travolto da uno scandalo sessuale e accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, trovato morto impiccato alle 6,30 del mattino di sabato nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove era recluso in attesa del processo. È in questo atollo delle isole Vergini che il milionario organizzava gli incontri criminosi, sfruttando ragazzine minorenne, finanche di 14 anni, come è emerso da alcune testimonianze. Tanto da guadagnarsi il nome di «isola dei pedofili», o «isola delle orge». Il raid era volto a individuare la rete di complici, beneficiari e cospiratori ordita dal finanziare e dal suo braccio destro, la faccendiera britannica Ghislaine Maxwell. Gli stessi, forse, che hanno tramato, o quanto meno sperato, affinché Epstein la facesse finita portandosi nella tomba tutti i segreti dell' isola del peccato. Alcuni dei quali stanno emergendo da racconti e ricostruzioni di vittime e testimoni. Come Steve Scully, che ha lavorato come tecnico sull'isola di Epstein tra il 1999 e il 2006: racconta che alcune stanze della villa erano tappezzate di foto di ragazze in topless, in particolare lo sfarzoso studio del finanziere, la stanza da letto e la palestra, e che la magione era sovente popolata da giovani donne. «Non so se si trattasse di minorenni - dice - ma erano senz' altro molto giovani». Il finanziere «amico dei potenti», aveva acquistato l' isola situata tra St. Thomas e St. John nel 1998 per 7,95 milioni di dollari per costruire il suo covo destinato a ospitate «particolari» di amici in vista. Conta diversi edifici, due uffici personali, uno in cui il milionario «riceveva» le giovani ragazze, un altro dove conservava «misteriose» cassette di sicurezza blindate, tutte sequestrate dai federali, e due eliporti. La realizzazione più inquietante è però «il tempio», una struttura distaccata a forma di cubo dai motivi vagamente egizi, di colore bianco e blu e coperto da una cupola d' oro. Ufficialmente era nata come sala musicale, con pareti insonorizzate e un grande pianoforte al suo interno. Ma c' è chi ritiene che là dentro succedessero cose estreme, che fosse quello l' epicentro delle orge o addirittura la gabbia dorata, dove Epstein teneva segregate le minorenni non del tutto consenzienti. Forse in segrete sotterranee collegate alla cupola da un ascensore, che alcuni commercianti di St. Thomas confermano realizzato da Epstein una decina di anni fa. Certo è che - ed è questo l'altro aspetto inquietante - il tempio è stato spazzato via dagli uragani Ira e Maria e con esso i segreti al suo interno custoditi. A riportarne alla luce alcuni dettagli, tuttavia, sono le vittime del giro di sfruttamento praticato nell' inquietante isola caraibica. Sarah Ransome, che accusa il milionario di averla costretta ad avere rapporti con il noto avvocato Alan Dershowitz (lei era già ventenne allora) ha tentato di fuggire dall' isola a nuoto. A ripescarla e portarla in cattività sarebbe stata proprio la Maxwell, la «strega cattiva», che organizzava i traffici per conto del milionario, trasformando il paradiso caraibico in un cuore di tenebra per le giovanissime ragazze. La stessa accusatrice afferma che Lady Ghislaine le avrebbe sequestrato il passaporto per disincentivarla a scappare di nuovo, cosa che faceva abitualmente anche con le ragazze «ribelli». Stessa sorte è toccata a una ragazza svedese di soli 15 anni ridotta in cattività dalla strega. Gli abitanti di St. John ci raccontano che nel 2007, quando l' avvocato di Epstein stava patteggiando la pena che gli avrebbe permesso di evitare il carcere nell' ambito del primo processo, la maggior preoccupazione del milionario era avviare il prima possibile un'opera di ampliamento della villa per «garantire ai suoi ospiti maggiori comfort». Il finanziare aveva sviluppato una sorta di ossessione per quel posto, un piacere morboso e perverso. Tanto da raddoppiare nel 2016, acquistando un'altra isola, Great St. James, per 18 milioni di dollari. I lavori di costruzione dovevano iniziare quest'anno, ma una imprevedibile e singolare ingiunzione ha decretato la chiusura del cantiere lo scorso dicembre. Proprio da qui è partito l'uragano giudiziario destinato, dopo Epstein, a spazzare via complici e potenti dell' isola dei pedofili. 

Un "libro nero" con i segreti di Epstein. Vip e politici, mille contatti nell'agenda. I media: lasciato solo per ore. Valeria Robecco, Mercoledì 14/08/2019 su Il Giornale. New York Mille numeri di cui oltre 300 riportano al Regno Unito, inclusi 16 contatti di Andrea d'Inghilterra, figlio della regina Elisabetta, e 18 della sua ex moglie Sarah Ferguson. Sono i primi dettagli del «libro nero» di Jeffrey Epstein, il finanziere accusato di abusi, prostituzione e traffico di minori, trovato impiccato sabato nella sua cella del carcere di Manhattan. Dettagli che emergono all'indomani del blitz di decine di agenti dell'Fbi a Little St. James, l'isola privata nei Caraibi dove sono sbarcati in cerca di documenti, fotografie, video e computer. Anche l'agenda è nelle mani dell'Fbi, e fa tremare i potenti del mondo da un lato all'altro dell'Atlantico. Sulle sue pagine compaiono centinaia di email e numeri di telefono, tra cui i nomi di 301 personaggi tra i personaggi più ricchi e potenti della Gran Bretagna. C'è la star dei Rolling Stones Mick Jagger, l'ex premier Tony Blair, il patron del gruppo Virgin Richard Branson e l'ex top model Naomi Campbell. E ancora Earl Spencer, fratello della defunta principessa Diana e Rosa Monckton, la sua migliore amica. Del principe Andrea sono annotati 16 contatti tra cellulari e numeri fissi per le residenze di Sandringham e Balmoral, mentre 18 sono relativi a Sarah Ferguson, a cui Epstein avrebbe pagato un debito da 15 mila sterline. Nel «black book» sono inclusi anche i nomi di un centinaio di «reclute» nelle zone in cui si trovavano le sue proprietà, tra cui New York, Palm Beach e Parigi. Il New York Times, invece, fa sapere che nella casa di Epstein a Manhattan sono state trovate foto che lo ritraggono con il principe saudita Mohammed Bin Salman, l'ex presidente americano Bill Clinton, e il regista Woody Allen. Ma anche con tanti altri potenti, di buona parte dei quali conosceva segreti imbarazzanti, incluse le preferenze sessuali o l'uso di droga. Il giornalista del Nyt James Stewart, che lo aveva incontrato lo scorso anno nella sua abitazione, spiega che Epstein gli raccontò di come molti di loro si confidavano con lui, e disse che criminalizzare il sesso con le teenager era un'aberrazione culturale, visto che in altre epoche era perfettamente accettabile. Intanto emergono nuovi dettagli sulle ultime ore di vita del finanziere. Secondo il quotidiano newyorkese si è impiccato con un lenzuolo, che si sarebbe legato al collo fissandolo poi nella parte alta del letto a castello della sua cella. Essendo la struttura non particolarmente alta, per togliersi la vita si sarebbe inginocchiato. Inoltre, dai funzionari delle forze dell'ordine emerge che Epstein sarebbe stato lasciato solo per ore senza che nessuno lo controllasse, e uno dei due agenti preposti a farlo non era una guardia carceraria a tempo pieno, ma un sostituto.

Elvira Serra per il “Corriere della sera” il 13 agosto 2019. Ci sono tre nomi italiani nel «little black book», il piccolo libro nero rubato anni fa da un ex dipendente del finanziere americano Jeffrey Epstein e pubblicato nel 2015 dal sito di gossip Gawker. Sono quello dell' imprenditore Flavio Briatore, del magnate della ristorazione Giuseppe Cipriani e del fondatore e presidente di Investindustrial Andrea Bonomi. Figurano tra moltissimi altri, di cui il New York Magazine ha pubblicato un lungo elenco: tra loro il Principe Andrea, duca di York, Vittorio Assaf, patron di Serafina, garanzia del buon cibo a Manhattan, l'ex stratega della Casa Bianca Steve Bannon, l'ex primo ministro inglese Tony Blair. «Conobbi Epstein trent' anni fa a Parigi, nello showroom di Alberto Pinto, il mio decoratore», racconta al Corriere Briatore, per telefono da Monaco. «Non l' ho mai frequentato, né mai ci siamo rivisti fuori di lì. Magari ci siamo anche scambiati i numeri, quella volta, e di sicuro era il mio vecchio. Mai stato a una festa con lui e anche quando ci siamo conosciuti da Pinto parlando di case, arredamento, sedie e divani, non c' erano minorenni, l' ambiente era molto gay-friendly...». La presenza nella ricca rubrica di Epstein, morto il 10 agosto in carcere dopo l' incriminazione per traffico sessuale di minorenni, non indica al momento collegamenti con i fatti che gli erano contestati, ma dà piuttosto l' idea della variegata ramificazione dei suoi contatti, forse nemmeno tutti attivi.

DAGONEWS il 13 agosto 2019. Una serie di foto scattate in Costa Azzurra in Costa Azzurra smentiscono Flavio Briatore che aveva sostenuto di aver avuto un rapporto superficiale con Jeffrey Epstein. Le immagini, in cui compaiono anche Ghislaine Maxwell e una delle accusatrici del finanziere, Virginia Roberts, sono state scattate il 19 maggio 2001 al compleanno di Naomi Campbell. Come scrive il Mirror, i legali della modella hanno negato ogni legame con il miliardario, aggiungendo che Epstein era stato inviato da quello che allora era il suo fidanzato, Flavio Briatore. Roberts ha raccontato di essere volata in Costa Azzurra con Epstein e Maxwell sul jet privato del finanziere e di aver partecipato alla festa di Naomi, a bordo dello yacht di lusso "Lady in Blue”. Alla festa era presente anche l'ex stella della Formula 1 Eddie Jordan. «Ero così eccitato, stavamo andando in Francia per la festa di una cara amica di Jeffrey e Ghislaine, la famosa top model Naomi Campbell – ha raccontato Virginia Roberts - È lì che ho incontrato Naomi Campbell per la prima volta. Indossava un top e una minigonna traforata. Era così alta e straordinariamente bella. Il suo carisma era travolgente e tutti ridevano alle sue battute. Ghislaine e Jeffrey l’hanno baciata sulle guance e le hanno augurato un felice compleanno. È stata una festa divertente, tutti i presenti hanno cantato "Happy Birthday" a Naomi e quando siamo tornati in macchina per ritirarci per la notte, ero stanca: avevo ballato e bevuto tutta la sera». Virginia ha aggiunto che subito dopo la serata, in albergo Epstein la “prestò” a un uomo d'affari americano: «Ho compiuto un atto sessuale su di lui solo per zittirlo. È durato per due orribili minuti».

Francesco Semprini per “la Stampa” il 13 agosto 2019. Bill Clinton si recò diverse volte nell' atollo dei Caraibi di proprietà di Jeffrey Epstein, conosciuta dalla gente del posto come l'«isola dei pedofili», perché era lì che il finanziere «amico dei potenti» organizzava i festini in cui massaggiatrici minorenni da lui pagate intrattenevano illustri ospiti del jet set a stelle e strisce. A rivelarlo sono i documenti dell' inchiesta desecretati il 9 agosto, ovvero il giorno prima del presunto suicidio del milionario in attesa di giudizio. Il faldone di 2024 pagine contiene parte degli atti giudiziari del procedimento di cui è titolare la Corte di appello degli Stati Uniti competente per il secondo circuito, relativo alla città di New York. Caso classificato come «18-2868», in cui l' attore è Virginia Roberts Giuffre, la testimone chiave che ha raccontato di essere stata costretta nel 2001, quando era minorenne, ad avere rapporti sessuali con Epstein e altri personaggi che gravitavano nella cerchia di amicizie del finanziere. Gli atti resi pubblici, infatti, riportano in buona parte dichiarazioni rese dalla super-testimone nel 2016. Alla sbarra degli imputati invece c' è Ghislaine Maxwell, la fedelissima di Esptein, faccendiera britannica che gestiva parte degli affari del suo capo, come i rapporti con le massaggiatrici e i trasferimenti dei Vip a Little St. James, isola delle «Virgin» dove si trova una delle magioni del finanziere. È intorno a questa eminenza grigia che si articola gran parte dell' inchiesta, in quanto è lei la custode di affari e segreti che probabilmente il 66 enne finanziere ha tentato di portare con se nella tomba. O che qualcuno, secondo la teoria del complotto, ha provato a seppellire con lui. È la stessa Maxwell, secondo le dichiarazioni della Giuffre riportate dai magistrati nelle carte, che andò a prendere Bill Clinton per portarlo sull' isola «a bordo di un mega elicottero nero che Esptein le aveva regalato». La allora 17 enne massaggiatrice - i fatti si riferiscono al 2001- era stata a sua volta portata sull' isola dallo stesso finanziere a bordo del suo jet «Lolita Express» per intrattenere gli illustri ospiti che di lì a poco sarebbero sbarcati. Ben inteso, la Giuffrè non ha visto la Maxwell andare a prendere l' ex presidente ma era stata la stessa faccendiera a dirglielo. «Mi ha raccontato un sacco di cose troppo vere o troppo offensive per essere vere, ma uno non sa mai cosa pensare». Giuffre conferma inoltre di aver viaggiato sull' aereo di Epstein con Clinton e a bordo c' erano anche gli agenti del secret service (la sicurezza delle istituzioni Usa) «ma non si trovavano dove eravamo noi a consumare il pranzo». La donna non accusa l'ex presidente di aver tenuto alcun tipo di condotta sessuale con lei o con «noi», facendo riferimento al gruppo di ragazze che Epstein utilizzava per gli incontri sessuali. E non fornisce dettagli sul perché Clinton si trovasse sull' isola, sebbene confermi che nel 2001 il finanziere organizzò una cena a Little St. James per celebrare la fine del secondo mandato dell' allora inquilino della Casa Bianca, quindi proprio nel 2001. E lo stesso ex presidente ammette di essere stato quattro volte sull' isola con Esptein, ma nell' ambito di una serie di eventi filantropici per la Clinton Foundation. Maxwell da parte sua bolla come menzogne create ad arte le dichiarazioni di Giuffre e lo stesso avvocato della ex massaggiatrice tiene a precisare che non ci sono elementi per sostenere che l' ex presidente si sia reso autore di qualsivoglia misfatto. Rimane il legame tra Maxwell e il clan Clinton tanto che Ghislaine era nelle prime file al matrimonio di Chelsea organizzato a Rhinebeck, il 31 luglio 2010. Sebbene la rampolla di Bill e Hillary si affretti a smentire qualsiasi relazione con la cittadina britannica, il giornale Politico conferma come la donna avesse un legame stretto con la famiglia. Accuse vere e proprie, invece, sono quelle contenute negli atti in cui Giuffre dice di essere stata abusata dal noto avvocato Alan Dershowitz, mentre per ordine di Epstein aveva dovuto intrattenere relazioni sessuali con l' ex governatore del New Mexico Bill Richardson e l' ex senatore degli Stati Uniti George Mitchell. Tutti e quattro gli uomini negano categoricamente. Ad abusare di lei, risulta dalle carte della sua testimonianza, fu inoltre il principe Andrea, figlio della Regina Elisabetta, che approfittò della giovane massaggiatrice tre volte in tre luoghi diversi. E dietro quegli «incontri pericolosi» c' era ancora la mano della «fedelissima» Maxwell. E mercoledì prossimo parte la prima causa civile intentata da una ragazza che sostiene di essere stata violentata da Epstein quando aveva 15 anni. Questa potrebbe essere la prima di una lunga serie di azioni legali da parte di decine di vittime che contano ora di rifarsi sul patrimonio del miliardario che avrebbe lasciato una fortuna di oltre 559 milioni di dollari.

Epstein, dalle ville all’attico  a Parigi: tutti i luoghi degli abusi. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019  Viviana Mazza, inviata a New York, su Corriere.it. Jeffrey Epstein comprò Little St. James, una delle Isole Vergini, per 7,98 milioni, nel 1998. La chiamava Little St. Jeff’s, a riprova della sua megalomania — racconta Virginia Giuffre, che lo ha accusato di traffico sessuale di minorenni. È diventata nota come «l’isola della pedofilia» o «delle orge». Mentre emergono nuovi dettagli sull’apparente suicidio del finanziere, avvenuto il 10 agosto, nel carcere di Manhattan (si sarebbe impiccato con il lenzuolo fissato alla sommità del letto a castello), gli agenti dell’Fbi perquisiscono l’isola alla ricerca di prove: secondo Giuffre e altre accusatrici, era il luogo principale — non l’unico — in cui le ragazze minorenni venivano portate per compiacere Epstein e i suoi potenti amici. Tra i visitatori, sono stati fatti i nomi di Les Wexner, il proprietario di Victoria’s Secret e l’ex premier israeliano Ehud Barak (che conferma di esserci stato, ma senza vedere minorenni). Il presidente Donald Trump, che fu amico di Epstein, ha detto ieri di volere «un’indagine completa», e ha ripetuto ai giornalisti: «Bill Clinton è andato sull’isola? Questa è la domanda». Nel 2011 Giuffre disse ai suoi avvocati di aver visto Clinton, affiancato a «due brunette», sull’isola. «Ricordo di aver chiesto a Jeffrey: “Cosa ci fa lui qui ?”. Rise e rispose: “Bé, mi deve un favore”». Nelle carte recentemente rese pubbliche, si leggono due diverse ricostruzioni: nella prima Bill flirtava con le due ragazze, nella seconda «non sembrava interessato». L’ex presidente dice di non essere mai stato né a Little St. James, né al ranch di Epstein, né nella sua villa in Florida. Little St. James (insieme a un’altra isola vicina, Great St. James, comprata nel 2016) fa parte della costellazione di proprietà milionarie di questo insegnante di matematica diventato misteriosamente straricco. L’arcipelago Epstein va dall’Upper East Side di Manhattan all’Arco di Trionfo di Parigi. Sulla 71esima strada, nella Grande Mela, sorge la sua townhouse da 77 milioni di dollari che sembra un’ambasciata; sulla 66esima il palazzone bianco intestato alla società immobiliare di suo fratello Mark che, secondo una ex contabile dell’agenzia di modelle MC2, era la prigione dorata per minorenni fatte arrivare dall’estero. Il co-fondatore di MC2 Jean Luc Brunel ha negato d’essere coinvolto sia nel traffico che nelle orge (e ha denunciato Epstein per danni d’immagine); la procura di Parigi sta verificando, scrive il giornale Mediapart. Epstein e l’amica Ghislaine Maxwell — accusata di reclutare le ragazze ma anche di abusarne sessualmente — volavano nella villa di Palm Beach in Florida, piena di tavoli per massaggi, e nel suo «ranch di Zorro» a Santa Fe, dove Epstein rivelò ad amici scienziati di sognare di mettere incinte una ventina di donne per diffondere il suo Dna. Quand’è stato arrestato, il 6 luglio, all’aeroporto in New Jersey, Epstein rientrava da Parigi dove ha un appartamento al 22 di Avenue Foch. I registri di volo — incompleti — dimostrano questi spostamenti. Ma l’Fbi potrebbe scoprire di più. Una fonte dice a Vanity Fair che tutto ciò che accadeva su Little St. James veniva ripreso, per ricattare gli ospiti.

Da La Stampa il 16 agosto 2019. Vestita con una felpa celeste, senza trucco, seduta a un tavolino all'aperto di un fast food di Los Angeles. È stata rintracciata e fotografata la «madama del crimine», Ghislaine Maxwell, l'amica e ex compagna di Jeffrey Epstein, sospettata di essere stata l'organizzatrice del traffico sessuale di ragazze minorenni che aveva portato in carcere il finanziere newyorkese, morto sabato in cella in un caso di apparente suicidio. Il New York Post ha pubblicato la foto in esclusiva. Maxwell, 57 anni, stava mangiando burger e patatine. Sul tavolo anche un libro inchiesta sulla Cia: «The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of Cia Operatives». Sorpresa dal fotografo, la donna avrebbe commentato: «Bene, immagino che questa sarà la mia ultima volta che vengo qui». Era dal 2016 che l'amica di Epstein, una delle protagoniste dei salotti newyorkesi, conoscente di Trump, dei Clinton e del principe Andrea, non veniva fotografata in pubblico. Secondo una delle accusatrici, era stata lei a gestire il reclutamento delle ragazze per conto del finanziere accusato di pedofilia e a dirottarle nei vari incontri, tra l'appartamento di Manhattan e la residenza di Palm Beach, vicino al resort di Trump a Mar-a-Lago. In un'occasione Maxwell avrebbe cercato di forzare una studentessa svedese di 15 anni, a cui aveva sequestrato il passaporto, ad avere rapporti sessuali con Epstein.

Testo di James B. Stewart pubblicato da “la Repubblica” il 15 agosto 2019. - New York Times News Service Traduzione di Luis E. Moriones. Quasi esattamente un anno fa, il 16 agosto 2018, andai a trovare Jeffrey Epstein nella sua immensa residenza di Manhattan. Al termine della nostra conversazione, durata circa 90 minuti, la cosa che più mi colpì fu che Epstein conoscesse un' incredibile quantità di persone ricche, famose e potenti, e che aveva fotografie che lo dimostravano. Sosteneva di sapere tante cose su queste persone, anche potenzialmente dannose o imbarazzanti, come dettagli sulle loro presunte tendenze sessuali e sul loro consumo di droghe a scopo ricreativo. Quando ho saputo del suicidio di Epstein, uno dei miei primi pensieri è stato che molti uomini importanti e anche alcune donne devono aver tirato un sospiro di sollievo: qualsiasi cosa sapesse, Epstein se l'è portata con sé nella tomba. Durante la nostra conversazione, Epstein non fece mistero del suo scandaloso passato - si era dichiarato colpevole di aver indotto alla prostituzione delle ragazze minorenni ed era schedato come autore di reati sessuali - e riconosceva di essere un paria nella buona società. Allo stesso tempo, non mi sembrò pentito. La sua notorietà, mi disse, aveva reso tante persone disposte a fidarsi di lui. Tutti hanno dei segreti, mi fece notare, anche se, rispetto ai suoi, sembravano innocui. La gente si confidava con lui tranquillamente, senza provare imbarazzo. Non avevo mai incontrato Epstein prima di allora. L'avevo contattato perché avevo sentito dire che stava prestando una consulenza a Elon Musk, l' amministratore delegato di Tesla, allora in difficoltà. Quando lo contattai, Epstein mi concesse subito un' intervista. Insistette perché ci incontrassimo a casa sua, di cui avevo sentito dire che era la più grande abitazione monofamiliare di Manhattan. È molto probabile: in un primo momento, passai senza fermarmi davanti all' edificio, sulla 71esima Strada Est, perché sembrava più un' ambasciata o un museo che una casa privata. Accanto alle imponenti doppie porte c' era una targa in ottone lucido con le iniziali "J.E." e un campanello. Suonai e mi aprì la porta una ragazza, che mi salutò con un accento probabilmente dell' Europa dell' Est. Non saprei dire quanti anni avesse, ma era poco più che adolescente, forse una ventina. Dato il passato di Epstein, la cosa mi colpì come un po' troppo compromettente. Perché Epstein poteva volere che la prima impressione di un giornalista fosse quella di una ragazza molto giovane che gli apriva la porta di casa? La ragazza mi fece strada. Salimmo una scala monumentale che ci condusse fino a una stanza al secondo piano che si affaccia sul museo Frick, dall'altra parte della strada. Era una stanza silenziosa, con una luce tenue e l' aria condizionata molto bassa. Qualche minuto dopo, entrò Epstein. Indossava un paio di jeans e una polo. Mi diede la mano e mi disse di essere un mio grande ammiratore. Aveva un grande sorriso e dei modi affabili. Era snello e pieno di energia, forse per tutto lo yoga che mi disse di praticare. Era indiscutibilmente carismatico. Prima di lasciare la stanza, mi mostrò una parete piena di fotografie incorniciate. Mi indicò un' immagine a figura intera di un uomo in abito tradizionale arabo. «Questo è MBS», disse, riferendosi a Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell' Arabia Saudita. Epstein disse che il principe ereditario era andato a trovarlo molte volte, e che si sentivano spesso. Mi portò in una grande stanza sul retro della casa. C' era un grande tavolo con una ventina di sedie. Epstein si sedette a capotavola e io alla sua sinistra. Aveva, a destra, un computer, una lavagnetta e un telefono. Mi disse che stava facendo alcune operazioni in valuta estera. Dietro di lui c'era un tavolo pieno di fotografie. Ne notai una di Epstein con l' ex presidente Bill Clinton, e un' altra di lui con il regista Woody Allen. Anche il fatto che esibisse fotografie di persone celebri a loro volta implicate in scandali sessuali mi sembrò strano. Epstein evitò di fornirmi dettagli sul suo lavoro per Tesla. Mi disse che se si fosse saputo che prestava la sua consulenza a quella compagnia, avrebbe dovuto smettere di farlo, perché era "radioattivo". Disse che ci si era abituato, anche se questo non impediva alle persone di andare a trovarlo, di venire alle sue cene o di chiedergli dei soldi. Se su Tesla si mostrava reticente, non aveva problemi a parlare del suo interesse per le ragazzine. Mi disse che criminalizzare il sesso con le adolescenti era un'aberrazione culturale e che in certi periodi storici era del tutto normale. Fece notare che l'omosessualità era stata a lungo considerata un crimine ed era ancora punibile con la morte in alcuni Paesi del mondo. Circa una settimana dopo quell'intervista, Epstein mi chiamò per andare a cena, il sabato dopo, con lui e Woody Allen. Gli dissi che sarei stato fuori città. Qualche settimana dopo, mi invitò a cenare con lui, lo scrittore Michael Wolff e l'ex consigliere di Donald Trump, Steve Bannon. Declinai l' invito. Passarono diversi mesi. Poi, all'inizio di quest'anno, Epstein mi chiamò per chiedermi se fossi interessato a scrivere la sua biografia. Sembrava quasi supplicarmi. Mi resi conto che quello che cercava veramente era compagnia. Come suo biografo, avrei dovuto passare ore ad ascoltare la sua storia. Non volendo più avere a che fare con lui, mi sentii sollevato dal fatto di potergli dire che ero già impegnato con un altro libro. Fu l' ultima volta che lo sentii. Dopo il suo arresto e il suo suicidio, mi chiedo: che cosa avrebbe potuto raccontarmi?

Epstein, l’autopsia aumenta  i misteri: «Rotto l’osso ioide,  è tipico degli strangolamenti». Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Viviana Mazza su Corriere.it. Il Washington Post ha pubblicato oggi i risultati dell’autopsia sul corpo di Jeffrey Epstein, il broker miliardario di 66 anni accusato di decine di abusi sessuali su minorenni, trovato senza vita in cella a New York lo scorso sabato. E sono risultati che, scrive il quotidiano della capitale statunitense, «aumentano le domande sulle circostanze della morte». Il punto nodale della relazione dei medici (sono due, in particolare, le fonti del Post, che hanno chiesto l’anonimato) è legato alla rottura di alcune ossa nel collo di Epstein: in particolare dell’osso ioide, che negli uomini si trova vicino al pomo d’Adamo. Secondo gli esperti citati dal Post, questo tipo di frattura può avvenire in caso di impiccagione, specie se a compierla è una persona non più giovane; ma sono «più comuni in vittime di omicidio per strangolamento». Sulle circostanze della morte di Epstein sono aperte due indagini, una delle quali guidata dall’Fbi, e sono fiorite molteplici teorie del complotto. Il miliardario conosceva infatti decine di persone famose e importanti — a partire dall’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e dall’ex presidente Bill Clinton, per arrivare a Woody Allen e al principe saudita Mohammed Bin Salman; al giornalista del New York Times James Stewart aveva detto di conoscere i segreti di molti di loro. Secondo quanto riportato ieri dai quotidiani statunitensi, i secondini del carcere di massima sicurezza in cui Epstein era rinchiuso si sarebbero addormentati e non lo avrebbero controllato per tre ore. Ieri, sul Times, Jennifer Araoz, oggi 32enne, ha annunciato di aver aperto una causa civile contro il patrimonio del finanziere e le sue complici, l’ex fidanzata Ghislaine Maxwell e altre tre donne («la segretaria, la cameriera e la reclutatrice»).

Usa, Epstein: l'autopsia rivela fratture multiple delle ossa del collo. Ma non chiarisce il giallo della sua morte. Raid Fbi in isola Caraibi, sequestrati computer. Prima causa contro patrimonio del finanziere: la denuncia anche contro la socia Ghislaine Maxwell. La Repubblica il 16 agosto 2019. Jeffrey Epstein aveva "fratture multiple delle ossa del collo". È il risultato dell'autopsia sul corpo del finanziere newyorkese trovato in fin di vita sabato mattina nella cella del carcere federale di Manhattan, dove era rinchiuso con l'accusa di traffico sessuale di ragazze minorenni. Una volta trasferito in ospedale, Epstein era stato dichiarato morto. Dall'autopsia risulterebbe la frattura dell'osso ioide, che si trova alla radice della lingua, vicino al pomo d'Adamo. Questo tipo di frattura, secondo gli esperti consultati dal Washington Post, si verifica quando una persona si impicca o viene strangolata. Il risultato non chiarisce se il finanziere sia davvero morto suicida o sia stato ucciso. Epstein era rinchiuso da solo in cella e posto sotto stretta sorveglianza, ma la notte tra venerdì e sabato ci sarebbero state "gravi irregolarità" nel servizio, come ha detto il ministro della Giustizia, William Barr: i due secondini, sovraccaricati da cinque giorni di fila di straordinari, si sarebbero addormentati. Sulla morte del finanziere sono in corso tre indagini: una della Fbi, una del ministero della Giustizia e il terzo da parte del municipio di New York. Il direttore del carcere è stato rimosso, i due secondini sospesi in via cautelare.

Raid Fbi in isola Caraibi, sequestrati computer. Al setaccio degli agenti dell'Fbi la villa nell'isola privata di Epstein, nelle Virgin Islands americane, dove nelle ultime ore è scattato un raid a caccia di prove sui festini che il finanziere americano organizzava con amici e ragazze minorenni. I federali su Little St. James - secondo quanto si evince dalle immagini riprese dall'alto da un drone - avrebbero trovato e sequestrato alcuni computer ed altro materiale che potrebbe risultare utile alle indagini. Indagini che vanno avanti nonostante il suicidio del finanziere.

Prima causa contro patrimonio del finanziere. Una donna che ha accusato Epstein di sfruttamento e abusi sessuali ha presentato presso il tribunale di New York la prima causa civile che potrebbe aprire la strada a decine di azioni legali. La causa è intentata contro il patrimonio del finanziere suicida che ammonterebbe ad almeno 550 milioni di dollari. La vittima, Jennifer Araoz, 32 anni, fu adescata dalla rete di Epstein quando aveva 14 anni fuori dalla scuola e - secondo il suo racconto - fu abusata e violentata dall'età di 15 anni. La denuncia di Araoz anche contro la socia di Epstein, Ghislaine Maxwell. L'ereditiera britannica Maxwell ha più volte negato ogni coinvolgimento con il giro di prostituzione di minorenni che Epstein aveva organizzato per sé e per i suoi amici.

Epstein, l'autopsia conferma il suicidio. Rintracciata la sua complice Ghislaine Maxweel. Fugati i dubbi sulle cause della morte. Fotografata in un fast food la donna che, secondo le accuse, avrebbe gestito il reclutamento delle ragazzine. Raid dell'Fbi nei Caraibi, sequestrati i computer del finanziere. La Repubblica il 16 agosto 2019. Jeffrey Epstein si è suicidato impiccandosi. E' il responso dell'autopsia condotta sul corpo dell'ex miliardario travolto dalle accuse di traffico sessuale di minori. Sarebbero dunque fugati i dubbi sulle cause della morte del finanziere, dal momento che le ferite constatate sul suo collo erano compatibili anche con lo strangolamento. Epstein era rinchiuso da solo in cella e posto sotto stretta sorveglianza, ma la notte tra venerdì e sabato ci sarebbero state "gravi irregolarità" nel servizio, come ha detto il ministro della Giustizia, William Barr: i due secondini, sovraccaricati da cinque giorni di fila di straordinari, si sarebbero addormentati. Sulla morte del finanziere sono in corso tre indagini: una della Fbi, una del ministero della Giustizia e il terzo da parte del municipio di New York. Il direttore del carcere è stato rimosso, i due secondini sospesi in via cautelare.

Ritrovata la sua complice. Ghislaine Maxwell, la donna accusata di essere la complice di Jeffrey Epstein nel gestire un traffico di minorenni e di sfruttamento della prostituzione minorile, è stata "scovata" e fotografata in un fast food di Los Angeles. Nell'immagine, pubblicata in esclusiva dal New York Post, la 57enne britannica è seduta da sola all'esterno del locale mentre mangia hamburger e patatine, vestita con una felpa celeste, senza trucco. E legge un libro sulla Cia: "The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of Cia Operatives". Sorpresa dal fotografo, la donna avrebbe commentato: "Bene, immagino che questa sarà la mia ultima volta che vengo qui". Ghislaine Maxwell si era resa irreperibile ed era dal 2016 che la donna una volta protagonista dei salotti newyorkesi, conoscente di Trump, dei Clinton e del principe Andrea, non veniva fotografata in pubblico. Secondo una delle accusatrici, era stata lei a gestire il reclutamento delle ragazze per conto di Epstein accusato di pedofilia e a dirottarle nei vari incontri, tra l'appartamento di Manhattan e la residenza di Palm Beach, vicino al resort di Trump a Mar-a-Lago. In un'occasione Maxwell avrebbe cercato di forzare una studentessa svedese di 15 anni, a cui aveva sequestrato il passaporto, ad avere rapporti sessuali con Epstein.

Raid Fbi in isola Caraibi, sequestrati computer. Al setaccio degli agenti dell'Fbi la villa nell'isola privata di Epstein, nelle Virgin Islands americane, dove nelle ultime ore è scattato un raid a caccia di prove sui festini che il finanziere americano organizzava con amici e ragazze minorenni. I federali su Little St. James - secondo quanto si evince dalle immagini riprese dall'alto da un drone - avrebbero trovato e sequestrato alcuni computer ed altro materiale che potrebbe risultare utile alle indagini. Indagini che vanno avanti nonostante il suicidio del finanziere.

Prima causa contro patrimonio del finanziere. Una donna che ha accusato Epstein di sfruttamento e abusi sessuali ha presentato presso il tribunale di New York la prima causa civile che potrebbe aprire la strada a decine di azioni legali. La causa è intentata contro il patrimonio del finanziere suicida che ammonterebbe ad almeno 550 milioni di dollari. La vittima, Jennifer Araoz, 32 anni, fu adescata dalla rete di Epstein quando aveva 14 anni fuori dalla scuola e - secondo il suo racconto - fu abusata e violentata dall'età di 15 anni. La denuncia di Araoz anche contro la socia di Epstein, Ghislaine Maxwell. L'ereditiera britannica Maxwell ha più volte negato ogni coinvolgimento con il giro di prostituzione di minorenni che Epstein aveva organizzato per sé e per i suoi amici. La procacciatrice del miliardario pedofilo è stata intercettata dal New York Post in un fast food di Los Angeles. Seduta da sola, ha risposto al fotografo: "Beh, immagino che questa sia l'ultima volta che mangerò qui!"

L' avvocato del diavolo e la star dell'antitrust: sfida tra big del diritto. Viviana Mazza per "il Corriere" il 16 agosto 2019. New York Sono due degli avvocati più brillanti d' America. David Boies, ha vinto la più famosa battaglia antitrust contro Microsoft. Alan Dershowitz ha rappresentato personaggi controversi, da Claus von Bülow a O.J. Simpson, affiggendo con orgoglio alla porta del suo ufficio di professore emerito a Harvard i messaggi d' odio che riceveva. Nel 2008, quando Epstein si dichiarò colpevole di incitamento alla prostituzione di minorenni in Florida scontando 13 mesi ed evitando pene federali peggiori, Dershowitz era il suo avvocato. Ora, nella maturità dei rispettivi 78 e 80 anni, anziché godersi i frutti delle loro strepitose carriere, i due giganti del Foro si ritrovano coinvolti nel caso Epstein, uno contro l' altro, a colpi di denunce e apparizioni tv. Boies rappresenta Virginia Giuffre, che ha accusato Epstein di averla trasformata in schiava sessuale e «prestata» ai suoi amici, tra cui Dershowitz. Lui nega strenuamente, sostenendo che Giuffre è una «bugiarda patologica» e che lo fa per denaro, spinta da Boies e dal suo team di avvocati (che lo hanno denunciato per diffamazione). Dershowitz ha assunto un ex direttore dell' Fbi per investigare sulle accuse fatte da Giuffre a Bill Clinton e dimostrare che l'ex presidente non poteva trovarsi sull' isola di Epstein nei giorni da lei indicati, in modo da smontarne la credibilità. Inoltre, nelle ultime carte rese pubbliche, c'è un'email della giornalista del Daily Mail Sharon Churcher, che consiglia a Giuffre di «non dimenticare Alan Dershowitz, amico e avvocato di JE (Jeffrey Epstein, ndr )sospettiamo tutti sia un pedofilo, probabilmente l' hai conosciuto». Per Dershowitz è la prova che la testimonianza sia stata manipolata. Negli ultimi anni, il professore di Harvard ha cercato sia di persuadere Boies di essere innocente (ha segretamente registrato una loro telefonata in cui l' avvocato di Giuffre sembra dire che la donna si sbaglia) sia di attaccarne l' integrità: nel 2017 Boies rappresentava sia il produttore Harvey Weinstein che il New York Times (che indagava sugli abusi sessuali di Weinstein) e assunse ex agenti del Mossad per spiare i reporter e le vittime. Dershowitz è stato preso di mira per le sue idee sul sesso con i minori: in un articolo del 1997 sul Los Angeles Times sostenne che «devono esserci sanzioni penali se si tratta di bambini, ma è dubbio se debbano applicarsi ad adolescenti dopo la pubertà: il sesso volontario è comune». Ma nel 2015 ha detto che il caso Epstein fu «molto difficile e doloroso: avevo davanti delle vittime vere, sostengo fermamente MeToo. Ma come legale sono obbligato a difendere i diritti dell' accusato». Ora che Epstein è morto le cose potrebbero complicarsi: le vittime spostano l'attenzione sui complici e «l'avvocato del diavolo» potrebbe finire in tribunale. Non vede l' ora: «Potrò finalmente provare la mia innocenza».

La rete dell'ex finanziere arriva a Parigi: caccia all' agente delle modelle. Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 16 agosto 2019. Quando il 6 luglio scorso Jeffrey Epstein venne arrestato all' aeroporto di Teterboro, nel New Jersey, era appena atterrato con il suo jet privato in arrivo da Parigi, dove aveva trascorso tre settimane. Da una ventina d' anni il miliardario frequentava assiduamente la capitale francese, dove possedeva un appartamento di 2.300 metri quadrati, al 22 di Avenue Foch, uno dei quartieri più esclusivi. Nella sua agenda si ritrovano vari contatti francesi: imprenditori del digitale, frequentatori del jet set, architetti d' interni, perfino una sezione «massaggi». E lui, Jean-Luc Brunel. Rampollo di una famiglia abbiente parigina, oggi sulla settantina, Brunel aveva già fondato un' agenzia di modelle nella capitale alla fine degli Anni 70, dove è noto come un festaiolo agguerrito. Avrebbe conosciuto Epstein intorno al 2000 e nel 2004 a Miami fondò, anche con il sostegno finanziario del miliardario, una nuova agenzia, la MC2. Negli ultimi tempi, Brunel ha fatto di tutto per sminuire tale amicizia e da qualche giorno è scomparso. Ma proprio Virginia Roberts Giuffre, che oggi ha 36 anni, una delle principali accusatrici di Epstein, già nel 2015 alla giustizia americana indicò Brunel come «uno dei principali fornitori di ragazze» del miliardario. «Ne portava negli Stati Uniti - ha detto -, anche di 12 anni di età, per poi concederle ai suoi amici, Epstein compreso». I fatti si riferiscono agli anni Duemila e la «fornitura» riguardava pure i periodi trascorsi da Espstein in Francia. Poi, sono emerse testimonianze sugli stupri di Brunel. L' olandese Thysia Huisman aveva appena compiuto 18 anni, quando nel 1991 sbarcò, aspirante modella, a Parigi. Brunel insistette molto per portarsela a letto. Lei rifiutava ma «un giorno mi ha offerto un bicchiere, dove aveva messo della droga. Io ho ceduto e mi ha violentata», ha dichiarato al sito Mediapart. Da poco la polizia francese e quella americana hanno iniziato a collaborare sulla connessione Brunel-Epstein, ma non è ancora stata aperta formalmente un' inchiesta.

Valeria Robecco per Il Giornale il 16 agosto 2019. «Arrivava con il suo jet privato e insieme a lui c'erano sempre delle ragazzine, erano giovanissime, penso non avessero più di 16 anni. Poi prendeva l'elicottero per andare a Little St. James. Qui lo vedevamo circa due volte al mese». È un dipendente dell'aeroporto di St. Thomas, primo approdo per chi giunge sulle Virgin americane, a ricordare le sortite di Jeffrey Epstein sull'«isola dei pedofili». Dice solo di chiamarsi Richard, e spiega che il finanziere accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori trovato impiccato sabato nella sua cella a Manhattan, dove era rinchiuso in attesa del processo, ostentava le giovani accompagnatrici. Ogni volta che atterrava con il suo «Lolita Express», gli addetti si chiedevano quante ragazzine si sarebbe portato, ma sulla loro presenza in tanti sorvolavano, grazie alle laute mance. E le bocche rimanevano cucite anche al porto, dove in altre occasioni le giovani venivano trasportate nell'«isola delle orge» sulla «Lady Ghislaine», una barca di 12 metri che portava lo stesso nome dell'anima gemella e presunta maitresse di Esptein, la socialite britannica Ghislaine Maxwell. Il finanziere nell'arcipelago ha tessuto negli anni una rete di omertà, e tanti residenti anche ora non vogliono parlare di lui. Il 9 luglio scorso, invece, la delegata delle US Virgin Island al Congresso, Stacey Plaskett, ha dichiarato che avrebbe effettuato versamenti corrispondenti alle donazioni ricevute da Epstein per le organizzazioni del suo distretto dedicate a donne e bambini. «Mi sento a disagio ad aver avuto denaro da qualcuno accusato di queste azioni», ha spiegato Plaskett. Ma pure tra gli abitanti c'è chi accetta di raccontare ciò che sa dell'atollo del peccato. Little St. James, tra le due isole maggiori di St. Thomas e St. John, è un paradiso privato di 29 ettari in mezzo alle acque cristalline dei Caraibi, che il finanziere comprò nel 1998 per 7,95 milioni di dollari. Negli anni successivi ha speso altri milioni per far costruire strade, una residenza principale con il tetto turchese che svetta dal mare, un altro paio di strutture per gli ospiti, piscina, e due eliporti. Nei due uffici personali, dove c'erano le famigerate cassette di sicurezza, era autorizzata ad entrare solo una governante. A fiancheggiare la spiaggia, sono decine di palme altissime, che raccontano abbia pagato fino a 20 mila dollari l'una. E in cima alla collina c'è quello che sembra un misterioso tempio a strisce bianche e blu: i locali dicono che inizialmente era sormontato da una cupola d'oro, ma è stata spazzata via dall'uragano Irma, nel 2017. Pare che l'edificio fosse stato costruito come sala della musica, visto che il finanziere amava suonare il pianoforte, ma non manca chi pensa che potesse trattarsi di un luogo appartato che lui utilizzava per commettere gli abusi. Chi ha lavorato per lui poteva indossare solo polo bianche o nere quando Epstein era nella magione, e tutti dovevano obbedire ad un ordine: essere presenze fantasma. Tra St. Thomas e St. John, c'è poi chi ricorda la sua passione per i pirati. «Voleva il suo tesoro privato ed era disposto a pagare parecchio, fino a mille dollari, ai membri dello staff che riuscivano a scovare vecchie bottiglie di rum, piatti e altre stoviglie», dicono. Nel 2016 Epstein aveva acquistato un'altra isola delle US Virgin, Great St. James, di 67 ettari, che si stima abbia pagato 18 milioni di dollari. E su cui aveva il progetto di costruire un complesso residenziale che comprendeva un anfiteatro, un ufficio sottomarino e una piscina: i lavori erano iniziati quest'anno, nonostante nel dicembre scorso avesse ricevuto un avviso di interruzione pare per mancata conformità alle norme ambientali. A St. Thomas, invece, la più commerciale delle Vergini, dove ogni giorno approdano enormi navi da crociera con migliaia di turisti, fatta eccezione per il transito in aeroporto il miliardario non si vedeva spesso. Anche se lì c'è il quartier generale delle sue attività, che aveva trasferito da circa vent'anni da New York. Spiegano che alcune entità legate a lui si trovano in una piazzetta tra un supermercato e un'estetista, ma anche queste sono avvolte dal mistero, poiché nessuna targa riporta a lui. Intanto ieri una delle accusatrici di Epstein, Jennifer Araoz, che all'epoca degli abusi denunciati aveva 14 anni, ha fatto causa in sede civile agli eredi, a Maxwell e a tre donne membri dello staff. «La mia richiesta di giustizia è solo all'inizio», ha detto Araoz.

L’avvocato di Epstein: «Mi pento di averlo difeso.  E io non sono coinvolto». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Viviana Mazza, inviata a Martha’s Vineyard, su Corriere.it. La prima volta che Alan Dershowitz venne su quest’isola fu cinquant’anni fa, giovane avvocato nel team che difese Ted Kennedy. Da allora l’ottantenne professore emerito di Harvard ha avuto molti clienti controversi, da Claus von Bülow a O.J. Simpson, ma si dice pentito di averne rappresentato solo uno: Jeffrey Epstein. Nel 2005, in Florida, per incitamento di minori alla prostituzione: Epstein scontò 13 mesi, evitando pene federali. Dershowitz e sua moglie lo conoscevano dal 1996, «ignari della sua doppia vita», dicono ora seduti fianco a fianco nella loro villa a Martha’s Vineyard. «Esitai, non avevo mai rappresentato qualcuno che conoscevo». Ora Virginia Giuffre, una delle accusatrici del finanziere, sostiene che l’avvocato sia tra gli amici di Epstein con cui è stata costretta ad avere rapporti sessuali. Dershowitz non si è limitato — come Bill Clinton o il Principe Andrea — a pubblicare una smentita: raccoglie prove, registra segretamente telefonate con l’avvocato della parte avversa, chiede un processo per poter provare la sua innocenza. «Non ho mai incontrato Giuffre. Da quando ho conosciuto Epstein ho fatto sesso con una sola donna, mia moglie». La moglie, la neuropsicologa Carolyn Cohen, lo ha aiutato a documentare ciò che ha fatto giorno per giorno in questi anni (viaggi, lezioni, spese): il suo alibi. E vogliono usare come prove le ultime carte rese pubbliche dove ci sono un’autobiografia di Giuffre che non menziona rapporti sessuali con lui e un’email della giornalista del Daily Mail Sharon Churcher che le consiglia di «non dimenticare Alan Dershowitz…».

Giuffre dice che avete fatto sesso sette volte. 

«E’ certamente possibile che sia stata vittima di abusi, ma ha iniziato a mentire quando i suoi avvocati le hanno detto che poteva fare soldi: ha ricevuto più di un milione da Ghislane Maxwell come patteggiamento, 160mila dal Daily Mail per le bugie su Bill Clinton. La sua storia era più moderata, poi ha cominciato a esagerare. Ma è interessante la storia su Leslie Wexner (il proprietario di Victoria’s Secret ndr): Giuffre disse di aver fatto sesso con lui sette volte, negli stessi posti in cui l’avrebbe fatto con me, tranne che davanti casa mia. Eppure David Boies, l’avvocato di Giuffre, dopo aver incontrato Wexner non lo ha mai perseguito. Ci sono due possibilità: o ha concluso che mentiva, e dunque mentiva anche su di me; oppure che diceva la verità e allora mi chiedo: hanno preso soldi da Wexner per tacere?». 

Lei rimpiange di aver rappresentato Epstein? 

«Rimpiango anche di averlo incontrato. Una donna importante che vive su quest’isola, Lady Lynn Rothschild, mi pregò di vederlo: “Un uomo meraviglioso, una grande mente…”. Non l’avesse mai fatto. Ha persuaso anche Bill Clinton a incontrarlo, è una figura centrale in tutto questo». 

Perché lo faceva?

«Era sua amica, avevano affari, non so potrebbero aver avuto una relazione… era una specie di procacciatrice intellettuale per Epstein, spingeva tutti a conoscerlo. E io lo feci, venne a casa nell’agosto 1996, con una bottiglia di champagne e una fidanzata ventenne, non minorenne. Parlò con me, mia moglie e i miei figli di biologia evoluzionista, degli studi che voleva finanziare a Harvard, era amico del presidente, aveva costruito l’Hillel (per la comunità ebraica ndr). Qualche anno dopo mi invitò in aereo - quello piccolo, non il Lolita Express - in Ohio, al 59° compleanno di Wexner, con John Glenn, astronauta e senatore. Una cena per pochi: Shimon Peres, Taubman il capo di Sotheby’s, non restai per la notte. Tutti uomini: la stessa moglie di Wexner non era invitata e dissi che non mi piaceva. Epstein rispose: “A Leslie piace così, e anche a me”. Lo imitava, l’aereo e la casa di Manhattan prima erano di Wexner». 

Ha volato altre volte con lui?

«Cinque o sei. Con mio nipote, Adam, che voleva diventare astronauta, ci fece assistere al lancio di uno shuttle. Con mia moglie e mia figlia di 9 anni sulla sua isola, appena comprata. Ghislaine Maxwell giocò con la bambina a caccia al tesoro». 

Lei è stato più volte nella casa in Florida: non era piena di foto di minorenni e sex toys? 

«Non sono mai stato invitato a casa sua o sul suo aereo durante gli anni in cui conobbe Giuffre, dall’estate 2000 al settembre 2002, probabilmente non voleva essere visto con lei. Ci sono stato dopo, da avvocato e prima, anche con mia figlia di 15 anni e i miei nipotini; una cinquantenne di nome Olga ha fatto a me e a mia moglie un massaggio terapeutico, ma non vidi mai minorenni, foto inappropriate o vibratori. Non avevamo accesso all’ala privata. L’unica foto di donna nuda che ho visto a casa sua, a Manhattan, era di una modella di Rodin; accanto c’era l’immagine di una vecchia. “Ecco perché non mi sposo” diceva Epstein». 

Epstein era una persona brillante?

«Molto, da un punto di vista accademico. Frequentava gente come George Church, che ha decodificato il genoma, Steven J. Gould, il più grande paleontologo, Howard Gardner, Marvin Minsky, l’inventore dell’intelligenza artificiale. Il principe Andrea venne ad una mia lezione, grazie a Epstein. Nessuno immaginava che avesse questa vita parallela».

Lei quando l’ha scoperto?

«Quando è stato incriminato, vidi le prove: all’inizio sei donne. Lui non mi disse la verità: disse che erano quasi tutte diciottenni o avevano documenti falsi. In quella contea per reati simili, come le case di massaggi con ragazze minorenni, nessuno era finito in carcere, così negoziai un accordo in cui lui ammetteva il reato, non andava in carcere ma sarebbe stato registrato come crimine sessuale: Epstein rifiutò, prese un altro legale, Goldberger, che gli assicurò un accordo migliore; questo aprì un’indagine federale e allora mi chiamò per lavorare su quella. A quel punto emersero una trentina di donne, ma non c’erano prove di collegamenti interstatali, io dimostra che il caso federale allora non sussisteva». 

Lo affrontò a proposito delle sue bugie?

«Sì, ero furioso».

E lui cosa rispose? 

«Non pensava di aver fatto niente di male. Era una persona arrogante, altrimenti non sarebbe mai tornato da Parigi». 

Lo avrebbe rappresentato se avesse saputo la verità?

«Sì certo, non giudico i miei clienti. Uno era accusato di aver dato fuoco a nove monache buddiste, e ho vinto. E’ quello che faccio. Avrei difeso Amanda Knox anche se avevo dubbi sulla sua innocenza. Ho due regole: non rappresento fuggitivi (ho rifiutato Karadzic), né mafiosi e crimine organizzato. Se vuoi che gli innocenti vengano difesi, devi difendere anche i colpevoli». 

Harvard ha preso soldi da Epstein dopo il 2008? 

«Posso dirle chi li ha presi: Nicholas Negroponte capo del mediaLab. Io non ho avuto più rapporti con lui». 

Lei dice che Giuffre mente, ma crede che altre donne dicano la verità?

«Sì». 

E’ vero che in un articolo del 1997 sul Los Angeles Times lei sostenne che «devono esserci sanzioni penali se si tratta di bambini, ma è dubbio se debbano applicarsi ad adolescenti dopo la pubertà»? Epstein sostenne che nella storia era più che accettabile?

«Epstein lo diceva spesso. Ma le mie parole sono fuori contesto: nel 1997 c’era un dibattito tra femministe sulla riduzione dell’età del consenso e vi ho partecipato, avevo un caso».

Ha perso clienti per via delle accuse di Giuffre? 

«L’unico è stato Roman Polanski». 

Epstein si è ucciso?

«Penso di sì, perché credeva che non avrebbe più avuto un giorno di libertà, non poteva tollerarlo, è stata un’analisi costi-benefici, ma non credeva di aver fatto nulla di sbagliato. Io pensavo di sì».  

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 17 agosto 2019. A una settimana dalla misteriosa morte, il 10 agosto, in un carcere di New York del finanziere americano Jeffrey Epstein, arrestato in luglio per la non nuova accusa di traffico di minorenni e abusi sessuali, arriva il responso dell' autopsia: si è suicidato impiccandosi. Nel frattempo nuovi indizi emergono sulle sue relazioni con larga parte dell' elite politico-economica americana e internazionale. A cominciare da un' inquietante quadro a olio trovato nel suo lussuoso appartamento di Manhattan, che sta facendo il giro di internet. Titolato «Bill in analisi», raffigura l' ex-presidente Bill Clinton spaparanzato su una poltrona dello Studio Ovale della Casa Bianca. Fin qui nulla di strano, se non fosse che Clinton è vestito da donna e sorride con indosso un lungo abito da sera blu e scarpette dai tacchi a spillo. Il quadro, che getta una luce sinistra sui rapporti fra Epstein e la "crema" dei Democratici Usa, era stato dipinto nel 2012 dalla pittrice Petrina Ryan-Kleid, della New York Academy, e venduto alla società Tribecca Ball, la quale l' avrebbe rigirato a Epstein, nella ricostruzione del New York Post. L'artista ha precisato che ignorava a chi fosse finito in mano il quadro. L'abito del Clinton "en travesti" ricalcherebbe il vestito della sua amante Monica Lewinsky. L'episodio, su cui fonti dei Clinton non hanno ancora commentato, giunge proprio pochi giorni dopo che il presidente Donald Trump, fin dal 13 agosto, aveva detto: «La domanda è se Clinton sia mai stato sull' isola di Epstein». Il presidente repubblicano si riferiva alla chiacchierata Little St. James Island, una delle Isole Vergini che Epstein aveva acquistato, insieme alla più grande Great St. James Island, per organizzarvi, secondo gli accusatori, feste a base di sesso con ragazze minorenni, tanto da essere battezzata «orgy island». Da giorni agenti speciali dell' Fbi sono sbarcati sulle isole private del defunto faccendiere per far luce sulla rete di complicità che probabilmente lo hanno coperto per oltre un ventennio. L' isola più piccola, di 29 ettari, Epstein l' aveva comprata nel 1998 per 7,95 milioni di dollari, mentre più recentemente, nel 2016, aveva comprato la più grande, da 67 ettari, per 18 milioni di dollari. Ben di più, circa 56 milioni, gli era invece costato l' attico di Manhattan da una cui parete alligna il Clinton femmineo, corredato da altre bizzarrie, come una bambola in abito da sposa appesa a una corda d' impiccato, accanto ad altri vezzi come una povera tigre impagliata e il quadro sexy di una donna che si massaggia i seni nudi. Il portavoce di Clinton, si era affrettato in luglio, al momento dell' arresto di Epstein, a dichiarare che l'ex-presidente non vedeva il faccendiere da oltre un decennio e che non era mai stato sulle sue isole private. Intanto, però, una possibile testimone dei trascorsi di Epstein è stata rintracciata. La sua presunta complice Ghislaine Maxwell, di cui si erano perse le tracce, è stata proprio ieri "pizzicata" dalla stampa americana mentre si faceva uno spuntino in un fast food di Los Angeles, leggendosi, guardacaso, un libro sulla storia della CIA. Era dal 2016 che la Maxwell non veniva fotografata in pubblico. Nei processi a Epstein veniva sempre presentata come la sua assistente, nel procurargli ragazzine di 14 anni, o anche più giovani, da stuprare, secondo alcuni testimoni partecipando talvolta ella stessa ai turpi rapporti.

Viviana Mazza per il “Corriere della sera” il 18 agosto 2019. Odiava la sua cella stretta, umida e infestata dagli scarafaggi, e ha cercato di usare la sua ricchezza per aggirare le regole. Ma si è reso conto che i suoi tentativi erano vani. Attraverso decine di interviste con il personale del carcere, il New York Times ricostruisce gli ultimi giorni di vita di Jeffrey Epstein, il finanziere incriminato per traffico sessuale di minorenni. Il detenuto numero 76318-054 si faceva visitare tutti i giorni per 12 ore dai suoi avvocati, che aveva il diritto di incontrare in una sala privata. Spesso si limitava a stare seduto in silenzio con loro, prelevando bibite e merendine dal distributore automatico. Per evitare di essere vessato, cercava di ingraziarsi gli altri detenuti, depositando denaro su tre conti allo spaccio del carcere. Non c' erano paragoni tra le condizioni qui, al Metropolitan Correctional Center di Manhattan, e i privilegi che gli erano stati garantiti nel 2008 in Florida, quando scontò 13 mesi per istigazione alla prostituzione di minorenni. Ogni sei giorni, rivela il Sun-Sentinel , gli avevano permesso di recarsi in ufficio per 14 ore, e per altre due nella sua villa di Palm Beach. Nella prigione newyorchese, invece, aveva un'ora d'aria al giorno; una doccia ogni due-tre giorni. Voleva disperatamente uscire su cauzione: propose di pagare guardie private che lo sorvegliassero a casa; il 18 luglio il giudice rifiutò, e il 23 luglio Epstein fu trovato privo di coscienza con segni intorno al collo. Disse di essere stato aggredito dal compagno di cella, ma le guardie non gli credettero. Fu messo nel programma di prevenzione suicidi. ll 29 luglio però era tornato nella vecchia cella, su richiesta dei suoi legali. Tre giorni dopo convocò un nuovo avvocato, ma poi cominciò a mollare: non si lavava, non si rasava, dormiva per terra. Le guardie dovevano controllarlo ogni 30 minuti, ma il 10 agosto smisero di farlo alle 3.30 del mattino. È possibile che, sbirciando dalla finestrella della cella, Epstein abbia visto il secondino addormentato. L'autopsia ha concluso che è morto suicida, impiccandosi con un lenzuolo.

Notti sul pavimento e soldi agli altri detenuti Gli ultimi giorni di Epstein nella cella-trappola. Il miliardario dormiva a terra e pagava gli altri carcerati contro le vessazioni. Valeria Robecco, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. New York Detenuto numero 76318-054: era stato registrato con questa matricola Jeffrey Epstein al momento del suo ingresso al Metropolitan Correctional Center, il carcere di Manhattan dove era detenuto dal 6 luglio quando sono scattate le manette ai suoi polsi per le accuse di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori. Un mese abbondante di inferno per il finanziere 66enne abituato a vivere nel lusso, che il New York Times ha ricostruito grazie alle interviste con dipendenti del carcere, avvocati e funzionari delle forze dell'ordine. Epstein odiava la sua cella stretta, umida e infestata dai parassiti, spiega il quotidiano newyorkese, e ha cercato di usare la sua ricchezza per riscrivere e aggirare le regole. Anzitutto si faceva visitare tutti i giorni per almeno 12 ore dai suoi legali, che aveva il diritto di incontrare in una sala privata del carcere, per stare il meno possibile in cella. Per evitare di essere vessato e ingraziarsi gli altri detenuti, inoltre, depositava soldi sui loro conti allo spaccio interno alla prigione. Ma negli ultimi giorni prima della morte - che il medico legale, seppur tra tanti dubbi, ha ufficializzato come suicidio per impiccagione - il miliardario ha mostrato segni di cedimento. Faceva raramente il bagno, teneva la barba incolta, i capelli spettinati, e dormiva per terra invece che sulla branda della sua cella. Nonostante questo aveva convinto le autorità carcerarie di non essere una minaccia per se stesso, pur se era già in corso un'indagine per stabilire se avesse tentato il suicidio il 23 luglio scorso. Il 9 agosto, mentre venivano rese note una serie di carte depositate in tribunale contenenti dettagli inquietanti dei suoi traffici, i suoi avvocati erano con lui nella saletta per gli incontri del Metropolitan Correctional Center e poche ore dopo, durante la notte, solo 18 guardie carcerarie erano di turno per sorvegliare la prigione con circa 750 detenuti. All'unità speciale 9 South, dove era detenuto Epstein, c'erano due agenti, che lo dovevano controllare ogni 30 minuti, ma non lo hanno fatto per circa tre ore. Ad un certo punto secondo due funzionari del Bureau of Prisons, si sono anche addormentati, e la mattina dopo il finanziere è stato trovato morto con il lenzuolo stretto intorno al collo. Mentre proseguono le indagini per rispondere a numerose domande ancora irrisolte, il New York Times afferma che negli ultimi giorni Epstein aveva iniziato a realizzare come questa volta la sua ricchezza non sarebbe bastata a garantirgli una via d'uscita. Quello che invece gli era riuscito nel 2008 in Florida, quando il suo team di avvocati negoziò un accordo (molto controverso) con i pubblici ministeri, grazie al quale caddero le accuse federali di traffico sessuale e in carcere dovette trascorrere solo 13 mesi, peraltro con considerevoli privilegi, ad esempio quello di poter uscire per lavorare sei giorni a settimana.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 17 agosto 2019. Due sedie in stile «Adirondack» gialle colorano il gazebo coloniale che domina l' insenatura. Percorrendo la stradina in pietra si sale verso un osservatorio col consueto tetto celeste. Davanti c'è il tempio, o quel che ne rimane, orfano di cupola. «Era la sua camera da letto particolare, animata da un trionfo di specchi». A parlare è captain Phil, il lupo di mare con cui facciamo rotta verso Little St. James. L' obiettivo è sbarcare sull' isola di Jeffrey Esptein, il finanziere 66enne travolto da uno scandalo sessuale e accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, trovato morto impiccato nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dov' era recluso in attesa del processo. Arrivarci è diventato un azzardo, specialmente dopo l' imponente raid dell' Fbi di lunedì scorso. In realtà, gli agenti federali sono presenti in pianta stabile sull' isola pattugliata dal mare, per evitare incursioni che potrebbero inquinare le prove e controllata dall' interno dai cinque o sei custodi rimasti. Chiediamo aiuto al capitano Phil, un uomo rugoso sulla settantina, originario di Detroit, Michigan, ma con mezzo secolo di navigazione tra le acque dei Caraibi. Epstein lo conosce attraverso un paio di amici, uno è stato comandante di uno dei suoi yacht, un altro il project manager delle proprietà del finanziare alle isole Vergini. La sua assistente, Rachel, ha invece ricevuto una proposta di assunzione dal milionario attraverso la sua amica Stephanie, che lavorava per lui come segretaria aggiunta. «Ho rifiutato, non volevo aver a che fare con certe situazioni», ci racconta. Quello che Esptein faceva lo avevano tutti ben chiaro da queste parti, «e ha continuato a farlo sino all' ultimo». Ma ciò che emerge dalle testimonianze dell' isola è la sua «pericolosa dipendenza»: custodiva un vero e proprio bunker segreto nello studio in cui poteva entrare solo la sua fidatissima governante, con foto e filmati delle ragazze (e forse dei loro illustri clienti) girati tra le mura della proprietà di Little St. James. «Centinaia, se non migliaia» conservati sull' isola, dice Phil. È su questo che gli inquirenti si stanno concentrando, e su altri «pezzi da novanta» ritrovati nelle proprietà del finanziare. Come il quadro custodito in una delle quaranta stanze della magione newyorkese, un ritratto di Bill Clinton vestito con un abito da donna blu e scarpe rosse col tacco. L'ex presidente degli Stati Uniti, che sull'isola si è recato almeno quattro volte, è disteso su una sedia nello Studio Ovale, e l' abito rievoca per il colore il celebre vestito indossato dall' ex stagista Monica Lewinsky nel Sexgate alla Casa Bianca. Ed è uguale a quello indossato da sua moglie Hillary al Kennedy Center Honors nel 2009. «Cose del genere ce ne sono anche lì», indica il capitano Phil mentre è al timone della sua «Wayward Sailor». E ancora tutti da chiarire sono gli scavi che Epstein stava facendo, testimoniati dalle immagini dei droni di alcuni investigatori privati che indagavano sulle abitudini del milionario, ben prima che scoppiasse lo scandalo: su Google Maps i terreni figuravano come campo da tennis, ma erano tutt' altro, un misterioso cantiere aperto. Ci fermiamo nella rada antistante il lato Sud dell'isola, con la scusa di immergerci per immortalare la barriera corallina. Razze e testuggini ci aprono il passaggio verso l'isola, dopo circa mezz' ora di nuoto arriviamo a terra. Regna il silenzio. Tutto sembra rimasto così come quando Esptein accoglieva i suoi ospiti: mobili di design, giovani palme e un paio di macchine elettriche parcheggiate. Qui si ha netta l' idea della cura maniacale che il facoltoso proprietario esigeva nell' organizzare i suoi traffici. A un tratto vediamo un'imbarcazione lasciare il molo diretta verso di noi, dobbiamo andarcene, a nuoto e poi a vela di nuovo. Tornando verso St. John il capitano Phil ci racconta tutti i dubbi della gente del posto sul suicidio, avvalorati peraltro dall' autopsia che rivela diverse fratture alle ossa del collo. Sebbene l' esame condotto dal medico legale confermi ufficialmente che Epstein è deceduto togliendosi la vita. Sui filmini dell'isola dei pedofili molto potrebbe dire Ghislaine Maxwell, la sodale di Epstein che gestiva i suoi traffici. La 57enne britannica è stata scovata a Los Angeles seduta da sola all' esterno di un fast food mentre mangia hamburger e patatine, accompagnati da un milk shake, e legge un best-seller sulla Cia: «Il libro dell' onore: vita e morte segreta degli agenti Cia». Gli scatti di alcuni fotografi la ritraggono dimessa, con un felpa azzurra e senza trucco. «Bene - ha commentato - immagino che questa sia l' ultima volta che mangio qui».

Il principe Andrea da Epstein.  Un video imbarazza i Windsor. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Monica Ricci Sargentini su Corriere.it. Da uno spiraglio del portone il principe Andrea saluta una bella ragazza. Siamo nella «casa degli orrori» di Jeffrey Epstein, il miliardario condannato per pedofilia e morto suicida qualche giorno fa. Il video, pubblicato in esclusiva da The Mail on Sunday, risale al 6 dicembre 2010, due anni dopo la sentenza che aveva condannato l’imprenditore per pedofilia. Nel filmato si vede Epstein lascare la casa con una bionda un’ora prima dell’apparizione del principe. Il duca di York ha sempre negato le accuse di Virginia Roberts, una delle presunte schiave sessuali che ha denunciato Epstein e che ha sostenuto di aver avuto rapporti sessuali con il principe in diverse occasioni, la prima quando era minorenne. Buckingham Palace ha ripetutamente difeso Andrea: «Qualsiasi insinuazione di atti impropri con minorenni è assolutamente falsa. Neghiamo che il duca di York abbia avuto contatti sessuali o relazioni con Virginia Roberts». Domenica scorsa la Regina aveva manifestato il suo appoggio al principe facendolo sedere accanto a lei durante la messa a Balmoral. «Il principe Andrea sembrava totalmente a suo agio nella casa di Epstein — ha rivelato una fonte al The Mail on Sunday —, c’erano ragazze che andavano e venivano. Era una giornata molto fredda e alcune tremavano. Tutti sapevano che Epstein era un pedofilo, tuttavia lui continuava a condurre il suo stile di vita sotto gli occhi di tutti».

Jeffrey Epstein, il video che fa tremare la Corona: "Andrea d'Inghilterra che entra a casa sua con le ragazze". Libero Quotidiano il 18 Agosto 2019. Un video pubblicato dal sito del Mail on Sunday fa tremare Buckingham Palace e la Corona inglese. Si vede Andrea d'Inghilterra, fratello del principe Carlo e figlio della Regina Elisabetta, entrare nella casa di New York di Jefferey Epstein, il finanziere americano morto impiccato in carcere e accusato di traffico di minori e prostituzione. La visita risale al 6 dicembre 210, quando Epstein era già stato condannato in un primo processo per pedofilia. Una frequentazione molto imbarazzante, anche perché il Duca di York era già finito al centro di polemiche per la accuse di Virginia Roberts, una delle presunte schiave sessuali del finanziere. "Qualsiasi insinuazione di atti impropri con minorenni è assolutamente falsa. Neghiamo che il duca di York abbia avuto contatti sessuali o relazioni con Virginia Roberts", è stata la secca smentita di Buckingham Palace. Ora, però, il video che aggiunge carne al fuoco. "Il principe Andrea sembrava totalmente a suo agio nella casa di Epstein - rivelato una fonte anonima al Mail on Sunday -, c'erano ragazze che andavano e venivano. Era una giornata molto fredda e alcune tremavano. Tutti sapevano che Epstein era un pedofilo, tuttavia lui continuava a condurre il suo stile di vita sotto gli occhi di tutti".

Il Principe Andrea rompe il silenzio sul caso Epstein e parla delle sue accuse. Dopo settimane di silenzi, parla il principe Andrea coinvolto nello scandalo Epstein. Roberta Damiata, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Il Principe Andrea è uscito allo scoperto dopo giorni di silenzio e accuse che si rincorrevano in ogni parte del mondo. Dopo la morte per suicidio di Jeffrey Epstein si è trovato coinvolto nello scandalo delle “schiave sessuali” e fino ad oggi era rimasto nel più totale silenzio. Ora ha deciso finalmente di parlare, e ha affermato di essere “sconvolto” dalle notizie di abusi sessuali che hanno portato al suicidio il suo ex amico Jeffrey Epstein. Lo ha fatto dopo l’uscita di un filmato postato dal “Mail On Sunday” che lo mostra all’interno della casa di Epstein a Manhattan. Ha dichiarato come “ripugnanti” le accuse sui suoi presunti comportamenti trasgressivi. Una dichiarazione ufficiale di Buckingham Palace afferma: “Il duca di York è stato sconvolto dalle recenti notizie sui presunti crimini di Jeffrey Epstein. Sua Altezza Reale, deplora lo sfruttamento di qualsiasi essere umano, e le accuse che approvasse o avesse partecipato a tale comportamento è ripugnante”. Nel vecchio video del 6 dicembre 2010 mostrato dal “Mail on Sunday”, si vede il principe Andrea, che scruta sulla porta della casa di Epstein a New York e poi saluta una donna, dopo che Epstein è uscito dallo stesso appartamento poco prima. Virginia Roberts, la presunta “schiava del sesso” del miliardario suicida, ha affermato invece di aver fatto sesso con il principe proprio nell’appartamento dove è stato ripreso e fotografato. All’epoca aveva la ragazza aveva 17 anni. Inoltre ha dichiarato sotto giuramento, di aver fatto sesso con lui, altre tre volte, inclusa un’orgia a Londra, a casa di Epstein a New York, e in un’orgia sulla villa privata di Epstein ai Caraibi. Buckingham Palace si è affrettata a bollare le accuse come false e senza fondamento, dichiarando che: “Qualsiasi accusa di inadeguatezza nei confronti di minore da parte del duca è assolutamente falsa”. In ogni caso le prime ripercussioni sull’uscita del video ci sono, perché il principe ha deciso di lasciare il suo incarico di “inviato speciale per le relazioni commerciali” per il Regno Unito.

Jeffrey Epstein, orrore sessuale: "Ragazzine nude nella vasca". Foto choc, una pista porta a Fidel Castro. Libero Quotidiano il 18 Agosto 2019. Nello scandalo sessuale di Jeffrey Epstein ora spunta pure Fidel Castro. Il finanziere americano 66enne, accusato di prostituzione e traffico di minori e trovato morto impiccato in carcere a New York, avrebbe visitato Cuba nel 2003, su invito proprio del Lider Maximo. Circostanza sospetta, come riporta La Stampa, perché l'isola caraibica è tristemente famosa anche per la sua prostituzione minorile e la facilità irrisoria nell'adescare ragazzine per una manciata di dollari. Epstein atterrò a Cuba a bordo del famigerato jeg privato Lolita Express, quello che usava per trasportare le sue vittime nelle sue tane sparse in giro per il mondo, da Palm Beach a Parigi fino all'isoletta di sua proprietà a Little St. James, nelle Isole Vergini americane al centro ora di nuove indagini. "Epstein ha lasciato Cuba un giorno o due dopo, io sono rimasto sull'isola", ha rivelato l'ex presidente colombiano Andres Pastrana. Quel viaggio non risulta dai giornali di bordo. Nel frattempo, su Facebook sono state diffuse le presunte immagini dei sotterranei della casa di Epstein, tratte dalle telecamere di sicurezza: "Ragazzine nude che siedono in una vasca. Aprite gli occhi", recita il post. Un altro inquietante tassello di un mosaico che comprende perversioni sessuali, soldi e amicizie molto altolocate. Che ora stanno tremando. 

Francesco Semprini per “la Stampa” il 18 agosto 2019. Dal cuore dei Caraibi spunta un nuovo legame «sinistro» che accosta il nome di Jeffrey Epstein a un altro potente della terra, Fidel Castro. Il finanziere 66 enne accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, e trovato morto impiccato nella cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove era recluso in attesa del processo, si recò nel 2003 a Cuba su invito del lider maximo. La rivelazione arriva dall' ex presidente colombiano Andrés Pastrana, il quale accompagnò Epstein in quel «viaggio segreto» a bordo del «Lolita Express», il jet che il finanziere usava per trasportare le ragazzine da New York a Palm Beach e a Little St. James, nella sua magione delle Us Virgin Islands. «Epstein ha lasciato Cuba un giorno o due dopo, io sono rimasto sull' isola», racconta Pastrana in una dichiarazione rilasciata il 14 agosto, poco dopo il presunto suicidio in carcere dell' amico milionario. Nella nota sottolinea poi di non aver messo mai piede sull' isola dei pedofili. Pastrana, inoltre, non specifica il motivo dell' incontro con Castro e se si è verificato, ma conferma che entrambi erano stati invitati dal presidente cubano. Il giornale di bordo del velivolo US-N-900JE, ovvero il Lolita Express, mostra che Pastrana ed Epstein, insieme ad altri passeggeri, lasciarono l' aeroporto di Teterboro, nel New Jersey, il 20 marzo 2003. Lo stesso giorno l' aereo atterrò a Palm Beach e quello dopo fece rotta sulle Bahamas. Nel documento non vi è traccia di voli in arrivo o in partenza da Cuba, il che potrebbe essere spiegato dalle limitazioni imposte dall' embargo. Il periodo della visita di Pastrana ed Epstein a Cuba coincide con quello in cui il regime dell' Avana stava conducendo raid operativi contro le case di dissidenti in tutta l' isola, operazione conosciuta come la Primavera Nera. Al momento della visita raccontata da Pastrana, Epstein non era ancora stato accusato di alcun reato visto che la prima inchiesta è iniziata nell' aprile 2005. Il punto è che il finanziare amico dei potenti già praticava i suoi traffici con ragazzine, anche minorenni. E a Cuba il legame tra turismo, prostituzione e pedofilia è cosa nota, come spiega Julia O' Connell Davidson della University of Nottingham nel suo studio «Il giusto e lo sbagliato della prostituzione». In quei posti «le 14 o 15 enni sono ancora più disperate e in cerca di qualche dollaro e pertanto più vulnerabili». Una presunta immagine delle ragazzine vittime dello sfruttamento pare emergere da un gruppo Facebook che segue le vicende del milionario da tempo. Il post, che risale al 9 luglio, 3 giorni dopo l' arresto del finanziare, recita: «Questa è un' immagine delle telecamere di sicurezza nei tunnel sotterranei della casa di Epstein. Ragazzine nude che siedono in una vasca. Aprite gli occhi». Il «New York Times» ricostruisce il mese di inferno vissuto dal finanziare in carcere dove risultava come detenuto 76318-054 e usava la sua ricchezza per allietare le pene della detenzione. Si faceva visitare tutti i giorni per almeno 12 ore dai suoi legali per stare il meno possibile in cella. Per evitare di essere vessato e ingraziarsi gli altri carcerati depositava soldi sui loro conti allo spaccio interno al carcere. Negli ultimi giorni di vita Epstein mostrava segnali di cedimento con la barba incolta e il suo dormire per terra invece che sulla branda della sua cella. Nonostante questo aveva convinto le autorità carcerarie di non essere una minaccia per se stesso.

Massimo Basile per Agi il 18 agosto 2019. Avido di sesso, presunto stupratore, disposto a concedere centinaia di sue modelle all'amico Jeffrey Epstein, con il quale si era creato un rapporto così forte da sancirlo con la formula della relatività di Einstein, E=MC2. La prima lettera indicava l'iniziale del cognome del finanziere newyorkese, le altre due il nome della sua agenzia di modelle fondata a Miami grazie al finanziamento di Epstein. E poi orge a base di champagne, e ragazze concesse a miliardari che pagavano anche centomila dollari per una notte di sesso. Sono i dettagli emersi sulla figura di Jean-Luc Brunel, 72 anni, francese, ex capo delle agenzie di modelle Karin Models e Mc2, uno dei presunti appartenenti al "cerchio magico" di Epstein, il finanziere morto suicida sabato in cella, nel carcere federale di Manhattan, dove era rinchiuso da luglio con l'accusa di traffico sessuale di minorenni. Brunel avrebbe recitato un ruolo di primo piano nell'organizzazione, un sistema su cui gli investigatori stanno cercando di fare luce. L'agente delle modelle è stata una delle persone che più ha frequentato Epstein per dieci anni: volò nel suo jet privato almeno quindici volte, era una presenza fissa a Palm Beach ed era andato a trovare il finanziere in carcere quasi settanta volte, quando era finito in carcere, una prima volta, nel 2008. Dai documenti desecretati sono emersi appunti confidenziali di Brunel per Epstein, tra cui uno, del 2005, con scritto: "Ho una maestra per insegnarti a parlare russo. Ha 28 anni, bionda. Le lezioni sono gratuite, puoi chiamarla già oggi". Una delle principali accusatrici di Epstein, Virginia Roberts Giuffre, ha detto di essere stata forzata ad avere rapporti sessuali con lo stesso Brunel, e lo ha accusato di avere usato, negli anni, la sua agenzia per procurare ragazze per Epstein, scelte soprattutto tra quelle più povere e disagiate, soprattutto nell'est Europa, occupandosi di tutto: dal reclutamento all'ottenimento del visto. Secondo Giuffre, Brunel avrebbe fornito a Epstein più di mille ragazze. Il racconto coinciderebbe con quello fatto da un'ex dipendente dell'agenzia MC2, Martiza Vazquez: la donna ha raccontato all'Fbi che Brunel aveva assunto persone con il compito di individuare belle ragazze in Sud America, Europa e nell'ex Unione Sovietica. Le più belle venivano mandate nell'appartamento di Epstein nell'Upper East Side e messe a disposizione di clienti che arrivavano a pagare fino a centomila dollari a notte. Se le ragazze non si fossero rese disponibili a "essere molestate", non sarebbero state pagate. Brunel ha respinto con decisione ogni accusa, dicendo che la sua ex dipendente voleva vendicarsi per essere stata licenziata. Dopo lo scoppio del primo scandalo, che aveva portato all'incriminazione e alla condanna del finanziere nel 2008, tra Brunel ed Epstein era calato il gelo. Il francese gli aveva chiesto addirittura i danni a Epstein, sostenendo che il suo scandalo aveva danneggiato il suo "buon nome" nel mondo della moda, facendogli perdere milioni di dollari.

Estratto dell’articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” il 19 agosto 2019. Al 358 di El Brillo Way, un viottolo stretto incorniciato da siepi perfettamente potate nell' area più esclusiva di Palm Beach, il poliziotto in borghese davanti all' ultimo cancello sulla sinistra ti chiede se ti sei persa: «Non ha visto il cartello "strada senza uscita?" Non si può stare qui. E no, niente foto». Ma poi ti rivela quel che i giornali locali hanno taciuto. Il Leroy che ha imbrattato l' accesso della villa dove tutto è cominciato «è solo un idiota a caccia di pubblicità. Nessun messaggio in codice, nessun avvertimento mafioso». Eccola, la villa dell'orco. La magione del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein suicidatosi una settimana fa, a 66 anni, nel Metropolitan Correctional Center di Manhattan. Proprio qui, a cinque minuti di macchina da quella Mar-a-Lago dove il presidente americano Donald Trump riceve i suoi ospiti più illustri, per vent' anni il finanziere newyorchese ha abusato di almeno 47ragazzine. Lo ha confessato lui stesso nel 2007, quando, dopo essersi dichiarato colpevole, strinse il patto della vergogna con l' allora procuratore federale della Florida Alexander Acosta ottenendo una pena lieve e il trattamento dorato in un carcere privato. Dietro il cancello bianco, l' edificio su due piani con le tendine tirate sembra tutt' altro che speciale. Lontano dalla grandiosa eleganza delle tante piccole Versailles affacciate sulla medesima strada, l' edificio disegnato nel 1950 dall' architetto austriaco John Volk fu acquistato da Epstein nel 1990 per 2,5 milioni di dollari. Oggi ne vale 12 e appartiene alla Laurel Inc., società con sede alle Virgin Islands dove nel 2011 l' ex finanziere spostò la residenza. «Un luogo insipido ma appartato»: lo descrive un autorevole vicino di casa, lo scrittore di best seller James Patterson che alle malefatte di Epstein dedicò nel 2016 un libro dal significativo titolo "Filthy Rich", ricchi fetenti: e ora dalle pagine del Daily Mail bacchetta la stampa per non avergli prestato abbastanza attenzione. È lui a descrivere cosa c' è oltre il cancello bianco: «Un corridoio pieno di foto, immagini erotiche delle giovani entrate qui, porta alla camera da letto e a stanze simili a quelle d' ospedale. In una c' è un tavolo da massaggio. In un' altra una sedia da dentista. Nei bagni, fra boccette di lubrificante alla pesca, saponette a forma di falli e vagine. Nel salone la foto col Papa accostata a un nudo che indignò la cameriera Lupita».

Jeffrey Epstein e le tre 12enni come regalo di compleanno. Tra i minori che sarebbero stati abusati dal finanziere morto suicida anche tre ragazzine francesi di 12 anni "spedite" a casa sua come regalo di compleanno. Intanto, il testamento di Epstein designa il fratello come unico erede. Roberto Bordi, Martedì 20/08/2019 su Il Giornale. Nuova, terribile accusa nei confronti di Jeffrey Epstein, il finanziere statunitense suicida in carcere il 10 agosto in attesa di essere processato per abusi e traffico di minori. La sua principale accusatrice, Virginia Roberts Giuffre, rivela che tre ragazzine francesi di 12 anni furono "regalate" al miliardario per il suo compleanno. Nella deposizione, desecretata il giorno prima del suicidio in cella di Epstein e il cui contenuto è stato diffuso dal Daily Mail, si parla di tre bambine, forse sorelle, che sarebbero state inviate a New York in aereo da un amico del broker, l'agente di modelle Jean-Luc Brunel. Inoltre, racconta sempre la donna, Epstein "si sarebbe vantato dell'incontro con quelle ragazzine, spiegando che erano molto povere e che i genitori avevano bisogno di soldi. E che comunque lui le aveva lasciate libere di restare o andarsene". Il racconto della testimone è reso più credibile dal fatto che avrebbe visto le tre ragazzine con i propri occhi. E il finanziere le avrebbe rivelato di essersi fatto praticare un massaggio e del sesso orale. "Era così eccitato da quell'esperienza che ne aveva parlato per settimane. Jeffrey pensava che fosse fantastico quanto facilmente il denaro inducesse le persone a tutto. Niente gli era impossibile", ha raccontato la grande accusatrice di Epstein, da lei dipinto come un predatore di minorenni. Un ritratto spietato. Intanto, il New York Post rivela il contenuto del testamento firmato dallo stesso Epstein 48 ore prima di impiccarsi in cella. In base a questo documento, di cui il quotidiano della Grande Mela sarebbe entrato in possesso, il broker amico dei potenti - tra cui, sembra, l'ex presidente americano Bill Clintone il principe inglese Andrea - ha lasciato 577 milioni di dollari, 18 in più di quelli dichiarati al fisco ma meno di quanti la sua vita sfarzosa lasciasse immaginare. Il testamento, di 21 pagine, designa il fratello Mark come unico erede. Oltre alla firma di Epstein c'è anche quella di due testimoni, due legali che lavorano a New York. Tra i beni lasciati al fratello, ci sono due isole per un valore di 88 milioni di dollari, l'appartamento di Manhattan da 56 milioni di dollari, uno a Palm Beach da 17 milioni e 56 milioni di dollari cash. Nel "tesoro" di Epstein ci sono anche un appartamento a Parigi da 8,6 milioni di dollari, aerei, auto e yacht per un totale di 18,5 milioni e azioni per circa 300 milioni di dollari. Il testamento scritto poco prima di morire sarebbe la prova finale del suicidio del broker.

EPSTEIN HA FREGATO LE VITTIME ANCHE DOPO LA MORTE. Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2019. Una prova ulteriore che era deciso a morire, forse l' ultimo tentativo di beffare le tante vittime che sperano in un po' di giustizia rivalendosi sul suo patrimonio. L' 8 agosto, due giorni prima del suicidio in cella - confermato dall' autopsia - il finanziere Jeffrey Epstein, già condannato per pedofilia e in carcere per nuove pesantissime accuse di traffico sessuale di minori, aveva scritto un testamento di 21 pagine per provare a mettere in ordine (e al sicuro) i suoi quasi 578 milioni di dollari in fondi e proprietà. L' avrebbe fatto trasferendoli, secondo i documenti ottenuti dal New York Post e depositati il 15 agosto in un tribunale delle Isole Vergini nel Trust «1953», probabilmente dal suo anno di nascita, creato quello stesso giorno. Tra gli esecutori, in caso di impossibilità dei suoi due storici dipendenti, Darren K. Indyke e Richard D. Kahn, l'ex consulente scientifico di Bill Gates, oggi investitore nel settore del biotech Boris Nikolic, che ieri si è detto scioccato e si è affrettato a precisare di non avere alcuna intenzione di accettare l' incarico. E così anche nelle sue ultime volontà torna il legame del finanziere con la comunità scientifica, che amava ingraziarsi con ricche donazioni. Molti di questi grandi nomi, dal linguista Steven Pinker al direttore del Media Lab del Mit Joichi Ito, si sono scusati pubblicamente. La notizia del testamento infiammerà ora la battaglia legale che non si chiude certo con l' obbligata (per la morte dell' imputato) chiusura del caso da parte della Procura di New York, la quale peraltro ha assicurato che continuerà a indagare sui complici. Ed è di ieri la notizia che altre tre donne (finora sono almeno 5) hanno depositato una causa civile per risarcimento, aggiungendo ulteriori terribili dettagli sugli abusi di Epstein, che pare avesse costretto una delle querelanti a sposare un suo complice così da fargli avere la cittadinanza Usa. Per capire quanto sarà difficile lo scontro nei tribunali bisognerà verificare se Epstein ha avuto il tempo di trasferire o meno ogni sua proprietà nel trust, e se questo basta legalmente a fare da scudo alle richieste delle vittime. Tra i beni elencati, oltre a 56,5 milioni di liquidi, la tristemente nota magione newyorchese da 56 milioni di dollari, il ranch in New Mexico (17,2 milioni), le proprietà parigine (8,6 milioni) e le due isole. Esclusa la collezione d' arte - che comprende il discusso quadro di Clinton in abito blu e tacchi rossi - ancora da valutare. Il testamento - alla cui firma hanno assistito due legali tra cui Mariel A. Colon Miro, che ha difeso anche «El Chapo» - non offre dettagli sui chi siano i beneficiari del trust. Il fratello di Epstein, Mark, è nominato come unico erede in caso non ci fosse stato alcun documento. Un altro mistero considerato che i rapporti tra i due erano buoni - Mark aveva offerto un suo condominio in Florida come ulteriore garanzia per la cauzione (negata) al fratello. Come su Jeffrey anche sulla ricchezza del più giovane degli Epstein si affollano molti dubbi. Artista improvvisamente trasformatosi in immobiliarista, che ha donato centinaia di migliaia di dollari a enti caritatevoli, ha negato ogni legame con gli affari del fratello, ma almeno una delle sue proprietà compare spesso nei documenti delle cause contro Jeffrey.

CHE CI FACEVANO IL PRINCIPE ANDREA E BILL GATES SULL’AEREO DI JEFFREY EPSTEIN? DAGONEWS il 21 agosto 2019. Nuova bufera sul principe Andrea accusato, questa volta da David Rodgers, ex pilota di Jeffrey Epstein, di aver volato in almeno quattro occasioni, tra l’aprile e il luglio del 2001, sull'aereo del miliardario: tra i passeggeri l’uomo ha indicato anche Virginia Giuffre, una delle “schiave sessuali” del finanziere. Le dichiarazioni risalgono al 2016 quando David Rodgers, in relazione alla causa di Virginia Roberts contro Ghislaine Maxwell, confermò che tra i passeggeri del volo c’era anche il principe. Nei registri di volo si leggono le iniziali “JE, GM, AP, BK, VR, Joann”. Quando il procuratore ha chiesto conferma, lui ha risposto che si trattava di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, il Principe Andrew, Banu Küçükköylü, Virginia Roberts e Johanna. "AP" è indicato come passeggero insieme a Roberts ed Epstein in almeno altre tre occasioni: il 16 aprile, il 4 luglio e l’8 luglio. Buckingham Palace ha negato le accuse e, secondo alcuni documenti mostrati in tribunale, pare che il Principe il 4 luglio fosse nel Regno Unito. Rodgers aveva precedentemente utilizzato “AP” per il designer Alberto Pinto, e le stesse iniziali potrebbe essere state usate anche per lo chef di Epstein, Adam Perry Lang. Ma il principe non è il solo a finire nella bufera per i registri di volo. Anche Bill Gates pare abbia viaggiato sull’aereo di Epstein nel 2013. I registri di volo rivelano che Gates ha volato con il miliardario dall'aeroporto di Teterboro nel New Jersey a Palm Beach il 1° marzo 2013, uno dei pochi voli dell'anno in cui il pilota Larry Viskoski ha registrato il nome di un passeggero. Un portavoce di Gates ha smentito ogni accusa, riferendo che i due non hanno mai avuto legami.

“MI HANNO DETTO DI STARE ZITTO”. DAGONEWS il 21 agosto 2019. Nicholas Tartaglione, l’ex poliziotto 51enne che per un breve periodo è stato compagno di cella di Jeffrey Epstein, ha affermato che le guardie carcerarie lo hanno minacciato di “stare zitto” e di non parlare del suicidio di Epstein. Tartaglione adesso chiede di essere trasferito dal Metropolitan Correctional Center dopo essere stato minacciato di "tacere" e "smettere di parlare" di come Epstein sia stato in grado di suicidarsi in custodia dei federali. Tartaglione ha condiviso brevemente una cella con Epstein all'interno del centro di detenzione: è stato lì che il finanziere avrebbe tentato il suicidio per la prima volta. In un primo momento si era creduto che Tartaglione avesse aggredito Epstein, che venne ritrovato privo di coscienza con segni sul collo sul pavimento della cella lo scorso 23 luglio. Motivo per cui l’ex poliziotto e il finanziere vennero separati e messi in due celle separate. «Il chiaro messaggio ricevuto da Tartaglione è che se trasmette informazioni sulla struttura o sul recente suicidio di Epstein, ci sarà un prezzo da pagare - ha scritto Bruce Barket, l'avvocato di Tartaglione, in una lettera indirizzata al giudice federale Kenneth Karas - Indipendentemente dal fatto che gli investigatori abbiano scelto di intervistare il signor Tartaglione sul tentato suicidio di cui è stato testimone o su come viene gestita la struttura e sulle condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, i funzionari sanno che lui ha informazioni potenzialmente molto dannose per le stesse persone ora incaricate di proteggere lui e gli altri detenuti». Tartaglione è nel braccio della morte dopo essere stato accusato di aver ucciso quattro persone nel nord dello stato di New York, nel 2016.

UNA DELLE “SCHIAVI SESSUALI” DI JEFFREY EPSTEIN RACCONTA DI ESSERE STATA COSTRETTA A SPOSARE UNA DELLE RECLUTATRICI DI MINORENNI PER CONSENTIRLE DI RIMANERE NEGLI USA. DAGONEWS il 21 agosto 2019. Jeffrey Epstein impiegò un esercito di "discepoli" e una complessa rete di compagnie di cui si serviva per reclutare ragazze minorenni. Le accuse più esplosive sono dettagliate nella causa presentata da Katlyn Doe, che afferma che Epstein l'ha ricattata quando aveva 17 anni per fare sesso con lui promettendole di pagare un costoso intervento chirurgico di cui aveva bisogno e quindi minacciandola di fare in modo che non avrebbe mai ricevuto cure se si fosse rifiutata. Katlyn ha continuato a fare sesso con Epstein credendo che alla fine avrebbe pagato per le sue cure mediche, ma nel 2013 arrivò una nuova richiesta. Una donna, descritta dalla ragazza come "una cittadina non statunitense di cui Epstein si serviva per reclutare le ragazze” aveva bisogno di risiedere permanentemente negli Stati Uniti: per poter rimanere nel Paese Epstein fece in modo che Katlyn sposasse la donna a New York, dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso era stato legalizzato due anni prima. Il finanziere ha continuato a fare sesso con Katlyn durante i primi mesi del matrimonio,  ma l’anno successivo la ragazza, che aveva compiuto 25 anni e considerata troppo ormai vecchia, venne sistemata in un appartamento di Manhattan. Katlyn e sua moglie sono rimaste sposate fino al 2017, quando hanno divorziato. Ma Epstein fece una serie di passi falsi nei confronti della ragazza prima rifiutandole di darle 10mila dollari e poi non pagando nemmeno un dollaro per le sue cure. Circostanze che hanno portato la ragazza a parlare e a denunciare. Tra le accuse contro Epstein c’è anche quella di aver continuato a fare sesso con ragazze minorenni nel periodo in cui era in libertà vigilata in Florida mentre era sotto sorveglianza degli agenti dello sceriffo. Le nuove rivelazioni emergono dopo che altre donne hanno accusato Epstein di averle costrette a essere le sue schiave sessuali.

DAGONEWS il 19 novembre 2019. Una della accusatrici di Jeffrey Epstein ha raccontato di aver "occupato" il posto di Bill Clinton sul Lolita Express, l’aereo privato del finanziere. La 31enne, identificata come Jane Doe 15, ha parlato pubblicamente per la prima volta lunedì per annunciare che sta intentando una causa contro Epstein. Nella sua causa, Doe, che ha raccontato di essere stata abusata dal finanziere da quando aveva 15 anni, ha descritto l'incontro con il segretario di Epstein durante una gita scolastica nel 2004 a New York City e in seguito è stata invitata a volare nel ranch in New Mexico del milionario sul suo jet privato "Lolita Express". «Quando ho scelto un posto sul jet, Jeffrey mi ha detto che era lì che il suo buon amico Bill Clinton aveva sempre scelto di sedersi - ha detto Jane Doe 15 – Voleva come rassicurarmi della normalità di quel tipo di comportamento». Durante il volo Doe ha raccontato che Epstein le ha fatto fare un giro del suo aereo e le ha mostrato la camera da letto. «Mi ha detto di togliermi le scarpe e sentire il pavimento in moquette della stanza – ha continuato Doe - Poi mi ha chiesto se avevo notato qualcosa di speciale. Io gli ho risposto che era molto morbido e lui rise dicendomi che era fatto di materassi in schiuma perché gli piaceva far dormire le ragazze sul pavimento mentre lui giaceva sul letto». Nei documenti della causa si legge che Doe fu molto confusa dalle affermazioni rivelando che «la descrizione delle donne che dormivano intorno a lui sul pavimento la fece immediatamente pensare agli schiavi». Nonostante avesse trovato strana l’interazione con Epstein sull’aereo si sentì rassicurata dalla presenza di un’altra ragazza, una modella che aveva visto in copertina: «Ho pensato che se era lì, era tutto ok». Bill Clinton è uno dei nomi della lista passeggeri che ha volato sul Lolita Express di Epstein. Dopo l'arresto del finanziere quest'anno, Clinton ha affermato che erano anni che non vedeva Epstein e di non sapere nulla della sua condotta scorretta.

DAGONEWS il 19 novembre 2019. Rose McGowan è intervenuta alla BBC per parlare dell’intervista del principe Andrea. La leader del movimento MeToo ha parlato di “oltraggiosi privilegi” e di “mancanza di empatia”, bollando come una serie di bugie l’intervista del Duca di York: «Secondo me, non è un'intervista veritiera e certamente non è nemmeno la spiegazione di un personaggio empatico che si preoccupa delle vittime. Venire in America a parlare di Epstein sarebbe la cosa onorevole da fare». E sulla dichiarazione di Andrea che ha raccontato di non aver fatto sesso con Virginia Roberts, perché stava cenando in un ristorante Pizza Express, McGowan ha continuato: «Credo che Pizza Express chiuda abbastanza presto, quindi c'è abbastanza tempo per andare in una discoteca chiamata Tramps. È un tale privilegio per un uomo di quel tipo di mondo avere così tante persone che fanno tutto per te che non vedi nulla di sbagliato in qualunque tua azione e nelle persone che consideri tue amiche. Ogni volta che qualcuno mente ti senti impotente, ti senti di non esistere e che nessuno ti ascolta. Quindi, posso immaginare che quelle povere donne abbiamo sentito una morsa allo stomaco durante questa intervista. Penso sicuramente che sono state ignorate. Avrei voluto  molte più domande sulle vittime. Non possiamo dimenticare che c'è una tragedia umana dietro questo. Questo non è solo uno scherzo di due uomini più anziani. C'è un forte dolore in questa storia». Prima della sua apparizione alla BBC, McGowan aveva scritto una serie di tweet mentre guardava l’intervista di Andrea: «Sono nauseata. So come si sentono le sue vittime, si sentono ignorate. Guardare la verità fatta a pezzi è davvero terribile. La tua monarchia fa parte di una cospirazione predatoria. Devono risolvere questo». E ancora: «Il principe Andrew non ricorda Virginia Roberts, la sua accusatrice, perché c'erano così tante ragazze? Sto sentendo bene? L'intervista è un discorso di copertura da manuale del predatore. Ci dà uno sguardo molto importante sul potere. Questo è ciò che l'abuso di potere è, gente. Dobbiamo riconoscerlo per fermarlo. Guardate oltre le bugie. Dite la verità. Rimanete puliti».

Epstein, le foto che imbarazzano il principe Andrea. Lui smentisce: «Accuse ripugnanti». Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da Francesco Giambertone su Corriere.it. Il principe Andrea, secondo figlio della Regina Elisabetta d’Inghilterra, continua a dissociarsi dalle accuse che lo vedono coinvolto in prima persona nello scandalo Epstein. In un comunicato pubblicato da Buckingham Palace dice di essere «inorridito dalle recenti notizie sui presunti crimini di Jeffrey Epstein. Sua Altezza Reale deplora lo sfruttamento di ogni essere umano e l’insinuazione che abbia partecipato o incoraggiato comportamenti simili è ripugnante». Il comunicato ha un tempismo preciso. Arriva dopo che il Mail on Sunday ha pubblicato i fermi immagine di un video del 6 dicembre 2010 che mostrava il principe Andrew all’interno della casa di New York di Epstein mentre saluta una ragazza che esce dalla porta. Il video era stato registrato dopo la condanna del 2008 di Epstein per favoreggiamento della prostituzione minorile. C’era già un’altra foto, più vecchia, che imbarazzava il principe: l’hanno divulgata i giudici di New York che hanno reso pubbliche centinaia di pagine sul caso Epstein (e sul ruolo della sua ex fidanzata e amica Ghislaine Maxwell) poche ore prima che lui si uccidesse. Nella foto del marzo 2001 si vede Virginia Giuffre, la testimone chiave, all’epoca sedicenne, abbracciata dal principe Andrea con cui sarebbe stata «costretta ad avere rapporti sessuali». Sono a casa di Ghislaine Maxwell, anche lei nella foto, la donna che - secondo Giuffre - «agiva da madame per Epstein» e che avrebbe «facilitato» quell’incontro. Accuse confermate anche da un’altra testimone, Joanna Sjoberg, che dice di essere stata toccata dal principe Andrea nella villa di Epstein a Manhattan.

Epstein, unico erede è il fratello Mark. E spuntano altre accuse di molestie. Dal testamento, scritto due giorni prima della morte, si evince che il patrimonio del finanziere fosse di 577 milioni di dollari. La Repubblica il 20 agosto 2019. Il testamento firmato da Jeffrey Epstein è stato depositato presso St.Thomas, nelle Virgin Islands. E' un testo standard di 21 pagine chiamato "pour-over will", che prevede di versare tutto ad un fondo fiduciario chiamato nelle carte "The 1953", l'anno di nascita del finanziere. L'unico erede indicato è il fratello Mark Epstein, anche lui investitore e una volta socio di Jeffrey. La data della firma, due giorni prima del suicidio, lascia supporre che Epstein avesse molto probabilmente già intenzione di uccidersi e volesse mettere tutto a posto prima del gesto. Dalle carte di cui il New York Post è venuto in possesso emerge come il patrimonio di Epstein ammonti a oltre 577 milioni di dollari, 18 milioni in più di quanto dichiarato dal finanziere alla corte a cui aveva chiesto invano di ottenere gli arresti domiciliari. Di questa somma oltre 56 milioni di dollari sarebbero in contanti, altri 14 milioni in rendimenti fissi garantiti da vari investimenti, oltre 194 milioni da investimenti in hedge fund e private equity e oltre 112 milioni in azioni ordinarie. Il resto della somma sono automobili (tra cui la Bentley nera che di solito lo portava in giro per Manhattan), aerei privati (tra cui un Boeing 747), barche e proprietà immobiliari: dalla townohouse a nove piani di Manhattan al lussuoso appartamento di Parigi, dal ranch "Zorro" in New Mexico alle due isole nei Caraibi, Little St.James e Great St.James. Un patrimonio immenso che ora fa gola alle vittime che si accingono a presentare cause civili per rivalersi proprio sulla ricchezza di Epstein. Già tre le azioni presentate. E intanto spuntano altre accuse al finanziere. Secondo il Daily Mail ad Epstein un anno furono donate come "regalo di compleanno" tre ragazzine di 12 anni, sembra sorelle provenienti da una famiglia disagiata. Furono fatte arrivare appositamente in aereo da Parigi a New York dove furono abusate. Lo rivela il Daily Mail citando la testimonianza resa da Virginia Roberts Giuffre, finora la principale accusatrice di Epstein e della sua complice Ghislaine Maxwell. Le tre ragazzine sarebbero state rispedite in Francia il giorno dopo le molestie. "Fu una sorpresa da parte di uno dei suoi amici", Jean-Luc Brunel, un talent scout di modelle, ricorda la testimone. Brunel, 72 anni, nega ogni addebito. Ma a Parigi - dove Epstein aveva anche un appartamento - sono già scattate delle indagini che potrebbero riguardare anche l'amico francese del finanziere americano.

Matteo Persivale per il “Corriere della sera” il 20 Agosto 2019. Tutti ormai lo chiamavano «Randy Andy». «Andy l'arrazzato», greve ma memorabile definizione che i tabloid gli avevano confezionato su misura negli anni 80. Era il principe Andrea, duca di York, terzogenito di Elisabetta e secondo figlio maschio, oggi ottavo in linea di successione per il trono (ma quando è nato, il 19 febbraio 1960, era secondo). La sua passione per le donne era nota e lo rendeva una figura allegramente smargiassa nel panorama grigio (Elisabetta e, ovviamente, Diana a parte) della famiglia reale. Ora però i sospetti di pedofilia gettano una luce orrida su quel soprannome di una volta, dopo che il Mail on Sunday ha pubblicato le immagini e il video di Andrea a New York, a casa dell' amico Jeffrey Epstein, nel 2010, due anni dopo la condanna per pedofilia dell' americano. Nelle immagini Andrea è sorridente e pare supervisionare il viavai di ragazzine - bambine, a ben guardare - nel lussuoso palazzo di Manhattan con vista su uno dei musei più belli del mondo, la Frick Collection. Buckingham Palace ha rapidamente diffuso una nota dura: «Il Duca di York è rimasto sconvolto dalle recenti rivelazioni sui presunti crimini di Jeffrey Epstein. Sua Altezza Reale condanna lo sfruttamento di ogni essere umano, e ipotizzare che possa aver favorito, incoraggiato, commesso crimini di questo tipo è orribile». Si sapeva già che Andrea, amico di Epstein, aveva continuato a frequentarlo anche dopo la condanna per pedofilia del 2008: una scelta incomprensibile. Ma è ancora più grave sapere, grazie al video emerso l' altro giorno, che Andrea frequentava Epstein non solo in luoghi pubblici ma anche nella sua villa (dove sono stati trovati in cassaforte passaporti falsi, materiale pedopornografico, decine di migliaia di dollari in contanti). Andrea nei giorni scorsi si è provvidenzialmente ritirato dalla vita pubblica, auto-pensionandosi a soli 59 anni (la madre, a 93, continua a fare la sovrana con un calendario di impegni molto fitto). Elisabetta tace ma appoggia il figlio con decisione: si è fatta fotografare in auto con Andrea soltanto pochi giorni fa, segnale ovvio della sua intenzione di proteggerlo. Quello che la regina non può impedire, però, è che le indagini sui crimini di Epstein che continuano anche dopo la sua morte, avvenuta apparentemente per suicidio in cella, finiscano per aggravare ulteriormente la posizione di suo figlio. È significativo che ieri, a Londra, ci si domandasse se Andrea potrebbe contare o no sull' immunità diplomatica (la questione è spinosa, la risposta non è certa ma è più sì che no, e se gli americani volessero un giorno incriminarlo si aprirebbe un caso diplomatico senza precedenti). Come si è arrivati a questo punto? Per i reali, poi, i giornali di domenica hanno aggiunto un ulteriore gravissimo imbarazzo: si è scoperto che l'Fbi aveva un dossier su Lord Mountbatten - ultimo viceré dell' India, zio di Filippo e mentore del giovane principe Carlo, assassinato dall' Ira nel 1979 - accusato di pedofilia su ragazzini e descritto come «personaggio di infimo livello morale». Si è a questo punto per l'enorme imprudenza di Andrea: frequentare Epstein, personaggio oscuro e già molto discusso prima della condanna per pedofilia, uomo dall' enorme patrimonio dall' origine misteriosa e in odore di contatti con l' intelligence di vari Paesi. Aver continuato a vederlo anche dopo la condanna sembra oggi pura follia. O quantomeno il sintomo della convinzione di Andrea d' essere invulnerabile.

Da Ansa il 20 Agosto 2019. Nuovi dettagli emergono dal caso Epstein. Al finanziere americano un anno furono donate come "regalo di compleanno" tre ragazzine di 12 anni, sembra sorelle provenienti da una famiglia disagiata. Furono fatte arrivare appositamente in aereo da Parigi a New York dove furono abusate. Lo rivela il Daily Mail citando la testimonianza resa da Virginia Roberts Giuffre, finora la principale accusatrice di Epstein e della sua complice Ghislaine Maxwell. Le tre ragazzine sarebbero state rispedite in Francia il giorno dopo le molestie. "Fu una sorpresa da parte di uno dei suoi amici", Jean-Luc Brunel, un talent scout di modelle, ricorda la testimone. Brunel, 72 anni, nega ogni addebito. Ma a Parigi - dove Epstein aveva anche un appartamento - sono già scattate delle indagini che potrebbero riguardare anche l'amico francese del finanziere americano. Il fratello Mark unico erede nel testamento - Il testamento firmato da Jeffrey Epstein è stato depositato presso St.Thomas, nelle Virgin Islands. E' un testo standard di 21 pagine chiamato "pour-over will", che prevede di versare tutto ad un fondo fiduciario chiamato nelle carte "The 1953", l'anno di nascita del finanziere. L'unico erede indicato e' il fratello Mark Epstein, anche lui investitore e una volta socio di Jeffrey. La data della firma, due giorni prima il suicidio, lascia supporre che Epstein avesse molto probabilmente già intenzione di uccidersi e volesse mettere tutto a posto prima del gesto. Dalle carte di cui il New York Post è venuto in possesso emerge come il patrimonio di Epstein ammonti a oltre 577 milioni di dollari, 18 milioni in più di quanto dichiarato dal finanziere alla corte a cui aveva chiesto invano di ottenere gli arresti domiciliari. Di questa somma oltre 56 milioni di dollari sarebbero in contanti, altri 14 milioni in rendimenti fissi garantiti da vari investimenti, oltre 194 milioni da investimenti in hedge fund e private equity e oltre 112 milioni in azioni ordinarie. Il resto della somma sono automobili (tra cui la Bentley nera che di solito lo portava in giro per Manhattan), aerei privati (tra cui un Boeing 747), barche e proprietà immobiliari: dalla townohouse a nove piani di Manhattan al lussuoso appartamento di Parigi, dal ranch "Zorro" in New Mexico alle due isole nei Caraibi, Little St.James e Great St.James. Un patrimonio immenso che ora fa gola alle vittime che si accingono a presentare cause civili per rivalersi proprio sulla ricchezza di Epstein. Già tre le azioni presentate.

Principe Andrea, massaggio ai piedi da giovane donna a casa di Epstein. Pubblicato venerdì, 23 agosto 2019 da Corriere.it. Il principe Andrea, duca di York e terzogenito della regina Elisabetta, viene di nuovo tirato in ballo nel caso di Jeffrey Epstein, il miliardario americano accusato di abusi sessuali e traffico di minori morto suicida in carcere lo scorso 10 agosto. Il fratello di Carlo d’Inghilterra è stato visto mentre si faceva massaggiare i piedi da una giovane donna nell’appartamento di New York dell’amico Epstein, secondo quanto emerge da uno scambio di email — pubblicato da «New Republic» — tra l’agente letterario John Brockman e lo scrittore Evgeny Morozov. Nell’articolo di «New Republic», Morozov, esortato da Brockman a incontrare Epstein, cita una email datata 12 settembre del 2013 in cui l’agente letterario gli racconta di aver visto il principe Andrea e Epstein che si facevano massaggiare i piedi da «due giovani donne russe elegantemente vestite». Buckingham Palace ha già negato ogni possibile coinvolgimento di Andrea nel caso collegato a Epstein indicando che «il duca di York è rimasto sconvolto dalle rivelazioni sui presunti crimini di Jeffrey Epstein. Sua Altezza Reale condanna lo sfruttamento di ogni essere umano e ipotizzare che possa aver favorito, incoraggiato, commesso crimini di questo tipo è orribile», si legge in una nota diffusa domenica scorsa. È noto che Andrea abbia continuato a frequentare Epstein anche dopo la sua prima condanna per pedofilia nel 2008. 

Da marieclaire il 22 agosto 2019. Anno 2019 dell’era social, Naomi Campbell dà la sua lezione di uso pratico. Ma niente bikini atomici su Instagram o viralate sulle sue ossessioni per la pulizia in aereo. Naomi Campbell oggi è seria, molto seria. La top model più famosa del mondo ha esplicitato sul profilo Youtube Naomi in che tipo di rapporti fosse (stata) con Jeffrey Epstein, il finanziere trafficante di minorenni morto suicida i primi di agosto a Manhattan nello scandalo collettivo che sta travolgendo l'alta società e la giustizia statunitense. I nomi celebri che hanno incrociato legami con Epstein sono stati moltissimi, i tentacoli dell’ambizioso finanziere amico dei vip erano arrivati ovunque. Anche molto vicini a Naomi Campbell come ha indicato un articolo del Mail On Sunday, in un puzzle di dubbi sulle conoscenze che inficerebbero sul merito umanitario della supertop, fotografata accanto a diversi personaggi discutibili nel corso della sua lunga carriera. L’elenco è variegato: Jeffrey Epstein e Harvey Weinstein, accomunati dalle accuse di molestie sessuali e abusi di potere su attrici e modelle a volte minorenni, l'ex presidente della Liberia Charles Taylor (condannato in via definitiva a 50 anni dal tribunale speciale de L'Aja per crimini di guerra in Sierra Leone), il pugile Mike Tyson (che uno stinco di santo non è mai stato) e via snocciolando. “L’articolo mi ha scioccata. L’ho sempre detto, non sono una santa, ma non mi farò tenere in ostaggio dal mio passato” esordisce Naomi nel video di risposta, sottolineando di essere particolarmente dispiaciuta per come sia stato descritto il suo progetto Fashion For Relief, fondato nel 2005. “Non è beneficenza per vanità” ha sottolineato la top model, che proprio quest’anno verrà premiata con il Fashion Icon Award dal British Fashion Council per il suo impegno filantropico. Nel video Naomi Campbell sottolinea come avrebbe voluto essere interpellata da un giornale tanto noto come il Mail On Sunday per rispondere testualmente alle “accuse” sui rapporti con le persone citate nell’articolo, ed esplicita chiaramente come per lei quello non sia giornalismo, ma la "distruzione deliberata di una persona". Al centro del video della regina delle passerelle c’è stato il caso Epstein, naturalmente. Nella lista bipartisan di amicizie altolocate intessute dal finanziere figura anche il nome di Naomi Campbell, emerso dai documenti desecretati due settimane fa dal tribunale di New York. Gli stessi documenti che hanno indicato il principe Andrew d’Inghilterra beneficiario di favori sessuali da una minorenne in uno dei festini di Epstein organizzato dalla teste chiave Ghislaine Maxwell, nel frattempo sparita nel nulla. A Jeffrey Epstein Naomi Campbell ha dedicato poche parole: “Sì, lo conoscevo, me lo ha presentato il mio ex fidanzato Flavio [Briatore ndr] il giorno del mio 31esimo compleanno. Era sempre in prima fila al centro agli show di Victoria’s Secret” ha raccontato, precisando che non sapeva assolutamente ciò che Epstein facesse in privato. “È indifendibile. Quando ho sentito cosa aveva fatto mi sono sentita male, come tutti. Ho avuto la mia razione di predatori sessuali e grazie a Dio ho avuto anche persone buone che mi hanno protetta da tutto questo. Io sto con le vittime. Saranno terrorizzate a vita” ha voluto specificare Naomi.

La maîtresse di Epstein a Buckingham Palace. La Maxwell tra le invitate del principe Andrea Gli amici: «È un playboy ma non un pedofilo». Erica Orsini, Domenica 25/08/2019 su Il Giornale. Londra Il Principe Andrea ancora nell'occhio del ciclone. È emersa ieri infatti l'ennesima testimonianza che racconta come il Duca di York fosse abituato a portare in segreto a palazzo molte donne, tra le quali Ghislaine Maxwell, figlia di Robert Maxwell e accusata di procurare le schiave sessuali per il miliardario Jeffrey Epstein e i suoi amici. A spiegarlo è Paul Page, che ha lavorato a Buckingham Palace nel servizio di protezione dei Reali. Le accuse sono state fatte da Page nel 2009, nel corso di un processo che lo vedeva accusato di investimenti fraudolenti e non erano mai state rese pubbliche, ma sono finite in mano al tabloid Daily Mirror che le ha diffuse. Page aveva mosso accuse di negligenza pesanti nei confronti di colleghi e capi dello staff, ma soprattutto verso il principe Andrea definito anche molto arrogante e scortese. «Il peggior responsabile degli abusi era il principe Andrea - afferma Page - aveva spesso signore che gli facevano visita, inclusa Ghislaine Maxwell, e diventava verbalmente molesto quando gli ufficiali in servizio lo riprendevano per non aver segnalato nel registro preposto l'ingresso delle sue ospiti». In nessuna parte delle sue dichiarazioni Page fa riferimento a minorenni come conferma anche l'ex Soprintendente e capo della Protezione Reale Dai Davies: «È ben documentato che il Duca di York era coinvolto con un parecchie signore attraenti ma non ho mai saputo che si trattasse di minorenni». Davies aggiunge che non era contro il protocollo non segnalare l'ingresso delle ospiti. «È una loro prerogativa, dopotutto sono a casa loro». Insomma, un playboy prepotente e abusivo, ma non un pedofilo. Una fonte del tabloid The Sun descrive il terzogenito di Elisabetta come un uomo «che ha una fidanzata in ogni porto», al punto da meritarsi il soprannome di «Randy Andy», «Andy il lascivo». Ma gli amici confermano che non si è mai accompagnato a minorenni. «Girando il mondo come ambasciatore per gli scambi commerciali - raccontano i suoi conoscenti al Sun aveva l'opportunità di conoscere molte donne e traeva pieno vantaggio da questo privilegio. Sebbene gli piacesse divertirsi, sarebbe però rimasto scioccato se avesse saputo che qualcuna di loro aveva subito violenze o abusi». E sempre ieri, in una nuova nota stampa il Duca di York difende la sua amicizia con il finanziere Jeffrey Epstein affermando che in nessun momento ha mai visto o sospettato comportamenti criminali da parte del miliardario suicidatosi in prigione qualche settimana fa. Il principe ammette che incontrare Epstein nel 2010, quando uscì di prigione, fu un errore di cui oggi si può solo rammaricare. «Evidentemente non era la persona che pensavo di conoscere, alla luce di quello che sappiamo oggi». E però sottolinea che «nel periodo in cui l'ho conosciuto l'ho visto poco di frequente - spiega - probabilmente non più di una o due volte in un anno. Sono stato ospite in alcune delle sue residenze. In nessuna occasione, nel tempo limitato che ho trascorso con lui, sono stato testimone o ho sospettato di comportamenti come quelli che hanno poi condotto al suo arresto». Il principe ha aggiunto inoltre di provare una grande compassione per le vittime di Epstein. «Il suo suicidio ha lasciato molti interrogativi senza risposta e comprendo e solidarizzo con chiunque sia stato coinvolto e voglia chiudere questa vicenda».

Regina Elisabetta trema, bomba sessuale su Andrea: "A casa di Epstein, cosa l'ho visto fare con due russe". Libero Quotidiano il 24 Agosto 2019. Dettagli imbarazzanti su Andrea d'Inghilterra a casa di Jeffrey Epstein, a tratti imbarazzanti. Il figlio della Regina Elisabetta e fratello di Carlo d'Inghilterra si recò nel 2010 nella casa newyorkese del finanziere americano morto suicida in carcere dopo essere stato nuovamente invischiato in una terrificante inchiesta su prostituzione e pedofilia internazionale. Ora però emergono alcuni particolari su quella visita "in amicizia" (sebbene Epstein fosse già al tempo stato schedato dalle autorità Usa come personaggio sessualmente pericoloso) del Duca di York. Secondo quanto riportano il New York Republic Magazine e tutti i giornali britannici, il principe Andrea a casa Epstein si sarebbe fatto fare un massaggio ai piedi da due giovani donne russe. L'episodio è stato raccontato nelle e-mail intercorse nel settembre 2013 tra lo scrittore Eugeny Morozov e il suo agente letterario John Brockman. "L'ultima volta che sono stata a casa sua - si legge nella mail di Brockman - sono entrato e l'ho trovato in tuta assieme a uomo inglese in vestito e bretelle, che si stava facendo massaggiare i piedi da due giovani russe ben vestite". "Dopo avermi interrogato per un po' a proposito della sicurezza cibernetica continua a raccontare l'agende - l'inglese, di nome Andy, ha fatto alcuni commenti sulle accuse contro Julian Assange per passare poi a commentare il suo profilo pubblico". "A Monaco  - si sarebbe lamentato Andrea - Alberto lavora 12 ore al giorno ma alle nove di sera, quando esce, può fare quello che vuole, nessuno ci fa caso. Se lo faccio io, però, sono nei guai grossi". 

IL DUCA DI “PORK”! Antonello Guerrera per la Repubblica il 24 agosto 2019. Nel "Padrino" di Coppola sarebbe il goffo Fredo, per Italo Svevo lo Zeno preso a schiaffi dal padre morente, oppure, chissà, forse è un po' Hans Jacob, il figlio rinnegato del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen: quando adulto e in miseria bussò alla porta del padre, questi gli mise in mano due spiccioli e gli sbatté la porta in faccia. Ogni giorno che passa, il 59enne principe Andrea, fratello minore di Carlo e figlio di Elisabetta e di Filippo, pare sempre più la pecora nera della famiglia Windsor. E va bene che non è lo primo scandalo della dinastia, ma ora Andrew pare scivolato in una infinita spirale di ignominia, lui, il notorio "cocco" di mamma Elisabetta. «Dovrebbe rinunciare immediatamente alle sue funzioni pubbliche», ha detto ieri al Guardian un celebre ma anonimo esperto di reali. Sì, perché lo scandalo Epstein, il miliardario americano che aveva creato uno spaventoso impero di prostituzione minorile invischiando molti potenti e poi morto impiccato nella sua cella di Manhattan il 10 agosto, sta travolgendo il duca di York Andrea. L' ultima è di ieri, quando il celebre giornalista e massmediologo Evgeny Morozov ha raccontato sulla rivista americana New Republic uno scambio di email con il suo agente John Brockman, amico e frequentatore di Jeffrey Epstein, in cui viene fuori che Andrea, nel settembre 2013, si sarebbe trovato a Manhattan, nella magione del miliardario, mentre si faceva massaggiare i piedi da «una ragazza molto giovane ». Non solo. Tre giorni fa il Sun ha pubblicato il resoconto di un pilota, raccolto dalle carte processuali in America, che confermerebbe gli spostamenti in volo di Andrea con Virginia Roberts Giuffre, allora 17enne schiava sessuale di Epstein che sostiene di aver avuto almeno tre rapporti sessuali con Andrew nel 2001 grazie alla mediazione di Ghislaine Maxwell, assistente personale di Epstein e amica del duca di York. Quest' ultimo, in una famigerata foto, nel marzo di quello stesso anno avvinghia i fianchi la teenager, proprio a casa di Maxwell. Accuse non nuove e che la Casa Reale smentisce categoricamente ma che ora sono tornate attuali. Anche perché Andrea ha continuato a frequentare Epstein pure dopo il 2008, quando quest' ultimo ricevette una condanna e secondo la legge, era schedato per reati sessuali. Ma Andrea, ex eroe delle Falkland, è stato sempre così, non a caso negli anni si è guadagnato i soprannomi Randy Andy ("allupato") e "principe dell' azzardo". E poi ha sempre avuto un' attrazione fatale per le conoscenze pericolose, vedi Gheddafi o il figlio dell' ex presidente tunisino Ben Ali. Ora però in molti temono che la sua strafottenza stia debordando, con conseguenze pericolose per i Windsor, anche perché lo scandalo Epstein pare essere solo agli inizi: ieri in Francia è stata aperta una nuova inchiesta per presunti stupri nei confronti di minori, legata al caso del miliardario. Pur nella bufera mediatica, Andrea ha pensato bene di rilassarsi giocando a golf a Sotogrande, in Spagna, dove ora si trova insieme all' ex moglie, la sgargiante e sconclusionata Sarah Ferguson, altro rapporto bizzarro del principe. Hanno divorziato nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio, ma da molto tempo i due viaggiano e soprattutto vivono ancora insieme. A Londra c' è chi dice che potrebbero addirittura risposarsi, e al diavolo gli scandali sessuali di Epstein. Il giorno dopo la morte dell'americano, Andrea era in chiesa con la mamma a Crathie, nei pressi della tenuta reale scozzese di Balmoral. Va tutto bene, caro Andrew.

Principe Andrea difende amicizia con Epstein: "Mai visto o sospettato comportamenti criminali". Per il terzogenito della regina Elisabetta "è stato un errore" solo l'incontro con il finanziere dopo la sua scarcerazione nel 2010. La Repubblica il 24 agosto 2019.  Il principe Andrea, terzogenito della regina Elisabetta, difende la sua amicizia con Jeffrey Epstein, accusato di abusi e traffico di minori e morto suicida in prigione a New York. "Mai, in nessun momento ho visto o sospettato comportamenti criminali", ha detto citato dalla Bbc, ammettendo che incontrare il finanziere dopo la sua scarcerazione nel 2010 "è stato un errore". Il figlio della regina è stato visto in casa di Epstein ed è noto che avesse continuato a frequentare Epstein anche dopo la sua prima condanna per pedofilia nel 2008. "Nel periodo in cui l'ho conosciuto ci siamo visti raramente, probabilmente non più di una o due volte l'anno", afferma il duca di York in un comunicato. "Sono stato ospite in alcune delle sue residenze, e mai nel limitato periodo in cui sono stato con lui ho visto, sono stato testimone o ho sospettato qualsiasi comportamento che ha portato al suo arresto e alla sua condanna". Andrea afferma di avere una "grande simpatia" per tutte le vittime di Epstein. "Il suo suicidio ha lasciato molte domande senza risposta, e sono a fianco di chiunque sia stato vittima e voglia in qualche modo chiudere" con il passato. Buckingham Palace ha sempre negato ogni possibile coinvolgimento di Andrea nel caso collegato a Epstein da quando sono venute fuori le accuse di molestie sessuali da parte di una minorenne che si è definita "schiava sessuale di Epstein". "Il duca di York - era scritto nella nota della Casa Reale - è rimasto sconvolto dalle rivelazioni sui presunti crimini di Epstein. Sua Altezza Reale condanna lo sfruttamento di ogni essere umano e ipotizzare che possa aver favorito, incoraggiato, commesso crimini di questo tipo è orribile", si leggeva in una nota diffusa domenica scorsa.

Epstein: abusi, amici potenti. Chi non sapeva? Il principe Andrea:  un errore frequentarlo. Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Viviana Mazza su Corriere.it. Jeffrey Epstein adorava «la sensazione che provi quando trovi la risposta giusta a un rompicapo», come disse in un’intervista del 2003 con Bloomberg sulla sua isola privata di Little St. James. Incontrò il giornalista nel gazebo, perché nella residenza c’era confusione: «Troppe ragazze». Sedici anni dopo — e 15 giorni fa — il milionario americano si è ucciso in carcere a Manhattan, incriminato per traffico sessuale di minorenni. I pezzi del puzzle della sua vita e dei suoi rapporti con amici potenti — come il principe Andrea, i presidenti Clinton e Trump — stavano cominciando a comporsi, nonostante i suoi tentativi di usare denaro e contatti per sfuggire alla giustizia. Poche ore prima del suicidio erano state rese pubbliche testimonianze, rapporti di polizia, registri di volo dei suoi jet privati: duemila pagine di documenti legali relativi agli anni 2002-2005. Illustrano in modo dettagliato le perversioni di questo ex insegnante di matematica della Dalton, prestigiosa scuola privata di New York, che era stato introdotto dal padre di un allievo a Wall Street e, dopo un’ascesa fulminea nella banca di investimenti Bear Stearns, s’era messo in proprio come consulente finanziario. Decine e decine di ragazzine passarono dalle sue residenze a Manhattan, a Palm Beach in Florida, sull’isola, nel ranch «di Zorro» e forse a Parigi, dove pure è stata aperta un’inchiesta. «Aveva un’ossessione per le minorenni... puntava sulle ragazze con difficoltà economiche». Le ingaggiava come massaggiatrici, pagando ben 200 dollari a seduta e offrendo regali (iPod, gioielli) alle favorite. Dopo i primi appuntamenti, chiedeva loro di spogliarsi («ma puoi tenere le mutandine»). Le guardava, le toccava fino all’orgasmo («ne esigeva tre al giorno») e con alcune andava oltre, come si legge nei documenti. Il maggiordomo che ripuliva il bagno dai sex toys si rese conto che erano giovanissime. «Mangiavano sempre latte e cereali, come le mie figlie». Tutto questo accadeva negli stessi anni in cui i giornali americani ritraevano Epstein come «uomo del mistero» che aveva costruito la sua fortuna da zero, novello Gatsby, scapolo ambitissimo. Misteriosi restano i nomi dei suoi clienti, tranne uno, Leslie Wexner, il proprietario di Victoria’s Secret che gli diede carta bianca per gestire la sua fortuna. Virginia Roberts Giuffre, reclutata a 16 anni nel 2000 a Mar-a-lago, il resort di Trump, dice di essere diventata una «schiava sessuale» costretta a compiacere gli amici di Epstein: tre volte con il principe Andrea, sette con Wexner, e poi l’ex governatore Bill Richardson, il pioniere dell’intelligenza artificiale Marvin Minsky, l’agente di modelle Jean-Luc Brunel, l’avvocato Alan Dershowitz (negano tutti). Intanto Lady Lynn de Rothschild gli presentava Bill Clinton, che nel 2002 si recò in Africa sul Boeing 757 di Epstein (il «Lolita Express») per la sua campagna contro l’Aids. Dai registri di volo, sottolinea Trump, emerge che Clinton ha viaggiato sui jet del finanziere 12 volte, non 4 come ha ammesso; ma del racconto di Giuffre che lo colloca a Little St. James con «due brunette» scortato dagli 007 non ci sono prove.Nel 2000 Epstein conobbe il Principe Andrea, allora rappresentante per il commercio britannico. Un amico comune spiegò che l’aristocratico inglese imparò da lui a «rilassarsi». A presentarli fu Ghislaine Maxwell, ereditiera inglese che si era trasferita a New York dopo la morte del padre, magnate dell’editoria misteriosamente «caduto dallo yacht» (e precipitato in uno scandalo post-mortem per aver rubato milioni dalle pensioni dei dipendenti). È l’esuberante Maxwell — per un periodo fidanzata, poi «amica» che forse sperava di sposarlo — la principale «procacciatrice» di minorenni, secondo almeno tre accusatrici: setacciava le sale massaggi, aspettava all’uscita della scuola, prometteva impieghi rispettabili. E quando abboccavano le istruiva sui massaggi erotici (di cui usufruiva anche lei). Nelle stesse ville Epstein teneva conferenze di scienziati e cene di filantropi servendo i vini e i cibi più raffinati, ma lui non beveva né mangiava, ci racconta l’avvocato Dershowitz nella sua casa a Martha’s Vineyard. «Poi abbiamo capito: il suo vizio era un altro». Lo scandalo scoppiò nel 2005, quando la madre di una quattordicenne di Palm Beach andò dalla polizia. Presto le accusatrici diventarono sei, nel giro di un anno 36. Nel 2008 il finanziere patteggiò: colpevole di adescamento minorile, scontò 13 mesi di carcere, evitando pene federali. Carcere per modo di dire: usciva per 16 ore al giorno, tornava a casa. Un accordo ottenuto dal suo team di avvocati superstar (tra cui Dershowitz) che tenne all’oscuro le vittime e garantì l’immunità a Maxwell e alle assistenti: Sarah Kellen, che «curava la lista delle ragazze»; Lesley Groff che organizzava i viaggi; Nadia Marcinkova, «schiava sessuale» diventata reclutatrice. Dopo lo scandalo gli amici potenti presero il largo, Andrea no. Le prime accuse contro di lui sono emerse nel 2015, quando Giuffre ha prodotto la famosa foto del principe che la abbracciava nel 2001. Ancora nel 2010 fu ripreso sull’uscio di Epstein a New York in compagnia di ragazze. Ieri è stato costretto a intervenire: «Non sapevo nulla ma fu un errore continuare a vederlo». Non c’è mai stato un processo: negli anni decine di vittime hanno taciuto dopo accordi economici. Se il caso è stato riaperto a luglio è merito del Miami Herald. La cronista Julie K. Brown ha identificato 80 donne. Ne ha intervistate otto, tra cui Courtney Wild e Jena-Lisa Jones, molestate a 14 anni. A 66 anni Epstein rischiava di passare il resto della vita in prigione. Aveva fatto dipingere un murales nella casa di Manhattan che lo ritrae dietro le sbarre, una sorta di memento. Il suicidio è stato «il risultato di un’analisi costi-benefici», dice Dershowitz. Il giorno prima ha messo il suo patrimonio in un fondo fiduciario, rendendo più ardue le cause civili. È stata la sua risposta al rompicapo finale, per sfuggire, ancora una volta, alla giustizia.

Caso Epstein, principe Andrea pronto a collaborare con Fbi. E spuntano nuove rivelazioni sul jet privato. Secondo i registri di volo, il terzogenito della regina e Anna Malova, 27enne ex miss Russia e seconda a miss Universo, erano tra i nove passeggeri dell'aereo diretto dalle Isole Vergini americane dove il finanziere teneva le sue orge private, alla Florida nel febbraio 1999. La Repubblica il 26 agosto 2019. Il principe Andrea è pronto a collaborare con l'Fbi sul caso Jeffrey Epstein se gli sarà richiesto. Lo riferiscono fonti di Buckingham Palace al Daily Mail. La scorsa settimana era emerso che la polizia metropolitana aveva deciso di non indagare sulle affermazioni di una donna statunitense che aveva dichiarato di essere stata costretta dal finanziere americano morto suicida in carcere ad avere rapporti sessuali con il terzo figlio della regina Elisabetta. Ma su Epstein, travolto dalle accuse di abusi sessuali, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, e sulle circostanze della morte del finanziere americano, sta indagando l'Fbi. Intanto continuano a uscire nuove rivelazioni che imbarazzano ancora il principe pubblicate dai tabloid di tutto il mondo e che documentano l'amicizia del principe con Epstein. Adesso si parla del jet privato del miliardario sul quale si sarebbe trovato anche Andrea insieme ad un gruppo che includeva anche una modella russa. Secondo i registri di volo, il principe e Anna Malova, allora 27enne, ex miss Russia e secondo a miss Universo nel '98, erano tra i nove passeggeri dell'aereo diretto dalle Isole Vergini americane (dove il finanziere teneva le sue orge private) alla Florida nel febbraio 1999. Condannata per aver falsificato una ricetta per il Vicodin, Malova è stata successivamente anche in carcere negli Stati Uniti per non aver rispettato un programma di riabilitazione ordinato dal tribunale per l'uso di antidolorifici. La scoperta del volo, finora sconosciuta, aumenta la pressione sulla casa reale britannica che continua a negare qualsiasi coinvolgimento nel caso. Il principe sabato ha rilasciato una dichiarazione in cui sostiene di non aver mai "assistito o sospettato alcun tipo di comportamento" che abbia portato alla condanna di Epstein nel 2008 e che il suo solo errore sia stato continuare a vederlo dopo la condanna. Il volo del febbraio 1999, come sostiene il Sunday Times, è segnato nei registri tenuti dai piloti di Epstein depositati presso un tribunale americano da Virginia Roberts Giuffre, che afferma di essere stata usata come schiava sessuale da Epstein. Il diario di bordo era tra le quasi duemila pagine di documenti e non tra le 73 pagine dei registri dei voli di Epstein precedentemente rilasciati alla magistratura dove Andrea già figurava diverse volte tra i passeggeri. Nel 1999 sullo stesso volo erano presenti lo stretto amico di Epstein, Ghislaine Maxwell, figlia del defunto finanziere Robert Maxwell accusato da diverse vittime di aver assistito agli abusi sulle ragazze, Gwendolyn Beck, un ex dirigente del settore finanziario che si candidò senza successo al Congresso in Virginia nel 2014 (e al quale Epstein donò più di 12 mila dollari per la sua campagna).

CHI ENTRAVA E USCIVA DALLA CASA DELLA GNOCCA? DAGONEWS il 26 agosto 2019. Il principe Andrea non è l’unico a essere finito nella bufera per la sua frequentazione con Jeffrey Epstein. Adesso a finire nel mirino del Daily Mail è Woody Allen, fotografato mente lascia la casa di Manhattan del finanziere suicida. Il regista, accompagnato dalla moglie Soon-Yi, è stato immortalato mentre si allontanava il 5 dicembre 2010 dopo aver partecipato al party in onore del terzogenito di Elisabetta II. Durante la visita di quattro giorni di Andrea il miliardario avrebbe organizzato una festa alla quale hanno partecipato anche la giornalista Katie Couric, l'attrice Chelsea Handler e l'anchor man George Stephanopoulous.

Usa, le vittime di Epstein in lacrime in tribunale: “Era un codardo". La rabbia è cresciuta dopo il suicidio in carcere dell'uomo, il 10 agosto: "Non sarà fatta giustizia". Una delle donne ha denunciato: "Il fatto che non avrò mai la possibilità di affrontare il mio aggressore in tribunale mi toglie l'anima". Secondo Virginia Giuffre, il principe Andrea "sa cosa ha fatto". La Repubblica il 28 agosto 2019. Le vittime che si susseguono sul palco dei testimoni sono d'accordo: Jeffrey Epstein, il miliardario al centro di uno scandalo di pedofilia che coinvolge molti Vip, era un "codardo". E la loro rabbia è cresciuta dopo il suicidio in carcere dell'uomo, il 10 agosto: "Non sarà fatta giustizia". Ieri, 27 agosto, è stato il primo giorno di testimonianze davanti ai giudici: una decina di donne ha raccontato la sua versione e denunciato di essere state sottoposte ad abusi da parte del miliardario. Molte, come Courtney Wild, hanno sottolineato la sua vigliaccheria: "Sono molto arrabbiata e triste, è stato un codardo". Frustrazione condivisa da Jennifer Araoz: "Il fatto che non avrò mai la possibilità di affrontare il mio aggressore in tribunale mi toglie l'anima". Un suicidio sotto indagine dell'Fbi, e giudicato "pieno di interrogativi" ieri dall'avvocato Brad Edwards che rappresenta le vittime. Un'altra vittima è scesa nei dettagli spiegando le violenze sessuali subite e le conseguenze che hanno avuto: "Ho trascorso due settimane a vomitare quasi a morte in ospedale dopo quel primo incontro con Epstein". Una delle vittime, Virginia Roberts Giuffre, ha denunciato: "Sono una vittima di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e degli oscuri e crudeli atti criminali che hanno commesso contro di me, per anni e anni tenuti all'oscuro". La donna ha anche tirato in ballo il principe Andrea, terzogenito della regina Elisabetta, amico del miliardario morto suicida e coinvolto negli scandali sessuali, affermando di essere stata costretta a fare sesso con il reale quando aveva 17 anni: il principe "sa cosa ha fatto" e spero che "dica la verità su tutto". Epstein è stato arrestato il 6 luglio scorso: già nel 2008 era stato dichiarato colpevole di traffico sessuale di decine di ragazze, alcune giovanissime. Anche se il processo penale non andrà in porto a causa della morte dell'imputato, il suicidio, ha assicurato la procuratrice federale Maurene Comey: "Non fermerà le indagini su altre persone che hanno aiutato Epstein a portare avanti il suo piano di sfruttamento di ragazze minorenni". "Non lo lascerò vincere nella morte", ha avvertito una delle vittime, Chauntae Davies.

Una vittima di Epstein: «Il principe Andrew ora deve dire cosa ha fatto». Pubblicato mercoledì, 28 agosto 2019 da Monica Ricci Sargentini Corriere.it. Virginia Roberts Giuffre punta il dito ancora una volta sul principe Andrew: «Il terzogenito della regina Elisabetta sa quello che ha fatto e mi aspetto che vuoti il sacco». Una delle presunte vittime di Jeffrey Epstein, il miliardario accusato di abusi e sfruttamento della prostituzione minorile che si è suicidato in cella a New York lo scorso 10 agosto, ha parlato ieri davanti a un tribunale della Grande Mela dove si sono appena tenute le audizioni delle ragazze stuprate dal finanziere. Giuffre, 35 anni, ha ribadito di essere stata costretta ad avere incontri con il principe quando aveva 17 anni, sotto l’età consentita. In una foto che risale al 2001 si vede il Duca di York cingerle la vita. I due, dunque, si conoscevano ed avevano una certa intimità. «Non mi fermerò mai fino a che non otterrò giustizia» ha dichiarato ieri la donna. Il Duca di York conobbe Epstein nel 2000 quando il principe era rappresentante per il commercio britannico. Un amico comune spiegò che l’aristocratico inglese imparò da lui a «rilassarsi». A presentarli fu Ghislaine Maxwell, ereditiera inglese che si era trasferita a New York dopo la morte del padre, magnate dell’editoria misteriosamente «caduto dallo yacht» (e precipitato in uno scandalo post-mortem per aver rubato milioni dalle pensioni dei dipendenti). È l’esuberante Maxwell — per un periodo fidanzata, poi «amica» che forse sperava di sposarlo — la principale «procacciatrice» di minorenni, secondo almeno tre accusatrici: setacciava le sale massaggi, aspettava all’uscita della scuola, prometteva impieghi rispettabili. E quando abboccavano le istruiva sui massaggi erotici (di cui usufruiva anche lei). Nei giorni scorsi il principe Andrew aveva espresso «profonda vicinanza» a tutte le persone danneggiate dal comportamento di Epstein ma aveva negato «qualsiasi suo atto improprio con minorenni». Fonti di palazzo reale hanno riferito che il duca di York è disponibile a collaborare con l’Fbi sulla vicenda se gli verrà richiesto.

Epstein, “inutilizzabili” i filmati registrati fuori dalla cella del finanziere. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 28 agosto 2019. Quando la realtà supera la fiction. I filmati registrati da (almeno) una delle videocamere posizionate al di fuori dalla cella del carcere di New York dove il 10 agosto scorso si sarebbe suicidato il finanziere Jeffrey Epstein sarebbero “inutilizzabili”. A renderlo noto è il Washington Post, che cita alcune fonti investigative che stanno indagando sulle circostanze della morte del milionario americano. Il quotidiano spiega che al momento non è chiaro il motivo per cui alcuni filmati registrati fuori dalla cella di Epstein siano così danneggiati o imperfetti da essere inutilizzabili dagli investigatori o cosa sia visibile in quelli non compromessi. Sull’incidente stanno indagando sia l’Fbi che il Dipartimento di Giustizia, che stanno tentando di determinare cosa sia realmente accaduto. Non è nemmeno noto, al momento, se la criticità riscontrata nella registrazione dei filmati abbia avuto una durata limitata o se si si tratti di un problema più ampio di manutenzione che affligge il Metropolitan Correctional Center, il carcere dove è morto suicida Jeffrey Epstein. Come sia potuto succedere, è ciò che stanno tentando di appurare gli inquirenti. Ma il sistema carcerario americano e il Dipartimento di Giustizia sono sotto accusa. Come ha spiegato il New York Times, il giorno della morte del finanziere nessuno ha controllato la sua cella per diverse ore sebbene fossero stati pianificati dei controlli ogni mezz’ora. In seguito, il direttore ad interim dell’Ufficio federale delle carceri degli Stati Uniti, Hugh Hurwitz, è stato rimosso dal suo incarico dal ministro della giustizia William Barr.

Jeffrey Epstein lasciato solo in cella: perché? Secondo quanto emerso nelle scorse settimane, sempre da fonti citate dal Washington Post, sarebbero stati almeno otto i membri del personale dell’Ufficio federale delle carceri (Federal Bureau of Prisons) che hanno ignorato l’ordine di non lasciare il miliardario Jeffrey Epstein da solo nella sua cella. Stando alle informazioni diffuse, il fatto che al corrente di tale ordine vi fossero così tante persone tra impiegati e supervisori avrebbe allarmato gli investigatori, che al momento stanno lavorando per verificare se la mancanza sia da imputare ad un intento criminale o a semplice incompetenza. Due delle guardie penitenziarie che avevano il compito di vigilare sull’uomo, accusato di abusi su minori e sfruttamento della prostituzione minorile, sono invece state messe in congedo amministrativo. “Potrebbero essere intraprese ulteriori azioni se le circostanze lo giustificano”, ha dichiarato la portavoce del dipartimento di Giustizia, Kerri Kupec. Shirley Skipper-Scott, direttrice del carcere, è stata trasferita in un ufficio regionale nel nord-est, ed è stata sostituita da James Petrucci, direttore della prigione federale di Otisville, New York. Gli investigatori vogliono vederci chiaro, tant’è che, come riportato dalla Cnn nei giorni scorsi, sarebbero addirittura 20 le guardie carcerarie della prigione federale di New York che hanno ricevuto un mandato di comparizione di fronte al grand jury. Gli inquirenti intendono, attraverso le loro deposizioni, cercare di ricostruire con esattezza quello che è successo la notte in cui il 66enne miliardario si è impiccato nella sua cella. Troppe le domande che cercano ancora una risposta.

Le amicizie altolocate di Epstein: Woody Allen, Clinton, il Principe Andrea. Lo scandalo Epstein ha coinvolto di recente anche il Principe Andrea, duca di York, secondo figlio maschio della Regina Elisabetta. Virginia Giuffre, una delle accusatrici del finanziere, ha testimoniato di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con il Principe a Londra quando aveva 17 anni, poi a New York e sull’isola privata di Epstein ai Caraibi. Buckingham Palace ha ripetutamente respinto le accuse, definendole “false e senza fondamento”. Tuttavia, il Principe si sarebbe dichiarato disponibile a collaborare con l’Fbi sulla vicenda di Jeffey Epstein, se gli verrà richiesto. “I membri della famiglia reale sono sempre pronti a collaborare con la polizia in maniera appropriata”, hanno detto le fonti di Buckingham Palace, facendo capire che il secondogenito della regina Elisabetta è disponibile a collaborare con le autorità sia americane che britanniche. Jeffrey Epstein ha scontato 13 mesi di carcere circa 10 anni fa dopo aver raggiunto un accordo con i pubblici ministeri. È stato arrestato nuovamente a luglio e accusato di aver sfruttato dozzine di ragazze minorenni dal 2002 al 2005. Epstein aveva, tra le proprie amicizie e conoscenze, politici e celebrità di tutto il mondo, tra cui il regista Woody Allen, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – con il quale, però, ebbe un litigio – e soprattutto l’ex presidente Bill Clinton. I registri di volo ottenuti da Fox News hanno dimostrato che Clinton ha compiuto almeno 26 viaggi a bordo del Boeing 727 di Epstein, soprannominato “Lolita Express”, dal 2001 al 2003.

Epstein, Virginia Roberts Giuffre: «Il principe Andrea sa cosa ha fatto». Alessandro Fioroni il 29 Agosto 2019 su Il Dubbio. È una delle 20 vittime che accusano il finanziere di violenza sessuale. Il reale è accusato dalla donna di essere stato uno degli uomini con I quali, a soli 17 anni, fu costretta dal miliardario a fare sesso. È stata una prima udienza carica di sentimenti contrastanti quella che si è svolta nel tribunale federale di New York il 27 agosto. Davanti alla Corte infatti hanno sfilato una a una le vittime degli abusi di Jeffrey Epstein, il miliardario arrestato il 6 luglio per traffico sessuale e trovato impiccato nella sua cella il 10 agosto. Circostanze della morte che hanno provocato un vespaio di polemiche e lasciato spazio al complottismo più sfrenato e che hanno avuto come conseguenza pratica la sospensione delle guardie e del direttore del carcere. Ma le donne cadute nella rete di Epstein non hanno gioito per la morte dell’uomo, anzi dal palco dei testimoni hanno espresso in maggioranza la loro rabbia per non poter ottenere giustizia e guardare in faccia il loro aguzzino ormai suicida. «Sono molto arrabbiata e triste, è stato un codardo» ha detto una delle testimoni alla quale hanno fatto eco parole simili di un’altra: «il fatto che non avrò mai la possibilità di affrontare il mio aggressore in tribunale mi toglie l’anima». L’incriminazione e il conseguente arresto del miliardario apre però scenari inquietanti e potrebbe travolgere anche altri personaggi. Si conosce già il ruolo che avrebbe avuto Ghislaine Maxwell, la donna che procurava le ragazze minorenni poi portate nella villa di Epstein, fermata a New York poco tempo fa. Le parole della procuratrice federale Maurene Comey lasciano intendere che l’inchiesta non verrà chiusa tanto facilmente. Sebbene la morte di Eptein renda vano un processo penale a suo carico la procuratrice ha dichiarato ai media che ciò «non fermerà le indagini su altre persone che hanno aiutato Epstein a portare avanti il suo piano di sfruttamento di ragazze minorenni». In questo senso va considerata la testimonianza di Virginia Roberts Giuffre, la quale ha confermato di essere stata «una vittima di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e degli oscuri e crudeli atti criminali che hanno commesso contro di me, per anni e anni tenuti all’oscuro» e chiamando in causa il principe Andrea, il terzogenito della regina Elisabetta di Inghilterra. Il reale è accusato dalla Giuffre di essere stato uno degli uomini con i quali, a soli 17 anni, Epstein la costrinse a fare sesso. Il principe Andrea «sa esattamente cosa ha fatto, mi auguro che confessi e dica tutto» ha detto la donna. Di certo c’è solo che Andrea era amico del miliardario ma ha respinto tutte le altre accuse dichiarandosi pronto a collaborare con l’Fbi.

DAGONEWS il 2 settembre 2019. Volete altre prove del fatto che Epstein fosse un porcone? Allora dovete guardare le foto e le follie che il buon Jeffrey teneva nella sua modesta dimora di Palm Beach: fotografie di ragazze “barely legal” molto svestite, ritratti e scatti dell’ex compagna Ghislaine Maxwell totalmente nuda, tavoli da massaggi e sedie da dentista. Tutto ripreso dalla polizia, durante un blitz nella casa da 16 milioni di dollari di Palm Beach. Alcuni video  di quel blitz sono rispuntati la scorsa settimana dopo la morte di Epstein. Tra le molte immagini appese alle pareti spicca una in cui si vedono Jeffrey e Ghislaine, amica ed ex compagna del finanziere sospettata di aver organizzato il traffico sessuale di minorenni a uso e consumo del miliardario, in un posto che somiglia molto alla sala stampa della Casa Bianca. I video sono rispuntati dopo la morte del finanziere.

Caso Epstein, spuntano le foto della domestica con il principe Andrea. Nuove foto trovate sul profilo Facebook della domestica di Jeffrey Epstein spuntano a rafforzare i legami del principe Andrea d'Inghilterra con il magnate pedofilo. Mariangela Garofano, Giovedì 12/09/2019, su Il Giornale. Il principe Andrea finisce ancora sotto i riflettori per i suoi legami con il magnate arrestato per pedofilia Jeffrey Epstein. Nuove fotografie riportate da Forbes, rafforzerebbero l’accusa di una sua amicizia con il magnate morto suicida in carcere il 10 agosto. Si tratta di alcune foto risalenti al 2010 trovate sul profilo Facebook della ex domestica di Epstein. Negli scatti, la signora Jun-Lyn Fontanilla è ritratta con il principe e con la moglie Sarah Ferguson, oltre che con l’attrice Hilary Swank e l’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. Il principe lo stesso anno è stato fotografato uscire dalla casa newyorkese di Epstein in compagnia di una giovane donna, ma ha sempre negato di essere a conoscenza del traffico di minori di cui è stato accusato il finanziere. “In nessun periodo, nel tempo limitato che ho trascorso con lui, ho notato o sono stato testimone di comportamenti inappropriati che hanno portato al suo arresto”, ha dichiarato Andrea, che in questi giorni erea stato invitato a non partecipare ad un torneo di golf, per non "rovinare il buon club del club". Il duca di York è stato accusato dall’allora minorenne Virginia Giuffre di aver avuto rapporti sessuali con lei. La Giuffre è una delle donne che hanno testimoniato in tribunale di essere state usate come “schiave sessuali” di Epstein e ha inoltre dichiarato di essere stata costretta ad avere rapporti con il duca in più di un'occasione. Quella della Giuffre non è l'unica accusa nei confronti del terzogenito della regina Elisabetta: un'altra donna ha infatti recentemente accusato il reale di averla toccata in modo inappropriato.

Courtney Love rivela: "Il principe Andrea venne da me una notte per fare sesso". Non si fermano i pettegolezzi riguardanti il terzogenito di Elisabetta. Dopo le accuse di abusi sessuali su minore fatte da Virginia Giuffre, Courtney Love ha rivelato che il principe si sarebbe presentato a casa sua all'una di notte con l'intenzione di fare sesso. Mariangela Garofano, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Emergono nuove indiscrezioni legate al principe Andrea, recentemente accusato di abusi sessuali connessi alla sua amicizia con il milionario pedofilo, Jeffrey Epstein. Questa volta a tirare fuori dal cilindro un episodio alquanto piccante riguardante il duca di York è stata la moglie del defunto leader dei Nirvana Kurt Cobain, Courtney Love. La rocker ha rivelato al The Sun di aver conosciuto Andrea nel 2000 alla premiere de “Come il Grinch rubó il Natale”, presentati proprio da Epstein. Una notte, stando al racconto della Love, il principe suonò alla sua porta alla ricerca di sesso. La leader delle Hole ha rivelato: “Ero a letto quando all’una di notte suonò il campanello. Mi infilai le pantofole e una vestaglia e mi trovai davanti il secondogenito della regina d’Inghilterra con una guardia del corpo, assolutamente non annunciato. Disse di aver avuto il mio numero da un amico comune e di essere in cerca di svago ad Hollywood. Così pensò che io potessi farlo divertire". La Love ha aggiunto anche che Andrea “era in cerca di una notte di sesso e flirtava molto”. L’ex moglie di Cobain ha poi affermato di avergli preparato una tazza di tè e di avergliela messa, scherzosamente, in una tazza raffigurante la regina. "Ci sedemmo sul divano, vicino al camino e fu allora che iniziò a flirtare. Alla fine non restò più di 45 minuti”, rivela ancora la 55enne. Il nome del duca è venuto fuori nei mesi scorsi dopo che una delle vittime di Jeffrey Epstein aveva rivelato di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con il principe quando aveva solo 17 anni. Una foto rubata mentre si apprestava ad uscire dalla dimora newyorchese del finanziere, aveva suggellato il legame di amicizia tra i due, sebbene Andrea ha sempre negato di essere a conoscenza del traffico di minorenni in cui era implicato l’amico, morto suicida in carcere il 10 agosto scorso.

 Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 21 settembre 2019. «Abbiamo fatto sesso in bagno». Non se ne vanno le accuse di abuso di minore contro il principe Andrea. Virginia Giuffre, l'ex schiava del sesso del miliardario americano Jeffrey Epstein - suicidatosi al Metropolitan Correctional Center di New York lo scorso 10 agosto - le rilancia in un'intervista alla rete televisiva Usa Nbc , con le dichiarazioni più esplicite e cariche di dettagli particolareggiati mai rese contro il terzogenito della regina Elisabetta. «La prima volta che l' ho incontrato fu a Londra», dice la donna, che all' epoca dei fatti aveva 17 anni. «Ero così giovane. Fui svegliata da Ghislaine Maxwell (la dama dell' alta società inglese che è stata a lungo fidanzata con Epstein e poi era diventata la sua procacciatrice di pseudo massaggiatrici adolescenti, ndr ). Mi disse: "Oggi incontrerai un principe". A quel punto ancora non sapevo che sarei stata l' oggetto di un traffico sessuale per quel principe». Nell' intervista, Virginia Giuffre racconta di essere stata portata prima in un locale notturno, dove Andrea le fece bere vodka, quindi alla casa londinese di Ghislaine, che le dice: «Voglio che fai per il principe quello che di solito fai per Epstein». L' abuso inizia in bagno e continua in camera da letto. «Andrea non fu rude. Alla fine disse "grazie" e qualche altra espressione di gentili sentimenti, quindi se ne andò. Non ci potevo credere, che perfino la famiglia reale fosse coinvolta». Secondo Virginia ci furono altri due episodi di sesso fra lei e Andrea, uno a New York e uno nella villa di Epstein ai Caraibi. «Lui nega e continuerà a negare quello che è successo, ma sa quale è la verità e anche io la conosco ». La casa reale britannica ha sempre smentito tutto. E lo stesso Andrea, dopo il recente suicidio in carcere del miliardario pedofilo, si è detto «sconvolto» dalle rivelazioni sul suo conto, sostenendo di non avere mai sospettato di niente nei lunghi anni in cui lo frequentava, anche dopo le prime incriminazioni nei suoi confronti. Una foto scattata a una festa ritrae Andrea che cinge i fianchi dell' allora diciasettenne Virginia, posando la mano sulla pelle nuda della giovane. «Non lo accuso per avere soldi, è passato troppo tempo per chiedere un risarcimento per danni morali », dice ora lei alla Nbc . «Parlo soltanto per un bisogno di giustizia e perché si sappia la verità ».

 Virgina Giuffre rivela alla NBC: "A 17 anni fui svenduta al principe Andrea". Non si frena l'ondata di particolari scottanti riguardanti le nottate "brave" del principe Andrea. Virginia Giuffre, durante l'intervista per la NBC, ha rivelato sfumature alquanto piccanti del suo primo incontro sessuale con il duca di York, all'età di 17 anni. Mariangela Garofano, Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. A pochi giorni dalle ultime rivelazioni fatte da Virginia Giuffre, che ha accusato il principe Andrea di aver fatto sesso con lei all’età di 17 anni, il 20 settembre è andata in onda un’intervista in cui la donna rivela i dettagli più intimi del loro primo incontro. Nell'esclusiva in onda per la NBC e riportata dal Mirror Online, la Giuffre ha raccontato di come Ghislane Maxwell l’abbia svegliata una mattina, anticipandole che “oggi incontrerai un principe”, ignara che in realtà sarebbe stata "svenduta al principe". La 35enne, all’epoca dei fatti diciassettenne, ha rivelato ai microfoni della NBC che: “Il principe quel giorno suonò a casa di Ghislaine alle 18. Lei lo ha salutato e la guardia che lo aspettava è tornata in macchina. Poi è stato introdotto nel salotto dove sedevamo io e Jeffrey, al quale ha dato la mano. Ghislaine mi ha presentato e come mi aveva insegnato, ci baciammo sulla guancia”. La donna, visibilmente scossa da quei ricordi, prosegue raccontando che i tre fecero una specie di gioco che consisteva nel far indovinare al duca l’età della ragazza e che lui disse 17 anni. Durante la serata nel privee del Tramp Club, il reale inglese diede da bere della vodka alla ragazza e iniziò ad essere sempre più audace, baciandole il collo. A fine serata tornarono a casa della Maxwell. A questo punto i racconti della Giuffre si fanno sempre più piccanti e compromettenti per il duca di York. “Il principe iniziò a leccarmi le dita dei piedi”, rivela la donna, che aggiunge: “Poi andammo in camera da letto dove facemmo l’amore”. La posizione del principe si fa quindi sempre più compromessa, pur avendo sempre negato alcun coinvolgimento con i traffici di Epstein. I suoi rapporti con il magnate morto suicida in carcere erano piuttosto stretti, come dimostrano le fotografie in sua compagnia. Contattato per una dichiarazione circa le ultime scottanti rivelazioni della Giuffre, Buckingham Palace non ha fornito alcun commento in merito.

“SUL CASO EPSTEIN L’FBI HA INSABBIATO LE INFORMAZIONI SU ANDREA”. DAGONEWS  il 26 settembre 2019. L'MI6 britannico teme che la Russia sia in possesso d'informazioni in grado di collegare il principe Andrea allo scandalo di abusi sessuali che ha travolto Jeffrey Epstein. A preoccupare l'intelligence britannica è John Mark Dougan, veterano dei Marine ed ex vice sceriffo di Palm Beach, fuggito a Mosca dopo un’incursione dei federali in casa sua. L’uomo afferma di avere centinaia di ore di riprese della casa del pedofilo in Florida e l’MI6 teme che possa aver trasmesso al Cremlino informazioni compromettenti sul duca di York. Tuttavia, il 42enne ha detto al Times che era "ridicolo" pensare che avrebbe consegnato qualsiasi informazione alle autorità russe. «Sono certo che l'FBI sia coinvolto in una sorta di insabbiamento su Epstein» ha detto Dougan, che è stato in Russia da quando ha cercato asilo per evitare l'arresto negli Stati Uniti per reati informatici - Ciò potrebbe assolutamente includere informazioni su Andrew, o potrebbe essere che persone dell'FBI abbiano visitato la casa di Epstein e non vogliano rivelarlo. L'FBI ha ottenuto tutti i dati che ho quando hanno fatto irruzione in casa mia. Le  copie dei file non verranno mai rilasciate a meno che non accada qualcosa di spiacevole. Quando gli è stato chiesto quali informazioni avesse sul Principe, Dougan ha detto: «Ho un sacco di cose. Ma non sono un agente del Cremlino e non ho condiviso alcun materiale con il governo russo. Non intendo ricattare nessuno con le mie informazioni. È contro i miei principi». Dougan ha dichiarato di avere circa 200 ore di video dall'interno delle proprietà di Epstein, comprese le scansioni dei documenti sequestrati dalla polizia. Ha detto di aver visto solo frammenti dei video, che mostravano l'interno delle stanze da diverse angolazioni. Dougan afferma che i dati gli sono stati dati da un investigatore della Florida che stava lavorando al caso Epstein. Tuttavia, afferma che i suoi file sono crittografati e che i codici segreti per aprirli sono detenuti da amici in tutto il mondo. «I file di Epstein rimarranno al sicuro. Non ho una copia fisica in mio possesso per motivi di sicurezza. I file sono al sicuro e le persone che li tengono non hanno idea di cosa ci sia».

Il detective rivela: "Il principe Andrea chiamava Epstein da 13 numeri diversi". Il conivolgimento del principe Andrea nello scandalo Epstein si fa sempre più evidente. A portare alla luce nuove prove ci ha pensato un detective americano, che ha scoperto che il duca di York avrebbe contattato Epstein da 13 diversi numeri. Mariangela Garofano, Lunedì 21/10/2019, su Il Giornale. Il principe Andrea si trova nel mirino degli investigatori per i suoi legami con il defunto Jeffrey Epstein. A parlare dei nuovi particolari emersi, è Mike Fisten, un detective della Florida che nella casa di Palm Beach del finanziere ha trovato una rubrica telefonica, da lui definita come“il tesoro delle attività di Epstein”. Fisten racconta: “La rubrica ci ha portato fuori dalla Florida, in giro per il mondo. Se per esempio, vai alla sezione Londra, puoi trovare il duca di York. E sotto il suo nome ci sono 13 differenti numeri di Buckingham Palace”. Il detective americano avrebbe scoperto che i due amici si sarebbero visti non meno di 10 volte in dieci anni e che il duca era solito cambiare sempre numero per contattare l'amico. Come riporta il The Sun, il 21 ottobre Fisten racconterà le sue recenti scoperte su Channel 4, mettendo a nudo il legame tra Epstein e il terzogenito della regina Elisabetta, che ha sempre negato alcun coinvolgimento con lo scandalo in corso. I guai di Andrea sono iniziati quando Virginia Giuffre affermò di eesere stata una delle“schiave sessuali” di Jeffrey Epstein e di aver avuto rapporti sessuali con il duca all’età di 17 anni. La donna ha rivelato di essere stata “svenduta” al principe da Ghislaine Maxwell ed Epstein in persona. Nella ricostruzione di Channel 4, verranno inoltre presentati alcuni documenti dell’ospedale in cui la Giuffre si recò tre mesi dopo i presunti rapporti sessuali con il principe. I referti medici rivelano che la ragazza aveva perdite di sangue vaginali, nausea, dolori addominali e vertigini. Mike Fisten si sta occupando da diversi anni di raccogliere prove a favore delle vittime di Jeffrey Epstein ed ha affermato senza esitazioni: “A questo punto so per certo che non abbiamo solo un pedofilo, ma un vero e proprio predatore sessuale pedofilo”.

Da lastampa.it il 16 novembre 2019. Il principe Andrea ha accettato di rispondere a viso aperto ai sospetti (negati) su rapporti sessuali con una ragazza non ancora maggiorenne sollevati nei suoi confronti in relazione ai rapporti con Jeffrey Epstein: il miliardario americano, amico di numerose personalità dell'establishment economico e politico internazionale, nonché sostenitore dei democratici Usa, morto in cella nei mesi scorsi dopo essere stato travolto da accuse di pedofilia e riduzione in schiavitù di ragazze trattenute per anni nelle sue residenze. Il duca di York si è sottoposto a un'intervista che andrà in onda domani sera sulla Bbc senza domande concordate o veti di sorta, come fa sapere Emily Maitlis, anchorwoman del programma Newsnight. Si tratta del primo confronto pubblico diretto dopo le accuse di una delle testimoni-vittime del caso Epstein: Virginia Roberts - ora Virginia Giuffre - che ha denunciato d'essere stata forzata a fare sesso tre volte fra il '99 (quando era ancora minorenne) e il 2002 con il terzogenito della regina Elisabetta a Londra, a New York e ai Caraibi. «Mi mangio le mani ogni giorno per essere stato ospite a casa di Jeffrey Epstein» ha affermato il principe Andrea, terzogenito della regina Elisabetta. «Sono stato da lui e per questo mi mangio le mani ogni giorno», ha ammesso il terzogenito della regina Elisabetta, spiegando che questo «non e' qualcosa che ci si aspetta da un membro della famiglia reale; noi sosteniamo i piu' alti standard e comportamenti e, semplicemente, ho messo in imbarazzo tutti». Il principe Andrea, inoltre, ha precisato di non ricordare di aver mai incontrato Virginia Roberts Giuffre, una delle accusatrici di Epstein; la donna, nel 2015 in tribunale, aveva dichiarato di essere stata obbligata, quando ancora era minorenne, ad avere rapporti sessuali con Andrea tra il 1999 e il 2002 a Londra, New York e su un'isola privata caraibica di proprietà del miliardario. L'accusa era stata successivamente cancellata dai documenti per ordine del giudice, perché ritenuta non necessaria al caso in oggetto allora. Una seconda donna, Johanna Sjoberg, aveva sostenuto che il duca l'aveva palpeggiata, nel 2001, mentre erano seduti su un divano nell'appartamento di Manhattan di Epstein. Buckingham Palace ha sempre respinto le accuse, definendole "categoricamente false". Il principe Andrea e il finanziere americano si erano conosciuti nel 1999 e da allora si erano incontrati diverse volte. In un comunicato lo scorso agosto, il duca di York aveva sostenuto di non aver visto, nè di essere stato testimone di comportamenti che avrebbero potuto condurre all'arresto e alla condanna di Epstein.

Andrea, Sarah e il riavvicinamento dopo il divorzio. Mai così benvenuto a corte. Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 da Corriere.it. Gli occhi di un blu intenso, ai piedi un paio di slipper di velluto e un abito Royal blue a far risaltare il rosso dei capelli, Fergie la Rossa come l’hanno chiamata i tabloid, l’ex moglie del terzo figlio della regina Elisabetta II ama «parlare sempre con il cuore, dico quello che penso non quel che mi suggeriscono di dire...», mi ha confessato incontrandola mesi fa in Italia. Così l’indomani dell’intervista scomoda dell’ex marito alla BBC sul caso Epstein, le parole di Sarah affidate al web sul marito dicono molto del clima a corte. E in famiglia, mentre Sarah e Andrea si preparano alle nozze della loro figlia maggiore Beatrice attese a primavera con l’italiano Edoardo Mapelli Mozzi (dopo quelle di Eugenie un anno fa). «It is so rare to meet people that are able to speak from their hearts with honesty+pure real truth» ha scritto Sarah riferendosi al marito Andrew. Per aggiungere: «Andrew è un true+real gentleman ed è deciso a perseguire i suoi doveri ma anche la sua gentilezza e bontà d’animo». Abbastanza insomma per far capire il suo sostegno pieno al marito che ha avuto il coraggio di affrontare le telecamere e confessare l’errore di un passo sbagliato. Abbastanza per confermare che tra Sarah e Andrea c’è una nuova intesa, tanto che molti nell’entourage royal immaginano un riavvicinamento che porterà chissà, anche a nuove nozze. Le terze, a questo punto, in casa York nel giro di pochi anni. E in fondo non c’è nulla di più potente di un matrimonio Principesco - come già insegnava il costituzionalista Walter Bagehot nell’800-per catturare (e sviare) attenzione. Esattamente quanto serve oggi ai Windsor per allontanare i riflettori dal caso Epstein. Di certo Sarah era molto innamorata quando nel 1986 sposò a Westminster Abbey il principe Andrea con una ghirlanda di fiori a coprire la tiara di Garrard. «Erano gardenie sulla mia coroncina di nozze, piacciono tanto a Andrew ... al duca di York», ha ricordato parlando con il Corriere. E a proposito del divorzio nel 1996 ha aggiunto «Servono amore ma anche compromesso, e comprensione reciproca, e io l’ho sposato per vero amore». Con Andrew insomma è una storia d’amore che continua, anche dopo il caso Epstein. I due ex si sentono «ogni giorno. Più volte al giorno, lui è sempre con me, sostiene sempre i miei progetti...quando ci siamo sposati ha come dato voce ai miei pensieri. Mi considero una donna fortunata, ho sposato l’uomo che amavo e abbiamo sempre cercato di tenere unita la nostra famiglia».

Il principe Andrea rompe il silenzio: "Mai avuto rapporti con minorenni". Intervistato da BBC Newsnight, il principe Andrea ha parlato apertamente della sua amicizia con il magnate Jeffrey Epstein, negando di aver avuto rapporti sessuali con Virginia Giuffre, all'epoca dei fatti 17enne, che lo accusa di abusi. Novella Toloni, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Il principe Andrea, dopo mesi di rumors, accuse, prove e smentite, ha scelto di parlare pubblicamente del caso Epstein, che lo vede coinvolto in prima persona negli scandali sessuali del magnate. Il secondogenito della regina Elisabetta ha rilasciato un'intervista esclusiva alla BBC a "Newsnight", parlando apertamente dei suoi rapporti con Jeffrey Epstein e affrontando le accuse di abusi mossegli da Virginia Giuffre. Nonostante in molti lo avessero sconsigliato dall'esporsi così direttamente (ma non la regina che sarebbe stata favorevole all'intervista, sempre secondo la BBC), il principe Andrea ha scelto la strada della trasparenza, sottoponendosi alle pungenti domande di Emily Maitlis. "Non ricordo di aver mai incontrato questa signora, nessuna di quelle donne", sono le parole usate dal duca di York, 59 anni, alla domanda della giornalista di "Newsnight" se avesse fatto o meno sesso con Virginia Roberts (poi Virginia Giuffre), o con qualsiasi altra donna implicata nella vicenda dallo scandalo sessuale, che ha coinvolto Jeffrey Epstein. "Non è mai successo, non ne ho ricordo", ha affermato con decisione. La donna, all'epoca 17enne, lo accusa di aver abusato di lei tre volte nel periodo tra il 1999 e il 2002. La giornalista ricorda l'episodio del presunto primo incontro con la Giuffre, nell'esclusivo nightclub Tramp di Londra, dove il principe Andrea e Virginia Giuffre avrebbero ballato prima di lasciare il locale. "No, non sarebbe potuto accadere perché in quella data ero a casa con i bambini. Avevo portato Beatrice a un Pizza Express a Woking per una festa, immagino che fossero le quattro o le cinque del pomeriggio". Il duca di York ha menzionato una regola che al tempo condivideva con la moglie, Sarah Ferguson: "Quando uno era assente l'altro era lì. All'epoca ero in congedo dalla Royal Navy, quindi ero a casa". Il principe riporta poi l'attenzione su un particolare di quella sera. Virginia Giuffre aveva raccontato di aver ballato con il principe sulla pista e di averlo visto sudare copiosamente. Il secondogenito di Elisabetta II ha però spiegato come questo fosse impossibile: "Ho sofferto di quello che definirei un'overdose di adrenalina nella guerra delle Falkland quando mi hanno sparato. Per me è quasi impossibile sudare". Il principe Andrea ha poi negato di aver avuto rapporti sessuali non consensuali con la donna a New York, perché "ero a una cena per The Outward Bound Trust a New York e poi sono volato a Boston il giorno seguente" e di aver fatto una foto con la Giuffre, che risalirebbe al 2001. Nella fotografia il reale porta il braccio intorno alla vita di Giuffre, ma il principe ha negato fermamente, mettendo in discussione l'autenticità dello scatto: "Non ricordo che quella foto sia mai stata scattata e non ricordo di essere andato di sopra in casa perché quella fotografia è stata scattata di sopra ... non possiamo essere certi che questa sia la mia mano su di lei". Il principe Andrea ha poi parlato della sua amicizia con Jeffrey Epstein, confermando di esser stato con lui, nella sua abitazione di Palm Beach e Londra e nella sua isola privata in più occasioni e di averlo invitato, subito dopo lo scandalo degli abusi su minori, al 18esimo di Eugenie. Ha però negato di essere a conoscenza del traffico di ragazze di Epstein, confessando, infine, di aver sbagliato a stargli accanto anche dopo lo scandalo, quando invece avrebbe dovuto rompere l'amicizia: "È stata sicuramente la cosa sbagliata da fare. Ma all'epoca pensavo fosse la cosa giusta e onorevole da fare".

"Non vado alle feste", ma le foto inchiodano il principe Andrea. A poche ore dall'esclusiva intervista con la BBC, dove ha negato di aver avuto rapporti e di aver partecipato a feste con Virginia Giuffre, il Daily Mail ha pubblicato foto compromettenti del duca di York in un locale con alcune ragazze. Novella Toloni, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. A poche ore dalla pubblicazione dell'intervista esclusiva rilasciata dal principe Andrea alla BBC nel programma "Newsnight", il secondogenito della regina Elisabetta II è finito, ancora una volta, nel mirino dei giornali scandalistici. Dopo aver negato su tutti i fronti di aver abusato di Virginia Giuffre tra il 1999 e 2002 e di non averla mai frequentata né a feste né in locali pubblici, il Daily Mail ha pubblicato sul suo portale online alcune fotografie compromettenti, risalenti al 2007 e 2008. L'intervista rilasciata all'emittente nazionale BBC sarebbe servita alla famiglia reale non solo a mettere in chiaro la posizione del duca, ma anche a ripulire la sua immagine dopo lo scandalo Epstein. Un'operazione che, al momento, sembra essere miseramente fallita. La pubblicazione delle foto e del video in cui il principe Andrea si mostra attorniato da belle ragazze in un locale della Costa Azzurra, realizzate tra il 2007 e il 2008, mettono infatti in discussione le affermazioni, pacate e diplomatiche, da lui rilasciate alla giornalista inglese Emily Maitlis. Nelle foto pubblicate dal Daily Mail poche ore fa, il principe Andrea viene immortalato mentre si scatena con un gruppo di ragazze a Saint-Tropez durante un party mondano, organizzato dal magnate del vino Claude Ott in Costa Azzurra. Era il luglio 2008, poche settimane dopo che Jeffrey Epstein, suo amico di vecchia data, venisse accusato di traffico di minori e di induzione alla prostituzione. Le immagini stridono con quanto affermato alla BBC, poche ore fa, dal principe Andrea che non aveva però rinnegato l'amicizia con il magnate americano. Il duca di York aveva dichiarato, però, di non essere tipo da feste e party e di non amare le "manifestazioni pubbliche di affetto", proprio per confutare ogni dubbio su quanto dichiarato invece dalla Giuffre, che lo accusa di averla violentata dopo aver festeggiato con lei in un locale. Le foto risalenti al luglio del 2008 non sono però le uniche in circolazione. Un anno prima, sempre nella località francese di Saint Tropez, il principe Andrea venne immortalato in compagnia di due influencer Chris Von Aspen e Pascale Bourbeau, in atteggiamenti decisamente lascivi. Pizzicato con le mani addosso alle giovani socialite, pronto a farsi abbracciare, toccare in viso e addirittura leccare, il secondogenito della regina ha mostrato, ancora una volta, il suo lato debole. Più volte giornali e riviste britanniche avevano immortalato negli anni '90 e 2000 Andrea in atteggiamenti poco "reali".

Il principe Andrea e Epstein, la regina prende le distanze dal figlio. Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. Le onde alte sollevate dalla straordinaria intervista tv del principe Andrea stanno imprimendo pericolosi scossoni alla monarchia britannica. Tanto che la regina ha tenuto a prendere le distanze dal figlio, facendo sapere di non aver affatto autorizzato la surreale video-confessione nella quale Andrea ha difeso la sua amicizia col magnate pedofilo e stupratore Jeffrey Epstein e ha negato di aver mai conosciuto né tantomeno fatto sesso con la allora minorenne Virginia Roberts (una delle «schiave» di Epstein), asserendo di ricordare bene (a quasi vent’anni di distanza!) che la sera incriminata era andato a mangiare una pizza fuori Londra con le figlie. Da Buckingham Palace sostengono che Elisabetta è stata informata dell’intervista alla Bbc solo a cose fatte: e che dunque ne era «al corrente», ma non l’ha approvata. Tuttavia la giornalista che ha condotto il programma, Emily Maitlis, ha scritto che Andrea l’aveva informata di dover chiedere l’autorizzazione «più in alto»: che secondo la reporter può indicare soltanto la regina. Come che sia, a Corte stanno provando a stendere un cordone sanitario attorno ad Andrea per limitare i danni: e così filtrano voci sull’intenzione di Carlo, una volta salito al trono, di «degradare» il fratello, privandolo di ruoli ufficiali. Perché se è vero che Andrea continua a credere di aver fatto bene a esporsi in quel modo ai riflettori, tutti giudicano l’intervista come un «incidente stradale, anzi l’incidente di un autotreno». Come ha commentato Dick Arbiter, l’ex portavoce reale, il principe si è rivelato «arrogante e poco intelligente». Ma il catastrofico fiasco di pubbliche relazioni sta sollevando interrogativi su cosa stia realmente succedendo nel cuore della più importante istituzione del Regno Unito. E per ironia della sorte, dopo che sabato è andata in onda la famigerata intervista, domenica è arrivata su Netflix la terza serie di The Crown, che mostra la monarchia in crisi di fronte ai tumultuosi cambiamenti degli anni Sessanta e Settanta. Ora siamo entrati nella fase di fine regno di Elisabetta: e ci si chiede chi sia veramente in controllo della situazione. Soprattutto dopo che già a ottobre Harry e Meghan avevano sollevato molte perplessità con le loro interviste, in cui si rivelava la frattura con William, e con la loro decisione di querelare i giornali. Ora è arrivato il fiasco di Andrea a dare la sensazione del «liberi tutti». Perché se fino a non molto tempo fa il principe Filippo svolgeva la funzione di «guardiano» che teneva tutti in riga, ora che lui è quasi centenario questo ruolo dovrebbe essere svolto da Carlo: che evidentemente non ce la fa, col risultato che la monarchia è diventata una istituzione «federale», dove ognuno si muove per conto suo. O a voler insistere: un’anarchia totale. C’è preoccuparsi: perché la Corona è il collante della nazione, ma si è messa su un piano inclinato che potrebbe non farla sopravvivere a Elisabetta. Con conseguenze inimmaginabili.

Caso Epstein, la regina prende le distanze dal principe Andrea. Tempi duri per la regina Elisabetta, costretta a prendere le distanze dal principe Andrea dopo le sue dichiarazioni in merito al caso Epstein alla BBC. Francesca Galici, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Non è un bel momento per la monarchia inglese, che negli ultimi mesi deve affrontare il fuoco incrociato delle polemiche da parte dei media. Se da una parte ci sono i dissapori tra William e Harry, emersi con chiara evidenza anche durante l'ultima uscita pubblica degli ex Fab Four, dall'altra c'è il caso del principe Andrea, coinvolto nel caso Epstein, dal quale la regina Elisabetta II pare abbia preso le distanze. L'ultimo tassello di questa complicata vicenda che coinvolge il minore dei figli della Regina Elisabetta riguarda un'intervista rilasciata dal principe Andrea alla BBC. Durante questa, l'uomo ha difeso la sua amicizia con il magnate Jeffrey Epstein, accusato di violenza carnale e pedofilia, suicida in carcere. Di contro, ha ripudiato ogni attribuzione relativa a un suo presunto coinvolgimento diretto nelle vicende, negando di aver mai fatto sesso con una delle principali accusatrici di Epstein, Virginia Roberts, minorenne all'epoca dei fatti. Contrariamente a quanto imporrebbe il protocollo reale, il principe Andrea non ha informato sua madre dell'intenzione di rilasciare un'intervista alla BBC su un argomento così delicato. La regina Elisabetta sarebbe stata informata solo a cose fatte, quindi, sarebbe stata a conoscenza di tutto ma non c'è mai stata la sua autorizzazione all'intervista. Da una parte, il diretto interessato pare sia felice di com'è andata l'intervista ma dall'altra l'intero entourage di corte la reputa al pari di “un incidente di un autotreno.” Sono, quindi, iniziate le grandi manovre per limitare i danni e si mormora che se il principe Carlo dovesse salire al trono, uno dei primi provvedimenti sarebbe quello di sollevare il fratello da ogni incarico ufficiale. Questo è solo l'ennesimo evento che negli ultimi mesi sta mettendo in crisi la monarchia inglese. Oltremanica i suditti, ma non solo, iniziano a chiedersi se il regno sopravviverà alla morte di Elisabetta II. Finché c'era il principe Filippo a mantenere l'ordine e la disciplina tra i membri della sua famiglia tutto sembrava filare liscio ma il principe è quasi centenario e da qualche tempo pare abbia delegato questo ruolo a Carlo, che sembra però incapace di gestirlo. L'attenzione dei media è adesso tutta su Andrea, ritenuto “arrogante e poco intelligente” per la sua intervista e difficilmente, vista la portata delle sue dichiarazioni e del caso in cui è coinvolto, la bolla si sgonfierà in breve tempo.

Il principe Andrea: «Mi ritiro» dopo l’intervista alla Bbc su Epstein. Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 su Corriere.it da Paola De Carolis. Amico del magnate arrestato per traffico di minori, era andato a trovarlo anche dopo la condanna. Il principe Andrea, duca di York, ha annunciato che si ritira a vita privata «per gli anni a venire», con il permesso della regina. Andrea ha dichiarato che la sua amicizia con Jeffrey Epstein, condannato per reati sessuali — in particolare traffico di minori — è diventata «evidentemente una distrazione massima» per il lavoro della famiglia reale. Se ne dispiace e «simpatizza profondamente» con le vittime di Epstein. Andrea è stato duramente criticato, nei giorni scorsi, per la disastrosa intervista di 45 minuti rilasciata alla Bbc, in cui non sa spiegare né commentare foto e prove che ne mostrano la presenza a casa di Epstein, già condannato per reati sessuali, e nemmeno sa ribattere alle accuse di una delle testimoni chiave del processo, Virginia Giuffre, che racconta di essere stata costretta a fare sesso con lui. Nell’intervista — che ha portato alle dimissioni immediate del suo addetto alle pubbliche relazioni — non sembra né dispiaciuto né al corrente delle conseguenze dei reati sessuali di cui era accusato Jeffrey Epstein.

Il principe Andrea si ritira dalla scena pubblica: ​"La regina d'accordo". Attraverso una nota ufficiale, il duca di York ha annunciato che si allontanerà dai doveri pubblici per il prossimo futuro, con il benestare della regina Elisabetta. Novella Toloni, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. È di poche ore fa l'annuncio ufficiale che il principe Andrea ha deciso, con il consenso della regina Elisabetta II, di ritirarsi dai doveri istituzionali per il prossimo futuro. Dopo l'intervista rilasciata alla BBC, che sarebbe dovuta servire a chiarire la sua posizione in merito all'amicizia con Jeffrey Epstein, la famiglia reale è piombata nel caos più totale. La regina ha preso le distanze dall'intervista esclusiva rilasciata dal figlio a "Newsnights", la sua accusatrice, Virginia Giuffre, ha colto la palla al balzo per affondare il duca con nuove pesanti accuse e i giornali di mezzo mondo hanno screditato la sua verità. Insomma l'essersi presentato in televisione davanti al suo popolo non ha giovato alla sua reputazione, anzi. Per questo il principe Andrea ha deciso di allontanarsi, per il momento, dalla scena pubblica e dagli impegni reali, evitando così di danneggiare ulteriormente la famiglia reale. In una nota ufficiale, pubblicata poche ore fa sui profili social della Royal Family, il duca di York ha dichiarato: "Negli ultimi giorni mi è diventato chiaro che le circostanze relative alla mia precedente associazione con Jeffrey Epstein sono diventate una grave disagio per il lavoro della mia famiglia e per il prezioso lavoro svolto nelle molte organizzazioni e associazioni di beneficenza che sono orgoglioso di supportare. Pertanto, ho chiesto a Sua Maestà di poter fare un passo indietro dai doveri pubblici per il prossimo futuro, e lei ha dato il suo permesso". Alla fine, l'intervista rilasciata alla BBC, che avrebbe dovuto ripulire la sua immagine e chiarire la sua posizione in merito allo scandalo sessuale legato al magnate Epstein, gli si è rivoltata contro. Il duca ha così preferito farsi da parte e lasciare che le acque si calmino. "Continuo a rimpiangere inequivocabilmente la mia mal giudicata associazione con Jeffrey Epstein. - prosegue il principe Andrea nella nota ufficiale - Il suo suicidio ha lasciato molte domande senza risposta, in particolare per le sue vittime, e sono profondamente solidale con tutti coloro che sono stati colpiti e desiderano una qualche forma di chiusura. Posso solo sperare che, col tempo, saranno in grado di ricostruire le loro vite. Sicuramente, sono disposto ad aiutare qualsiasi autorità competente nelle loro indagini, se necessario". L'annuncio arriva, purtroppo, in un giorno che sarebbe dovuto essere di felice e festoso per la regina Elisabetta II e per il consorte il principe Filippo, che oggi festeggiano 72 anni di matrimonio.

DAGONEWS il 19 novembre 2019. Non c’è pace per il principe Andrea finito in una bufera che rischia di travolgere la famiglia reale inglese. Adesso a portare imbarazzo a corte ci sarebbe una serie di battute razziste che il duca di York avrebbe rivolto ai sauditi durante una cena di stato a Buckingham Palace. A rivelarlo è Jacqui Smith, ex segretario di stato, che ha raccontato di essersi trovata in una situazione imbarazzante a causa di una serie di commenti che il principe ha rivolto ai sauditi, compresa «una battuta sui cammelli e quanto di peggio si possa immaginare». Smith non ha rivelato quando è successo, ma l'unica visita di stato della famiglia reale saudita avvenuta durante il suo periodo da segretario di stato è stata nel 2007. Il banchetto si è tenuto a Buckingham Palace il 30 ottobre. «L’ho incontrato diverse volte – ha detto Smith - Anche una volta a un banchetto di stato, dove dopo cena io e mio marito e un altro ministro del governo laburista abbiamo bevuto qualcosa con lui. Devo dire che la conversazione ci ha lasciato a bocca aperta per le cose inappropriate che ha detto. Era un banchetto di stato per la famiglia reale saudita e fece incredibili commenti razzisti sugli arabi. Pensare che potevamo trovare quei commenti divertenti, ma è stata una situazione terribile in cui trovarsi. Dovevo fare qualcosa e mi vergogno di non averlo fatto. Non l’ho mai trovato particolarmente brillante. È isolato dalla famiglia e sicuramente è la parte peggiore». In una dichiarazione a MailOnline, un portavoce di Buckingham Palace ha dichiarato: «HRH ha fatto molte iniziative in Medio Oriente per molti anni e ha molti amici nella regione. Non tollera il razzismo in nessuna forma».

Enrico Franceschini per "repubblica.it" il 19 novembre 2019. Era già la pecora nera della famiglia reale. Adesso si ritrova protagonista di una bufera che rischia di coinvolgere anche sua madre, la regina Elisabetta. L'intervista televisiva del principe Andrea alla Bbc, studiata come un mezzo per disinnescare lo scandalo della sua amicizia con il miliardario pedofilo Jeffrey Epstein e delle accuse di abuso sessuale con un minorenne nei suoi stessi confronti, ha peggiorato la situazione per il terzogenito di Sua Maestà, anziché migliorarla. Oggi i potenti sponsor economici del principe hanno annunciato il ritiro del sostegno finanziario alle sue iniziative di beneficenza, una fonte lo accusa di avere usato la "n-word" (l'epiteto razzista "nigger"), un'altra donna afferma che Andrea ha fatto da esca del suo stupro da parte di Epstein, la Bbc si prepara a intervistare la sua principale accusatrice e la stampa inglese all'unisono lo sbatte in prima pagina come un mostro, invitando suo fratello maggiore Carlo ad allontanarlo dalla royal family. Quel che è peggio per i Windsor, l'uragano a questo punto comincia a deflettersi verso Elisabetta II, accusata a sua volta di avere perso il controllo della "ditta", come qui viene soprannominata la royal family. Evidentemente a palazzo reale non c'è un consigliere in grado di guidare la sovrana come sarebbe necessario. Forse, a 93 anni, lei stessa comincia a non sapere più come affrontare le crisi: la decisione di apparire due volte da sola con Andrea, nelle scorse settimane, chiaramente per esprimergli il suo appoggio davanti alle accuse, con il senno di poi risulta un errore catastrofico per la sua immagine. Come scrive stamane il Daily Mail, il 2019 è diventato un altro "annus horribilis" per la monarca, tra l'incidente d'auto provocato da suo marito Filippo, che a 97 anni ha investito con la sua Range Rover un'altra macchina e per poco non ha ucciso una donna e un bambino; le critiche dei tabloid a Meghan Markle e la crescente freddezza tra lei e Kate Middleton, risultata in analoghe tensioni, a quanto pare, pure tra Harry e William; ed ora la gogna pubblica di Andrea. Per il quale, bisogna dire, non si tratta certo della prima volta. La sua è stata una vita piena di scandali, dal tempestoso divorzio con Sarah Ferguson (rimasto nella memoria popolare con la foto rubata da un paparazzo di lei, Fergie la Rossa come la chiamava la stampa popolare, che si faceva succhiare un alluce dall'amante) a un tentato golpe finito male con una banda di mercenari in Africa, per finire con le accuse di corruzione nel corso di una liaison dangerouse con una ricca e stravagante ereditiera khazaka. Ma lo scandalo Epstein è il peggiore di tutti: una lunga amicizia con un miliardario condannato per molestie sessuali contro minori, l'accusa di essere a sua volta andato a letto con una delle "schiave del sesso" di Epstein all'epoca anche lei minorenne, Virginia Roberts, che ora sarà intervistata dalla Bbc e potrà rispondere alle smentite di Andrea. Del resto c'è una foto che lo ritrae con una mano sul fianco nudo della ragazza, immagine davanti alla quale il "non ricordo di averla incontrata" pronunciato da lui ai microfoni della Bbc (ben diverso da un perentorio "non l'ho mai incontrata") suona ancora più ipocrita. Per non parlare del suo presunto alibi: "Non potevo essere con lei", in una delle date citate da Virginia dei loro incontri, "perché ero andato a mangiare la pizza da Pizza Express con mia figlia Beatrice". A rimetterci sono anche le sue figlie Beatrice ed Eugenia, che hanno finalmente trovato l'amore proprio quest'anno, dopo essere rimaste nell'ombra, descritte malignamente dalla stampa come una sorta di sorellastre della Cenerentola Kate Middleton, loro nobili, lei plebea, loro sgraziate, lei bellissima e perfetta, con ora anche la star di Hollywood Meghan a sottolineare la distanza con le figlie di Andrea. E adesso il principe ha perfino la spudoratezza di usarle come alibi per difendersi dall'accusa di avere abusato di una ragazza di 17 anni. Tutto quello che Andrea tocca, finisce male: anche l'ottimo rapporto con Sarah dopo il divorzio, corredato di voci secondo cui i due si potrebbero rimettere insieme, finisce per sembrare una soluzione di comodo, da parte di lei per tenere un piede nella famiglia reale, da parte di lui per apparire uomo di famiglia nonostante le voci di depravazione sessuale. E al peggio non c'è fine: se l'Fbi decidesse di interrogarlo e risultasse una sua falsa testimonianza, il principe potrebbe anche essere incriminato. L'impressione è che, come minimo, sappia su Epstein molto più di quello che ha detto finora in pubblico. Ed è uno dei pochi che può parlare sulla vicenda, visto che il miliardario si è suicidato in carcere a New York quattro mesi fa. Morale di una favola in cui non si intravede il lieto fine: i giornali suggeriscono al principe Carlo di esiliare Andrea, o almeno di farlo scomparire da ogni attività legata alla "ditta" di cui un giorno lui sarà il capo prendendo il posto di Elisabetta. Per una coincidenza che sembra fatta apposta per aumentare gli indici d'ascolto, in questi stessi giorni Netflix manda in onda la terza serie di The Crown, la storia a puntate della famiglia reale britannica. La regina Elisabetta vi appare alle prese con un premier socialista (Wilson) e accuse di non sapere reagire con sufficiente calore al disastro di 200 bambini uccisi dal crollo di una miniera in Galles. La storia si ripete. E in questa telenovela infinita, The Crown potrà avere scandali e bufere reali per molte altre stagioni.

Da "affaritaliani.it" il 19 novembre 2019. Valanga di guai per il principe Andrea. La sua "disastrosa" intervista alla Bbc sui suoi rapporti di amicizia con l'imprenditore e pedofilo statunitense Jeffrey Epstein, dalla quale ha preso le distanze anche Buckingham Palace, ha peggiorato la situazione per il duca di York. Aziende, organizzazioni benefiche e istituzioni alle quali è legato, stanno a catena minacciando di tagliare ogni legame col principe, a causa della "cattiva pubblicità" generata dalla vicenda. E' il caso di Kpmg, una delle maggiori società di revisione contabile del mondo, che ha cancellato l'accordo di sponsorizzazione con Pitch@Palace, la principale organizzazione benefica che fa riferimento al duca di York. Anche AstraZeneca, altro sponsor di Pitch@Palace, ha annunciato che a fine anno intende rivedere il contratto di partnership. L'Università di Huddersfield ha invece riferito che consulterà il consiglio degli studenti riguardo alla posizione di rettore attualmente tenuta da Andrea, dopo che è stata avanzata la richiesta di dimissione nei confronti del principe. A complicare ancora di più la situazione del terzogenito della regina Elisabetta c'è l'indiscrezione comparsa ieri sulla stampa britannica, riguardo all'uso della parola "negr..." che Andrea avrebbe fatto durante un incontro di affari con un consulente di Downing Street sette anni fa. La stampa britannica ha anche rilanciato la notizia che negli Usa starebbero per essere diffuse nuove carte relative alle attività sessuali di Epstein, nelle quali sarebbe coinvolto anche il principe. Ieri, in una conferenza stampa in California, una nuova vittima di Epstein, identificata con il nome fittizio di "Jane Doe 15", ha raccontato di essere stata invitata ad un party sull'isola privata di Epstein, al quale era presente anche il duca di York. La donna ha invitato il principe Andrea e "chiunque fosse in confidenza con Epstein a farsi avanti e testimoniare sotto giuramento le cose di cui sono a conoscenza". Epstein, già arrestato e condannato in passato per abusi sessuali su ragazze minorenni, è morto in carcere il 10 agosto scorso, dopo essere stato arrestato nuovamente il 6 luglio per traffico sessuale di minori in FLorida e a New York. Le versione ufficiale parla di suicidio, anche se i suoi avvocati hanno contestato le conclusioni dei medici legali.

(ANSA il 20 novembre 2019) - Il principe Andrea - investito dallo scandalo sulla frequentazione con Jeffrey Epstein, il miliardario americano morto suicida in carcere dopo essere stato accusato di abusi sessuali su ragazze minorenni - si ritira dagli impegni pubblici in veste di membro della famiglia reale britannica "per il prossimo futuro". Lo annuncia Buckingham Palace, precisando che il terzogenito di Elisabetta II ha chiesto e ottenuto il permesso della regina a compiere il passo indietro.

DAGONEWS il 20 novembre 2019. La vita di Jeffrey Epstein era un insano equilibrio tra giovani ragazze sfruttate sessualmente, loschi affari e soldi di dubbia provenienza. Un membro di una famiglia reale dovrebbe cambiare strada solo incontrando lo sguardo di un personaggio di questo tipo. La domanda, dunque, è sempre la stessa: cosa ha spinto il principe Andrea a essere attratto dal miliardario pedofilo? Dopotutto, questo finanziere americano disonesto era l'incarnazione vivente del tipo di persona che chiunque con il pedigree del Duca avrebbe dovuto evitare. Un uomo che si era fatto da solo, la cui fortuna personale era stata accumulata in modo poco chiaro (in alcuni ambienti, si diceva fosse coinvolto in ricatti e riciclaggio di denaro sporco), al quale si aggiungeva la sua ossessione per giovani ragazze che ospitava nelle sue prigioni dorate. La sua casa in Florida, dove Andrea è stato in diverse occasioni, aveva fotografie di adolescenti nude sparse sulle pareti, c’erano sex toys ovunque e nei bagni c’erano saponette a forma di fallo. Eppure, in un tempo straordinariamente breve, il Principe accolse Epstein nella cerchia della famiglia reale, invitandolo a una festa di compleanno al Castello di Windsor, intrattenendolo a Balmoral e facendolo sparare a Sandringham. Cosa stava pensando il figlio preferito della regina? Ce lo dice Guy Adams sul Daily Mail che spiega, come in molti racconti sul potere, la risposta ruoti quasi certamente attorno all'unica cosa che Epstein aveva e che Andrea desiderava disperatamente: il denaro. Per capire il perché, dobbiamo riportare l'orologio al tempo in cui iniziò la loro relazione, nei primi anni 2000. Il principe, che aveva appena compiuto 40 anni, era a un bivio: si apprestava a lasciare la Royal Navy, aveva due figlie, un divorzio e un'ex moglie notoriamente costosa da finanziare, insieme a hobby di lusso come golf, yacht e vacanze esclusive in destinazioni da sogno come St. Tropez e le Alpi svizzere. Eppure, come la maggior parte della sua famiglia, la cui ricchezza si sostanzia in proprietà, dipinti, gioielli e trust, il Duca non era, sulla carta, particolarmente ricco e non aveva molta liquidità. In effetti, il suo reddito ufficiale consisteva in un'indennità della Regina, che adesso si aggira intorno alle 250.000 sterline all'anno, più una pensione della Marina di circa 20.000 sterline all'anno. Cosa diversa sono i 4 milioni di sterline che i contribuenti hanno dovuto sborsare nel corso di un decennio per i viaggi del duca come "ambasciatore commerciale" e i 10 milioni per i costi di sicurezza. Ed è esattamente in questo quadro che entra in gioco Epstein. Il losco finanziere prestò il suo jet privato al Duca, mise a sua disposizioni le varie case e l'isola privata, permettendogli di vivere e trascorrere le vacanze come un oligarca. In almeno un'occasione durante la loro relazione, Epstein aprì il suo libretto degli assegni. Quell’occasione si è presentata nel 2010, quando Epstein fu condannato per reati sessuali su minori, meno di sei mesi dopo che Andrea aveva deciso di trascorrere quattro notti nella sua dimora di New York. A quel punto, il finanziere ha accettato di pagare 15.000 sterline a Sarah Ferguson. Secondo quanto riferito, il dono le ha dato una mano in un periodo in cui i debiti ammontavano a 5 milioni di sterline. Epstein lo aiutò anche a saldare i salari non pagati per il suo ex assistente personale, Johnny Oullullan. A differenza del duca, che non ha ancora ritenuto opportuno esprimere dispiacere per le vittime di Epstein, la duchessa ha fatto un mea culpa dopo che l’aiuto economico è venuto a galla. Sarah si è affrettata a parlare di un "gigantesco errore di giudizio e ha condannato la pedofilia e qualsiasi abuso di minori", promettendo di restituire i soldi. Ma l'aiuto di Epstein ad Andrea non è arrivato solo sotto forma di omaggi e denaro contante. Ciò è diventato molto chiaro durante l'intervista di sabato, quando il Principe ha fatto sfacciatamente riferimento alle "persone che ho incontrato e le opportunità che mi ha dato di imparare, da lui o grazie a lui", dicendo che erano "davvero molto utili". Ciò che sembra aver cercato di sostenere è che la cerchia di contatti influenti di Epstein non era solo una compagnia divertente (per un uomo un po' solitario che ha pochi amici veri), ma poteva anche essere sfruttata. Date le rivelazioni sulle finanze di Andrea, è difficile non essere d'accordo. Perché non solo queste persone potevano aiutare il principe Andrea nel suo ruolo commerciale ufficiale, ma avevano anche la capacità di incanalare opportunità commerciali redditizie. Inoltre, nel corso degli anni da quando ha lasciato la Royal Navy nel 2001, il Duca sembra aver iniziato  a ritagliarsi una ruolo a latere lavorando come una sorta di "intermediario" commerciale per ricchi uomini d'affari, usando i suoi contatti e la polvere di stelle reale per aiutarli a fare affari redditizi in angoli remoti del globo. Gli affari stessi sono sempre stati segreti, così come le commissioni che ha guadagnato. Tuttavia, aiutano a spiegare come, tra il 2000 e oggi, il Duca abbia accumulato tale ricchezza. Oggi vanta una collezione di costosi orologi da polso - tra cui diversi Rolex e Cartier, un Apple Watch in oro da 12.000 sterline e un Patek Philippe da 150.000 sterline - e un piccolo parco di auto di lusso, tra cui una nuova Bentley verde. Sembra anche che il Duca sia riuscito a ripagare i debiti di 5 milioni di sterline della sua ex moglie. Poi ci sono i suoi enormi esborsi sulle proprietà, tra cui i 7,5 milioni di sterline che ha speso per ristrutturare la Royal Lodge, la sua casa nel Windsor Great Park e lo chalet da 13 milioni di sterline in Svizzera che ha acquisito nel 2014. Per anni, questi stravaganti acquisti hanno confuso gli amici, dato il suo scarso reddito ufficiale e la mancanza di un lavoro adeguato a questi lussi. Dal 2011, la sua vita lavorativa ufficiale ruota attorno a un ente di beneficenza imprenditoriale, Pitch@Palace e a un numero sempre minore di impegni ufficiali (225 nel 2019, in calo rispetto al doppio degli anni precedenti). «Paragonerei Andrea a una mongolfiera - disse una volta un conoscente - Sembra galleggiare serenamente in ambienti molto rarefatti, senza alcun mezzo visibile di supporto. Nessuno ha mai avuto idea di come paghi tutto quello che ha». Tuttavia, nel 2016, il Mail ha ottenuto una tranche di e-mail che descrivono in dettaglio i suoi straordinari rapporti commerciali con uno dei tanti gruppi di imprenditori politicamente connessi alla sua orbita. I documenti provenivano dal Kazakistan, un paese dell'Asia centrale molto corrotto, ma ricco di minerali, il cui dittatore Nursultan Nazarbayev era impazzito per Andrea durante le visite commerciali. Le e-mail erano state originariamente ottenute da attivisti per la democrazia nel Paese e offrivano una visione agghiacciante di alcuni degli oligarchi della cerchia del Principe. Un gruppo di e-mail era inviata da un uomo d'affari kazako (che era stato precedentemente fotografato a un incontro con Andrea) a un gruppo di amici russi. Era un'oscena discussione sulle prostitute adolescenti che presto si sarebbero unite a loro in vacanza vicino al Mar Nero. In allegato c’erano le riprese video di alcune ragazze, magre e incredibilmente giovani, che danzavano in bikini accanto a una piscina. Andrea non faceva parte di questa corrispondenza, e va sottolineato che non aveva nulla a che fare con le vacanze in questione. Il suo nome invece è apparso in un’altra serie di e-mail, che coinvolgevano un uomo d'affari kazako chiamato Kenges Rakishev. Il 14 aprile 2011, il Principe ha inviato personalmente una e-mail a Rakishev per conto di una compagnia idrica greca chiamata EYDAP e una casa finanziaria svizzera chiamata Aras Capital, che voleva fare un'offerta per un contratto da 385 milioni di sterline per costruire reti idriche e fognarie in due grandi città kazake, Astana e Almaty, una delle quali era amministrata dal suocero di Rakishev. Descrivendo il consorzio come "noi" e delineando ampi dettagli di quello che chiamava "il piano idrico", il Principe affermava che la sua segretaria privata, Amanda Thirsk, avrebbe aiutato personalmente a presentare le aziende ad alti personaggi politici kazaki. Secondo i dirigenti greci coinvolti nell'offerta, Andrea avrebbe dovuto ricevere una commissione dell'1%, ovvero 3,85 milioni di sterline, per essere stato l'intermediario che li aveva aiutati a concludere con successo l’affare. Le e-mail del 2011, per conto di aziende greche e svizzere, senza alcun vantaggio per il Regno Unito, sono state inviate mentre Andrea stava lavorando a tempo pieno come ambasciatore commerciale della Gran Bretagna. In un primo momento da Buckingham Palace hanno cercato di parlate di una falsificazione, ma si sono dovuti arrendere di fronte all’autenticità della firma e hanno ingaggiato lo studio legale Harbottle & Lewis per impedirne la pubblicazione appellandosi alla privacy del Principe. Nelle e-mail c'erano anche messaggi che descrivevano dettagliatamente la famosa vendita di Sunninghill, l'ex casa di Windsor con 12 camere da letto del Duca. Era rimasta in vendita sul mercato per cinque anni prima di essere venduta improvvisamente nel 2007. L'acquirente era una misteriosa società con sede nelle Isole Vergini britanniche, che per ragioni mai spiegate, decise di pagare 15 milioni di sterline - 3 milioni di più rispetto al prezzo richiesto. La proprietà rimase vuota per otto anni prima di essere rasa al suolo. Successivamente si è scoperto che l'acquirente era Timur Kulibayev, un altro oligarca kazako che Andrea aveva incontrato nei suoi giri d’affari nel Paese. Sebbene Buckingham Palace avesse insistito a lungo sul fatto che Andrea non avesse alcun ruolo nella vendita, le e-mail mostravano che il suo ufficio privato aveva fatto di tutto per mediare l'accordo. Nessuno tra gli “amici” di Andrea è un personaggio tanto controverso come Epstein, ma tra i nomi che fanno storcere il naso c’è il figlio del colonnello Gheddafi, Saif al-Islam, e Tarek Kaituni, un contrabbandiere di armi libico, già condannato che è stato invitato al matrimonio della figlia Eugenie, e Sakher el- Materi, un tempo membro del governo tunisino che ha ottenuto asilo alle Seychelles dopo essere stato condannato per corruzione, e David Rowland, un magnate in esilio che in passato era conosciuto per essere un "losco finanziatore". Tutti hanno, come Epstein, hanno dei portafogli notevoli e sono capaci di un grande fascino. E senza dubbio sono in grado di organizzare anche dei festini.  

Gb, il principe Andrea non capisce e vuole andare in Bahrain. La regina lo ferma. Dopo la rinuncia ufficiale a tutti gli incarichi pubblici, il figlio di Elisabetta sembra riluttante e stava per programmare un viaggio semi ufficiale nell'arcipelago del Golfo Persico. La famiglia reale lo ha fermato. Enrico Franceschini il 22 novembre 2019 su La Repubblica. “Ma allora proprio non ti è chiaro? Come dobbiamo dirtelo?” La regina e Carlo sarebbero intervenuti in termini molto espliciti sulla “pecora nera” della famiglia reale, il principe Andrea, per farlo desistere da un viaggio semi ufficiale in Bahrain, all’indomani del suo ritiro da ogni attività pubblica a causa del suo coinvolgimento nello scandalo di Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo americano morto suicida in carcere a New York quattro mesi fa. Di fatto “sospeso” dalle sue funzioni, e conseguentemente privato della sua parte di finanziamenti statali (circa 250 mila sterline l’anno versati dal contribuente), Andrea sembrava intenzionato a partire lo stesso. Ma la sovrana e il suo erede Carlo lo hanno fermato dicendogli in sostanza, secondo le indiscrezioni riportate stamane dai tabloid inglesi: “Ma proprio non capisci? Non è una buona idea fare questo viaggio in un momento simile. Lascia perdere”. Le umiliazioni per il principe non si fermano a questo: è stato costretto a dimettersi da cancelliere, in pratica il titolo di rettore onorifico, dell’università di Huddersfield per le vibranti contestazioni degli studenti contro di lui; ha lasciato l’incarico di presidente di Outward Bound Trust, un’altra delle iniziative di beneficenza che gestiva; e gli avvocati delle vittime di Epstein annunciano che intendono chiedere che venga a testimoniare in America, nel qual caso Andrea potrebbe essere interrogato sotto giuramento per fare venire fuori tutto quello che sa sulle “schiave del sesso” minorenni, una delle quali sarebbe stata anche una sua vittima, ipotesi in cui rischia come minimo di essere incriminato per falsa testimonianza. Il fango di questa bruttissima storia continua dunque a crescere, attorno al terzogenito di Sua Maestà e indirettamente su tutta la “ditta”, com’è soprannominata la royal family, tanto che un columnist del Financial Times si chiede se non sia venuto il momento di riesaminare il rapporto della monarchia con la democrazia britannica: non per abolirla e diventare repubblica, ma per ridurne il ruolo e i fondi. L’unico a non rendersi conto di che bufera ha provocato è Andrea, ieri ripreso sorridente mentre usciva dalla sua residenza nel parco del castello di Windsor. E altrettanto sorridente, spingendosi a fare ciao con la mano dal finestrino, è apparsa la sua ex-moglie Sarah Ferguson arrivando con l’autista a Buckingham Palace. Come se fosse un episodio del serial “The Crown”.

Meghan "vorrebbe sotterrarsi dalla vergogna" dopo l'intervista di Andrea. L'intervista rilasciata dal principe Andrea per la BBC, con l'obiettivo di scagionarsi dall'accusa di rapporti sessuali con una minorenne, ha coinvolto l'intera famiglia reale britannica, tra cui Meghan Markle. Da sempre paladina dei diritti delle donne, Lady Sussex si troverebbe ora nei guai per le parole del principe. Mariangela Garofano, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. La sfortunata intervista rilasciata dal principe Andrea per la BBC, riguardo ai suoi legami con Jeffrey Epstein, ha coinvolto loro malgrado, tutti i membri della Royal Family. E anche Meghan Markle sta subendo delle ripercussioni a seguito delle parole pronunciate dal duca. Durante l'intervista, alla domanda se avesse avuto rapporti sessuali con l'allora diciassettenne Virgina Giuffre, il duca aveva risposto: “No, fare sesso per un uomo è una cosa positiva. Quindi anche se provi a dimenticarlo, è difficile. E io non ricordo nulla a tal proposito”. La dichiarazione del principe suona come una nota stonata, non avendo infatti negato di aver avuto rapporti con la ragazza, ma di “non ricordarlo”. Ora per colpa di queste incaute affermazioni, Lady Sussex, grande sostenitrice delle campagne per i diritti delle donne, si troverebbe in una posizione molto delicata, come riferisce una fonte a lei vicina al The Telegraph. “L’intervista ha lasciato quelli che l'hanno guardata con la voglia di nascondersi sotto a un tavolo. La situazione sta peggiorando sempre di più”, afferma la fonte, secondo la quale Meghan sarebbe “nei guai” a causa delle scellerate dichiarazioni di Andrea. La mancata empatia nei confronti delle vittime di Epstein manifestata dal duca di York ha contribuito a rendere ancora più disastroso il tentativo di scusarsi per la sua amicizia con il finanziere. Gli sponsor che finanziavano gli enti benefici fondati dal principe si stanno tirando indietro, lasciandolo isolato ed esposto alla gogna mediatica. Da qui la sua decisione di ritirarsi dalla vita pubblica, sostenuto e consigliato dalla regina Elisabetta, che negli ultimi giorni è stata fotografata insieme al terzogenito nel tentativo di mostrare il suo sostegno al figlio. E come era ovvio, a fare le spese delle gravi accuse mosse ad Andrea sono state anche le figlie Beatrice ed Eugenia. Sebbene investite dallo scandalo paterno, si dice che "sono calme e vanno avanti", rimanendo al fianco del padre nonostante la disgraziata vicenda che lo vede protagonista. Virginia Giuffre ha accusato il principe Andrea di aver avuto rapporti intimi con lei diverse volte quando era minorenne e di essere stata “svenduta” al duca da Jeffrey Epstein.

Caso Epstein: la regina Elisabetta annulla la festa per i sessant'anni del principe Andrea. La sovrana ha cancellato l'evento per il sessantesimo del duca di York, in programma per febbraio. Secondo i tabloid britannici la regina avrebbe ripiegato su una cena informale di famiglia. Novella Toloni, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. A una settimana esatta dall'intervista del principe Andrea alla BBC, prosegue la serie di conseguenze scatenate dalle pesanti dichiarazioni rilasciate all'emittente britannica dal duca di York. L'effetto domino non accenna ad arrestarsi e oggi coinvolge anche il sessantesimo compleanno del principe. Secondo quando riportato dal quotidiano britannico The Times, la regina Elisabetta II ha annullato la festa di compleanno in onore del suo secondogenito, prevista tra quattro mesi. Il 19 febbraio prossimo il principe Andrea, infatti, compirà 60 anni e la sovrana aveva programmato una festa in grande stile per celebrare il figlio e i numerosi enti benefici dei quali, fino a pochi giorni fa, era a capo. Alla luce di quanto successo recentemente, però, sua Maestà ha fatto un passo indietro. Lo sfarzo e le celebrazioni in pompa magna devono, necessariamente, lasciare il passo a un basso profilo. Così la regina Elisabetta II ha cancellato la festa, ripiegando su una cena privata in famiglia che si terrà presumibilmente a Buckingham Palace. La notizia arriva pochi giorni dopo che Sua Maestà ha "licenziato" il principe Andrea dai suoi impegni reali sulla scia della disastrosa intervista rilasciata dal reale sullo scandalo Jeffrey Epstein. Il duca di York è coinvolto nella vicenda non solo in quanto amico del magnate americano, ma anche in qualità di accusato di molestie sessuali da una delle vittime di Epstein, Virginia Giuffre. L'intervista rilasciata a Newsnight sulla BBC domenica scorsa, avrebbe dovuto ridare credibilità al principe Andrea, ma così non è stato. Davanti alla giornalista il duca ha negato qualsiasi accusa di trasgressione durante la sua amicizia con Epstein e di non aver abusato di Virginia Giuffre, ma né i tabloid inglesi né il suo popolo gli hanno creduto. Anzi, l'intervista rilasciata dal duca alla BBC ha messo in seria difficoltà la famiglia reale, contravvenendo addirittura alla volontà della sovrana, che a quanto pare era contraria all'intervista. La popolarità del principe Andrea è inesorabilmente in caduta libera. Un sondaggio reso noto dal Daily Mail ha, infatti, rivelato che il 51% dei sudditi britannici non vuole che il duca presenzi a eventi reali nel prossimo futuro, di nessun tipo. L'essersi ritirato dalla scena pubblica e dai doveri istituzionali non ha saziato gli inglesi, che vogliono il principe al bando. Il principe Andres dovrebbe, sempre secondo il sondaggio, smettere di andare agli eventi pubblici a cui partecipa tutta la famiglia reale compresi il Trooping the Colour, il Remembrance Sunday e il compleanno della Regina.

Enrica Roddolo per corriere.it il 27 novembre 2019. Non è la prima volta che una casa reale stende un cordone sanitario attorno al re (o all’erede al trono), per limitare i danni d’immagine e fiducia popolare verso la Corona. Insomma, il principe Andrea di York che dopo la discussa intervista con la Bbc a proposito della sua amicizia con Jeffrey Epstein, ha dovuto abbandonare gli impegni ufficiali e adesso si prepara a dover lasciare anche la presidenza delle tante - quasi 200 - charities in cui è coinvolto, non è il primo caso.

Juan Carlos e Felipe. Successe anche a re Juan Carlos dopo le fotografie che lo ritrassero anni fa impegnato in un safari con un’avvenente nobile. Il figlio Felipe prese le distanze dal padre, per evitare che la solidità della giovane corona spagnola — giovane perché riportata sul trono da Juan Carlos a metà degli anni ‘70 — venisse messa in discussione. E dire che Juan Carlos «scivolò», al termine di un regno che per il carisma, la simpatia popolare, la guida salda del re che aveva ereditato la corona grazie al beneplacito di un dittatore (Franco) ma nel nome del padre il conte di Barcellona costretto all’esilio, passerà alla storia come l’età del Juancarlismo.

Edoardo, Wallis e Giorgio VI. E in fondo anche l’abdicazione di Edoardo VIII dopo le simpatie per l’appeasement mentre sull’Europa spiravano i venti della seconda guerra mondiale, se ufficialmente consentì finalmente al duca di Windsor di sposare la sua amata Wallis, è innegabile che risultò nell’allontanamento dal trono, e da pericolose commistioni con il millenario trono di San Giacomo. Per aprire la strada al regno di Giorgio VI e quindi della regina Elisabetta II. Certo il caso di Andrew è molto differente da quello di Edoardo e Wallis, non di politica, di affari di stato, ma di frequentazioni personali si tratta. Ma resta il fatto che, come in un’azienda in caso di crisi si tende ad allontanare i vertici aziendali coinvolti in un crollo di fiducia, allo stesso modo — e anzi a maggior ragione in istituzioni millenarie come le monarchie che da sempre hanno lo sguardo proiettato verso un orizzonte lungo anzi lunghissimo — prende le distanze è indispensabile.

Clarence House. E di questo parlerà con Andrew, di ritorno dal suo viaggio in Nuova Zelanda, l’erede al trono Carlo che d’intesa con William il secondo nell’ordine di successione alla corona oggi saldamente sul capo di Elisabetta II, avrebbe discusso la questione Andrew con il padre e la nonna dicendo «è la cosa giusta da fare» a proposito dell’allontanamento di Andrew dagli impegni ufficiali. Carlo — che convocherà il principe Andrea a Clarence House — e William insomma sembrano decisi a mettere uno steccato di divisione tra il loro operato e quello del fratello e zio che intanto ha già visto cancellare il previsto festeggiamento dei suoi 60 anni con tutta la Pomp and circumstance dei grandi eventi a Buckingham Palace, già in calendario il prossimo febbraio.

Trooping the Colour. Il fatto è che da un nuovo sondaggio nel Regno Unito già sei persone su dieci sono convinte che il principe abbia danneggiato la reputazione della Royal family, con alcuni che vorrebbero che fosse addirittura tenuto lontano dai grandi appuntamenti di famiglia dei Windsor, dal Trooping the Colour al Remembrance Sunday.

Charities. E in pochi giorni le disdette o i malumori per il coinvolgimento di Andrea in Charities e progetti da lui sostenuti sono fioccate rapide. A partire dagli sponsor del suo progetto-fiore all’occhiello, Pitch@Palace che Andrea vorrebbe disperatamente mantenere. Ma le charities in cui è coinvolto il duca di York vanno dall’English National Ballet,alla Royal Philharmonic Orchestra, l’Outward Bound Trust.

Corona e figli. In realtà, «la regina in sé resterà immune, gode di un tale rispetto e affetto che nulla può scalfirla — ha detto al Corriere l’executive editor dell’Economist, Daniel Franklin — ma sono i suoi figli e il contesto Royal che possono avere delle ricadute dal caso Epstein». Regina che se come Carlo e William — pur senza pronunciarsi — in questi giorni ha tenuto le distanze dal figlio. In privato ha voluto confermare il suo sostegno di madre (per il suo figlio «del cuore»), cavalcando venerdì nella tenuta di Windsor al suo fianco. In ogni caso «Il caso Andrew dimostra che la Corona verrà sempre prima della famiglia», dice Simon Heffer sul Telegraph. Anche se Elisabetta II non rinuncerà dunque di continuare a cavalcare fianco a fianco con il figlio, questo non la distoglierà dal mettere sempre prima la Corona, e dopo la famiglia.

Parla Virginia Giuffre  la ragazza che spaventa  i reali (e accusa  il principe Andrea). Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. Mancano poche ore e l'accusatrice del principe Andrea Virginia Giuffre rivelerà maggiori dettagli sulle sue accuse contro la Casa Reale britannica. In un trailer dell'intervista registrata un mese fa ma che andrà in onda questa sera sulla Bbc alle 21 (le 22 in Italia), Virginia Giuffre afferma come il periodo della sua vita in cui ha incontrato il principe Andrew «è stato un periodo davvero spaventoso». Poi la «bomba» — già detonata in queste settimane — e destinata a riaprire le polemiche e a far tremare Buckingham Palace. Giuffre afferma di aver fatto sesso per la prima volta con il principe Andrea quando aveva 17 anni «Lui sa cosa è successo, io so cosa è successo e c'è solo uno di noi che dice la verità». Virginia Giuffre, all'epoca conosciuta come Virginia Roberts, ha poi dichiarato di aver fatto sesso tre volte con il Duca di York a partire dal 2001, inclusa una volta a Londra. Una versione che il diretto interessato ha «categoricamente» negato in un'intervista alla Bbc due settimane fa mettendo in dubbio la veridicità della fotografia che lo ritrae con la ragazza. E se di polemiche si parla, di sicuro ne susciterà altre la decisione di Scotland Yard di non riaprire il caso sulle accuse mosse da Giuffre al finanziere Usa Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere. Virginia accusa Epstein di averla forzata ad andare a letto con il principe Andrea e ha accusato la polizia di Londra di non aver sottoposto a inchiesta la sua denuncia risalente al 2015. Scotland Yard, ha spiegato di non aver indagato sul caso denunciato dopo essersi consultata «con altre organizzazioni delle forze dell'ordine» perché l'inchiesta «sarebbe stata incentrata in buona parte su attività e rapporti avvenuti fuori dal Regno Unito». «Siamo arrivati alla conclusione - è stata la risposta di Scotland Yard tramite il comandante Alex Murray - che il Mps (il servizio di polizia metropolitana) non era l'autorità appropriata per condurre un'indagine su queste circostanze e nel novembre del 2016 è stata presa la decisione di non procedere ad un'indagine penale su questa materia». 

Virginia: «Io minorenne con il principe Andrea. Lui ha negato, ma io so la verità». Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 su Corriere.it da Paola De Carolis. L’ex ragazzina della foto: «Sono cresciuta con i film della Disney in cui i principi sono buoni». Le accuse in tv di Virginia. «Lui sa cosa è successo, io pure. E solo uno di noi sta raccontando la verità». Dopo l’intervista di Andrea, in cui il principe ha negato di aver mai conosciuto la donna statunitense che sostiene di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con lui quando era ancora minorenne, la parola passa ora all’accusatrice, Virginia Roberts Giuffre. Andrea aveva parlato a Neswsnight, Giuffre a Panorama, trasmissioni rivali della stessa emittente, e il Paese si trova ora a fare i conti un nuovo capitolo di una telenovela reale, ma laddove i Windsor di The Crown avevano la colpa di essere un po’ freddi, distaccati e snob, la trama in cui sembra coinvolto Andrea è scabrosa e all’apparenza criminale. «Sono cresciuta con i film della Disney, in cui i principi e le principesse sono prevalentemente buoni, ma lui non lo era», ha sottolineato Giuffre, che nel corso della trasmissione di un’ora — la prima intervista televisiva rilasciata in Gran Bretagna — ha chiesto al pubblico di schierarsi con lei, di «non accettare o giustificare» ciò che le è accaduto. «Questa non è una sordida storia di sesso, è la storia di un abuso che coinvolge uno dei vostri reali». La sua versione è a grandi linee risaputa. A 16 anni, Virginia va a lavorare presso il salone di bellezza di Mar-a-Lago, il resort di Donald Trump in Florida. Un giorno viene avvicinata da Ghislaine Maxwell, figlia di Robert Maxwell, proprietario del Daily Mirror e colpevole di frodi milionarie contro le pensioni dei suoi dipendenti. Ghislaine è la compagna dell’imprenditore Jeffrey Epstein, ed è amica del principe Andrea. Vede che Virginia sta leggendo un libro sui massaggi, e lì comincia un’opera di indottrinamento, in cui a Virginia viene promesso di tutto e di più in cambio di prestazioni sessuali con Epstein e la sua banda. Le viene insegnato come fare sesso orale, come adottare un atteggiamento sottomesso nei confronti dei compagni di letto, come capire cosa le era richiesto. Riguardo al principe Andrea, che conosceva bene, Ghislaine — che stando a Giuffre aveva il compito di procurare ragazzine per Epstein — fu particolarmente specifica. Virginia fu portata prima in un night di Londra, il Tramp, dove il principe le chiese di ballare. «Lui ballava malissimo, non ho mai visto nessuno ballare così male, e sudava tantissimo, le gocce di sudore cadevano come pioggia». In macchina Ghislaine disse a Virginia di comportarsi con Andrea come si comportava con Epstein, «di fargli le stesse cose». «Al solo pensiero mi veniva il voltastomaco». Quella sera fecero sesso a casa di Maxwell. Virginia aveva 17 anni. In tutto furono tre, dice, gli incontri tra i due. «Chi sta con lui dirà che la foto che ci ritrae insieme è stata corretta, ma non è vero». Nel frattempo Epstein è morto suicida in carcere a New York, dove si trovava per pedofilia e traffico di minorenni; Ghislaine è scomparsa. Il tabloid Sun ha offerto una taglia di diecimila sterline a chi dia informazioni su dove si trovi, ma con la morte di Epstein, Maxwell è riuscita a far perdere le sue tracce. Il principe Andrea, che per via delle accuse di Giuffre ha dovuto prendere le distanze dalle charities e le università alle quali era legato e ha abbandonato il ruolo ufficiale all’interno del casato dei Windsor, ha negato di aver mai incontrato Virginia, precisando che ai tempi, per via dello stress conosciuto durante la guerra delle Falklands, aveva un disturbo fisico che gli impediva di sudare. La sera in questione, inoltre, si trovava, dice, in un ristorante di Woking, Pizza Express, con la figlia Beatrice. Ancora ieri Buckingham Palace ha sottolineato l’estraneità ai fatti di Andrea, negando in modo categorico che il principe abbia avuto relazioni sessuali con minorenni.

Principe Andrea, spunta un'email: "Dove possiamo parlare di Virginia Giuffre?" In queste ore, il principe Andrea sta subendo forti pressioni per la nuova intervista che la sua accusatrice, Virginia Giuffre, ha rilasciato alla BBC. E proprio durante il programma è spuntata fuori un'email che il duca avrebbe inviato a Ghislaine Maxwell riguardo alla Giuffre. Mariangela Garofano, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Martedì sera sulla BBC è andata in onda una nuova trasmissione “bomba” sul presunto coinvolgimento del principe Andrea nello scandalo Epstein, dal titolo“ The Prince and the Epstein Scandal”. Come si legge sul Mirror, durante il programma di un’ora, è stata mostrata un’email che il duca di York avrebbe inviato a Ghislaine Maxwell nel 2015, riguardo a Virginia Giuffre, la principale accusatrice del principe. L’email alla Maxwell fu inviata quando fu chiaro che la Giuffre avrebbe rivelato degli abusi subiti da Jeffrey Epstein e dei rapporti intimi che fu costretta ad avere con il principe, quando era minorenne. “Fammi sapere dove possiamo parlare. Ho delle domande specifiche da farti riguardo a Virginia Roberts”, si legge. L’email fu mandata alle 5:50 del mattino, qualche ora prima che la Giuffre (Roberts da nubile) dichiarava su un sito web americano di essere stata abusata da Epstein. In seguito alle pesanti accuse della donna, Buckingham Palace e il principe hanno sempre negato qualsiasi coinvolgimento nel traffico di minorenni in cui era implicato l’amico, definendo ogni accusa “falsa”. Ma Virginia Giuffre, insieme ad altre vittime del magnate pedofilo, sono determinate a non mollare e hanno assunto un team di avvocati negli Stati Uniti, a sostegno delle loro affermazioni. I legali e le vittime hanno affermato che il duca debba recarsi negli Stati Uniti per testimoniare sotto giuramento riguardo ai suoi rapporti con Epstein e dire la verità su Virginia Giuffre. La sorella di una vittima di Epstein, ora deceduta, ha addirittura espresso la volontà che il terzogenito di Elisabetta venga estradato negli USA, se non vi si recherà di sua spontanea volontà. A causa delle pressioni d’oltreoceano e dell’imbarazzo causato alla Royal Family, Andrea si è ritirato dalla vita pubblica, consigliato dal fratello maggiore Carlo e dalla madre. Nel frattempo la sua caduta libera non si arresta e la Giuffre sta andando avanti con la sua battaglia affinché venga fuori la verità. Durante il programma del 2 dicembre la donna tra le lacrime, ha chiamato in causa la popolazione britannica, implorando il loro aiuto nella ricerca della giustizia. “Imploro le persone nel Regno Unito a starmi accanto e ad aiutarmi nella mia battaglia. Questa non è una sordida storia di sesso. Questa è una storia di trafficanti di donne, e di abusi”.

Un testimone: "Vidi il principe Andrea con la Giuffre al Tramp Club". A dare sostegno alle accuse di Virginia Giuffre, che afferma di essere stata costretta a fare sesso con il principe Andrea a 17 anni, ora spunta una nuova testimone, che sostiene di aver visto il duca di York con la ragazza al Tramp club di Londra nel 2001. Mariangela Garofano, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale.  Continuano a spuntare indiscrezioni e novità nello scandalo che riguarda il principe Andrea. Dopo la trasmissione di martedì 2 dicembre, durante la quale è stata intervistata la sua principale accusatrice, Virginia Giuffre, ora pare che un’altra donna sia pronta a parlare. Si tratta di una persona che afferma di aver visto il principe con la Giuffre al Tramp Club di Londra a marzo del 2001. Secondo quanto riporta il Mirror, la donna smentirebbe quanto affermato dal duca durante l’intervista per la BBC. Nella sfortunata intervista Andrea ha negato nel modo più assoluto di essere stato nell’esclusivo club londinese con la Giuffre in quella data, ma di essersi recato ad un Pizza Express e di aver passato la serata con le figlie. Ma ora la testimonianza della donna potrebbe recargli un ulteriore danno. A Londra per cercare di parlare con il duca, Lisa Bloom, legale della potenziale testimone, ha parlato ai microfoni di ITV’s This Morning. L’avvocato ha affermato che la donna sarebbe pronta a riferire quanto visto al Tramp Club all’FBI. "Io rappresento una testimone che afferma di essere stata lì”, ha rivelato Lisa Bloom. E ancora: “Ha visto il principe Andrea con Virginia, e lo ricorda bene perché le fu detto che era un membro della famiglia reale. È stato un grande avvenimento per lei. Ha visto Virginia con lui e ora la porterò all’FBI". La legale ha poi lanciato un messaggio al duca di York: “Hai detto che avresti collaborato. Facciamolo. Non farci chiedere un mandato di comparizione. Dacci i documenti, i calendari, i giornali e lasciaci interrogare lo staff che viaggia con te". Virginia Giuffre ha accusato Andrea di aver avuto rapporti sessuali con lei quando era minorenne e di essere stata costretta da Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell. La 35enne afferma di aver avuto il primo rapporto con il principe proprio una notte di marzo del 2001, all’età di 17 anni. La Maxwell l’avrebbe indotta a lasciarsi sedurre dal principe, il quale le avrebbe offerto diversi drink al Tramp Club, prima di recarsi a casa della Maxwell a Belgravia e consumare con lei un rapporto intimo. La testimonianza della Giuffre è sostenuta anche dal padre, che ha affermato: “Non ha ragioni per mentire, mentre lui ha tutti i motivi per negare”. Il principe ha negato ogni accusa dell'americana, affermando di non aver mai avuto alcun rapporto con lei. A sostegno delle affermazioni della donna c'è anche una foto, che la ritrae insieme al figlio della regina Elisabetta. Ma Andrea continua a proclamarsi innocente, sostenendo che la foto sarebbe stata ritoccata.

DAGONEWS il 6 dicembre 2019. Il principe Andrea amava che due donne lo massaggiassero contemporaneamente e non disdegnava di accogliere sulle sue gambe modelle durante le cene. Nuovi dettagli sul comportamento del duca di York emergono a tre settimane dall’intervista scandalo alla BBC in cui ha negato di aver mai fatto sesso con l’allora 17enne Virginia Virginia Roberts nella casa di Ghislaine Maxwell. Una fonte anonima, amico del principe, racconta di essere stato uno dei suoi compagni di baldoria subito dopo il divorzio da Sarah Ferguson nel 1996: racconta di come i due si divertissero alle feste e di come le giovani e sexy modelle si lanciavano a braccia vero il duca mentre urlavano "Andy, tesoro". In particolare ha ricordato una festa a fine anni ’90 a casa di un commerciante d'arte britannico durante il quale le ragazze si sedevano a turno sulle ginocchia del principe che non disdegnava l’avvicinamento. Una stilista di nome Lucy, che ha frequentato Andrea per un breve periodo, ha raccontato di come lui si divertisse particolarmente a ricevere massaggi a quattro mani: «Gli piaceva che due donne lavorassero su di lui. Quando si è parlato di un massaggio ai piedi durante l'intervista della BBC, ho subito pensato: “Sì, è lui”. Comunque per me Andrea è sempre stato un gentiluomo. Non c’è nulla di subdolo in lui. Tranne quando si trattava di pagare il conto, di solito si sottraeva».

Mariangela Garofalo per ilgiornale.it il 16 dicembre 2019. Virginia Giuffre, la donna che ha accusato il principe Andrea di aver fatto sesso con lei quando era minorenne, ha scritto un post su Twitter a dir poco inquietante. Il post della donna arriva in risposta al tweet di un utente che scriveva: “L’FBI la ucciderà per proteggere i ricchi e potenti”. “Voglio rendere pubblico che non ho nessuna forma o mania suicida”, twitta la Giuffre, che aggiunge: “Ho fatto sapere al mio terapista e al mio medico di base – se mai dovesse accadermi qualcosa – di non lasciar cadere la cosa, per la salvezza della mia famiglia, e di aiutarmi a proteggerli. Troppa gente malvagia vorrebbe vedermi in silenzio”. La scioccante dichiarazione della Giuffre riportata dal Daily Mail, arriva dopo l’ultima intervista per Bbc Panorama, nella quale ha accusato il principe Andrea di aver abusato di lei, nell’ambito del traffico di minori portato avanti da Jeffrey Epstein. Il milionario arrestato per pedofilia è morto in carcere suicida, ma molti credono che sia stato messo a tacere per evitare che facesse i nomi degli abituali frequentatori dei suoi party. Il più grande sostenitore di questa teoria è il patologo Michael Baden, il quale ritiene che tutti gli indizi “portino ad un omicidio”. Virginia sostiene di essere stata usata come “schiava sessuale” di Epstein e i suoi facoltosi amici, tra cui il duca di York, al quale fu presentata una sera di marzo del 2001. Quella sera Andrea le avrebbe offerto diversi drink nell’esclusivo Tramp Club di Londra, prima di fare sesso con lei nella dimora di Belgravia di Ghislaine Maxwell. La 35enne ha mostrato agli inquirenti una foto che la ritrae con il principe Andrea, a supporto della sue affermazioni. In una delle fotografie in suo possesso, una giovane Virginia posa tra la Maxwell e il principe, che la abbraccia. Ma nonostante l’evidenza, il duca e il suo entourage hanno affermato che si tratta di una foto manipolata. Il duca, nella disastrosa intervista per la Bbc, ha dichiarato di non aver mai conosciuto la Giuffre. Il tentativo di scagionarsi, ha però sortito l’effetto contrario e il terzogenito di Elisabetta è stato costretto a ritirarsi dalla vita pubblica, per non causare ulteriore imbarazzo alla famiglia reale. Ora una seconda vittima starebbe per rivelare pubblicamente nuovi particolari scabrosi riguardanti il principe, andando ad aggiungersi a quelli della Giuffre, il cui contenuto scottante la sta facendo temere per la sua incolumità. 

 "Cerca di voltare pagina". La dura vita del Principe Andrea dopo lo scandalo. Come ha rivelato una fonte anonima, il Principe Andrea e tutta la sua famiglia sta cercando di voltare pagine e uscire indenni dallo scandalo Epstein. Carlo Lanna, Giovedì 26/12/2019, su Il Giornale. Non è facile per il Principe Andrea e tutta la sua famiglia cercare di guardare oltre tutti i problemi degli ultimi due mesi. Le accuse di molestie si sono abbattute sulla vita del principe e, i rapporti con il defunto Jeffrey Epstein, sono una scure anche tutto il resto della famiglia. Eppure Andrea, come Sarah Ferguson e la stessa Eugenia, cercano di voltare pagina, di guardare oltre, sperando che il tempo possa aggiustare le cose. Ma non è facile, eppure da parte del Principe Andrea c’è tutta l’intenzione di farlo. È una fonte anonima di palazzo che, in una recente intervista rilasciata al Daily Mail, rivela le condizioni della famiglia dopo lo scandalo, che teme ancora le ripercussioni e, soprattutto, teme il giudizio della Regina. "Cercano di capire come prendere possesso dello loro vita", afferma la gola profonda, in un messaggio per nulla criptico che è stato rilasciato al tabloid. Un messaggio che rivolge uno sguardo non solo alla situazione del Principe Andrea ma che, ovviamente, riguarda sia la Ferguson che Eugenia, colpite anche loro dagli eventi. "La famiglia sostiene il padre incondizionatamente e crede fermamente nella sua estraneità ai fatti – aggiunge -. Eugenia è la sua più grande supporter. Il principe inoltre sarà al matrimonio di sua figlia. Non ha nessuna intenzione di perdersi il grande giorno. Lui ha un ruolo molto forte nella sua vita e la accompagnerà all’altare". Il momento non è certo facile, ma la fonte ammette che il Principe Andrea ha tutte le intenzioni di non farsi sopraffare dagli eventi. "Come famiglia affrontano i problemi giorno dopo giorno. Con un po’ di timore sono sicuri che riusciranno ad uscire vivi dalla tempesta – afferma -. Soprattutto Beatrice non farebbe mai nulla per ferire suo padre. Tra i due non c’è stata nessuna rottura". Nonostante il turbinio di eventi, il principe Andrea come da tradizione ha raggiunto la Regina a Bukingham Palace nel pranzo di Natale organizzato dalla Elisabetta. Un evento a cui la sovrana tiene in maniera particolare e, nonostante tutto, ha voluto che Andrea fosse insieme a lei: "Erano tutti felici. Circondati dai loro parenti più stretti". Pare che il matrimonio di Eugenia non sia a rischio e che Andrea sarà presente nonostante le voci sul suo conto. All’inizio si è creduto che non avrebbe accompagnato la figlia all’altare, poi è stata la stessa Eugenia a confermare la sua presenza.

Il principe Carlo è un'ombra nello scandalo di Andrea. Nella vicenda del principe Andrea, accusato da due vittime di Jeffrey Epstein di molestie, il fratello maggiore Carlo ha giocato un ruolo fondamentale circa la decisione del ritiro del duca dalla vita pubblica. Mariangela Garofano, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Il principe Carlo, primogenito di casa Windsor, sarebbe ad un passo dal trono. A rivelarlo è il Mirror, dopo che a seguito della disastrosa intervista del fratello Andrea, avrebbe preso la decisione assieme alla madre, di far ritirare il principe Andrea dalla vita pubblica. Fonti interne hanno soprannominato il principe di Galles “Il Re nell’Ombra”, proprio per il ruolo ricoperto all’interno dell’imbarazzante vicenda. Sebbene infatti i media avessero in un primo momento imputato a Elisabetta la decisione di escludere Andrea dagli impegni pubblici, piano piano l’ombra di Carlo sulla scelta si è fatta evidente. Il principe ha infatti interrotto il suo tour in Nuova Zelanda per rientrare in patria e discutere con il duca di York circa il suo futuro e quello del resto della famiglia. “Lo scandalo riguardante Andrea ed Epstein ha dato l’opportunità a Carlo di dimostrare di poter diventare re”, riferisce un insider. E ancora: “Nulla è più importante dell’istituzione della famiglia reale, nemmeno Andrea, il figlio prediletto della regina. Carlo lo ha capito e ha agito prontamente – come farebbe un re. Questo è stato il momento in cui si è mostrato come Principe Reggente, il Re nell’Ombra”. L’intervista rilasciata dal principe Andrea con l’obiettivo di scagionarsi dall’accusa di aver intrattenuto rapporti intimi con una delle vittime di Epstein di 17 anni, si è ritorta contro il duca. La mancata empatia con le vittime del finanziere, unita al suo goffo tentativo di apparite ignaro dei traffici illeciti di Epstein, hanno portato la regina e Carlo ad intervenire. Ma la stessa Elisabetta ha subito delle critiche per aver permesso al figlio prediletto di partecipare all’intervista, ed è qui che è entrato in gioco Carlo. “Andrea deve andarsene… è l’unica via possibile”, avrebbe affermato il principe alla madre, il cui ritiro dal trono sarebbe previsto tra due anni. Nonostante il ritiro dagli impegni pubblici sia ormai effettivo, Andrea avrebbe rifiutato di restare in disparte a vita, ma avrebbe abbandonato i suoi doveri solo temporaneamente.

Liberoquotidiano.it il 2 dicembre 2019. La famiglia reale d'Inghilterra è scossa dall'ennesimo principio di scandalo. Questa volta i protagonisti sono Carlo Windsor e la consorte Camilla Shand, il cui matrimonio sarebbe vicino ad un misterioso epilogo. Come rimbalza dai tabloid britannici, l'aspirante coppia regnante starebbe affrontando una dura crisi coniugale, con Camilla che avrebbe minacciato di rivelare i segreti della famiglia Windsor nel caso in cui Carlo si rifiutasse di firmare un accordo di divorzio dal valore di 300 milioni di sterline. Le tensioni tra i due, amanti durante il matrimonio con Lady D e sposati dal 2005, sarebbero scoppiate in occasione dell'ultimo viaggio ufficiale nel Sud Pacifico. Camilla sarebbe tornata anzitempo a Londra, nel momento in cui il marito Carlo stava per prendere un aereo di Stato in direzione Isole Salomone. La bufera, che minaccia di abbattersi sulla famiglia reale, arriva ad un anno esatto dall'annunciata abdicazione della 94enne regina Elisabetta in favore del figlio 71enne Carlo, principe del Galles. Inoltre alcune indiscrezioni rivelano di un incontro tra Camilla e il celebre avvocato divorzista dei vip, Fiona Shackleton. Tira una brutta aria dalle parti di Buckingham Palace.

Cristina Marconi per “il Messaggero” il 03 dicembre 2019. Tira un'aria di cambiamenti a Buckingham Palace, dove la vicenda dell'amicizia del principe Andrea con Jeffrey Epstein ha costretto a prendere decisioni drastiche. E a fare i conti con il fatto che la regina Elisabetta II è ormai molto avanti con l'età e il suo controllo sulla famiglia si sta, inevitabilmente indebolendo. E così si rincorrono le voci che il principe di Galles, Carlo, a cui si deve la decisione di rimuovere il terzogenito Andrea da ogni incarico pubblico e, per quanto possibile, dai riflettori dello scandalo, potrebbe affiancare la madre sul trono con il titolo di principe reggente e con molte più responsabilità di quelle, già importanti, che ha ora. Il 21 aprile del 2021 Elisabetta compirà 95 anni, la stessa età che aveva Filippo d'Edimburgo quando si è ritirato dai suoi impegni pubblici, e per allora potrebbe essere Carlo a gestire la monarchia, lasciando alla madre il titolo di regina. Il principe di Galles, ultrasettantenne, ha delle opinioni forti su come i Windsor dovrebbero affrontare le sfide del futuro. Innanzi tutto ridimensionando le loro spese e il numero di parenti da far mantenere ai contribuenti: ad esempio, per lui Andrew e le figlie Eugenie e Beatrice non dovrebbero rientrare nel perimetro. «Lo scandalo di Andrew e Epstein ha dato a Carlo l'occasione di dimostrare che può gestire la Ditta», ha spiegato una fonte al tabloid The Sun, aggiungendo che «nessuno è più grande dell'istituzione della famiglia reale. Neppure Andrew, il figlio favorito della regina. Carlo l'ha capito e ha agito in maniera decisiva, come il re che potrebbe presto diventare. È il momento in cui Carlo è entrato in scena come il Principe Reggente, il Re Ombra». Carlo era infatti in Nuova Zelanda per una visita ufficiale con la moglie Camilla quando è stata trasmessa la catastrofica intervista di Andrea alla Bbc e appena rientrato è andato in Norfolk per incontrare il padre, che storicamente ha sempre governato la famiglia con pugno di ferro per contenere le numerose intemperanze di figli e parenti. E invece Andrea aveva preso la tragica decisione da solo, consigliato solo dalla sua assistente personale Amanda Thirsk, che sperava che parlando in pubblico il principe sarebbe riuscito a sanare la sua immagine pubblica. La ex moglie Sarah, con cui è ancora in ottimi rapporti, l'aveva sconsigliato, così come una delle figlie. E infatti la sua situazione continua a peggiorare, soprattutto dopo che ieri sera sulla Bbc l'accusatrice, Virginia Giuffre, ha raccontato delle tre occasioni in cui ha avuto rapporti con il principe, quando era ancora minorenne. «Ghislaine (Maxwell, la compagna di Epstein, ndr) mi disse di fare per il principe quello che facevo per Jeffrey e mi venne la nausea», ha raccontato la Giuffre, lanciando un appello al pubblico britannico a «stare dalla sua parte». Questa sera, quando i capi di stato e di governo si riuniranno a palazzo per un ricevimento in vista del vertice Nato, Andrea non ci sarà, così come non ci saranno Harry e Meghan, che hanno preso una pausa dai loro impegni ufficiali, anche loro dopo un'intervista molto controversa. Gli altri ci saranno, in forma smagliante, perché come in ogni famiglia qualcosa ogni tanto deve cambiare perché non cambi nulla.

"Mia nonna è riuscita a fare la differenza". Il toccante omaggio del Principe William alla Regina Elisabetta. Il Principe William è molto legato a sua nonna Elisabetta e, in un programma tv in cui è stato l'ospite d'onore, ha elogiato la sovrana in un toccante messaggio a cui ha assistito anche Kate Middleton. Carlo Lanna, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. I figli di Carlo e Lady D. sono fortemente legati a nonna Elisabetta. Sia il Principe William che Harry, più volte nel corso del tempo, hanno rivelato quanto possono essere importanti i consigli e l’affetto incondizionato della sovrana. Ed anche se i nipoti hanno agito secondo una logica sbagliata, Elisabetta li ha sempre accolti a braccia aperte, perdonando anche il più futile errore. E dopo tutti gli scandali e le malelingue che si sono abbattute sulla vita della royal family, come lo scandalo del Principe Andrea, è giusto ricordare quanto è importante per il popolo inglese avere una regina come Elisabetta. Ed è proprio il Principe William che decide di rendere omaggio alla sovrana con un toccante discorso trasmesso in diretta tv. L’erede al trono, insieme a sua moglie Kate Middleton, di recente è stato uno degli ospiti d’onore di un notissimo programma culinario (di cui sono anche dei fan sfegatati) e, in quel contesto, il principe ha dedicato alla sovrana un omaggio molto toccante. "Ho una grande ammirazione per lei – esordisce -. Ho imparato tutto: come relazionarmi con il pubblico, come comportarmi durante gli incontri ufficiali e anche a cucinare". William infatti è un vero esempio di regalità. L’unico che insieme a Kate rispetta il rigore e le regole di Corte, mostrandosi per una persona integerrima e carismatica. "Lei è diventata una regina in tenera età. Sedersi sul trono inglese a 25 anni non deve essere stato facile per una donna– continua -. Ha seguito il popolo inglese in un periodo complesso e difficile, soprattutto è diventata una sovrana in un mondo che era terribilmente maschilista. Fare la differenza è stato molto difficile. Alla fine però ci è riuscita a distinguersi, e lo fatto in un modo straordinario – e aggiunge – Lei e mio nonno rappresentano come prestare un servizio pubblico". E durante lo show, tra una ricetta e un’altra, al fianco della conduttrice, si sono toccati anche diversi argomenti della vita di Corte del Principe William e di sua moglie Kate. Come gli impegni filantropici dei duchi. "Personalmente mi piace aiutare le persone in difficoltà. Trovo che si possa imparare molto nel dedicare un po’ di tempo agli altri". Un i’dea condivisa anche dalla Middleton, dato che insieme, molto spesso si dedicano ad attività umanitarie per aiutare i più deboli. Proprio di recente, la Duchessa di Cambridge è diventa un’infermiera nel reparto di maternità del Kensington Hospital. "Sono cresciuto con due genitori molto caritatevoli. Siamo fortunati e in quanto reali dobbiamo restituire la nostra fortuna".

Regina Elisabetta: alla sua morte sarà allarme come in guerra. Antonella Ferrari il 03/12/2019 su Notizie.it. Un piano articolato e studiato nei minimi dettagli scatterà nel momento della morte della Regina Elisabetta. Direttamente da Buckingham Palace arrivano notizie relativamente a quanto accadrà nel momento della morte della Regina Elisabetta. A Corte è stato messo a punto nei minimi dettagli un piano per la comunicazione della notizia a tutti i sudditi: a Londra accadranno una serie di episodi concatenati che avranno lo scopo di far arrivare l’avviso della morte alla maggior parte dei sudditi possibile, persino a coloro che saranno in volo in aereo.

Regina Elisabetta: il piano per la morte. Quando la reggente inglese passerà a miglior vita, il primo a dare la notizia sarà un domestico di Buckingham Palace, che vestito a lutto, uscirà da palazzo e affiggerà all’esterno un avviso che comunica la morte della sovrana. Il sito web di Buckingham Palace cambierà colore e tutti i contenuti saranno eliminati temporaneamente per dare spazio all’annuncio funebre. Verrà quindi attivato un allarme radio, molto simile a quello che passa in periodo di guerra, mentre la BBC sospenderà tutta la programmazione per approfondire la notizia. I piloti sugli aerei, inoltre, avranno il compito di comunicare la notizia a personale di bordo e passeggeri.

La canzone-allarme. Stando ad un’indiscrezione rilasciata dal produttore BBC Chris Price, qualora gli inglesi dovessero ascoltare la canzone “Haunted Dancehall (Nursey Remix)” di Sabres of Paradise è bene che inizino a preoccuparsi. Il brano sarebbe infatti il segnale d’allarme che qualcosa di terribile è appena successo.

DAGONEWS il 3 dicembre 2019. Mai tredici a tavola. È il volere di sua maestà la regina Elisabetta che, a 93 anni, si assicura che quando fa degli inviti a Buckingham Palace i commensali non siano mai 13. Non perché lei sia superstiziosa, assicurano le persone che lavorano con lei da anni, ma per evitare che altri commensali che invece credono nelle superstizioni possano sentirsi a disagio. Ma se il 13 per la Regina non è associato alla sfortuna, la sovrana crede nei fantasmi e ha una serie di portafortuna sempre con sé nella sua borsetta. E se in molti pensano che il vantaggio di essere Regina sia quello che c’è qualcuno che pensa a preparare il cibo appositamente per te, sua maestà preferisce non avere un piatto specifico che le venga servito a tavola. In sostanza se qualcuno volesse avvelenare la sovrana dovrebbe assicurarsi di far fuori tutti i commensali. D’altra parte è la regina stessa a supervisionare sul cibo servito a Palazzo ed è lei in persona che sceglie i piatti che saranno preparati dagli chef. Darren McGrady, che ha lavorato per la famiglia reale per 15 anni come chef della Regina, ha spiegato a Sua Maestà che viene presentato un elenco di pietanze che vorrebbero servirle a tavola: «Lei sceglie cosa non vuole e ci indica cosa gradisce». Ma c’è anche qualcosa che è completamente bandito da Buckingham Palace: niente aglio e le cipolle sono tollerate, ma solo in piccole dosi.

La regina Elisabetta cerca un organizzatore di viaggi reali. Buckingham Palace ha pubblicato un annuncio di lavoro su LinkedIn per aspiranti organizzatori di viaggi reali e la paga è molto interessante. Francesca Rossi, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. La regina Elisabetta cerca un direttore di royal travel, cioè una persona che organizzi i viaggi della royal family, come rivela il magazine Grazia. Sull’annuncio pubblicato nel sito LinkedIn è scritto chiaramente che il prescelto dovrà fare attenzione a scegliere sempre voli “economici”” ed “efficienti”. Ai tabloid non è sfuggito il fatto che l’offerta di lavoro sia arrivata a pochi mesi dalla polemica che ha investito il principe Harry e Meghan Markle, accusati di spendere belle parole in favore dell’ambiente senza far seguire un esempio concreto e coerente. I duchi di Sussex sono stati criticati per aver utilizzato 4 voli privati durante la scorsa estate contribuendo, secondo i detrattori, all’inquinamento globale con le emissioni di carbonio. Inoltre il fatto che i jet li abbiano portati a Nizza e a Ibiza per le vacanze ha inasprito ancora di più il tono delle polemiche. Il principe Harry si è difeso spiegando di aver optato per i aerei privati in modo da garantire la sicurezza della sua famiglia, aggiungendo di trascorrere il 99% del suo tempo su voli commerciali. Tuttavia la questione non si è mai “sgonfiata” del tutto. Ora la regina Elisabetta vorrebbe tentare di invertire la rotta, proponendo l’immagine di una royal family più attenta ai problemi ambientali. Per questo scopo persino i dettagli di un annuncio di lavoro e la scelta delle parole giuste per presentarlo sono fondamentali, soprattutto se si tratta di un incarico da royal travel. L’aspirante organizzatore di viaggi reali avrà il suo “quartier generale” a Londra, ma naturalmente sono previsti anche spostamenti all’estero. È necessario essere sempre reperibile e il contratto prevede 37.5 ore settimanali di lavoro. Stando alla proposta di lavoro apparsa su LinkedIn il candidato dovrà “guidare una piccola squadra nell’ufficio del Royal Travel e The Queen’s Helicopter Flight”. L’annuncio prosegue spiegando che sarà richiesto un “supporto logistico alla famiglia reale, compreso il sostegno nelle attività di corte, alle visite di Stato e alla fornitura del servizio di viaggio del personale impiegato a palazzo”. Lo stipendio non è affatto male. Si tratta di 85mila sterline all’anno (100mila euro circa) e le candidature sono aperte fino al 20 dicembre. Il lavoro è di certo ambito, ma richiede anche una notevole responsabilità. I viaggi della royal family devono essere programmati secondo precise norme di sicurezza che mai come in questo momento è importantissimo seguire alla lettera. I royal tour sono organizzati secondo un equilibrio che deve tener conto tanto dell’incolumità dei reali, quanto del significato, dello scopo del viaggio e di ogni sua singola tappa. Il prescelto non dovrà solo sovrintendere a dei semplici spostamenti, ma organizzare con coerenza dei veri e propri eventi pubblici che rimarranno impressi nella storia dei Windsor e verranno ripresi dai giornali di tutto il mondo.

Il Principe William segue le orme di Lady Diana. In onore di Lady Diana, il Principe William ha presenziato all'edizione di quest'anno dei Legacy Awards in cui sono stati premiati i piccoli leader del domani che si sono distinti per le loro attività umanitarie. Carlo Lanna, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Lady Diana ha lasciato un’impronta indelebile nel cuore di tutti, soprattutto nel cuore dei figli Harry e William, che a distanza di anni dalla sua scomparsa, cercano di mantenere alto il ricordo di una donna straordinaria. La Principessa Triste è stata una donna anticonformista ma, allo stesso tempo, ha combattuto per i diritti dei più deboli, dei giovani e degli emarginati. E il Diana Awards è la prova più tangibile di tutto l’operato di Lady D. Alla sua scomparsa, l’onoreficenza che premia i giovani che si sono distinti per la loro forza di volontà, è stato soprannominato The Legacy Awards. Il Principe William ne ha preso le redini e, proprio di recente, fra le mura di Kensington Palace, in un evento informale, il duca di Cambridge ha ospitato alcuni di quei ragazzi che, secondo lo spirito di Lady Diana, si sarebbero distinti per diverse attività. Il Principe William ha parlato con 20 piccoli ma grandi leader del domani che provengono da ogni parte del mondo, tutti hanno fra i 12 e 25 anni, i quali con le loro capacità avrebbero ispirato le nuove generazione a realizzare i propri sogni e combattere per i diritti di tutti. Per ambire a questo riconoscimento non è facile, ma la soddisfazione di ricevere i complimenti dal principe in persona è un’emozione indescrivibile. In questo contento, non sono passate inosservate le dichiarazioni di Olivia Hancock, di 14 anni appena, che ha ricevuto il premio perché si è distinta nella sua lotta alla parità di genere nel mondo del calcio. Intercettata dal Daily Mail, la giovane è rimasta molto colpita dal sorriso del Principe William. "Si è fermato a parlare con me solo per qualche minuto – afferma la promessa del cacio giovanile -. Mi ha raccontato che gioca molto spesso a calcio con il piccolo George e anche Charlotte si unisce a loro molto spesso. Non vuole creare né differenze né rivalità tra sorella e fratello – continua -. Condivide molto tempo con i figli. Li fa giocare all’aria aperta e cerca di trasmettere tutte le passioni e gli ideali della sua famiglia". Sul profilo instagram ufficiale di Kensington Palace si possono intravedere tutti gli scatti più belli dell’evento che si è svolto ieri, martedì 26 novembre, nella City. Il principe stringe mani, elargisce sorrisi e perle di saggezza. Ha a cuore questo progetto, è come se attraverso il Legacy Awards, trovasse un modo per dialogare ancora una volta con la madre prematuramente scomparsa.

DAGONEWS il 27 novembre 2019. Nuovo attacco frontale a Meghan Markle da parte di uno dei membri della sua famiglia: questa volta ad asfaltare la duchessa ci ha pensato Mike Markle, lo zio 80enne, ex diplomatico e fratello del padre Thomas. In una lunga intervista a “Woman” l’ex diplomatico descrive la nipote come una “primadonna”, «una persona che porta rancore pensando di essere stata maltrattata. Questo potrebbe essere uno dei problemi che ha con la cognata Kate». Mike ricorda come ha aiutato la nipote ad assicurarle un prestigioso tirocinio come addetto stampa junior presso l'ambasciata americana in Argentina quando aveva 20 anni visto che Meghan all’epoca stava considerando una carriera nelle relazioni internazionali. «Lei ha fatto la sua scalata sociale e ci ha lasciato alle spalle – ha detto Mike -  Penso che sia quello che succede quando sei una di una classe inferiore che cerca di superare la realtà dei fatti. Visto qual è il suo passato, potrebbe avere una rabbia derivata dal pensiero di essere stata trattata male in passato. Potrebbe essere una parte del problema con sua cognata. Meghan è in qualche modo immatura. Lo vedo nel modo in cui agisce, non solo nei confronti dei familiari, ma di altre persone». La responsabilità del carattere “difficile” della duchessa per lo zio Mike è del padre Thomas: «Può darsi che sia stata prepotente nei confronti del personale perché è stata viziata da mio fratello. Tom ha trascorso più tempo con lei e l'ha aiutata a scuola. Ha sempre avuto più rapporti con lei rispetto agli altri figli. Si sente una primadonna perché lui l’ha sempre trattata molto bene». Mike, che non è stato invitato al matrimonio reale, incalza: «Non ha invitato molte persone, quindi non ha discriminato me. Sarebbe stato bello per lei avere un parte della sua famiglia, ma non la capisco. Non riesco a comunicare con lei perché non le danno la posta al palazzo e in ogni caso non so cosa dovrei scriverle. Sta a lei fare il primo passo. Ho fatto molto di più per lei rispetto alla maggior parte delle altre persone. Ho parlato personalmente con l'ambasciatore in Argentina per lei. L'ho aiutata e non ho chiesto nulla in cambio. Se vuole avere una relazione più stretta, per me va bene, ma deve venire da lei».

La rivelazione: "Harry e Meghan isolati dalla Royal Family". Dopo l'intervista per ITV News, nella quale i duchi di Sussex manifestarono il loro disappunto per le critiche dei media, pare che nessuno all'interno della Royal Family li abbia aiutati, anzi, il rapporto tra la coppia e il resto della famiglia è sempre più gelido. Mariangela Garofano, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale.  A quanto pare, il tormentato rapporto tra i duchi di Sussex e il resto della famiglia reale britannica non è cambiato negli ultimi tempi. Harry e Meghan qualche mese fa rilasciarono un’intervista a cuore aperto, durante il loro tour in Sudafrica, nella quale entrambi rivelarono pubblicamente il loro malcontento nei confronti dei media e dell’essere continuamente sotto pressione. In particolare, Meghan raccontò di avere avuto non poche difficoltà con le critiche della stampa e di sentirsi sola nella sua lotta costante contro le illazioni e le accuse della gente. Ed ora alcune fonti interne a Buckingham Palace, hanno riferito a The Mirror, che la coppia sarebbe isolata all'interno della Royal Family. “Nessuno ha fatto retromarcia. Nulla sembra cambiato. Nessuno della famiglia parla, controlla come stanno o manda un messaggio”. A complicare le cose, fonti sostengono che William ed Harry siano ben lontani da un riavvicinamento. “Il gelo tra il duca e la duchessa di Cambridge e Meghan ed Harry è più forte di quello che la gente pensa”. Harry rivelò apertamente nell’intervista che in effetti una rottura nella relazione con il fratello maggiore, c’era stata. “Al momento siamo su binari diversi, ma io ci sarò sempre per lui e so che anche lui sarà sempre qui per me. Non ci vediamo più come un tempo, perché siamo troppo impegnati. Ma ci vogliamo davvero bene e come tutti i fratelli, abbiamo giorni buoni e giorni meno buoni.” raccontò il principe ai microfoni di ITV News. La motivazione della crepa nel rapporto tra i due principi sembrerebbe essere stata la moglie di Harry, Meghan. Quando il principe chiese all'ex attrice americana di sposarlo, William consigliò al fratello minore di non correre troppo, cosa che evidentemente non piacque ad Harry e che contribuì alla nascita del gossip riguardo una loro probabile lite. Ad aumentare i sospetti di una spaccatura con il resto della Royal Family, è arrivata la notizia che i duchi di Sussex non trascorreranno il Natale con la regina Elisabetta e tutta la famiglia, ma con la mamma di Meghan, Doria.

L'indiscrezione: "La fuga a Los Angeles di Meghan? Una decisione che ha l’appoggio della Regina”. Non ci sarebbe nessun rifiuto da parte della Regina in merito alla fuga in America di Meghan Markle e del principe Harry. Di fatto la bufera pare solo frutto di illazioni infondate. Carlo Lanna, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Non si placano le critiche e le voci di dissidi all’interno della royal family in merito alla scelta di Meghan Markle e del principe Harry di trascorrere il Natale a Los Angeles. I duchi di Sussex, fin da quando è trapelata la notizia, sono stati travolti da una vera e propria bufera che ha finito per aggravare la situazione già precaria, facendo crescere tensioni fra le mura di Palazzo. Tante sono le parole che sono state spese sull’argomento, molte di queste del tutto infondate, perché frutto di voci di corridoio e anonime gole profonde che hanno spifferato dettagli poco verosimili alla stampa inglese. Ora però ci sarebbe un vero e proprio colpo di scena sulla faccenda: tutti a corte avrebbero approvato la scelta di Meghan Markle e del Principe Harry di trascorrere a Los Angeles le festività natalizia. A confermarlo sono le fonti ufficiali di Buckingham Palace. “Una decisione che ha il pieno appoggio della sovrana – si legge in una nota -. Una scelta che è in linea con il pensiero di tutta la famiglia e che è stata stabilita mesi e mesi fa”. Poche righe bastano per mettere a tacere la lunga scia di polemiche? Bisogna vedere come reagiranno i detrattori, ma se anche la Regina ha digerito con tranquillità la fuga in terra americana di Meghan, fa intuire che le critiche delle ultime settimane non hanno ragione di esistere. Da quel che si vocifera in rete, pare che la sovrana non mai vietato a Meghan e al Principe Harry di volare a Los Angeles insieme al piccolo Archie. Da quel che sembra Elisabetta ha acconsentito alla richiesta del nipote principalmente per il bene dell’erede dei Sussex. Il figlio di Meghan Markle ha bisogno di legarsi anche a nonna Doria e vivere, per qualche tempo, lontano dalla vita frenetica di Londra. Inoltre, sulla questione non ci sarebbe nulla di veramente rivoluzionario. Il tradizione natale a Sandringhan e suoi tradizionali festeggiamenti lunghi 72 ore, hanno visto la momentanea dipartita di Kate e William diversi anni fa ancora prima dello scandalo di Meghan e di Harry. Anche Kate per una volta ha voluto trascorrere la ricorrenza con la sua famiglia e, anche in quel momento, la Regina ha dato il suo benestare. I duchi di Sussex quindi partiranno la prossima settimana e resteranno in Americana fino al giorno di Natale, poi torneranno nella City. Per ora il programma è top secret, ma la stampa è all’opera per la caccia all’ultimo scoop.

Tutti i tradimenti della "Royal Family". Dal ritiro dalla vita pubblica del duca di York alle relazioni extraconiugali del principe consorte Filippo, fino ai segreti delle alcove reali nel mondo, spesso la storia delle monarchie è stata attraversata da scandali in cui la passione si mescola al potere in modo quasi inscindibile. Francesca Rossi, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Secoli fa era impensabile, per un re o per un erede al trono (maschi, s’intende), non avere delle amanti e delle favorite. Pensiamo, per esempio, al nostrano Papa Borgia (e parliamo di un pontefice, benché monarca), o a Luigi XIV. In alcuni casi le relazioni extraconiugali potevano suscitare scandali, ma di fatto in genere venivano accettate tanto dal popolo quanto dalle mogli costrette a “portare le corna” con ostentata nonchalance. Erano altri tempi, neppure si rifletteva di temi come l’emancipazione della donna, la parità di diritti (anche il “diritto” di tradire, se così vogliamo chiamarlo). Se una regina, o un’imperatrice aveva degli amanti, era additata come una donna pericolosa (per rimanere su toni gentili). Per esempio Caterina la Grande (1729-1796) diede scandalo con i suoi innumerevoli amanti, benché vi sia il fondato sospetto che non fossero poi così tanti. Non è escluso che le accuse tendessero più che altro a infamarne l’immagine di sovrana illuminata e intelligente che si era costruita anche con l’appoggio del suo amante più importante, il conte Orlov. Fu questi ad aiutarla a detronizzare il marito Pietro III. Le voci secondo cui Caterina fu la mandante dell’uccisione dello zar minacciarono di travolgerla, ma lei fu più forte e iniziò a governare con pugno di ferro. Al contrario nel Seicento mai nessuno ebbe da ridire sul comportamento di Luigi XIV di Francia (1638-1715), che sostituiva di frequente le sue amanti, nonostante la rassegnata disperazione della moglie Maria Teresa infanta di Spagna. Enrico VIII (1491-1547) aveva il “brutto vizio” dai contorni criminali di far decapitare le amanti divenute sue legittime consorti, suscitando scandali che gli costarono perfino una scomunica. Il re d’Inghilterra voleva un erede maschio, ma la moglie Caterina d’Aragona gli diede una femmina. Pur di sposare Anna Bolena, Enrico VIII provocò uno scisma religioso. La Chiesa Anglicana nacque sulla base di uno scandalo e di una relazione extraconiugale. In tema di scandali Maria Antonietta (1755-1793) non era seconda a nessuno. Anzi, potremmo dire che per il popolo la giovane sovrana fosse “uno scandalo ambulante”. Le spese folli, il ritiro mal visto nel piccolo borgo chiamato “Hameau della regina”, alla ricerca della privacy, le feste glamour e, forse, persino un amante. Cosa ci fu davvero tra la regina Maria Antonietta e il conte Hans Axel von Fersen? Ancora oggi non si sa con certezza, ma i rumors sul loro presunto amore causarono uno scandalo senza precedenti a corte. Forse si trattò solo di una simpatia, o di un amore platonico. Certo il conte era affascinato da Maria Antonietta e non è escluso che lei ricambiasse, magari a livello puramente amichevole. Non abbiamo prove, però Fersen era l’equivalente di un attore di Hollywood odierno e pare che fosse arduo resistergli. Uno degli scandali di corte a tinte “nere” fu la misteriosa morte dell’arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena (1858-1889) e dell’amante Maria Vetsera a Mayerling. La violenta, presunta uccisione della coppia fece traballare le fondamenta non più così solide dell’impero asburgico. Cosa sia accaduto in quel piccolo paese austriaco il 30 gennaio 1889 è ancora oggetto di discussione. Si trattò di due omicidi? Di un omicidio suicidio? Forse la morte dell’arciduca fu naturale? Troppe versioni, troppe “carte in tavola” rimescolate più volte rendono quasi impossibile comprendere la dinamica di uno degli scandali reali più cupi e terribili degli ultimi secoli. Quando il futuro zar Nicola II (1868-1918) era solo uno zarevič, fu la sua scarsa propensione alla ricerca di amanti a far serpeggiare voci maligne che avrebbero potuto dar vita a uno scandalo. Lo zar Alessandro III, non si sa quanto inconsapevolmente, durante una cena di gala fece sedere accanto al figlio una promessa del balletto, Matilde Kshesinskaya. Da quella sera Nicola e Matilde divennero inseparabili e per lei si aprirono le porte dei più importanti teatri russi. La loro storia terminò quando Nicola si sposò con la futura zarina Alessandra. Non si sa se la fine della relazione con la Kshesinskaya fu opera della famiglia di Nicola. La ballerina stava diventando troppo potente e la sua influenza su Nicola iniziava a destare un certo scandalo. Pare, comunque, che il figlio di Alessandro III fosse davvero innamorato di Alessandra. Anche l’Italia ha la sua buona dose di scandali reali con la vita della Contessa di Castiglione (1837-1899), che riuscì a diventare amante di Napoleone III (una relazione voluta dal conte di Cavour per avvicinare l’imperatore alla causa italiana durante il Risorgimento). La contessa non scalzò l’imperatrice Eugenia solo perché quest’ultima fu più scaltra e rapida nell’allontanare il marito dalle pericolose grazie di Virginia Oldoini. In epoca più recente è impossibile dimenticare le voci sui tradimenti del principe Filippo, marito della regina Elisabetta II (a cui la serie The Crown avrebbe contribuito ad affibbiare, senza prove, un presunto amante di gioventù, Lord Porchester). A quanto sembra Filippo avrebbe avuto delle amanti già nei primi tempi del suo matrimonio. Tra queste vi sarebbero nomi altisonanti come Daphne Du Maurier (autrice di libri come “Gli uccelli” e “Rebecca la prima moglie”) e la cugina di Elisabetta II, Alexandra Hamilton. Almeno in pubblico Sua Maestà ha sempre mantenuto un aplomb che sfiora lo stoicismo. Camilla Parker Bowles è, ormai, “l’altra” per antonomasia. Il suo nome potrebbe persino essere un sinonimo del termine “amante” sul vocabolario, tanto lo scandalo che la travolse con il principe Carlo e Lady Diana fu impetuoso e inarrestabile. Ormai Camilla è la moglie dell’erede al trono, ma l’immagine del terzo incomodo in un matrimonio “affollato” non le si è mai staccata del tutto di dosso. Per Lady Diana la vita fu un susseguirsi amaro di scandali fino alla morte. Dai tradimenti reciproci con Carlo fino all’ultimo amore proibito con il cardiochirurgo pakistano Hasnat Khan. I terremoti scandalistici, però, non sono un’esclusiva dei reali inglesi. Charlene di Monaco sarebbe fuggita poche ore prima del matrimonio, dopo aver scoperto che lo sposo Alberto aveva avuto un terzo figlio illegittimo. Nel 2010 venne pubblicata la biografia “Il re riluttante”, dedicata al re svedese Carlo Gustavo. In questo libro fu messa nero su bianco la presunta passione del sovrano per i festini a luci rosse. Nel 2013 Alberto II del Belgio abdicò ufficialmente per ragioni d’età, ufficiosamente per la scomoda presenza di una presunta figlia illegittima, Delphine Boel, tuttora impegnata in una causa legale per il suo riconoscimento. Anche Juan Carlos di Spagna avrebbe tradito molte volte la regina Sofia, la quale in apparenza ha sempre mantenuto un’invidiabile impassibilità. Sembra che persino Rania di Giordania sia stata sull’orlo del divorzio. In questo caso si tratta di voci ma confermate, ma sembra che re Abdallah avesse una liaison con Hind Hariri, figlia di Rafik Hariri, ex premier libanese morto in un attentato nel 2005. La notizia trapelò attraverso il quotidiano israeliano Yediot Ahronot. I sovrani giordani riuscirono ad arginare in tempo lo scandalo con un silenzio stampa. Nel tempo il loro legame sempre più saldo fece dimenticare i pettegolezzi su questo presunto tradimento. Il caso Epstein che ha travolto il principe Andrea, come ricorda il magazine Grazia è uno di quegli scandali che difficilmente vengono dimenticati dall’opinione pubblica. Il figlio dela regina Elisabetta è accusato di molestie nei confronti di donne anche minorenni all’epoca dei fatti. L’intervista concessa alla BBC ha avuto l’effetto di un boomerang, costringendo Andrea a ritirarsi dalla vita pubblica e a rinunciare all’appannaggio da 249mila sterline, come spiega il Daily Mail. Una catastrofe totale che non costerà la corona a Elisabetta, ma che ha minato la credibilità dei Windsor e da cui l’immagine del principe è uscita distrutta e irrimediabilmente segnata da un atteggiamento definito freddo e cinico.

Regno Unito, William preoccupato per Harry e le orge del Principe Andrea. Famiglia reale a pezzi. Caos a Buckingham e Kensington Palace dopo il documentario su Harry e Meghan in Africa andato in onda su Itv. Il principe aveva parlato del fratello: “Io e William siamo su due sentieri diversi, ma sappiamo che io ci sarò sempre per lui e il contrario”. Antonello Guerrera il 21 ottobre 2019 su La Repubblica.  Starebbe scatenando il caos a Buckingham e Kensington Palace il documentario su Harry e Meghan in Africa andato in onda ieri sera su Itv. Alcuni tabloid britannici parlano del principe William “furioso" col fratello, dopo che Harry nell’intervista del docufilm ha dichiarato: “Certo, ci sono state delle incomprensioni tra noi, abbiamo avuto buoni e cattivi momenti insieme, ma sono cose che succedono soprattutto in una famiglia con una pressione come la nostra”. Per poi aggiungere: “Io e William siamo su due sentieri diversi, ma sappiamo che io ci sarò sempre per lui e il contrario”. Frasi che non sarebbero piaciute al fratello maggiore dei figli di Carlo d’Inghilterra e Diana. Ufficialmente non c’è stato alcun commento da parte della Casa Reale, ma secondo la Bbc William avrebbe espresso “preoccupazione” in famiglia per “il momento molto fragile” del fratello Harry e di sua moglie Meghan. Questo perché i duchi del Sussex, nel documentario, hanno rivelato il loro profondo disagio della vita da celebrità cui sono per forza di cose sottoposti. Nel documentario di Itv, Meghan dichiara addirittura “io esisto, non vivo", riferendosi al disagio in apparenza crescente della sua vita regale costantemente sotto i riflettori. Nella clip l'ex attrice americana Markle ammette di "non stare troppo bene", sottolineando come "non molte persone mi abbiano chiesto come ci si senta nei panni di mamma e moglie" di un principe. Ecco perché sembra proprio essere giunto il momento per cui Harry, Meghan e il piccolo Archie possano prendersi una pausa lontano dalla notorietà, per "almeno sei settimane", come ha scritto domenica il Sunday Times. Ma potrebbe essere solo il primo passo di una vera e propria fuga verso l’Africa, un continente che piace molto ai duchi del Sussex. La destinazione potrebbe essere Città del Capo, in Sudafrica, toccata tra l'altro proprio nel recente tour della coppia nel continente, che ha incluso anche una visita di Harry in Angola lungo lo stesso percorso di sua madre Diana in una storica campagna contro le mine anti-uomo. Harry e Meghan da tempo esprimono continuo disagio nei confronti della vita da "vip" e degli stessi media, contro cui i due hanno lanciato di recente una guerra a colpa di denunce contro i tabloid per presunte intrusioni nella vita privata. Harry di recente ha dichiarato di associare ogni clic di una fotocamera all'immagine di sua madre e anche la recente nascita del piccolo Archie è stata a lungo tenuta segreta o misteriosa proprio per tenere lontano i media e il mondo esterno. Non a caso, Meghan e Harry mesi fa si sono trasferiti nella tenuta, più riservata, di Frogmore Cottage, che però ha scatenato polemiche per gli alti costi della sua ristrutturazione addebitati ai contribuenti, che però in cambio si aspetterebbero meno riservatezza dagli amati e giovani duchi. Ma la casa reale inglese è sempre più nei guai dopo le ultime rivelazioni sul Principe Andrea e la torbida amicizia con Jeffrey Epstein, il milionario americano suicida in carcere dopo le rivelazioni sui suoi festini sessuali con minorenni e molti vip e lo sfruttamento della prostituzione minorile. Secondo alcune carte processuali svelate da un documentario di Channel 4, Epstein aveva almeno 13 numeri telefonici del principe - segno di un rapporto tra i due molto articolata - e soprattutto Andrea con Epstein avrebbe partecipato anche a un’orgia con nove ragazze probabilmente minorenni. Andrea, fratello di Carlo, smentisce categoricamente anche queste ultime accuse. 

DAGONEWS il 28 novembre 2019. Il principe Andrea ha aperto una breccia nella sicurezza di Buckingham Palace invitando una massaggiatrice che non è stata controllata nella sua camera da letto. Monique Giannelloni dice di non essere stata perquisita durante la sua visita al palazzo dopo essere stata presentata al principe Ghislaine Maxwell, l’ape regina e la donna che procacciava giovani ragazze a Jeffrey Epstein. Monique ha raccontato di essere arrivata a palazzo dove le è stato preso solo il numero di targa. «Era il 2000. Sono stata contattata dall'allora segretaria privata del Duca, Charlotte Manley. È stato così facile entrare nel palazzo e mi ha turbato perché avrei potuto essere chiunque. Non conoscevo Andrew e non avevo mai incontrato nessuno della famiglia reale. Nessuno mi conosceva. Non sono stato contattata da un ufficiale della Royal Protection né mi sono state fatte domande. Nessuno ha controllato la mia borsa quando sono arrivata o quando me ne sono andata. Mi aspettavo certamente controlli di sicurezza più rigorosi». Monique faceva visite a domicilio al momento dell'incontro il 30 giugno 2000 e aveva Maxwell tra i suoi clienti. «Non sapevo chi fosse e lei mi rispose che avrei dovuto leggere i tabloid. Più tardi l’ho cercata e ho visto le sue foto con Andrea e ho capito che era la figlia del magnate dei media caduto in disgrazia Robert Maxwell. Poi mi disse che mi avrebbe fatto conoscere una persona più famosa di Dio. Pensavo a un attore, ma mai avrei immaginato un membro della famiglia reale. Quando sono andata a palazzo tutto era grandioso. Andrea mi ha accolto in accappatoio alla porta della sua stanza. Ho fatto un massaggio in camera da letto. C’era una foto di Sarah e delle figlie accanto al lettino». E la donna ha dato anche dettagli interessanti sulla foto di Andrea e Virginia Roberts. Il principe continua a sostenere che la foto sia stata manomessa, ma Monique ha rivelato dei dettagli sul posto in cui è stata scattata: «E’ il pianerottolo al piano di sopra di Maxwell. La stanza dove l’ho massaggiata è sulla sinistra. Ricordo la prima volta che venni contattata dalla segretaria di Maxwell. Mi chiese un massaggio alle 23 nella casa di Belgravia, ma io ho spostato l’appuntamento per l’indomani mattina. Quando sono arrivata era impegnata a parlare con qualcuno e poi mi ha guardato e mi ha chiesto di andarle a comprare le sigarette. Ero seccata dalla sua arroganza. Ho aspettato un’ora prima di farle il massaggio. Poi ha aperto il suo libretto di assegni e mi ha detto di scriverci sopra la cifra che volevo. Pochi giorni dopo mi ha richiamata e in quell’occasione c’era pure Epstein. Era tutto molto imbarazzante. Hanno discusso tutto il tempo dell’acquisto di un’isola. Epstein era inquietante e aveva un’aria da viscido. Alla fine lei mi ha chiesto se ero disposta a fare dei massaggi su uno yacht durante una festa che stavano organizzando. Ho declinato l’invito. Ora mi guardo indietro e sono grata di averli incontrati quando avevo 35 anni e non ero un’adolescente vulnerabile. Avrei potuto essere un’altra vittima di Epstein».

Carlo e i consigli di Filippo sulla Firm dei Windsor, dopo il caso Andrea. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Caso Epstein, resa dei conti a Palazzo: il principe Carlo convoca Andre. Di ritorno dal viaggio oltreoceano ha fatto subito rotta verso Sandringham dove passa molto del suo tempo il padre, Filippo, duca di Edimburgo, 98 anni, che dopo aver lasciato gli impegni pubblici un paio di anni fa ama trascorrere lunghi periodi a Wood Farm nella tenuta tanto cara alla famiglia Windsor che qui passa ogni anno il Natale. Oltre a salutare l’anziano genitore, Carlo, principe di Galles destinato al trono, ha sicuramente voluto chiedere consiglio a colui che anni fa diede a casa Windsor il nickname di The Firm. Che ancora oggi ben sintetizza il mix di legami famigliari e business di famiglia che unisce i vari esponenti della casata. Un vero team aziendale. E poi chi meglio di Filippo, prima di vedere il fratello Andrea travolto dall’onda dello scandalo dopo l’intervista alla Bbc sul caso Epstein? A Londra secondo alcuni, fino al tempo in cui Filippo controllava con polso fermo la «Firm» errori di pr come questo non sarebbero successi nella famiglia reale, e forse il principe Andrea avrebbe cambiato le sue frequentazioni prima che scoppiasse lo scandalo. Anche se in realtà come ha spiegato al Corriere Daniel Franklin (Economist) «è successo anche quando la regina era pienamente al comando di tutto che qualcosa sfuggisse di mano. La prova: i problemi del principe Andrew risalgono ad anni fa». A proposito della regina, the Queen è rimasta apparentemente in disparte nella gestione del caso Andrea. O meglio, a esporsi, adesso che è rientrato dal lungo viaggio in nome di Her Majesty in Nuova Zelanda e isole Solomon, sembra essere piuttosto il principe Carlo dopo aver seguito con attenzione gli sviluppi del caso con il quale ha discusso al telefono con Her Majesty. Caso sul quale si è consultato anche con il figlio William. In fondo, a esporsi al pubblico da anni ormai è proprio Carlo — che viaggia per i Paesi del Commonwealth e per rinsaldare le relazioni diplomatiche britanniche nel nome della regina come in Nuova Zelanda giorni fa; che ha deposto la corona di papaveri davanti al monumento del Cenotafio a Londra al posto della regina che ha seguito la cerimonia in memoria dei caduti di guerra dal balcone. Carlo che ormai si muove come un principe reggente in pectore. «Carlo sta chiaramente prendendo sempre più spazi, mentre in parallelo la regina arretra». Quali indizi guardare? «La cosa più evidente sono i viaggi e gli impegni istituzionali all’estero: è stato Carlo ad aprire i Commonwealth Games in Australia un anno fa», aveva fatto notare Franklin già mesi fa. Quasi un principe reggente, insomma. Mentre William e Harry hanno separato le rispettive Household. Decisione forse presa dal Way Ahead Group (Wag) voluto dalla regina dopo l’annus horribilis 1992 per la tracciare la strada verso il futuro.Un principe reggente che si preparerebbe a raccogliere il testimone dalla madre decisa sì a «guidare il Paese come sovrana fino alla morte» come ha giurato nella solenne cerimonia di stampo medievale sotto le volte di Westminster Abbey nel giugno del 1953 quando sedette sulla «mitologica» pietra di Stone (e quando ancora buona parte degli inglesi, guardando i sondaggi degli anni ‘50, credevano nell’unzione a divinis della regina). Ma consapevole anche che a quasi 94 anni le forze e le energie si affievoliscono e Carlo ormai è uscito dal cono d’ombra nel quale si era auto-confinato dopo le vicende sentimentali con Diana, la tragica scomparsa di lady D e il nuovo sì con Camilla. Oggi Carlo (e anche Camilla) ha saputo guadagnarsi sul campo rispetto, e anche affetto da parte del pubblico britannico che vede in lui la naturale estensione della regina Elisabetta, mentre il pubblico internazionale è conquistato dalla visione contemporanea, sostenibile, del principe tra i pionieri del pensiero «verde» e dei ragionamenti su sostenibilità e climate change. Ecco perché si intensificano a Londra le voci da alcuni mesi che non la staffetta con the Queen, ma il riconoscimento del ruolo di Reggente per Carlo (come fu per Giorgio IV reggente nel 1811 dopo che il padre Giorgio III fu dichiarato pazzo, e che salirà al trono come re nel 1820), si stia avvicinando. La regina avrebbe definito con il Way Ahead Group un timing preciso per aprire ufficialmente la strada alla reggenza di Carlo, i suoi 95 anni. Ma nulla esclude che il caso Andrew abbia invitato il gruppo di lavoro sulla successione in casa Windsor creato proprio nel 1992 primo annus horribilis dei Windsor, oggi inviti ad accelerare i tempi. In fondo, il 2019 passerà alla storia come il secondo annus horribilis del casato. Con il principe Andrea che dopo aver perso il suo ruolo pubblico, ora rischia di dover dire addio anche al titolo (pur alquanto improbabile come ipotesi). E con le voci più dure nel circuito della famiglia reale e dell’esercito che ipotizzano per l’unico reale di casa Windsor (oltre al principe Harry due volte in missione in Afghanistan) ad aver calcato, in anni recenti, i mari in tempo di guerra (negli ‘80 della Thatcher e delle Falklands), anche un passo indietro dai suoi tanti titoli onorari nell’Esercito di Sua Maestà (come quello di Colonel of the Grenadier Guards). In fondo i più severi sostengono, anche il duca di Edimburgo Filippo quando lasciò i ruoli pubblici due anni fa fece un passo indietro anche rispetto ai titoli militari onorifici. E il suo posto potrebbe essere preso da un altro «militare» di casa Windsor, il nipote William, pilota della Raf. Quanto ancora a Filippo, per dare l’assenso a una reggenza — secondo lo storico Regency Act — servirebbe comunque il suo viatico (oltre a quello dello Speaker della House of Commons e del Chancellor). Insomma, ormai «in pensione» a Sandringham, ma sempre centrale nelle dinamiche della Firm.

Carlo, William e Andrea, perché la Corona viene prima della famiglia. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Non è la prima volta che una casa reale stende un cordone sanitario attorno al re (o all’erede al trono), per limitare i danni d’immagine e fiducia popolare verso la Corona. Insomma, il principe Andrea di York che dopo la discussa intervista con la Bbc a proposito della sua amicizia con Jeffrey Epstein, ha dovuto abbandonare gli impegni ufficiali e adesso si prepara a dover lasciare anche la presidenza delle tante - quasi 200 - charities in cui è coinvolto, non è il primo caso. Successe anche a re Juan Carlos dopo le fotografie che lo ritrassero anni fa impegnato in un safari con un’avvenente nobile. Il figlio Felipe prese le distanze dal padre, per evitare che la solidità della giovane corona spagnola — giovane perché riportata sul trono da Juan Carlos a metà degli anni ‘70 — venisse messa in discussione. E dire che Juan Carlos «scivolò», al termine di un regno che per il carisma, la simpatia popolare, la guida salda del re che aveva ereditato la corona grazie al beneplacito di un dittatore (Franco) ma nel nome del padre il conte di Barcellona costretto all’esilio, passerà alla storia come l’età del Juancarlismo. E in fondo anche l’abdicazione di Edoardo VIII dopo le simpatie per l’appeasement mentre sull’Europa spiravano i venti della seconda guerra mondiale, se ufficialmente consentì finalmente al duca di Windsor di sposare la sua amata Wallis, è innegabile che risultò nell’allontanamento dal trono, e da pericolose commistioni con il millenario trono di San Giacomo. Per aprire la strada al regno di Giorgio VI e quindi della regina Elisabetta II. Certo il caso di Andrew è molto differente da quello di Edoardo e Wallis, non di politica, di affari di stato, ma di frequentazioni personali si tratta. Ma resta il fatto che, come in un’azienda in caso di crisi si tende ad allontanare i vertici aziendali coinvolti in un crollo di fiducia, allo stesso modo — e anzi a maggior ragione in istituzioni millenarie come le monarchie che da sempre hanno lo sguardo proiettato verso un orizzonte lungo anzi lunghissimo — prende le distanze è indispensabile. E di questo parlerà con Andrew, di ritorno dal suo viaggio in Nuova Zelanda, l’erede al trono Carlo che d’intesa con William il secondo nell’ordine di successione alla corona oggi saldamente sul capo di Elisabetta II, avrebbe discusso la questione Andrew con il padre e la nonna dicendo «è la cosa giusta da fare» a proposito dell’allontanamento di Andrew dagli impegni ufficiali. Carlo — che convocherà il principe Andrea a Clarence House — e William insomma sembrano decisi a mettere uno steccato di divisione tra il loro operato e quello del fratello e zio che intanto ha già visto cancellare il previsto festeggiamento dei suoi 60 anni con tutta la Pomp and circumstance dei grandi eventi a Buckingham Palace, già in calendario il prossimo febbraio. Il fatto è che da un nuovo sondaggio nel Regno Unito già sei persone su dieci sono convinte che il principe abbia danneggiato la reputazione della Royal family, con alcuni che vorrebbero che fosse addirittura tenuto lontano dai grandi appuntamenti di famiglia dei Windsor, dal Trooping the Colour al Remembrance Sunday. E in pochi giorni le disdette o i malumori per il coinvolgimento di Andrea in Charities e progetti da lui sostenuti sono fioccate rapide. A partire dagli sponsor del suo progetto-fiore all’occhiello, Pitch@Palace che Andrea vorrebbe disperatamente mantenere. Ma le charities in cui è coinvolto il duca di York vanno dall’English National Ballet,alla Royal Philharmonic Orchestra, l’Outward Bound Trust. In realtà, «la regina in sé resterà immune, gode di un tale rispetto e affetto che nulla può scalfirla — ha detto al Corriere l’executive editor dell’Economist, Daniel Franklin — ma sono i suoi figli e il contesto Royal che possono avere delle ricadute dal caso Epstein». Regina che se come Carlo e William — pur senza pronunciarsi — in questi giorni ha tenuto le distanze dal figlio. In privato ha voluto confermare il suo sostegno di madre (per il suo figlio «del cuore»), cavalcando venerdì nella tenuta di Windsor al suo fianco. In ogni caso «Il caso Andrew dimostra che la Corona verrà sempre prima della famiglia», dice Simon Heffer sul Telegraph. Anche se Elisabetta II non rinuncerà dunque di continuare a cavalcare fianco a fianco con il figlio, questo non la distoglierà dal mettere sempre prima la Corona, e dopo la famiglia.

Regno Unito, Meghan: "Esisto non vivo". E ora i duchi di Sussex pensano di trasferirsi in Africa. Secondo il Sunday Times la coppia reale vorrebbe una pausa lontano dalla notorietà, per "almeno sei settimane". In un documentario di Itv l'ex attrice americana ammette di "non stare troppo bene": "Non molte persone mi hanno chiesto come mi senta nei panni di mamma e moglie" di un principe. Antonello Guerrera il 20 ottobre 2019 su La Repubblica. È una voce che gira da mesi, ma secondo il Sunday Times è sempre più concreta. Harry e Meghan starebbero seriamente pensando di trasferirsi in Africa. La tentazione è stata confermata anche in un nuovo documentario di Itv sulla recente trasferta dei duchi del Sussex nel continente africano, durante il quale Meghan dichiara "esisto, non vivo", riferendosi al disagio in apparenza crescente della sua vita regale costantemente sotto i riflettori. Nella clip l'ex attrice americana Markle ammette di "non stare troppo bene", sottolineando come "non molte persone mi abbiano chiesto come ci si senta nei panni di mamma e moglie" di un principe. Ecco perché sembra proprio essere giunto il momento per cui Harry, Meghan e il piccolo Archie possano prendersi una pausa lontano dalla notorietà, per "almeno sei settimane", secondo il domenicale del Times. Ma potrebbe essere solo il primo passo di una vera e propria fuga. La destinazione potrebbe essere Città del Capo, in Sudafrica, toccata tra l'altro proprio nel recente tour della coppia nel continente, che ha incluso anche una visita di Harry in Angola lungo lo stesso percorso di sua madre Diana in una storica campagna contro le mine anti-uomo. Il trasferimento in Africa dei duchi del Sussex potrebbe verificarsi proprio per il continuo disagio espresso dai due nei confronti della vita da "vip" e degli stessi media, contro cui i due hanno lanciato di recente una guerra a colpa di denunce contro i tabloid per presunte intrusioni nella vita privata. Harry di recente ha dichiarato di associare ogni clic di una fotocamera all'immagine di sua madre e anche la recente nascita del piccolo Archie è stata a lungo tenuta segreta o misteriosa proprio per tenere lontano i media e il mondo esterno. Non a caso, Meghan e Harry mesi fa si sono trasferiti nella tenuta, più riservata, di Frogmore Cottage, che però ha scatenato polemiche per gli alti costi della sua ristrutturazione addebitati ai contribuenti, che però in cambio si aspetterebbero meno riservatezza dagli amati e giovani duchi.

William contro Harry:«Sei troppo fragile»I principi sempre più divisi. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ippolito, corrispondente da Londra. Crisi senza precedenti tra i due fratelli, innescata da Fratelli contro. Nella casa reale: una frattura di non poco contro. Con William che si dice «preoccupato» per la «situazione di fragilità» di Harry. Dopo che quest’ultimo ha ammesso che i due sono ormai «su strade diverse». Che conducono verso un futuro sempre più accidentato per i Windsor. La miccia l’ha innescata il documentario andato in onda domenica sera sulla tv britannica: un’ora di interviste con Harry e Meghan girate durante il loro recente viaggio in Africa. Dove il duca di Sussex parla per la prima volta apertamente delle divisioni con il fratello, il duca di Cambridge ed erede al trono. «Non ci vediamo più così spesso come prima», rivela Harry, aggiungendo che «le cose succedono», perché «tra fratelli ci sono giorni buoni e giorni cattivi». Un candore che ha sorpreso molti. E che ha fatto sobbalzare il Palazzo. Anche perché Harry ha ammesso di soffrire ancora di problemi mentali e di non aver mai superato il trauma della morte della madre Diana. «Pensavo di esserne venuto fuori — ha raccontato —, ma poi improvvisamente è riemerso tutto e mi sono reso conto che è qualcosa che devo gestire». Il principe, oggi 35enne, già due anni fa aveva rivelato di ricorrere alle cure di psicologi dopo essere stato sull’orlo di «un collasso totale». Non è chiaro se sia ancora seguito dai medici, ma fonti della casa reale hanno fatto sapere che ha «il giusto team di sostegno attorno a lui». Le voci di una spaccatura tra William e Harry si rincorrevano da mesi, alimentate anche dai pettegolezzi su presunte tensioni fra Meghan e Kate. Ed erano state rafforzate dalla decisione dei duchi di Sussex di andare a vivere a Windsor, lontano da Kensington Palace (dove si trovano i duchi di Cambridge) oltre che dalla separazione dei loro uffici e delle loro attività di beneficenza. Anche sul piano della «propaganda» — se così la si può chiamare — Harry e Meghan avevano aperto una loro seguitissima pagina Instagram, separata da quella ufficiale, che era subito stata vista in concorrenza con quella di William e Kate. Ma in realtà le tensioni tra i due fratelli hanno una storia più lunga: e risalgono all’inizio della storia d’amore del più giovane con l’attrice americana. Perché pare che William avesse messo in guardia Harry da un matrimonio affrettato: e il secondo non l’aveva presa affatto bene. Sì, Meghan: è lei la pietra d’inciampo. Ed è anche la vera protagonista del documentario televisivo: nel quale racconta della sua sofferenza per come è stata tratta dalla stampa popolare britannica. E rivela che i suoi amici l’avevano avvertita: «I tabloid distruggeranno la tua vita». Ma lei non ci aveva badato: «Non ho mai pensato che sarebbe stato facile, ma credevo che sarebbe stato corretto». E invece «la gente dice cose che non sono vere, ma sono autorizzati a continuare a dirle».Perché è questo il vero bersaglio di Harry e Meghan: la stampa. E anche questo documentario va messo in quel contesto: che ha visto i duchi di Sussex fare causa a quasi tutti i tabloid britannici, a conclusione di un tour africano che era stato giudicato un successo. E che invece è stato in qualche modo rovinato dalla decisione di portare i giornali in tribunale. Dunque quelle interviste appaiono come una sorta di giustificazione: ci perseguitano, ci rovinano la vita, non potevamo fare altro. Harry è stato ancora più esplicito: e ha detto che ogni scatto di una macchina fotografica, ogni flash, gli riportano alla mente il destino di sua madre. Ma è proprio qui che si annida il problema: lui e Meghan vorrebbero essere lasciati in pace, condurre una vita normale, senza il continuo scrutinio dei media. Ma loro non sono persone normali: sono membri della famiglia reale britannica e come tali godono di immensi privilegi ai quali corrispondono altrettanti doveri. Primo fra tutti, essere sotto l’occhio dei sudditi. E quindi certe loro stravaganze, come il segreto che ha avvolto la nascita del figlio Archie e il successivo battesimo, per non parlare dei viaggi su jet privati a spese dei loro amici (quali Elton John), si addicono forse alle celebrities hollywoodiane, ma non certo ai Windsor. Sono loro quelli che dovrebbero tracciare il confine, non la stampa (che è sempre facile accusare).

Il documentario di Meghan Markle e del principe Harry preoccupa la royal family. "Tutti sono inorriditi". Dopo il documentario dedicato al viaggio in Africa di Meghan Markle e del Principe Harry, la famiglia reale è molto preoccupata per le ripercussioni. Carlo Lanna, Mercoledì 23/10/2019. Le confessioni a cuore aperto di Meghan Markle hanno creato molto scompiglio non solo fra gli estimatori della Corona. La stessa royal family guarda lo scorrere degli eventi con una certa attenzione. Il documentario che è stato trasmesso in patria lo scorso week-end, girato in Africa durante il viaggio dei duchi di Sussex, fa intravedere un ritratto umano e sofferente dei due rampolli reali,tempestati troppo spesso da critiche becere e infondate. E la mossa di Harry di denunciare la stampa per una grave violazione della privacy è solo la punta dell’iceberg. Dichiarazioni bomba quelle di Meghan e di Harry che, secondo quanto riportano gli esperti di Corte, non sono piaciute ad alcuni membri della famiglia reale, in primis proprio la Regina non approverebbe quanto è stato rivelato dai duchi. "Penso che a Corte sono tutti un po’ inorriditi da tutto quello che è successo – rivela Jonny Dymond, il corrispondente reale della BBC-. Spero che Meghan ed Harry una volta che saranno tornati a Londra possano riflettere molto attentamente sul polverone che hanno sollevato. Sì, perché fuggire a Cape Town non è la risposta a tutti i loro problemi". Il documentario quindi, secondo le prime stime, pare che abbia influito ancora di più a minare l’immagine pubblica di Meghan Markle, già bersagliata e aspramente criticata. "Ora c’è una vera spaccatura. Harry ha fatto lo stesso errore di sua madre: mostrare il lato umano dei reali al pubblico. Ma non ha capito che i tempi sono cambiati. Ora la monarchia non è più capace di nascondere le crepe".

"Regina e principe Carlo offesi dalle parole di Meghan Markle". La Regina e il Principe Carlo secondo diversi insider di corte sarebbero delusi e amareggiati per le dure parole usate da Meghan Markle per definire la vita a Corte nonostante abbiano entrambi fatto molto per farla sentire la benvoluta a Palazzo. Sandra Rondini, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Sorpresa e costernazione. Questi i sentimenti prevalenti a Buckingham Palace e Clarence House, sedi istituzionali rispettivamente della Regina Elisabetta II e del Principe Carlo, dopo la messa in onda del documentario della ITV con la doppia intervista al Principe Harry e a sua moglie Meghan Markle che hanno definito “molto difficile la vita di corte” e non solo per l'assalto quotidiano della stampa scandalistica. La Regina e suo figlio Carlo “hanno fatto di tutto per far sentire benvenuta la Duchessa del Sussex”, è stato detto all' Evening Standard, dopo che Meghan ha definito “una lotta” vivere con i reali inglesi da quando ha sposato il Principe Harry. Fonti senior, ossia vicine alla Corona, hanno ammesso che “la Famiglia reale, con tutte le sue formalità, può apparire scoraggiante", ma hanno ribadito con fermezza che sia la Regina che il Principe Carlo hanno fatto grandi sforzi per far sentire accolta Meghan. Un insider di Buckingham Palace ha detto allo Standard: “So che il Principe di Galles ha contattato diverse volte Meghan. Spesso si vedono e condividono anche l'amore per la musica. So che l'ha invitata a un'anteprima di una mostra a Palazzo. Anche la Regina è stata una fonte di forza per Meghan e ha invitato entrambi i Sussex a Balmoral, dove i problemi familiari vengono generalmente discussi in privato”. E ancora: “La Regina e gli alti reali sono molto preoccupati per la strada così sconnessa che Meghan Markle e il Principe Harry stanno prendendo dopo che hanno lanciato il loro colossale attacco ai media britannici”. Il commentatore reale Phil Dampier, che ha scritto "Royally Suited" sulla storia d'amore di Harry e Meghan, ha detto che "dalla Regina in giù sono tutti preoccupati e hanno marchiato i commenti dei Sussex come qualcosa di 'molto serio' a cui è necessario porre un argine e rispondere in modo netto e deciso una volta per tutte”. Jonny Dymond, corrispondente reale della BBC, ha dichiarato: "Penso che la Famiglia reale sia inorridita”, mentre il commentatore reale Penny Junor ha descritto le azioni di Harry e Meghan come un "madornale errore per cui pagheranno un prezzo altissimo". Parlando esclusivamente a MailOnline, infine, Phil Dampier, che ha scritto sui reali per oltre trent'anni, ha dichiarato: "Spero che durante le loro sei settimane di vacanza dai loro impegni come reali Harry e Meghan riflettano molto attentamente su ciò che faranno una volta tornati. Avevano appena segnato un punto a loro favore con il viaggio in Africa, ma ora tutte le loro opere buone sono state oscurate da questo attacco alla stampa e alla Famiglia reale e William, in particolare. Le possibilità sono due: o sono stati mal consigliati o ignorano i consigli”, ha concluso, dicendosi “sconcertato”. 

Da huffingtonpost.it il 21 novembre 2019. Nessuno li cerca, nessuno gli rivolge la parola, nessuno gli scrive: all’indomani delle dichiarazioni rese ai media, giudicate “contro la Corona”, il principe Harry e Meghan Markle sarebbero, di fatto, isolati da tutto e tutti. È questo ciò che ha rivelato una fonte vicino alla coppia al giornale People: stando a quanto riporta la soffiata, il clima intorno ai duchi del Sussex sarebbe a dir poco gelido. A quanto pare, dunque, la famiglia reale non ha perdonato loro di essere usciti fuori dalle righe e di aver parlato pubblicamente dei propri problemi: nel corso delle riprese per un documentario a loro dedicato, Harry ha affermato di essersi allontanato dal fratello William, mentre Meghan Markle ha detto di non riuscire più a vivere bene la sua vita, braccata com’è dai media. Se è vero che il tempo cura le ferite, in questo caso c’è un’eccezione alla regola: nonostante ormai siano trascorse settimane dalle dichiarazioni “incriminate”, secondo la fonte ascoltata da People, i rapporti tra i duchi e il resto della famiglia sarebbero ancora molto tesi. Nello specifico, nessuno si starebbe curando di loro. Non tutti, però, sono d’accordo con l’affermazione della fonte anonima. L’autore ed esperto di affari reali, Phil Dampier, ha detto all’Express che, dopo il documentario, Kate si è precipitata a contattare Meghan: “Ha fatto del suo meglio per tenere tutti uniti e per aiutarla”, ha aggiunto. Secondo Dampier, sarebbe auspicabile che la coppia passasse il Natale insieme alla Regina e non in USA come i rumors prevedono. Questo basterebbe a ricucire i rapporti: “Nel caso in cui non partecipassero, il problema si aggraverebbe ancora di più. Non credo che vogliano passare più tempo con la madre di Meghan: hanno sei settimane per stare con lei”. Stando a quanto riportato da People e da alcune fonti ascoltate dal magazine, i due fratelli avrebbero iniziato ad allontanarsi in seguito alla decisione di Harry di sposare Meghan: il maggiore avrebbe consigliato al più piccolo di “andarci piano”, ferendolo. 

Kate Middleton ha lavorato in segreto nel reparto maternità di un ospedale di Londra. La duchessa di Cambridge ha prestato servizio nel reparto maternità del Kingston Hospital di Londra, lavorando al riparo dall'interesse mediatico, al fianco di medici e infermieri. Novella Toloni, Venerdì 29/11/2019, su il Giornale. Kate Middleton è tornata a lavorare, in gran segreto, per un ospedale londinese. La consorte del Principe William ha prestato servizio nel reparto maternità del Kingston Hospital di Londra, senza che nessuno lo sapesse. Se ne saranno accorti sicuramente i piccoli pazienti e il personale ospedaliero, ma la notizia è stata ufficializzata solo a lavoro compiuto. Kate ha fatto un'esperienza di due giorni all'interno del reparto maternità dell'ospedale inglese, affiancando il personale interno. A dare la notizia del suo breve progetto è stato il Daily Mail che, nell'edizione online, ha riportato la nota reale in cui si spiega che la duchessa "ha completato due giorni con il Kingston Hospital Maternity Unit di Londra". Non è invece stato reso noto quale lavoro abbia svolto la moglie del principe William all'interno del reparto di maternità, ma dopo tre figli c'è da scommettere che la duchessa se la sia cavata egregiamente. Il Kingston Hospital Maternity Unit di Londra è uno dei più attivi della metropoli inglese e solo nel 2018 ha visto nascere quasi sei mila bambini, fornendo assistenza per le nascite a casa, insieme a un'unità di ostetriche tra le più richieste del Regno Unito. La duchessa di Cambridge non è nuova agli impegni negli ospedali della Regina Elisabetta II. Kate Middleton, infatti, riveste numerosi ruoli per conto della famiglia reale, tra i quali l'incarico di patrona reale degli ospizi per bambini dell'East Angliàs. Due settimane fa la duchessa ha inaugurato il "Nook Children Hospice" a Norfolk, intrattenendosi per alcune ore con i piccoli pazienti e le loro famiglie. Anche durante il Royal Tour in Pakistan, la duchessa di Cambridge ha fatto visita, insieme a William, al Shaukat Khanum Memorial Cancer Hospital di Lahore, dove giocando con una paziente indossò una tiara giocattolo.

Kate Middleton diventa un'infermiera per un giorno. Duchessa e ora anche infermiera, per due giorni Kate Middleton ha prestato servizio al Kensington Hospital di Londra al reparto neo-natale lontana da occhi indiscreti e dalla stampa inglese. Carlo Lanna, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Tutti sono a conoscenza del grande interesse che Kate Middleton rivolge alle attività umanitarie. Oltre che duchessa, è una moglie, è una madre ed è soprattutto una donna dal gran cuore che utilizza la sua influenza per fare la differenza e, soprattutto, per costruire un mondo migliore. Quasi tutte le attività che la Middleton svolge quotidianamente finiscono sotto l’occhio indagatore della stampa, tutte tranne una. Da quello che è stato rivelato dal magazine Hello!, la duchessa di Cambridge il 28 novembre ha prestato servizio per due giorni, in qualità di infermiera volontaria, al Kensington Hospistal di Londra. Camice bianco e un passo rapido in corsia, la Middleton si è data un bel da fare al fianco dei medici del reparto di maternità di uno fra gli ospedali più attivi della capitale inglese. In gran segreto e lontano da gli occhi indiscreti della stampa, la moglie di William è diventata un’infermiera che, per due giorni, ha prestato servizio all’ospedale, rispettando orari e turnazione come una gente comune. E da quel che sembra, Kate Middleton è una donna dai mille talenti dato che, in molti sono stati felici di avere in corsia una duchessa così umana e ligia al dovere. Per ora non c’è nessuna foto di quanto è accaduto negli scorsi giorni ma, dal magazine che ha rivelato la notizia, spunta una nota che l’ospedale avrebbe inviato alla stampa, per raccontare quando è accaduto. "La duchessa ha completato due giorni di lavoro nella unità. È stata una donna fantastica che ha prestato servizio sempre con il sorriso sulle labbra e a incastrato altri impegni che aveva durante la giornata – si legge dalla nota -. È stata nella sala pre-natale e in quella post-natale e ha assistito alle operazioni in sala travaglio. Ha visitato il reparto in gran segreto per valutare l’operato dell’Early Years". Non è stata quindi una visita a sorpresa, ma da quel che si legge in rete, Kate Middleton ha voluto constatare con mano come procedono i lavori nell’associazione che lei stessa ha fondato nel 2018. È un gruppo che si occupa di migliorare la vita dei bambini appena nati e che si occupa della crescita del singolo in una fascia di età compresa dai 0 ai 5 anni. "Kate è nata per essere una mamma. Ha cuore, ha tatto e riesce a empatizzare con il paziente", conclude la nota. Proprio perché ha a cuore la salute dei bambini, di recente, la duchessa di Cambridge non ha partecipato a un evento per stare vicino al piccolo George e al resto della sua famiglia.

Kate Middleton e l’influenza di Lady D. "Per i miei figli desidero una vita normale". I tabloid riportano che Kate Middleton nell'educare i suoi figli è molto influenzata dal metodo usato da Lady D. proprio perchè vuole far crescere la famiglia secondo le regole della gente comune. Carlo Lanna, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. È una duchessa, ma è anche una moglie e madre amorevole. Kate Middleton è questo e molto altro. E di recente, in una news trapelata sul Daily Mail, alcuni esperti di corte nel ricostruire l’immagine della duchessa nel corso del tempo, hanno evidenziato come la Middleton ha molte affinità con Lady D. Queste affinità sono trapelate soprattutto nel modo in cui Kate sta educando i suoi figli. "Desidera una vita normale per George, Charlotte e Louis – rivela l’esperto al tabloid inglese – Kate ha sempre voluto che i suoi figli vivessero nel mondo reale e non sotto una campana di vetro. Vuole educarli facendo vivere le stesse esperienze dei bambini della loro età". Come ha riportato il magazine, Kate Middleton intende regalare ai suoi figli un’educazione moderna e, soprattutto, influenzata dalle convinzioni di Lady D, la quale non aveva nessun problema nell’infrangere il protocollo di corte. "Kate è assolutamente consapevole di quanto William fosse legato a sua madre. Per questo motivo vuole che i suoi stessi figli sperimentano cosa vuol dire essere normali", aggiunge l’esperto. E le intenzioni sono state già messe in pratica dalla duchessa di Cambridge. Ad esempio è stata avvistata qualche giorno fa in un negozio mentre ha acquistato dei vestiti di Halloween per i tre pargoli e, a inizio ottobre, dato che Louis non è stato molto bene, ha preferito restare a casa e bigiare lo stadio in cui tutta la royal family era lì per tifare l’Aston Villa.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 3 novembre 2019. La regina Elisabetta organizzò nel gennaio del 2001 un rito molto simile a un esorcismo in una stanza del palazzo di Sandringham nella quale i domestici non volevano più entrare a causa di strani fenomeni: dopo la funzione, il sacerdote disse che avrebbe potuto trattarsi del fantasma di Diana. Chi è appassionato di storie reali non deve perdersi il secondo volume dei diari di Kenneth Rose, «Who Loses, Who Wins» appena uscito a Londra e anticipato dal «Daily Mail». Rose, morto nel 2014, è stato uno dei più informati biografi della Royal Family: conosceva tutti e le cose che non poteva scrivere sui libri le annotava nei diari, che ora vengono pubblicati. Rose riceveva informazioni di prima mano da persone in stretto contatto con i reali. È stata Prudence Penn, ad esempio, lady in-waiting della Regina Madre, a raccontargli che alcuni domestici avevano segnalato strani avvenimenti in un' ala del palazzo di Sandringham, la residenza nella quale Elisabetta trascorre sempre le vacanze di Natale con la famiglia. Era stato chiamato un sacerdote che insieme alle tre donne (la Regina, sua madre, Lady Penn e nessun altro) avevano individuato l' origine dei flussi negativi intorno alla camera nella quale era morto nel 1952 Giorgio VI, padre di Elisabetta e marito della Regina Madre. Lady Penn ha raccontato a Rose che fu celebrata una breve funzione «per portare tranquillità», non un vero e proprio esorcismo. Il sacerdote impartì la Comunione e furono recitate particolari preghiere. Dopo la funzione, il prete disse alla Regina che avrebbe potuto trattarsi di Lady Diana, perché in base alla sua esperienza «a volte accadono cose del genere quando si muore di morte violenta». Molte pagine del diario di Rose sono dedicate a Diana e al suo rapporto con la Royal Family. I giudizi sulla Principessa del Galles sono spesso negativi. Il 6 febbraio 1983 Rose annota un commento di chi aveva conosciuto Diana come insegnante d' asilo: «Poco brillante, non ha risorse intellettuali necessarie a sposare il principe del Galles». Per questa ragione la principessa ricevette poi lezioni private da Eric Anderson, decano di Eton, che cercò di istruirla sulla lingua e la letteratura inglese. Rose rivela molti particolari anche sui giorni del matrimonio con Carlo nella basilica di St Paul. Agli Spencer erano stati assegnati 50 posti per gli invitati della famiglia. Quando suo padre le mostrò l' elenco, Diana cancellò tutte le persone che avevano snobbato l' invito ai matrimoni delle sorelle Jane e Sarah, avvenuti pochi mesi prima. «Questa ragazza farà strada», annota il biografo a margine. Rose conferma quanto Diana trovasse insopportabile e noiosa la vita a Balmoral: Marmaduke Hussey gli racconta il 9 ottobre 1981 che Carlo usciva ogni giorno alle 9 del mattino per andare a pesca e a caccia, e tornava alle 7 della sera. A un certo punto del diario parla anche Raine Spencer, seconda moglie del Conte Spencer, odiata da Diana e dalle sorelle. «Non mi sembrava che si amassero - dice Raine di Carlo e Diana -. Avevano camere da letto separate e sembrava che lei non volesse toccarlo. Quando lui le diceva "Dammi un bacio", lei non rispondeva"». Anche su Carlo i giudizi sono spesso negativi: immaturo, perso nei discorsi sulle foreste pluviali che il Conte Spencer non sopportava al punto da chiudersi con una scusa in camera da letto, e rifiutare di scendere per la cena. Ce n'è anche per Sarah Ferguson, all'epoca moglie del principe Andrea. Il 31 maggio 1996 la sorella della Regina, la principessa Margaret, dice: «Come sarebbe felice la famiglia di liberarsi delle due mogli, Diana e Fergie». E Martin Charteris, a lungo segretario di Elisabetta: «Se la Regina avesse dedicato alle caratteristiche delle spose dei suoi figli la stessa attenzione che ha dedicato ai suoi cani e ai suoi cavalli, ci saremmo risparmiati un sacco di guai». Diana è molto criticata per l'intervista concessa nel 1995 alla Bbc nella quale ha «deliberatamente e pubblicamente umiliato Carlo». Rose rivela che le riprese durarono 17 ore, perché la principessa voleva essere ogni volta sicura che le sue risposte «fossero al giusto grado di sincerità ingannevole». E infine l' epitaffio più perfido, ancora di Margaret: «Un memoriale per Diana davanti a Kensington Palace? Certo che non lo vogliamo. Dopo tutto, lei viveva nel retro della casa, non davanti».

Liti a corte, tabloid e l'ombra di Diana. Così Harry sogna la fuga con Meghan. Il principe insofferente verso William e Buckingham Palace. Tony Damascelli, Mercoledì 23/10/2019, su Il Giornale. Parenti serpenti a Buckingham Palace. Harry si allontana da William, Meghan non sopporta Kate e tutto il resto dei Windsor. Entrambi vogliono fuggire da Londra, è una Royalexit che sta sconvolgendo la famiglia reale più illustre al mondo. Un documentario della Bbc dal titolo «Harry&Meghan, il viaggio in Africa» ha confermato il malessere che accompagna la coppia nei confronti del mondo britannico, quello dei media e quello dei ricordi che, come una nuvola grigia, perseguitano il giovane principe e duca di Sussex. Alcuni fotogrammi ripropongono Harry in Angola nella stessa esperienza vissuta da sua madre, ventidue anni fa, in una terra sofferente, nel terrore di campi minati, stesse immagini, stesso giubbotto antiproiettile, madre e figlio, due figure in una, perché Harry non si è ancora liberato della tragica fine di Diana. Secondo il racconto di Tina Brown, biografa della principessa, la mattina di domenica 31 agosto, Charles e i due figli andarono dal castello di Balmoral alla chiesa Crathie Kirk, senza cambiare abitudini e protocollo, «le cose devono restare immutate» fu l'ordine dal palazzo di Buckhingham. Harry chiese al padre: «Ma è vero che mamma è morta?». La domanda trovò il silenzio di Carlo e degli altri parenti e presenti all'ufficio religioso, lo stesso silenzio che oggi divide i due fratelli, William principe ereditario e Harry che vuole andare altrove. Il peso della corona non sta soltanto nei tre chilogrammi e trecento di perle, diamanti, rubini, zaffiri e smeraldi che la stessa Elisabetta ormai non sopporta più come ribadito nella recente cerimonia di apertura del Parlamento inglese. Il peso sta nella storia, nella tradizione, nel rito di una casa reale che sembra essere l'unica al mondo per l'interesse che suscita ogni sua azione e ogni sua dichiarazione. Harry e Meghan vogliono scappare da questo teatro da Madame Tussauds ma hanno creato scompiglio tra i famigliari, disturbati dall'ingresso, a corte e in dinastia, dell'americana in un quadro che, ad alcuni, ricorda la storia di Wallis Simpson e di Edoardo VIII. Harry non ha nemmeno l'incubo di abdicare, è il sesto in linea di successione, preceduto dal padre, dal fratello e dai figli di quest'ultimo, George, Charlotte e Louis, può scegliere, dunque, varie uscite di scena. La coppia ha querelato un gruppo di giornalisti e di testate ma la battaglia dei tabloid continua e ora si aggiungono le perplessità sull'eventuale esilio in Africa: chi sta pagando il costo della sicurezza dei due? I sudditi britannici, certamente. Ma chi si occuperà di coprire le stesse spese nel caso in cui Harry e Meghan dovessero definitivamente lasciare l'Inghilterra? Hanno conti correnti maestosi ma saranno i sudafricani a versare un'eventuale tassa o ancora i cittadini del Regno Unito? Eppoi il Sudafrica non è tra le sedici nazioni di cui Elisabetta è capo di Stato ma fa comunque parte dei 53 Paesi del Commonwealth. Il problema sarebbe anche politico ma è, soprattutto, esistenziale per Harry che ripete oggi, nei confronti del fratello William, quello che sua madre ebbe a dire in un'intervista rilasciata a Tom Bradby nel 1995: «Non provo più alcuna spinta emotiva», sconvolgendo gli inquilini del palazzo reale. La fuga d'amore e di vita resterà un sogno, Harry e Meghan ritorneranno a Frogmore House, con i paparazzi davanti a casa. I sudditi della regina hanno altro cui badare, si dedicano al terzo capitolo della saga The Crown, l'ottava puntata è dedicata al dramma di Margaret. La storia continua. Con una protagonista su tutti. Come ha scritto una collega londinese, il principe Carlo ha fatto testamento: lascerà ogni avere a sua madre, la regina.

Meghan Markle criticata perché troppo "americana". Nonostante la pausa dai riflettori, Meghan Markle continua a far discutere e, questa volta, è uno scatto dall’atmosfera natalizia a far sussultare il popolo del web. Ludovica Marchese, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Da alcune settimane Meghan Markle si è presa una pausa dai riflettori ma, nonostante ciò, si continua a parlare di lei senza sosta. Infatti, l'ultima volta che è apparsa in pubblico è stato durante il Remebrance Day, quando si era sfidata a colpi di stile con la cognata Kate Middleton. Ora, però, la duchessa di Sussex è finita nuovamente nel mirino dei media a causa di un post condiviso sul profilo ufficiale dei Sussex. Il post in questione è un collage di immagini di alcune associazioni di beneficenza a cui la coppia reale è particolarmente legata. L'obiettivo? Spingere i sudditi a fare delle donazioni per aiutare i bisognosi in un periodo magico come quello natalizio. "È un periodo dell’anno importante per aiutare quelli che attorno a voi sono meno fortunati o chi potrebbe apprezzare anche il più piccolo atto di gentilezza", sono alcune delle parole che si leggono nel post. Poi, l’appello per fare del bene da parte di The lovely Meghan: "Per fortuna ci sono così tantissime organizzazioni in tutto il mondo che si impegnano a fare del bene a livello globale, molte delle quali non sono su Instagram. Queste alcune delle organizzazioni che abbiamo scelto, ma ci piacerebbe conoscere anche le vostre per ampliare il nostro network. Commentate qui sotto con la bandiera del vostro paese". Nonostante il messaggio sociale del post, l’attenzione degli utenti di Instagram è stata catturata da una parola in particolare: si tratta dell'americanissimo "Holidays", ovvero "Vacanze", usato al posto del più britannico "Christmas", cioè "Natale". In molti ne hanno approfittato per scagliarsi contro la moglie di Harry, definendola "Troppo americana". Altri, poi, hanno preferito farle notare l’eclatante errore commesso: "Natale, Natale, Natale! Ripeti dopo di me: Felice Na-ta-le!", "È Natale, per favore, non la stagione delle vacanze, quello è in America. Noi siamo un paese cristiano e voi siete stati entrambi battezzati", "In Europa diciamo Natale, non vacanze". Secondo altri, invece, molti l'errore commesso nella didascalia sarebbe una prova evidente del fatto che a gestirlo sarebbe la stessa Meghan Markle. Infatti, prima che la duchessa si sposasse con il principe Harry, era molto attiva sui social media e gestiva persino il suo blog, The Tig. Tuttavia, una volta entrata ufficialmente nella famiglia reale, ha dovuto cancellare tutti i suoi account personali. Questo americanismo, però, potrebbe essere la prova che stia ancora usando Instagram – seppur da dietro le quinte. Infatti, anche alcuni mesi fa, altri americanismi come "pannolini" e "culle" e un’ortografia tipicamente americana sono stati individuati nelle didascalie dell’account ufficiale Sussex Royal. Nonostante l’assunzione di David Watkins come responsabile delle comunicazioni nel mese di agosto, sembrerebbe quindi che ci sia anche lo zampino di Meghan Markle.

"Si faceva chiamare The lovely Meghan". Spunta in rete il nomignolo della Duchessa di Sussex. In rete spunta il nomignolo della duchessa di Sussex quando, ancor prima di conoscere il Principe Harry, si dedicava ad attività benefiche. Carlo Lanna, Domenica 08/12/2019 su Il Giornale. Sono tanti, forse anche troppi, gli aneddoti su Meghan Markle prima che diventasse duchessa di Sussex e moglie del Principe Harry. Ma tutti sappiamo che ancora prima di entrare fra le schiere della famiglia inglese, Meghan era un’attrice molto quotata, una blogger, un’influencer e, soprattutto, una benefattrice. A farlo sapere è un’associazione canadese che lotta per i diritti dei più deboli e che, proprio di recente, ha avuto il supporto dalla coppia dei duchi di Sussex. Tramite l’account Twitter del St. Felix Centre di Toronto, è stato pubblicato di recente un post in cui si sottolinea l’importanza di conservare i ricordi di tutte quelle persone che, in passato, hanno condiviso la mission dell’associazione. Tra questi ricordi spunta anche quello di Meghan Markle che, ai tempi in cui era una delle protagoniste di Suits, dedicava molto tempo alla salvaguardia dei bisognosi. Si faceva chiamare "The Lovely Meghan". E a farlo sapere sono proprio i vertici del St. Felix Centre, che con grande emozione, ricordato tutto il bene e l’ottimo lavoro che la duchessa aveva svolto per l’associazione. Un ricordo e un affetto che la stessa Meghan pare non aver dimenticato. Anche se la duchessa molto spesso viene criticata per le sue abitudini che si scontrano con il rigore di Corte, resta comunque una donna che ha preso alla lettera il suo impatto e il ruolo che riveste. E proprio in vista delle festività del Natale, rivolgendo un pensiero a chi è meno fortunato di lei, la duchessa sui social, rivolge l’attenzione e il supporto a diverse associazioni benefiche, operanti nel curare e salvaguardare chi è in una situazione di indigenza economica o chi è senza una casa. Tra i profili menzionati spunta anche quello del Canada, dove lei stessa, per un lungo periodo di tempo, ha collaborato come attivista. Ecco il motivo del post su Twitter del St. Felix Centre, che ha espresso la felicità in merito al supporto a distanza di Meghan Markle, anche se ora è un membro della famiglia inglese. Questo fa capire ancora di più che la duchessa non dimentica le sue origini e, ancora oggi, resta molto legata alla vita che aveva in America prima di vivere a Londra. Per fortuna, anche il Principe Harry condivide gli stessi interessi della moglie, un amore per la beneficenza che sua mamma Lady D. gli ha lasciato in eredità. Chiacchiere da social in un momento in cui i duchi sono in pausa da impegni ufficiali.

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. Settanta deputate britanniche, di ogni colore politico, si sono schierate a favore di Meghan Markle e contro i media del Regno Unito. Perché, secondo le tante parlamentari della Camera dei Comuni, la duchessa del Sussex subisce continuamente ingiustizie e scorrettezze da parte di giornali e siti oltremanica, nei quali Meghan verrebbe dipinta con «frasi fuori moda e descrizioni di stampo coloniale». Insomma, secondo loro, ci sarebbe una forma di razzismo, sessismo e comunque di ipocrita bigotteria nei suoi confronti da parte dei giornalisti. «Vere e proprie sfumature xenofobe», rincara la firmataria parlamentare laburista Holly Lynch. «Questo non lo possiamo accettare », scrivono le deputate, «e ci fa piacere che Meghan si sia attivata contro questo disdicevole fenomeno ». Le 70 parlamentari si riferiscono alla "guerra" che Meghan e suo marito, il principe Harry, hanno di recente lanciato contro i media britannici, colpevoli, secondo i duchi del Sussex, di non rispettare la loro privacy. Una mossa per cui le deputate hanno dunque espresso sostegno pieno, dopo il recente, e clamoroso, documentario della rete televisiva britannica Itv, in cui la giovane coppia si è confessata al pubblico come mai aveva fatto prima. In quell'occasione, circa dieci giorni fa, Harry aveva ammesso che lui e suo fratello, il principe William, sarebbero oramai «su due sentieri diversi». «Sì, ci sono state delle incomprensioni tra noi, ma sono cose che succedono soprattutto in una famiglia sotto pressione come la nostra». Meghan era stata ancora più esplicita, manifestando un apparente e profondo disagio verso la sua condizione di "new entry" della Casa reale dei Windsor: «Io esisto, non vivo», aveva rivelato riferendosi alla sua vita costantemente sotto i riflettori. «No, non sto troppo bene. In pochi mi hanno chiesto come ci si senta nei panni di mamma e moglie» dopo la nascita di Archie. E quindi le deputate non ci stanno. Sono celebri e influenti parlamentari laburiste, come Diane Abbott, Jess Phillips e Yvette Cooper, conservatrici come Gillian Keegan, liberal-democratiche come Angela Smith e Wera Hobhouse. Martedì sera non ce l' hanno fatta più, come Meghan. Hanno preso carta intestata e hanno condiviso su Twitter la loro lettera aperta alla duchessa del Sussex. Meghan e suo marito Harry hanno lanciato di recente una serie di denunce contro i tabloid per presunte intrusioni nella vita privata, ingaggiando avvocati specializzati in questo tipo di cause. Meghan ha portato in tribunale il Daily Mail per una lettera personale del - disastrato - padre finita mesi fa sui tabloid. Invece Harry - che di recente ha dichiarato di associare ogni clic di una fotocamera all' immagine di sua madre - ha denunciato Murdoch, il suo Sun e il Daily Mirror per lo scandalo intercettazioni di qualche anno fa. Anche la recente nascita del piccolo Archie è stata a lungo tenuta segreta proprio per tenere lontano i media e il mondo esterno. Non a caso, Meghan e Harry mesi fa si sono trasferiti nella tenuta, più riservata, di Frogmore Cottage, che però ha scatenato polemiche sui giornali per gli alti costi della sua ristrutturazione addebitati ai contribuenti, i quali in cambio si aspetterebbero meno riservatezza dagli amati duchi. Alla fine, ieri, Meghan ha preso il telefono, ha chiamato la deputata Holly Lynch e le ha detto: «Grazie».

 Da huffingtonpost.it il 6 novembre 2019. Proprio come nelle favole, anche lady D è stata vittima di una matrigna cattiva. Una matrigna talmente perfida che spinse Diana sull’orlo dell’esasperazione e la portò a commettere un gesto estremo: buttarla giù dalle scale. A raccontarlo è un documentario intitolato “Princess Diana’s ‘Wicked’ Stepmother” che rivela un volto inedito della vita della principessa. Si chiamava Raine MrCorquodale. Si sposò la prima volta a 19 anni, come lady D, e poi altre due volte. “Nessuno diventa contessa tre volte per caso”, dice di lei l’amico Julian Fellowes nel documentario. Capelli cotonati, gioielli sempre in vista, era soprannominata “batuffolo di filo spinato”. Aveva sposato John, terzo Conte Spencer, il padre adorato da Lady D, nonché la sua unica figura genitoriale dato che mamma Frances era scappata con l’amante quando lei aveva 7 anni. Quando entrò a far parte della residenza di famiglia di Althorp, Raine non era vista di buon occhio da nessuno: Diana e il fratellino le cantavano una filastrocca modificata con il suo nome "Raine Raine go way", "Raine raine vai via", e le davano dei nomignoli poco simpatici come “Acid Raine”. Crescendo, l’odio non fece altro che alimentarsi: stando a quanto riportato dal documentario, a 28 anni Diana la spinse dalle scale. Accadde nel 1989: era il matrimonio del fratellino di Lady D, Carlo. C’era anche Frances, ma Raine si sentiva la padrona di casa, al centro dell’attenzione. In quell’occasione trattò così male la madre naturale, che la principessa decise di darle una bella spinta. Un gesto di certo poco signorile, così come quello di Raine, che mise in vendita la proprietà di famiglia, senza consultare i figli del marito, soltanto perché non l’amava. Lady D ebbe modo di vendicarsi anche al matrimonio con Carlo: di Raine nelle foto ufficiali non c’è traccia e, durante la cerimonia, fu relegata in un angolo della basilica. Le due si avvicinarono soltanto dopo il divorzio di Diana, quando ormai il padre era morto: qualcosa cominciò ad unirle, forse un vissuto comune. Iniziarono a prendere il tè insieme, a frequentarsi. La loro amicizia durò fino alla morte di Diana: Raine rimase poi in vita altri nove anni.

 La regina Elisabetta II pronta a lasciare il trono? La regina Elisabetta II non avrebbe alcuna intenzione di abdicare al suo trono d'Inghilterra. Le notizie susseguitesi negli ultimi giorni sui tabloid inglesi e sui media di tutto il mondo sono mere fake news. Monica Montanaro, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Immaginare un contesto geopolitico, europeo o mondiale che sia, senza la presenza della regnante per antonomasia, la regina Elisabetta II, fa percepire uno scoramento interiore. Eppure, nonostante la regina d'Inghilterra regni da oltre 67 anni - il trono più longevo della storia britannica - , la sua età è un fattore incontrovertibile di cui tenere conto. Il popolo inglese e il mondo intero si è affezionato all'immagine della regina eterna, dalla tempra d'acciaio. Elisabetta II ha attraversato guerre, fasi storiche importanti, incontrato i leader politici di alto calibro mondiale e presieduto a vertici internazionali di alto rilievo. La regina rappresenta la storia e incarna l'immagine della saggezza, della flemmaticità, virtù peculiare dello stile inglese e delle tenacia. A 93 anni compiuti. la regina inossidabile continua a governare senza dare segni visibili di cedimento. E i suoi successori, membri della famiglia reale scalpitano in attesa di poter subentrare al suo ruolo ambito e risidiere sul trono d'Inghilterra. Nelle ultime settimane i media mondiali, ma soprattutto i tabloid inglesi, in testa il Sun, hanno riportato la notizia concernente l'abdicazione dal trono della regina Elisabetta II. In sostanza la notizia riferiva che la regina entro 18 mesi, specificamente nel 2021, compiuti i 95 anni, avrebbe lasciato vacante il suo trono per fare posto al suo successore legittimo. Nulla di più mendace e fallace. Una plateale fake news, come direbbero gli anglosassoni. A dire il vero la fonte da cui è scaturita la news approssimativa è il tabloid scandalistico il Sun, che come è noto non ha una credibilità ineccepibile, e la attendibilità delle notizie che pubblica sono alquanto discutibili. Lo stesso dicasi per il Mail, tabloid che viaggia sullo stesso binario sdrucciolevole. Nel caso si prospettasse all'orizzonte l'eventualità reale che Elisabetta dovesse abdicare, tutti i telegiornali del globo e i più accreditati media pubblicherebbero titoloni con tanto di notizia stampata in prima pagina. Ma nulla di tutto questo è avvenuto. Pertanto, non vi è tuttora alcuna fonte certa e seria che informi che la regina d'Inghilterra stia per abdicare a favore, presumibilmente, del figlio Carlo d'Inghilterra, il primo in linea di successione a cui spetterebbe la reggenza al trono.

Le reali motivazioni dietro la prosecuzione del trono di Elisabetta II. Ma perché la regina Elisabetta non rinuncia ancora a governare sul territorio e sul popolo della Gran Bretagna? Le ragioni che si celano dietro la volontà di proseguire il suo mandato reale e, dunque, di non abdicare, rimandano sia a motivazioni di natura storica che alle vicende contemporanee interne alla famiglia reale. Veniamo alle ragioni legate alla storia. Elisabetta II nel 1957 salì al trono inglese pronunciando il giuramento solenne di rimanere fedele alla corona sino al termine della sua vita. Una prima motivazione che da sola basterebbe a fugare ogni dubbio sulla eventualità prossima che la sovrana abdichi dal suo regno. In secondo luogo gode di ottima salute, malgrado la sua veneranda età, la sua condizione fisica non desta serie preoccupazioni, del resto è monitorata costantemente da un équipe medica personale. La voce maligna che vuole Elisabetta debilitata che delega molti dei compiti ufficiali a suoi cari, in primis al principe Carlo, o ai principi suoi nipoti e alle rispettive mogli, non è fatto inconsueto ma rientra nella prassi dei reali. L'intera famiglia reale vive sulle spalle dei sudditi inglesi che con i loro tributi versati provvedono al loro stile di vita lussurioso e altolocato. I reali devono perciò dare all'esterno una parvenza di abnegazione nella conduzione della cosa pubblica, rispetto ai bisogni dei sudditi e alla causa della patria. E poi, con tutta evidenza, la regina Elisabetta è oberata di impegni ufficiali, dedita al suo ruolo di sovrana e alle sue funzioni, alle quali ottempera con nonchalance svolgendole nella loro ordinarietà. La regina si è occupata fattivamente degli addobbi natalizi all'interno del palazzo reale e presenzia ad ogni appuntamento di rilevanza governativa. Senza contare che a breve riceverà il leader più importante sul piano internazionale, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale andrà in visita ufficiale presso Buckingham Palace. Passando alle spinose vicende interne al Palazzo dei reali inglesi. È di dominio pubblico, sopratutto ai lettori attenti agli scoop concernenti la famiglia reale, lo scandalo che ha investito il principe Andrew e che ha portato subbuglio all'interno della dimora reale. L'inossidabile Elisabetta, dotata di una tempra eccezionale e di una morale rigorosa, ha voltato le spalle allo stesso principe suo figlio. La sua reazione, per quanto trapelato dai media, è stata dura e inflessibile. La famiglia reale vive continuamente in stato di allerta pur di non far trasparire nulla dinanzi agli occhi del mondo che comprometta la solidità e la stabilità della monarchia. E come è facilmente deducibile, questo scandalo scottante, commesso dal principe Andrew, ha gettato fango sui reali d'Inghilterra. Per tale ragione la sovrana è adirata nei confronti di suo figlio. Malgrado l'attacco mediatico, la famiglia reale è ancora amata dal suo popolo, come riportano alcuni sondaggi, pur con qualche dato in flessione negativa. In questo momento così delicato e sfavorevole per la monarchia inglese, in cui il potere sovrano è stato reso più vulnerabile, ipotizzare che la regina abdichi entro il 2021, allo scadere dei sui 95 anni, come preconizzato dal Sun, è un fattore da scartare a priori. Pertanto, non essendoci notizie veritiere confermate da fonti autorevoli e ufficiali, non è da prendere in considerazione qualsivoglia voce di gossip circolante sul conto di una probabile abdicazione al trono della regina Elisabetta II. D'altronde la sovrana continua ancora a essere molto ammirata dal sudditi inglesi: nell'ultimo sondaggio rilevato ella compare al primo posto per gradimento da parte della gente comune, seguita a stretto giro dal nipote Harry, mentre soltanto al terzo posto si colloca William, apprezzato in misura minore rispetto al fratello. Del resto, buon sangue non mente. Harry è il figlio che più assomiglia alla personalità sensibile della principessa Diana, la beniamina del popolo inglese, appellata quando era in vita, appunto, "la principessa del popolo". Lo stesso discorso è valevole per la presunta quarta gravidanza di Kate Middleton. Se la notizia non proviene da una fonte ufficiale è molto probabile che sia una fake news o qualcosa di similare. Pertanto, alla luce di queste semplici osservazioni, è alquanto inverosimile e improbabile che la regina Elisabetta II abdichi dal duo trono. L'unico motivo di rinuncia alla sua longeva reggenza, avverrebbe nel caso del suo decesso. Soltanto allora si potrebbe considerare conclusa la parabola mirabile di Elisabetta II e la corona passerebbe nella mani del figlio, il principe Carlo. Ma guardando alla storia, sua sorella Elisabetta I sedette sul trono d'Inghilterra sino all'età di 102 anni, ci vorranno ancora anni prima che il trono di Elisabetta II si dissolva definitivamente.

Regina Elisabetta, storica svolta: così si inginocchia a Greta Thunberg e Carola Rackete. Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Regina Elisabetta, una svolta storica che strizza l'occhio alle ecologiste Greta Thunberg e Carola Rackete. Basta pellicce, d'ora in poi la sovrana britannica indosserà solo modelli sintetici ed ecologici. Dunque una conversione ambientalista della regina Elisabetta II che, a 93 anni, ha deciso di mettere in naftalina tutti i capi fatti scuoiando animali. La notizia è oggi sulle prime pagine di molti giornali britannici, frutto di una delle rivelazioni ricavate da un nuovo libro in uscita firmato da Angela Kelly, secondo la quale l'ordine di lasciare nel guardaroba reale solo eco-pellicce risale ad alcuni mesi fa. Saranno contente le gretine... 

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 6 novembre 2019. Anche domenica 17 novembre il conte e la contessa di Wessex andranno al castello di Windsor, come fanno spesso, per pranzare con la Regina. Elisabetta ha un ottimo rapporto con l' ultimogenito Edoardo e la moglie Sofia: sono stati loro a consigliarle di vedere The Crown. Le prime due stagioni le sono piaciute, dice la nipote Beatrice, figlia di Andrea. Solo l' episodio in cui Filippo ha un feroce alterco con Carlo in aereo, al ritorno dalla scuola di Gordonstoun, l' avrebbe fortemente irritata. Quello scontro tra padre e figlio non avvenne mai. Filippo non commenta. Una volta, quando un vicino di tavola gli ha chiesto se vedeva The Crown, ha risposto: «Ma non sia ridicolo». Nella nuova serie, che copre gli anni dal 1964 al 1977, non mancheranno episodi controversi. I giornali inglesi anticipano che avremo tutti molta simpatia per Carlo e ci sentiremo dispiaciuti per lui. Sarà insignito da sua madre del titolo di Principe del Galles nel castello di Caernarfon, conoscerà Camilla e, solo all' ultima puntata, incontrerà anche Diana. Il biografo reale Christopher Wilson ha già criticato l' autore della serie, Peter Morgan, perché si è immaginato un complotto tra la Regina Madre e Lord Louis Mountbatten, entrambi interessati a porre termine alla storia tra Carlo e Camilla. Se ne discuterà molto. Forse un complotto vero e proprio non ci fu, ma è certo che Mountbatten voleva che Carlo sposasse sua nipote Amanda Knatchbull e la Regina Madre voleva invece che prendesse in moglie una delle sorelle Spencer, nipoti della sua più cara amica, la baronessa Fermoy. Per allontanarlo da Camilla, Mountbatten mandò Carlo in una lunga missione navale nei Caraibi; lei, lasciata sola, sposò Andrew Parker Bowles; Carlo si propose poi ad Amanda che rifiutò; il principe cominciò una relazione con Sarah Spencer, cui la sorella Diana lo rubò. Vedremo Carlo ai Caraibi piangere nella cabina dell' incrociatore davanti alle foto di Camilla, come in effetti avvenne. Ce ne sarà anche per la principessa Margaret e la spensierata vita con Antony Armstrong Jones, fino ai tradimenti e alla separazione. Dicono anche che si parlerà di una infedeltà del marito della Regina, una buona ragione per Filippo per continuare a non guardare The Crown, ma chissà che ne dirà Elisabetta. Per lei, quelli fra il 1964 e il 1977 sono stati anni molto impegnativi, quasi tutti caratterizzati dalla presenza a Downing Street di Harold Wilson, il premier laburista che aveva molto in simpatia, uno dei pochi premier a essere invitato a fermarsi per il tè dopo gli incontri del martedì. Furono anche gli anni dello sbarco sulla Luna, della chiusura delle miniere nel Galles e del disastro di Aberfan, in cui la frana di una montagna di detriti causò la morte di 116 bambini e 28 adulti in una scuola: fu l' unica volta in cui si è vista Elisabetta piangere in pubblico. Il Guardian ha calcolato che la produzione di The Crown costa annualmente più dell' appannaggio che la Regina riceve dallo Stato. Una fiction più costosa della realtà deve pur valere qualcosa, ma molti dubitano che a Elisabetta le prime due serie siano piaciute davvero, come sostiene Beatrice di York. C' è un indizio che ci aiuta a capirlo: Helen Mirren, che interpretò The Queen, è stata nominata Dama e regolarmente invitata a Palazzo. Claire Foy è ancora lì che aspetta.

Gianmaria Tammaro per “la Stampa” il 6 novembre 2019. In The Crown ogni cosa è curata nei minimi dettagli. Le acconciature, i vestiti, le facciate dei palazzi, i drappeggi e i quadri. La scrittura di Peter Morgan, già sceneggiatore di The Queen, non lascia niente al caso, e sta attenta nel dare il giusto spazio non solo agli attori, ma pure a quello che li circonda, alla campagna inglese, a Londra, ai cieli grigi del Regno Unito. Con la terza stagione, disponibile su Netflix dal 17 novembre, si cambia. La Regina Elisabetta ha un nuovo volto, e al posto di Claire Foy, bravissima nelle prime puntate, c' è Olivia Colman, premio Oscar per The Favourite. I primi minuti del primo episodio giocano sulle differenze, sul fatto che la Regina non sia più la stessa («sono invecchiata», dice lei, in un soffio); e prima che la Colman ci venga mostrata, pronta per essere scattata, mento alto e fiero, occhi ben aperti, la telecamera indugia, ci porta in giro e ci fa vedere altro. Poi finalmente ci siamo, e la vediamo: è lei e non è lei. Non basta una sola inquadratura per riconoscere la nuova Elisabetta. Ci vuole un po': serve sentirla parlare e calcare consonanti e vocali; serve vederla circondata dalla famiglia reale e dai suoi consiglieri, per scorgere un primissimo, potente sprazzo di regalità. The Crown è una delle produzioni più importanti per Netflix e anche una delle più costose. Per ogni stagione, ci sono voluti circa 50 milioni di sterline: sei volte, ha scritto il Guardian, il budget medio di una serie della BBC. Per la piattaforma streaming, The Crown è la sintesi perfetta tra autorialità, quindi un' idea precisa di scrittura e di regia, una messa in scena solenne e chirurgica, e commercialità. Perché The Crown piace, viene vista e se ne parla; e soprattutto vince premi e riconoscimenti. Insieme a Olivia Colman, nel cast della terza stagione ci sono anche Tobias Menzies, che interpreta il principe Filippo, Helena Bonham Carter, che interpreta la principessa Margaret, e Jason Watkins, che interpreta il primo ministro Wilson. Ma c' è spazio anche per il principe Carlo, interpretato da Josh O' Connor, e per la sua storia d' amore con Camilla, interpretata da Emerald Fennell. La trama si concentra su un periodo particolare: dal 1964 al 1977. Vanno in scena alcuni dei momenti più importanti per la Corona inglese e il Regno Unito. E in molti, ha detto la Colman, «abbiamo dovuto prenderci un po' di libertà, perché non potevamo sapere come, effettivamente, la famiglia reale li avesse affrontati». C'è intimità, c'è il dramma; c' è la paura di Elisabetta di apparire troppo umana - come, poi, risuccederà con la morte di Diana - e, allo stesso tempo, di apparire troppo fredda. C' è Filippo che non riesce a trovare il giusto equilibrio, e che si sente schiacciato dal ruolo della moglie. C' è Carlo che vuole essere più libero, più sincero, di quanto sia mai stata sua madre. E poi c' è Margaret, c' è il suo matrimonio, e c' è la sua esuberanza, e la rivalità con la sorella. La Colman ha il difficilissimo compito di creare un personaggio partendo da una persona reale, e di darle una credibilità e una forza di cui si sa poco, se non quello che viene detto e rivelato al pubblico. Da quella prima scena nella prima puntata, la Colman riesce velocemente a trovare la sua dimensione. Si trasforma sotto gli occhi dello spettatore. E nel giro di pochi episodi, viene quasi il dubbio che un' altra attrice, prima di lei, abbia interpretato lo stesso ruolo. Non sfigura davanti all' incredibile prova di Claire Foy nelle prime due stagioni. Anzi, riesce ad aggiungere qualcosa, a mostrare una Regina madre, donna, e cittadina del suo paese. Ora Elisabetta è cresciuta, sono passati venticinque anni dalla sua incoronazione, e deve preparare i suoi figli a quello che li aspetta. Loro sono la Corona, il potere che permette al Regno Unito di sopravvivere e, occasionalmente, di prosperare. Sono il porto sicuro nella tempesta, e sono il faro nella notte: non possono sbagliare; non possono dare scandalo; non sono delle celebrità che danno delle feste. The Crown è uno dei veri, grandi capolavori del piccolo schermo contemporaneo: una serie che ha trovato la sua voce, e che riesce a migliorarsi e a superarsi ogni volta; e con questa stagione, fa anche qualcosa di più: mostra, più e meglio di prima, l' atmosfera familiare che si respira nel salotto di Buckingham Palace, la fragilità dei regnanti, e le sfide interiori che deve affrontare Elisabetta II.

La foto della regina Elisabetta che nessuno doveva vedere. Alcuni anni fa la regina Elisabetta si fece fare una foto che infrangeva le severe regole del protocollo e quello scatto è rimasto segreto finché la stylist Angela Kelly non ha ottenuto il permesso regale di pubblicarlo nel suo ultimo libro. Francesca Rossi, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. Il nuovo libro di Angela Kelly sta dando parecchio lavoro ai giornali internazionali. La stylist e confidente della regina Elisabetta è riuscita dove molti altri hanno fallito: la sovrana le ha concesso il permesso di raccontare la sua quotidianità in un libro, seguendo il fil rouge (ma sarebbe meglio dire color pastello) dei suoi abiti e del suo stile inconfondibile. Nessun membro dello staff di Buckingham Palace aveva mai potuto violare la “cortina regale” in questo modo. Tutti quelli che lavorano a Palazzo devono firmare un contratto di riservatezza e rispettarlo con rigore, pena il licenziamento. La regola, però, non vale più per Angela Kelly, che in oltre di vent’anni di lavoro accanto alla regina Elisabetta si è conquistata i ruoli di amica e consigliera. Nel suo nuovo libro “The Other Side of the Coin. The Queen, the Dresser and the Wardrobe” la Kelly ha svelato molti aneddoti interessanti sul carattere della regina Elisabetta. L’ultimo riportato dal magazine Amica riguarda una foto censurata di Sua Maestà. Questa fotografia si trova nel libro della stylist, ma è stata pubblicata in esclusiva anche dal magazine Hello e, successivamente, sul profilo Instagram del fotografo che la scattò, Barry Jeffery. In questa immagine possiamo vedere per la prima volta la regina Elisabetta con le mani in tasca. Una posa inedita, diversa da quelle a cui siamo abituati, che rappresenta una vera e propria infrazione al protocollo di corte. Può sembrare un fatto bizzarro ma alla sovrana, come al resto della royal family, sarebbe vietato farsi fotografare in questo modo. In realtà la questione non è tanto strana se pensiamo che, per esempio, i Windsor non possono nemmeno sedersi accavallando le gambe (o le tengono parallele, oppure incrociano le caviglie). Questo è il protocollo. Alcuni atteggiamenti non sono reputati appropriati per un esponente del casato regnante. Tuttavia fu proprio la regina Elisabetta a farsi fotografare con le mani in tasca. Angela Kelly racconta che Sua Maestà desiderava da tanto farsi ritrarre in una posa anticonvenzionale. Forse, per una volta, voleva dimenticarsi le regole che hanno modellato tutta la sua vita. Il fotografo Barry Jeffery, che era stato chiamato a Palazzo per eseguire delle foto ufficiali, provò a chiedere se la regina Elisabetta volesse ancora realizzare quel piccolo sogno. La risposta fu affermativa. Angela Kelly rivela: “Sua Maestà si è messa di fronte alla macchina fotografica e si è messa in posa. Ha cominciato a mettersi le mani in tasca o sui fianchi, come una modella professionista”. Lo scatto non è datato e la stylist non sa spiegare il motivo per cui sia rimasto inedito per così tanto tempo. È possibile che sia stato giudicato inadeguato e incoerente con la formalità della monarchia britannica. La regina Elisabetta, però, si è presa la sua piccola “rivincita”, concedendo finalmente ad Angela Kelly di rendere pubblico quel raro istante in cui il suo animo spensierato era libero dal peso della corona e del mantello d’ermellino.

 Roberta Mercuri per vanityfair.it il 15 novembre 2019. Elisabetta II ha tradito davvero il principe Filippo? A lanciare il sospetto è il quinto episodio della terza stagione di The Crown 3, disponibile su su Netflix da domenica 17 novembre. Nella puntata incriminata si lascia infatti intendere che la regina abbia avuto una relazione con segreta con l’amministratore delle sue scuderie: Lord Porchester, o «Porchie» come lo chiamava affettuosamente lei. Henry Herbert alias Porchie, settimo conte di Carnarvon, era stato un amico d’infanzia di Elisabetta. I due condividevano la stessa passione per i cavalli e Lord Porchester era spesso accanto alla sovrana nelle scuderie o alle corse (vedi gallery in alto). Elisabetta II è stata anche la madrina dei figli dell’aristocratico e gli è rimasta vicina fino alla sua morte, avvenuta nel 2001. Ma niente ha mai fatto supporre che i due fossero più che buoni amici. The Crown racconta un’altra storia. Nella quinta puntata la regina, interpretata da Olivia Colman, si allontana per un mese dall’Inghilterra, assieme a Lord Porchester, per visitare allevamenti di cavalli da corsa in Francia e negli Stati Uniti. I due girano per fattorie, condividono pranzi, si scambiano sandwich. «I giorni più belli della mia vita», gli dice a un certo punto Elisabetta. Al rientro a Buckingham Palace, il principe Filippo si mostra geloso e fa insinuazioni circa l’intimità della moglie con “Porchie”: «Ora che lo hai nominato direttore sportivo lo vedremo spesso da queste parti, buon per te…». «Se hai qualcosa da dire, dilla, altrimenti sono occupata», risponde perentoria la sovrana. Lasciando gli spettatori con il sospetto: è stata davvero infedele al marito? La puntata incriminata, nel regno Unito, è diventata un caso. A cui il Times ha dedicato una pagina intera raccogliendo lo sdegno di Dickie Arbiter, ex addetto stampa di Sua Maestà: «Si tratta di scene ridicole, disgustose e totalmente infondate. La regina è l’ultima persona al mondo che avrebbe guardato un uomo che non fosse suo marito, figuriamoci averci una tresca. Questo pettegolezzo, tra l’altro, va avanti da decenni senza alcuna prova e il Conte nel frattempo è deceduto e non può nemmeno difendersi». Anche un figlio di Lord Porchester è intervenuto sulla piega presa dallo storia così come è raccontata nella serie. Negando che tra suo padre e la monarca vi sia mai stato del tenero, e insistendo sul comune amore per i cavalli. A tentare di placare gli animi ci ha pensato lo sceneggiatore Peter Morgan, che pur ribadendo «il fondo di verità» della sua narrazione ha precisato al New York Times: «Si tratta di pura fiction. Nessuno conosce le conversazioni tra i membri della famiglia reale, eppure le immaginiamo e le mettiamo in scena, sensazionalizzando a volte le vicende per l’audience, com’è normale che sia. Il nostro non è un documentario, ma una serie televisiva». Da Palazzo, come sempre, tutto tace. Ma secondo una fonte dell’Express Elisabetta II sarebbe furiosa: «La Regina si rende conto che molti spettatori credono che la fiction sia un ritratto accurato della famiglia reale. La cosa non le aggrada, ma non può far nulla per bloccare la serie».

Dai Beatles a Downton Abbey. Londra ci appartiene ancora. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo, inviato a Londra e Luigi Ippolito, corrispondente da Londra. Sul piano giuridico e politico, s’intende. Un Paese che dà o rifiuta visti, passaporti, permessi di soggiorno. Ma un Paese da cui non potremo e non vorremo mai prescindere per la cultura, quella astratta e quella materiale. La Gran Bretagna è il software dell’Occidente, e pure dell’Oriente. È la terra dove si compongono le musiche, si inventano i mondi, si creano i personaggi, si pensano le serie, nascono i talenti che cambiano il nostro modo di pensare e di sentire. È sempre stato e sempre sarà così, anche se i loro governanti ci tratteranno da estranei. La generazione degli Anni 60 ha avuto, com’è ovvio, la swinging London e la minigonna, i Beatles e i Rolling Stones, la regina che da tempo era già la stessa ed Elton John che non aveva ancora i capelli. Ma anche la Londra laburista — quando c’era Tony Blair — ha lasciato ricordi formidabili. Subito morì lady Diana. Il diabolico Alastair Campbell inventò per il premier la definizione «princess of the people», il suddetto Elton scrisse prontamente una canzone e la principessa tradita e traditrice divenne un mito. Come il Manchester United del laburista Alex Ferguson e di Beckham, che sposava la più bella delle Spice Girls. Le canzoni di Robbie Williams e i romanzi di Ian McEwan. Gli emiri arabi e gli oligarchi russi, Abramovic contro Berezovskj, spie e omicidi con il veleno. La morbidezza di Kate Winslet e la magrezza di Keira Knightley. Il ciuffo di Hugh Grant e il London Eye, che ispirava l’ennesimo capitolo della saga di James Bond. E la fiaba globale di Harry Potter, ultima invenzione di una letteratura fantastica che da secoli continua a «riempire il cielo inglese di miraggi». Tutti i miti letterari britannici in questi anni sono diventati film di successo internazionale: Narnia, Alice nel paese delle meraviglie, Jack the Ripper, Sherlock Holmes, Gulliver, Frankenstein, i romanzi delle sorelle Bronte e ovviamente Shakespeare (lo splendido Shakespeare in Love di John Madden vinse sette Oscar nel 1999, bellissimo anche Anonymous in cui il Bardo era in realtà il conte di Oxford); mentre prima l’americano Kevin Costner, poi il neozelandese Russell Crowe diventavano Robin Hood. Nel frattempo si portavano al cinema le regine, dalle due Elisabetta a Vittoria, e gli scienziati: Stephen Hawking de La teoria del tutto e Alan Turing, il genio che decifrò il codice dei nazisti ma fu perseguitato in quanto omosessuale. Damien Hirst metteva in formalina gli squali e lanciava la Tate Modern, Lewis Hamilton vinceva il Mondiale di Formula1 a 23 anni, Amy Winehouse pareva la voce di Dio, Alexander McQueen provocatore dell’alta moda inventava le scarpe armadillo indossate da Lady Gaga. Se tu non andavi a Londra, Londra veniva da te. Poi qualcosa si è rotto. La grande crisi del 2008 ha colpito duro la capitale della finanza europea. I laburisti hanno perso le elezioni del 2010 e non si sono più ripresi. L’Olimpiade 2012 fu un successo; ma la Brexit ha fatto perdere tre anni e mezzo sia al Regno Unito sia all’Europa. Amy Winehouse se l’è portata via la droga, McQueen si è suicidato, e James Bond ha assunto le fattezze rudi di Daniel Craig, che ai tempi di Sean Connery avrebbe fatto il cattivo della Spectre. Eppure la metropoli multietnica continua ad avere grande capacità di attrazione e di creazione di miti, neppure paragonabile a quella dei Paesi dell’Unione, comprese Francia e Germania. La serie di culto Downtown Abbey è approdata al cinema, Adele non sbaglia una canzone, Banksy è di qui, il Guardian ha il sito più visitato d’Europa, il Liverpool è tornato a vincere la Champions. Londra, anche se non ci vuole più, ci appartiene. E non si libererà mai di noi.

Elisabetta I d’Inghilterra traduttrice dal latino dello storico romano Tacito. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. La regina Elisabetta I d’Inghilterra (1533-1603), nota per aver imposto il dominio della Chiesa anglicana nel Paese e per aver costruito le basi della sua potenza marittima, pare avesse anche una passione per la storia antica, tanto da aver tradotto in inglese dal latino il grande autore romano Tacito, in particolare il primo libro del suo capolavoro , gli Annales, che ricostruiscono le vicende dell’Impero dopo la morte di Ottaviano Augusto, avvenuta nel 14 dopo Cristo. La scoperta si deve al professor John-Mark Philo, docente di Studi inglesi all’Università dell’East Anglia, che ha esaminato con attenzione un manoscritto del XVI secolo, conservato nella biblioteca del Lambeth Palace a Londra, attribuito finora a un segretario di corte. A suo avviso la grafia con cui è stato redatto il testo presenta le caratteristiche specifiche del modo in cui scriveva Elisabetta I in età avanzata. Va ricordato tra l’altro che Tacito, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo, è un autore nient’affatto facile da tradurre nelle lingue moderne, per la densità della sua prosa e l’uso di espressioni sintetiche ricche di significato. Tra le sue caratteristiche anche l’atteggiamento critico verso alcuni imperatori, specie Tiberio e Nerone, dipinti come crudeli tiranni. Elisabetta I, figlia del re Enrico VIII e della sua seconda moglie Anna Bolena, regnò dal 1558 al 1603 e guidò con successo l’Inghilterra nella lotta contro la Spagna, che all’epoca era la maggiore potenza europea per via delle sue ricche colonie americane.

Beatrice Manca per ilfattoquotidiano.it il 15 dicembre 2019. Per i regali di Natale, le persone si dividono in due categorie: chi si riduce all’ultimo secondo e chi organizza tutto con largo anticipo. E poi c’è la regina Elisabetta, che ha già comprato i 620 regali per la famiglia e per i collaboratori stretti, ha già spedito 750 cartoline d’auguri e ha mandato ai delegati del Commonwealth 1500 confezioni di pudding natalizio, il celebre dolce inglese. Tutto con l’efficienza e la parsimonia che la contraddistingue: per le centinaia di regali ha speso, secondo la stampa inglese, 30mila sterline, cioè 48 sterline a regalo, circa 56 euro. A fare i conti in tasca a sua Maestà ci ha pensato il Sun, che cita un membro anziano dello staff di palazzo. Due settimane prima di Natale, dice, tutte le persone che lavorano a palazzo – valletti, cameriere, stallieri, autisti – si recano nelle stanze della regina, si mettono ordinatamente in fila e ricevono un regalino incartato proprio dalle mani di sua maestà in persona. Lei si fa suggerire i nomi man mano e ringrazia personalmente il personale dicendo «Grazie per l’aiuto che ci hai dato durante l’anno» e ovviamente «Buon Natale». Chi è impegnato nelle altre residenze o non riesce a essere presente riceverà il pacchetto a casa con un biglietto. Poi, insieme al principe Filippo, Elisabetta spedisce 750 biglietti d’auguri ai rappresentanti del Commonwealth, a personalità inglesi di primo piano e ad altri capi di Stato: la cartolina include una foto di famiglia e le loro firme. Elisabetta una volta selezionava personalmente i regali: negozi ben selezionati, come Harrods e Fortnums, inviavano la merce a Buckingham Palace in modo che la sovrana potesse sceglierli comodamente seduta sul divano. Ma oggi, complice la stanchezza e i troppi impegni, preferisce affidarsi a due collaboratrici fidate che selezionano i regali online, esattamente come qualunque suddito troppo impegnato per fare shopping. I membri della famiglia reale si scambiano i doni nella residenza di Sandringham, dove passano il periodo delle festività: i pacchetti vengono aperti all’ora del tè e si fa a gara a chi trova l’idea più buffa. La leggenda narra che un anno il principe Harry abbia regalato alla nonna una cuffia da doccia con la frase ‘Ain’t life a bitch’ stampata sopra. Meglio di una corona.

Il discorso di Natale della Regina senza foto di Harry e Meghan. Ma baby Archie si prende la rivincita. Sulla scrivania mancano le fotografie dei duchi di Sussex che però si fanno vedere sui social con una cartolina di Natale irresistibile. La Repubblica il 24 Dicembre 2019. Dopo un anno "accidentato", considerati gli scandali che hanno scosso la Famiglia Reale e il percorso tormentato della Brexit, la regina Elisabetta II intende invitare i britannici, nel suo tradizionale discorso di Natale, a superare le divisioni. Alcuni passi del suo discorso sono stati anticipati dalla stampa britannica: "Piccoli passi nella fede e nella speranza possono superare le vecchie differenze e le profonde divisioni per portare armonia e comprensione. Certo, la strada non è sempre facile e a volte quest'anno è sembrata abbastanza accidentata, ma piccoli passi possono fare una grande differenza", dirà la monarca 93enne. Ma non solo. E' stata diffusa anche un'immagine della sovrana durante la registrazione del discorso e di nuovo i royal watcher non hanno perso occasione per analizzare le scelte di Elisabetta. Sulla scrivania sono disposte le fotografie incorniciate di alcuni componenti della famiglia reale a partire da Carlo e Camilla, in prima fila, in secondo piano la fotografia del principe Filippo, ancora ricoverato in ospedale a Londra, la cartolina di Natale di William e Kate e l'immagine del padre, Giorgio VI. Mancano i duchi di Sussex e, naturalmente, Andrea. Harry e Meghan, che i tabloid vogliono in Canada dove dovrebbero trascorrere sei settimane ed essere raggiunti da Doria Ragland (madre della duchessa), hanno pubblicato la loro cartolina di Natale e di felice anno nuovo attraverso l'account ufficiale del Queen's Commonwealth Trust, organo del quale sono rispettivamente presidente e vice presidente. Intanto continua la degenza in ospedale del principe Filippo, ricoverato venerdì scorso per misura precauzionale a causa di una "condizione pre-esistente". Come riferisce il Telegraph,il figlio Carlo, interpellato in merito durante una visita nel South Yorkshire flagellato dalle piogge, si è limitato a dire che il padre "è curato molto bene in ospedale. Al momento è tutto ciò che sappiamo". Per poi continuare, "va bene, quando arrivi a quest'età le cose non funzionano così bene". Le condizioni del consorte 98enne non hanno modificato i programmi natalizi della regina Elisabetta II che venerdì ha lasciato Buckingham Palace per Norfolk in treno: passerà le vacanze come di consueto a Sandringham dove Filippo passa la maggior parte del suo tempo da quando si è ritirato dalla vita pubblica.

Da "d.repubblica.it" il 24 dicembre 2019. Dopo un anno "accidentato", considerati gli scandali che hanno scosso la Famiglia Reale e il percorso tormentato della Brexit, la regina Elisabetta II intende invitare i britannici, nel suo tradizionale discorso di Natale, a superare le divisioni. Alcuni passi del suo discorso sono stati anticipati dalla stampa britannica: "Piccoli passi nella fede e nella speranza possono superare le vecchie differenze e le profonde divisioni per portare armonia e comprensione. Certo, la strada non è sempre facile e a volte quest'anno è sembrata abbastanza accidentata, ma piccoli passi possono fare una grande differenza", dirà la monarca 93enne. Ma non solo. E' stata diffusa anche un'immagine della sovrana durante la registrazione del discorso e di nuovo i royal watcher non hanno perso occasione per analizzare le scelte di Elisabetta. Sulla scrivania sono disposte le fotografie incorniciate di alcuni componenti della famiglia reale a partire da Carlo e Camilla, in prima fila, in secondo piano la fotografia del principe Filippo, appena dimesso dopo quattro notti in ospedale, la cartolina di Natale di William e Kate e l'immagine del padre, Giorgio VI. Mancano i duchi di Sussex e, naturalmente, Andrea. Harry e Meghan, che i tabloid vogliono in Canada dove dovrebbero trascorrere sei settimane ed essere raggiunti da Doria Ragland (madre della duchessa), hanno pubblicato la loro cartolina di Natale e di felice anno nuovo attraverso l'account ufficiale del Queen's Commonwealth Trust, organo del quale sono rispettivamente presidente e vice presidente. Intanto è stato appena dimesso il principe Filippo, ricoverato venerdì scorso per misura precauzionale a causa di una "condizione pre-esistente". Le condizioni del consorte 98enne non avevano modificato i programmi natalizi della regina Elisabetta II che venerdì ha lasciato Buckingham Palace per Norfolk in treno: passerà le vacanze come di consueto a Sandringham dove Filippo passa la maggior parte del suo tempo da quando si è ritirato dalla vita pubblica.

"Il titolo nobiliare è obsoleto". Tutti contro Meghan Markle e il Principe Harry. Ci sarebbe del malcontento tra i residenti del Sussex che sono contro il titolo nobiliare di Meghan Markle e ne chiedono l'abolizione. Carlo Lanna, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Si abbatte una nuova bufera sulla famiglia reale inglese, in particolare su Meghan Markle e il Principe Harry. Questa volta però le critiche pungenti non arrivano per il comportamento da diva di Meghan o per qualche assurdo litigio con Kate Middleton, a essere sotto accusa è il titolo nobiliare che la coppia ha ricevuto in regalo dalla Regina Elisabetta. La notizia è stata riportata dal Daily Mail e il magazine britannico afferma di una protesta messa in atto di un cittadino della contea di East Sussex che avrebbe avviato una petizione contro la Markle e il Principe Harry. Il motivo è decisamente atipico, ma il cittadino di Brighton, piccolo paese della contea di Sussex, pare essere contro il titolo nobiliare dei duchi per un motivo molto semplice. "Non è democratico ed è obsoleto". La petizione fino ad ora ha raccolto più di 4mila firme, e per la maggior parte, sono tutti residenti nella contea. "Questa petizione che è stata organizzata da Brighton e Hove Council è nata per negare a Meghan Markle e al Principe Harry il titolo di Duchi di Sussex. È ritenuto immorale e irrispettoso nei confronti dei residenti", si legge sul tabloid inglese. "Ne abbiamo discusso nel Consiglio cittadino e chiediamo di non fare più riferimento a tali individui con titoli che, secondo il nostro punto di vista, non sono per nulla democratici – e inoltre -. Brighton non offrirà a queste persone né ospitalità né cortesie rispetto a quelle riservate a un normale pubblico". Una faccenda che fa sorgere diversi interrogativi sulla questione, alcuni di questi anche immotivati. Sia Meghan che Harry, lo scorso mese di ottobre, hanno fatto visita alla contea, e sono stati accolti con sorrisi e maestranze dai cittadini. Anzi proprio la Markle si è fermata a parlare con i residenti, ascoltando storie e aneddoti sulla contea. A quanto pare però non tutti sono dello stesso avviso. C’è da dire che la petizione non ha ragione di esistere, dato che i duchi non potranno mai perdere il loro titolo. Infatti è stato un regalo della sovrana che ha elargito a Meghan ed Harry nel giorno del loro matrimonio, come è avvenuto anche per quello di Kate e William. Una situazione però che non è facile da sbrogliare. Se la petizione continua a raccogliere consensi, la comunità potrebbe ottenere una nota nei documenti ufficiali, ovvero che il titolo non venga più usato nelle zone limitrofe dell’East Sussex. Ci sono però dei detrattori. In molti parlano di ingiustizia, altri di pure e semplice congetture.

Harry e Meghan rompono il protocollo anche per gli auguri di Natale? Secondo rumors i duchi del Sussex potrebbero pubblicare un collage di loro foto natalizie in cui compare anche la madre di Meghan, Doria Ragland, che però non è una reale e per protocollo non può comparire in un ritratto ufficiale diffuso ai sudditi. Sandra Rondini, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. A quando gli auguri di Natale dei Duchi del Sussex ai sudditi di Sua Maestà? L’anno scorso il ritratto ufficiale di Harry e Meghan che posavano per gli auguri fu resa nota al pubblico il 14 dicembre. Quest’anno i giorni passano, i Duchi sono negli Usa e i sudditi si chiedono se i due verranno meno anche a questa tradizione reale. Secondo il Mirror i piani per la cartolina di auguri di Natale del Principe Harry e di sua moglie Meghan Markle "sono ancora in fase di definizione", mentre i sudditi attendono di vedere presto un nuovo ritratto di Archie in braccio ai suoi genitori mentre augura buone feste a tutti. Il Duca, 35 anni, e la Duchessa del Sussex, 38 anni, si stanno attualmente godendo la loro pausa di 6 settimane dagli impegni reali e "nessun insider di Corte - come scrive il Mirror - ha finora confermato se i due intendano o meno posare per la classica cartolina d’auguri, come faranno gli altri membri della Royal Family, come da tradizione. Però alcune voci più ottimiste ci dicono che lo faranno e che l’immagine sarà pubblicata online sull’account Sussex Royal questa settimana". Non resta che aspettare dunque che i due si decidano a compiere "almeno questo di dovere reale" dopo la splendida immagine dell’anno scorso in bianco e nero, quando, abbracciati e ritratti di spalle, si godevano lo spettacolo di fuochi artificiali organizzato durante il loro party di nozze. Un tweet sull'account di Kensington Palace all'epoca recitava: "Il Duca e la Duchessa del Sussex sono lieti di condividere una nuova fotografia dal loro ricevimento di nozze alla Frogmore House del 19 maggio scorso". Nei credits si leggeva che la fotografia, scelta come cartolina di Natale 2018 era stata scattata dal fotografo Chris Allerton, mentre un insider del Mirror sostiene che invece quest’anno i due potrebbero optare per "una selezione di fotografie di famiglia" scattate insieme al figlio Achie e alla madre di Meghan, Doria Ragland. Secondo E! News, infatti, "alcune fonti ritengono che Harry e Meghan vogliano assicurarsi che le loro immagini natalizie riflettano quanto Doria sia parte della loro vite e di quella di Archie. La presenza della Ragland che non è una reale, nelle cartoline d’auguri dei Duchi sarebbe l'ennesimo strappo al protocollo perché, ad esempio, i genitori di Kate, Michael e Carole Michael Middleton, non sono mai apparsi su nessuna cartolina di Natale dei Windsor, essendo dei common". Kate e William, da par loro, hanno sempre posato solo con i loro figli da quando si sono sposati e, anche se la loro cartolina d’auguri al momento non è stata resa nota, nessuno si attende sorprese dai Cambridge. Sono i Sussex a preoccupare la Regina che passerà il Natale con la Royal Family a Sandringham, senza Harry, Meghan e Archie, che lo trascorreranno in California. Quanto alla cartolina d’auguri con la presenza della common Doria Ragland si vedrà.

Meghan e Harry scelgono il Canada per Natale. Una meta "neutra" per non offendere la regina. Buckingham Palace ha confermato il soggiorno dei Sussex in Canada. Meghan e Harry si stanno regalando un Natale "normale", lontano dai Windsor e dagli impegni di corte. Marina Lanzone, Martedì 24/12/2019, su Il Giornale. Il primo Natale del principino Archie Harrison sarà lontano dai Windsor, dal protocollo e dall’Inghilterra, in compagnia di nonna Doria Ragland. Sorprendentemente la scelta dei Sussex non è caduta sugli Stati Uniti, ma bensì sul Canada, seconda patria di Meghan Markle. La terra canadese è molto cara a entrambi i duchi: il principe Harry l’ha visitata più volte in lungo e in largo, mentre Meghan ha vissuto nella città di Toronto per ben sette anni, quando da attrice era impegnata con le riprese della serie televisiva "Suits". Anche la sua migliore amica, la stilista Jessica Mulroney, vive lì con il marito e i figli. Il primo ministro Justin Trudeau, amico della coppia, venuto a conoscenza del loro arrivo, ha voluto dare il suo benvenuto: "Principe Harry, Meghan e Archie, vi auguriamo tutti un soggiorno tranquillo e benedetto in Canada. Siete tra amici e siete sempre i benvenuti qui". "Si divertono a condividere il calore del popolo canadese e la bellezza del paesaggio con il loro giovane figlio", riferisce una fonte a Page Six. Ma non è l’unico motivo per cui Meghan e Harry hanno optato per un Natale fuori porta. È stato per la coppia un anno molto difficile. Solo pochi mesi fa il Principe si è mostrato piuttosto fragile e ha anche parlato della distanza che intercorre in questo momento tra lui e il fratello maggiore William. Forse anche per questo i duchi di Sussex hanno deciso di prendersi una pausa di sei settimane da tutti gli impegni ufficiali e una parte di queste vacanze verrà senz’altro trascorsa in Canada, come confermato anche da Buckingham Palace. Non si conoscono nel dettaglio le tappe di questo viaggio. Secondo alcune indiscrezioni Meghan Markle avrebbe disattivato i tag e i commenti sul profilo Instagram per proteggere la privacy della sua famiglia e donare al piccolo Archie un Natale "normale". Inoltre i Sussex non hanno ancora diffuso la prima "cartolina" natalizia con il primogenito, tanto attesa dai fan della coppia. La scelta di un paese "neutro" avrà fatto contenta anche la Regina Elisabetta II, che non si sarà vista "preferire" ai parenti americani. L’agenzia Ansa ha riportato che esiste una nota di palazzo che riferisce come la decisione dei duchi di Sussex di passare il Natale lontano da casa sarebbe stata presa in comune accordo con Sua Maestà. Sicuramente non era stato previsto il ricovero improvviso del duca di Edimburgo, Filippo. Per il momento le sue condizioni di salute sembrano fortunatamente stazionarie e probabilmente nessuno sarà costretto a interrompere le vacanze natalizie prima del tempo.

Harry e Meghan hanno rischiato di morire per colpa di un drone. I Duchi del Sussex savano per atterrare a Londra a bordo di un jet privato quando un drone, a cui è vietato per legge volare nei pressi di un aereoporto, ha sfiorato il loro velivolo. Sandra Rondini, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Meghan Markle e il principe Harry, in volo da Nizza a Luton lo scorso 26 agosto, hanno rischiato di precipitare per colpa di un drone lanciato all’altezza del loro jet privato e che solo la prontezza di riflessi del pilota è riuscito ad evitare. A renderlo noto è una fonte del Mirror che ha raccontato di come i Duchi del Sussex fossero a 3mila metri di altezza mentre sorvolavano la Gran Bretagna in attesa di atterrare nella cittadina di Luton, vicino Londra, quando per loro fortuna hanno schivato un incidente che poteva rivelarsi fatale. Tutta colpa di un drone illegale che in quel momento viaggiava alla stessa altezza del jet “Bombardier” da 14 posti e dal costo di 46 milioni di sterline, di proprietà della società 'NetJets' e spesso noleggiato dai reali d’Inghilterra e diverse celebrities di tutto il mondo. Volando a quattro volte l'altezza consentita, il drone si era avvicinato troppo al jet privato su cui viaggiavano Meghan e Harry, "come mai accaduto prima a un aereo con a bordo i reali inglesi", ha scritto il Mirror. Il jet su cui volavano Harry e Meghan stava percorrendo la tratta Nizza-Luton e a mezzogiorno, a soli 14 miglia dall'aeroporto di atterraggio, per un soffio il drone non è andato a schiantarsi contro il loro velivolo. Come riporta il tabloid inglese, "il rapporto di bordo non ha rivelato l'identità di alcun passeggero, anche se è trapelata la news che i Duchi fossero a bordo" e un esperto di volo ha detto che se il dispositivo avesse distrutto il parabrezza della cabina di pilotaggio avrebbe potuto uccidere tutto l'equipaggio. "Il pilota del GL6000S – rivela la fonte- ha riferito che mentre erano quai in arrivo a Luton all'improvviso ha visto un drone che si muoveva da ovest a est a circa 4000 piedi. Il drone sembrava avere una sorta di sorgente luminosa nella parte anteriore. Le sue dimensioni erano difficili da stimare con esattezza, ma era all’incirca di 50 cm per 50 cm ed è passato a meno di 10 piedi dal jet, per fortuna”. Terry Tozer, ex pilota della British Airways, ha spiegato al Mirror: "Il danno avrebbe potuto essere davvero grave. Se un drone colpisce il parabrezza, potrebbe uccidere o inabilitare almeno uno dei membri dell'equipaggio di condotta e pregiudicare volo e atterraggio. O peggio, sarebbe potuto andare a finire in un motore con un risultato simile a un bird strike, quando stormi di uccelli finiscono contro il parabrezza o inghiottiti dai motori e questo purtroppo al 70% dei casi accade al di sotto dei 200 ft. di quota, in fase di partenza o atterraggio dell’aereo, il che rende l’evento e le sue possibili conseguenze ancor più pericolose. Questi tipi di incidenti sono un grande problema e una costante preoccupazioni per tutti i piloti”. Quanto ai Duchi del Sussex, "non si sono accorti di nulla e solo una volta atterrati il capitano di bordo ha raccontato al principe Harry il rischio corso", ha aggiunto l’insider del Mirror. Far volare un drone vicino agli aeroporti è illegale. David Learmount, redattore del magazine Flightglobal, ha dichiarato al Mirror che la polizia ogni giorno si impegna ad identificare i piloti di droni, ai sensi delle leggi vigenti, ma è difficile perchè tutti coloro che possiedono un drone dovrebbero registrarsi ad una apposita anagrafe ma, non essendo obbligatorio, in pochi lo fanno. "Inoltre - ha aggiunto l'uomo - ogni drone dovrebbe essere dotato di un transponder che consentirebbe a piloti e torri di controllo di sapere se nei paraggi c’è un drone potenzialmente pericoloso. Purtroppo le leggi in materia sono piuttosto lacunose al riguardo”, ha concluso.

Harry e Meghan, gli auguri via mail con Archie che fanno discutere. Pubblicato martedì, 24 dicembre 2019 da Corriere.it. La risposta è arrivata via mail: gli auguri di Natale dei duchi di Sussex, il principe Harry e la moglie Megan Markle sotto l’albero di Natale addobbato e con il piccolo Archie che è il caso di dirlo buca lo schermo con il suo faccione sorridente in primo piano. I media avevano notato che dalla scrivania di Sua Maestà Nonna Elisabetta II in occasione del discorso di Natale televisivo mancava la foto del nipote Harry e della famiglia. Compariva quella del padre Giorgio VI mentre fa il discorso radiofonico. I duchi di Sussex non erano stati presenti al lunch pre natalizio a Londra a Buckingham Palace, tantomeno non è stata annunciata la loro presenza al lunch natalizio al castello di Sandringham. Attualmente la coppia ducale si trova in Canada e il tempismo elettronico con il quale ha inviato il regale Happy Christmas ha destato sospetti. Non è detto però che Harry, Meghan e little Archie rientrino nel Regno Unito. La mattina di oggi, 24 dicembre 2019, alle 8.49 britanniche il duca di Edimburgo è stato dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato negli scorsi giorni. Potrebbe essere l’occasione per una riconciliazione di famiglia tra generazioni dopo il turbolento anno vissuto dalla Royal family britannica. Lo scatto di Buon Natale della royal happy family è diventato subito un caso. Il Mail Online ha passato al microscopio la fotografia e ha puntato il dito del J’accuse sul fatto che il bel volto della duchessa di Sussex, appare troppo «photoshoppato» come del resto lo è anche quello in primissimo piano di Archie. E balza ancor più evidente se li si confronta con il volto del principe Harry invece sfocato. Quindi una foto tutt’altro che naturale e come si usa dire... Rubata. Non solo. E’ stato anche individuato il maglioncino indossato dal bimbo. Stando al tabloid british si tratta di una creazione in cashmere grigio, scollo tondo, chiusura tre bottoni su una spalla di Boden, con il musetto di un orso polare al centro. Possibile acquistarlo on line sul sito fashion e-commerce del marchio. Disponibile nelle taglie per bimbi da 6 mesi a 4 anni. Il tutto a «sole» 100 sterline.

La sfida a colpi di auguri social tra Meghan Markle e Kate Middleton. Meghan Markle e Kate Middleton hanno entrambe scelto uno scatto in bianco e nero per augurare buon Natale ai sudditi ed è subito "guerra" social. Francesca Galici, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. Nella famiglia reale inglese sembra ormai dominare la confusione. Sono lontani i tempi in cui l'unione era uno degli elementi fondamentali della più iconica delle famiglie regnanti europee. Le prime voci di malumori all'interno di Buckingham Palace risalgono al rapporto tormentato tra Kate Middleton e Meghan Markle, le mogli dei due nipoti prediletti della regina Elisabetta II e pare che anche a Natale le due non si siano risparmiate colpi a tradimento, come si evince dagli auguri per i sudditi. I primi a inviare la tradizionale cartolina augurale natalizia sono stati i duchi del Sussex. Meghan Markle e il principe William hanno voluto omaggiare i loro seguaci e il popolo attraverso una fotografia in bianco e nero che ritrae per intero la loro famiglia. In primo piano si vede il faccino birbante del piccolo Archie mentre, sullo sfondo, i suoi genitori se la ridono. Un'immagine in pieno clima natalizio, con tanto di albero addobbato, che ha mandato in estasi i tantissimi ammiratori della coppia reale, che nel bene o nel male suscita sempre simpatia. Meghan Markle e il principe Harry sono noti per essere impegnati in battaglie in favore dell'ambiente e così, quest'anno,hanno preferito inviare gli auguri solo in formato e-cards, evitando di stampare quelli cartacei. Il loro messaggio social è arrivato nel pomeriggio, ben prima rispetto a quello dei duchi di Cambridge, che hanno aspettato la mezzanotte prima di fare gli auguri ai sudditi tramite i social. La foto scelta dal principe William e da Kate Middleton è stata scattata dalla stessa duchessa, che come è noto ha una grande passione per la fotografia. Anche loro hanno deciso di condividere uno scatto in bianco e nero che ritrae la famiglia del primogenito del principe Carlo e di Lady D quasi al completo. Manca solo Kate nell'immagine diffusa su Instagram e mentre i piccoli George e Charlotte guardano dritti verso l'obiettivo della madre, William bacia il piccolo di casa, il principe Louis. C'è chi, nella foto pubblicata da Kensington Palace, ha visto quasi una risposta a quella condivisa diverse ore prima dai duchi del Sussex. Altri parlano solamente di coincidenze. Sono entrambe bellissime famiglie ed era prevedibile che scegliessero di fare gli auguri social tramite uno scatto che li ritraesse insieme ai rispettivi componenti. In questi giorni si fa un gran parlare di fotografie nel Regno Unito anche a causa dell'assenza dello scatto della famiglia del Sussex sulla scrivania di Elisabetta II durante il tradizionale discorso natalizio. Non si tratta certamente di una svista per gli esperti reali ma è probabilmente un messaggio subliminale inviato dalla regina, che forse con questo gesto vuole lasciar intendere che i duchi del Sussex sono già da considerarsi fuori dalla famiglia reale.

Abbracci e sorrisi ai sudditi: la principessa Charlotte ruba la scena ai Reali. Al suo debutto per la messa di Natale a Sandringham, la principessa Charlotte ha rubato la scena a tutti, anche a suo fratello George, regalando abbracci e sorrisi ai sudditi. Francesca Galici, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale.  La messa di Natale a Sandringham di quest'anno è stata la prima alla quale ha preso parte la principessa Charlotte, secondogenita del principe William e della duchessa Middleton. La bambina, che oggi ha 4 anni, anche stavolta ha rubato la scena ai suoi parenti nonostante non si sia esibita in uno dei siparietti che in altre occasioni hanno strappato un sorriso. Mano nella mano con sua madre Kate, la principessina ha tenuto un comportamento davvero regale mentre ha attraversato il lungo viale che conduce verso la chiesa di Sandringham dove, come da tradizione, la famiglia reale si reca nel giorno di Natale per assistere alle sacre celebrazioni. Erano presenti tutti questa mattina, tranne il sovrano consorte Filippo, dimesso ieri dopo la degenza di 4 giorni in un ospedale di Londra, e i duchi del Sussex che hanno disertato i rituali del Natale della Royal Family. Come ogni anno, sono migliaia le persone che fin dal primo mattino si assiepano ai lati del viale per vedere sfilare la famiglia reale, nell'unica occasione nella quale è possibile ammirarla al completo (o quasi.) L'atmosfera è stata meno sfarzosa rispetto al passato, complice i grandi problemi che quest'anno affliggono la Royal Family. Per smorzare le polemiche, il principe Carlo ha effettuato la camminata lungo il viale che conduce alla chiesa di St Mary Magdalene insieme a suo fratello Andrea, come dimostrazione della forte unione parentale. Il figlio maggiore di Elisabetta II ha poi ripercorso lo stesso tragitto insieme a suo figlio William e ai nipoti George e Charlotte. I due bambini hanno caratteri profondamente differenti e lo hanno dimostrato anche in quest'occasione. Il futuro re d'Inghilterra George, come spesso accade, non si concede alla folla e preferisce un atteggiamento più serioso e distaccato rispetto alla sorella. George e William si sono avvicinati alla folla ma si sono limitati a qualche stretta di mano, come impone il protocollo reale di cui George sembra essere già a conoscenza. Charlotte, in compagnia della madre, al termine della messa si è invece avvicinata con trasporto ad alcune persone che attendevano il loro passaggio ed è stata protagonista di un momento molto toccante. In compagnia di sua madre, la bambina si è avvicinata a una signora in sedia a rotelle in prima fila che aveva in dono un fenicottero gonfiabile per lei. Non solo Charlotte ha accettato di buon grado il regalo ma ha lasciato che la donna la abbracciasse, regalandole dei sorrisi. La prima esperienza ufficiale a Sandringham per i principi sembra essere stata un successo, in attesa del debutto ufficiale del piccolo Louise, ancora troppo piccolo per certi eventi.

Kate non è il vero nome della Middleton. Come rivela un esperto di Corte, da oltre 10 anni, Kate Middleton si sta battendo per riabilitare il suo vero nome, credo di non essere adatto per il ruolo di Regina. Carlo Lanna, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Insieme a Meghan Markle è una delle personalità più in vista della royal family. Kate Middleton è la moglie di William, è una donna bellissima, dal sorriso dolce e ha la stoffa per diventare la regina del Regno Unito. Dai modi elitari, attenta alla salvaguardia della famiglia, alle attività benefiche, ad oggi è la duchessa più amata dal popolo, venerata dai marchi di moda e apprezzata anche dai membri della famiglia. Ma alcune indiscrezioni fanno trapelare un inusuale aneddoto sulla duchessa di Cambridge. Un aneddoto che in pochi conoscono. Nessuno avrebbe mai immaginato che il vero nome di Kate fosse Catherine. La Middleton, infatti, a malincuore ha dovuto sottostare al nomignolo che le è stato affibbiato, ma da quel che sembra, avrebbe tutte le intenzioni di riabilitare il suo vero nome. In realtà è da più di 10 anni che la duchessa si sta battendo per farsi chiamare semplicemente Catherine, come ha riportato diverse volte Adam Helliker. L’esperto di corte e confidente della Middleton, dice che la moglie di William vuole a tutti i costi che la gente smetta di chiamarla Kate. Catherine sarebbe un nome più regale, più altolocato, un nome da versa regina. Dal 2008 la Middleton, sia con i familiari che con il Principe, sta cercando di riabilitare il suo vero nome. L’esperto inoltre aggiunge che, nel periodo in cui la duchessa si stava frequentando con William e sapeva che a breve sarebbe diventata la moglie di uno dei Windsor, ha battibeccato molto spesso con la mamma perché ha affermato che Catherine è un nome da Regina, Kate è solo un vezzeggiativo. In poche parole, la Middleton si voleva già preparare al ruolo che, presto o tardi, avrebbe ricoperto all’interno della famiglia reale e non desiderava che la gente potesse pensare che il suo nome non fosse adatto per la regina d’Inghilterra. Il fatto è che la sua richiesta non è mai andata a buon fine. Né i genitori né tantomeno il Principe hanno cambiato l’abitudine. Per tutti è ancora Kate Middleton. Questo è un problema solo ed esclusivamente della duchessa perché, da quel che sembra, a corte, tutti apprezzano il nome della moglie di William e nessuno crede che non sia un nome adatto per una regina. La stessa Elisabetta non ha mai messo bocca sulla questione. Se la sovrana non ha creato problemi vuole dire che, in futuro, avremo sul trono una donna dal nome comune.

Il principe William le posa una mano sulla spalla e Kate lo allontana: la scena imbarazzante sulla Bbc. La scena in onda sulla Bbc. Corriere Tv il 17 dicembre 2019. Cosa succede tra William e Kate? Pochi secondi andati in onda in una puntata di «A Berry Royal Christmas» sulla Bbc sembrano mostrare la duchessa di Cambridge «scrollarsi» dalla spalla la mano che il marito, il principe William, le aveva appena appoggiato teneramente. La trasmissione della Bbc ha seguito gli impegni dei reali per il Natale. La scena non è passata inosservata in rete. «Imbarazzante, avrebbero dovuto tagliare la sequenza» si legge tra alcuni commenti.

Kate Middleton, il gestaccio contro il principe William in diretta Bbc: sudditi inglesi sotto-shock. Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. Aria di crisi? Lite fresca? Chi lo sa. In molti se lo stanno domandando dopo aver visto uno spezzone del programma A Berry Royal Christmas, in onda sulla Bbc, in cui si vede la duchessa di Cambridge Kate Middleton allontanarsi in modo brusco dal marito, il principe William, dopo che lui allunga una mano per toccarle la spalla. Un piccolo gesto di insofferenza, che potrebbe in realtà significare semplicemente il rispetto di un protocollo della famiglia reale, vale a dire niente affettuosità in pubblico. Durante la puntata i duchi di Cambridge sono stati protagonisti come assistenti della celebre chef Mary Berry per uno scopo benefico. La missione della coppia reale è infatti stata quella di preparare un pranzo natalizio e servirlo ai volontari che trascorrono il Natale nelle mense. Lo show, registrato nei giorni scorsi, è stato mandato in onda il 16 dicembre. 

"Kate e William sono due rivali": ecco il segreto delle loro nozze felici. C'è della sana rivalità tra Kate Middleton e il Principe William, una rivalità che ha reso forte il loro rapporto agli occhi del popolo. Carlo Lanna, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Sono una coppia solida, hanno una famiglia perfetta e sono amorevoli con i loro figli. Sono complici, sono eternamente innamorati e rappresentano a pieno titolo la monarchia inglese. Kate Middleton e il Principe William sono una fra le coppie reali più amate dal popolo. In prima linea per questioni umanitarie e nel salvaguardare le tradizioni dei Windsor, sono invidiati da tutti perché con lo scorrere del tempo il loro rapporto è ancora molto forte, è come se fossero degli eterni sposini. Kate e William però dispongono di un ingrediente fondamentale per permettere al loro legame di non appannarsi, se colpito dalla vita frenetica di corte. C’è la passione, c’è la stima, ma c’è anche una sana rivalità. A svelare il segreto del felicissimo matrimonio di Kate Middleton è stata Marry Berry, la regina delle pasticcerie inglesi ed ex conduttrice di The Great British Bake Off. Secondo quanto è stato raccontato ai tabloid inglesi, Kate e William amano sfidarsi e battersi a vicenda. Sono rivali per passione, solo per il gusto di esserlo. Si tratta di una rivalità bonaria, che stimola il loro rapporto, che lo mantiene vivo e che permette alla coppia di non cadere vittima di tutti i pettegolezzi di corte. Marry Barry afferma quindi, con assoluta certezza, che la competitività che c’è fra i duchi di Cambridge è nata proprio per mantenere vivo il loro sentimento, e ha notato questo dettaglio, proprio durante le registrazioni di uno show di cucina in cui Kate e William hanno preso parte di recente. L’episodio speciale e a tema natalizio a cui parteciperà la coppia reale, andrà in onda lunedì 16 dicembre sulla BBC. Messi l’uno contro l’altro ai fornelli, intenti a preparare un dolce tipo natalizio, Kate Middleton e il principe hanno dato il meglio di sé, sfidando i loro limiti con estremo spirito di gioco. "Ho fatto cucinare anche un involtino di carne – ha rivelato la conduttrice ai tabloid – e tutti e due avevano un forte spirito competitivo. Continuavo a sorridersi e guardarsi mentre preparavano la pietanza". E sono diverse le occasioni in cui i duchi si sfidano con il sorriso sulle labbra. Lo fanno spesso a tennis, e ancora mentre tosano le pecore, mentre spillano le birre e tirano con l’arco. Molte infatti sono le occasioni ufficiali in cui sia Kate che William non smettono di divertirsi insieme, come due persone comuni. E questo aspetto della loro quotidianità che tanto piace alla popol ha fatto dei duchi una tra le coppie reali più stimate. Sono definiti incantevoli, amorevoli e invidiabili. Tutti vorrebbero essere come loro.

Kate Middleton e il Principe William sono davvero in crisi? Non ci sarebbe nessun divorzio imminente tra Kate Middleton e il Principe William, dopo il gesto in diretta tv della duchessa. Carlo Lanna, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Sarà un Natale dolceamaro per Kate Middleton e il Principe William? Sembra proprio di no, nonostante le ultime indiscrezioni che sono trapelate in rete. Dopo il gesto stizzito di Kate, immortalato in tv e che ha fatto il giro del web, in molti credono che il matrimonio dei duchi di Cambridge sia arrivato a un punto morto. Durante una breve intervista nella trasmissione A Berry Royal Christsmas, si è visto chiaramente come la Middleton non avrebbe gradito un dolce gesto d’affetto da parte di suo marito. Il video, anzi il breve frammento, subito è diventato virale e gli esperti si stanno interrogando sulle conseguenze. La vicenda però potrebbe avere un colpo di scena. A rivelare qualche dettaglio in più, ci avrebbe pensato un amico fidato di Kate e William, in alcune brevi dichiarazioni che ha rilasciato ai tabloid inglesi. Secondo la gola profonda, il matrimonio tra Kate Middleton e William sarebbe molto sereno e felice e i rumor su una possibile separazione sono del tutto infondati. "Si prendono cura l’uno dell’altro, ma in modo differente – rivela ai tabloid la fonte -. Il loro non è un matrimonio all’antica come da tutti è stato definito, ma è qualcosa che va ben oltre il rispetto reciproco". I duchi hanno un carattere molto diverso. William è più impulsivo ed è bilanciato dal carattere più pacato di Kate. "Loro hanno trovato un equilibrio, mantenendo la spontaneità tra la vita di tutti i giorni e i rigidi protocolli di corte – continua la fonte -. E poi entrambi hanno dei doveri diversi. William tiene discorsi ufficiali, anche politici; Kate invece è molto più umana, e si interessa da vicino a causa benefiche e umanitarie". Una vita non facile quella dei duchi. L’amico fidato però esclude a priori il divorzio. Si accusa il gesto ai tanti impegni dell’ultimo periodo e, soprattutto, allo stresso per lo scandalo del Principe Andrea che, di fatto, ha gettato una nube oscura sulla royal family. Ma niente è nero o bianco, i problemi sono nel mezzo, in quella sfumatura di grigio quasi impercettibile. Nessuno ha dimenticato i pettegolezzi che sono trapelati questa estate, nessuno ha dimenticato il possibile tradimento di William con Rose Hansbury (sua vicina di casa), nessuno ha dimenticato gli sguardi bassi e l’assenza di sorrisi complici. Una crisi c’è e lo dimostra anche il fatto che fino ad ora non è stata diffusa ancora nessuna cartolina di Natale.

Kate in tv: "William mi ha conquistata con un piatto di spaghetti". Ospiti in tv di uno special natalizio tenuto dalla chef Mary Berry, i Duchi di Cambridge hanno rivelato divertenti aneddoti sulla loro storia d'amore e sui loro tre bambini. Sandra Rondini, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Ospiti in tv dello special natalizio "A Berry Royal Christmas", i Duchi di Cambridge hanno parlato della loro passione per la cucina, con Kate che ha rivelato alla famosa stella dell’edizione inglese del programma "Bake Off", Mary Berry, qual è stato il piatto che suo marito William le ha cucinato per conquistare il suo cuore, mettendosi ai fornelli per la prima volta. I due, com’è noto, si sono conosciuti all’università di St. Andrews, continuando a frequentarsi per più di dieci anni fino a prendere finalmente la decisione di sposarsi e metter su famiglia. "Mi ha invitata a cena da lui e mi ha preparato un piatto italiano, degli spaghetti alla bolognese", ha raccontato Kate con un velo di nostalgia, ricordando i tempi in cui lui e William avevano poco più di 20 anni e adesso sono marito e moglie, nonché genitori di 3 bambini. Tra l'altro, proprio a proposito di uno di loro, il minore, il piccolo Louis di un anno e mezzo, proprio ieri si era diffusa la notizia che avrebbe appena pronunciato la sua prima parola che, però non sarebbe stata 'mamma' o 'papà', ma come diversi insider hanno fatto sapere a diversi tabloid, sarebbe proprio "Mary", come Mary Berry di “Bake Off”, programma che pare che Louis guardi sempre e apprezzi molto. Se fosse vero, e i Cambridge non confermano né smentiscono, sarebbe per la popolare chef televisiva un grande onore e Louis avrebbe diritto, da parte sua, a una torta davvero molto speciale, come i sudditi di Sua Maestà sui social le stanno chiedendo di fare a gran voce. In ogni caso, ieri sera William e Kate sono comparsi insieme nello special tv, rivelando una grande intimità e affinità, come hanno avuto modo di notare sia i telespettatori che gli esperti reali, conversando amabilmente proprio con Mary Berry. "Ai tempi dell'università – ha detto ridendo Kate - William cucinava ogni sorta di cibo. Sai Mary, penso che stesse cercando di impressionarmi con piatti come spaghetti alla bolognese, salse e cose del genere". Ha poi aggiunto: "Adesso però è William deve sopportare la mia cucina per la maggior parte del tempo", prima che il Duca le rispondesse scherzando: "È la ragione per cui sono così magro!". A William è stato quindi chiesto se avesse in programma di cucinare qualcosa con i suoi figli George, Charlotte e Louis durante il Natale e lui ha risposto: "Sì, certo. Stiamo parlando di fare delle torte sbriciolose quest'anno. Se i bambini vogliono giocare a fare gli chef in cucina sarò felice di accontentarli". Kate, da par suo, ci ha tenuto a sottolineare che i dolci a casa Cambridge sono riservati alle occasioni speciali, perché i suoi bambini mangiano e amano molto le verdure che lei stessa e il marito coltivano nell’orto di casa. "Io e William coltiviamo personalmente le verdure che mangiamo. Abbiamo carote, fagioli e barbabietole che sono il piatto preferito di Louis. Ne va pazzo!". Anche la Middleton, infine, ha ammesso di saper cucinare e "in particolare - ha detto - adoro preparare torte. È diventata un po' una tradizione per me rimanere sveglia fino a mezzanotte con spropositate quantità di impasti di torte e glassa. Ne faccio davvero troppe. Non so regolarmi con le dosi...Ma adoro fare torte e cucinare mi diverte tantissimo", ha concluso la Duchessa, regalando così ai sudditi, insieme al Principe William, l’immagine di una famiglia giocane e normale che nel periodo natalizio trasforma la cucina di casa in un campo di battaglia con il solito allegro caos che si crea quando si sta ai fornelli in una occasione speciale, soprattutto se circondati da bambini molto piccoli, come sono George, Charlotte e Louis.

 “IL PRINCIPE ANDREW DEVE ANDARE IN PRIGIONE”. DAGONEWS il 6 novembre 2019. Virginia Roberts, la prima ragazza a denunciare il finanziere Jeffrey Epstein, ha rilasciato una lunga intervista per “60 minutes” in Australia. Nel documentario la donna torna a New York, davanti alla casa dove lei racconta di essere stata tenuta prigioniera quando era ancora minorenne. «Essendo una bambina non mi rendevo conto in quale mondo mi stesse portando. Questa dimora rappresenta per me una prigione». Ora vuole che gli uomini che hanno abusato di lei vadano in prigione, incluso il principe Andrew: «Lui dovrebbe andare in galera. Ma succederà mai? Probabilmente no». Poi difende l’autenticità della foto che la ritrae con il figlio della regina Elizabetta: «Questa è una foto reale. Questo è Andrew. La foto è stata scattata a casa di Maxwell. Andrew dice che non è il suo braccio e quelle non sono le sue dita. Oh, le dita paffute, le conosco». Il principe Andrew non è l'unica persona che Virginia ha nominato nell'intervista: «Sono stata aggredita sessualmente da altri miliardari, da politici. Era l'élite del mondo. I loro nomi dovrebbero essere noti e dovrebbero vergognarsi per quello che hanno fatto. È orribile. Non c'è una parte del mio corpo di cui non hanno abusato». Roberts aveva precedentemente fornito foto all'FBI che dimostravano come aveva viaggiato in tutto il mondo con Epstein, comprese le immagini scattate nel ranch in New Mexico. La donna racconta che durante quelle trasferte Epstein la violentava e lasciava che anche altri uomini lo facessero. «Epstein mi ha portato su un traghetto durante uno dei viaggi a New York City e lì ha scattato le foto. Avevo circa 15 o 16 anni all'epoca. Nelle settimane successive al giorno in cui questa immagine è stata scattata Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell mi hanno insegnato a fare ciò che volevano, comprese le attività sessuali e l'uso di giocattoli sessuali. L'addestramento si faceva a New York e in Florida, nelle dimore di Epstein. Si faceva ogni giorno ed era come andare a scuola. Ho anche dovuto fare sesso con Epstein molte volte. Ero addestrata per essere tutto ciò che un uomo voleva». E sul perché non sia mai fuggita ha risposto: «Epstein mi aveva promesso molto e sapevo che se lo avessi lasciato avrei avuto grossi problemi. Sapevo anche di essere stato testimone di molti comportamenti illegali da parte di Epstein e dei suoi amici. Se avessi lasciato Epstein, avrebbe potuto farmi uccidere o rapire, e sapevo sempre che ne sarebbe stato capace se non gli avessi obbedito. Mi faceva sempre sapere di conoscere persone nelle alte sfere. Lui diceva sempre di se stesso che in ogni caso se la sarebbe cavata. Io ero molto spaventata soprattutto perché ero un’adolescente». E su Epstein ha concluso: «Quando ero con lui faceva sesso con ragazze minorenni quotidianamente. Il suo interesse per questo tipo di sesso era evidente per le persone intorno a lui. Le attività erano così evidenti che chiunque avesse trascorso del tempo in una delle residenze di Epstein sarebbe stato consapevole di ciò che stava accadendo».

 “VOLEVA INSEGNARMI A DARE PIACERE A UN UOMO”.  LA GIORNALISTA PETRONELLA WYATT RICORDA LA SERA IN CUI GHISLAINE MAXWELL VOLEVA INSEGNARLE A FARE UN POMPINO DA URLO: “MI DISSE: "STO CERCANDO DI INSEGNARTI COME SODDISFARE IL TUO RAGAZZO. NON VUOI SAPERE COME?" MI AFFERRO' UN POLSO, MA IO MI MISI LE MANI IN TASCA. DUE GIOVANI LA SEGUIRONO E LEI ESEGUÌ IL SUO SHOW…” DAGONEWS il 12 settembre 2019. La giornalista Petronella Wyatt ricorda la notte in cui incontrò Ghislaine Maxwell che voleva insegnarle come dare piacere agli uomini. «Mi guardò come se fossi un idiota. Tra i tavoli pieni di secchi di champagne in uno dei ristoranti più eleganti di Manhattan, mi strinse il polso: “Sto cercando di insegnarti come soddisfare il tuo ragazzo. Non vuoi sapere come?». Ero innervosito. “Non ho un ragazzo” ho detto scusandomi. Ha poi menzionato qualcosa sui cavatappi e l'entourage delle donne più giovani intorno a lei e ha ridacchiato. La donna sembrava vagamente familiare. I suoi capelli erano neri ed eleganti, il viso arrossato. All'improvviso, la riconobbi. Era da molto tempo che non vedevo Ghislaine Maxwell - ora al centro delle accuse (che lei nega) di aver agito come la donna che procurava le ragazze al finanziere pedofilo Jeffrey Epstein. Ma quando mi prese la mano, sentii che la sua personalità era del tipo che non sopportava i rifiuti. Il nostro primo incontro è stato in un ristorante italiano ed era, ovviamente, seduta al miglior tavolo. Ero in un'alcova. Qualcuno al suo tavolo mi ha riconosciuto e mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Siamo stati presentati. Ghislaine era alta e magra, con spalle larghe e capelli neri e lucenti da sembrare ali di corvo. La sua carnagione era pallida e la sua bocca ben modellata ma sottile. Non era bella, ma aveva il dono di farti credere che lo fosse. Aveva anche un'intensa sessualità, un fascino quasi androgino. "Questa è Petronella Wyatt", le fu detto. Lei rise allegramente e disse in tono lusinghiero: "Ho sentito parlare di te." Aveva la capacità sia di compiacere che di ipnotizzare. L'ho incontrata abbastanza spesso negli anni. Parlava spesso di suo padre come se avesse le qualità combinate di Socrate, El Cid, Cary Grant e tutti i Dodici Apostoli. Era il momento in cui la discesa del padre stava iniziando. Mi chiesi allora se il suo desiderio quasi patologico di compiacere gli uomini - qualcosa che spesso osservavo alle feste - derivava dalla sua adorazione nei suoi confronti. Penso che sia stata la morte di suo padre che ha cambiato la vita di Ghislaine Maxwell e forse l'ha indirizzata di corsa verso un uomo come Jeffrey Epstein. Ne ho letto nel novembre 1991. Il corpo era stato trovato alle Isole Canarie, galleggiava vicino allo yacht che aveva chiamato come la sua figlia preferita, Lady Ghislaine. A quel punto, tutti sapevano che aveva rubato centinaia di milioni di sterline dal fondo pensione del gruppo Mirror. Molti di noi presumevano che la sua morte fosse stata un incidente, c’era chi pensava si fosse suicidato. Lei, invece, credeva fosse stato ammazzato. Quando tocchi il fondo si inventano così tanti palliativi alla verità. Non credo che Ghislaine potesse accettare che la persona che adorava fosse un ladro comune che era morto di una morte triste, non affascinante, e che la sua reputazione fosse in caduta libera. Poi si è innamorata di un finanziere di nome Jeffrey Epstein, che, si diceva, le ricordava suo padre. La gente diceva che l'aveva "salvata" e che "la faceva sentire al sicuro". Ha anche finanziato il suo stile di vita di lusso fatto di jet privati, immobili costosi e abiti firmati. Ho anche sentito che non aveva perso la sua attitudine a comportarsi come una geisha per lusingare gli uomini. Epstein aveva, anche a quei tempi, una reputazione spiacevole. L'ho incontrato solo una volta nel bar di un hotel di New York, dove stava incontrando un mio conoscente. Ho salutato e mi sono allontanata, non volendo interromperli. Sembrava infastidito; si diceva che fosse spesso arrabbiato e avesse un disprezzo di base per le donne. Poi, alcuni anni dopo, ci fu quel bizzarro incontro con Ghislaine a una festa di Manhattan. Era sola e non era più legata a Epstein, che stava per essere accusato di aver commesso un reato sessuale. I suoi capelli corti, i suoi denti erano bianchi e sospettai avesse fatto qualcosa alle labbra. Aveva perso il suo fascino e sembrava, come suo padre, tanti anni fa, recitare un ruolo. Soprattutto, sembrava giocare a essere felice. Dominava ancora la scena con le giovani ospiti che l’avevano accerchiata. A un certo punto mi disse: “Dammi il braccio. Ti mostrerò come dare a un uomo il miglior sesso orale del mondo». Ho messo entrambe le mani nelle tasche della giacca e ho scosso la testa. Fortunatamente, altre due giovani donne ridacchianti seguirono il suo esempio. Mentre mi allontanavo, Ghislaine Maxwell riuscì finalmente a eseguire il suo trucco da festa, una lezione nell'arte di dare piacere agli uomini. Non l'ho più vista».

DAGONEWS il 19 novembre 2019. Due agenti penitenziari in servizio al Metropolitan Correctional Center sono stati arrestati dopo la morte di jeffrey Epstein: i due, secondo fonti del New York Times, sono stati presi in custodia poche ore fa. I due sono sospettati di non aver controllato Epstein ogni mezz’ora come era stato loro richiesto e di aver mentito raccontando di averlo fatto. Entrambi stavano facendo gli straordinari a causa della carenza di personale. Subito dopo la morte di Epstein i due agenti sono stati posti in congedo amministrativo mentre l'FBI e l'ispettore generale del Dipartimento di Giustizia hanno continuato a indagare sulle circostanze della morte del finanziere. Il medico legale della città ha stabilito che si è trattato di un suicidio, ma c’è ancora chi crede sia stato ucciso.

Epstein, le ultime ore: «Tempesta perfetta di errori e scemenze». Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. La ricostruzione del ministro della Giustizia, William Barr, che ha voluto visionare i filmati delle telecamere interne in prima persona. i dubbi di vittime e polizia. Per il ministro della Giustizia, William Barr, la notte in cui Jeffrey Epstein si suicidò «ci fu una tempesta perfetta di scemenze, di cavolate». In un’intervista all’Associated Press, Barr si esprime con franchezza e con un linguaggio poco istituzionale: «Posso capire le persone che immediatamente hanno pensato all’ipotesi peggiore, anch’io all’inizio ho avuto dei sospetti». L’idea cioè che il finanziere pedofilo sia stato ucciso nella sua cella del Metropolitan correctional center di Manhattan, il 10 agosto scorso. Il suicidio per impiccagione sarebbe solo una copertura per occultare l’omicidio. Lo pensa la famiglia, innanzitutto. Ma anche Gloria Allred, avvocata star di New York, legale di molte donne vittime di Epstein, in una conferenza stampa di giovedì 21 novembre, ha affermato: «Ci sono ancora circostanze sospette che circondano la sua morte». «Sospetti» e scetticismo corrono sui Social e sono condivisi da una buona parte dell’opinione pubblica, circa il 30%, stando a una rilevazione condotta da Eric Oliver, professore dell’Università di Chicago. Persino alcuni parlamentari hanno rilanciato i dubbi. Il deputato repubblicano Paul Gosar, per esempio, ha twittato per 23 volte: «Epstein non si è ucciso». Il businessman venne arrestato il 6 luglio scorso per capi di imputazione punibili con 45 anni di prigione: traffico di minori e abusi sessuali. L’Fbi aveva trovato una mole imponente di indizi nella sua casa di New York, vicino a Central Park. La tana lussuosa in cui attirava decine, forse centinaia di ragazze, tutte minorenni: offriva un compenso di 100-200 dollari per «messaggio» che si trasformava poi in un assalto sessuale. Ma i dubbi e i veleni nascono dalle frequentazioni di «Jeffrey». Sul suo jet privato, che chiamava «Lolita Express», ci salivano tante celebrità. Uno dei più assidui era l’ex presidente democratico Bill Clinton. Epstein conosceva e frequentava Donald Trump e il principe Andrea, Duca di York, il terzogenito della Regina Elisabetta II, ottavo nella linea di successione. «Mi mangio le mani ogni giorno per essere stato ospite di Epstein», ha dichiarato il principe alla Bbc il 16 novembre, e qualche giorno dopo ha annunciato «il ritiro da ogni impegno pubblico». E allora qualcuno ha ucciso Epstein per evitare altri clamorosi scandali? La magistratura lo esclude seccamente. L’autopsia ha confermato la morte per asfissia e le indagini hanno portato martedì 19 novembre all’arresto di Tova Noel e Michael Thomas, le due guardie carcerarie incaricate di sorvegliare la cella. Quella notte uno dormiva, l’altro faceva shopping su Internet, consultando siti di mobili e di motociclette. I due avrebbero anche falsificato i registri delle ispezioni, ma davanti al giudice non hanno ammesso colpe. Barr ha detto all’Ap di aver voluto visionare in prima persona i filmati delle telecamere interne: nessuno entrò nello spazio che Epstein occupava da solo. Quel settore del carcere è protetto da una doppia barriera. La prima può essere sollevata solo elettronicamente dalla postazione centrale di controllo; l’altra si apre con la chiave assegnata all’agente di turno.

Il giallo delle videocamere rotte davanti alla cella di Epstein. L'Fbi sta analizzando le videocamere di sorveglianza posizionate davanti alla cella in cui il miliardario accusato di molestie e pedofilia si sarebbe suicidato. Roberto Vivaldelli, Venerdì 30/08/2019 su Il Giornale.  L'Fbi sta indagando sul malfunzionamento delle due telecamere posizionate fuori dalla cella del carcere di New York dove il 10 agosto scorso si sarebbe suicidato il finanziere Jeffrey Epstein. Secondo quanto riportano alcuni media Usa, le videocamere sarebbero state trasportate a Quantico dal Metropolitan Correction Center di Manhattan, dove Epstein era detenuto in attesa di processo. Nelle scorse ore è emerso che almeno una delle videocamere davanti alla cella era non funzionante. Dubbi anche sull'apparente suicidio del milionario accusato di traffico di minori: gli avvocati di Epstein, Reid Weingarten e Martin Weinberg, hanno dichiarato martedì al giudice del distretto di Manhattan, Richard Berman, di avere perplessità sulla conclusione del capo medico legale di New York che ha acclarato il suicidio del loro assistito. Due giorni fa il Washington Post aveva riferito che i filmati registrati da almeno una delle videocamere posizionate fuori dalla cella di Epstein erano del tutto "inutilizzabili". Il quotidiano sosteneva che non fosse chiaro il motivo per cui quei filmati registrati fossero così danneggiati o imperfetti da essere inutilizzabili dagli investigatori o cosa sia visibile in quelli non compromessi. Non è nemmeno noto, al momento, se la criticità riscontrata nella registrazione dei filmati abbia avuto una durata limitata o se si si tratti di un problema più ampio di manutenzione che affligge il Metropolitan Correctional Center, il carcere dove è morto suicida Jeffrey Epstein. Certo è che qualcosa, in quel carcere, non ha funzionato. Gli investigatori vogliono vederci chiaro, tant’è che, come riportato dalla Cnn nei giorni scorsi, sarebbero addirittura 20 le guardie carcerarie della prigione federale di New York che hanno ricevuto un mandato di comparizione di fronte al grand jury. Gli inquirenti intendono, attraverso le loro deposizioni, cercare di ricostruire con esattezza quello che è successo la notte in cui il 66enne miliardario si è impiccato nella sua cella. Secondo quanto emerso nelle scorse settimane, sempre da fonti citate dal Washington Post, sarebbero stati almeno otto i membri del personale dell’Ufficio federale delle carceri (Federal Bureau of Prisons) che hanno ignorato l’ordine di non lasciare il miliardario da solo nella sua cella. Secondo il responso ufficiale dell'autopsia eseguita sul corpo dell'ex miliardario accusato di traffico sessuale di minori, si sarebbe trattato di un suicidio per impiccagione. Sembrava dunque fugato ogni dubbio concernente le cause del macabro decesso, ma ora gli avvocati mettono in discussione questa versione. Nel frattempo, continuano ad emergere dettagli sugli abusi sessuali commessi da Epstein in vita. "Un codardo". "Sono molto arrabbiata". "Questa volta non sarà fatta giustizia". Sono le dichiarazioni drammatiche rese dalle testimoni che stanno deponendo davanti al giudice contro il finanziere morto in carcere lo scorso 10 agosto. Senza l'unico imputato il processo è destinato al fallimento e all'archiviazione, ma le testimonianze di chi denuncia di essere stata sottoposta ad abusi, quando era minorenne, e costretta a prestazioni sessuali per il milionario e gli amici del suo cerchio magico, tra Manhattan e Palm Beach, sono state comunque raccolte. Le donne, una decina, stanno raccontando la loro storia, riparate dai giornalisti e dalle telecamere. Molte trattengono le lacrime. Una di loro, Courtney Wild, ha detto che il suicidio di Epstein ha "rubato" a lei e alle altre il diritto a confrontarsi con lui in tribunale. "Sono molto arrabbiata e triste - ha commentato - per questo è stato un codardo". Alcune, il cui nome non è stato rivelato, hanno detto di sentirsi violentate una seconda volta. "È come se quel trauma si riproponesse". Il suicidio, ha spiegato la procuratrice federale Maurene Comey, "non fermerà le indagini su altre persone che hanno aiutato Epstein" a portare avanti il suo piano di sfruttamento di ragazze minorenni.

DAGONEWS il 30 ottobre 2019. Cosa sia successo in quella cella in cui lo scorso 10 agosto è stato trovato morto Jeffrey Epstein rimarrà uno dei più grandi misteri d’America. Soprattutto alla luce del fatto che l’ipotesi di un omicidio non è poi così remota. O almeno non lo è per Michael Baden, 85enne ex medico legale di New York con una carriera lunga cinquant’anni alle spalle. Nonostante la morte del miliardario sia stata archiviata come un suicidio, il medico che ha visto i risultati dell’autopsia, è convinto che non siano state fatte tutte le indagini del caso per escludere l’ipotesi dell’omicidio. In un’intervista esclusiva a "Fox & Friends" Baden, che è stato assunto dal fratello di Epstein, ha detto che i risultati dell’autopsia sono più coerenti con uno strangolamento che con un suicidio per impiccagione. Il dottore ha rivelato che Epstein aveva due fratture ai lati sinistro e destro della laringe e una frattura all’osso ioide. «Queste tre fratture sono estremamente insolite e rare nelle impiccagioni e si verificano più comunemente nello strangolamento» ha detto Baden, che ha indagato sui casi di O.J. Simpson, di  John F. Kennedy, di Martin Luther King, di Phil Spector e della star dei New England Patriots Aaron Hernandez e molti altri. «Non ho mai visto fratture del genere in 50 anni in casi di suicidio» ha aggiunto il medico. Baden, che ha esaminato più di 20.000 corpi, ha spiegato che la pressione sul collo esercitata dalle mani è più forte rispetto a quella esercitata durante un’impiccagione.  Un altro elemento sono le emorragie oculari, comuni nello strangolamento e meno comuni in un suicidio. Baden ha anche sottolineato che il suo studio non è completo: «Non lo sarà fino a quando non saranno disponibili tutte le informazioni». In particolari mancano i risultati sul lenzuolo usato per impiccarsi. «Le prove sul materiale del tessuto potrebbero aiutare a dimostrare se qualcun altro è stato coinvolto. Se così fosse c’è il suo Dna lì sopra. I risultati dovrebbero essere pubblicati al più presto per evitare che ci siano ulteriori sospetti». A stabilire che la morte di Epstein è stata un suicidio è stata il medico legale di New York Barbara Sampson, ma Baden è convinto che potrebbe aver sbagliato: «Ci sono prove di un omicidio che dovrebbero essere investigate, per escludere che Epstein sia stato ucciso». Il medico ha anche puntato il dito contro la sicurezza del carcere: «È stato stabilito che le due guardie che avrebbero dovuto lavorare in quella zona della prigione si sarebbero addormentate e non avrebbero fatto il loro giro di 30 minuti per più di 3 ore. Poi c'erano telecamere di sicurezza che avrebbero dovuto registrare all’interno della cella e nel corridoio all'esterno, per vedere chi entrava e usciva. Sembra che entrambe funzionassero male».

CHI AVEVA INTERESSE A UCCIDERE JEFFREY EPSTEIN? DAGONEWS il 12 agosto 2019. Jeffrey Epstein steso su una barella, i medici che si affrettano a eseguire un massaggio cardiaco e infine il corpo senza vita. Sono state pubblicate le immagini degli ultimi istanti di vita del finanziere morto sabato. Epstein indossava una tuta arancione e quello che sembra essere un tutore al collo mentre veniva spinto su una barella per essere portato al New York Presbyterian-Lower Manhattan. Il medico legale ha dichiarato che è stata già effettuata un’autopsia sul corpo di Epstein, ma bisognerà attendere per la pubblicazione dei risultati.

Viviana Mazza per il “Corriere della sera” il 12 agosto 2019. Solo per sei giorni Jeffrey Epstein è stato sotto sorveglianza speciale o «suicide watch»: dal 23 al 29 luglio. Non lo era più al momento della morte. Il detenuto numero 76318-054 fu riportato nella «Shu», la «Special Housing Unit» per prigionieri di alto profilo o pericolosi del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, la stessa unità in cui era stato trovato disteso con segni al collo il 23 luglio. Il compagno di cella però era stato trasferito: fu lasciato solo, una violazione delle normali procedure. La prigione informò il dipartimento di Giustizia che una guardia lo avrebbe controllato ogni mezz' ora. Ma la notte della sua morte questo non avvenne. Piovono critiche sulle autorità carcerarie dopo la morte del finanziere di 66 anni incriminato per traffico sessuale di minorenni. Un «apparente suicidio»: così lo ha definito il ministero della Giustizia, che però sottolinea pure come la vicenda sollevi «serie domande» e ha aperto un' inchiesta. Anche il sindaco di New York e candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca, Bill de Blasio, nota che la scomparsa di Epstein è «troppo conveniente». «Quello che molti di noi vogliono sapere è: che cosa sapeva? Quanti altri milionari e miliardari erano coinvolti nelle stesse attività illegali?». La prima domanda ancora senza risposta è: perché Epstein non era più sotto sorveglianza speciale? Le autorità carcerarie avevano disposto quelle misure di sicurezza dopo il 23 luglio, pur non essendo certe se avesse davvero tentato il suicidio o fosse stato aggredito. Chi ha preso la decisione di dichiararlo «non più a imminente rischio di suicidio»? La seconda questione: come si è impiccato? Anche nella «Special Housing Unit», secondo un ex detenuto intervistato dal New York Post è «impossibile che si sia ucciso. Tra il pavimento e il soffitto ci sono circa due metri e mezzo, non puoi legarti a niente. Hai le lenzuola ma hanno la consistenza della carta, non sono abbastanza forti per un uomo sui 90 chili. Il letto è di ferro ma non si può spostare e non ha sbarre». Terzo: esiste un video? L' ex procuratore di New York Preet Bharara suggerisce di sì: «Quasi certamente c' è un video del suicidio di Epstein all' Mcc. Si spera che sia completo e al sicuro». Venerdì sera, la notte della diffusione di 2.000 pagine di carte degli investigatori, le guardie non hanno rispettato il protocollo che prevede si controllino i prigionieri ogni 30 minuti (per quelli sotto sorveglianza speciale ogni 15 minuti). Epstein era solo in cella: Nicholas Tartaglione, ex poliziotto sotto accusa per quattro omicidi, era stato trasferito. Si ipotizzò che potesse essere lui l' aggressore del 23 luglio, ma lui sostenne di aver «salvato» il finanziere. Venerdì sera, Epstein incontrò uno dei suoi avvocati, secondo un collega che li ha visti parlare «come ogni sera». Il 31 luglio, il giudice lo aveva informato che il processo non sarebbe iniziato prima del giugno 2020, e da allora incontrava i suoi avvocati per lunghe sedute, anche di 12 ore: continuavano a chiedere di farlo uscire su cauzione. Ora uno dei legali, Marc Fernich, dà la colpa a tutti: carcerieri, procuratori, politici, giudici, e ai media «isterici». «Epstein è stato accusato di nuovo di vecchi crimini per quali aveva da tempo pagato il suo debito con la società, solo perché ha avuto la sfortuna di essere un uomo ricco nell' era #metoo». Fonti anonime «vicine a Epstein» dicono che il finanziere «era di umore positivo negli ultimi giorni» ma aveva riferito che «le guardie avevano cercato di ucciderlo». Parole pesantissime diffuse dal Washington Post , avvolte da molti dubbi. E poi ci sono le teorie del complotto: la morte sarebbe una messinscena o lo avrebbero ammazzato per evitare che incriminasse qualcuno dei suoi potenti amici come i Clinton o Trump. Il presidente ha contribuito a rilanciarle ripubblicando su Twitter il video di un comico che accusa i Clinton di omicidio, nonché la notizia (falsa) secondo cui ci sarebbero prove precise contro Bill. Il principe Andrea, anche lui ex amico di Epstein, appariva sorridente ieri, mentre con la regina Elisabetta si recava a Messa.

DAGONEWS il 24 settembre 2019. Nicholas Tartaglione, l'ex poliziotto 51enne e compagno di Jeffrey Epstein durante il periodo di detenzione al Manhattan Correctional Center, ha ucciso un uomo soffocandolo con una fascetta. Tartaglione è in carcere per aver ucciso quattro uomini, ma non era mai stato reso noto come avesse ammazzato le sue vittime. Una notizia che riapre le speculazioni sulla presunta aggressione a Epstein lo scorso 23 luglio. I due erano compagni di cella, ma furono separati quando Epstein venne trovato con ferite sul collo. Secondo gli avvocati del finanziere, Epstein avrebbe raccontato di essere stato aggredito da Tartaglione che, però, si è sempre difeso dicendo di non averlo mai toccato. In seguito gli stessi funzionari del carcere hanno scagionato l’ex poliziotto, stabilendo che Epstein si era provocato le  ferite sul collo in un tentativo di suicidio. In una lettera al New York Daily News all'inizio di questo mese ha scritto: «Per quanto riguarda Jeff Epstein, non ho mai toccato quell'uomo. Disprezzo chiunque ferisca i bambini, ma qualunque cosa gli accadesse, non ne volevo far parte», chiedendo inoltre di essere trasferito dalla prigione di Manhattan dove non si sente più al sicuro e dove lo avrebbero minacciato di tacere. Ma i dettagli di come Tartaglione abbia ucciso quattro persone hanno riportato la mente al 23 luglio. Secondo Il New York Post l’ex poliziotto, in carcere dal 2016 per aver ucciso Martin Luna, 41 anni, Hector Santiago, 32 anni, Miguel Luna, 25 anni, e Hector Gutierrez, 43 anni, ha portato le sue vittime in una fattoria e ne ha eliminate tre con un colpo di pistola alla testa mentre Luna, l’uomo che continuava ad accusare di avergli rubato soldi, è stato strangolato con una fascetta.

Articolo di Emily Flitter e James B. Stewart per “The New York Times” pubblicato da “la Repubblica” il 14 Ottobre 2019 - Traduzione di Fabio Galimberti. Jeffrey Epstein, l'imprenditore accusato di reati sessuali suicidatosi in carcere, era riuscito ad attirare nella sua orbita una quantità incredibilmente ampia e variegata di uomini ricchi, potenti e famosi. C'erano miliardari (Leslie Wexner), politici (Bill Clinton), premi Nobel (Murray Gell-Mann) e perfino reali (il principe Andrea). Pochi di questi, però, possono competere per prestigio e potere col secondo uomo più ricco del mondo, una delle stelle più lucenti del firmamento dell' imprenditoria privata: Bill Gates. E a differenza di altri, i suoi rapporti con Epstein sono cominciati dopo che quest' ultimo era già stato condannato per reati sessuali. Gates, il cofondatore della Microsoft, che ha creato, grazie alla sua fortuna di oltre 100 miliardi di dollari, l' organizzazione di beneficenza più grande del mondo, fa del suo meglio per minimizzare i suoi rapporti con Epstein. «Non avevo nessun rapporto d' affari o d' amicizia con lui», ha dichiarato il mese scorso al Wall Street Journal. In realtà, a partire dal 2011, Gates si è incontrato con Epstein in numerose occasioni. Ed Epstein aveva parlato con la Fondazione Bill e Melinda Gates e la JPMorgan Chase della proposta di istituire un fondo di beneficenza da svariati miliardi di dollari. «Il suo stile di vita è molto diverso e affascinante, ma non funzionerebbe per me», aveva scritto Gates in un'email a dei colleghi nel 2011, dopo il suo primo incontro con Epstein. Bridgitt Arnold, una portavoce di Gates, ha detto che «si riferiva all' arredamento della residenza di Epstein». Quando Gates ed Epstein si incontrarono per la prima volta, Epstein era già stato in prigione per istigamento alla prostituzione di una minorenne ed era registrato come autore di reati sessuali. Arnold ha detto che Gates ed Epstein erano stati presentati da «personaggi di alto profilo» e che si erano incontrati per discutere di filantropia. «Bill Gates rimpiange di averlo incontrato e riconosce che è stato un errore di giudizio da parte sua averlo fatto», dice Arnold. «Riconosce che prendere in considerazione le idee di Epstein gli ha dato una visibilità immeritata, in contrasto con i valori di Gates». Il primo incontro Due membri della cerchia più ristretta di Bill Gates - Boris Nikolic e Melanie Walker - erano vicini a Epstein e in alcuni casi hanno svolto la funzione di intermediari fra i due uomini. Walker conobbe Epstein nel 1992, sei mesi dopo essersi laureata. Epstein, che era un consulente di Wexner, il proprietario di Victoria's Secret, le aveva detto che poteva procurarle un lavoro da modella nell' azienda. Epstein la assunse come consulente scientifica nel 1998. Walker successivamente incontrò Steven Sinofsky, alto dirigente di Microsoft a capo della divisione che si occupava di Windows, e si trasferì a Seattle per stare con lui. Nel 2006 entrò nella Fondazione Gates con la carica di direttrice di programma. Alla fondazione, Walker conobbe Nikolic, ex docente della Harvard Medical School e consulente scientifico della fondazione. Nikolic e Gates viaggiavano spesso insieme. Walker, che era rimasta in stretti contatti con Epstein, lo presentò a Nikolic, e i due uomini divennero amici. Epstein e Gates si incontrarono per la prima volta faccia a faccia la sera del 31 gennaio 2011, nell' elegante casa newyorchese di Epstein nell' Upper East Side. Si unirono a loro la dottoressa Eva Andersson-Dubin, un' ex Miss Svezia con cui Epstein una volta aveva avuto una relazione, e la sua figlia quindicenne. L' incontro iniziò alle 8 e durò diverse ore secondo Arnold. Poco tempo dopo, Gates incontrò di nuovo Epstein a una conferenza Ted a Long Beach, in California, dove alcuni partecipanti videro i due uomini conversare. Più tardi, il 3 maggio del 2011, Gates visitò Epstein nella sua villa di New York, secondo alcune email e una foto che il New York Times ha visionato. Un fondo di beneficenza In quel periodo, la fondazione dei Gates e JPMorgan lavoravano insieme per creare il Global Health Investment Fund (Fondo di investimento mondiale per la salute). Epstein voleva essere coinvolto nelle discussioni. Il suo progetto era creare un fondo con il denaro della Fondazione Gates, donazioni fra i suoi amici ricchi e fra i clienti più facoltosi della JPMorgan. In una proposta di 4 pagine, sembrava suggerire che lo 0,3 per cento di tutto il denaro che sarebbe riuscito a raccogliere avrebbe dovuto essere versato a lui come compenso. Arnold ha detto che Bill Gates non era consapevoli che Epstein fosse a caccia di commissioni. Volando in Florida Gates ed Epstein continuavano a cercarsi. Nel marzo del 2013 il fondatore di Microsoft volò sull' aeroplano Gulfstream di Epstein dall' aeroporto di Teterboro, nel New Jersey, a Palm Beach, in Florida, secondo un registro di volo. Sei mesi più tardi, Nikolic e Gates erano a New York per un incontro legato alla Schrödinger, una società di software farmaceutico su cui Gates aveva fatto un grosso investimento. In quel viaggio, Epstein e Gates si incontrarono a cena e discussero della Fondazione Gates e di filantropia. Poco tempo dopo, i rapporti fra Epstein e Gates si raffreddarono. Il fondo di beneficenza discusso con la Fondazione non si materializzò. Alla fine del 2014 Epstein si lamentava con un conoscente che Gates aveva smesso di parlargli. «Gates e i suoi collaboratori si sono resi conto che le idee di Epstein non erano legittime e ogni contatto con lui è stato interrotto», ha detto Arnold.

·         Piero Tosi. È morto il costumista premio Oscar.

È morto il costumista Piero Tosi: lavorò con Visconti, disse no a Kubrick e vinse l’Oscar. Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 su Corriere.it. È morto a Roma il costumista e premio Oscar alla carriera 2013 Piero Tosi. Aveva 92 anni. Nato a Sesto Fiorentino (Firenze) il 10 aprile 1927, Tosi è stato lo storico costumista di Luchino Visconti con cui collaborò, tra i tanti film, per Senso, Rocco e i suoi fratelli, Le notti bianche, Il gattopardo, Morte a Venezia... Se quello con Visconti fu il sodalizio più stretto, Tosi lavorò anche con tanti altri grandi registi, da Vittorio De Sica a Federico Fellini, da Mauro Bolognini a Liliana Cavani, da Pier Paolo Pasolini a Franco Zeffirelli. E proprio a Zeffirelli, lui stesso raccontava che doveva tutto: «È la persona che mi ha “inventato”. Lo conobbi a Firenze, io ero all’Istituto d’Arte e lui alla facoltà d’Architettura. Vidi una foto di La terra trema, era un’immagine talmente insolita. E mi feci accompagnare da mia zia alla Mostra di Venezia, dov’era il film. Cercai Franco. Iniziò tutto da lì: 1948. Debuttai con Bellissima, ho condiviso ventotto anni di lavoro con Visconti, mica uno scherzo». Il primo incontro con Visconti non si scorda mai: «Non voleva costumi ma vestiti “rubati”, presi dalla realtà, dalla strada. Mi chiese l’età, 22 anni… hai tanto tempo davanti a te. Mi mancò il respiro. Al di là del terrore che mi incuteva Luchino, il lavoro non era difficile, una sorta di trovarobato che poi mi servì per capire la verità di un abito e la necessità che il costume non vesta il corpo, ma ci si adatti come una seconda pelle. Ho sempre vissuto di dubbi, aspettando fino all’ultimo che accadesse qualcosa. Ho aspettato il miracolo. Io sono sempre stato nel buio, un minatore nella cava che piccona e prima o poi troverà la pepita. Non ho mai saputo dire davanti a un bozzetto: Ecco, è meraviglioso, è perfetto. No, lo accantono e poi mi ributto a disegnare». Così raccontava il suo Oscar: «Sarei un disgraziato se dicessi che non mi fa piacere. Ma non sarei andato neanche quarant’anni fa a ritirarlo, non amo viaggiare, ho fatto una sola vacanza, negli Anni 60, a parte gli spostamenti per lavoro. Ho il terrore dell’aereo, e detesto muovermi dal mio covo». Un gatto pigro, famoso anche per i suoi no: «Per La mia Africa c’era il lungo viaggio. Kubrick per Barry Lyndon disse che era abituato ad avere il meglio del mondo pagando il minimo: fui contento di vedere un tale capolavoro senza faticare. Con Bergman ci siamo sfiorati per tre volte: una Vedova allegra che poi saltò con Barbra Streisand. Poi Ingmar venne a Cinecittà, dove stavo lavorando con Fellini, il quale per tutto il tempo parlò di Kubrick ignorando Bergman. Finì nel gelo. Poi il terzo rifiuto».

È morto Piero Tosi, l'artista che vestì il grande cinema italiano. Il costumista aveva 92 anni. Lavorò con Visconti, De Sica, Fellini, Pasolini, Zeffirelli, Cavani. Premiato con l'Oscar alla carriera nel 2014, ritirato per lui da Claudia Cardinale. Leonetta Bentivoglio il 10 agosto 2019 su La Repubblica. Molti dei nostri sogni cinematografici non sarebbero esistiti senza la genialità del costumista Piero Tosi, capofila inarrivabile nel proprio campo, nato nel 1927 a Sesto Fiorentino e morto oggi a Roma dopo una vita colma di successi e scoperte. Il magnetismo sadomaso di Charlotte Rampling, coi seni enfatizzati dalle bretelle poste a X sul torso nudo, nel Portiere di notte di Liliana Cavani; il tailleur stropicciato di Anna Magnani in Bellissima, con la sua patina quasi tangibile di verità; la luce di Claudia Cardinale ridondante di bianco, come un giglio sinuoso e pronto a sbocciare, nel Gattopardo; il frac scelto per il fisico tarchiato di Paolo Stoppa nello stesso film, dall'esito graffiante ed esilarante; le figure inquadrate da Luchino Visconti, capaci di stagliarsi in relazione agli sfondi dei paesaggi e degli ambienti con rara sintonia; le citazioni "rubate" ai Macchiaioli, a Monet, a Fattori e a Boldini che testimoniavano l'enorme sapienza pittorica del costumista; il trucco carico e morboso di Dirk Bogarde in Morte a Venezia, insieme alla foggia leonardesca del copricapo di Tadzio, figlio di una Silvana Mangano d'onirica eleganza. Sono solo alcuni tra i frammenti di un patrimonio che deve la sua genesi all'estro e alle ricerche rigorose (e mai bacchettone) di "Pierino" Tosi, esteta originale e vitale. Forse meglio di chiunque altro, nel cinema del Novecento, Tosi ha sancito il rinnovamento del costume, traducendolo in chiave del personaggio: più che contenitore o decorazione, l'abito in lui diventa specchio, sottolineatura e complemento di un carattere. Aveva studiato a Firenze, e tra i suoi insegnanti all'Accademia delle Belle Arti c'era stato Ottone Rosai. Quando da bambino imparava il mestiere a bottega dal padre, che lavorava il ferro, leggeva di nascosto i testi di Shakespeare e già si disegnava in mente i futuri costumi. Grazie all'introduzione dell'amicoFranco Zeffirelli, venne preso giovanissimo da Visconti come assistente alla regia di uno spettacolo del Maggio Musicale Fiorentino, e dopo un periodo di apprendistato teatrale si lanciò nel cinema dedicandosi, nella prima fase, soprattutto ai film di Luchino. Tra i due si stabilì un'intesa artistica durata un quarto di secolo che diede grandi risultati. Condividevano il gusto del dettaglio e quella misteriosa ossessività che poteva condurre il maniacale Pierino a mettersi a dormire con pezzi di tessuti per "ascoltarli" di notte, prima di decidere la stoffa con cui plasmare un costume. Collaborò anche con Camerini, Monicelli, Bolognini (col quale dichiarava di avere una speciale sintonia) e De Sica: in Matrimonio all'italiana esaltò trionfalmente l'appeal di Sophia Loren. Valorizzava e comprendeva le donne, e sul set della Medea di Pasolini ebbe un ottimo rapporto con Maria Callas, di cui colse la statura di eroina tragica. Durante il suo fertile itinerario creativo venne inondato da omaggi e riconoscimenti, tra cui cinque nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2014, che fu ritirato a Los Angeles in sua vece da Claudia Cardinale: d'indole riservata e ipersensibile, Tosi odiava prendere l'aereo e si definiva un pigro che preferiva di gran lunga la vita al lavoro. Temuto e adorato, era ben protetto dallo scudo dell'aura mitica formatasi attorno al suo carisma. Difficile terrorizzare Fellini, eppure nessuno spaventava Federico più di Tosi, che dal regista riminese si faceva inseguire come una sirena affondata negli oceani della propria irraggiungibilità. Poteva non rispondere alle sue telefonate per settimane e spesso accampò pretesti per negarsi ai suoi ingaggi: di Fellini lo inquietavano la visceralità e i molti tentennamenti ("sono anch'io un cacadubbi, e due indecisi insieme fanno disastri"). La sua filmografia riflette un'epoca di fervore e incanti del cinema italiano, ed è stato prezioso il suo contributo come docente presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. I tesori dei suoi costumi sono custoditi dalla celebre Sartoria di Umberto Tirelli (che fu un altro complice decisivo del suo viaggio), poi passata alla guida di Dino Trappetti. Tutti i massimi costumisti degli ultimi decenni, da Milena Canonero a Gabriella Pescucci, da Maurizio Millenottia Quirino Conti, si reputano figli, eredi o debitori di Tosi.   

BIOGRAFIA DI PIERO TOSI. Da cinquantamila.it  di Giorgio Dell’Arti. PIERO TOSI

• Firenze 10 aprile 1927. Costumista. Cinque nomination all’Oscar: Il gattopardo (1964, regia di Luchino Visconti, premiato col Nastro d’argento), Morte a Venezia (Visconti 1972, Nastro), Ludwig (Visconti 1974), Il vizietto (Edouard Molinaro 1978), La traviata (Zeffirelli 1983, Nastro). Due David di Donatello: La storia vera della signora delle Camelie (Bolognini 1981), Storia di una capinera (Zeffirelli 1993, anche Nastro). Altri Nastri d’argento: Policarpo ufficiale di scrittura (Soldati 1960), La viaccia (Bolognini 1962), Senilità (Bolognini 1963), Malizia(Samperi 1974). Nel 2007 riconoscimento speciale alla carriera nell’ambito del premio Cinecittà Holding 2007 “Un compleanno per il cinema”, nato per festeggiare i 70 anni di Cinecittà. Nell’estate 2013 ha curato, convinto da Carla Fendi, i costumi del Matrimonio segreto di Cimarosa (regia di Quirino Conti) al festival di Spoleto. Nel 2014 premiato con l’Oscar alla carriera, il primo assegnato ad un costumista, non va ritirarlo. «Sarei un disgraziato se dicessi che non mi fa piacere. Ma non sarei andato neanche quarant’anni fa, non amo viaggiare, ho fatto una sola vacanza, negli Anni 60, a parte gli spostamenti per lavoro. Ho il terrore dell’aereo, e detesto muovermi dal mio covo» (a Valerio Cappelli). «Il suo “covo” sono due stanze vicino al Pantheon in cui vive in modo frugale: “Non ho mai voluto né una casa né oggetti, è arredata da mobili di scarto di amici e parenti. Ho lo stretto necessario. Nel frigo, che è sempre vuoto, tengo i colori. Per il resto, libri ovunque» (Valerio Cappelli). «L’ultimo film nel ’93, La Traviata, e poi una consulenza a Gianni Amelio per Le chiavi di casa. “Intorno mi sono spariti tutti, i miei registi, i miei amici, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni. Non ci sono più Bolognini e Tirelli, con loro ho diviso la casa quando sono venuto a Roma. È scomparso un mondo che era il mio, gli anni Cinquanta, vitali, rampanti, effervescenti. Ognuno ha il suo tempo, è finito il tempo del twist, l’ultimo ballo che ho ballato. E il cinema come lo facevo io oggi è démodé”» (Maria Pia Fusco). «I segni del tempo ci sono, cammina a fatica, accudito da un paio di giovani che si alternano, occhiali scuri proteggono gli occhi indeboliti, ha bisogno di pause per riprendere fiato, ma i lineamenti del volto incorniciato d’argento restano nobili, belli, la memoria è lucida, la mente brillante. E se ha bisogno di energia la recupera miracolosamente, lo sanno bene gli allievi del Centro Sperimentale dove insegna» (Maria Pia Fusco).

• La noia la sconfigge anche continuando a frequentare la gloriosa Sartoria Tirelli. È lì che i suoi disegni sono diventati abiti, costumi, ornamenti. Aspirante pittore, allievo di Ottone Rosai, cerca le radici della passione per lo spettacolo ripensando a quand’era bambino: “Il cinema era un lusso proibito. Durante la guerra fummo sfollati in campagna, prendevo il tram per andare a scuola a Firenze. Nel tratto a piedi che facevo al ritorno da scuola un giorno vidi per terra una striscetta lucida. La raccolsi, era un frammento di pellicola e guardandola attraverso la luce ci vidi ombre strane, misteriose, qualcosa di magico. Solo dopo ho ricostruito: qualche mese prima avevano girato in quella zona un film con Miriam di San Servolo. Quel frammento mi ossessionò a lungo”» (Maria Pia Fusco).

• «Da ragazzo era talmente magro che Anna Magnani, sul set di Bellissima, lo chiamava “San Luigi, il segaiolo”. Che avrebbe fatto il costumista scenografo l’ha sempre saputo, tant’è che abbandonò Firenze per muovere alla conquista di Cinecittà. Non fece né anticamera, né gavetta. Ad attenderlo c’era Luchino Visconti. Il maestro intuì subito che quel giovanotto timido e schivo avrebbe potuto dare forma e colore alle sue visioni. Tosi sapeva muoversi con strabiliante sensibilità in ambiti ed ambienti diversi, in epoche ed epopee differenti. Che fosse l’Italia con le pezze al sedere di Bellissima, la Berlino nazista della Caduta degli dei, o l’agonizzante Palermo del Gattopardo. “Luchino era un uomo di grande rigore e determinazione. Aveva una sicurezza nel lavoro che gli derivava dalla limpidezza del suo pensiero. Poteva difendere la scelta di un colore fino allo stremo. Guai a disubbidirgli. Un’unica volta ho fatto di testa mia. Lavoravamo all’Innocente. La polemica si accese su un tailleur di Laura Antonelli che D’Annunzio descriveva di vigogna. Per Visconti doveva essere beige; io lo vedevo grigio. Discutemmo a lungo e alla fine seguii il mio istinto. Quando la Antonelli si presentò sul set in grigio, Luchino non fece una piega: girò intrattenendosi amabilmente con Burt Lancaster e Silvana Mangano, in visita sul set. Pensai di averla fatta franca, ma, tornato a casa, ricevetti una lettera dove garbatamente mi confessava che, per la prima volta in venticinque anni, l’avevo deluso. Qualche settimana dopo morì”» (Brunella Schisa).

• «Io, poi, sono un "cacadubbi". Ci sono artisti che hanno solo certezze e Visconti era uno di questi. Fellini invece era cinque ‘cacadubbi’. Ogni costume era tormenti infiniti, per me. La scelta del materiale, per esempio, per un costume è tutto. Io i pezzetti di stoffa me li portavo a letto e passavo la notte toccarli e ritoccarli per capire se andavano bene. Non le dico quando poi l’attrice doveva indossare il vestito che mi era costato sofferenze... Un costume deve dare il quid del personaggio».

• «Quando penso in quali condizioni eravamo costretti a lavorare, dico ai miei studenti: ringraziate il cielo che avete a disposizione tanti libri fotografici e materiale iconografico. Io, ai miei tempi, non sapevo dove sbattere la testa. Ricordo che nel 1954, fui incaricato dei costumi per lo Zio Vania di Luchino Visconti, ero disperato. Non esistevano documenti né fotografie della Russia di fine Ottocento. Fortunatamente Roma era ancora piena di esuli della Rivoluzione d’ottobre e saccheggiai i loro album di famiglia».

• Lo definiscono come un gatto pigro: «Appena sento che mi si prende per la coda, scappo. Un tempo pagavano meglio di oggi, ma ricordo che quando dovevo firmare un contratto mi chiedevo, chissà cosa vorranno questi da me? E poi il terrore di essere perseguitato dai registi la notte» (Valerio Cappelli).

• I suoi no famosi: «Per La mia Africa c’era il lungo viaggio. Kubrick per Barry Lyndon disse che era abituato ad avere il meglio del mondo pagando il minimo: fui contento di vedere un tale capolavoro senza faticare. Con Bergman ci siamo sfiorati per tre volte: una Vedova allegra che poi saltò con Barbra Streisand. Poi Ingmar venne a Cinecittà, dove stavo lavorando con Fellini, il quale per tutto il tempo parlò di Kubrick ignorando Bergman. Finì nel gelo. Poi il terzo rifiuto» (Valerio Cappelli).

«Ho sempre lasciato spazio. Anche ai giovani. Mi son sempre detto che bisogna avere buoni rapporti con tutti. Se no, sai quante vipere avrei avuto addosso».

Quirino Conti per Dagospia l'11 agosto 2019. Quando insieme a Natalia Aspesi ci capitava di essere a Roma, avevamo preso l’abitudine di incontrarci per cena con Carla Fendi; che, orgogliosissima della sua città, ce ne svelava ogni perfezione e qualsiasi segreto. Tra questi, tra amici che sceglieva "pour faire beau le paysage", il più prezioso, il Magnifico, era Piero Tosi. Da lei richiesto come la meraviglia delle meraviglie: come un dono sempre atteso e mai deludente. Incontrai e conobbi Piero Tosi dentro una foggia elegante e austera: camicia grigia, cravatta monocroma e in tono, abito del medesimo colore. Ma, da subito, di altro tono si rivelò la sua conversazione, che pungolata e stimolata dai presenti-complici lasciava noi – nuovi a quel cenacolo – incantati. Con la naturalezza del conoscitore narrava infatti volentieri non solo dei suoi esordi professionali nel teatro e nel cinema, ma anche degli studi e della giovinezza a Firenze, in piena guerra; e di amici e maestri straordinari: da Palazzeschi e Rosai a un singolarissimo antiquario che si spostava solo su un carrozzino tirato da un pony scampanellante; fino agli "americani", presenza salvatrice in quella città semi-distrutta. Raccontava che da ragazzo (poco più che un bambino) aveva persino lavorato accanto a loro in un ospedale militare fiorentino. E il suo racconto era sempre tra l'estasi di quel che vedeva e si incideva in lui – come ogni cosa – lasciando stigmate e ferite d'incanto; e caratteri e notazioni sociologiche assieme ad appunti più spregiudicati e arditi. Costantemente immersi in un'anomala sensibilità già da allora totalmente definita. Era difficile, a quel punto, distinguere in lui il semiologo dal geniale costruttore di immagini. Lui che le leggende vogliono si attardasse per giorni attorno a una piega ma che poi, con la medesima precisione, concludeva le sue riflessioni affermando che il cinema non è altro che un grande oblò: dal quale si affacciano un volto e uno sguardo. Nient'altro. In tal modo andavo scoprendo in lui una profonda consonanza con chi afferma che ogni epoca ha certo un abito, una forma, ma soprattutto un "volto", una fisionomia vincitrice; e dunque che gli abiti, seppure graziati dalla filologia e da quella poeticità che solo Piero sapeva misteriosamente imporre, in realtà avrebbero sempre dovuto cedere il passo a una “testa acconciata" e conformata a una “fisionomia interiore" che era solo di quel Tempo e non di un altro. E poi i racconti su Silvana Mangano: che al Lido, mentre si girava Morte a Venezia, nella stanza d’albergo dove le stava costruendo addosso la madre di Tadzio, per un attimo vide come svanire davanti propri occhi, per poi ricomporsi nell’ovale di uno specchio in quell’aristocratica polacca. E su Anna Magnani, Alida Valli, Sophia Loren, Claudia Cardinale; e su quanti altri – un’infinità – sotto il suo sguardo magistrale aveva avviato verso un’anima e un’identità diverse. Uscendo da quelle serate con la prospettiva di un rapido rientro a Milano, ci sentivamo condannati a un esilio: dove, in altre serate nelle quali costituire adepti e neofiti, potevamo solo perpetuare il culto di Piero Tosi. Un culto sofisticato ma anche umanissimo: per come Piero – lo scoprimmo con il tempo – si concedeva e si concede agli affetti; e per come li coltiva fino all’immolazione di sé, si direbbe. Tanto che, non di rado, divenne vittima di una voce a lui ben nota: quella di una distinta signora – in realtà un uomo – che dai Castelli Romani lo raggiungeva per farsi narrare ancora una volta qualcosa dell’amata Maria Callas. E lui, tollerante e paziente, scendeva nell’androne di casa per concedersi ancora una volta a quel bizzarro rito: nato chissà dove e come in una simile e curiosissima mania. Ho avuto la fortuna di lavorare con Piero in poche ma felicissime occasioni, tutte indimenticabili e tutte a Spoleto. La prima, per vestire Peppe Barra in un Théâtre minute che lo vedeva rinato come un Gilles di Watteau; quindi, impegnati con le voci bianche della Cappella Sistina, per farle divenire angeliche creature di un teatro seicentesco. Nella stessa occasione vestì tre gemelli identici: diciassettenni, cubani e danzatori classici; ne fece tre figure canoviane. Ma il suo capolavoro, forse perché l’ultimo nel tempo, e il primo riguardante un certo Settecento (lo aveva già affrontato altre volte, ma non in quella maniera), fu per Il matrimonio segreto di Cimarosa. Cosa ricordo? Un naufragio di rose albicocca nel più confortevole e rassicurante dei porti. Come volare sorretti da tenaci ali d'aquila. Senza un dubbio, un timore, un’ansietà. Perché, in modo che nulla trasparisse, il titanico Piero Tosi ogni cosa aveva caricato su di sé; rendendo a tutti la navigazione più leggera e sicura. Pochi sanno quanto colto e sofisticato fosse all’inizio il mestiere del cinema; ma per Piero fu davvero una storia di predestinazione: amico di letterati, pittori, architetti, musicisti, poeti, antiquari, insieme a ogni genere di creatura la più umile e semplice fosse stato nelle condizioni di raggiungere con la sua tenerezza, la sua bontà ma anche la sua inestinguibile curiosità. Un ultimo ricordo: in una trasferta collettiva a Salerno per un Nabucco, Carla Fendi volle invitarci a visitare la Certosa di Padula. Feci l’impossibile per guadagnarmi un posto accanto a Piero. Ne fui ricompensato: giacché per tutto il viaggio, applicandosi sulla mia spalla che gli era prossima, mi spiegò filologie e metafore di ogni evoluzione che quel giromanica aveva subìto tra Sette e Ottocento; con scarti e modifiche anche solo di qualche anno, neppure di decenni. Ma questo era il Piero che poi si stupiva del fatto che tra Balenciaga e Givenchy fosse nata un’amicizia di stima proprio perché, tra loro – come novelli Foucault – quegli argomenti erano divenuti sostanza di incendiari dibattiti e confronti all’ultimo sangue. Quando poi le stelle divennero l’unico lume al nostro rientro in albergo, chiesi a Piero – legati com’eravamo entrambi al racconto di Proust sul bordello di Jupien sotto i bombardamenti – se a Roma si fossero vissute esperienze del genere. Naturalmente la sua documentazione si dimostrò vastissima: mi narrò di Firenze e non solo di Roma. Sorridendo e ridacchiando su notazioni e dettagli esilaranti. Non avevamo fatto i conti però con un baldanzoso signore suo amico, ancora biondo e bellissimo, che da dietro, ascoltandoci, ci rimproverò: “Sempre con questi argomenti in bocca!”. Allora Piero, rivolgendosi a me con il tono mesto e pacato di un confessore francese seicentesco: “Vedi, è sempre così: con il tempo, i ragazzi di vita divengono bigotti!”. Rivelando in sé Balzac, Proust, Colette, Pasolini e tutta quella mole di letteratura che conosceva e ricordava come letture di ogni giorno. Perché Piero era un filosofo, un moralista, e dunque anche un letterato. Che per pura bizzarria del destino e per rallegrare l'umanità (forse anche gli dèi) ha intrapreso il mestiere del cinema. Ma per me, oltre che l'autore delle immagini più belle che abbia mai visto sullo schermo, un paziente, tenero e sensibile confidente.

Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per "il Fatto Quotidiano" marzo 2015. Le bretelle di Charlotte Rampling ne Il portiere di notte. La coppola di Alain Delon, il Rocco che esplora con i suoi fratelli la notte milanese del 1960. L’abito di Claudia Cardinale pronta al gran ballo nella società dei gattopardi siciliani. Tomasi di Lampedusa l’aveva immaginata in rosa e Piero Tosi, fiorentino di retroguardia prossimo al genetliaco numero ottantotto, trasformò per sempre colore del vestito e immaginario collettivo. Il bianco è una tinta che gli rassomiglia. Erano bianche le notti con Fellini: “Quando a Fregene mi rimboccava le coperte dandomi il bacio della buonanotte e si svegliava all’alba, scalpicciando nel giardino alla ricerca di un’idea fin dalle 5 del mattino”. Bianche le ville venete “incontrate ai tempi di Senso, quando viaggiare era un lusso e affrontai sul campo la mia educazione sentimentale alla bellezza”. Bianchi, per raggiunta lietezza interiore, consuntivi e prospettive: “Guardandomi indietro penso che ho firmato qualche schifezza e che qualcosa avrei potuto sicuramente fare meglio. Ma non ho rimpianti e se ci penso bene, da irredimibile pigro, ho avuto molto e mi stupisco d’esser ancora in piedi. Il mio sogno sarebbe stato riposare da mattina a sera. Non ho mai voluto lavorare e se escludo l’entusiasmo degli inizi, il resto ha rappresentato uno sforzo sovrumano. La passione viscerale per il cinema durò 5, forse 6 anni. Poi il sentimento verso il set svanì e nacque l’amore pazzo per la vita. Roma era straordinaria. Offriva mille e un’occasione. Gioie, incontri, meraviglie. Ci si distraeva spesso e volentieri. Quando qualcuno mi assoldava, maledivo il cielo. "È finita, è finita la mia libertà" pensavo. Firmavo con l’animo del condannato. Il contratto era un capestro. Una limitazione della libertà. Il primo mese, soprattutto, era durissimo. Lottavo con me stesso e con il mio rifiuto, impiegavo energie per abituarmi all’idea, soffrivo fisicamente”. Dopo 5 candidature all’Oscar, una recente statuetta hollywoodiana alla carriera, un imprecisato numero di David di Donatello e Nastri d’Argento in bacheca e una filmografia che lo ha visto collaborare con Visconti, Bolognini, Monicelli, Fellini e Pasolini, Piero Tosi è tornato al suo diletto. Accompagna i ricordi: “Un’era passata di delizia e fervore” con onomatopeici sussulti emotivi. “Ooohhh”. “Eeehhh”. Fonemi con cui conferma e puntella un discorso, per affermare con più forza che il passato non tornerà. Attraversa il paradosso di un tempo che non gli piace: “Oggi a Roma non c’è niente e ai giovani si può augurare soltanto l’impiego costante che gli veli e gli nasconda la modestia della realtà contemporanea”. Cresce allievi al Centro Sperimentale di Cinematografia: “Da docente ho scoperto una felicità mai provata nel mio lavoro di costumista. A insegnare si impara, anche fosse soltanto per una sola persona”. Guarda alle stagioni con il disincanto di chi, da neorealista onorario, si è saputo accontentare di un fornello da campeggio nell’angolo e due stanze modeste, mentre i colleghi costringevano allo straordinario l’agente immobiliare di turno: “Non ho mai avuto bisogno di nient’altro e quando vedevo case come quella del mio amico Zeffirelli, impallidivo. "Che ci farà con tutto questo spazio?" mi chiedevo?”.

Cos’altro si chiedeva da ragazzo?

«Come avrei fatto a sopravvivere. I soldi erano pochi e pur non andando molto in sala, dal cinema ero affascinato. Roma e Cinecittà erano luoghi mitologici. Posti che a un ragazzo senza arte né parte di Sesto Fiorentino, erano preclusi».

Come arrivò a Cinecittà?

«Per una coincidenza benedetta. Franco Zeffirelli, che era stato con me all’Accademia, mi segnalò a Visconti. Luchino era arrivato al Maggio Musicale Fiorentino con uno spettacolo. Io riuscii a ottenere un ruoletto periferico nel suo allestimento di Troilo e Clessidra. Ero il quarto assistente alla regia. Sarebbe potuto finire tutto lì e chissà che mestiere sarei finito a fare, ma mi impegnai ed ebbi fortuna».

Che tipo di fortuna?

«In primis, l’amicizia di Zeffirelli. Franco convinse Visconti a farmi fare alcune ricerche su Cronache di poveri amanti. Il film lo girò poi Lizzani, ma io rimasi in contatto con Luchino su un altro progetto che non realizzò, La carrozza del santissimo sacramento, pensato per la Magnani. Al terzo tentativo, ancora con Anna come protagonista, arrivò Bellissima».

Attualissimo capolavoro viscontiano ebbro di crudeltà e cinismo.

«Visconti si fidò. Una pura scommessa. Ero inesperto. Facevo il galoppino. Cercavo gli abiti per strada perché Anna Magnani, da popolana, doveva indossare i vestiti della vita reale. Meglio se già usati. Lisi. Sgualciti. ‘Tutto deve essere vero’, diceva Luchino. Fu una prova impegnativa, ma aveva ragione».

Accadeva spesso?

«Visconti non covava dubbi. Aveva solo certezze. Era un condottiero medievale. Grande amore per il proprio lavoro ed estremo rigore nei confronti di se stesso. Rigore, neanche a dirlo, preteso anche dagli altri. Gente che dalla bottega rinascimentale di Luchino si sentiva protetta e ripagata. Visconti è l’unico maestro della sua generazione ad aver inventato registi, scenografi, costumisti. Francesco Rosi, Zeffirelli, Garbuglia, Scarfiotti. Ne ometto tanti altri».

Giurano che Visconti fosse maniacale nella cura del particolare.

«L’ho visto tirare fuori le fotografie delle vacanze di famiglia al Lido in occasione di Morte a Venezia e divertirsi, esagerando forse, a riempire di polvere il cast di chi ne Il Gattopardo saliva in carrozza perché diceva Luchino: ‘Tutte le volte che ci andavo a Cernobbio, scendevo dal cocchio con le labbra arse, i vestiti color farina e gli occhi che erano due buchi neri’. Luchino era appassionato. Ma la passione è diversa dal puntiglio».

Visconti è stato raccontato male?

«Su Luchino c’è stata molta cattiva letteratura. Molte leggende. Aneddoti irritanti, venati da una luce stupida. Molte bugie create ad arte. Alcune balle assolute. Ho letto che esigeva che le camicie avessero le cifre e fossero tutte di pura seta. Basta vedere certi colli inamidati per capire la demenzialità di certe osservazioni. Ma la calunnia è un venticello e quando i costi lievitavano, i cinematografari spandevano tempesta».

Lei di produttori ne ha conosciuti tanti.

«Alcuni straordinari. Era un’epoca aurea in cui registi di grande talento avevano la fortuna di un contraltare coraggioso. Per produrre 8 ½ , Il Gattopardo e La Dolce Vita, ci voleva fegato. La storia di Peppino Amato la conoscevamo tutti».

Quale storia in particolare dello storico produttore napoletano?

«Peppino Amato entrò nell’ufficio di Angelo Rizzoli con un malloppo di fogli in mano: ‘Ho qui una sceneggiatura schifosa, ma talmente schifosa che bisogna farla per forza’. La Dolce Vita nacque così. Da un copione passato di ufficio in ufficio, regolarmente scartato. Una cosa pazzesca. La follia di un momento eccezionale. Amato era molto simpatico, incuriosiva al solo vederlo, sapeva affascinare, aveva uno slang tutto suo. Flaiano gli aveva attribuito alcune frasi storiche: “Su La Dolce vita c’è un’attesa sporadica” o anche “Al ricevimento non sono entrato, mi sono fermato sulla sogliola”. Chissà se poi le aveva dette veramente».

Lei lavorò anche con Rizzoli.

«Facendo anche dei film schifosetti. In Vacanze a Ischia di Camerini, la preoccupazione principale era valorizzare l’albergo Regina Isabella in ogni sua foggia».

In quel film recitò anche De Sica. Siete stati amici?

«Ooohhhh, passare le giornate con De Sica era una gioia incredibile. Vittorio era un genio. Un uomo meraviglioso. Non mi ha mai chiesto niente, si fidava. Per lui contavano i tempi. Sul set di un suo film, un brutto film a dire il vero, Caccia alla volpe, si sdoppiava nella doppia veste di regista e attore. Appena finiva una scena, chiedeva subito lumi: ‘Quanto è durata?’. Un assistente con un enorme cronometro rispondeva: "18 secondi". "Deve durare di meno, ne giriamo un’altra". E un’altra ne giravamo. Senza respiro.

Con De Sica le capitò di dividere più di un’avventura.

«Facemmo Ieri, oggi e domani e soprattutto Matrimonio all’Italiana. La Filumena di Sophia Loren è la migliore di sempre. Migliore anche di quella di Eduardo con Titina perché Sophia interpreta la prostituta con più credibilità. Nel film di De Sica ci sono scene di rara bellezza. Sophia era bravissima. Le davi un input e iniziava a suonare, come un carillon. Non ho mai litigato con lei né con gli altri attori incontrati nel cammino. Quando lavori con registi autoritari e autorevoli, l’attore diventa docile. Si abbandona. Anche in quell’occasione usammo roba vecchia riadattata all’uso. Vesti datate che a partire dall’abito delle nozze, cadevano perfettamente sul corpo e restituivano un vissuto. Una storia pregressa».

Per un altro abito bianco indossato da una popolana, Claudia Cardinale introdotta in società ne Il Gattopardo, sfiorò uno dei tanti possibili Oscar della sua vita.

«Se osservo Il Gattopardo ancora mi chiedo come ho fatto. Ero molto giovane e impreparato, fu un’impresa. Mesi di preparazione, di ritardi, di improvvisi stop. Claudia era un talento che custodiva un mistero. Era una donna mite e riservata. Quasi sotto tono. Poi sul set diventava un’altra. Non la ringrazierò mai abbastanza per essere andata a ritirare l’Oscar al mio posto».

Le ha chiesto di andare a Los Angeles in sua vece?

«Ma siete matti? Non mi sarei mai permesso. Un favore simile non l’avrei chiesto neanche con un mitra alla schiena. Sono stati gli amici: "Deve andare Claudia" hanno detto e Claudia ha deciso di sobbarcarsi santamente tutte quelle ore di volo. Io alla cerimonia non sarei andato, così come non andavo ai tempi in cui finivo in nomination arrivando persino a non rispondere alle lettere dell’Academy. Non prendo mai l’aereo, detesto i lunghi viaggi e – giuro che sono sincero – né i premi né l’apparire mi hanno mai particolarmente entusiasmato».

Ha un film a cui è più affezionato di altri?

«Forse Bubù di Mauro Bolognini, la trasposizione al cinema del Bubù de Montparnasse scritto da Charles-Louise Philippe. Mauro era rapido nel catturare le cose. Cercava invano un toscano da mesi, così per Metello gli suggerii Massimo Ranieri. Era napoletano e inesperto, ma io sentivo che poteva andar bene. Tra me e Bolognini c’era un’intesa straordinaria e facemmo insieme tantissime cose. Ma quel film apparentemente minore, Bubù, aveva una specie di coraggio visivo. Per cercare le puttane giuste, non le vamp a noi contemporanee, ma quelle che avevano ispirato gli scrittori di un altro secolo, sfogliai le foto del casino che aveva rapito Maupassant e ci ritrovai volti incredibili. Facce da criminali, donne brutte, deformi, eccessive. Bubù evadeva dalla routine, come del resto Medea».

Come fu il rapporto con Pasolini?

«Complicato. Con grandi difficoltà d’intesa, almeno all’inizio. Se con Maria Callas il rapporto era idilliaco, con Pier Paolo mancava naturalezza e facevo fatica. Con me era strano. Pur amando le arti figurative ed essendo colto e intelligente, restava diffidente. Credo temesse che precipitassi nel film l’universo zeffirelliano. Mi guardava con sospetto. Poi ci chiarimmo. Smisi di disegnare e costruii dei prototipi per mostrargli cosa avevo esattamente in testa».

Lei collaborò attivamente anche a uno dei film più misteriosi di Fellini, Satyricon.

«Satyricon era un gigantesco calderone in cui nuotavano idee, suggestioni e diffusa confusione sul da farsi. Federico aveva avuto qualche controversia con Danilo Donati impegnato altrove e mi chiese una mano: "Che ti costa? Sono solo un paio di settimanelle". La Caduta degli dei di Visconti era stato interrotto momentaneamente per mancanza di fondi e ci cascai. Le settimanelle diventarono mesi. Un lavoro enorme. Con i collaboratori storici, Fellini litigava spesso. Già una volta, ai tempi di Giulietta degli spiriti, mi convocò perché aveva rotto con Piero Gherardi, un signore che con lui aveva vinto due premi Oscar. Mi sottrassi e feci da paciere: "Ma Federico, perché mai dovresti interrompere un così proficuo scambio artistico?"».

Fellini e Visconti erano molto diversi?

«Come il giorno e la notte. Fellini era l’opposto di Visconti. Tutto era gioco, variazione sul tema, scherzo semantico e immaginifico. Sapete come chiamava Terence Stamp? Terencino francobollo. Se voleva, Federico poteva conquistare chiunque. Ma era un indeciso cronico. Aveva dubbi continui».

L’indecisione le creava problemi?

«Io ho lo stesso carattere. Ma due indecisi in una stanza fanno danni. Se c’era un’idea che nasceva in corsa, all’ultimo momento, state pur certi che Federico avrebbe comunque optato per quella. Armava preparazioni infinite, ricerche insaziabili e faceva di tutto per rimandare i suoi film. Per aspettare. Per sognarci ancora intorno. Lo vidi sostituire senza troppe spiegazioni un attore inglese di primo livello mettendo al suo posto un buttafuori del Piper, un generico dal volto romanico e dalla faccia d’avorio che si era presentato quasi per caso sul set e in pochi minuti si ritrovò gettato in scena, davanti al ciak si gira. Da Fellini non sapevi mai cosa aspettarti e la cosa mi terrorizzava».

Partecipava anche lei alle sedute di lavoro a cui Fellini sottoponeva Flaiano e gli altri collaboratori?

«Nel breve percorso da Roma a Fregene, in quei pochi chilometri di Aurelia, Federico smontava regolarmente il lavoro fatto nelle settimane precedenti. Si andava al mare di sabato e si parlava praticamente solo di lavoro. Se Giulietta Masina provava a cambiare argomento, Fellini, con garbo, la azzittiva. Federico era un regista senza paragoni, ma amava starti sulla schiena come una scimmietta per vedere cosa facevi. Era abituato a lavorare così e non sarebbe cambiato. Così, pensando che se avessimo nuovamente lavorato insieme, avrei dovuto liberarmi a ogni costo da quella pressione, quando se ne presentò l’occasione mi difesi. Mi propose una collaborazione per Casanova. Risposi che avrei voluto a disposizione uno studio dove lui sarebbe potuto venire solo a distanza di tempo. Mi diedero un villone non lontano dalla Stazione Termini. Tre porte, due grandi finestre, lo spazio giusto. Una delle porte era sempre chiusa. Domandai invano per quale motivo, ma ricevetti risposte elusive. Dopo un paio di settimane capii. La porta si aprì ed uscì Federico. Si poggiò sulla mia schiena: "Allora? A che punto siamo?". Alzai gli occhi e vidi che fuori dalla finestra, i germogli di lillà erano in fiore. Era primavera: "Fuori c’è la vita e io dovrei passare due anni così?". Scappai».

Tra una lezione al Centro Sperimentale e una rara collaborazione teatrale, lei ha diradato molto i suoi impegni.

«L’età è quel che è e l’industria del cinema italiano di un tempo è svanita. Sono stato assai contento di lavorare con Quirino Conti, uomo fine, colto e intelligente, per Il Matrimonio segreto a Spoleto. Al Festival dei due Mondi, fin da un lontano Macbeth messo in scena da Visconti nel 1958, sono stato sempre legato. Di quello spettacolo diede un’acuta lettura Alberto Arbasino. Gli sono sempre stato grato. Capì e non era affatto scontato. Non sono felice di tutti i miei lavori, ho le mie schifezzuole nell’armadio anch’io, ma so anche che quel Macbeth valeva».

Tramontata l’epoca di Menotti, è cambiato anche il Festival di Spoleto.

«Spoleto è bellissima e lo spettacolo delle dame romane in gita, con gli abiti a palloncino a imbellettarsi eccitate all’angolo delle strade, mi è rimasto addosso. Una fotografia indelebile. Una combinazione fortunata. Certo, Spoleto è cambiata come tutto il resto. Quando passo per via Veneto, una via cadavere, mi pongo sempre la stessa domanda: "Come è nata?". E soprattutto: "Come è morta?". Non amavo la mondanità, ma la via Veneto con le ragazze seminude in piedi sulle macchine non l’ho scordata. C’era il timbro di un’epoca».

Il cinema di oggi le piace?

«Dipende. Sono andato a vedere l’acclamato Birdman e mi è parso orrendo. Un film furbo che non si fatica a capire perché abbia vinto l’Oscar. In Italia da Garrone a Sorrentino passando per Amelio, abbiamo bravissimi registi. Mi piace Francesco Munzi. Anime nere è un bellissimo film. I registi esistono, non sempre sono messi nella migliore condizione per lavorare. Manca un sistema forte. Dei ragazzi del Centro Sperimentale usciti negli ultimi vent’anni, non ce n’è uno che abbia avuto un’occasione vera. La stagnazione non è recente, parte da lontano».

Chi le manca, Tosi?

«Eeehhh, tanta gente. Se devo fare un nome dico Umberto Tirelli. Grandi litigate, stupendi viaggi al mercato delle pulci di Parigi. Chi mi ridà quegli anni? Quei momenti? Mi è rimasta solo la pigrizia. Il ricordo. E l’amata pigrizia».

C’è qualcosa che le piacerebbe raccontare ancora?

«Se mi guardo dentro non trovo niente. Non c’è nulla che mi piacerebbe davvero raccontare. Sono onesto. È terribile».

·         E’ morto Fabrizio Saccomanni, ex ministro.

E’ MORTO FABRIZIO SACCOMANNI.  ANSA l'8 agosto 2019 - Il presidente di Unicredit, Fabrizio Saccomanni è deceduto. Era nato a Roma il 22 novembre del 1942. Ministro dell'Economia nel governo di Enrico Letta, Saccomanni già direttore generale in Banca d'Italia era entrato nel board dell'istituto di credito nel novembre del 2017.

BIOGRAFIA DI FABRIZIO SACCOMANNI. Da Cinquantamila.it l'8 agosto 2019. 

Roma 22 novembre 1942. Economista. Ministro dell’Economia del governo Letta dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014. Già Direttore generale della Banca d’Italia (dall’ottobre 2006). Di lui dicevano che fosse «l’esponente più a destra della corrente di sinistra della Banca d’Italia» (Stefania Tamburello). Dal 2003 al 2006 è stato vicepresidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e prima sempre per Bankitalia è stato rappresentante della Banca d’Italia, presso il Fondo Monetario Internazionale, l’Unione Europea, la Banca dei Regolamenti Internazionali e la Bce.

Famiglia di medici, laurea alla Bocconi, in Bankitalia dal 1967 (con una breve parentesi a Londra alla vicepresidenza della Bers), fu assunto dal governatore Carli «che poi lo mandò a studiare a Princeton per “farsi i muscoli” ed è sempre rimasto in posizioni delicatissime con tutti i suoi successori. Con Carlo Azeglio Ciampi, in particolare, ha co-pilotato la lira nei giorni terribili della crisi del 1992 e, successivamente, ha condiviso la grande battaglia per entrare nell’euro, nella “serie A”, come si diceva a quel tempo. Il suo nome era anche circolato per il vertice della Bce, nel maggio del 1998, ma poi non se ne fece nulla: in quel posto andò Tommaso Padoa-Schioppa» (Elena Polidori) [Rep 28/7/2006].

«Un tecnico che sa parlare il linguaggio di tutti, con ironia quando capita, pur se, come dirigente della Banca d’Italia, di rado se lo è potuto permettere. E la grande finanza mondiale l’ha avuta sempre come controparte, l’ha frequentata tenendola a distanza: sempre incarichi pubblici durante tutta la sua carriera (...) Saccomanni è un esperto, ascoltato nel mondo, di come domare i mercati» (Stefano Lepri) [Sta 28/4/2013].

Pare che a imporlo come ministro sia stato proprio Napolitano «Secondo il presidente, il suo nome non era negoziabile perché il Paese, in un momento così difficile, ha bisogno di avere un personaggio ben conosciuto all’estero, oltre al sostegno pieno della Banca d’Italia» (Elena Polidori) [Rep 28/4/2013]. Il Presidente era pronto anche a un braccio di ferro con Berlusconi, che pochi giorni prima del giuramento del nuovo governo, in un’intervista al canale americano Fox, ha dichiarato: «Niente tecnici, Saccomanni compreso, il ministero dell’Economia dovrebbero darlo a me, ma non lo faranno».

«Romano come Draghi, gli è stato vicino nel periodo in cui entrambi lavoravano nella capitale britannica; ottimi i rapporti con Prodi. Un uomo dai nervi saldissimi, sottoposto a tensioni enormi a tutte le ore del giorno e della notte, eppure sempre gioviale e di buon umore, si diceva di Saccomanni quando come capo del servizio rapporti con l’estero sovrintendeva alla difesa del cambio della lira. Con Tommaso Padoa-Schioppa erano amici da quarant’anni, da quando erano studenti all’Università Bocconi» (Stefano Lepri).

Dall’ottobre del 2006 direttore della Banca d’Italia. Tra i suoi compiti quello delicato di sovrintendere al riordino della Banca d’Italia che prevede la chiusura di 33 filiali entro il 2011. È stato riconfermato nel luglio del 2012.

Per spiegare l’origine della crisi finanziaria disse che «affidarsi al giudizio delle agenzie di rating era come farsi consigliare dei tagli di carne dall’amico del macellaio» (Stefano Lepri) [Sta 28/4/2013].

Sposato, senza figli. «Possiede un talento unico di esprimere concetti profondi con una eloquenza italiana e con un senso dello humour britannico» (Jean-Claude Trichet, presidente della Bce): nel Novanta rispose all’Economist che aveva paragonato l’Europa del semestre di presidenza italiana a un autobus guidato dai fratelli Marx, con una lettera scritta a nome dei tre attori.

Ama il cinema, la musica classica e la cucina gourmet. Scrive poesie in dialetto romanesco e ha una passione per i sonetti del Belli (che cita a memoria). Molte pubblicazioni, tra cui il libro Tigri globali, domatori nazionali (Il Mulino 2002).

Morto Fabrizio Saccomanni,  fu ministro dell’Economia  nel governo di Enrico Letta. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Corriere.it. Gran parte della carriera professionale di Saccomanni era maturata all’interno della Banca d’Italia. Era entrato a lavorare all’istituto centrale a 25 anni, già nel 1967, dopo la laurea in Economia e Commercio all’Università Bocconi di Milano e i corsi di perfezionamento in economia monetaria e internazionale presso la Princeton University, nel New Jersey. In Banca d’Italia era arrivato fino al grado di direttore generale. La sua carriera si è sviluppata soprattutto in ambito internazionale. Tra ill 1970 e il 1973 ha svolto il ruolo di economista e assistente del direttore esecutivo per l’Italia presso il Fondo monetario a Washington. Il suo primo incarico per la Banca d’Italia fu a Milano presso l’ufficio per la vigilanza bancaria e finanziaria dal 1967 al 1970. Dopo aver ricoperto il ruolo di vicepresidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo a Londra, è stato supplente del Governatore nel Consiglio direttivo della Bce. Un grand commis al servizio dello Stato, dunque. Venne chiamato da Enrico Letta per gestire il complicato ruolo di ministro dell’economia e delle finanze nel febbraio del 2013.

Fabrizio Saccomanni, economista ed ex ministro delle Finanze, muore a 76 anni. La Repubblica l'8 Agosto 2019. Fabrizio Saccomanni, banchiere ed economista, è deceduto oggi all'età di 76 anni. Per otto anni direttore generale della Banca d'Italia, tra gli incarichi per i quali acquistò notorietà nelle cronache finanziarie e politiche si ricordano il suo ruolo di ministro dell'Economia nel governo guidato da Enrico Letta tra l'aprile del 2013 e il febbraio 2014, nonchè la nomina a presidente del consiglio di amministrazione del gruppo Unicredit, avvenuta un anno fa. Proprio ieri aveva partecipato alla conferenza stampa di presentazione dei conti semestrali della banca. Saccomanni ha avuto un malore in Sardegna, in Gallura, mentre si trovava in riva al mare non lontano dall'albergo dove proprio oggi aveva iniziato un periodo di vacanza. Secondo quanto riferito dall'agenzia Ansa, quando il personale medico del 118 è arrivato sul posto, era steso sugli scogli, già in arresto cardiaco. I medici hanno tentato a lungo le manovre di rianimazione, ma non c'è stato nulla da fare. Inutile anche l'arrivo dell'elicottero del 118. Saccomanni era nato a Roma nel novembre del 1942. Dopo la laurea in Economia conseguita all'università Bocconi di Milano e un corso di perfezionamento in Economia monetaria e internazionale a Princeton, entra a 25 anni in Banca d'Italia, dove svolge - di fatto - tutta la sua carriera professionale. Svolge ruoli di rappresentanza della banca centrale presso il Fondo monetario internazionale, la Bce, la Banca dei regolamenti (Bri) e l'Unione Europea. E' stato direttore centrale degli Affari internazionali, capo della direzione internazionale e del Servizio studi e ha fatto parte dell'Ufficio vigilanza bancaria e finanziaria. La nomina a direttore generale di via Nazionale risale al 2006, riconfermato poi sei anni dopo. In questo periodo, ricopre anche la carica di presidente dell'Ivass, l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, così come stabilito dal decreto legge emanato dal governo Monti nell'ambito delle politiche per la spending review, avendo previsto che fosse il dg di Bankitalia a guidare il nuovo istituto che ha preso il posto dell'Isvap. Nell'aprile del 2013, venne chiamata a guidare il ministero dell'Economia e delle Finanza nel dicastero guidato da Enrico Letta. La nomina a presidente del consiglio di amministrazione di Unicredit, il secondo gruppo bancario italiano, è dell'aprile dell'anno scorso. Numerose le cariche ricoperte negli ultimi anni e dove era attualmente in carica: dalla vicepresidenza dell'Abi al consiglio direttivo di Assonime, dal comitato scientifico del centro studi di Confindustria al consiglio direttivo dell'Istituto Einaudi e alla presidenza del cda dell'Associazione Orchestra filarmonica della Scala.

·         Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione sportiva.

Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione. Sono tanti, troppi, gli atleti rimasti uccisi. Su tutti i pugili. Poi ciclisti e motociclisti. Giorgio Coluccia, Mercoledì 07/08/2019, su Il Giornale. È una strage silenziosa, quella degli atleti. Di sport si muore e basta un attimo, quando meno te l'aspetti, che sia gara o allenamento. C'è solo un lungo elenco di vinti, non contano i risultati tantomeno i vincitori. Il fato prende il sopravvento, si compete su un confine così labile che può accadere a chiunque, come al ciclista belga Bjorg Lambrecht, morto lunedì al Giro di Polonia. Aveva 22 anni, pare pedalasse in gruppo a trenta all'ora e la morte era lì dietro l'angolo, nemmeno si fosse lanciato in discesa libera a Kitzbuhel o stesse effettuando un sorpasso avventato sull'asfalto di Assen. Eppure in bici si muore, i ciclisti sono nudi, si reggono su due tubolari da 22 millimetri e l'obbligatorietà del casco permanente è arrivata solo nel 2006, per provare a tamponare l'emorragia. È un'ecatombe silente, come quella dei dieci corridori belgi deceduti negli ultimi dieci anni o la nutrita lista che l'Italia continua a piangere. Dalla disgrazia di Michele Scarponi in allenamento alla discesa funesta di Fabio Casartelli al Tour, senza scordare Ravasio, Galletti, Casarotto e Fazio. La strada occulta le insidie, la velocità estende i rischi di una corsa a tutta, ma per un crudele paradosso uno spazio ristretto finisce per uccidere molto di più. Succede al chiuso, sul quadrato della nobile arte, che solo qualche giorno fa si è portata via due boxeur in un colpo solo. Prima il russo Dadashev poi l'argentino Santillan, entrambi collassati sul ring dopo i rispettivi incontri, passando dal coma alla morte per i durissimi colpi incassati. Senza fermarsi prima che fosse troppo tardi, bensì alzando bandiera bianca davanti alla vita. Il pugilato ha portato al decesso centinaia di sportivi, da quando nel 1865 furono introdotte le regole del marchese di Queensberry, genitrici della boxe moderna. Le riprese sono state ridotte da 15 a 12, ma alla storia restano mazzate fatali, con emorragie cerebrali, traumi irreversibili alla testa ed edemi al cervello. Quella delle lesioni cerebrali è una piaga con cui fa i conti anche chi pratica football americano o rugby, ma anche qui il colpo spesso sfocia in tragedia, come successo l'estate scorsa al rugbista Fajfrowski, deceduto dopo un duro placcaggio, o all'ex centro di Pittsburgh e Kansas Mike Webster, stroncato nel tempo da encefalopatia traumatica cronica proprio per lo sport a cui ha dato tutto. E poi c'è il calcio, dove si parla meno d'impatto letale perché è il cuore a tradire, a fermare la corsa di chi insegue un pallone, come il nostro Morosini e lo spagnolo Puerta, fino ai misteriosi decessi in camera da letto di Jarque e Astori. Infine la pista, dove respiri l'azzardo e corri contro il tempo per rasentare il pericolo, che ci sia asfalto bagnato o un manto di neve e ghiaccio. Oltre alle imprese, i ricordi di tutti gli appassionati sono segnati dalla sorte beffarda, come quella toccata a Leonardo David a Cortina, ad Ayrton Senna sul circuito di Imola o a Marco Simoncelli nella lontana Sepang. L'elenco è lunghissimo, lo sport proprio spietato.

·         Raffaele Pisu è morto.

E' MORTO RAFFAELE PISU. (ANSA il 31 luglio 2019) - E' morto Raffaele Pisu, popolare attore comico e personaggio televisivo. Aveva 94 anni. Nato a Bologna il 24 maggio 1925, da tempo era ricoverato nell'hospice di Castel San Pietro Terme (Bologna) per una malattia.

(Guerrino) Bologna 24 maggio 1925. Attore. Fratello dell’attore e regista Mario (1910-1976), subito dopo la guerra tra i fondatori del Teatro La Soffitta di Bologna, in seguito lavorò con Wanda Osiris e le sorelle Nava, divenne popolarissimo nel 1961 con il programma tv L’amico del giaguaro, poi, tra l’altro, Senza rete (1969). Dopo una lunghissima pausa, nell’89 e nel 1990-1991 ha condotto con Ezio Greggio Striscia la notizia. Nel 2005 vinse il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista per il ruolo ne Le conseguenze dell’amore (di Paolo Sorrentino). Visto in Delitto perfetto di Frederick Knott, «straordinaria rentrée teatrale» (Geppy Gleijeses, regista e interprete) e in Se devi dire una bugia dilla ancora più grossa (regia di Gianluca Guidi, nel 2012).

«Gliene racconto una. Carlo Conti mi chiama a I migliori anni. I suoi collaboratori chiedono: cosa vuol fare? “Beh – rispondo – io ero famoso per le mie parodie. Posso farvi quella di Maurice Chevalier”. “Chevalier? – ribattono quelli – : e chi è?”. Non ci sono più andato». Davvero? Conti ci sarà rimasto male. «Infatti m’hanno richiamato. E sa cosa m’hanno proposto? Provolino; il pupazzo-ventriloquo che facevo nel 1967, alla domenica pomeriggio. Allora ho capito: oggi sono i ricordi, a rendere felice la gente. Soprattutto ora, con la crisi, la mancanza di soldi. Nessuno è così povero da non possedere almeno un ricordo» (a Paolo Scotti) [Grn 24/12/2012].

È morto Raffaele Pisu, attore e volto di «Striscia la notizia». Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 da Corriere.it. È morto Raffaele Pisu. L’attore è morto all’ospedale di Castel San Pietro, nel Bolognese, nella notte. Aveva 94 anni e una carriera lunga 70 anni, fatta anche di interruzioni da cui però era sempre riuscito a riemergere. A ottobre avrebbe dovuto tornare sul set, per girare «Addio Ceausescu», diretto dal figlio Antonio. La sua carriera inizia con la radio, in cui subito emerge il suo lato comico. Lui e Gino Bramieri erano diventati amici e insieme erano comparsi nei «filmati» de «L’amico del giaguaro». Siam o negli anni 60. Nel 1968, all’interno della trasmissione «Ma che domenica amici» lanciò il personaggio di Provolino, un pupazzo che ebbe successo al punto da diventare anche protagonista di un disco per la RCA. Ha condotto molti programmi, soprattutto varietà, fino al 1977: lì era iniziato il suo periodo di silenzio, finito dieci anni più tardi con il ritorno alla televisione generalista. Nel 1989 è stato un volto di «Striscia la Notizia», in coppia con Ezio Greggio. Più di recente si era dedicato al teatro e alla fiction, con titoli come «Non ho l’età» (2001), «Una vita in regalo» (2003), «Ma chi l’avrebbe mai detto» (2007) e «Don Matteo 6» (2008). Al cinema aveva recitato per Sorrentino nel film «Le conseguenze dell’amore» (2004). In una recente intervista a «La nuova Sardegna», aveva ricordato la sua esperienza da partigiano: «Io ero un partigiano e nel 1943 fui arrestato dai tedeschi che mi tennero prigioniero per oltre un anno. Tornai a Bologna solo dopo la Liberazione. In un bar che frequentavo un giorno incontrai Sandro Bolchi (futuro regista dei grandi sceneggiati della Rai, da “Il mulino del Po” a “I promessi sposi”, ndr) e insieme decidemmo di fondare un teatro, “La soffitta”. A metterlo su ci aiutò l’allora sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, comunista, che ci diede un milione di lire. E così cominciammo a lavorare. Era un altro mondo...». Nel ricordare la sua altra eclissi dopo «Striscia», aveva rivelato: «Mi avevano fatto una diagnosi: hai pochi mesi di vita. Ho venduto tutto, ho preso mia moglie e mio figlio e me ne sono andato ai Caraibi. Per morire al caldo. Ma quando ero lì ho cominciato a stare meglio: la diagnosi era sbagliata. Ma a Santo Domingo sono rimasto nove anni. Fino a quando non ho deciso di tornare a Bologna». Nel 2004, la telefonata di Sorrentino. «Mi volle incontrare personalmente e mi scelse per “Le conseguenze dell’amore”. Paolo è bravissimo, un grande regista davvero. Appartiene alla schiera dei grandi artisti di una volta. È preparato, legge, studia, capisce».

Addio Raffaele Pisu, l'attore dai mille volti. E' morto a 94 anni il popolare conduttore e comico televisivo bolognese che raccontò l'Italia dal dopoguerra a oggi. Prigioniero dei nazisti, recitò nel capolavoro drammatico "Italiani brava gente" e ha fatto ridere gli italiani con il Giaguaro, Provolino e Striscia la notizia fino all'ultimo "Nobili bugie". I funerali venerdì 2 agosto alle 15.40 nella chiesa di Santo Spirito a Imola. La Repubblica il 31 luglio 2019. Si è spento nella notte all'hospice di Castel San Pietro, nel Bolognese, l'attore Raffaele Pisu. Aveva 94 anni. Nato a Bologna il 24 maggio del 1925 è stato uno dei più popolari comici e conduttori radiofonici e televisivi nell'Italia del Dopoguerra, nell'epoca del boom televisivo, partecipando a trasmissioni di grande successo nazionale degli Anni Sessanta come "L'amico del giaguaro", "Ma che domenica amici" e "Senza rete". I funerali si terranno venerdì 2 agosto nella chiesa di Santo Spirito a Imola, alle 15.40. Il feretro partirà alle 15.30 dalla camera mortuaria dell'ospedale Civile. Ex partigiano (durante la guerra venne imprigionato per 15 mesi in un campo di concentramento tedesco), fu uno dei protagonisti del capolavoro cinematografico  "Italiani brava gente" di Giuseppe De Santis, del 1965, presentato in versione restaurata all'ultima Festa del Cinema di Roma. Istrionico, sarcastico, poliedrico: poteva passare dalla recitazione di ruoli drammatici ad animare Provolino, celebre pupazzo televisivo per i bambini degli Anni Settanta. Ha vissuto almeno altre due giovinezze, in una carriera che ha conosciuto altri due picchi notevoli in successivi momenti. Nel 1989 si fece conoscere dalle nuove generazioni di telespettatori conducendo "Striscia la notizia" su Canale 5 insieme a Ezio Greggio. Al cinema - dove ha lavorato in 37 film - tornò con "Le conseguenze dell'amore" del futuro Premio Oscar Paolo Sorrentino nel  2004 mentre la sua ultima apparizione da protagonista è stata nella commedia noir "Nobili bugie" del 2018 accanto a Claudia Cardinale e Giancarlo Giannini con il figlio Antonio Pisu alla regia e il figlio naturale, scoperto solo pochi anni prima, Paolo Rossi, come produttore con la Genoma Films (nata proprio dopo questo sorprendente incontro). L'ennesimo ritorno alle luci della ribalta lo aveva visto nuovamente sotto i riflettori delle principali trasmissioni televisive negli ultimi mesi. Con questa sua nuova famiglia - che lo ha circondato d'affetto fino all'ultimo - era anche stato ricevuto nello scorso autunno dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale in udienza privata, in occasione del restauro di "Italiani brava gente". La sua città - dove fu tra i fondatori del teatro La Soffitta - lo ha celebrato nei mesi scorsi con l'onorificenza della Turrita d'oro e una retrospettiva alla Cineteca. "Grazie per avermi reso per sempre quel bambino con un sacco di avventure stupende da raccontare vissute insieme al suo papà. Quella felicità però me la ricordo ancora troppo bene e muoio dalla paura di non ritrovarla mai più. Ciao papà che il viaggio ti sia lieve". Con queste parole Antonio Pisu, regista e figlio di Raffaele, ha annunciato la morte del padre. Lo ha fatto postando sui social una foto di lui bambino insieme al padre e alla madre. "Eravamo proprio belli tutti e tre insieme. Abbiamo riso, sperato, sperperato e goduto. Insieme. Sempre", scrive. "Raffaele Pisu è stato un artista totale. Dal teatro, al cinema, alla radio e alla televisione. Un uomo che ha attraversato la storia del Novecento e i suoi aspetti più tragici con il coraggio delle sue idee", scrivono il sindaco di Bologna, Virginio Merola e l’assessore comunale, Matteo Lepore. Il Comune, alcuni mesi fa, consegnò a Pisu la Turrita d’Oro "simbolo del riconoscimento che la sua città ha avuto per lui. Il nostro più sentito cordoglio a tutti i suoi familiari". "Rendo omaggio all'attore di successo, interprete di tanti ruoli e personaggi, un artista che ha lasciato un segno importante nella storia della televisione, della radio e del cinema italiano. Ma voglio rendere omaggio anche al partigiano, che ha conosciuto la sofferenza in un campo di concentramento nazista nel corso della Seconda guerra mondiale", dice Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna.

Marco Giusti per Dagospia il 31 luglio 2019. “Se ti resta ancora un dubbio tanto semplice sarà…” Ecco, per molti Raffaele Pisu, scomparso oggi a 94 anni, era soprattutto il primo conduttore assieme a Ezio Greggio di Striscia la notizia nel 1989-90, per altri il conduttore di un programma mitico della Rai dei primi anni ’60, L’amico del giaguaro, assieme a Gino Bramieri e a Marisa Del Frate o della Canzonissima del 1956. Ma credo che per me Raffaele Pisu fosse piuttosto una delle maggiori star di Carosello. Lo ricordo in “Più che l’amor che vuoi?” con Marisa Del Frate per le caramelle Dufour (“Voglio la caramella che mi piace tanto e che fa Du… Du… Du…”), diretto da Luciano Emmer, come padrone di Provolino, come voce dell’Omino coi baffi della Bialetti col suo inconfondibile Si… sì… sì… sembra facile fare un buon caffè”. E in coppia con Lauretta Masiero come esplosivi protagonisti dei caroselli del Doppio Brodo Star. Al punto che nel programma su Carosello che feci ormai più di vent’anni fa per Raidue, li feci uscire da una scatola gigante di Doppio Brodo Star come facevano al termine dei loro Caroselli ballando e cantando al ritmo di “Se ti resta ancora un dubbio, tanto semplice sarà… la minestra vale il doppio con il Doppio Brodo Star!!!”. Chissà, magari valeva davvero il doppio… Non era un personaggio facile Raffaele Pisu. Anzi. Inoltre in quel periodo veniva da una specie di scandalo a Santo Domingo, dove si erano rifugiato, e dove incontrò una marea di socialisti inquisiti in fuga… Meglio ricordarlo come star assoluta della tv degli anni ’60. Quella eroica, diciamo. Nato a Bologna nel 1925 col nome di Guerrino, figlio di un maresciallo dei carabinieri sardo, Pisu deve da subito confrontarsi con il successo del fratello maggiore Mario, celebrità a teatro, in tv e perfino al cinema, grazie a Federico Fellini, che lo volle addirittura protagonista come marito di Giulietta Masina in Giulietta degli spiriti. Ma Raffaele non era tenero con Fellini, che diceva aver del tutto vampirizzato il fratello. Forte del successo teatrale di Mario, anche Raffaele alla fine della guerra si butta sul teatro, ma quello leggero. Nel 1945 è uno dei fondatori del collettivo teatrale bolognese La Soffitta, poi passa alla rivista come boy dividendo le scene con Isa Bellini, le sorelle Nava e la divina Wanda Osirisis. Dai primi anni ’50 lo scopre anche il cinema, lanciandolo assieme a Ugo Tognazzi e a Walter Chiari. Lo troviamo così in Fiorenzo, il terzo uomo di Stefano Canzio, che dovrebbe essere il suo primo film, Il padrone del vapore di Mario Mattoli, nel film barzelletta Ridere, ridere, ridere di Edoardo Anton, dove esordiscono un po’ tutti i comici del varietà, perfino Monica Vitti (chi ha una copia buona?), I pappagalli di Bruno Paolinelli, Susanna tutta panna con Marisa Allasio, Uomini e nobiluomini di Giorgio Bianchi, Fantasmi e ladri di Giorgio Simonelli, Le bellissime gambe di Sabrina di Camillo Mastrocinque, Quanto sei bella Roma di Marino Girolami, La cento chilometri di Giulio Petroni, Caccia al marito. Il ruolo di Raffaele Pisu in questi film è sempre lo stesso, quello del ragazzotto allegro, divertente, dall’umorismo moderno, un po’ surreale. Lo vediamo anche in una delle prime serie di sketch per Carosello nel “Gruppo funambolico Binaca” assieme a Pelitti, Colnaghi e Mantovani, con gag davvero assurde. Alla fine degli anni ’50 viene così scoperto dalla Rai, che lo vuole per sceneggiati importanti, come Valentina, assieme a Carla Macelloni, Lui, lei e gli altri, poi in una mitica Canzonissima che ci fece impazzire. Ma è forse con L’amico del giaguaro che ritrova quella vena più folle che gli era più congeniale. Lì darà vita a una serie di parodie del cinema e della tv di gran divertimento. La sua grande occasione fu nel 1963 il ruolo da protagonista, serio, del film di Giuseppe De Santis Italiani, brava gente, sulla disfatta dell’esercito italiano in Russia. Non venne accettato né lui né il film, dal nostro pubblico, che lo voleva allegro e spensierato nel piccolo schermo. Così lui, che avrebbe potuto essere un Jack Lemmon, fece pochissimo per il cinema, a parte qualche musicarello, e molto in tv, come La trottola, Vengo anch’io, Senza rete, Che domenica!, dove riprese il suo tipo di comicità. Negli anni ’70 venne abbondantemente emarginato, lavorò moltissimo per le private, con Barbara D’Urso in Famiglia e dintorni,  Telenova, per poi essere ricuperato da Antonio Ricci a fine anni ’80 come presentatore assieme a Ezio Greggio di Striscia la notizia. Incredibilmente, Pisu era rimasto intatto, quello che ricordavamo negli anni ’60, e Ricci se ne serviva sia per la sua antica popolarità che per il suo aspetto da vecchio mattarello. Lo riscoprì, qualche anno dopo, il cinema, che ne fece un attore serio e del tutto nuovo grazie a qualche serie tv e a un bel ruolo ne Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino. Lo ritroviamo così in questa nuova veste in SMS – Sotto mentite spoglie di Vincenzo Salemme, Tutta colpa della musica di Ricky Tognazzi, Il mio domani con Claudia Gerini, fino a Nobili bugie, dove è diretto dal figlio Antonio, un film che rielabora una dimenticata commedia neorealista con Walter Chiari e Paolo Stoppa, Abbiamo vinto, 1951, dove un gruppo di ricchi ebrei diventano ostaggi di una famiglia di nobili squattrinati che, a guerra finita, fa loro credere che ci sono ancora i tedeschi. Poco tempo fa, in vena di restauri, venne presentato al Quirinale il suo Italiani, brava gente, e lì venne omaggiato dal Presidente Mattarella. Il mio ultimo ricordo, e devo aver ancora un suo dattiloscritto da qualche parte, è di fare un Jocker televisivo che svela le malefatte del mondo. Il Jocker…

·         E' morto Paolo Giaccio, l'inventore di Mister Fantasy.

E' morto Paolo Giaccio, l'inventore di Mister Fantasy. Giornalista musicale, autore e dirigente, è stato uno dei grandi innovatori della Rai anni Settanta e Ottanta firmando programmi come "Per voi giovani" e "Odeon". La Repubblica il 29 luglio 2019. Alla fine degli anni 60, insieme a Renzo Arbore e a un'altra pattuglia di conduttori all'avanguardia (Carlo Massarini, Mario Luzzatto Fegiz, Raffaele Cascone e altri ancora), aveva fatto entrare in Rai la rivoluzione musicale e culturale di quegli anni con un programma radiofonico leggendario come Per voi giovani. Paolo Giaccio è scomparso a 69 anni lasciando una scia di intuizioni folgoranti e di successi radiofonici e televisivi (a volte anche osteggiati dalle forze politiche più conservatrici) che hanno segnato la storia dell'azienda di Viale Mazzini. Giaccio era nato a Roma nel 1950. Dopo l'esperienza a Per voi giovani, il programma che aprì definitivamente una finestra sul mondo giovanile sulla radio nazionale, iniziò a lavorare in televisione. Giornalista musicale e poi autore e dirigente, non abbandonò mai la sua vocazione di innovatore: per la tv fu uno degli inventori (insieme a Brando Giordani e Emilio Ravel) di Odeon, il rivoluzionario rotocalco nato "per parlare di spettacolo facendo spettacolo". Dopo Variety arrivò il programma cult della tv musicale dei primi anni 80: fu Giaccio a inventare Mister Fantasy, la trasmissione condotta da Carlo Massarini che, in uno studio futuribile e tecnicamente all'avanguardia, presentava i videoclip musicali proprio mentre negli Stati Uniti nascevano Mtv e tutta la cultura (e l'industria) dei filmati musicali legati alle canzoni. Negli anni a seguire Giaccio ha firmato programmi sempre in linea con il suo sguardo innovatore, da Obladi Obladà, un excursus sul mondo dell'immagine e della video arte condotto da una giovane Serena Dandini, a Immagina(1986), un programma sui "segni e i sogni del nostro tempo" che rilanciò la figura di Edwige Fenech trasformandola in un personaggio televisivo di successo. E' stato responsabile dei palinsesti di Raiuno, di Rai Educational e dei vari canali tematici di RaiSat. Ma soprattutto è stato uno dei protagonisti della stagione del grande rinnovamento culturale della Rai. Da poche settimane si era sposato con la scrittrice Camilla Baresani.

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 30 luglio 2019. Non sono della generazione di Paolo Giaccio, però sono tra quelli che si sono pasturati facilmente del lavoro di quei veri scavezzacollo, con studi regolari, di cui lui fece parte. Giovani uomini che, sul fare degli Anni 70, iniziarono a scardinare il rigore monastico dell'austero cenobio della Rai dei padri fondatori. Non immagino fu una passeggiata sovrascrivere l' agiografia imperante nei riferimenti di un' azienda di stato, a vocazione didattico catechistica, pensando e animando un programma radiofonico come Per voi Giovani. Giaccio ne fu prima autore e poi ne ereditò la conduzione da Arbore, che avviava Alto Gradimento. Assieme a Mario Luzzatto Fegiz portò la trasmissione a essere quello che oggi si direbbe uno spazio «cult», in cui il pubblico giovanile della Rai trovava punti di riferimento «alieni» non soltanto legati alla musica, ma anche alle problematiche più spinose che emergevano in quegli anni. Qualcosa si mosse, se non altro perché nella Garzantina della Radio, di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, si legge un imbarazzato: «Il programma si radicalizzò a tal punto nei temi dibattuti e nelle proposte musicali da indurre la Rai ad allontanare Giaccio dalla conduzione». Una frase dove intuisco che Paolo fu forse tolto per un po' dal microfono perché era andato oltre i limiti di una prudente gestione della ribellione. In compenso così riprese il suo ruolo di autore e talent scout. Lanciò dei nuovi conduttori tra i quali Carlo Massarini, che si conquisterà un posto nel pantheon di chi innovò in Rai, conducendo biancovestito dall' 81 all' 84 Mister Fantasy. Era un programma, sempre ideato da Giaccio, in cui, per la prima volta, l' abbonato in prima fila di generazione più recente iniziò ad assaporare, nella scenografia grafica di Mario Convertino, le rudimentali avvisaglie di quello che sarà in seguito l' artificio digitale della realtà. Soprattutto scoprì il nuovo linguaggio del videoclip, quando ancora alle nostre latitudini il più percorribile intrattenimento giovanilista, nel campo del video musicale, era rappresentato dal «musicarello». Fu nel '94 che conobbi Giaccio assieme a Renato Parascandolo di Rai Educational, ci incontrammo perché volevano realizzare un programma televisivo che parlasse di Internet, realtà ancora totalmente misteriosa per la tv pubblica e di cui la maggior parte dei giornalisti, direttori compresi, ignorava totalmente l'esistenza. Dopo un avvio sperimentale cui collaborai, quel Mediamente, sempre condotto da Massarini, continuò fino al 2002 e fu il primo tentativo di raccontare la nascente rivoluzione della rete in televisione. Paolo Giaccio è stato una presenza costante nella maggior parte dei titoli memorabili della Rai degli anni migliori: a partire da Odeon. Tutto quanto fa spettacolo il primo magazine con uno sguardo curioso verso ciò che di fantastico avveniva in giro per il mondo, che nel 1977 realizza insieme a Brando Giordani, Emilio Ravel ed Enrico Messina. Fino alle prime concrete produzioni di canali satellitari tematici, per sua sensibilità in particolare dedicati all' arte, allo spettacolo, al cinema Sempre quando ancora fare televisione, sul solido fondamento di una vera cultura della curiosità, non era considerato un oltraggio a «quello che vuole la gente».

DAGO il 29 luglio 2019: LETTERA A UN AMICO CHE SE N’E’ ANDATO. "E' morto...". Lo smarrimento che ti prende è lo stesso di quando spegni il televisore e la luce dello schermo diventa un puntino che si allontana e si dissolve. "E' morto Paolo Giaccio". Allora provi a far girare il nastro della memoria, accarezzi una manciata di foto, libri, pranzi, chiacchierate, scazzi, risate, viaggi, vacanze, pranzi alla Casina Valadier e bagni a Sabaudia, canzoni e pettegolezzi. Tutti quei progetti pensati, discussi, mai realizzati ma chissenefrega: l’importante è che ci portavano fuori, fuori, fuori dalla palude del passato. Poi il Tempo, la Società, il Destino, potevano tendere i loro legittimi agguati e la Vita poteva ritirare le sue promesse. E ripenso a quegli anni (da Odeon a Mister Fantasy) e subito la testa diventa una cipolla con le orecchie: ti assale un groppo alla gola e ti viene da piangere. Come bambini privati di qualcosa che si è disperso irragionevolmente in un evento inaspettato e nemico. La memoria si accende sulla nostra vita, e ti rimbalza le nostre grandi paure: la paura di non esistere, la paura di diventare grandi, la paura di inventare se stessi. Mezzo secolo di amicizia che ora diventa testimonianza di una felicità di vivere, di aver vissuto. Succede quando la vita e la morte si scontrano: le nostre esperienze precedenti ci tornano in mente con abbagliante intensità. Siamo invasi dalle medesime emozioni che abbiamo sentito la prima volta che un certo avvenimento si è verificato. A volte è la sofferenza a risvegliarsi, e chiede di essere sanata: anche i difetti e i misfatti gravi del passato, anche i vizi beneficiano dell'indulgenza e di una certa commossa allegria. Altre volte invece la gioia che proviamo ci conferma la riuscita della nostra esistenza. Staccando l'ombra da terra, scopri che Paolo è stato come una riserva d'acqua per tutti noi “giacciofili”: Mario Luzzatto Fegiz, Angelo Bucarelli, Carlo Massarini, Michela Moro, lo scomparso Mario Convertino, Pietro De Stefani, Tatiana Romanoff, Marina Sersale, Irene Ghergo, Mimma Nocelli, Micol Weller, Moira Attanagi, Laura Carafoli e tanti altri; ma soprattutto Camilla Baresani con cui Paolo ha condiviso amorevolmente gli ultimi 13 anni della sua vita, l’adorato fratello Andrea, l’amatissima figlia Anna. La memoria, si sa, si sconta vivendo. Il nostro passato si allontana da noi nel momento in cui nasciamo, ma lo sentiamo passare solo quando ci lascia un amico. Ecco perché non posso perdere Paolo senza non perdere me stesso.

MAIL DI BARBARA PALOMBELLI A DAGOSPIA il 30 luglio 2019. Caro Dago, l’unica consolazione nella tristezza per Paolo è che anche grazie a lui prima in radio poi all’Europeo siamo stati ragazzi svegli, curiosi, innamorati della vita e di tutto lo spettacolo, di tutta la cultura, di tutti i giornali e delle riviste, della musica, del video, dei gossip, dell’energia universale che ci trascina verso ogni più piccola novità fosse anche una stupidaggine pur di segnare un millimetro in avanti la riga delle nostre esistenze... che fortuna per tutti noi esserci incontrati e ritrovati mille volte!!!!

Dal profilo Facebook di Carlo Massarini. Come e cosa si scrive di una persona che ti ha cambiato la vita? Perché Paolo Giaccio è stato la persona che ha inciso di più nella mia vita professionale, e quello che abbiamo fatto insieme rimane, senza false modestie, nella storia della radio-televisione italiana. E’ partito tutto, un po’ per gioco un po’ sul serio, da un negozio di vinile. Come High-Fidelity, come si usava conoscersi, studiarsi e frequentarsi in quegli anni in cui gli Lp che portavi sotto il braccio erano la tua carta d’identità. E quindi, il tuo biglietto da visita per ‘entrare’ (dovunque fosse l’ingresso), o essere lasciati fuori, a cercare un altro gruppo, con altri gusti. A Roma era Consorti, e su quell’angolo di Via Giulio Cesare sono sfilati molti di quelli che adesso fanno –nei modi più diversi- il mestiere del comunicatore, o del discografico. Lui era più grande (2 anni a quell’età fanno la differenza, tanto più se, come Paolo, sei nato già grande), e ha aperto la pista. Era una pista da scoprire, tracciare, non c’erano precedenti, non c’erano istruzioni. La via al rock in Italia. All’inizio Per Voi Giovani, ereditata da Renzo Arbore, in coppia con Mario Fegiz. Era il 1970, e l’Italia viveva uno strano post-68, che sarebbe presto deragliato in guerriglie e guerra. Intanto, c’erano scuole e fabbriche occupate, fermenti giovanili ebollienti, voglia di cambiamento. PVG si collegava con i luoghi, faceva sentire le voci, risvegliava coscienze. Troppo. Per volere del Ministro dell’Istruzione di allora Paolo fu esiliato a Londra (che nel 1971 era un bell’esilio, oggettivamente), e al suo posto entrai io. Ero quello che ‘sapeva bene l’inglese’, che mi era già valso un ruolo di traduttore dei testi, perché, giustamente, sosteneva che per farle arrivare in tutta la loro forza le canzoni di Dylan, Cohen, Stones e Zappa e tutti gli altri le parole andavano comprese, godute. Come quelle di una nuova generazione di cantautori italiani. Non c’era Internet, gli Lp e i 45 giri venivano pubblicati in Italia con ritardo imprevedibile (anche mesi, ‘Mr Fantasy’ uscì a dicembre ’67 e lo comprai a marzo ‘68…), a volte mai. Non c’erano programmi alla radio, né alla tv, poche finestre non specializzate in cui potevi magari beccarti qualcosa di clamoroso, ma per caso. Il rock non era di massa, i ragazzi non potevano sapere cosa uscisse in GB e USA, quando sentivano per la prima volta Traffic, o Pink Floyd, o Genesis e Van der Graaf sgranavano occhi, spalancavano le orecchie e ringraziavano di avergli fatto conoscere musica che nemmeno immaginavano esistesse. Si trasmettevano gli album per intero. Gli Spotify kids non capiranno come fosse possibile, se guardo indietro sembra davvero una favola di qualche secolo fa. A metterla in onda c’era un gruppo variopinto di pionieristici dj molto diversi di testa e di gusti: Massimo Villa, Michelangelo Romano, Raffele Cascone, Richard Benson, Dario Salvatori, Gianluca Luzi, Claudio Rocchi, due ragazze -opposte anche loro- Fiorella Gentile e Maria Laura Giulietti, e lo stesso gruppo, sempre mutevole per via della contrattualistica RAI, scese anche la notte e a Popoff (beh, notte, 21.30, ma dopo c’era il Bollettino dei Naviganti e la filodiffusione…). Paolo era un fratello maggiore, suggeriva, faceva da cuscinetto con i dirigenti, stimolava, e apprezzava le stranezze – anche se la sua bibbia era Neil Young, ognuno di noi ha una stella polare. Finito il decennio della radio, Paolo entrò come funzionario a RAI1 sotto la guida del grande Brando Giordani, direttore che – come Paolo Valmarana a Raio Uno- lasciava fare ‘ai ragazzi’, pensando che qualcosa di buono ne sarebbe uscito. Più che buono, direi. Epocale. L’intuizione di Paolo di raggruppare in un programma quello che da qualche anno, ma come materiale promozionale, era usato a volte negli intervalli al posto delle pecore, e di farlo in un contesto televisivo nuovo, è la grande idea di Mister Fantasy, il primo programma al mondo (prima di MTV) sui videoclip. L’epopea di MrF fa parte dell’immaginario collettivo di una generazione: centinaia di video trasmessi, tanti artisti lanciati e tanti altri già affermati ripresi in modo nuovo, la grafica -straordinaria- di Mario Convertino. Vicinanza ai movimenti artistici milanesi (l’architettura dello Studio Memphis, con Sottsass e Mendini), aperture sul mondo del video-teatro, video-moda, video-design. Puntate in studio, a casa, sui tram, all’estero, nei locali. Le video-lettere, peccato non averle tenute, racconterebbero molto di quegli anni, e dei ragazzi che li abitavano, "fra il TG della notte e l’alba". Video era la parola chiave degli anni 80, in cui la musica stava cambiando ancora, con l’ingresso delle strumentazioni digitali. Una tv nuova, diversa, piena di intuizioni, di contaminazioni, internazionale di gusto e di intenti. Paolo era uno che amava vivere, circondarsi di gente, conoscere di tutto, era uno degli uomini più curiosi che ho conosciuto. Sapeva cogliere le novità nell’aria – se cercavi una nuova tecnologia, potevi essere sicuro di trovarla da lui- e trasformarle in spunti televisivi, o di vita. La locanda Solferino a Milano era una base operativa, un porto di mare, in fondo una replica della sua casa, dove ogni cena, o festa, era un punto interrogativo: chi ci sarà stasera?, e puoi giurare che gente con cui discutere, o abbracciarsi, o interrogarsi, o rivedersi dopo 20 anni ce n’era sempre. Era questa la sua genialità: mischiare, divertirsi a farlo e vedere cosa ne veniva fuori. Sempre con una gentile e invisibile regia, mettendo sempre a proprio agio, perché se si è signori e se ami la vita non puoi usare le persone, ma aiutarle a costruire qualcosa di diverso. Il diverso, il nuovo, è stato sempre il motore. Come quella notte di febbraio 95, una telefonata dal nulla per dire “ti chiamerà Renato Parascandolo (un altro del gruppo di PVG, Nagra in spalla e interviste politiche, poi direttore di Rai Educational), ti proporrà un programma piccolo. Ma tu accetta, perché è il futuro”. Era Media/Mente, era Internet, era davvero il futuro. Io non lo sapevo, lui sì. O come quando mi chiamò, da vice-direttore di Rai5, e nel tempo, in direzione ostinata e contraria, siamo riusciti a riportare in onda un magazine di musica, Ghiaccio Bollente. La musica. Ci ha legato l’ossessione di fare qualcosa di qualità in quel campo così importante per noi e così ignorato in tv. Lo strumento di comunicazione e condivisione più importante dei nostri tempi, una fonte inesauribile di emozioni, e non un programma. Sapevamo che c’erano storie da raccontare, narrazioni da mozzare il fiato e far salire i lucciconi, e si faceva fatica ad avere uno spazio, persino di notte. Strano mondo. Ma forse era la nostra visione a essere ormai contraria. Voler raccontare le storie, e la storia, scendere in profondità, quando tutto è così rapido, superficiale, fatto al volo e al volo dimenticato. Questo è uno dei motivi per cui Paolo mancherà non solo a me e a quel gruppone di amici costruito nel tempo, ma - anche se non lo sanno - a tante altre persone. Negli ultimi anni ci sono stati pezzi della mia generazione che ci hanno lasciato, creando un vuoto impossibile da colmare, e delle memorie meravigliose e irripetibili. Lasciandoci helpless, piccoli e impotenti di fronte allo scorrere della vita. Questo è il più grande di tutti. Ciao Paolo, grazie di 50 anni di amicizia, e dovunque tu sia, long may you run.

GIACCIO RACCONTA LUCIO BATTISTI. Faremusic.it il 26 febbraio 2015. Anno 1971. Mentre Mario Luzzatto Fegiz e io, con l’aiuto di Carlo Massarini, conduciamo Per Voi Giovani, il programma dedicato alla musica rock internazionale e alla più innovativa musica italiana, Lucio Battisti lascia la Ricordi e forma, con Mogol, una sua etichetta indipendente: la Numero Uno. Oltre che al controllo degli affari la mossa gli serve per garantirsi la più completa libertà artistica e creativa. La promoter è Mara Maionchi. E’ lei che ci fa ascoltare in anteprima “Pensieri e Parole”, la nuova canzone di Battisti. Non siamo però, i primi. La canzone è stata appena rifiutata da Arbore e Boncompagni, autori di Alto Gradimento, un altro programma radio di grande successo artefice del lancio di molte hit discografiche, perché ritenuta inadatta al loro stile di programmazione. Noi la prendiamo in esclusiva. Occorre ricordare che, in quegli anni, non c’erano altre radio se non quelle della Rai. Quindi, a parte chi aveva il disco, l’unico modo per ascoltarla era quello di sintonizzarsi sul nostro programma. Questa esclusiva, unita al primo posto subito raggiunto nella classifica di vendita dei singoli, lancia la canzone e il nostro programma, consolidando anche su un pubblico di studenti la notorietà di Battisti. “Pensieri e Parole” si svolge su un doppio piano vocale, con un fraseggio che riannoda il dentro e il fuori di una persona. Sfiora i temi della psicanalisi, contrappone una vita di sentimenti semplici e genuini ai sogni e ai progetti di un uomo in crescita. Racconta le lacerazioni sentimentali che un uomo appena adulto deve affrontare, trovandosi già ingabbiato in ruoli e responsabilità. Descrive bene, con le parole di Mogol, la poetica misteriosa di Battisti, a quel tempo profondamente legato, quasi come un gemello, al paroliere. Un week end passato in campagna, vicino a Lecco, con tutta la tribù di Mogol e Battisti, serve a confermarmi queste impressioni. Serve anche a far superare a Battisti diffidenze e timidezze. Come è noto Battisti evitava il più possibile i contatti con giornalisti e dj. Dopo quel week end mettiamo in cantiere una lunga intervista radiofonica per presentare in anteprima nel nostro programma il suo nuovo album: “Il Mio Canto Libero”. L’intervista dura vari giorni. Inizia in una sala prova, in campagna. Non contenti del risultato ci spostiamo poi in uno studio a Milano, dove Battisti, al pianoforte, canta dal vivo tutti i pezzi dell’album e molte altre sue famose canzoni. E’ così che nel 1972, per un’intera settimana, siamo in grado di presentare nel nostro programma un ospite che mai, fino ad allora, e neanche negli anni a seguire, accetta di mostrarsi così intimamente e sinceramente ai suoi ascoltatori: il suo nome è Lucio Battisti.

PAOLO GIACCIO da Wikipedia. Paolo Giaccio (Roma, 16 febbraio 1950) e un giornalista (iscritto all’ODG di Roma dal 1976), autore televisivo e produttore televisivo italiano. Paolo Giaccio frequenta alla fine degli anni sessanta, a Roma, i licei Righi e Mameli, con una parentesi nel liceo di Farfa Sabina. Dalla facolta di filosofia della Sapienza, cui si iscrive, riporta nel mondo della radio il vento libertario del sessantotto studentesco. Queste scelte editoriali danno fastidio alle forze politiche piu conservatrici che richiedono provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, provocando, in alcuni periodi, il suo allontanamento dal microfono. Nonostante le difficolta il programma e il suo gruppo di lavoro riescono a innovare la radio statale di quel tempo, tracciando la strada che sara poi seguita dalle prime radio libere. Dalla meta degli anni settanta e giornalista del TG2. Negli anni ottanta e novanta autore e capostruttura di RaiUno. Negli anni duemila, diviene responsabile editoriale di molti nuovi canali tematici della Rai, digitali e satellitari, declinandoli su un'offerta innovativa e culturale.

Nel 1970 succede a Renzo Arbore nella direzione del programma radiofonico Per voi giovani. Con Mario Luzzatto Fegiz lo trasforma nel programma che introduce ai giovani italiani la musica rock e i nuovi cantautori, insieme al racconto del mondo giovanile che nelle scuole e nel tempo libero viveva le spinte del '68. Chiama alla conduzione di segmenti del programma Raffaele Cascone, Carlo Massarini, Claudio Rocchi, Massimo Villa, Richard Benson, Maria Laura Giulietti, Fiorella Gentile, Michelangelo Romano, Riccardo Bertoncelli e altri.

Odeon. Tutto quanto fa spettacolo: nel 1977 realizza nel TG2 di Andrea Barbato, insieme a Brando Giordani, Emilio Ravel ed Enrico Messina uno dei primi programmi della tv a colori.

Variety: nel 1980 realizza per RaiUno, con Guido Sacerdote, un programma di prima serata sul mondo dello spettacolo.

Mister Fantasy: nel 1981-1984, prima ancora della nascita di MTV in USA, lancia con Carlo Massarini un programma sulla "musica da vedere", basato su un nuovo media: il video musicale.

Italia sera: nel 1983 con Piero Badaloni e Ludovico Alessandrini, realizza per l'access time un magazine televisivo di cultura, societa, spettacolo.

Obladi Oblada: nel 1985 crea un programma sul mondo delle immagini, dei fumetti, della video arte, con una conduttrice debuttante, Serena Dandini.

Immagina: nel 1986 e autore e produttore di un programma sui "segni e i sogni del nostro tempo", realizzato con l'ispirazione di Paolo Fabbri e Omar Calabrese, semiologi del gruppo di Umberto Eco. Immagina contribuisce a riposizionare l'immagine di Edwige Fenech, che da protagonista di b- movies italiani si trasforma in un popolare personaggio televisivo.

Dal 1981 al 1995 realizza, sempre per RaiUno, a volte come autore, a volte come produttore o dirigente, numerosi programmi di spettacolo e varieta di prima e seconda serata, o eventi come gli spettacoli in mondovisione legati a Italia 90, con Luciano Pavarotti e Sophia Loren.

Il tempo delle scelte. Nel 1992 trasforma una serie di lezioni sugli scenari dell'economia internazionale tenute da Romano Prodi, in un programma televisivo intitolato Il tempo delle scelte.

Nel 1995 e responsabile del palinsesto di RaiUno.

Nel 1996 e responsabile del palinsesto di Rai Educational.

Nel 1997 diviene responsabile di RaiSat1 cultura e spettacolo, il primo canale tematico culturale della Rai, che propone una scelta della produzione italiana e internazionale nei campi della musica, del teatro, dell'arte, della lirica, del documentario, dei corti, del cinema d'autore.

Dal 1999 al 2003 e responsabile editoriale del canale satellitare dedicato allo spettacolo RaiSatShow (inserito nella piattaforma Telepiù) in cui propone per la prima volta in Italia il David Letterman Show.

Dal 1999 al 2003 e inoltre responsabile editoriale del primo canale satellitare RaiSatArt (inserito nella piattaforma Telepiù) interamente dedicato alle arti visive.

Dal 1999 al 2008 e responsabile editoriale del canale satellitare dedicato al cinema RaiSatCinema (inserito nella piattaforma Telepiù e poi nella piattaforma Sky), in seguito trasformato in CinemaWorld, specializzato nel cinema d'autore internazionale.

Dal 2007 al 2009, e responsabile del canale dedicato alla fiction italiana RaiSatPremium.

Dal 2010, per Rai5, il nuovo canale di intrattenimento culturale proposto dalla Rai nel digitale terrestre, realizza il magazine CoolTour e altri programmi di musica e spettacolo.

Dal 2013 al 2017 e professore a contratto presso la IULM nella facoltà Arti e Turismo – Media for Arts dove svolge i corsi per la laurea magistrale in Arti, Patrimoni e Mercati dal titolo “Forme della divulgazione dell'arte contemporanea in televisione” e “Laboratorio di produzione televisiva per l’arte”.

Mail di Paolo Martini a Dagospia l'1 agosto 2019. Caro Dago, chi ha avuto la fortuna, come me, di seguire molto da vicino le vicende della tv italiana, a partire proprio dai rivoluzionari anni Ottanta, e d'incontrare da cronista Paolo Giaccio durante il periodo più fortunato della sua carriera in Rai - dai programmi musicali alla prima rete e infine a RaiSat - , si trova facilmente oggi a notare un certo difetto d'inquadramento storico delle pur generose commemorazioni mediatiche che sono circolate dopo la sua scomparsa. Fortunatamente tra le prime tue commosse righe e gli interventi di Barbara Palombelli e Carlo Massarini, si riesce ad evincere meglio il senso di una storia umana e professionale davvero unica. Oggi sembra tutto facile, ma non si può dimenticare il contesto iniziale della carriera di Giaccio: la nostra Italia 'anni-piombata' di allora, il clima di egemonia culturale del Partito comunista, un mondo televisivo dove le personalità dominanti sono quasi sempre state tutte volgari e prepotenti. Paolo sembrava così allegramente e fortunatamente non permeabile a quello spirito del tempo. In definitiva, persino decidere di lanciare Battisti non era poi così scontato, ché infatti passò quasi subito come canzonettaro disimpegnato o peggio ancora per fascisti. Ma anche lavorare insieme e accanto ai migliori dirigenti democristiani della Rai, come Brando Giordani, mentre quel mondo politico-televisivo era ormai al tramonto, non era facile come scrivere liberamente per il settimanale patinato, o fare il funzionario veltroniano della tv di Guglielmi, oppure persino aggirarsi nella corte di Berlusconi, con fogli e matita per registrare appuntamenti, orari dei telefilm o spunti per i suoi discorsi fa lo stesso. Un approfondimento a parte lo meriterebbe l'esperienza di Rai Sat, che meglio delle precedenti spiega il segno della carriera professionale di Paolo: parliamo della seconda metà degli anni Novanta, quando la televisione - e ormai anche il Paese - era stata tutta plasmata da una massificazione commerciale che ha ribaltato, come paradossale canone inverso, la cultura borghese elitaria e comunistizzante degli anni Settanta. In quel contesto, bisogna riconoscere la lungimiranza anche solo di piccole scelte come riproporre sottotitolato il "David Letterman Show", piuttosto che immaginare una piattaforma di canali tematici segmentati per bene, fino al punto di splittare il design dall'arte e dalla cultura. Dieci anni dopo avremmo poi tutti parlato di morte della tv generalista, e in fondo da snob qual era Paolo non ha mai creduto un attimo che la ricerca indiscriminata del pubblico potesse diventare anche il suo orizzonte professionale. A favorire questa capacità intuitiva e il suo impegno per un nuovo sistema televisivo e mediatico non massificato, è stato senz'altro quel tratto distintivo della sua personalità che altri hanno già bene ricordato: Paolo amava incontrare e far conoscere le persone più disparate, era interessato alle tante singole teste e alle personalità singolari, non a contare le audience con disprezzo. In fondo lui, come spettatore, all'estetica iper-tecnologica dei video musicali ha sempre preferito la perfezione fisica dei balletti. Infine, Giaccio sapeva essere un interlocutore scanzonato e mai ipocrita anche con i cronisti e i critici dei giornali, senza impancarsi sul piedistallo, senza vanterie, senza infingimenti. Personalmente ricordo che è sempre stato uno dei pochissimi a non nascondere la diffidenza nei confronti dei personaggi più amati dai media, uno dei pochi che aveva avuto il coraggio di spiegare subito ai noi scribacchini idolatri che la genialità del tale riconosciuto Genio era un bluff, che la capacità relazionale del talaltro riverito Manager era solo indiretta, che le virtù professionali dell'Autore fabbrica-milioni erano prima di tutto la faccia tosta e la fortuna…Per passare al personale, so benissimo che benevolenza e sincerità di Paolo non me le sono meritate altro che per estensione, attraverso Irene Ghergo, ma non posso dimenticare tanti suoi gesti di generosità, non solo nei confronti delle sue amate Miss, che venissero dalla Valtellina o dall'Appennino marchigiano, ma anche con tante emerite teste di rapa, come il sottoscritto o altri pennivendoli di passaggio, anche quando avrebbe avuto ottimi motivi per non farsi trovare. Un'anima nobile, per davvero.

·         Morto Jorge Hill Acosta y Lara, noto da noi come George Hilton.

Addio a George Hilton, il pistolero Alleluja, volto degli spaghetti western. Pubblicato lunedì, 29 luglio 2019  da Maria Volpe  su Corriere.it. È morto domenica a Roma George Hilton, volto popolare di tanti «spaghetti western»: il personaggio più iconico interpretato dall’attore fu il pistolero Alleluja, protagonista di diversi film di Giuliano Carnimeo. L’attore, all’anagrafe Jorge Hill Acosta y Lara, nato in Uruguay il 16 luglio 1934, si è spento per una malattia all’età di 85 anni. A darne l’annuncio con un lungo post su Facebook la compagna Gabriella: «Ha fatto del suo meglio per riprendersi (...) Sfortunatamente, tutti i suoi sforzi non sono stati sufficienti. Vola forte e in alto come hai sempre fatto! Riposa in pace, amore mio, te lo meriti! Ti amo». Hilton aveva preso parte a numerosi film ma è diventato famoso proprio grazie ai film western. Arrivò in Italia nel 1963 e debuttò nel ruolo di protagonista in Il corsaro nero nell’isola del tesoro (1965) e poco dopo vestì i panni di una sorta di 007 nel film comico Due mafiosi contro Goldginger di Giorgio Simonelli. Fu il regista Lucio Fulci ad introdurlo nel genere western ingaggiandolo per il film Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro (1966), al fianco di Franco Nero. Nel 1967, George Hilton prese parte a sette film del genere (Il tempo degli avvoltoi, A Ghentar si muore facile, Un poker di pistole, Vado... l’ammazzo e torno, La più grande rapina del West, Professionisti per un massacro e Ognuno per sé), imponendosi come icona degli Spaghetti Western. Il suo successo incrementò velocemente a livello internazionale, soprattutto in Spagna, e divenne una delle maggiori star del cinema italiano assieme a Terence Hill, Franco Nero e Giuliano Gemma. Il personaggio più iconico interpretato dall’attore fu certamente il pistolero Alleluja, protagonista di diversi film di Giuliano Carnimeo. Accanto al western, George Hilton recitò anche nei gialli, e poi film di guerra, polizieschi, commedie e pellicole di fanta-avventura. Durante gli anni Ottanta, ottenne sempre meno ingaggi e passò alla televisione dove recitò in alcuni telefilm come «College» e «Tre adii». Negli anni Duemila, Hilton prese parte a tre film, ovvero Natale in crociera (2007), Un coccodrillo per amico (2009) e La promessa del sicario (2015). Sotto all’annuncio di Gabriella, molti fan hanno lasciato un saluto per l’attore: «Una bella anima, sorridente ed amabile», «Eri una persona gentile ed amabile oltre che ironica ed affascinante. Un Signore. Sono vicina alla famiglia ed alla sua compagna Gabriela. Che il viaggio ti sia lieve George come il tuo sorriso aperto!», «Era un grande uomo e uno splendido attore... Che possa galoppare felice nelle immense praterie dove lo abbiamo conosciuto e apprezzato», «L’ho conosciuto molti anni fa a Spoleto e mi ha accompagnata con il suo amico Marco a vedere uno degli spettacoli più emozionanti della mia vita: il Ponte delle Torri di notte, quando ancora la passeggiata della Rocca non era illuminata, e il ponte emergeva improvviso dall’oscurità. Un bellissimo ricordo! Ciao George, buon viaggio!», «Mi spiace, un attore splendido di quel cinema popolare e mitico che ci ha resi famosi nel mondo».

Marco Giusti per Dagospia  il 29 luglio 2019. Era stato Tresette, Alleluja, Sartana, Zorro, il Passatore, in decine e decine di western e di avventurosi. L’uruguayano Jorge Hill Acosta y Lara, noto da noi come George Hilton, che se ne è andato a Roma a 85 anni, aveva a lungo cavalcato i sentieri del nostro spaghetti western con l’eleganza del caballero sudamericano. Tutto. Quello serio e quello comico, quello sadico e quello di pura avventura. Diretto da Lucio Fulci, Giuliano Carnimeo, Giorgio Capitani, Nando Cicero, Enzo G. Castellari in una serie di film dai titoli meravigliosi. Vado, l’ammazzo e torno!, Di Tresette ce n’è uno tutti gli altri son nessuno, C’è Sartana… vendi la pistola e comprati la bara, Il tempo degli avvoltoi, Ognuno per sé.  Aveva un fisico perfetto per fare il pistolero nerovestito, anche con mantella e sigaro in bocca. Gianni Garko era il Sartana originale, lui quello più comico, prima di diventare Tresette e Alleluja. Ma, all’occasione era giusto anche come personaggio debole e complessato. In Ognuno per sé è addirittura l’amante del cattivo Klaus Kinski e il nipote codardo del cercatore d’oro Van Heflin. Ma era stato anche il perfetto protagonista dei grandi gialli italiani dei primi anni ’70 a fianco di Edwige Fenech diretto da Sergio Martino e Romolo Guerrieri in capolavori del genere come Lo strano vizio della Signora Wardh, Tutti i colori del buio, Il dolce corpo di Deborah. Film che oggi vengono studiato in tutto il mondo. Nato a Montevideo nel 1934, recita presto a teatro e fa il suo esordio nel cinema uruguayano nella seconda metà degli anni ’50. Nei primi anni ’60 lo troviamo in Italia in cerca di fortuna. E’ un bellissimo ragazzo con un sorriso accattivante. Lo troviamo ovunque, perfino nei caroselli dei fratelli Taviani. Il suo primo film da protagonista è l’avventuroso L’uomo mascherato contro i pirati, mentre il prolifico e vecchio regista Giorgio Simonelli lo sceglie per due film di Franco e Ciccio, Due mafiosi contro Goldginger, dove è addirittura l’agente 007, e I due figli di Ringo, che sarà il suo primo western. E’ su questo set che incontrò Giuliano Carnimeo, il regista della seconda unità che terminerà il film dopo la malattia di Simonelli, e poi dirigerà Hilton in una marea di western, sia seri che comici, a cominciare da Il momento di uccidere. Tra il 1966 e il 1968 George Hilton diventa un attore di punta del western che i ragazzini del tempo adoravano. Non sempre sono grandi film, anzi, ma il nome inizia a girare. Eccolo in Kitosch, l’uomo che veniva dal Nord di Jose Luis Merino (“Il regista era uno zero, poverino, ed il film era orrendo”), in ben due film di Nando Cicero, molto più interessanti, Professionisti per un massacro e Il tempo degli avvoltoi, addirittura vietato a minori di 18 anni. “Con Cicero eravamo molto amici”, dirà. “Io con lui mi divertivo molto, perché mi lasciava fare e io facevo un po’ l’istrione e a lui piaceva questa recitazione un po’ sopra le righe”. Ma il film che lo impone davvero è Le colt cantarono le morte e fu… Tempo di massacro diretto da Lucio Fulci e scritto da Fernando Di Leo, dove recita a fianco di Franco Nero e Nino Castelnuovo. Fu il suo trionfo personale. “Devo tutto al ruolo dell’ubriacone da me interpretato, è stato determinante per la mia carriera in Italia. Anche in Uruguay la gente urlava in sala. Fulci mi ha fatto un provino, perché voleva un bandolero con la barba, sporco e malandato. Dopo molte selezioni scelse me, forse grazie alla mia esperienza teatrale. Durante le riprese mi fu molto utile la capacità che avevo di cavalcare.” E ancora:  “Con Fulci qualche volta abbiamo litigato, perché non era gentile, urlava, buttava la sceneggiatura per terra... lui mi voleva bene, perché io il ruolo gliel’ho fatto molto bene, devo dire, e lui era contento, però non ho mai avuto un buon rapporto con lui, perché io non accetto il regista che si crede il re del set...”. E’ grazie a Tempo di massacro, però, che diventa una star. Lo ritroviamo in La più grande rapina del west, T’ammazzo raccomandati a dio, Uno di più all’inferno, Poker di pistole (“Uno di quei film che potrei rinnegare, ma non lo faccio, nonostante fosse bruttissimo...”) e nel bellissimo Ognuno per sé diretto da Giorgio Capitani e scritto da Fernando Di Leo, che ebbe non pochi problemi di censura. (“Peccato che hanno tagliato una sequenza molto drammatica in cui Kinski mi bruciava il braccio con una sigaretta”). Con Enzo G. Castellari gira il divertentissimo Vado l’ammazzo e torno a fianco di Gilbert Roland. Grande titolo. In Spagna gira un bel western diretto da Julio Buchs dal titolo assurdo Quei disperati che puzzano di sudore e di morte, dove recita assieme a Ernest Borgnine. Ma sarà il successo del primo giallo all’italiana, Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri, a aprirgli le porte anche di un altro genere. Nei primi anni ’70 si dovrà perciò dividere tra giallo e western, anche se nel western è un po’ confinato nel parodistico alla Alleluja e alla Sartana con le regia di Giuliano Carnimeo, che allora si firmava Anthony Ascot. “Con Hilton”, sosteneva Carnimeo, “si veniva a creare un personaggio ancora più ironico rispetto al Sartana di Garko. Si inventava le gag per far ridere il pubblico. Si sapeva dove avrebbe sparato, stando ad un tavolo e scoprendo che, dentro un panino di fronte a lui, c’era un pistola... anche cose al limite dell’assurdo. Con Garko vi era un aplomb più rigido”. Escono così C’è Sartana… vendi la pistola e comprati la bara, Testa t’ammazzo croce sei morto mi chiamano Alleluja. Il West ti va stretto amico… è arrivato Alleluja. La sua popolarità è tale che un giorno venne un ricco signore di Forlì, Benito Bertaccini, a proporgli un sul bandito romagnolo Il Passatore. “Lui si era innamorato artisticamente di me, ma io neanche lo conoscevo, per cui un giorno si è presentato alla Elios mentre stavo girando, e mi ha detto: ‘Io devo fare un film con lei, ho questa storia del Passatore ed ho i soldi per farlo, ma non ho mai fatto cinema e mi disse anche che voleva far lavorare in questo film suo figlio [Donato Bertaccini], che era un ragazzetto carino e che era venuto insieme con lui. Al che gli ho detto: ‘io il film glielo faccio, anche perché la storia del Passatore mi piace, ma devo poter portare tutta la mia equipe, diciamo così, cioè tutta la gente che io ritengo valida per il film’. Lui ha accettato, e così ho chiamato la Fenech e gli ho fatto dare un sacco di soldi, perché poi lei aveva una piccola parte, come regista ho voluto Carnimeo, ho scelto il direttore delle luci...”. In questi anni sono decisamente superiori i suoi gialli ai suoi western. Nel 1977 lo troviamo ancora in coppia con Edwige Fenech nella commedia sexy Taxi Girl e in coppia addirittura con il pugile Carlos Monzon nel tardo western El Macho. Il film, ricordava Hilton era stato fatto “per sfruttare il nome di Monzon e quella della sua compagna. Io facevo il cattivo e dovevo perfino menare Monzon. Ma il film non era un granché. Da ragazzo avevo fatto la boxe e a me la boxe piaceva parecchio e quindi trovarmi su quel set con Monzon mi rendeva felice. C’era anche Ringo Bonavena, un altro argentino, morto ammazzato, che aveva combattuto anche con Cassius Clay. Monzon, forse anche perché aveva fatto la fame, quella vera, era litigioso, litigava sempre con la sua donna, Susana Giménez, appunto, che era poi una mia cara amica, ma con me è sempre stato un amico, gentile, andavamo perfino allo stadio insieme, però era pericoloso, soprattutto quando beveva... “. Attivo fino all’ultimo anche se non erano più i tempi del cinema di genere, George Hilton ha vissuto benissimo nell’Italia dei tempi del nostro grande cinema e non si è mai fatto mancare niente. Simpatico e sempre disponibile, ha ben vissuto anche il periodo del recupero del nostro cinema di genere. Aveva da poco presentato a Milano un documentario sulla sua vita diretto da Daniel Camargo.

·         Morto l’avvocato Carlo Federico Grosso.

Morto l’avvocato Carlo Federico Grosso. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Corriere.it. Scompare uno dei più noti penalisti italiani. All’età di 81 anni è morto a Torino, la sua città, Carlo Federico Grosso. Professore emerito di Diritto penale, è stato consigliere comunale e vicesindaco di Torino negli anni Ottanta, come indipendente nelle fila del Pci, e vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte. Nel 1994 è stato eletto nel Csm, di cui è stato vicepresidente. Come avvocato divenne volto molto noto in tv per il caso Cogne, fu infatti il primo difensore di Annamaria Franzoni e di Calogero Mannino per la accuse sulla trattativa Stato e Mafia. La notizia della morte di Grosso è stata data anche dall’attuale vicepresidente del Csm David Ermini in apertura del plenum. Ermini ha espresso le condoglianze alla famiglia sottolineando che Palazzo dei Marescialli lo ricorderà come merita. Grosso è stato vicepresidente dal 1996 al 1998.

Da La Repubblica il 24 luglio 2019. Carlo Federico Grosso, uno dei più noti avvocati penalisti italiani è morto questa mattina a Torino. Aveva 81 anni. A darne l'annuncio è stato il figlio Enrico. Grosso da qualche tempo soffriva di fibrosi polmonare che si è improvvisamente aggravata. Figlio di Giuseppe Grosso, noto studioso di diritto romano che era stato anche politico nelle file della Dc e sindaco di Torino, Carlo Federico Grosso si era laureato nel 1959 con una tesi di diritto penale e aveva poi intrapreso la carriera di docente universitario negli atenei di Urbino, Genova e poi a Torino dove ha retto la cattedra di diritto penale dal 1974 al 2007 e di cui è stato nominato professore emerito. E' stato consigliere comunale come indipendente nelle liste del Pci dal 1980 al 1990 ricoprendo anche la carica di vicesindaco di Torino. Poi da 1990 vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte.  Nel 1994 è diventato membro del Consiglio superiore della magistratura di cui è stato vicepresidente fino al 1998. Dal 1998 al 2001 ha presieduto la commissione ministeriale la riforma del codice penale. Come  avvocato ha rappresentato la parte civile nei processi per la strage di Bologna e per quella del Rapido 904 ed è stato il primo difensore di Annamaria Franzoni nel processo per il delitto di Cogne, oltre che di Calogero Mannino per la accuse sulle trattative tra Stato e Mafia. Grosso era anche il legale di Repubblica e dell'Espresso.  

Carlo Federico Grosso la toga dell’avvocato donata alle istituzioni. Franco Insardà il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Morto a 81 anni. L’ultima intervista al “Dubbio”. Difensore in processi che hanno fatto storia, vicepresidente del Csm e indipendente nel Pci. Un maestro. È il riconoscimento che il mondo del diritto e non solo tributa a Carlo Federico Grosso. Un maestro di dottrina e di vita che nella sua carriera ha saputo coniugare il rispetto delle regole con la grande umanità. Un equilibrio che ha sempre accompagnato il famoso penalista, morto ieri a Torino a 81 anni. Carlo Federico Grosso soffriva di una fibrosi polmonare che si è improvvisamente aggravata. Figlio di Giuseppe Grosso, presidente della Provincia di Torino e poi sindaco del capoluogo piemontese, si laurea nel 1959 con una tesi in Diritto penale. Sei anni più tardi vince il concorso a cattedra e inizia una lunga carriera accademica che lo porta a insegnare a Urbino, Genova e, dal 1974, nella sua Torino, dove rimane professore ordinario fino al 2007. Nel 2009 la Facoltà lo nomina professore emerito. Nel 1994 diventa membro del Consiglio superiore della magistratura, di cui è vicepresidente dal 1996 fino al 1998. Dal 1998 al 2001 presiede la commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Negli anni 1998- 2001 è presidente di una commissione ministeriale per la riforma del codice penale nominata dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Dopo un’ampia discussione pubblica con studiosi di diritto penale, avvocati e magistrati, nel 2001 consegna al ministero il testo degli articoli della parte generale del codice. Nel 1998, su nomina dell’allora ministro per i Beni culturali con delega allo Sport Walter Veltroni, Grosso presiede anche una commissione amministrativa d’indagine in materia di doping. Come avvocato ha rappresentato la parte civile nei processi per la strage di Bologna e per quella del Rapido 904, ed è stato il primo difensore di Annamaria Franzoni nel processo per il delitto di Cogne. Ha tutelato la posizione di oltre 32mila portatori di bond come parte civile nei processi per il crack Parmalat davanti ai Tribunali di Parma e Milano e, sempre come parte civile, ha patrocinato il Comune di Milano nel processo per i derivati. È stato difensore dell’Eni e di suoi dirigenti in numerosi processi penali. Ha inoltre difeso Renato Soru davanti al Tribunale di Cagliari, Silvio Scaglia davanti al Tribunale di Roma, Calogero Mannino davanti alle sezioni unite della Cassazione e al Tribunale di Palermo nel processo sulla trattativa Stato- mafia. È stato impegnato anche in politica. Prima consigliere comunale come indipendente nelle liste del Pci dal 1980 al 1990, periodo in cui ha ricoperto anche la carica di vicesindaco di Torino. Dal 1990 vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte. «Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino esprime il proprio sincero e profondo cordoglio per la scomparsa di un maestro che tanto ha insegnato ai nostri colleghi». A dichiararlo è Simona Grabbi, presidente dell’Ordine forense del capoluogo piemontese. «Tutti noi lo ricordiamo con grande stima, è stato un grande avvocato, un esempio per chi si affaccia a questa professione». L’Anm, con una nota della propria Giunta, esprime «profondo cordoglio per la scomparsa del professor Carlo Federico Grosso, apprezzato studioso e avvocato che seppe dimostrare, anche da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, alto senso istituzionale, attenzione alle ragioni della giurisdizione e alle istanze della società civile». Secondo l’ex presidente del Piemonte Sergio Chiamparino, Carlo Federico Grosso ha rappresentato «una figura particolarmente preziosa nell’epoca che viviamo: ci mancherà. Ricordo con commozione – aggiunge – il grande penalista, le sue straordinarie competenze giuridiche, il senso delle istituzioni che ha avuto modo di dimostrare anche nella pratica come vicepresidente del Csm, come vicesindaco di Torino e come vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte». A questo giornale, il grande giurista ha concesso, lo scorso 2 luglio, la sua ultima intervista: «L’avvocato», ci disse, «sia sempre all’altezza del proprio ruolo costituzionale». Ruolo di cui Grosso è stato tra i più alti interpreti.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 26 luglio 2019. Dovete farvi una cortesia, andare nell'archivio online di Radio radicale, la sempre benedetta Radio radicale, e recuperarvi l'audio dell'ultima grande arringa del nostro amato Carlo Federico Grosso. I lettori di questo giornale conoscono la scienza del professore e chissà se ne conoscono l'onestà, una parola così vana che se ancora ha un senso è l'onestà verso sé stessi. Sentitevi quell'arringa, è dello scorso 20 maggio, processo stralcio sulla trattativa Stato-mafia, imputato Calogero Mannino, l'ex ministro democristiano in mano alla giustizia da venticinque anni, e sempre assolto. Il professor Grosso era arrivato a Palermo la sera prima, domenica. Era già sofferente. Durante la notte era stato male e la mattina non si reggeva sulle gambe. Pur di andare in tribunale, ci si fece portare in sedia a rotelle. «Vorrei chiedere a questa corte un piacere, cioè se fosse possibile per me parlare da seduto». La voce era incerta, affaticata. Poi prese vigore, lo riperse. Era la passione nell' interezza, l' appassionarsi e il patire. Era come se la volontà sfidasse il corpo, e per un po' prevalesse. Dopo quarantasette minuti, fu concessa una pausa e poi il professore parlò per un' altra mezzora abbondante. Al termine dovettero ricoverarlo. Gli esami non aggiunsero molto a quello che si sapeva, se non quanto la situazione si fosse complicata. Lunedì scorso l'avvocato Grazia Volo, che con Grosso ha condiviso la difesa di Mannino, ha telefonato a Torino: Carlo, ce l'abbiamo fatta, Mannino è stato assolto. «Sono felice, Grazia, sono felice, molto felice. E adesso sono in pace». E' morto la notte successiva.

·         È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner».

Il film, girato nel 1982, è ambientato nel 2019 per cui si può dire che l'attore è morto nell'anno in cui il suo personaggio più iconico moriva nella finzione cinematografica.

È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner». Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. È morto Rutger Hauer, l’attore diventato una icona nel mondo come replicante di «Blade Runner». Aveva 75 anni. L’attore sarebbe morto il 19 luglio, in Olanda, ma i funerali ci sarebbero stati oggi. La morte è arrivata dopo una breve malattia, come avrebbe confermato il suo agente Steve Kenis. Una filmografia fittissima la sua, anche se il suo ruolo più famoso resta quello con cui si opponeva a Harrison Ford nel film di Ridley Scott. Più di recente ha recitato nel film del 2005 «Sin City». Dopo aver lavorato con elettricista e carpentiere aveva iniziato a recitare. Negli anni 1960 si unì a un gruppo di recitazione sperimentale con il quale collaborò per cinque anni, fino a quando nel 1969 ottenne un ruolo in una serie televisiva olandese ambientata nel medioevo. La sua carriera ebbe una svolta quando il regista Paul Verhoeven gli offrì un ruolo da protagonista nei film «Fiore di carne».

È morto Rutger Hauer, indimenticabile in Blade Runner. Aveva 75 anni. L'attore olandese è stato il "replicante" filosofo del film di Ridley Scott. Simona Santoni il 24 luglio 2019 su Panorama. "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi". La frase che ha pronunciato in Blade Runner è diventata antologia del cinema e citazione epica della vita comune. Rutger Hauer, il biondo olandese dagli occhi di ghiacchio, è morto a 75 anni. Una lunga carriera per l'attore olandese, tantissimi film all'attivo, anche se la popolarità era arrivata e sempre legata a Blade Runner di Ridley Scott, anno 1982. Lì era il capo della cellula di "replicanti" ribellatisi ai loro costruttori, sulle cui tracce è il cacciatore di taglie Harrison Ford. Un personaggio stratificato che lui ha saputo rendere con intensità tragica. Ma Rutger Hauer è stato un attore versatile, capace di far piangere, di far ridere, di far stare in tensione, amato dai cinefili. La sua carriera prese il volo nel 1973 con Fiore di carne di Paul Verhoeven in cui appare come protagonista. Insieme al regista connazionale ha avviato un buon sodalizio che gli ha aperto le porte dell'Europa. Hollywood è arrivata poco dopo, nel 1981, con il poliziesco I falchi della notte di Bruce Malmuth in cui recita accanto a Sylvester Stallone. E poi, Blade Runner. Nell'ampia filmografia, ha inanellato film d'autore accanto a b-movies e ruoli minori, tra alti e bassi. Ha lavorato anche con il nostroErmanno Olmi, che l'ha voluto ne La leggenda del santo bevitore(1989), Leone d'oro a Venezia, come ubriacone ravveduto tra misticismo e ripensamenti. Ha recitato per Lina Wertmüller in In una notte di chiaro di luna (1989). È comparso in Sin City (2005) e Batman Begins (2005). Recentemente l'abbiamo visto in una piccolissima parte nel western I fratelli Sisters. E ora, per finire la citazione della sua frase cult da "replicante": "E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire".

È morto Rutger Hauer, indimenticabile replicante di Blade Runner. Aveva 75 anni. Una lunghissima carriera di più di 170 titoli ma la popolarità la deve al film di Ridley Scott. Colpisce la coincidenza della morte nell'anno in cui era ambientato il film e in cui il suo Roy moriva, il 2019. La Repubblica il 24 luglio 2019. È morto Rutger Hauer, il replicante di Blade Runner. Aveva 75 anni. La conferma viene dall'agente Steve Kenis che a Variety ha detto che l'attore è morto il 19 luglio nella sua casa olandese dopo una breve malattia e che il funerale si è svolto oggi. Una lunghissima carriera di più di 170 titoli ma la popolarità la deve al film di Ridley Scott accanto a Harrison Ford. "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire". Con quel monologo, quello sguardo dagli occhi di ghiaccio e il grande talento per portare sul grande schermo l'ambiguità di Roy Batty è entrato nella storia del cinema, e con quel monologo oggi viene ricordato sui social dove tra i primi a omaggiarlo c'è stato il regista messicano Guillermo Del Toro. Nei tanti aneddoti che accompagnano quel film così iconico si dice anche che Hauer, che Scott aveva scelto dopo averlo visto in Fiore di carne e Soldato d'Orange, avesse suggerito egli stesso al regista come girare la scena, con la colomba bianca in mano, e avesse anche improvvisato alcune frasi del monologo. Il film, girato nel 1982, è ambientato nel 2019 per cui si può dire che l'attore è morto nell'anno in cui il suo personaggio più iconico moriva nella finzione cinematografica. Nato nella provincia di Utrecht ma cresciuto a Amsterdam, Rutger Hauer è un figlio d'arte, i genitori erano entrambi attori di teatro. La passione per la recitazione grazie a un gruppo sperimentale negli anni Sessanta finché cominciò a lavorare per una serie tv olandese, il salto al cinema grazie al regista olandese Paul Verhoeven con cui ha girato diversi film. L'attore ha lavorato anche con registi italiani, due volte con Ermanno Olmi (La leggenda del santo bevitore, Il villaggio di cartone), con Dario Argento nel ruolo di un vampiro (Dracula 3D) e Lina Wertmueller (In una notte di chiaro di luna). Il debutto a Hollywood avvenne accanto a Sylvester Stallone nel 1981 I falchi della notte, ma è grazie al ruolo del replicante Roy che la sua carriera fa un salto. Dopo la fantascienza l'altro filone molto frequentato dall'attore olandese è stato quello avventuroso, tra i suoi ruoli che rimangono memorabili c'è l'ex capitano della guardia Etienne Navarre in Ladyhawke accanto a Michelle Pfeiffer. Un altro dei suoi ruoli più interessanti è in The Hitcher - La lunga strada della paura, film del 1985 di Robert Harmon, in cui interpreta un feroce killer. Nel 1988 vince il Golden Globe per il film tv Fuga da Sobibor e l'anno dopo viene premiato come miglior attore al Seattle Film Festival per La leggenda del Santo Bevitore di Ermanno Olmi, film vincitore del Leone d'Oro 1988 a Venezia. Nel 1995 le Poste olandesi stampano un francobollo che lo ritrae in uno dei suoi film più famosi, Fiore di carne di Paul Verhoeven (1973), per celebrare il centenario della nascita dell'arte cinematografica. Arrivano poi per l'attore film come Hemoglobin - Creature Dell'Inferno (1997) Il Richiamo della Foresta(1997), Strategia Mortale (1998), Simon Magus (1999), Impulsi Mortali (2000),I Banchieri di Dio - il Caso Calvi (2001) e Confessioni di una Mente Pericolosa(2002) in cui alterna con disinvoltura, nonostante un fisico che lo vorrebbe relegato alla sola azione, ruoli da intellettuale, cattivo e romantico. Hauer si è sposato due volte; dalla prima moglie ha avuto la figlia Aysha (anche lei attrice) mentre dal 1985 si è legato in matrimonio con Ineke, scultrice e pittrice. Del suo lavoro diceva: "Bravo e cattivo ragazzo, eroe o antieroe; non mi importa ciò che interpreto, ogni ruolo ha qualcosa di magico".

Rutger Hauer, morto replicante di Blade Runner. Renzi: “Una delle scene più belle…” Silvana Palazzo il 25.07.2019 su Il Sussidiario. Rutger Hauer, morto replicante di Blade Runner. Il ricordo dell’ex premier Renzi “Una delle scene più belle del cinema”. E’ morto all’età di 75 anni il noto attore hollywoodiano, Rutger Hauer. Interprete di centinaia di ruoli nella sua lunga carriera, è ricordato in particolare per il film Blade Runner, dove ha recitato in maniera impeccabile nel replicante del famoso monologo “Ho visto cose che voi umani…” frase poi divenuta una sorta di detto popolare ad indicare le stranezze della realtà che a volte superano la fantasia. Numerosi i tweet in suo ricordo, a cominciare da quello di Matteo Renzi, che ha cinguettato così: “Oggi è morto #RutgerHauer, l’attore di film di successo tra cui #BladeRunner. Questa scena è una delle scene più belle del cinema mondiale, per me. Perché è la scena in cui il senso della vita (e della morte) esplode in modo straordinario. Buona notte”. Gli ha fatto eco un altro esponente del Partito Democratico nonché ex Premier come Paolo Gentiloni: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi Indimenticabile”. Così infine Franz Russo, noto giornalista, che sempre attraverso la sua pagina Twitter ha commentato: “Addio al grande #RutgerHauer, il replicante Roy Batty in #BladeRunner”. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

La morte di Rutger Hauer ha scosso il mondo del cinema e dell’entertainment. L’attore di film cult come Blade Runner, Batman Begins, e Sin city si è spento all’età di 75 anni dopo una breve malattia. Indimenticabile il suo discorso nel film “Blade Runner” dove interpreta il replicante Roy Batty pronunciando: “Ho viste cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire”. Piccola coincidenza nel destino di Rutger morto nel 2019, l’anno in cui è stata ambientata la celebre pellicola del 1982. Durante una delle sue ultime interviste, Rutger aveva parlato così del suo ruolo di attore: “Bravo e cattivo ragazzo, eroe o antieroe; non mi importa ciò che interpreto, ogni ruolo ha qualcosa di magico”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

In tanti hanno voluto commemorare Rutger Hauer dopo la notizia della sua morte. «Un intenso, profondo, genuino e magnetico attore che ha portato verità, potenza e bellezza nei suoi film», il messaggio lasciato sui social da Guillermo Del Toro. Il regista ha poi fatto l’elenco delle sue pellicole preferite con Rutger Hauer, tra cui ovviamente Blade Runner e Ladyhawke. «Fa tristezza sapere che se n’è andato. Lui è stato sempre un gentiluomo, una persona a modo e caritatevole», ha scritto invece Gene Simmons, membro della rockband Kiss che ha recitato con l’attore nel film Wanted: Vivo o morto. Ma l’attore olandese è stato commemorato anche dal rapper e attore Ice T, che ha ricordato di aver lavorato con lui nel film 1994 intitolato Sopravvivere al Gioco. Ma oltre a personaggi famosi, anche tante persone comuni hanno ricordato l’attore. Ognuno ha ricordato una pellicola in cui è comparso, ma anche la sua partecipazione a videogames come Kindgom Hearts III. (agg. di Silvana Palazzo)

È un giorno triste per il mondo del cinema: è morto il 19 luglio nella sua casa, a 75 anni, Rutger Hauer, ricordato soprattutto per film come Blade Runner. Tra i primi ad omaggiarlo dopo la triste notizia c’è il regista messicano Guillermo Del Toro. Come dimenticare il monologo che lo ha reso noto e che, ancora oggi, tutti ricordano. Quello in cui Roy Batti dichiara: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”. Un monologo che lo ha reso indelebile nella memoria e nella storia del cinema mondiale. (Aggiornamento di Anna Montesano)

È morto Rutger Hauer. La notizia arriva a distanza di qualche giorno: l’agente Steve Kenis ha annunciato che l’attore è deceduto il 19 luglio nella sua casa olandese. Oggi invece si è svolto il suo funerale. Aveva 75 anni e una lunghissima carriera alle spalle, ma la sua popolarità è legata a “Blade Runner”, il film di Ridley Scott con Harrison Ford. Lui era il replicante che aveva visto cose che noi umani non potremmo immaginare. Con quel monologo è entrato nella storia del cinema e oggi viene ricordato sui social. Tra i primi a omaggiarlo c’è il regista Guillermo Del Toro. Si può dire che Rutger Hauer sia morto nell’anno in cui il suo iconico personaggio moriva nella finzione cinematografica, visto che il film, girato nel 1982, è ambientato nel 2019. Nato nella provincia di Utrecht ma cresciuto ad Amsterdam, Rutger Hauer è un figlio d’arte. I suoi genitori erano entrambi attori di teatro. Dopo aver lavorato per una serie tv olandese, fece il salto al cinema grazie al regista Paul Verhoeven con cui girò diversi film. Ma ha lavorato anche con registi italiani, come Ermanno Olmi, Dario Argento e Lina Wertmueller. Rutger Hauer debuttò a Hollywood con Sylvester Stallone nel 1981 in “I falchi della notte”, ma è con il ruolo del replicante Roy che fece un importante balzo di carriera. Oltre a quello della fantascienza, l’altro filone molto frequentato dall’attore fu quello avventuroso. Tra i personaggi memorabili di Rutger Hauer c’è senza dubbio anche l’ex capitano di guardia Etienne Navarre in “Ladyhawke” accanto a Michelle Pfeiffer. In “The Hitcher – La lunga strada della paura” invece interpretò un feroce killer. Nel 1988 vinse un Golden Globe per il film tv “Fuga da Sobibor”, mentre l’anno dopo venne premiato come miglior attore al Seattle Film Festival per “La leggenda del Santo Bevitore” di Ermanno Olmi, film che vinse il Leone d’Oro 1988 a Venezia. «Bravo e cattivo ragazzo, eroe o antieroe; non mi importa ciò che interpreto, ogni ruolo ha qualcosa di magico», diceva del suo lavoro. Rutger Hauer si è sposato due volte. Dalla prima moglie ha avuto la figlia Aysha, anche lei attrice, mentre dal 1985 era legato in matrimonio con la scultrice e pittrice Ineke. 

Come lacrime nella pioggia. Quelle di uno dei monologhi più famosi della storia del cinema, pronunciato nel 1982 da Rutger Hauer. Il Post mercoledì 24 luglio 2019. Venerdì scorso è morto a 75 anni Rutger Hauer, il grande attore olandese entrato nella storia del cinema per il monologo finale di Blade Runner, il film di Ridley Scott del 1982. Nel film, Hauer interpreta Roy Batty, il capo dei replicanti ribelli, e nel confronto finale con il protagonista Rick Deckard (Harrison Ford) riassume le cose incredibili che ha visto in vita, poco prima di morire:

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:

navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,

e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.

E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»

Il monologo, che spesso viene citato erroneamente in italiano (non è “Ho visto cose che…”, ma “Io ne ho viste cose che…”), fu scritto in parte dallo stesso Hauer, inserendo il riferimento al poeta tedesco Tannhäuser e la frase finale sulle lacrime nella pioggia.

Marco Giusti per Dagospia il 24 luglio 2019. “Ho visto cose che voi umani…”. La morte di Rutger Hauer non ci voleva. E’ stato un grande attore, nel senso più antico del termime, una specie di ultimo eroe del cinema d’avventura di ogni tipo. Non importava se avesse ruoli da buono o da cattivo. Rutger Hauer lasciava sempre il segno. Esattamente come nel ruolo del replicante Roy Batty in Blade Runner di Ridley Scott, un ruolo che nessun altro avrebbe potuto fare così bene e con così tanta umanità. E’ lui che stiamo ascoltando, non Harrison Ford. Tutto il pubblico lo sapeva. Lo abbiamo visto con Sylvester Stallone ne I falchi della notte, 1981, il suo primo film americano, in Osterman Weeekend di Sam Peckinpah, nel geniale Ladyhawke di Richard Donner come il condottiero Etienne Navarre, ma anche come autostoppista pericoloso in The Hitcher e guerriero cieco alla Zatoichi in Furia cieca. Poteva fare qualsiasi parte, ovvio, perfino i film di Ermanno Olmi e di Lina Wertmuller, o il vampiro per Dario Argento in Dracula 3D, per non parlare del terribile Barbarossa leghista di Renzo Martinelli. Ma, certo, dava il meglio con il suo regista preferito, Paul Verhoven, olandese come lui, che lo aveva diretto in capolavori come Fiore di carne, Kitty Tippel, Il soldato d’Orange, L’amore e il sangue e per il quale avrebbe dovuto essere il Robocop ideale. Lì l’intesa era perfetta, Rutger Hauer sembrava nato per essere l’eroe dei film di Verhoeven. E il successo di quel cinema lo avevano costruito assieme. Figlio di attori, poco adatto agli studi, Rutger Hauer, che era nato nel 1944 a Breukelen, vicino Utrecht, inizia presto a interessarsi di poesia e di recitazione. Alla fine degli anni ’60 lo troviamo nei film dei giovani regista olandesi, come Harry Kumel e come Paul Verhoeven, che lo lancia in Fiore di carne assieme a Monique van de Ven. In Germania, con Adrian Hoven, gira La donna che violentò se stessa con la divina Dagmar Lassander e si ritrova in un film girato in Sudafrica da Ralph Nelson, Il seme dell’odio, con Sidney Poitier e Michael Caine. Lo vediamo anche in un porno di Jean-Marie Pallardy, Sweet Love, con la bellissima Willeke van Ammelroy, quando ancora il porno era un genere estremo che si poteva bazzicare. Ma sarà Verhoven a tirarlo fuori da tutto con Il soldato d’Orange e Spetters, con Renée Soutendjik. E’ grazie a questi titoli che viene chiamato a Hollywood per i Falchi della notte con Sylvester Stallone nel 1981 e finisce in Francia in Chanel Solitaire a fianco di Marie-France Pisier. Dovendo scegliere tra U-Boot e Blade Runner sceglie il secondo film. E la scelta non poteva essere più che giusta. Con Blade Runner diventa una star internazionale e domina tutti gli anni ’80. Lo troviamo in Eureka di Nicolas Roeg a fianco di Gene Hackman, in Osterman Weekend di Peckinpah, in Il nido delle aquile di Philippe Mora e in Ladyhawke di Richard Donner a fianco di Michelle Pfeiffer. Il cinema degli anni ’90 lo troverà un po’ inflazionato. Gira davvero di tutto, anche troppo, compresi i troppi film italiani. E non sempre sono firmati da Ermanno Olmi e da Dario Argento. Il film sull’aids di Lina Wertmuller a fianco di Nastassja Kinski era ridicolo, anche se lo porta a Venezia. Seguiterà a girar di tutto. Da Sin City a Batman Begins, da Le lettere di Madre Teresa al recente I fratelli Sisters. Sempre simpatico e disponibile con tutti. Uomo di grande intelligenza e umanità.  

Rutger Hauer, il prigioniero di Blade Runner: "Ma spero che Ridley non faccia il sequel". Nel trentennale del cult di fantascienza che ha cambiato la storia del cinema, l'attore sbarca in Italia come testimonial del maxicofanetto blu-ray. Racconta la sua vita di "reduce" da una pellicola unica: "E' rimasta eternamente giovane grazie a YouTube e all'amore dei fan". Boccia però l'idea del regista di resuscitare il marchio. Claudia Morgoglione il 23 ottobre 2012 su La Repubblica. Sono tanti, i film passati alla storia del cinema grazie alle frasi cult. Come "Io li odio, i nazisti dell'Illinois", che fa impazzire i fan dei Blues Brothers. O il tormentone "Suonala ancora Sam", che ha contribuito a fare di Casablanca un capolavoro. O il fulminante "Nessuno è perfetto" che chiude alla grande lo strepitoso A qualcuno piace caldo. Ma forse nessun monologo è stato capace di emozionare così tanto gli spettatori - diventando icona pop, fonte di infinite citazioni e parodie - quanto quello pronunciato da Rutger Hauer, nei panni di Roy Batty, nel finale di Blade Runner: "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi / navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione...". Sono passati trent'anni, da quando la pellicola di fantascienza di Ridley Scott cambiò definitivamente il genere, e forse il nostro modo di immaginare il futuro. Un anniversario che la major di riferimento, la Warner Bros, festeggia alla grande, con l'uscita - Italia compresa - di  un cofanetto in edizione limitata tre dischi in blu-ray, con nuovi gadget, artbook, galleria fotografica in hd. E, naturalmente, con la versione final cut rieditata qualche anno fa dal regista, da sempre scontento di quella che all'epoca andò nelle sale. E proprio la promozione dell'uscita homevideo porta qui in Italia l'attore che pronunciò, sullo schermo, quelle parole destinate a fare epoca. Un bravissimo interprete, rimasto però prigioniero del ruolo e del film. Pronto a ricordare quell'esperienza umana e professionale così intensa, "sicuramente la più forte della mia carriera". Ma anche a bocciare, sul filo dell'ironia, l'idea attuale di Scott di farne un seguito: "Sono sicuro che all'ultimo momento cambierà idea...".

Signor Hauer, sono passati tre decenni da Blade Runner: che sensazione le ha lasciato?

"La cosa più incredibile è come abbia 'tenuto' il passare del tempo, come non risulti affatto datato. Dal mio punto di vista, è e resta la cosa più eccezionale che abbia fatto. Unica. Ricordo che sorprese tutti, già all'epoca. Non ci aspettavamo l'enorme successo che ha avuto. E adesso, con YouTube, anche chi non lo vide allora può godersene i momenti cinematograficamente migliori. E per questo condivido questa maxiuscita homevideo: permette di vedere in alta definizione le nuove parti, i contenuti inediti".

Aneddoti da quel set?

"La scena di un salto che dovevamo girare in notturna. Due stuntmen si sono infortunati e, per salvare la produzione, ho deciso di tentare il salto, con in tasca i miei portafortuna, e ce l'ho fatta".

E la difficoltà maggiore?

"Rendere il personaggio di Roy più umano degli umani, come voleva Ridley: un processo che ha richiesto una preparazione enorme".

Dal suo punto di vista qual è la versione più efficace? Quella che andò nelle sale trent'anni fa, o il recente final cut?

"L'ultima versione, sicuramente. Qualche anno fa, quando andammo a presentare il final cut alla Mostra di Venezia, Ridley mi confidò che già allora avrebbe voluto mandarla nei cinema così, ma il sistema hollywoodiano non glielo aveva permesso. Del resto lui ha avuto sempre un po' la sindrome del genio incompreso".

Ma al di là delle differenze, cosa rende Blade Runner così unico?

"Tutte le sue infinite sfumature, sia visive che di significato. Tutte quelle 'stranezze' di cui è costellato. La sua irriducibile particolarità: non ricorda nulla che avevamo già visto. Ma il merito della sua longevità è soprattutto nell'amore e nella tenacia dei suoi fan; senza il loro continuo puntello, questa nuova versione, perfetta anche dal punto di vista tecnico e visivo, non sarebbe stata mai realizzata".

E adesso, trent'anni dopo, è stato ingaggiato nel serial tv True Blood...

"Stanno ancora scrivendo il copione, so poco del mio ruolo ma so che avrò parecchi denti, come un serpente o un coccodrillo. Ma il mio vero sogno nel cassetto è tornare a lavorare con Ermanno Olmi, che mi ha diretto in La leggenda del santo bevitore".

Qualche tempo fa lei ha dichiarato che l'unico regista che potrebbe realizzare un sequel di Blade Runner all'altezza dell'originale sarebbe Christopher Nolan, il regista di Inception e degli ultimi Batman, e non Scott. Era solo una provocazione ?

(Ride...). "Ma sì. Lasciamo che Nolan e Scott se la vedano tra di loro, su chi deve riprendere in mano il progetto... che combattano pure per chi debba farlo!".

A quanto sembra lei è contrario a resuscitare il marchio.

"Nulla negli ultimi anni mi ha mai fatto pensare che Ridley si sarebbe imbarcato in un prequel o in un sequel. Credo che nessuno di quelli che hanno amato tanto il film, come me del resto, pensa che davvero lo farà". La speranza può assumere anche i contorni di un progetto cinematografico abortito.

“HOLLYWOOD È UN POSTO DI MERDA". Malcom Pagani e Federico Pontiggia per "il Fatto quotidiano" il 25 luglio 2019. I piedi nudi, la camicia a scacchi, un computer. Chiama la reception per un cappuccino, gliene portano due. Altri intristiscono sul vassoio. Sul tavolo una bottiglia di Chianti, succo e birra a morire nei bicchieri, due pacchetti di Camel vuoti, il terzo in corsa per raggiungerli. Rutger Hauer ride, riflette, ricorda e ogni tanto, tra una smorfia e un'onomatopea, assecondando il lento flusso di agosto, si prende le sue pause. Nella stanza d'albergo con vista zoo in cui Dino Risi trascorse i suoi ultimi anni, il replicante di Blade Runner si è lasciato la vita difficile alle spalle. A gennaio l'uomo che vide cose che gli umani non avrebbero potuto immaginare, compirà 70 anni. Lo guardi negli occhi, e gli credi; lo vedi frangersi tra mimica, caricature e memorie, e non dubiti. Sciolte le lacrime nella pioggia e fissati i tatuaggi sulle spalle, oggi Hauer sorride. Tornare a uno dei monologhi più famosi della storia del cinema: "Volete che ve lo reciti?", lo spinge al soliloquio: "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi / navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... certo che non l'ho dimenticato. Parole che sembrano la sintesi della mia vita, il riassunto dei miei momenti più importanti. I miei genitori, Arend e Teunke erano attori. Due intellettuali, due bohemiennes. Casa mia era un porto di mare, ci vivevano in 29, in un clima libertario, originale. Osservavo questo mondo e mi chiedevo come mai, per mio padre e per mia madre, tutto pareva interessante tranne me. Come avrei attirato la loro attenzione? Mi annoiavo e sognavo la fuga.

La realizzò?

«Da adolescente, alla fine degli anni ‘50, abbandonai la famiglia per imbarcarmi su un mercantile. A scuola ero un disastro, cercavo qualcosa di più appassionante dell'epopea di Guglielmo III e la trovai in mare. Volevo andare verso la libertà, spiegare le vele, spaccarmi la schiena per 50 euro al mese».

I suoi si opposero?

«Mi agevolarono. Io ero un cavallo selvaggio, un fuggiasco nato. E loro due persone distratte, non cattive. Non fecero nulla per fermarmi. Il mare era un'antica eredità. Gli antenati di mia madre, secoli prima, avevano navigato. Un giorno mamma mi disse: "Se vuoi partire, Rutger, ti aiuterò"».

Fatica?

«Mi aveva avvertito: "Sulla nave sarai destinato a mansioni di grande responsabilità. Preparerai le colazioni, strapazzerai le uova, rifarai i letti e pitturerai le pareti arrugginite dalla salsedine. Non chiedevo di meglio. "Sarà meraviglioso" le dissi. Preparai una borsa e senza avere mezza idea di cosa avrei fatto nella vita, chiusi la porta senza rimpianti».

Vide il mondo?

«Il Pakistan, il Golfo Persico, Saigon. Un anno da vagabondo, imparando nuovi linguaggi e introiettando il senso di una disciplina che sui banchi di scuola mi rifiutavo di accettare».

Ribelle?

«Non so. Ero nato in un piccolo, ridicolo villaggio, in cui originalità e indipendenza erano viste con sospetto. Ero indolente, rifiutavo l'autorità costituita e rispondevo con una pernacchia a qualunque cosa mi proponessero. Il viaggio itinerante mi aiutò a considerare l'ipotesi che per arrivare da qualche parte mi sarei dovuto impegnare. Quando tornai in Olanda mi iscrissi a un corso di teatro. Di giorno lavoravo come elettricista, muratore e carpentiere per pagarmi l'affitto. Di notte recitavo. Guardate i calli sulle mani, non mento. Per capire che sarei potuto diventare un attore però, impiegai molto tempo».

La morale dalla fatica?

«Non credo nelle morali, soprattutto nelle morali a posteriori. Quando qualcuno pretende di dettarne una universale, state sicuri che mente».

In cosa crede allora?

«Nei percorsi individuali. Ognuno ha il suo. Non diversamente da quanto mi era capitato sui banchi di scuola, ai corsi di teatro sbadigliavo senza ritegno. Le voci baritonali degli insegnanti, la vita che scorreva fuori dalle aule. Il tedio. Teoria, teoria e ancora teoria. Guardavo i miei compagni e mi chiedevo se non ci stessero truffando. A forza di interrogarmi sulle prospettive future, venni svegliato dalla realtà. La cartolina del servizio militare, arrivata a metà dei ‘60, fu uno shock».

Soldato Hauer.

«Nei ‘60 le istituzioni militari avevano la pericolosa tendenza a formare gente da mandare sul fronte. Ogni divisa doveva diventare un perfetto John Wayne e nonostante sollecitare il fisico non mi dispiacesse, Wayne non sarei mai diventato. Ero allucinato dall'idea che ogni due ore, come nelle parodie, ci si trovasse tutti in gruppo, davanti a un signore impettito che gridava ordini indistinti e la sera, nella stessa formazione per soli uomini, i discorsi vertessero su birra, culi, fighe e sport. Avvertii un'asfissia. Respirare e accarezzare il sogno di scappare si trasformarono rapidamente nello stesso sentimento. A quel punto, architettai un piano».

Quale?

«Fingermi pazzo. Dare di matto. Costringerli ad allontanare dall'esercito olandese un elemento inaffidabile, una fonte di rischio per i suoi stessi compagni di camerata».

Ci riuscì?

«Non fu semplice. Mi preparai con un amico attore. Studiavo le smorfie, le risposte, i tempi di reazione. La sera prima di iniziare lo show, il mio amico mi consigliò di dormire un'ora per presentarmi stravolto e dare una patina di verità alla follia».

Come andò?

«Feci del mio meglio. Cominciai a confondere bandiere nazionali e tovaglie, a rispondere male, a fare strane facce e a ridere in coincidenza di un'intimazione. Costrinsi il comandante a mandarmi dallo psicologo. Lì iniziò una partita a scacchi lunga due settimane. Non erano persuasi che fossi veramente pazzo, fisicamente stavo benissimo e venni sottoposto a molti fottutissimi esami. Quando mi congedarono, per un istante, non mi fidai. Sapevo di giocarmi il presente. Temevo che mi leggessero nel pensiero e potessero scoprirmi. Così, al momento della notizia, mi finsi sorpreso e dispiaciuto: "Signor Hauer, lei è un cittadino libero". Cominciai a urlare, a batter i pugni sul tavolo, a implorarli di poter rimanere: "Non avete il diritto di farlo , bastardi! Amo il mio paese, non potete impedirmi di servirlo!". Un rischio calcolato. Di lì a 10 minuti ero fuori dalla caserma. Fu molto divertente. Come tutta la mia vita».

Una volta fuori?

«Non avevo risolto del tutto il mio problema. Dentro l'istituzione, si trattasse della scuola di teatro o dell'esercito, mi trovavo a disagio. Non mi ricordo un solo volto tra i miei insegnanti, ma degli uomini che mi hanno offerto un lavoro o delle città incontrate per raggiungerlo, ho una perfetta memoria fotografica. Per mia figlia, 50 anni dopo, è la stessa cosa. Irregimentata, non riesce a stare. Non è colpa loro, il padre non le ha dato le basi».

Come passò dal teatro alla tv?

«Per un'incredibile coincidenza. Durante gli stage incontrai alcuni attori che stavano per iniziare una serie tv, Floris. Mi invitarono sul set e molto prima di avere un ruolo, ne rimasi rapito. Pensai: "Ma questo è veramente bello! Voglio provare a essere un attore". Parlai con il manager, non ci piacemmo. Lo guardai negli occhi e capii che lui faceva il suo mestiere per sé stesso e per nessun altro. Nonostante il brusco approccio, venni assunto».

Floris, la sua prima serie Tv ebbe un buon esito?

«Fu un enorme successo. Andava in onda di domenica e al momento della trasmissione, il Paese si bloccava. Per quanto per strada mi fermassero, il fenomeno rimaneva relegato ai confini nazionali. E io volevo evadere, avere qualcosa di più grande. Quello che avevo mi sembrava troppo piccolo».

Non si accontentò.

«Come a volte accade, ebbi un colpo di culo. Nel '73 Paul Verhoeven mi offrì il ruolo di protagonista in Fiore di Carne, tratto da un libro molto venduto che trattava temi universali. La liberazione del sesso. Il dolore. L'amore che sfiorisce. La malattia».

Anche il film andò bene.

«Un trionfo. Tre milioni di spettatori nella sola Olanda. La nomination all'Oscar come miglior film straniero. In un minuto, sembrava che il mondo fosse esploso sul mio volto. Non volevo perdere quell'occasione e al tempo spesso non riuscivo a rendermi conto che quell'occasione fosse toccata proprio a me. Ero così grezzo, selvaggio, impreparato. Ero felice e turbato. Eravamo paragonati a Ultimo Tango, accostavano Paul a Bertolucci e Marlon Brando a me. Il tutto con un minuscolo film prodotto da un piccolo paese ed esportato ovunque. Non facevamo in tempo a chiedere dove fosse stato venduto che la lista dei paesi si allungava: Austria, Italia, Germania , Francia. Un delirio. Paul Verhoeven girò poi Robocop e Basic Istinct».

Per il primo dei due film, senza dar seguito all'idea, pensò a lei. Rimpianti?

«Nessuno. Robocop non era fatto per me e non riesco a pensare a nessun attore al mondo che avrebbe potuto interpretare meglio di Douglas il suo ruolo in Basic Istinct. In più, particolare decisivo, Paul non me lo propose mai. (Ride)».

Il seme dell'odio con Poitier e Micheal Caine non bastò per conquistare Hollywood, abbracciata solo grazie al violentissimo i falchi della notte del 1981.

«Dell'81? Sicuri? È già passato tanto tempo? Maledizione. Mi divertii molto. Interpretavo un terrorista spietato, in una città che molti anni dopo dal terrorismo sarebbe stata duramente colpita».

Ne I falchi della notte lei era cattivissimo.

«Non ho mai avuto paura di interpretare un cattivo. Recitavo con Sylvester Stallone, eravamo agli antipodi come ruoli, ma insieme ci trovammo benissimo. Nella scena finale, ci affrontiamo per ucciderci a vicenda».

"Ne rimarrà in piedi uno solo", giusto?

«Il buono era lui, ma proprio nel finale gli ricordo una verità che è valida in moltissimi casi: "In fondo io e te facciamo lo stesso sporco mestiere, a cambiare è solo l'obbiettivo"».

Poco dopo Ridley Scott la chiamò per Blade Runner. "Nessuno" - disse - "si sarebbe mai aspettato un esito simile".

«Non fu così romantico. Non mi chiamò Ridley, ma il capo del casting. Era tutto maledettamente professionale e organizzato, al di là di qualunque immaginazione e la vittima di tanto zelo ovviamente eri tu».

L'impatto con Hollywood?

«Hollywood è solo il nome di un infinetesimale segmento di una città con più di 20 milioni di abitanti. Un posto di merda, un circo per turisti, una specie di Disneyland. Sei contento se hai la parte in un film, guadagni, vai sui giornali e magari scopi tutte le sere. Altrimenti, ti ammazzi. Avete idea di quante persone siano morte cercando di avere fortuna a Los Angeles, di quante si siano smarrite a metà del percorso?»

Molte?

«Non le giudico perché essere insicuri, perdersi e non sapere ciò che si desidera a Hollywood è la cosa più semplice del mondo, ma sì, moltissime. Io sono stato fortunato perché Hollywood è un luogo che ammette soltanto due generi di finali. O il successo. O il crollo. Le vie di mezzo non sono previste».

Sente di appartenergli?

«Siete pazzi? Io appartengo solo al posto in cui mi trovo e mi sento felice».

In Blade Runner lavorò con Harrison Ford. Si dice che i vostri rapporti siano stati complicati.

«Non erano i nostri rapporti a essere complicati, complicato era lui. Ha avuto problemi con tutti. Problemi con me, con Ridley, con il film, con la sua reputazione. Non riusciva a ritrovarsi perché Harrison, un centro, non ce l'ha. Non ama la vita, non conosce niente, non sa nulla. Ce l'aveva con sé stesso tutti i giorni, emanava un'energia negativa. Sembrava andasse a marcia indietro. Il mio opposto».

Duro.

«Era così negativo che immaginai fosse sotto l'effetto di qualche droga, ma a dire il vero, non ho mai capito di quale sostanza si trattasse. Lui era l'eroe, ma in quelle vesti si trovava malissimo».

Litigaste sul set?

«Lavorammo insieme per 4 o 5 giorni al massimo, la maggior parte del tempo divisi da un muro. Harrison ogni tanto era dietro il muro della finzione e molto spesso dietro il suo muro personale.

Il film proponeva anche scene rischiose. Una volta dovevate girare in notturna, due stuntman si infortunarono e allora provò a lanciarsi lei. Incoscienza, follia, cos'altro?

«L'attrezzista voleva che saltassi da un palazzo all'altro. Mi chiese: "Ce la fai?". "Così no" risposi. Poi rilanciai: "Ma se mi avvicini il palazzo di un metro, forse sì". Il film era girato negli studios e dopo due ore di rumore e casino, il palazzo era stato spostato davvero. Così mi lanciai, Niente di così eroico o pericoloso. Sapevo di avere un fisico adatto alla prova. Volevo tentare e dopo essermi allenato su un trampolino per un po', lo feci. Ero sicuro di salvarmi. In The Hitcher, anni dopo, mi andò molto peggio. Saltando da una macchina in corsa, mi spaccai un dente con il calcio del fucile».

Lei ha girato più di 100 film. Le dispiace essere ricordato soprattutto per un film?

«Neanche un po'. Sono felice che sia diventato un evento collettivo. Essere ricordati per qualcosa di epocale, è meglio di essere dimenticati ed è bello che avvenga per un film che al centro della sua poetica ha il tema dell'identità».

Cosa la affascinava nel film?

«Quello che mi è sempre piaciuto di Blade Runner, sono i suoi moltissimi livelli di lettura. L'idea alla base è semplice: "Io non so chi sei e voglio assolutamente scoprirlo". Ci dimentichiamo sempre ciò che siamo. Non ci diamo il tempo necessario a capirlo. In Blade Runner, Ridley provava a dare una risposta».

Ebbe un buon rapporto con lui?

«Eccellente. Una volta stabilito un contatto, le cose andarono magnificamente. Gli domandavo lumi su Roy Batty: "Cosa vuoi che esca dal mio personaggio?". Lui mi suggeriva di lasciarmi andare: "Non pensarci". Altre volte gli facevo proposte di modifica del copione e lui diceva: "Ok, proviamo". Il massimo. Le uniche discussioni erano filosofiche: rispetto alla sceneggiatura non credevo che nello scontro conclusivo tra umani e androidi, si dovesse scimmiottare l'epica di Bruce Lee o di Superman. C'era qualcosa di più profondo, di più nascosto, di più sottile. Ridley era d'accordo e io in effetti, del finale del film, mi sento molto responsabile».

È vero che l'idea di far volare la colomba fu sua?

«Contribuii. Cosa c'era di più bello di far tenere una colomba in mano e poi farla volare dalle mani di un replicante che tenta disperatamente di somigliare a un essere umano? Nel film e per il film, comunque, diedi tutto».

Dicono che lei litighi spesso. Con i registi e con i colleghi. Che assoldarla, nonostante il talento, corrisponda sempre a un rischio.

«Il marinaio non può andare sempre contro le onde, a volte deve affrontarle lateralmente. Provando a essere furbo. Fino a un certo punto della mia vita ciò che dite è accaduto. Ho nuotato controvento combattendo con l'ego, poi, dal 1985, mi sono liberato. Da allora sono un altro uomo».

C'entra sua moglie, Ineke Ken Take?

«La conobbi nel '67, la sposai nel-l'85. Lei c'entra sempre».

Lei è un monogamo e sta con la stessa donna da un trentennio. Un attitudine che contrasta con la mitologia delle sue imprese.

«La fedeltà non è facile, ma se ci si sceglie, si fa un tratto di strada insieme e se si sta bene, quel tratto diventa un viaggio senza stazioni di arrivo».

Lei ha lavorato con molti registi italiani. Wertmüller, Tessari, Ferrara, Olmi. Il suo preferito?

«Ermanno. Un maestro. Con Scott, uno dei due registi della mia vita in assoluto. Un uomo di intelligenza superiore capace di tirare fuori la mia essenza più delicata. Per La leggenda del santo bevitore con Ermanno ci incontrammo a Parigi, lui non parlava una parola di inglese. Mi conquisto in due minuti tendendomi un tranello. Mi propose di partecipare a un film d'azione. Lo guardai negli occhi e svelai il bluff».

Vi siete ritrovati 25 anni dopo ne Il villaggio di cartone.

«È stato come se quegli anni non fossero passati. Speriamo di girare presto un altro film insieme. Ermanno, sbrigati, non abbiamo molto tempo. (Ride)».

Si sente vecchio? Rutger?

«Vi sembro vecchio? Senza una valigia e un copione da leggere non saprei stare. Il segreto dell'attore in fondo è sempre lo stesso.

Quale?

«Rendere credibile ciò che interpreti. Riempire una sala di gente che si emoziona. Conta solo quello. Il resto, credetemi, sono stronzate».

·         Addio all'ex presidente del Lecce Giovanni Semeraro.

Addio all'ex presidente del Lecce Giovanni Semeraro, aveva 82 anni. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2019. L’ex patron dei giallorossi, azionista di maggioranza della Banca del Salento, poi divenuta Banca 121 e in seguito acquisita dal Gruppo Monte del Paschi di Siena, era ricoverato dal 7 luglio scorso per problemi cardiaci, divenne presidente del Lecce dalla stagione 2005-2006 fino al giugno 2010, passando successivamente il testimone al figlio Pierandrea. Nell’estate 2011 la definitiva cessione del club salentino. LECCE – Questa mattina all’età di 82 anni si è spento  nella Clinica Petrucciani del capoluogo salentino Giovanni Semeraro ex presidente del Lecce Calcio . L’imprenditore era stato ricoverato d’urgenza il 7 luglio scorso all’Ospedale Vito Fazzi di Lecce per uno scompenso cardiaco e poi trasferito in clinica. Semeraro nel 1994 acquistò la società del Lecce  affidando la presidenza a Mario Moroni e nel giro di due anni  con Giampiero Ventura allenatore in panchina riuscì a conquistare la Serie A  facendo il doppio salto dalla C al massimo campionato. Giovanni Semeraro in seguito divenne presidente del Lecce dalla stagione 2005-2006 fino al giugno 2010, passando successivamente il testimone al figlio Pierandrea. Nell’estate 2011 la definitiva cessione del club. Durante la sua gestione, il Lecce ha giocato nove campionati di Serie A, con il picco raggiunto tra il 2003 e il 2005, quando i pugliesi chiusero al decimo e all’undicesimo posto. Nel 2005, in particolare, i giallorossi allenati da Zdenek Zeman finirono la stagione con il secondo miglior attacco della Serie A. Semeraro è stato azionista di maggioranza della Banca del Salento, poi divenuta Banca 121 e in seguito acquisita dal Gruppo Monte del Paschi di Siena. Il Lecce Calcio gli era sempre rimasto nel cuore, tanto è vero che spesso lo si vedeva in tribuna al Via del Mare. L’attuale dirigenza del club salentino ha voluto ricordare  lo “storico” presidente del Lecce con una breve nota pubblicata sul proprio sito ufficiale: “L’U.S. Lecce esprime il più profondo cordoglio per la scomparsa di Giovanni Semeraro, che dal 1994 al 2012 è stato patron ed azionista di rifermento del sodalizio giallorosso. Giovanni Semeraro ha scritto pagine indelebili della storia del calcio leccese. I risultati sportivi sotto la sua gestione hanno consolidato e rafforzato la notorietà del club a livello nazionale. Tutta la famiglia dell’ U.S. Lecce si stringe attorno al dolore che ha colpito la famiglia Semeraro”.

·         È morta Ilaria Occhini

È morta Ilaria Occhini, la diva che portò l’eleganza in tv. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Maurizio Porro su Corriere.it. È morta ieri pomeriggio a 85 anni Ilaria Occhini, brava, sensibile, elegante attrice fiorentina che ha lavorato molto nel corso del tempo migliore del teatro italiano con Luchino Visconti, Peppino Patroni Griffi (in una mitica trilogia pirandelliana sul teatro nel teatro) e con l’amico Luca Ronconi con cui aveva fatto compagnia insieme alla Gravina e Volontè, lanciandolo come regista. Bellissima e adatta alle sfumature dei ruoli romantici, ha avuto un periodo di grande successo popolare negli sceneggiati letterari della televisione anni 50-60 ma arrivando fino al cinema da “Un uomo a metà” di ieri al Benvenuti di oggi (nastro d’argento per “Benvenuti in casa Gori”), da Federico Bondi a Ozpetek. Ha respirato cultura fin da piccola essendo la nipote di Giovanni Papini e anche del senatore Occhini, alti lignaggi, ed avendo sposato il famoso scrittore di “Ferito a morte”, l’oggi 96enne Raffaele La Capria con cui ha condiviso una vita intera. Scelta sotto falso nome da Luciano Emmer come una delle studentesse di “Terza liceo” nel ’53, debutto di una brava ragazza intimorita borghese, Ilaria ha studiato all’Accademia d’arte drammatica in mezzo a una fucina di colleghi talentuosi e con Orazio Costa. Nel momento delle grandi riduzioni della domenica di famosi romanzi, la Occhini è stata una presenza bella, gentile, intelligente, diretta da Anton Giulio Majano (“L’alfiere”, “Delitto e castigo” e “Jane Eyre”) e poi nei “Promessi sposi” e in “Puccini” di Bolchi nel ’73 accanto a Lionello. Voleva e sapeva fare di tutto: con Visconti si affermò come goldoniana nell’”Impresario delle Smirne” e nel torbido best seller “Uno sguardo dal ponte” di Miller, tornando poi a Goldoni con Ronconi (“La buona moglie”) ma anche accanto a Gassmann nel flop del “Marziano a Roma” di Flaiano e poi “Edipo Re”, indi variando da Strindberg a Cecov, da Shakespeare a Pinter, da Fabbri a D’Annuncio a “Picnic” di Inge, tutto l’arco costituzionale del teatro, tenendo lo sguardo fisso all’attualità eterna di certi autori, finendo con “Spettri” di Ibsen diretto da Castri. Ma non si fece mancare un entertainment di lusso come il musical “Ciao, Rudy” di Garinei e Giovannini in cui era una delle donne dell’harem di Mastroianni Valentino, addì 1965. E neppure un esperimento itinerante in un grand hotel di Sorrento dove con la regìa di Piero Maccarinelli ha recitato “Una notte a Sorrento”, testo di Turgheniev. E in tv ancora molte memorie di prosa con Costa, Vancini, anche un ”Don Matteo” e in “Provaci ancora prof” per arrivare ai tempi moderni. Partecipò a molte avventure, passando dal grande spettacolo di tradizione alla riduzione ronconiana del Gadda del “Pasticciaccio” con cui si riunì al compagno diventato famoso. Ebbe il David di Donatello per “Mine vaganti”, il Pardo a Locarno per “Mar nero”, il premio Duse e un Nastro speciale alla carriera. Una carriera che ha goduto dei talenti più importanti ma fra loro dissimili, con momenti di gloria col conte Visconti in quel dramma, “Uno sguardo dal ponte”, fra gli immigrati italiani americani di Miller in cui lei era una giovane e bella ragazza desiderata dallo zio Paolo Stoppa, oltre alla trilogia del teatro pirandelliana di cui fu presenza di rilievo, con un sano senso dell’umorismo che riusciva a sbucare anche nelle situazioni drammatiche, formando col suo sorriso un insieme di bellissima malinconia.

È morta Ilaria Occhini: l'attrice aveva 85 anni. Ilaria Occhini è morta all'età di 85 anni. Per 50 anni è stata sposata con lo scrittore Raffaele La Capria. Alessandro Pagliuca, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. È morta l'attrice Ilaria Occhini, da oltre mezzo secolo compagna dello scrittore Raffaele La Capria, attrice di cinema, televisione e teatro. Debuttò a soli19 anni nel film Terza Liceo con lo pseudonimo di Isabella Redi. Si diplomò all'Accademia Nazionale d'arte drammatica di Roma. In televisione, diretta da Anton Giulio Majano, si è affermata giovanissima negli sceneggiati L'Alfiere e Jane Eyre, in teatro ha debuttato nel 1957 nell'Impresario delle Smirne di Carlo Goldoni per la regia di Luchino Visconti. Ilaria Occhini ha interpretato anche numerosi film, ma raramente, come Un uomo a metà del 1966, in parti da protagonista. Da segnalare che tra le caratterizzazioni più riuscite quella nella commedia Benvenuti in casa Gori del 1992 che le è valso il Nastro d'argento alla migliore attrice non protagonista. Nel 2005 ha poi recitato ne ruolo della madre nelle quattro stagioni della popolare fiction di Rai1 "Provaci ancora prof." Nel 2008 è stata la protagonista di Mar Nero, film di Federico Bondi che le è valso vari riconoscimenti. In particolare la candidatura ai David di Donatello e la vittoria del Pardo d'Oro alla miglior attrice al Festival internazionale del film di Locarno. Nel 2010 ha vinto il David di Donatello per la migliore attrice non protagonista con Mine vaganti di Ferzan Ozpetek e ha ottenuto il Nastro d'argento alla carriera. Si è impegnata anche in politica, prima con i Radicali di Marco Pannella (due le candidature: una alle politiche del 1987 e una alle europee del 2004 con Emma Bonino), nel 2008 ha aderito alla lista Pro Life di Giuliano Ferrara accettando la proposta di presentarsi nel collegio del Lazio. L'altra passione sono i vigneti di famiglia attorno ad Arezzo dove si è occupata personalmente dell'azienda agricola con la collaborazione della figlia.

Ilaria Occhini e Raffaele  La Capria: «Un amore immenso durato 58 anni». Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Elvira Serra su Corriere.it. Non vuole andare a vederla. Preferisce ricordarla viva. Bellissima. Come le ha ripetuto ogni giorno e ogni notte fino all’ultima, quando l’ha dovuta lasciar andare in clinica per un ricovero indispensabile e inutile, perché nessun medico poteva impedire che un’emorragia gli portasse via per sempre la moglie, amore della sua vita dal 1961. «Ricordo queste ultime settimane con grande tenerezza, con le carezze infinite che mio padre dava a mia madre. Le ripeteva che era l’amore della sua vita, che era bellissima...», racconta Alexandra, figlia dello scrittore Raffaele La Capria, 96 anni, e dell’attrice Ilaria Occhini, scomparsa a 85 anni sabato pomeriggio a Roma, la città dove martedì alle 18 si svolgeranno i funerali nella Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo, mentre una camera ardente sarà allestita dalle 10 alle 16.30 nel Teatro Argentina, per dare la possibilità a chi lo desidera di salutare l’artista. «Mia madre si era ammalata due anni fa. Il male è stato progressivo e inesorabile. Quando è stata allettata, si è molto avvilita, lei che era abituata a dirigere tutti e a non farsi dirigere da nessuno. Era una donna indipendente», va avanti Alexandra. L’indipendenza della moglie era uno dei tratti che Raffaele La Capria aveva sempre ammirato di più. Lo aveva ammesso con il Corriere della Sera qualche anno fa, ricordando i primi anni insieme: «Viveva del suo lavoro e sapeva amministrarsi da sola, senza che nessuno l’aiutasse». E con orgoglio aveva citato come esempio quella volta che fu lei ad andare a Milano a comprare per lui un’auto decapottabile guadagnata con i soldi di una sceneggiatura: «La portò guidando fino a Roma in un’unica tirata. Quando mi affacciai al balcone dello studio dove abitavo e vidi questa giovane donna al volante, tutta ridente d’estate, pensai a quanto fosse bella...». Non avevano bisogno di grandi gesti, bastava la quotidianità, le piccole cose condivise che diventavano piene di significato, il loro amore: andare sott’acqua tenendosi per mano nel mare cristallino della Sardegna; pescare i calamari con la lampara su un gozzo dei pescatori di Panarea e mangiarli la notte stessa; chiacchierare di letteratura e di vita nel salotto di casa sempre aperto agli amici, da Giorgio Napolitano ad Alfonso Berardinelli. «Con l’aggravarsi della malattia queste conversazioni non sono più state possibili e a mio padre sono mancate molto. Ma piuttosto che accettare la malattia, preferiva rimuoverla e credere che mamma ce l’avesse con lui», va avanti Alexandra. E invece Ilaria chiedeva sempre del suo Raffaele. «Dov’è il babbo?», domandava alla figlia. E lui arrivava, si metteva accanto a lei ormai costretta a letto, la accarezzava, le ripeteva quelle parole universali e dolci, che diventavano privatissime ed esclusive nella camera dove hanno continuato a dormire insieme, anche se separati. Lei non lo ha mai convinto ad amare la campagna, e pure si era improvvisata (con successo) imprenditrice per salvare la vigna di famiglia nell’Aretino. Lui non ha mai provato a farle abbandonare il teatro, di cui era gelosissimo perché gliela portava via per settimane intere, durante le tournée. «Ma io la chiamavo, e facevamo almeno lunghe telefonate», aveva spiegato. Non doveva temere di una moglie così ammirata. «La mia bellezza è come se fosse una cosa, una borsetta, un foulard che porto con me, non ne parlo con nessun vanto», aveva scritto lei nel libro autobiografico del 2016 Una vita senza trucco, pubblicato con Rizzoli. Ilaria e Raffaele si erano conosciuti nel 1961, durante una passeggiata a Positano alla vigilia del Premio Strega, che lui vinse con Ferito a morte. «Soltanto per un punto in più, un puro caso. Ma il premio più bello fu aver incontrato Ilaria».

Ilaria Occhini, La Capria arriva per l’ultimo saluto alla moglie. Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Corriere.it. Non poteva non dare l’ultimo saluto alla donna della sua vita. Sorretto dalla nipote e dalla figlia, lo scrittore 96enne Raffaele La Capria, attorno a mezzogiorno, è entrato al teatro Argentina dove è allestita la camera ardente per la moglie Ilaria Occhini, morta a 85 anni il 20 luglio. Piano piano e con dolcezza si è avvicinato al feretro della moglie, al cui fianco è stato per quasi sei decenni («un amore immenso in 58 anni» ha detto la figlia Alexandra). Dopo aver abbracciato Emma Bonino e Gabriele Lavia, lo scrittore poi si è seduto in platea, per guardare le immagini della moglie e della loro famiglia scorrere sullo schermo. «Sono fotografie bellissime», ha detto. Si è aperta martedì mattina al Teatro Argentina di Roma la camera ardente per l’attrice Ilaria Occhini, morta il 20 luglio a 85 anni.Una tappeto di fiori bianchi e rosa ricoprono la bara sotto il grande palcoscenico vuoto, occupato solamente da uno schermo che proietta le foto di famiglia e della lunga carriera teatrale sulle note di La vie en rose, My way ed Era de maggio. Seduta accanto al feretro ad accogliere le persone giunte a rendere omaggio, la figlia Alexandra. Tante le persone comune venute a portare l’ultimo saluto, molti seduti in platea per un momento di raccoglimento. In platea anche il direttore del Teatro di Roma Giorgio Barberio Corsetti e il regista Ferzan Ozpetek che l’aveva diretta nel film «Mine Vaganti». Dopo il lungo abbraccio alla figlia dell’attrice Alexandra, ha baciato commosso il feretro e ha lasciato il teatro.«Non ce la faccio a parlare, sono troppo scosso» ha detto. In teatro sono arrivati anche i registi Piero Maccarinelli e Francesco Apolloni che ha detto:«Io che venivo dalla bruttezza della periferia, con la famiglia di Ilaria Occhini ho scoperto la bellezza dell’arte e della natura. Li ho conosciuti grazie ad Alexandra, la mia fidanzatina ai tempi dell’Accademia con cui ho iniziato a scrivere le prime cose per il teatro - racconta - fino a quel momento non avevo mai letto un romanzo, poi cominciai con i classici greci, Proust e Joyce, solo per poter stare con loro e parlare». «La camera ardente sarà aperta fino alle 16.30. Poi alle 18 i funerali alla Chiesa degli artisti in piazza del Popolo.

Raffaele La Capria: «Io, Ilaria Occhini e il nostro amore da ragazzi alle prime armi». Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Paolo Conti su Corriere.it. «Siamo stati innamorati fino all’ultimo come due ragazzi alle prime armi. Ilaria... Eh, Ilaria è una perdita incalcolabile, era non solo una donna bellissima, intelligente, una moglie fascinosa, ma anche una presenza intellettuale essenziale per me. Ed era amorosa con me». Raffaele La Capria, ma per tutti gli amici è da sempre Duddù, affronta il rito dell’addio all’amatissima Ilaria Occhini conosciuta nell’estate 1961, quando la vide uscire a Napoli da una macchina dove c’erano lei, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Nora Ricci e lui rimase abbagliato. Sono le 14, camera ardente al Teatro Argentina: uno schermo con le immagini di una irripetibile vita familiare e di teatro, cinema, tv. Ecco Emma Bonino, Mario Martone, Gabriele Lavia. Poi la figlia Alexandra lo affida a due amici cari, lo scrittore Emanuele Trevi e l’agente letterario Enzo D’Elia, perché lo portino a mangiare qualcosa in un ristorante lì vicino dove lo trattano come a casa: pochi sedanini al pomodoro fresco, frutta, acqua. Duddù a ottobre avrà 97 anni e non sai se è forte come una roccia o fragile come un cristallo. Però parla volentieri di lei: «Capita che tra due persone ci siano profonde coincidenze che, quando affiorano, legano fortemente. Il nostro, infatti, è stato subito un forte attaccamento... parola che descrive bene ciò che voglio dire. Parlo di un sentimento autentico, intenso. Come dire? Ma sì, un vero amore». Duddù sorride, è pallidissimo. Descrive così quasi sessant’anni di presenza l’uno per l’altra: «Le chiedevo spesso consigli sul mio lavoro, come avviene tra persone che si amano davvero, che si fidano. Ilaria, in materia letteraria, era bravissima per istinto, eredità, tradizione familiare». Il sottointeso è noto, Ilaria era figlia e nipote di scrittori, Barna Occhini e Giovanni Papini. Altro cemento tra loro. Come cominciò, Duddù? «Ricordo che fu un moto spontaneo e reciproco di simpatia subito diventata amorosa».  Fu immediatamente una coppia perché (lui ne parla spesso al presente) «Ilaria non è tipo da prendere e poi lasciare. Fatto sta... che lei mi voleva molto bene e io molto bene a lei. Voler bene è faccenda assai più complessa di una passione, più difficile perché ha mille ramificazioni... Non capita spesso di incontrare una persona come Ilaria. Dico “persona” e non solo donna, intendo una realtà umana che va al di là della semplice identificazione in un sesso o in un altro. Poi è arrivata Alexandra che ha solidificato tutto». A tavola lo fanno sorridere. Ti piaceva a teatro, in tv, al cinema? «Mi piacque molto nel Puccini televisivo, andavo a tutte le prime teatrali ma... spesso... beh, mi annoiavo, ma andavo volentieri». Lei era bellissima, sei stato geloso? «Certo, sempre geloso, l’amore si nutre di gelosia e credo che a lei piacesse anche... Ma Ilaria è stata fedele, non ha mai avuto grilli per la testa... Lei è anche una donna severa». E torna il sorriso quando ricorda la comune passione per il riso dell’«Harry’s Bar» a Venezia o per le zucchine sottili fritte a «La Bersagliera» a Napoli. Nel pomeriggio la messa d’addio alla Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. C’è quella Roma trasversale tra letteratura, arte, televisione, aristocrazia, teatro dove si conoscono e frequentano un po’ tutti. In ordine sparso Dacia Maraini, Renzo Arbore, Maria Camilla Pallavicini, Giosetta Fioroni, Guido Torlonia, Piero Maccarinelli, Massimo Ranieri, Anna Maria Guarnieri, Roberto Herlitzka, Italo Moscati, Paolo Repetti, Veronica Pivetti, Giorgio Montefoschi, Edoardo Albinati, Alfonso Berardinelli. Tutti guardano Duddù accanto a Alexandra. È stanco. Improvvisamente sembra piccolissimo.

Marco Giusti per Dagospia  il 22 luglio 2019. Bella, semplice, intelligente. Ilaria Occhini, a differenza di tante altre star italiane, ha puntato da subito più alla qualità delle sue scelte che non alla quantità di film e di sceneggiati che avrebbe potuto interpretare. E anche se non è mai stata una bellezza fuori dal comune, come Virna Lisi per intenderci, ha avuto non solo una partenza fulminante, al cinema in Prima Liceo di Luciano Emmer e in tv come protagonista del Jane Eyre di Anton Giulio Majano, ma anche grandi ripartenze e rinascite, nel Puccini televisivo nel 1973, in Benvenuti a Casa Goru nel 1990, in Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, fino al tardissimo successo nella serie tv della Prof a fianco di Veronica Pivetti. In tutte queste rinascite, Ilaria Occhini è rimasta fino alla fine sempre se stessa. Bella, semplice, intelligente. Eppure ha toccato un po' tutti i generi nel cinema, l'avventuroso con Sigfrido, Pia dei Tolomei, il peplum con Cartagine in fiamme  anche lo spaghetti western, con Gli uomini dal passo pesante, la commedia all'italiana, I complessi, diretta da Dino Risi accanto a un mostro come Nino Manfredi. Ha avuto una vita cinematografica in Francia più per meriti propri che per doveri di coproduzione, recitando con Robert Hossein, Pierre Clementi, Jean Gabin, Alain Delon, Annie Girardot.  Ha spaziato negli sceneggiati della Rai dei tempi d'oro, permettendosi anche di fare del teatro filmato "difficile", penso a Ricorfa con rabbia diretta da Marco Missiroli o a Il gabbiano nella versione di Orazio Costa. Ha abbandonato il cinema una prima volta alla fine degli anni 60 con un film di gran classe diretto da Vittorio De Seta, Un uomo a metà con Jacques Perrin. Ma è sempre tornata sulle scene con  una classe e un'eleganza abbastanza rare nel nostro mondo dello spettacolo. Fino ai ruoli fortunati di signora di età con Ferzan Ozpetek e Paolo Genovese. Come se la ragazzina di Prima Liceo di Emmer fosse rimasta intatta per anni.

·         Morto Francesco Saverio Borrelli.

Morto Francesco Saverio Borrelli. Francesco Saverio Borrelli, il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano che guidò il pool di Mani Pulite è morto oggi all'età di 89 anni. Francesco Curridori, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. “Resistere, resistere, resistere” è stata la linea di condotta tenuta da Francesco Saverio Borrelli durante tutta la sua carriera in magistratura, caratterizzata da un accanimento giudiziario senza precedenti nei confronti di Silvio Berlusconi.

Dall'infanzia a Napoli all'ingresso in magistratura. “Sono figlio, nipote e pronipote di magistrati. Da bambino spesso non potevo fare chiasso perché papà stava scrivendo una sentenza. A quel tempo il lavoro del magistrato, specialmente se civilista, si svolgeva in casa. Forse viene da lì la mia passione per le sentenze”, racconterà Borrelli nato e cresciuto nella Napoli degli anni ’30. A sette anni scopre che i genitori gli avevano tenuto nascosto che i suoi fratelli, in realtà, erano dei fratellastri rimasti orfani di madre da piccolissimi. “I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così”, dirà Borrelli molti anni dopo. Incoraggiato da Piero Calamandrei si laurea in giurisprudenza con una tesi dal titolo ‘Sentimento e sentenza’. Nel ’55 entra in magistratura come pubblico ministero e all’inizio Oscar Luigi Scalfaro è il suo uditore giudiziario. “Mi scrisse qualche riga di elogio decisiva a incoraggiarmi rispetto all’aridità che percepivo in quella professione. Era un uomo superiore: entrava magari in aula con una giacca lisa, ma addosso a lui sembrava un frac, tanto era il suo carisma”, racconterà.

Borrelli alla guida del Pool Mani Pulite. Nel 1983 Borrelli diventa procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano fino al 1988 quando assume il ruolo di capo dello stesso ufficio ma assurge alle cronache nazionali solo nel 1992 quando l’inchiesta Mani Pulite scuote il mondo della Prima Repubblica. È lui a guidare il pool di magistrati composto da Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. “Allora la connessione tra affarismo e politica, per torbida che fosse, non smentiva l'obiettivo fondamentale del mondo dell'impresa, che è quello di produrre ricchezza”, spiegherà l’uomo che inviò il primo avviso di garanzia a Bettino Craxi. "Se hanno scheletri nell'armadio, li tirino fuori prima che li troviamo noi" è la frase intimidatoria pronunciata da Borrelli nel ’93 in vista delle elezioni Politiche dell’anno successivo. “Un'affermazione assurda che presuppone una condanna prima del processo” fu allora il commento di Silvio Berlusconi che, evidentemente, già immaginava quanto dannoso sarebbe stato affidare al potere giudiziario le sorti del potere politico. “Nei nostri armadi non ci sono cadaveri ma solo abiti o stampelle. Non si può chiedere che i magistrati si astengano dal prendere provvedimenti in campagna elettorale? Io rovescio la questione: sono le scadenze elettorali a non dover condizionare quelle giudiziarie", aggiunse il Cavaliere. Nel 1994 Borrelli, intervistato dal Corriere della Sera, rilascia un’altra dichiarazione choc che dà il segno del clima in cui si respirava in quel periodo: “Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il Presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge. E soltanto in quel caso potremmo rispondere con un servizio di complemento”. Anche per questo nel corso degli anni si conquista il soprannome di ‘grande inquisitore’: “C’è chi ha fatto di tutto per screditare il nostro lavoro, anche attraverso i soprannomi. Pochi sanno -confesserà -peraltro che sono finito a fare il pubblico ministero per caso e, pur avendo fatto l’inquirente con scrupolo, la mia vera passione sarebbe stata quella di tornare a fare il giudice, specie nelle cause civili".

Berlusconi da sempre nel mirino di Borrelli. La caduta del primo governo Berlusconi è determinata dall’avviso di garanzia che Borrelli fa recapitare al Cavaliere mentre quest’ultimo presiedeva a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. Nel ’96, a margine della prima udienza del giudizio contro Berlusconi, ha l’ardore di dire: "Questo non è un processo politico - dice Borrelli - anche se è innegabile che possa avere conseguenze politiche. Ma i nostri valori sono scritti nel codice penale". Nel 1999 va in pensione ma fino al 2002 ricopre il ruolo di procuratore generale della Corte d'appello milanese. Ed è in quella vesta che il 12 gennaio del 2002, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, pronuncia lo slogan “resistere, resistere, resistere” ideato da Vittorio Emanuele Orlando dopo la cocente sconfitta di Caporetto. No, stavolta il bersaglio non sono gli austriaci ma è ovviamente Silvio Berlusconi e le riforme del suo governo in materia di giustizia. “Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”, è il grido di battaglia di Borrelli.

Gli ultimi anni di vita. Nel 2006, dopo lo scandalo Calciopoli, l’allora commissario straordinario della Figc Guido Rossi lo nomina capo dell’ufficio indagini della Federazione, incarico che abbandona nel giugno 2007. Il 14 ottobre di quello stesso anno firma l’appello in sostegno alla corsa di Walter Veltroni a segretario del Pd. Nel 2011 si scusa sarcasticamente “per il disastro seguito a Mani Pulite: non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale”.

Morto Francesco Saverio Borrelli, ex capo del pool Mani Pulite. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 su Corriere.it. Morto il magistrato Francesco Saverio Borrelli. Il capo del pool di Mani Pulite è mancato oggi a Milano. Era ricoverato da tempo nell’hospice dell’Istituto dei Tumori. Aveva 89 anni. Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile del 1930. Era entrato in magistratura nel 1955, nel capoluogo lombardo tutta la sua carriera. Accanto a lui fino alla fine, la moglie Maria Laura e i figli Andrea e Federica. La camera ardente in Tribunale a Milano. Qualche giorno fa, con un post su Facebook, la figlia Federica aveva annunciato la gravità delle sue condizioni di salute: «Ti tengo la mano e insieme alle lacrime che non ho il pudore di nascondere, scorrono i mille ricordi di quanto vissuto con te». Nato a Napoli il 12 aprile del 1930, entrò in magistratura nel 1956. La quasi totalità della sua carriera giudiziaria si è svolta nel Palazzo di Giustizia di Milano. Dal 1999 e fino al 2002, quando andò in pensione, è stato procuratore generale della Corte d’Appello milanese. Fu lui a pronunciare la famosa frase «Resistere, resistere, resistere», come sulla linea del Piave nel corso della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002. Parole rivolte alla politica che, a suo dire, metteva in pericolo l’indipendenza della magistratura. Nel maggio del 2006 venne nominato capo dell’ufficio indagini della Figc (Federazione italiana Gioco Calcio), incarico che ricoprì per un solo anno. Nel 2012 è stato insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica.

Morto Francesco Saverio Borrelli, il capo del pool Mani Pulite di Milano. Il magistrato era nato a Napoli nel 1930, a Milano tutta la sua carriera, dalle inchieste su Tangentopoli allo storico appello "Resistere, resistere, resistere". Era ricoverato in un hospice. Greco: "Ha fatto la storia d'Italia". Camera ardente a Palazzo di Giustizia. Oriana Liso il 20 luglio 2019 su La Repubblica. Francesco Saverio Borrelli, il magistrato il cui nome è legato da sempre al pool di Mani Pulite, è morto oggi nell'hospice Floriani dell'Istituto dei Tumori di Milano, dove era ricoverato. Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile del 1930, era entrato in magistratura nel 1955 e quasi tutta la sua carriera si è svolta nelle aule del tribunale di Milano, fino a quel suo discorso da procuratore generale della Corte d'Appello, nel 2002, che si concludeva con una parola ripetuta tre volte, un appello per l'indipendenza della magistratura rimasto famoso: "Resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave". La camera ardente sarà aperta lunedì dalle 9.30 alle 12 a Palazzo di Giustizia. Accanto a lui fino all'ultimo momento la moglie Maria Laura e i figli Andrea e Federica, che aveva scritto su Facebook un lungo post che faceva già presagire la fine. Immediate le reazioni di quanti l'hanno conosciuto. "Francesco Saverio Borrelli era un capo che sapeva proteggere i suoi uomini, una persona che ha fatto la storia d'Italia". Così Francesco Greco, a capo della procura di Milano e considerato l'allievo dell'ex magistrato che guidò il pool di Mani Pulite, commenta la scomparsa di Borrelli. L'8 luglio la figlia Federica aveva scritto su Facebook: "Ti tengo la mano e insieme alle lacrime che non ho il pudore di nascondere, scorrono i mille ricordi di quanto vissuto con te. Mi vedo  seduta sulla canna della tua bicicletta azzurra, sento ancora il freddo dell'acciaio sulle mie gambe infantili, vedo le mie mani grassocce che stringono il manubrio, come mi dicevi tu, per non cadere e non sbilanciarci. Ricordo l'ansia del distacco quando mi lasciavi all'asilo per consegnarmi alla signorina Carla. Ma non solo... ricordo le prime versioni di latino tradotte insieme, ricordo il tuo aiuto magico per il maledetto Isocrate e per i filosofi greci, anche all'Università, ricordo il regalo di maturità, le gite sui Monti della nostra Courmayeur, i litigi, le sgridate, l'ultima pochi giorni prima del matrimonio, ricordo che non hai mai smesso di trasmettere tutto ciò che per te valeva la pena trasmettere". Scriveva ancora sua figlia: "Nel mio momento più buio ci sei stato, amorevole, quando nacque Sofia, quando mi sono ammalata mi hai portato in giro per capire cos'era questa maledetta malattia. Mi mancano il tuo arguto senso critico, che si parlasse di filosofia, letteratura, musica, storia e arte. Mi manca il suono del tuo pianoforte che giace orfano del tuo talento, come orfani siamo noi. Papà vorrei averti potuto e saputo dare tutto quello che mi hai dato, per sempre". Dopo la carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto ancora una stagione professionale come capo dell'ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. Ma accanto all'amore per la legge, Borrelli ha sempre coltivato quello per la lirica: presenza fissa alla Scala di Milano, nel 2007 era stato nominato presidente del Conservatorio di Milano.

A capo della procura di Milano per 11 anni, divenne il simbolo della stagione di Mani Pulite. Giampaolo Visetti il 20 luglio 2019 su La Repubblica. Francesco Saverio Borrelli è morto nell'Istituto tumori di Milano. Aveva 89 anni. Da alcune settimane era ricoverato nella stanza numero 3 dell'Hospice Virgilio Floriani, al secondo piano. Nell'autunno scorso i medici gli avevano diagnosticato un tumore al cervello ed era stato operato all'ospedale San Raffaele. Con lui, sempre e fino all'ultimo, i famigliari: la moglie Maura Laura Pini Prato e la sorella, la figlia Federica e il figlio Andrea, pure magistrato, i nipoti Francesco, Teresa e Sofia. La notizia del ricovero dell'ex capo della Procura milanese, fino al 2002 procuratore generale della Corte d'appello, si era sparsa da tempo e non solo nell'ambiente giudiziario. Decine, negli ultimi giorni, i colleghi di ieri e di oggi, gli avvocati, il personale delle cancellerie e gli agenti delle forze dell'ordine che hanno voluto passare a salutare quello che per tutti resta il capo del pool di Mani Pulite, una figura di magistrato il cui significato ha ampiamente superato la funzione giudiziaria. Centinaia però anche le persone comuni e gli amici che, saputo della sua degenza, si sono affacciate con discrezione alla porta della sua stanza per dirgli semplicemente "grazie" e abbracciare i famigliari. Da un paio di settimane Borrelli aveva infine perso conoscenza. Il suo profilo si era fatto affilato, sotto il lenzuolo e dentro la tunica bianca giaceva un fisico magrissimo. Teneva gli occhi socchiusi e non muoveva più la parte sinistra del corpo. La moglie e i figli non hanno smesso di tenergli la mano e di sorridergli, di chiedergli se riuscisse ancora a sentire la loro voce. A chi lo andava a trovare confermavano, con dolore ma senza smarrire la serenità, che la speranza di una reazione però era finita. "E' forte - dicevano nelle ultime ore - ma questa volta non ce la fa". Giudice e magistrato per 44 anni, Francesco Saverio Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile 1930. Anche il padre Manlio e il nonno avevano indossato la toga e così aveva scelto di proseguire la tradizione di famiglia. Si era laureato in giurisprudenza a Firenze a 22 anni, allievo di colui che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con una tesi su Pietro Calamandrei dal titolo "Sentimento e sentenza". Si era poi subito trasferito a Milano, assumendo il ruolo di pubblico ministero nel 1955. Nel 1983 il passaggio da Pm e magistrato, con la nomina a procuratore aggiunto presso il Tribunale. Alla guida della Procura milanese, esercitata poi per undici anni fino al 1999, era stato chiamato nel 1988. Mai avrebbe immaginato, come lui stesso ha più volte ricordato, che quattro anni dopo si sarebbe aperta una delle più decisive stagioni di inchieste sulla corruzione e sui rapporti illeciti politica-affari della storia italiana. Mani Pulite, con l'inchiesta sulla famosa mazzetta incassata da Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio, scoppiò nel febbraio del 1992. Borrelli si rese conto subito della pervasività della corruzione degenerata in sistema nazionale e assieme a Gerardo D'Ambrosio, per affrontare Tangentopoli, formò il famoso pool con Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i simboli della lotta contro le mafie, Francesco Saverio Borrelli è l'icona di quella contro la corruzione, di una figura di procuratore capo quale garante non dei poteri, ma dei diritti. Nella storia italiana, anche quando si parla di Borrelli, esiste un prima e c'è un dopo. Sua la firma sotto il primo avviso di garanzia a Bettino Craxi, o sotto il mandato di comparizione del 1994 a Roma per Silvio Berlusconi, impegnato al G7 di Napoli. Nessuno dimentica il suo appello alla classe politica prima della campagna elettorale del 1993: "Se hanno scheletri nell'armadio li tirino fuori, prima che li troviamo noi. Si candidi solo chi ha le mani pulite". Storico il suo "Resistere, resistere, resistere come sulla linea del Piave", in occasione dell'ultimo discorso inaugurale dell'anno giudiziario nelle vesti di procuratore generale della Corte d'Appello, nel 2002, contro le riforme del governo Berlusconi, impegnato a ridimensionare l'indipendenza della magistratura. Dopo la pensione, nell'aprile dello stesso anno,  Guido Rossi nel 2006 lo aveva voluto alla guida dell'ufficio indagini della Figc, la Federazione italiana gioco calcio, pure alle prese con gli scandali di Calciopoli. Ritiratosi e vita privata un anno dopo, Francesco Saverio Borrelli aveva finalmente potuto dedicarsi alle sue grandi passioni: la famiglia, il pianoforte, la musica di Wagner, i suoi amati cavalli. "Nessun cambiamento deve suscitare scandalo - disse nel pieno della "questione morale" - purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell'azione, non subisca sopraffazione dagli interessi". L'ultima lezione, inascoltata.

Morto Borrelli, Mattarella: "Ha servito con fedeltà la Repubblica". Bobo Craxi: "Fu punta di diamante di un colpo di Stato". I magistrati ricordano lo storico procuratore capo morto oggi a Milano. Colombo: "Incarnava l'idea del magistrato che lavora nell'interesse di tutti". La figlia del leader Psi Stefania: "Il tempo pronuncerà parole di verità". La Repubblica il 20 luglio 2019. Il primo a ricordarlo è l'uomo considerato uno dei suoi allievi, il magistrato che tre anni fa, nel discorso da nuovo capo della procura di Milano, citò proprio lui come esempio. "Francesco Saverio Borrelli era un capo che sapeva proteggere i suoi uomini, una persona che ha fatto la storia d'Italia": Francesco Greco, procuratore capo di Milano, ricorda così Francesco Saverio Borrelli, il magistrato che ha guidato il pool di Mani Pulite e che è morto oggi a Milano all'età di 89 anni. Greco ha già fatto sapere che la camera ardente di Borrelli sarà aperta lunedì dalle 9.30 alle 12 in tribunale, come era già accaduto per un altro loro collega di quella stagione, Gerardo D'Ambrosio. Dal Quirinale arriva, con una nota, il cordoglio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ricorda il "magistrato di altissimo valore, impegnato per l'affermazione della supremazia e del rispetto della legge, che ha servito con fedeltà la Repubblica". Ma ci sono anche ricordi in chiaroscuro, come quello di Bobo Craxi: "Fu una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato, il sovvertimento di un organo dello Stato da parte di un altro". Volti e nomi legati per sempre, quelli del pool e dei magistrati della procura di Milano degli anni Novanta. "Di Francesco Saverio Borrelli si deve ricordare non solo l'aver guidato la procura di Milano in un momento difficile, ma la sua intera carriera: è stato giudice e pubblico ministero, giudice civile, procuratore generale, e molto altro. In questi tempi ultimi si sono fatte critiche al carrierismo, ma lui ha dimostrato nella sua lunga carriera che lo si può fare con spirito di servizio e utilità complessiva per la giustizia. Se ricordiamo Mani Pulite in modo comunque positivo è perché lui seppe gestite quella fase delicata, il mitologico 'pool' fu una sua invenzione": così l'ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Gherardo Colombo - che nel pomeriggio è arrivato all'hospice dell'Istituto dei tumori di via Venezian, ricorda: "Abbiamo lavorato tanto assieme, incarnava perfettamente l'idea del magistrato che svolge il suo lavoro nell'interesse di tutti, era una persona eccezionale". "Sono molto molto addolorato, è un momento difficile e credo che mi terrò dentro il mio dolore", dice il procuratore aggiunto Paolo Ielo. "Scompare un baluardo resistente a difesa e a tutela dell'indipendenza della magistratura". Così il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, mentre Armando Spataro ricorda: "Un grande giurista ma ancor più un grande uomo, rifuggiva anche dal titolo di capo che non gli piaceva, amava il lavoro di squadra". E l'Anm riassume: "Scompare figura esemplare di magistrato". "Francesco Saverio Borrelli ha saputo dare risposte concrete al bisogno di giustizia e onestà in uno dei momenti più difficili del nostro Paese. La sua azione e il suo impegno resteranno per sempre un esempio che Milano, sua città adottiva, non dimenticherà", è il ricordo affidato a Twitter del sindaco Beppe Sala. "Mi piace ricordarlo con parole che spesso mi aiutano ad andare avanti: 'Resistere, resistere, resistere'. Francesco Saverio Borrelli: quando la giustizia è capacità di non piegarsi al potere politico", scrive su Twitter Nicola Morra, presidente M5S della Commissione antimafia. "Protagonista di una stagione che ha segnato la storia recente del nostro Paese, uomo di grande cultura e sempre attento al mondo del sociale con iniziative a sostegno dei più deboli", ricorda il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Ma quella stagione, che mise fine alla Prima Repubblica tra arresti e scandali, è al centro anche del commento di Stefania Craxi, la senatrice di Forza Italia figlia del leader Psi Bettino, che proprio di Tangentopoli divenne uno dei simboli: "Con Borrelli viene a mancare uno dei protagonisti principali di una stagione infausta della nostra storia repubblicana. A dispetto di molte comparse del tempo, compresi taluni suoi compagni magistrati assurti ad eroi e gettatasi nell'agone politico ed alla ricerca di incarichi pubblici, Borrelli, scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga e nei recenti anni, se pur sempre con reticenza ed omissioni, ebbe ad avanzare alcune riflessioni amare sugli effetti prodotti dalle inchieste di 'Mani pulite'. Il tempo, come sempre, pronuncerà parole di verità. Ma la sua dipartita porta con sé molti segreti e molti 'detto non detto' che, nonostante il lavoro della storia, resteranno probabilmente celati. Nel momento del dolore e della sofferenza il silenzio e il rispetto sono pertanto dovuti all'uomo e alla famiglia". E anche suo fratello Bobo Craxi commenta: "E' stato a suo modo un protagonista della storia di questo Paese. E' stato espressione di una funzione di scardinamento delle forze che governavano all'epoca, dopo di che negli anni successivi ha riflettuto sul disastro compiuto. Fu una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato, il sovvertimento di un organo dello Stato da parte di un altro. Comunque pace all'anima sua, la guerra è finita". E ancora un figlio, Stefano, il cui padre Gabriele Cagliari si suicidò a San Vittore nel 1993 accusato di aver autorizzato tangenti per Eni, commenta: "Quando una persona manca è sempre un dispiacere. Personalmente non ho niente contro Borrelli, anche se ritengo abbia fatto molti danni a questo Paese. Non ho altro da aggiungere". Ed è un ricordo in chiaroscuro anche quello di Luigi Bisignani, già protagonista dell'inchiesta Enimont: "Borrelli rappresentava il volto nobile di Mani Pulite, ma 'Resistere, resistere, resistere' è stato però uno slogan che alla magistratura non ha fatto onore".

E’ morto Borrelli. Assieme ai misteri di Mani Pulite (e quel soccorso al Pci-Pds…). Andrea Giorni, sabato 20 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Francesco Saverio Borrelli è morto oggi a Milano, dopo una lunga malattia, all’età di 89 anni. L’ex magistrato ha guidato il pool di Mani Pulite, l’inchiesta giudiziaria che ha segnato la fine della Prima Repubblica. Entrato in magistratura nel luglio 1955, ha legato la sua carriera a Milano dove, salvo un anno a Bergamo, ha svolto ogni tipo di funzione: pretore, giudice fallimentare e poi civile, pubblico ministero, procuratore capo dal 1988 fino alla nomina di procuratore generale nel 1999.

Quell’ambiguo resistere, resistere, resistere. Sposato con Maria Laura e padre di due figli, il primogenito Andrea è giudice civile a Milano. Tra i suoi interventi a difesa dell’indipendenza della magistratura resta celebre la frase pronunciata nel 2002, a pochi mesi dalla pensione: “Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. Ovviamente, resta ancora controverso l’operato di quel pool di magistrati che Borrelli capitanò, a partire da Tonino Di Pietro. E proprio quel suo “resistere resistere resistere”, che pure sembrò affascinare molti, alla luce dei fatti apparve come uno slogan. In realtà gli unici a “resistere” furono gli uomini del Pci-Pds, salvati dall’inchiesta Mani pulite, nonostante evidenti compromissioni nella gestione del potere locali.

Le parole di Stefania Craxi. Comunque, potremmo dire a sorpresa, rende onore a Borrelli Stefania Craxi, figlia di Bettino, che da quei magistrati fu colpito duramente: almeno “Borrelli scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga e nei recenti anni, se pur sempre con reticenza ed omissioni, ebbe ad avanzare alcune riflessioni amare sugli effetti prodotti dalle inchieste di ‘Mani pulite'”. Con stile, la Craxi ha voluto così dire quel che molti pensano su troppi magistrati che hanno abbracciato la militanza politica e parlamentare. Mostrando così quanto volatile possa essere il principio dell’indipendenza. Anche per questo restano i dubbi sul misterioso soccorso rosso agli uomini che allora stazionavano a Botteghe Oscure.

Si è spento Francesco Saverio Borrelli, storico capo del pool "Mani Pulite". Il Corriere del Giorno il 20 Luglio 2019. Ex capo del “pool Mani Pulite” ai tempi in cui era Procuratore della Repubblica ed ex procuratore generale di Milano, protagonista di una capitolo della storia d’Italia. Dopo la sua carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto una nuova “stagione” professionale come capo dell’ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. La camera ardente si aprirà lunedì mattina alle 9.30 nel Tribunale di Milano, nell’atrio di fronte all’Aula Magna”. E’ morto all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dove era ricoverato da un circa un paio di settimane,  dopo aver indossato per 47 anni  la toga Francesco Saverio Borrelli, 89 anni ex capo del “pool Mani Pulite” ai tempi in cui era Procuratore della Repubblica ed ex procuratore generale di Milano, protagonista di una capitolo della storia d’Italia. Francesco Saverio Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile 1930 ed è morto . Lascia la moglie Maria Laura, i figli Andrea e Federica e quattro nipoti. Figlio e nipote di magistrati e a sua volta con un figlio magistrato, Borrelli, trasferitosi a Firenze, ha studiato al conservatorio (la musica, insieme alla montagna, è stata una delle sue passioni) e si è laureato in legge con una tesi su “Sentimento e sentenza“. Relatore fu Piero Calamandrei. Vinto il concorso nel 1955, Borrelli è entrato in magistratura come giudice civile a Milano, nel palazzo dove il padre era la più alta carica. Passato dal civile al penale, ha presieduto sezioni di tribunale e di Corte d’Assise, giudicando anche le Br. Negli anni Sessanta è stato tra i fondatori della corrente di Magistratura Democratica. Il 17 marzo 1988 Borrelli è succeduto a Mauro Gresti alla guida della Procura della Repubblica di Milano , dove dal 1983 era stato procuratore aggiunto. E’ diventato noto con “Mani Pulite“, la maxi-inchiesta che ha coordinato con il vice Gerardo D’Ambrosio, collega ed amico scomparso il 30 marzo 2014 e con il quale, peraltro, si è talvolta trovato in disaccordo sui temi di politica giudiziaria. Dal 1999 al 2002 come Procuratore Generale ha difeso con fermezza il principio costituzionale della indipendenza della magistratura. La camera ardente si aprirà lunedì mattina alle 9.30 nel Tribunale di Milano, nell’atrio di fronte all’Aula Magna”, come ha reso noto il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso. “Un grande capo che ha saputo anche proteggerci, un grande magistrato che ha fatto la storia di questo Paese“. Sono state queste le prime parole di Francesco Greco, capo della Procura di Milano e che faceva parte del pool ‘mani pulite’. “Con la sua guida autorevole ha fondato lo spirito moderno dell’ufficio nell’intransigente rispetto dei valori di indipendenza e legalità. Il suo esempio ispira quotidianamente il nostro lavoro. Nei nostri cuori vive con orgoglio la sapienza di un uomo speciale“. Con queste parole contenute in un comunicato la Procura di Milano “piange” Borrelli. “Scompare un baluardo resistente a difesa e a tutela dell’indipendenza della magistratura”. Così il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso. In Procura generale, ha detto, il ricordo di lui è “vividissimo“, “era sempre presente ad ogni ricorrenza” nel Tribunale milanese. Il pg Alfonso, dal punto di vista personale, ricorda soprattutto la sua “cordialità e cortesia”. Dopo la sua carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto una nuova “stagione” professionale come capo dell’ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. Ma accanto all’amore per la legge, Borrelli ha sempre coltivato quello per la lirica: presenza fissa alla Scala di Milano, nel 2007 era stato nominato presidente del Conservatorio di Milano. Le critiche di Bobo Craxi: “guidò un colpo di Stato” – “Ebbe la funzione di guidare un sovvertimento istituzionale da parte di un corpo dello Stato nei confronti di un altro. Non è una mia opinione personale, i giuristi lo chiamano colpo di Stato“. Così Bobo Craxi, figlio di Bettino, l’ex premier socialista morto nel 2000. Bobo Craxi contattato dall’ANSA, ha proseguito “Borrelli, è stato protagonista della storia di questo Paese e ha saputo negli ultimi anni esprimere un secco revisionismo su quell’azione che ebbe risvolti politici a tutti noti. Seppe fare un’analisi obiettiva“. Bobo Craxi  tornando agli anni di Mani Pulite, ha affermato che quei magistrati “svolsero un’azione politica che loro stessi consideravano rivoluzionaria e i presupposti rivoluzionari non hanno il problema di dover applicare i manuali”.

Borrelli, il tributo dei suoi sostituti: «Tu un capo vero, il nostro». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Era il nostro Capo. Non che facesse qualcosa per mostrarsi tale, perché quando si annunciava diceva solo «sono Borrelli», senza anteporre titoli o onori, di cui non aveva bisogno. La sua porta era aperta a tutti, dai procuratori aggiunti, ai giovani sostituti appena arrivati, ma anche a segretari e cancellieri, a poliziotti e carabinieri, a finanzieri e vigili. E ovviamente agli avvocati e persino alle gente «comune». Perché il «vero capo» non ha bisogno di apparire. Lo è. E lui lo era. Quando entravi nel suo ufficio con un problema, ne uscivi con una soluzione. E quando magari dopo mesi e mesi tornavi sull’argomento, si ricordava tutto, come se alla Procura di Milano ci fossero solo tu, lui e un paio di altri colleghi. Quando avevi sbagliato qualcosa, te ne parlava con quel modo garbato per cui alla fine eri tu stesso a riconoscere l’errore. Salvo poi, davanti al mondo, metterci lui la faccia. La solitudine del magistrato, una condizione frequente e per certi versi fisiologica, con lui era uno stato transitorio. Bastava parlargli del problema, riferirgli gli attacchi ricevuti e le critiche da cui si veniva subissati ed ecco pronta la risposta: “la Procura ha fatto, la Procura ha detto; firmato Francesco Saverio Borrelli”. Appartenere alla Procura di Milano era come stare in una grande orchestra, ognuno col suo strumento, diverso dagli altri, ma ugualmente essenziale. E con un direttore che ti faceva sentire utile, anche se non eri il primo violino. Del resto il Capo la musica la conosceva bene, sia quella che si suonava alla Scala, sia a Palazzo di Giustizia. Ciao Saverio, i tuoi sostituti non ti dimenticheranno mai.

Dall’archivio Gli esordi:  «Mi occupai di supposte e  dei vestiti di Mike Bongiorno». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Corriere.it. Di seguito l’intervista a Francesco Saverio Borrelli pubblicata su «Sette» l’11 aprile 2002, alla vigilia della pensione. L’argomento della sua prima sentenza? Supposte. Il suo primo convenuto eccellente? Mike Bongiorno. La prima volta che finì su un giornale? «In terza elementare, a Firenze, quando la mia maestra fu intervistata da La Nazione per un’inchiesta sulla scuola e indicò in me l’alunno che di solito, in sua assenza, era incaricato di segnare sulla lavagna i buoni e i cattivi...». Casomai servisse, ecco, questa forse è la prova che qualcuno effettivamente ci nasce, per fare il giudice. Francesco Saverio Borrelli, maestra a parte, ce l’aveva nel Dna: magistrato suo nonno, classe 1844, da cui ebbe in eredità il nome; magistrato suo padre Manlio, che chiuse la carriera nel ’59 come presidente della Corte d’Appello di Milano; e magistrato lui, che il 12 aprile 2002, allo scoccare del suo settantaduesimo compleanno, va in pensione con la carica di procuratore generale, in quella che è stata la roccaforte di Mani Pulite. Il pianoforte, la montagna, chi è stato il «magistrato semplice» Borrelli prima di diventare il «generale» Borrelli? «Guardi, non è proprio il caso, non mi ricordo neppure...». Bisogna insistere: andiamo, possibile che non ricordi il suo primo processo, o il perché ha fatto una scelta anziché un’altra, o cosa sono stati gli anni di piombo... Borrelli appoggia i gomiti sulla scrivania, si sfila gli occhiali, chiude gli occhi: non è vero che non ricorda. «Intanto, io non nasco affatto come pubblico accusatore. Ero sempre stato un giudice. Sono entrato in magistratura nel ’55, dopo aver fatto i miei studi a Firenze».

Da uno a dieci, quanto secchione?

«In terza liceo ho rischiato la maturità per un sette in condotta al secondo trimestre».

Cosa aveva fatto per meritarselo?

«Ero stato tra i sobillatori di uno sciopero e avevo buttato un topo morto in una classe femminile».

In tribunale come ha iniziato?

«Come uditore alla prima sezione civile del tribunale di Milano, con il giudice Vittorio Morfina».

Di che si occupava?

Diritto industriale, tributario, concorrenza sleale, cose così».

Un po’ noioso, rispetto a Previti...

«Per niente. Pensi che, come dicevo, la prima sentenza che ho scritto in assoluto riguardava una faccenda di supposte: un contenzioso sul brevetto delle confezioni. Che da allora in poi, comunque, sono sempre rimaste identiche».

Mi dica la prima sentenza seria.

«Una che ricordo fu in pretura, il mio primo incarico a Milano dopo una parentesi iniziale a Bergamo: fu quando condannai il ministero di Grazia e Giustizia a restituire a un tizio una somma ingiustamente sequestratagli».

Fu in pretura che incontrò Mike?

«Sì, fu in pretura. Ma non lo conobbi di persona, perché non venne in aula. Lo conobbi “processualmente”. Lo aveva denunciato un sarto».

Cioè?

«Era un sarto che aveva confezionato un vestito a Mike Bongiorno prendendogli le misure a occhio, guardandolo in tv. Poi glielo aveva spedito in regalo, aspettandosi un ritorno pubblicitario che invece non arrivò. Alla fine lo citò in giudizio».

E lei?

«L’ho assolto: il vestito si era perso chissà dove, a Mike non era mai arrivato».

Intanto arriviamo al ’61...

«E il primo gennaio mi spostai alla sezione fallimenti: una delle esperienze più formative della mia vita».

I fallimenti?

«Non rida. Per un giudice occuparsi di diritto fallimentare con tutto quel che ne segue — decisioni da prendere, curatori da nominare, sorti di intere aziende e di lavoratori da gestire — è una delle poche occasioni per toccare di persona i drammi vissuti dai suoi interlocutori. Per mettersi nei loro panni. Certe immagini non le scorderò mai: l’operaio della Guzzi che decorava a mano i serbatoi delle moto, i soci di una coop che doveva costruire gli appartamenti per i dipendenti dell’Alfa Romeo e che invece fallì lasciando tutti in mutande. Ecco, risolvere quelle situazioni ti faceva sentire utile».

Ma al penale non ci arriva mai?

«Ce ne manca. Dopo i fallimenti sono tornato alla prima sezione civile del tribunale, quella dove avevo iniziato. Mi ci trasferì il nuovo presidente, Luigi Bianchi d’Espinosa, che aveva lavorato con mio padre a Firenze e mi conosceva da quando ero piccolo».

Oggi ci vorrebbe un bando, un concorso...

«È vero, ma allora funzionava così: fatta salva l’indipendenza di ogni giudice sulle sentenze, l’organizzazione del lavoro veniva gestita dai capi degli uffici con grande autonomia. Il concorso l’ho fatto più avanti, per andare in Corte d’Appello...». Perché scuote la testa?

«Fu una mezza delusione: avevo 39 anni, io ero fatto per il contatto con la gente, in appello invece mi ritrovavo a lavorare solo su montagne di carta. Eppure da quell’errore è arrivata la svolta della mia vita».

Perché?

«Perché, quando chiesi di tornare in tribunale, l’unico posto disponibile era in una sezione penale. L’ottava, per la precisione. Era il ’74. Da un giorno all’altro, ho dovuto imparare un mestiere nuovo».

Sempre come giudice, però.

«Come giudice, certo. Ed è una cosa che molti anni dopo, una volta passato in procura, ho benedetto un milione di volte. Perché il pm, con tutta la buona fede del mondo, alla fine lavora per andare in aula a sostenere una tesi. Il giudice invece impara a mantenere, sempre, la cultura del dubbio. Ed è una buona cosa, se la si conserva anche da pm: forse dovrebbero pensarci un po’, quelli che vogliono separare le carriere».

Torniamo agli anni ’70, lei era giudice penale: cosa ha vissuto del terrorismo?

«Ricordo il clima, i morti, la paura. Ma anche l’orgoglio di appartenere a una categoria. Ricordo, nel ’78, l’arresto di Corrado Alunni nel covo di via Negroli. Era settembre, io mi ero appena rotto una gamba, ma il processo toccava alla mia sezione: sono andato a farlo col gesso e le stampelle, e fu la prima condanna inflitta a Prima Linea».

Qual è, nel suo ricordo, il giorno più brutto?

«Il 19 marzo 1980, quando fu ucciso il collega Guido Galli. Era un amico, ci incrociavamo sempre in via Castel Morrone, io in bicicletta che venivo in tribunale, lui alla fermata che aspettava il bus. Io presiedevo la terza Corte d’Assise, quel giorno ero in camera di consiglio con la giuria popolare per un processo su una rapina con omicidio. A un certo punto è entrato un inserviente: “Hanno sparato a Guido Galli”. Siamo tornati in aula, abbiamo letto la nostra sentenza non so neppure come, e assieme al collega Francesco D’Andrea ci fiondammo all’università».

Come avvenne la sua trasformazione finale, da giudice in pubblico accusatore?

«Per caso. L’allora procuratore aggiunto di Milano, Bruno Siclari, fu il primo a propormelo: “Perché non vieni in procura?”. Poco dopo me lo chiese anche il procuratore capo Mauro Gresti. Insomma alla fine ho fatto la domanda e sono andato. Era l’inizio dell’83».

Dottor Borrelli, per la sua esperienza di quasi mezzo secolo in toga: i rapporti tra magistratura e politica, tra magistratura e società, sono mai stati tesi come negli ultimi anni?

«Il massimo della solidarietà, come categoria, lo abbiamo avuto negli anni del terrorismo. Per il resto, alti e bassi ci sono sempre stati: penso al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, o ai decenni passati, quando politica e magistratura “litigavano” magari meno, ma certe inchieste erano quasi impensabili. Oggi lo scollamento ha due cause: da una parte l’insofferenza di una parte della politica, ma dall’altra anche il deficit oggettivo dei servizi offerti dalla magistratura: processi infiniti, anni per recuperare un credito...».

Pessimista?

«Tutt’altro. Lo spazio che i media dedicano oggi ai problemi della giustizia non era neppure immaginabile venti anni fa, e questo è già un buon segno di per sé».

Dispiaceri?

«Uno, soprattutto. Il deterioramento progressivo che ho visto instaurarsi, negli ultimi anni, nei rapporti tra magistratura e una parte dell’avvocatura. Il mio maestro, Piero Calamandrei, diceva che avvocato e magistrato sono parti complementari di un unico interesse, la giustizia. Oggi, sempre più spesso, sono diventati avversari e basta. Senza esclusione di colpi. E questo non fa bene a nessuno».

CHI ERA BORRELLI? Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 21 luglio 2019. Se l'idea di Giustizia avesse un volto, avrebbe il suo. Se il precetto costituzionale "Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge" avesse un nome, avrebbe il suo. Francesco Saverio Borrelli è stato il più grande magistrato che abbia avuto in dono l' Italia, almeno fra quelli che hanno goduto del privilegio di morire nel loro letto. Diceva Brecht: "Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi". Ma nessun popolo può fare a meno dei simboli e degli esempi, e lui era entrambe le cose. Nel 1992-'93, mentre l' Italia crollava bombardata dalle stragi e corrosa dal cancro della corruzione, la gente perbene si aggrappò alla sua toga e a quelle del suo pool Mani Pulite: D' Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco. Si ebbe, in quella breve parentesi, la sensazione che la legge fosse davvero uguale per tutti. E l' illusione che gli italiani onesti fossero maggioranza. Durò poco, è vero, infatti subito dopo arrivò B., che inquinò tutto, anche la sinistra, anche la magistratura (con un Borrelli sulla breccia, uno scandalo come quello del Csm sarebbe stato impensabile: per ragioni estetiche ancor prima che etiche). Ma - ripeteva Borrelli - "il seme è stato gettato" e qualche frutto s'è visto. Era un uomo timido, nel privato. Ma, quando indossava la toga, diventava coraggioso. Sapeva di essere protetto dalla Costituzione, dalla corazza dell'obbligatorietà dell' azione penale e dell' indipendenza da ogni altro potere. Difendeva sempre i suoi uomini. Non guardava in faccia nessuno. E si lasciava scivolare pressioni, aggressioni e blandizie come acqua piovana sulla toga impermeabile. Gli attacchi di ogni colore, gli insulti, le calunnie, le ispezioni ministeriali, i procedimenti disciplinari al Csm, le indagini penali a Brescia che ha subìto non si contano. Spioni d' angiporto e pennivendoli di fogna hanno perso anni a cercargli uno scheletro nell' armadio per sputtanarlo, un tallone di Achille per ricattarlo: invano. E allora han cominciato a inventare. I politici di destra e sinistra lo detestavano proprio perché era inattaccabile e i loro elettori credevano a lui, non a loro. Anche grazie al suo humour snob e tagliente. Proprio 25 anni fa, il 14 luglio 1994, il governo B. partorì il decreto Biondi, che vietava il carcere per i reati di Tangentopoli, ma non per quelli di strada. Lui sibilò dalle labbra affilate come una lama: "È singolare che, nell' anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e del carcere di Opera. Il governo, invece di predisporre misure idonee a impedire la perpetuazione di un sistema di corruzione, dimostra la preoccupazione opposta". E concluse: "Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente". Mesi dopo, mentre il cerchio si stringeva sul Berlusconi giusto, il suo ministro della Giustizia ad personam Alfredo Biondi sbroccò con una battutaccia contro l' intera magistratura inquirente: "Un grande avvocato mi diceva sempre: 'Studia figliolo, o diventerai un pubblico ministero'". Borrelli lo fulminò con un' allusione al suo tasso alcolico: "Il ministro Biondi, a un' ora pericolosamente tarda del pomeriggio, s' è concesso una battuta impertinente e di cattivo gusto, che i magistrati non si attenderebbero certo dal loro ministro". Quando poi, nel 2001, in via Arenula arrivò il leghista Roberto Castelli, ingegnere acustico specializzato in abbattimento di rumori autostradali e in leggi ad personam, prese a chiamarlo "l' ingegner ministro". Ogni tanto dissentiva dai suoi pm, ma lo diceva loro a quattr' occhi. Come quando non condivise il comunicato del Pool contro il decreto Biondi, letto in conferenza stampa da Di Pietro. Quando, a fine anni 80, si schierò con Armando Spataro nello scontro furibondo con Ilda Boccassini sulla gestione delle indagini sulla mafia a Milano e inviò al Csm un parere poco lusinghiero su di lei, che emigrò in Sicilia, per poi tornare a Milano nel '95 e diventare la sua beniamina. Quando intimò all' ormai ex pm Di Pietro di smentire B. che in tv gli aveva attribuito una dissociazione dall' invito a comparire per le tangenti alla Finanza: "se no la prossima volta ti faccio volare giù dalle scale a calci". Quando fece una lavata di capo al giovane Paolo Ielo, che in aula aveva definito Craxi "criminale matricolato" per le intercettazioni che provavano i dossieraggi contro il pool da Hammamet: "Hai fatto malissimo a usare quelle parole. Potevi dire le stesse cose con più stile". Ecco: lo stile. Borrelli, napoletano, classe 1930, figlio e nipote di magistrati, in toga dal 1955, di stile ne aveva da vendere. Lo dimostrò nel 2002, quando uscì di scena il giorno del pensionamento. Anzi, del prepensionamento, perché per levarsi dai piedi lui e il suo coetaneo D' Ambrosio, B. varò una legge apposita che portava l' età pensionabile dei magistrati da 75 a 72 anni. Borrelli chiuse in bellezza il 12 gennaio, con la toga rossa e l' ermellino di Pg, inaugurando l' anno giudiziario col celebre appello a "resistere, resistere, resistere" allo "sgretolamento della volontà generale e al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto". Parola d' ordine che fu subito raccolta dai Girotondi. Lui però aveva già lasciato il proscenio, evitando quel reducismo patetico che guasta anche la memoria dei migliori. Faceva il nonno, suonava il piano, andava in bici, leggeva. Niente interviste, libri di memorie, consulenze, incarichi a gettone (a parte quello, a tempo, di capo dell' Ufficio indagini della Federcalcio commissariata per Calciopoli, e la presidenza del Conservatorio). In un Paese serio l' avrebbero promosso senatore a vita e proposto alla Presidenza della Repubblica (poltrone che probabilmente avrebbe rifiutato). Quindi, non in Italia. Grazie di tutto, dottor Borrelli.

Ilda Boccassini, "il grande errore di Borrelli". Edmondo Bruti Liberati svela: alta tensione in Procura. Libero Quotidiano il 21 Luglio 2019. Non tutti lo sanno, ma Ilda Boccassini è stato uno dei grandi errori di Francesco Saverio Borrelli, lo storico ex procuratore capo di Milano che guidò il Pool di Mani Pulite durante l'inchiesta su Tangentopoli e che è morto sabato a 89 anni. Sui quotidiani si sprecano i ricordi commossi dei colleghi ed è il suo successore Edmondo Bruti Liberati, sul Corriere della Sera, a ricordare uno dei momenti più duri per Borrelli, una scelta che lo ha fatto mettere in discussione in Procura. "Io e altri colleghi gli facemmo notare che, tra il 1989 e il 1990, non sostenne abbastanza Ilda Boccassini nell'inchiesta Duomo connection - spiega Bruti Liberati -. Lui lo riconobbe e infatti quando lei tornò a Milano, la accolse per primo e le affidò un ruolo importantissimo".

Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 21 luglio 2019. «Identificatelo!», ordinò a un carabiniere in Procura il giovane e arrembante pm, indispettito perché l'operaio per tre volte timidamente gli spiegava di non poter spostare una spina all'altra parete senza l'ok del datore di lavoro. L'indomani quel pm si sentì convocare da Francesco Saverio Borrelli: «Ora chiedigli scusa». Questo stampo, lo stesso che da giudice nel 1978 lo spinse in Tribunale con la gamba fratturata appena ingessata pur di non far saltare un processo ai terroristi rossi di Prima Linea, era frutto dello strano mix di un napoletano teutonico, secondo l'arguta definizione data di lui dal maestro Riccardo Muti a Marcella Andreoli nel 1998: napoletano per nascita (12 aprile 1930) ma fiorentino per studi, milanese per lavoro, tedesco e anzi wagneriano per folgorazione giovanile negli anni della sognata carriera pianistica, francese per lingua familiar-borghese durante l'infanzia in una famiglia di quattro generazioni di magistrati: che, dall'ottocentesco suo omonimo procuratore del Re nelle Puglie, scendono giù per i rami del padre Manlio, fino al 1959 presidente della Corte d'appello milanese e amico di Montanelli, e arrivano (passando appunto per Francesco Saverio) al figlio Andrea, giudice civile in Tribunale a Milano. Curioso destino essere sempre associato alla più grande inchiesta penale di sempre, e agli anni da procuratore (1988-1999) e procuratore generale (fino al 2002), quando in realtà aveva la forma mentale del civilista e si sentiva molto più giudice: un giudice marchiato - nella costante inclinazione a soppesare nel dubbio le ragioni altrui - dal trauma di dover decidere la prima condanna di un rapinatore a 10 anni di carcere in una sentenza «che non riuscivo a leggere, l' idea mi terrorizzava intimamente». Decisivo nel cogliere nel 1992 la necessità di affiancare all' energia di Antonio Di Pietro due colleghi (Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo) dalle caratteristiche complementari, lo è poi via via nel far loro da scudo agli attacchi provenienti prima da Craxi e poi da Berlusconi. Anche per questo, quando apprende che Di Pietro - dimessosi a sorpresa il 6 dicembre 1994 dopo l'invito a comparire a Berlusconi del 21 novembre ma prima dell' interrogatorio il 13 dicembre - non solo aveva taciuto al pool di essere sotto scacco di Previti per un prestito dall'assicuratore Gorrini, ma aveva poi anche lasciato intendere ai vari politici che lo corteggiavano di essere stato quasi costretto dai colleghi a indagare Berlusconi, Borrelli gliene chiede conto. Prima in una burrascosa telefonata («non venire più in Procura perché ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere» di smentire), e in seguito nel 1996 testimoniando in Tribunale a Brescia sulla «defezione» di Di Pietro a dispetto dell' assicurazione ai colleghi «poi in aula ci vado io e quello lo sfascio». Combattuto durante Mani Pulite tra la convinzione che «noi magistrati dobbiamo evitare che alle nostre iniziative vengano attribuite valenze che non devono avere», e però la pari persuasione che «la gente deve sapere che c' è un coefficiente di successo nella nostra attività legata al consenso», negli ultimi anni la sua vena malinconica aveva preso il sopravvento. Non tanto per il timore nel 2011 di «dover chiedere scusa per Mani Pulite» nel dubbio che «non fosse valsa la pena di buttare all' aria il mondo per cascare poi in quello attuale», quanto per una più radicale rivisitazione del senso dell' agire giudiziario. Come se lo scavasse il tremendo paradosso di suo padre: «Un giudice dovrebbe, impegnandovi l' intera sua esistenza, studiare una causa sola. E, dopo 30 anni, concluderla con una dichiarazione di incompetenza».

La figlia di Borrelli: «In casa  per tutti noi era “Severio”.  Soffrì per i suicidi in carcere». Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. I l sole caldo che filtra dalle finestre nel corridoio riscalda l’aria gelida dei condizionatori, mentre un viavai di magistrati, personalità e amici rende omaggio alla salma di Francesco Saverio Borrelli nella camera mortuaria dell’Istituto dei tumori di Milano. Quando scompare una persona cara, è dolce abbandonarsi ai ricordi di una vita, come fa Federica Borrelli, figlia di colui che fu il capo di Mani pulite.

Qual è il primo ricordo che ha di suo padre? 

«Avevo due anni e mezzo quando mi mandarono all’asilo. Mamma (Maria Laura, professoressa d’inglese, ndr) e papà lavoravano, per me fu un trauma. Ricordo l’uscita da casa al mattino con papà che mi metteva sulla canna della bicicletta e mi consegnava a una maestra. Mi sentivo un po’ tradita». 

Che padre è stato?

«Un grandissimo, dolcissimo educatore. Quando io e Andrea (il figlio maggiore, anche lui magistrato, ndr), eravamo piccoli era rigoroso, ma mentre crescevamo ci educava con consigli e chiacchierate in cui suggeriva il comportamento migliore».

Severo?

«Lo chiamavamo Francesco “Severio”. Voleva che fossimo severi con noi stessi. Dovevamo sempre chiederci: “Sei sicuro di aver fatto tutto il possibile?”».

Era anche allegro?

«Sono stati tantissimi gli scherzi in casa». 

Parlava del lavoro?

«Certo, come quando era giudice d’Assise nei processi alle Brigate Rosse negli anni di piombo. Temevo che lo uccidessero, anche perché non lo proteggevano. Lui sdrammatizzava sempre». 

Il periodo più duro?

«Mani pulite, per ciò che dicevano i politici sui giornali. Si è rischiata la vera solitudine del magistrato».

Ci soffriva?

«Ha sofferto enormemente per i suicidi. Aveva la consapevolezza che, facendo il proprio dovere, si rischiava di rovinare le vite degli altri».

Eppure c’erano i fax e le fiaccolate di solidarietà.

«Una volta, tornando a casa, ci disse: “Adesso applaudono, vedrete che fra poco saremo additati come quelli che hanno rovinato il Paese”. Ricordo che quando in una ricorrenza in Duomo si alzò per salutare il Cardinal Martini, molti si misero ad applaudire. Martini gli disse: “Dottore questo è per lei, vada avanti così”. Si stupì».

Il suo più grande dolore?

«L’omicidio di Guido Galli e la mancata conferma alla presidenza del Conservatorio di Milano. Amava la musica, quello era il suo mondo dopo la pensione e il veto di un partito e il fatto che l’allora ministro Gelmini non gli avesse neppure telefonato, tanto che lo aveva saputo dai giornali, lo colpirono. Eppure in un’occasione in cui il ministro era stata in visita al Conservatorio, l’aveva, diciamo così, salvata durante una contestazione di studenti facendola uscire da una porta laterale. Si offese profondamente».

C’era chi voleva entrasse in politica.

«Non ci pensava proprio, perché il magistrato è magistrato fino alla morte. Però non ha ricevuto grandi proposte. Come diceva lui: “A una signora perbene non si fanno proposte sconce”».

C’è stato un momento in cui si diceva potesse essere eletto Presidente della Repubblica.

«Si diceva... Forse c’è stato un momento in cui per molti mio padre rappresentava una sicurezza di legalità, di equilibrio e di integrità. Lui era a disposizione della Repubblica, ma nei limiti delle sue funzioni di magistrato».

Il famoso «resistere, resistere, resistere» fu il suo testamento civile?

«Credo proprio di sì».

Amava la natura, lo si è visto fino ad oltre gli 80 anni sciare sulle piste di Courmayeur.

«Amava le montagne. Ha detto due o tre volte che avrebbe voluto essere sepolto a Courmayeur dove i miei genitori hanno una casa. Lo disse anche al sindaco anni fa quando fu fatto cittadino onorario del paese. Chissà se sarà possibile...».

Se potesse commentare quello che sta accadendo intorno a lui, cosa direbbe?

«Riderebbe come un matto e, in napoletano, direbbe: “Cose ’e pazzi”».

Massimo Malpica per “il Giornale” il 21 luglio 2019. Un coro quasi unanime di elogi con l'unica eccezione, garbata, dei figli di Bettino Craxi, Bobo e Stefania. La morte di Francesco Saverio Borrelli, già capo del pool di Mani Pulite, arriva nel giorno in cui si uccise in carcere Gabriele Cagliari, ventisei anni dopo, dopo mesi di carcerazione preventiva e una dozzina di interrogatori. Ma il kaiser di Mani Pulite, uno con la toga nel sangue, quando quella stagione di manette tintinnanti è ormai lontana se ne va circondato da un rispetto che sfiora la santificazione. Persino Tiziana Parenti, che lasciò il pool perché si disse ostacolata nelle sue indagini sul Pci-Pds, lo ricorda con affetto. «Mi dispiace che sia morto. Al di là dei dissensi che ci possono essere stati, indubbiamente Borrelli è stato un ottimo magistrato». Per Titti «la rossa», anche la scelta di non andare a fondo nelle indagini sulle tangenti rosse fu «fatta più da D' Ambrosio che da Borrelli». Se suonano scontati l'omaggio dell'Anm a una «figura esemplare di magistrato», il cordoglio di Marco Travaglio per la scomparsa del «più grande di tutti» o il saluto di Francesco Greco, già nel pool e ora procuratore capo di Milano, colpisce la trasversalità del cordoglio delle istituzioni. Mattarella saluta il «magistrato di altissimo valore» che «ha servito con fedeltà la Repubblica», ma anche il presidente del Senato Elisabetta Casellati ricorda di Borrelli gli «incarichi di grande prestigio ed estrema delicatezza». Si allineano pure la terza carica dello Stato, Roberto Fico, che piange un uomo che ha «scritto una parte importante della storia del Paese», il vicepremier Luigi Di Maio «Il suo esempio, i suoi valori di indipendenza e legalità, siano guida per il lavoro di ognuno di noi» - e il Guardasigilli Alfonso Bonafede («Lascia un' eredità importantissima soprattutto in tema di indipendente e determinata lotta alla corruzione»). Stessi toni per il governatore lombardo del Carroccio Attilio Fontana, addolorato per l' addio a un «protagonista di una stagione che ha segnato la storia recente del Paese» e «attento al mondo del sociale», come per il segretario Pd e presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, che piange la perdita di un «grande magistrato e un uomo perbene». Una prima crepa nell' armonia del coro la apre l' ex direttore del Tg4 Emilio Fede, che ai «tanti meriti» affianca i «tanti interrogativi» su Tangentopoli. E in controtendenza è il ricordo di Bobo e Stefania Craxi. La seconda al «rispetto dovuto all' uomo» aggiunge l' etichetta di «protagonista di una stagione infausta», seppur «coerente». Bobo saluta una «persona sobria e garbata» che fu «una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato», poi capace di un «netto ripensamento sull' efficacia di Mani Pulite».

Così Di Pietro "cannibalizzò" Borrelli e ora lo scorda. Vittorio Sgarbi, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. «Mani pulite alla fine fu un disastro, non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente per cadere in quello attuale». È la sintesi delle mie note di ieri, critiche in un coro di consensi dopo la morte di Borrelli.

Un altro in controtendenza: Paolo Colonnello, Mattia Feltri, Filippo Facci? No. La frase lapidaria e riassuntiva è di Francesco Saverio Borrelli. Vane dunque le funeree litanie encomiastiche dei Travaglio, dei Michele Serra, dei Bruti Liberati. Mani pulite è stato un inutile fallimento e una sconfitta. Un disastro. Troppo tardi Borrelli capì l'errore. Il suo temperamento femminile aveva ceduto all'irruenza di un turgido sostituto. Ha scritto bene Mario Ajello, che quegli anni vide: «Borrelli, nelle interviste che quotidianamente rilasciava, citava sempre la consonanza sua e del suo ufficio con la società civile e con l'opinione pubblica. Un antipasto di quello che poi si sarebbe chiamato il populismo giudiziario?... Poi arriva la stagione della scorciatoia che Borrelli si trova a gestire grazie alla irruenza dipietresca. A poco a poco, capisce che il clima è cambiato e presta la sua mente politica al servizio dell'inchiesta e ne diventa lo stratega».

Vero? Vero. In quel momento decisivo agisce in lui il fascino plebeo e barbarico di Di Pietro che lo trascina e lo travolge. Ed egli non vuole, o non sa, resistere resistere resistere. Fino all'imperdonabile, e da lui direttamente gestita, dichiarazione di guerra, in una contrapposizione mortale, con l'avviso di garanzia a Napoli (via Corriere della Sera), nel 1994, al presidente Berlusconi. Una aggressione politica della magistratura a un governo (che cadrà), come non era mai accaduto prima. L'atto non era giudiziario, ma eminentemente politico, dettato anche da antipatia personale, conseguenza dell'inascoltato, e molto minaccioso, avviso (diretto, ad personam, non di principio generale), il 20 dicembre 1993: «Chi ha scheletri negli armadi è meglio che non si candidi». Ti sei candidato lo stesso? Adesso ne paghi le conseguenze (anche se il reato non c'era). Così, all'ombra di un irruente e maschio sostituto, nasce il Borrelli politico. Si rivela esplicitamente nel 1994, ed è ormai fuori controllo, quando dichiara: «Se avviene un cataclisma per cui resta in piedi solo il capo dello Stato e chiama a raccolta gli uomini della legge, in quel caso potremmo rispondere con un servizio di complemento». Loro erano la causa del cataclisma, loro erano pronti al servizio di complemento. Parole inequivocabili. Di Pietro si era impossessato di lui. E Borrelli era sottomesso. Il dottor Jekyll si era trasformato in mister Hyde. Alla fine il «complemento» lo hanno fatto, a scoppio ritardato, e con un plebiscito popolare, Di Maio e Salvini. Al danno si è aggiunta la beffa. Quando Borrelli si è risvegliato era troppo tardi. Ma ciò che oggi appare clamoroso, davanti al corpo morto di Borrelli è, nella eloquente lettera di encomio dei suoi sostituti, sull'house organ Corriere della Sera, l'assenza dell'uomo della sua vita, Antonio di Pietro, che lo portò fuori di strada e di senno. Come mai quello che lo ha rovinato, sostituto dei sostituti, non firma l'elogio funebre? Dove è finito l'inventore della «scorciatoia»? Dove si è perduto, dopo averlo perduto? In un'altra pagina del Corriere, Enzo Carra assolve il fragile Borrelli, travolto da una tempesta che non poteva dominare: «Mi mostrarono in ceppi, ma credo che lui non sapesse. Era un uomo molto perbene». E chissà se non lo fosse stato! Carra ha la sindrome di Stoccolma. Borrelli, posseduto, fattosi stratega, non poteva non sapere. Era stato, con Di Pietro, il giustiziere di Craxi; ora era l'antagonista di Berlusconi. La giustizia aveva lasciato lo spazio (e aperto la strada) alla politica. E Borrelli impedì a Di Pietro (via Previti, e con tutte le televisioni a disposizione, in particolare Mediaset, in favore del vento) di ascoltare le sirene di Berlusconi. Borrelli pensava di eliminarlo, come Craxi, per via giudiziaria, ormai strumento dichiarato di lotta politica. Di Pietro fu più onesto. Non accettando questa abberrante strumentalizzazione giudiziaria, abbandonò la toga umiliata da Borrelli, e fece un partito, il suo partito, lasciando gli altri sostituti, irretiti dal delirio autoritario di Borrelli, a credere di «sostituirsi» alla politica. Errore fatale. Di Pietro ha pagato più di tutti. E oggi tace, mentre tutti onorano il Borrelli pentito per quello che ha fatto. Ha abbattuto (e letteralmente lasciato morire, senza cure certe) Craxi, per aprire la strada a Grillo e Di Maio. È troppo! Meglio andarsene.

Il regista di Mani Pulite che portò le toghe al potere. Borrelli è morto ieri a 89 anni dopo una lunga malattia Cinico e severo, si considerava parte di un'aristocrazia. Luca Fazzo, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. Milano Fiat iustitia ne pereat mundus. Il giorno di primavera del 1955 in cui Francesco Saverio Borrelli, morto ieri a 89 anni di età, varcò l'ingresso del tribunale di Milano, la massima era già lì, scolpita nei marmi del palazzo piacentiniano. Sotto quella scritta Borrelli è stato il protagonista indiscusso della stagione che ha portato la magistratura italiana - potere un tempo gregario e quasi parassitario del potere politico - a impadronirsi della scena. Eppure, dentro di sé, a quella visione salvifica della giustizia Borrelli non credeva. Era un cinico, un razionale. E se in una massima avesse dovuto immedesimarsi sarebbe stata l'opposta, il Fiat isutita et pereat mundus di Ferdinando d'Asburgo e Immanuel Kant: la giustizia come valore assoluto, indifferente alle sue ripercussioni sulla vita dei mortali. Se ne va alle nove e mezza di ieri dopo una lunga malattia, in un letto del reparto di cure palliative dell'Istituto dei tumori. «Non ho il dono della fede», spiegava ai tempi in cui davanti alla sua Procura tremava tutta Italia: e solo sua moglie Maria Laura, i figli Federica e Andrea (lei manager, lui giudice) sanno se negli ultimi tempi si sia in qualche modo riavvicinato alla Chiesa. Di certo, quello che lo attende è un addio laico: la camera ardente di domani mattina nella sala maggiore del Palazzo di giustizia da cui regnò su una stagione irripetibile. Stessa location che cinque anni fa ospitò la camera ardente del suo successore, Gerardo D'Ambrosio: cui era legato più da contiguità operativa che da affetto o sintonia, ma che beneficiò a lungo della efficienza mai vista che Borrelli aveva portato nella Procura di Milano. Era un uomo di spirito e un giudice severo. Da Magistratura democratica era uscito già nel 1969, insieme a Beria d'Argentine, scandalizzato per un documento che sparava a zero sul giudice Vittorio Occorsio, colpevole di avere arrestato il direttore di Potere Operaio, Francesco Tolin. Era la fase della deriva movimentista delle giovani toghe entrate in magistratura sull'onda del '68. Culturalmente intollerabile per uno come Borrelli: magistrato, figlio di magistrato, intimamente convinto di fare parte di una aristocrazia. Mani Pulite fu lui: nell'efficienza, nell'accortezza nella composizione della squadra, nella spietatezza, come quando si oppose a D'Ambrosio, che voleva dare il salvacondotto a Bettino Craxi per venirsi a curare in Italia. In anni che ebbero risvolti crudi e a volte terribili, non lo si vide mai commuoversi. Si videro invece, e memorabili, i momenti di rabbia: eppure anche in quelli era visibile la lucidità quasi chirurgica con cui affossava l'avversario. Ne fecero le spese colleghi, ex colleghi e politici: primo tra tutti Alfredo Biondi, ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi, al quale Borrelli, inferocito per alcune sue dichiarazioni, diede - con un giro di parole assai esplicito - dell'ubriacone. Non era una vendetta: era un modo per delegittimarlo, per renderlo fragile e depotenziare, insieme a lui, i piani governativi in tema di giustizia. Solo una lettura rozza della fase che lo vide protagonista può liquidarlo come «toga rossa». Non aveva un progetto politico, a meno che questo non si intendesse la supremazia della magistratura - assoluta e indiscussa - sugli altri poteri dello Stato. Questo sì, era il suo progetto. Et pereat mundus.

"Resistere resistere resistere". E la battaglia diventò una resa. L'appello del 2002 arrivò dopo anni in cui viveva la guida del pool come una guerra. In realtà fu un grido da disperato. Luca Fazzo, Domenica 21/07/2019 su Il Giornale. Per capire davvero la stagione che ieri si chiude definitivamente con la morte di Borrelli, bisogna riavvolgere il nastro di quasi trent'anni. Portarlo alla mattina del 18 febbraio 1992, nella caserma di via Moscova dei carabinieri milanesi. È il rapido briefing con cui viene ufficializzata la notizia che è già sui giornali, l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. «Al termine di una indagine durata oltre un anno....»: così esordisce l'ufficiale che parla ai cronisti. È una verità che sparirà in fretta. La versione ufficiale, ancora oggi valida, è quella di un arresto in flagrante, scattato grazie alle accuse, pochi giorni prima del bliz, di un fornitore del Trivulzio, Luca Magni. Le manette a Mario Chiesa, dice la versione ufficiale, arrivano quasi per caso: e altrettanto per caso innescano un terremoto. Poi c'è l'altra storia, quella su cui solo le incaute parole dell'ufficiale gettano un filo di luce: un'inchiesta non estemporanea, arrivata passo dopo passo a individuare in Chiesa l'anello debole di Tangentopoli, e a incastrarlo utilizzando Luca Magni come una sorta di esca. Non un complotto, si badi: solo una verità più complicata. Ma che rende meno inspiegabile quanto accade dopo: l'ingresso in scena di Di Pietro, le confessioni a raffica, il terremoto che investe il Paese. Comunque siano andate le cose, Borrelli ne fu il regista. Fu lui a benedire il rito ambrosiano delle manette inaugurato da Di Pietro, gli interrogatori in simultanea, gli arresti a confessioni ancora calde, che fu la vera ricetta del successo dell'inchiesta. Fu lui, dopo avergli lasciato briglia sciolta per un po', ad affiancare all'ex poliziotto molisano colleghi più rodati come Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, in grado di fornire spessore giuridico alla sua furia investigativa. Fu lui a indirizzare con mano ferrea l'inchiesta nei gradini successivi che si aprivano, di sviluppo in sviluppo. Diceva la verità, quando - con Montecitorio ormai decimato dagli avvisi di garanzia - giurava di non avere immaginato, nella primavera del 1992, dove l'indagine avrebbe portato il suo pool. Ma, quando capì quali orizzonti si stavano aprendo, fu lui a decidere che Mani Pulite non sarebbe stata l'ennesima puntata della serie (fino ad allora non lunga) di indagini giudiziarie sul Palazzo, un capitolo destinato a chiudersi in qualche modo con un armistizio. Quello era lo scontro finale, da cui solo uno dei contendenti sarebbe uscito in piedi: «Il problema non è di uscire da Tangentopoli, ma di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale», disse. A volte dietro le quinte, a volte davanti ad esse: ma è sempre Borrelli a dettare tempi e contenuti della battaglia con il potere politico. Quando i suoi quattro pm (al terzetto si era aggiunto Francesco Greco, oggi suo erede) vanno davanti alle telecamere chiamando il Paese alla rivolta contro il «decreto salvaladri» del governo Berlusconi, Borrelli non c'è, è rimasto nel suo ufficio, dietro la porta chiusa. Ma hanno la sua benedizione. È lui, d'altronde, a considerare Berlusconi come il paladino della liquidazione totale della autonomia della magistratura italiana, l'avversario con cui nessuna mediazione è possibile. È Borrelli a firmare l'avviso di garanzia al Cavaliere del dicembre 1994, è lui a condurre l'interrogatorio. Borrelli sceglie di esporsi in prima persona, rompendo la tradizione che voleva i capi delle Procure un passo indietro: lo fa perché sa che solo così lo scontro può essere vinto. Poi le cose sono andate come si sa, e alla fine anche lui - dopo Colombo e Di Pietro - arrivò alla amara conclusione della inutilità di Mani Pulite: e in fondo il leggendario «resistere, resistere, resistere» del 2002 era più un grido di dolore che una chiamata alle armi. Aveva spazzato via una Repubblica, aprendo la strada ad una in cui faceva ancora più fatica a riconoscersi. Chissà se aveva dei rimpianti.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2019. È morto un personaggio a suo modo straordinario, magnifico nella sua unicità e pur lontanissimo dai peana che gli dedicheranno le misere penne intinte nell' inchiostro di cancelleria. È l' unico che varrà davvero la pena la pena di ricordare nel pool zootecnico di "Mani pulite", anche perché neppure con tutta la fantasia delle fiction si sarebbe potuto immaginare un ammiraglio più diverso dai suoi soldati assaltatori, uno in particolare. Borrelli, culturalmente e giuridicamente, è il massimo che Napoli abbia mai potuto produrre, lontano anni luce da certa cenciosità carnevalesca e prolissità ciceroniana. Era cresciuto in una famiglia altoborghese con la fissa della musica e del francese, lingua ufficiale di casa. La madre e il padre erano diversi come di più non si poteva: lei, Miette, era una raffinata ma pur sempre passionale donna calabrese; il padre, Manlio, era invece un dannunziano fortemente permeato di estetismo e le aveva davvero tutte: l'occhio azzurro, il monocolo, il fisico da ufficiale di cavalleria, nietzschiano della prima ora, un monarchico antifascista - ennesima, apparente contraddizione - che a Milano sarebbe diventato presidente di Corte d'appello e buon amico di Indro Montanelli. Francesco Saverio era sprovvisto dell'approssimazione e indolenza partenopee, era un simpatizzante semmai della burocrazia austroungarica tutta costanza e disciplina, un signore da vacanze estive a Sils Maria, in Val Engadina. Il dualismo tra musica e legge ebbe a dividere sempre e amabilmente tutta la sua famiglia. La sorella andò in sposa al musicologo Roman Vlad, mentre il fratello Fabio, elegantissimo e snob, fu consigliere dell' Opera di Roma ovviamente con classica villa a Capalbio. Musica e legge: Francesco Saverio studiò entrambe. Il suo maestro di pianoforte e composizione, Roberto Lupo, disse che percepiva in lui un'inclinazione rigorosamente classica e poi un' altra disperatamente romantica, una lotta continua e di contrasto, la disciplina come gabbia di rigorosa coerenza e poi la tentazione del disordine. Nel 1951 vinse una borsa di studio per andare a Bayreuth, luogo sacrale del mito di Richard Wagner, e tornò completamente frastornato dal compositore che pure aveva ammaliato suo padre. Una passione eterna ma che accrebbe la sua indecisione sul che fare: tanto che nello stesso anno si diplomò al conservatorio e si laureò in giurisprudenza. Il titolo della tesi spiega tutto: "Sentimento e sentenza". Sceglierà quest' ultima. Difficile cogliere il saldo tra questo Borrelli e quello che riuscì a divenire - il 17 marzo 1988, quando stava per compiere cinquantotto anni - procuratore capo a Milano. Convisse tranquillamente con la Milano dei socialisti, chiuso nella sua superiorità. Il resto si sa. Dopo le elezioni politiche del 5 aprile 1992 i partiti tracollarono e risuonò tutt' altra musica, la Götterdämmerung della vecchia Repubblica. L' intervista che rilasciò il 1° maggio 1994 sul Corriere della Sera, dal sen fuggita, non si può dimenticare: «Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della Legge. E soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo ... una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello di questo genere, del Capo dello Stato, si potrebbe rispondere con un servizio di complemento», questo sì». Fu un modo complesso per definire un golpe: ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d'interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Perchè qualcosa accadesse, bastava farla accadere: Craxi in latitanza, Andreotti processato per mafia, Berlusconi nel mirino non appena candidato. Quello che pochi sanno è che Borrelli, con un distacco storicizzante alla Sergio Romano (altro abitudinario di Sils Maria) col tempo ammise più o meno tutto. Ai tempi del decreto Conso (1993) è noto che giornali e magistratura furono in grado di bloccare le legittime decisioni del Parlamento; il governo aveva architettato una complessa depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti (dapprima con la collaborazione del Pool di Milano) ma poi lo stesso Pool stilò un comunicato di protesta e il bailamme mediatico fece il resto. Il pavido Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, non firmò. E Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, ammetterà: «La presa di posizione sul decreto Conso era stata, inutile negarlo, una forma di pressione sul Parlamento... noi eravamo in qualche modo degli interlocutori politicamente accreditati». Circa la tecnica di "Mani pulite", a un certo punto ammetterà che il Pool sceglieva gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento e adottava una tattica che definì «Blitzkrieg», la guerra lampo degli eserciti germanici: una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio lasciando ai margini le sacche laterali. Peccato che questo implicasse una evidente discrezionalità dell' azione penale: sceglievano, cioè, la direzione verso cui andare. Quando poi la stagione di "Mani pulite" volse al termine, nel tardo 1994, fu comodo per molti - a destra e a sinistra - liquidarne le ragioni nel mancato coinvolgimento dei vertici del Pci o nella pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma la ragione in realtà era un' altra, e coincise con un Paese che si stava divorando, e in cui proscenio e platea rischiavano di confondersi: l' indagine stava lambendo la stessa società civile e cioè gli italiani, che si disamorarono progressivamente dopo un'ubriacatura legalitaria che dapprima era parsa liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. È una verità scomoda, ma Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, la ammise: «L'atteggiamento dell' opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l' indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l'alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Neppure l'improvvisa concentrazione su Berlusconi fu esente da conseguenze sull'umore di parte degli italiani, anche in virtù di interviste che parevano editti: «Chi ha scheletri negli armadi non si candidi alle elezioni»; «Ci sono responsabilità ai vertici e verranno colpite», «inchioderemo l' imputato alle sue responsabilità», più altri pezzi da collezione esplicitamente dedicati a una singola persona che milioni di italiani avevano appena votato. Sì, anche il genio (del bene o del male: è lo stesso) commette errori o semplicemente straborda, catturato dalla dicotomia wagneriana che l' alto magistrato aveva dentro di sé. Un errore fu fidarsi di uno come Antonio Di Pietro, per esempio, che rimase invischiato nelle proprie ambiguità ma che soprattutto, al suo Capo - al quale dava del lei e rispondeva «signorsì» - queste ambiguità nascose per molto tempo. Qualche formalismo in più, poi, avrebbe evitato a Borrelli quel celebre mandato di comparizione recapitato a un presidente del Consiglio nel 1994 a mezzo Corriere della Sera e davanti a un consesso mondiale. Un pizzico di etichetta avrebbe persino evitato, forse, qualche carcerazione inutile, qualche vita distrutta, qualche speculazione politica in più. Alla fine del 1999, poi, si scoprì che operare chirurgicamente il malato Craxi in Tunisia, dove si trovava, avrebbe significato accelerarne la fine. Si mossero alcune delle massime autorità dello Stato, compresi il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi e il capo del governo Massimo D'Alema: ma a opporsi alla possibilità di far rientrare Craxi da uomo libero (e operabile, ma non in carcere) fu in prima persona lui, il Procuratore generale della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale, a un certo punto, si ritirò di buon ordine da magistrato qual era sempre stato, senza sfruttare profferte improbabili. Fece eccezione l'incarico azzeccatissimo di presidente del Conservatorio di Milano, nominato da un'amministrazione di sinistra (Fabio Mussi) e poi fatto fuori da un' amministrazione di destra (Mariastella Gelmini). Ma che gliene fregava, ormai aveva ottant' anni. Sparì dalla circolazione ed ebbe a presenziare solo alla Prima della Scala dove poteva vantare, rispetto alla maggioranza, un interesse addirittura musicale. Non conosciamo le sue opinioni degli ultimi anni su quest' Italia e sul personale politico che l' ha occupata, figlio a suo modo di "Mani pulite". Il Paese nato da quelle ceneri in effetti è tutto qui, oggi. Fortunato lui, che non deve più pensarci.

Un finto salvatore della Patria. Vittorio Sgarbi, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. Per nessun uomo politico, con tutti i suoi limiti e capacità, il giudizio (o il ricordo) può esser meno personale e più storico. A me sono consentiti entrambi, perché io l'ho conosciuto bene e ammirato. Non posso dire stimato. Giacché Francesco Saverio Borrelli, un uomo sensibile, raffinato, colto, capace di capire la storia e, conseguentemente, di assumere le sue posizioni e responsabilità, a un certo punto ha pensato di essere il capo di Stato di un paese non democratico. Come capita a chi governa - e in questo caso Borrelli ha governato la magistratura, organo sommamente politico, e lo dimostrano le vicende del Csm - come è capitato a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, suoi simili, Borrelli non ha resistito, oltre i precisi limiti della sua funzione, al delirio di onnipotenza che prende chi è in grado di condizionare il proprio tempo. Accade nelle espressioni del gusto, nella moda, nella musica, nella letteratura e, purtroppo, nella politica. In un certo senso, egli è stato un precursore degli influencer di successo. Ha determinato proselitismo e fanatismo, come oggi Chiara Ferragni. Ogni sua posizione, ogni sua frase accendeva reazioni di consenso, analoghe al tifo sportivo. Il pool Mani Pulite era una squadra che agiva entro la storia del suo tempo, con piena consapevolezza. Ma il più consapevole era lui, che avrebbe avuto il compito di disciplinare l'azione del suoi. Non per caso chiamati: «sostituti». Potevano limitarsi a fare un quartetto, tipo Amici miei. E, dopo ogni loro bravata, anche crudele, anche riuscita, concludere: «abbiamo scherzato», come era avvenuto con precedenti azioni giudiziarie contro esponenti politici. Invece hanno assunto, fuori di ogni dimensione lecita, il ruolo di salvatori della Patria. La Patria non è stata salvata. E, purtroppo, nonostante le infinite qualità (forse appannate dalla vanità), il principale responsabile è stato Borrelli. Di cosa? Della fine della democrazia rappresentativa dei partiti. Poteva, manzonianamente, invocare la prudenza: Pedro, adelante con juicio! Invece il suo Pedro ne accese il desiderio di onnipotenza, insito in ogni magistrato, di cambiare la Storia. Borrelli assecondò, e non patì, forse per il timore di restare indietro, l'impulso di un giovane sostituto, Antonio Di Pietro, che esibì un metodo, fuori di ogni regola, e capace d'impressionare, la stampa prima di tutto (con strabocchevole consenso) e la politica (con leggi suicide). Così, da magistrato di grande cultura e intelligenza, Borrelli si trasformò in un politico, presidente di un governo ombra, il cui consenso era misurabile anche senza elezioni; e lui ne era consapevole, fino a dichiararlo quando si propose, o mostrò di essere disponibile, per una chiamata del presidente Scalfaro (magistrato fatalisticamente prestato alla politica), in una situazione di emergenza. In quegli anni, o forse in quel momento, in cui si arrivò a inquisire e arrestare più di 4.500 politici (e affini) e 276 parlamentari, Borrelli fu abbagliato dalla certezza di esser dalla parte del giusto e di interpretare un destino. Dopo il Duce, un altro uomo della provvidenza. Poteva, nel rispetto, della indipendenza dei poteri, far sopravvivere la cultura politica e la democrazia rappresentativa. Le ha fatte morire. Con lui sono scomparsi partiti storici, con rappresentanti eletti in nome di idee e identità, umiliati sotto il maglio della corruzione: il mondo popolare e democristiano, il Psi, il Pri, il Pli, il Psdi. E alla fine anche il partito più resistente: il Pci. Un grande risultato. Una strage. Ogni partito aveva ideali e rappresentanti che li incarnavano. Grandi personalità, dotate di pensiero politico: da Croce a De Gasperi, a Nenni, a La Malfa, e prima Sturzo, Gobetti, Gramsci. Spazzati via da finti partiti dai nomi allusivi o ridicoli: Forza Italia, Italia dei Valori, Partito Democratico (come se gli altri non lo fossero), 5 stelle, fino ad Alternativa Popolare e altre amenità. Come è potuto accadere? Perché Borrelli ha dimenticato che la cultura, che lui aveva, è la madre di ogni azione, soprattutto politica. Senza cultura si va alla dittatura del singolo, per esaltazione demagogica. Tra i suoi sostituti, infatti, almeno due, come Paperino e Topolino, avevano l'istinto della demagogia, pronti a «rivoltare l'Italia come un calzino», come uno di loro disse, non temendo il cattivo odore. L'Italia! Un calzino! E così Borrelli, che aveva raffinate conoscenze letterarie, filosofiche, giuridiche, per tradizione di famiglia e per formazione, che amava la musica (e fu presidente del Conservatorio di Milano quando io ero assessore al Comune, intrattenendo con lui straordinari scambi su questioni artistiche e musicali: uomo squisito, sofisticato e sottile), si fece sedurre e travolgere dai suoi sostituti, in particolare uno, popolarissimo, che infatti poi fece un partito, capitalizzando il suo consenso: un partito personale al posto di un partito ideale. Insomma, la Treccani, che Borrelli frequentava, fu sostituita (travolta) da Topolino. Borrelli dimenticò Beccaria per Celentano. E, benché aristocratico, divenne popolare sull'onda del suo sostituto assecondato. Così la democrazia rappresentativa fu travolta non dalla corruzione, ma dalla ambizione di proporre un diverso mondo politico, costituito dagli onesti (il Partito degli onesti), dimenticando la lucida formula di Benedetto Croce: «Il vero politico onesto è il politico capace». Non so se Borrelli, uscito dalla magistratura senza entrare in politica, si sia pentito della sua scelta, che può apparire una forma di debolezza, di abbaglio storico o di vanità. Ma è certo che lo stato in cui versa la nazione dipende in larga parte da lui, che ha la responsabilità storica di avere lasciato spazio alla demagogia contro la politica, rispetto alla doverosa restituzione della illegalità e della corruzione non ai partiti, ma ai singoli responsabili e a un costume di opaca moralità (ma non di cattiva politica) che travolse anche il suo primo cliente: Craxi. E poi il secondo: Forlani. Lasciati nelle fauci di Di Pietro. Borrelli scelse Celentano e Topolino, invece che De Gasperi e Berlinguer. Così, eliminato Craxi, aprì la strada prima a Bossi (con disgusto), poi a Berlusconi (con orrore), poi a Grillo (con rassegnazione). Dal punto di vista politico, egli può essere considerato il padre di Berlusconi (figliol prodigo), il nonno di Grillo (che, sulla scia, si affermò dopo la, invero pudica, uscita di scena di Borrelli) e il bisnonno di Salvini (che lo ammirava da piccolo). Non so se sia quello che egli voleva; è certo quello che ha ottenuto. Ha generato mostri. Rivelando, però, un fatto, alla luce dei vari Palamara: che l'azione della magistratura, nell'ultimo quarto di secolo, è stata consapevolmente un'azione politica, cui si è ispirata la inconsistente ideologia del non-partito di Grillo. Creando la mostruosa anomalia di organizzazioni e associazioni (non sono partiti) con centinaia di eletti, con i voti di uno solo che non è in Parlamento: prima Berlusconi, poi Grillo. La presidente del Senato fu eletta dopo che Berlusconi fu cacciato dal Senato. I grillini sopravvivono oggi senza che Grillo sia in Parlamento e neppure nel partito da lui fondato. Aberrazioni che sono molto più gravi (come si vede dallo stato dello Stato) della corruzione. Borrelli se n'è andato, tormentato dagli effetti del suo errore. I partiti sono morti, la corruzione è viva.

La toga rossa e il picchetto d'onore: l'ultimo saluto a Francesco Saverio Borrelli. Di Pietro commosso. Nell'atrio centrale del Palazzo di Giustizia la camera ardente per il magistrato morto sabato all'età di 89 anni. Un lungo applauso ha accompagnato l'uscita del feretro. L'omelia: "Borrelli sognava un'Italia lontana dal malaffare, pulita e bella". Ai funerali anche Sergio Cusani, imputato simbolo di "Mani Pulite". Giampaolo Visetti il 22 luglio 2019 su La Repubblica. La toga rossa poggiata sulla bara, rose bianche e il picchetto d'onore. E un lunghissimo applauso all'uscita del feretro dallo scalone principale di corso di Porta Vittoria. Questa mattina è stata aperta dalle 9.30 alle 12 la camera ardente di Francesco Saverio Borrelli a Palazzo di Giustizia a Milano. Lo storico procuratore capo - l'uomo che guidò negli anni Novanta il pool di Mani Pulite - è morto sabato all'età di 89 anni nell'hospice dell'Istituto dei Tumori dove era ricoverato da alcune settimane. Tra i primi a rendere omaggio a Borrelli, il presidente dell'Anm Luca Poniz, Piercamillo Davigo, Edmondo Bruti Liberati, Gherardo Colombo, Mario Monti e Livia Pomodoro, il procuratore generale Roberto Alfonso. Arrivato anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il sindaco di Milano Beppe Sala con la fascia tricolore e l'ex sindaco Giuliano Pisapia. E Antonio Di Pietro, uno dei suoi sostituti nel pool di Mani Pulite, dopo il silenzio di questi giorni è arrivato in tribunale a Milano: ha salutato Greco e Colombo e, visibilmente commosso, ha indossato la toga (che si è fatto prestare) per il picchetto d'onore. In tanti hanno poi seguito anche i funerali, nella chiesa di Santa Croce: "Francesco Saverio Borrelli sognava un'Italia lontana dal malaffare, pulita e bella, è stato un uomo che ha speso la sua vita per il bene comune, per l'onestà, per la giustizia" e per "la lotta alla corruzione", è un passaggio dell'omelia di don Livio Zaupa. Ai funerali c'era anche Sergio Cusani, imputato 'simbolo' di Mani Pulite. E' stato l'attuale procuratore capo Francesco Greco a decidere subito che per Borrelli ci sarebbe stata la camera ardente nell'atrio principale del Palazzo di Giustizia, come era avvenuto nel 2014 per Gerardo D'Ambrosio. E proprio Greco, con il procuratore aggiunto Alberto Nobili, è a fianco alla bara, ad accogliere chi arriva per salutare Borrelli. Altri magistrati, a turno e tutti con la toga nera sulle spalle, alle loro spalle, si sono alternati anche avvocati, come Vinicio Nardo. Gli uomini della scorta hanno voluto portare a spalla la bara del loro capo.

Alle 14,45, i funerali nella chiesa di Santa Croce di via Sidoli. Accanto alla bara, la moglie di Borrelli, Maria Laura Pini Prato, i figli Andrea e Federica, la sorella. "Mio marito è sempre stato rigido, anche in famiglia, ma dolcissimo. Ha sempre ravvicinato tutti, anche quando c'era qualche screzio". Con queste poche parole la vedova ha ricordato il marito, ex capo del pool di Mani Pulite di cui stamattina al Palazzo di Giustizia di Milano si tiene la camera ardente. "Mi mancherà moltissimo, tutta la casa è piena dei suoi libri dei sui dischi, del pianoforte..", ha aggiunto. Sono stati i familiari ad accogliere chi arriva e a stringere le mani a tutti. Tanta gente, e il procuratore Greco ha detto che ci sono moltissimi colleghi magistrati che stavano arrivando a Milano per salutare Borrelli e che sono rimasti bloccati in treno per la sospensione del traffico ferroviario tra Roma e Firenze. Il ministro Bonafede, dopo aver salutato i familiari, ha detto di Borrelli che è "un esempio di imparzialità da custodire per le nuove generazioni, determinante per la lotta alla corruzione", sottlineando il suo contributo alla "giustizia" e alla "democrazia" italiane. E Gherardo Colombo, dopo aver indossato la toga per il picchetto d'onore, ha detto: "Sono finite le nostre indagini, ma Tangentopoli non ha cambiato niente dell'Italia, la corruzione è rimasta, magari con caratteristiche diverse". Il famoso 'resistere, resistere, resistere', ha aggiunto, "è stato un invito a tutta la cittadinanza a rivolgersi veramente alla Costituzione che ha 70 anni ma che è ancora una promessa e non la realtà". Un ricordo anche del sindaco Sala: "Ci scrivevamo. Era una nostra piccola abitudine, forse siamo due persone per certi versi un pò all'antica che rispettano ancora i valori che io riconoscevo in Borrelli, cioè professionalità ma anche equilibrio, stile e cultura". E ha aggiunto: "Vedo con un po' di irritazione una politica che vuole tirare tutti dalla propria parte, vuole tirare a sposare in maniera anche un po' poco approfondita le proprie idee e ha meno capacità di ascolto".

Antonio Di Pietro si offre per portare il feretro di Borrelli al funerale. Ma Greco lo ferma. Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. A Palazzo di Giustizia Antonio Di Pietro si mette la toga e veglia per una decina di minuti la bara di Francesco Saverio Borrelli. E' insieme alla moglie Susanna Mazzoleni ed è evidentemente commosso. Venticinque anni dopo è lui il protagonista alla camera ardente allestita nel luogo a cui Borrelli ha dedicato 44 anni della sua vita. Ma ancora una volta Di Pietro non riesce a cancellare lo strappo e il gelo con i suoi ex colleghi, rivela Repubblica, è palese. Tonino si offre di portare in spalla la bara di Borrelli fuori dal tribunale assieme al procuratore capo Francesco Greco, agli aggiunti Alberto Nobili e Maurizio Romanelli. Greco però lo fulmina con lo sguardo gli dice qualcosa e Di Pietro si fa da parte tra l'imbarazzo: "Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini sono degli amici. Di Pietro è stato solo uno dei suoi sostituti", dice la moglie di Borrelli, Maria Laura Pini Prato, ai suoi familiari. Il gelo torna poi nel pomeriggio ai funerali nella chiesa di Santa Croce. Sotto l'altare c'è tutto il mondo giudiziario milanese. Di Pietro invece è isolato, in piedi nella navata di sinistra. Il suo "tradimento" al pool, l'aver messo in difficoltà lo stesso Borrelli, non è stato perdonato.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 23 luglio 2019. Non c'è Milano. La Milano dei girotondi e dei fax ha chiuso la sua stagione prima ancora che si chiudesse la stagione terrena di Francesco Saverio Borrelli. Così non c' è coda, all' ingresso del Palazzo di giustizia, per scorrere davanti alla bara coperta dalla toga purpurea. L'addio al procuratore di Mani Pulite è un addio tutto interno all' orgoglio di una magistratura che ancora oggi, a oltre un quarto di secolo dall' attacco a Tangentopoli, vive della luce riflessa da quella stagione, immersa nei meriti e nelle colpe che portò con sé. A salutare Borrelli sono i magistrati che con lui hanno vissuto gli anni dell' assalto al cielo. Fuori, Milano arranca nella canicola del giorno feriale. Ma anche il resto del palazzo di giustizia vive la sua vita di tutti i giorni, la gente in coda agli sportelli, le udienze per direttissima degli arrestati. I giovani giudici degli ultimi concorsi, quelli che di Mani Pulite sanno solo il poco che ne dicono i libri, continuano il loro lavoro. La conseguenza è che riesce ancora più evidente, nella sala grande del palazzaccio milanese, l'ultima impresa di Borrelli. Nei lunghi anni del suo regno, aveva saputo tenere unita la Procura, tenendo a bada l'agitarsi delle gelosie, dei protagonismi, degli scontri anche aspri che la visibilità piombata sul Palazzo stimolava e amplificava. Lo faceva con un mix di durezza e di equilibrio, e soprattutto di conoscenza infinitesimale di quanto accadeva e di quello che i suoi sostituti facevano. E anche ieri è Borrelli a rimettere tutti insieme, nello stesso androne di marmo, magistrati amici e nemici, giudici che si stimano sinceramente con gente che si porta dietro rancori di lunga data. Ma che ieri sfilano uno dopo l' altro, a rendere omaggio alla bara e poi a Maria Laura Borrelli, lieve e sorridente come solo una vedova milanese sa di dover essere. A rompere il velo delle convenzioni ha provveduto solo Ilda Boccassini: che con lo scomparso aveva avuto un rapporto tempestoso, cacciata dal pool antimafia con un diktat che, in borrellese puro, la accusava di «carica incontenibile di soggettivismo»; partita per Palermo alla caccia degli assassini di Falcone insultando tutto e tutti, ma poi tornata al nord, recuperata da Borrelli al lavoro di Procura, e che nel necrologio solitario ha avuto parole di fuoco per gli eredi del capo: «Dopo di te le tenebre». Ieri Ilda non viene in Procura, non viene alla camera ardente: e forse è meglio così, perché chissà se il clima composto avrebbe retto alla sua apparizione. Ma gli altri ci sono tutti, i Borrelli-boys di quegli anni, a darsi il turno nel picchetto d' onore intorno al feretro. Quelli di cui Borrelli aveva stima profonda: come Alberto Nobili, il pm delle missioni impossibili cui il capo ricorreva quando non sapeva più a che santo votarsi; ma anche quelli di cui, senza farne mistero, non si fidava. All' inizio il clima è rigido, commosso; poi la tensione come è giusto si stempera, iniziano i capannelli, le pacche, i sorrisi. E diventa più facile studiare chi saluta chi, notare rivalità ultradecennali sospendersi come se davvero stessero tutti dalla stessa parte. È l' ultimo miracolo di Borrelli. E inevitabilmente, con il passare del tempo, monta la domanda: e Di Pietro? Perché accanto alla bara c'è Gherardo Colombo con i pochi riccioli superstiti, c'è un incanutito Davigo, c' è Francesco Greco che oggi siede nella stanza che fu di Borrelli. Ma il pm che incarnò l'inchiesta, quello del «Borrelli-Di Pietro non tornate indietro», non c'è: e sembra destinata a essere l' ultima puntata del rapporto tormentato tra due magistrati che più diversi non potevano essere, l' aristocratico e il contadino, ma che insieme hanno cambiato il paese. Invece, alla fine, Di Pietro appare. Senza di lui, Mani Pulite non sarebbe mai cominciata: ma senza Borrelli, sarebbe stata assassinata nella culla. Di Pietro lo sa. E, unico tra tutti, si inginocchia a piange davanti alla bara con la toga di porpora del suo capo. Ecco, adesso Mani Pulite è davvero finita.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”  il 22 luglio 2019. La santificazione di Francesco Saverio Borrelli, promossa da quasi tutta la stampa patria, mi sta bene perché i morti hanno sempre ragione e una volta sotterrati sono intoccabili nella loro reputazione. Esatto: l'alto magistrato era colto, un napoletano chic, giurista e musicista, montava perfino a cavallo ma quest'ultima cosa l'ho fatta anche io nell'indifferenza generale, per fortuna. Transeat. Ciò che mi stupisce e adonta è il fatto che Mani pulite sia stata esclusivamente attribuita a lui in ogni risvolto positivo e negativo. Ed è una bufala. L'inchiesta sui ladri politici è merito, o colpa, in assoluto di Antonio Di Pietro. Fu quest'ultimo e non altri a capire che i partiti in quegli anni rubavano di brutto per finanziare se stessi oltre ai leader grandi o piccoli, i quali grattavano nella convinzione di fare una cosa buona e giusta al fine di garantire lunga vita alla democrazia. In realtà i capi e i capetti sgraffignavano non a favore della politica, ma sgraffignavano altresì alla politica. Così si assicuravano ville sull' Appia antica, vita principesca, da nababbi. E fu Tonino a stanarli. Il quale all' inizio della operazione di pulizia fu guardato con sospetto pure dai propri colleghi, lo consideravano un elemento di scarto, un contadino togato e sprovveduto, tant' è che era stato cacciato dalla Procura di Bergamo, indesiderato. Poi però quando i compagni di lavoro milanesi di Di Pietro si resero conto che costui aveva scoperto una miniera di oro trafugato da onorevoli e senatori, allora mutarono registro e si accodarono al supposto buzzurro, dal quale si fecero trascinare verso la gloria. Mani pulite infatti si divide in due parti. Una squisitamente giudiziaria che portò in galera vari mariuoli e anche personaggi di alto livello. Una seconda che si trasformò in un processo di piazza e in un rozzo repulisti condito con vari errori giudiziari. Ma ormai i magistrati erano diventati popolari e passavano per eroi. Nessuno ne contestava gli sbagli. È utile ricordare che Borrelli, al principio scettico sull'inchiestona dipietresca, a un dato momento si accorse che giovava alla reputazione dei giudici e la cavalcò quasi fosse un destriero. Lui quanto gli altri componenti del cosiddetto pool. Il fatto che Francesco Saverio fosse un vero signore non gli impedì di sfruttare la situazione onde conquistare la fama, oggi confermata dagli esagerati elogi funebri tributatigli dal giornalismo più conformista e appiattito del pianeta. Rimane un punto fermo. Il fautore di Mani pulite è stato Di Pietro, gli altri fenomeni autoelettisi tali si limitarono ad assecondarlo allo scopo di salire alla ribalta. Questa è la storia di cui fui testimone. Il resto è fuffa retorica. Borrelli merita un attestato di stima quale uomo elegante e di classe. Con qualche peccatuccio. Amen.

Morte Borrelli, oggi Antonio Di Pietro piange: ma solo ieri non ha firmato l'encomio funebre. Libero Quotidiano il 22 Luglio 2019. Hanno fatto impressioni le immagini di Antonio Di Pietro alla camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia a Milano per Francesco Saverio Borrelli: Tonino in lacrime, distrutto, all'estremo saluto del capo del pool di Mani Pulite. Tra i due il rapporto è spesso stato aspro, litigioso, pieno di sospetti. Forse anche per questo, oggi, l'emozione ha avuto il sopravvento sull'ex leader dell'Idv. Accompagnato da moglie e figlio, Di Pietro si è fermato per qualche minuto in silenzio davanti al feretro di Borrelli, poi ha abbracciato il procuratore di Milano, Francesco Greco, e salutato con un galante baciamano la moglie del magistrato Maria Laura e i figli Federica e Andrea. Visibilmente commosso, Di Pietro si è fermato a parlare con Gherardo Colombo e con Greco e poi si è allontanato. Eppure in molti - tra cui Vittorio Sgarbi su Il Giornale - hanno notato come alla vigilia, proprio Di Pietro, non abbia firmato la lettera di encomio funebre pubblicata sul Corriere della Sera dopo la morte di Borrelli. Non a caso, alla camera ardente, Di Pietro ha evitato con cura di parlare con i giornalisti presenti, così come non ha risposto al telefono a chi ha provato a raggiungerlo in questi giorni. Come detto, il rapporto tra i due non è sempre stato rosa e fiori, anzi. Si pensi al confronto ricostruito sempre dal Corriere, secondo cui quando Borrelli apprese delle dimissioni a sorpresa di Di Pietro - 6 dicembre 1994 - "non solo aveva taciuto al pool di essere sotto scacco di Previti per un prestito dall’assicuratore Gorrini, ma aveva poi anche lasciato intendere ai vari politici che lo corteggiavano di essere stato quasi costretto dai colleghi a indagare Berlusconi, Borrelli gliene chiede conto. Prima in una burrascosa telefonata (non venire più in Procura perché ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere» di smentire), e in seguito nel 1996 testimoniando in Tribunale a Brescia sulla 'defezione' di Di Pietro a dispetto dell’assicurazione ai colleghi poi in aula ci vado io e quello lo sfascio".

Giorgio Gandola per “la Verità”  il 22 luglio 2019. «Dopo di te, tenebre». Neanche fosse stato un re Sole del diritto, Francesco Saverio Borrelli incassa un elogio funebre che non si può confondere con gli altri. E non può finire dentro la solita sinfonia di archi e ottoni che accompagnano chiunque, a comando, al camposanto. Unico e urticante a cominciare dalla firma: Ilda. Che sarebbe Ilda Boccassini, Ilda la Rossa, il caterpillar della procura, quella che se vedeva un assembramento di giornalisti sul pianerottolo del tribunale ordinava alla scorta: «Sgombrate la scala». Mai un compromesso, mai un ricciolo fuori posto, la Fiorella Mannoia del pool Mani pulite. Per questo la lettura della sua necrologia pubblicata ieri sul Corriere della Sera crea una punta di emozione: «Ciao Saverio. Hai resistito alle lusinghe del potere, sei stato esempio di integrità per chi come me non ha ceduto a compromessi. Dopo di te, tenebre. Già mi manchi. Ilda». È l'abbraccio dell'allieva al maestro e al tempo stesso è la volontà di mettere a fuoco una differenza abissale fra lo stile di quel magistrato e il comportamento delle toghe di oggi. Lo scandalo Csm, le trame romane, abusi, falsi, favori, mercimoni, le vacanze di Luca Palamara e l'ombra della politica (le intercettazioni di Luca Lotti) sulle nomine hanno ferito gravemente la magistratura italiana. Hanno determinato una cesura fra il passato e il presente. E per un marine delle inchieste come la Boccassini questa è l'occasione giusta per farlo rimarcare a chi vorrebbe che la coltre nebbiosa calasse sulle condotte indecenti. Eppure non era cominciata benissimo, fra Saverio e Ilda. Borrelli era da poco procuratore capo di Milano quando la giovane pm gli mise sulla scrivania l'inchiesta Duomo connection (1989-1990), allestita con Giovanni Falcone sulle infiltrazioni della mafia nelle attività produttive e amministrative della metropoli lombarda. Borrelli non si fidò più di tanto. La testimonianza di Edmondo Bruti Liberati è interessante: «Io e altri colleghi gli facemmo notare che non aveva sostenuto abbastanza la Boccassini in quell'inchiesta. Lui lo riconobbe e quando lei tornò a Milano (da Palermo, per entrare nel pool, ndr) la accolse per primo e le affidò un ruolo importantissimo». Anche la frase «hai resistito alle lusinghe del potere» è illuminante. L'icona di Borrelli era il giurista Piero Calamandrei, colui che disse: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». In quegli anni le lusinghe erano enormi e alcuni uomini del suo esercito ne furono irrimediabilmente condizionati. Il suo vice, Gerardo D' Ambrosio, quando andò in pensione si candidò con i Democratici di sinistra e ottenne un seggio in Senato, dando uno schiaffo con quel gesto alla cultura dell' equidistanza che dovrebbe sempre ispirare le inchieste di un magistrato. Ancora più frontale, più politica, più divisiva fu la carriera di Antonio Di Pietro, che un giorno di dicembre del 1994, alla vigilia dell' interrogatorio di Silvio Berlusconi, lasciò la sua toga in mano a Borrelli per saltare il fosso e due anni dopo diventare ministro dei Lavori pubblici del governo di Romano Prodi, acerrimo rivale del Cavaliere. Per il procuratore capo fu una mazzata. Come ricostruisce Luigi Ferrarella sul Corriere, quando Borrelli seppe che Di Pietro diceva ai suoi amici politici di aver dovuto indagare Berlusconi per forza, lo minacciò al telefono: «Non venire più in Procura perché ti faccio buttare giù dalle scale». Era preoccupato per la giustizia sporcata dal sospetto di connivenza, era impegnato a tenere le inchieste fuori dal gioco della strumentalizzazione. Occupazione oggi addirittura superflua, quando un sottosegretario allo Sport (Lotti) parla di una nomina giudiziaria nella Procura che lo ha indagato. Ecco perché la necrologia della Boccassini è uno spartiacque. Plateale, ufficiale, voluto. Anche fra i doveri di riservatezza di un procedimento penale e la cultura dell'intervista e della platea alla quale si è adeguato un altro ragazzo di Borrelli, Piercamillo Davigo, difficilmente arginabile quando decide di teorizzare a reti unificate. Lo stesso Francesco Greco, che oggi siede alla scrivania del procuratore capo nel palazzo di Giustizia di Milano, non è riuscito a trattenersi qualche settimana fa, parlando delle nomine del Csm. «Il mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord, ci ha lasciato sconcertati». Un pugno nello stomaco, il segnale di un malessere profondo. La forma delle tenebre.

Vittorio Feltri, la morte di Borrelli e la vecchia intervista a Di Pietro: "Come è nata davvero Mani Pulite". Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Qui sotto, l'intervista di Vittorio Feltri ad Antonio Di Pietro pubblicata sull'Indipendente del 5 giugno 1992.

La stanza di Antonio Di Pietro, che è diventato un idolo popolare perché fa il suo dovere, perché fa il giudice come dovrebbero farlo tutti i giudici, è al quarto piano del palazzo di Giustizia, che è il palazzo più sudicio di Milano, e mi riferisco solo ai marmi, bianchi in origine, immagino, e ora grigi, sporchi come le mani di tanti uomini politici e uomini d' affari. È una stanza ingombra di faldoni e di scrivanie disseminate di fogli, dietro alle quali siedono giovanotti che non hanno l' aria di impiegati, e in effetti sono poliziotti, che non hanno l' aria di poliziotti: jeans, scarpe da tennis, barba lunga. Lavorano con lui, e lui se ne sta in un angolo, vicino alla finestra da cui si intravedono tetti opachi e muri sbreccati, riparato da un armadio-libreria. Davanti al suo tavolo, due sedie; una è occupata, anche quella, da una pila di documenti, che non oso guardare per paura di leggerci qualche nome e di non resistere poi alla tentazione di annotarmelo; l' altra è per me: la occupo io. Di Pietro è in maniche di camicia; la giacca con le tasche gonfie è appesa alla parete, tra illustrazioni polverose di carabinieri con pennacchio rosso e blu, carabinieri a cavallo, carabinieri con sciabola. È una stanza triste, sembra il commissariato in un film neorealista.

E dove li fa gli interrogatori, dottor Di Pietro?

«Dove vuole che li faccia, qui. L' interrogato siede dove siede lei».

Qua in mezzo a tutti?

«Loro non sono tutti, sono miei collaboratori. Io e i miei collaboratori siamo una famiglia».

Ma tu pensa. Mezza Milano trema. L'intera Italia politica trema. Tremano tutti al cospetto di questo magistrato, che in tre mesi ha fatto ciò che ad altri non era riuscito di fare in quarant'anni, un po' di pulizia, e la Giustizia lo costringe a vivere otto, dieci, quindici ore al giorno in questo magazzino di scartoffie, nel quale un paio di computer accesi sono il solo tocco di modernità. Se il ministro Martelli, invece che rilasciare dichiarazioni di solidarietà a Bobo e papà per la nota vicenda, venisse qui a constatare in quali condizioni lavorano i magistrati, probabilmente impiegherebbe più utilmente il suo tempo e imparerebbe che in questo paese se i tribunali funzionano male è un miracolo. Osservandone le strutture ci si convince che non dovrebbero funzionare affatto. Qualcuno ha parlato di Di Pietro come un eroe perché ha avuto e ha il coraggio di tenere la schiena dritta davanti ai potenti. Certo. Ma il suo eroismo, se di eroismo si tratta, consiste nel suo essere efficiente in questo microcasino della Giustizia. E la gente, la quale, come pensano i politici, non capisce niente ma, contrariamente a quanto pensano i politici, intuisce tutto, ha intuito anche questo: che Di Pietro è uno sgobbone, uno che ci dà dentro, uno che va avanti per la sua strada anche se la strada non c'è, una persona seria che si muove in un ambiente, quello dei partiti, che di serio ha solamente la disonestà.

Signor giudice è consapevole della simpatia, della stima che la circondano?

«So che c'è ansia di chiarezza, un profondo desiderio di moralità; e questo incoraggia chi fa il mio mestiere».

Altro che ansia, lei è al centro di un tifo da stadio. E non pochi, io tra questi, sospettano che a lungo andare la cosa solletichi la sua vanità. Non si offenda, siamo tutti un po' vanitosi «Sono talmente preso che non ho cinque minuti liberi. Se è come dice lei, mah, non me ne sono accorto. Come potrei accorgermi di quello che accade fuori di qui se fuori di qui non metto piede? Montarmi la testa? No, è un pericolo che non corro».

Chissà quante pressioni riceve, quanti tentativi di rabbonirla.

«Rabbonirmi? Mica sono cattivo. Semplicemente mi impegno nel lavoro. Quanto alle pressioni, nemmeno una. Né all' interno di questo palazzo né all' esterno. Nessuno ha cercato, in alcun modo, di bloccare l' inchiesta».

A proposito, il procedimento da che cosa ha preso l' avvio?

«Nulla di romanzesco. Da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l' altro siamo andati lontano. Ma ci siamo andati non per la querela in sé bensì perché eravamo pronti a compiere il grande viaggio nella corruzione che ammorba la vita pubblica. Non ci sono misteri, non ci sono delazioni, non ci sono pentiti. Solo una gran fatica nostra».

È sicuro di non essere stato strumentalizzato, inconsapevolmente magari?

«Sicuro, sicurissimo. Maneggio fascicoli, sto ai fatti, agli accertamenti, come è ovvio. Degli inquisiti mi preme la posizione processuale, non il resto: il colore dei capelli, la tessera non m' importano. Recentemente ho arrestato un tale che ritenevo fosse del partito ics e solo al momento di interrogarlo ho scoperto che era del partito ipsilon. Una scoperta influente, comunque».

Influente anche quella di Craxi?

«Mi debbo ripetere: ciò che riguarda Craxi e il figlio è penalmente non rilevante. Altre valutazioni non spettano a me e non ne faccio».

D'accordo, ma si ha la sensazione che pochi si salvino, che il marciume sia dilagato a ogni livello.

«È sbagliato generalizzare. Vi sono imprenditori che hanno corrotto, altri che non si sono opposti con molto vigore alle richieste di denaro, e altri che hanno subito e sono vittime. Insomma, diversi gradi di responsabilità. Poi vi sono politici che pretendevano e altri che incassavano e giravano al partito nella convinzione di non commettere, personalmente, reati. E a parte il fatto che non si può fare di ogni erba un fascio, va ricordato che nessuno è colpevole fino al giudizio definitivo. Quindi la prudenza nel qualificare una persona coinvolta non è mai troppa».

Tra quelli che le sono passati davanti, e sono una folla, qualcuno le ha fatto pena?

«Il termine pena non è esatto. Però ammetto che mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l'indagine, ci mancherebbe».

Suppongo che non saranno mancati gli arroganti.

«Non è vero. Con tutti ho avuto un rapporto leale, di collaborazione anche; gli interrogatori li ho vissuti così e spero che così li abbiamo vissuti gli inquisiti».

Non ha paura?

«Di che?».

Beh, insomma, col quarantotto che lei ha creato, con le carriere che ha troncato come fa a stare tranquillo?

«Ho la tranquillità di chi non è andato oltre la misura e si è attenuto alle leggi e che quelle leggi è pagato per servire».

Però le hanno assegnato la scorta, a lei e alla sua famiglia, si vede che tanto tranquilli non sono tutti.

«Non è sbagliato prevenire, no?».

Ormai sono mesi, quando si chiuderà questa storia?

«Non dipende da me, né sono in grado di fare previsioni».

Il processo sarà interminabile, complicato. E a volte le cose complicate sono come bolle di sapone.

Per dirla con franchezza, non teme che si applicherà la vecchia equazione: tutti colpevoli uguale a tutti innocenti e buona notte al secchio?

«L'impostazione del processo tiene conto del nuovo codice, non sarà un gioco di intrecci, non c' è il pericolo di garbugli e ogni episodio sarà circoscritto. Andremo fino in fondo».

Glielo auguro. Me lo auguro. Lo auguro agli italiani. E che ogni città abbia presto il suo Di Pietro. Già, perché non ce n'è uno in ogni città? Vittorio Feltri

E ai Craxi disse: «L’arresto di Chiesa non fu politico». Disse il procuratore: «preso in flagranza di reato, la campagna elettorale non c’entra». Francesco Damato il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. «Lui andò subito al sodo chiedendomi se non avessi letto ciò che aveva dichiarato Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi, a commento dell’arresto di Chiesa: “si vede che è cominciata la campagna elettorale”». Eletto ripetuto dal 1972 a Milano, per quanto orgogliosamente fiorentino, nelle liste del Partito Repubblicano con la iniziale e pubblica sponsorizzazione pubblica dell’amico Indro Montanelli, che per solidarietà aveva lasciato il Corriere della Sera quando lui ne aveva perso la direzione, da presidente del Senato Giovanni Spadolini si faceva ospitare nelle sue visite ambrosiane dalla Prefettura. Dove spesso, in suo onore, veniva organizzato un incontro con le autorità locali e con una rappresentanza della stampa che sceglieva lui personalmente. Fu così che vi fui invitato, essendo direttore del Giorno, oltre che amico, qualche giorno dopo l’arresto del socialista Mario Chiesa, nel febbraio del 1992, e l’esplosione di quella che sarebbe stata chiamata Tangentopoli. Spadolini dall’anno prima era diventato senatore a vita, ma non aveva voluto perdere per questo i contatti con la “sua” ormai Milano. Fra le autorità presenti a quell’incontro c’era il capo della Procura della Repubblica Francesco Saverio Borelli. Che se ne stava un po’ in disparte, in un angolo della sala, a sorseggiare uno spumantino quando Spadolini mi prelevò da un gruppo di colleghi e mi accompagnò da lui per presentarmelo. Ebbi la sensazione, forse sbagliata, per carità, ma avvertita dopo che fummo rapidamente lasciati soli, che quella presentazione non fosse stata casuale. Appena allontanatosi il presidente del Senato, Borrelli mi chiese con un certo risentimento, che mi sorprese proprio perché non ci eravamo mai conosciuti, ma evidentemente motivato dai miei noti rapporti di amicizia con Bettino Craxi, se “a casa del presidente” fossero “impazziti”. Cercai di fare il finto tonto chiedendogli a quale “presidente” si riferisse. E lui andò subito al sodo chiedendomi se non avessi letto ciò che aveva dichiarato Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi e consigliere comunale, a commento dell’arresto di Chiesa: “si vede – aveva detto pressappoco il figlio dell’ex presidente del Consiglio- che è cominciata la campagna elettorale” per il rinnovo delle Camere, per cui in effetti si votò il 5 aprile di quell’anno. Francamente a disagio per tanta franchezza , diciamo così, di Borrelli alle prese con un giornalista, gli chiesi che cosa potesse fargli pensare che Bobo Craxi avesse parlato in quel modo a nome del padre, peraltro commentando non solo l’arresto di Chiesa ma anche le reazioni politiche degli avversari del leader socialista. Ma Borrelli, con franchezza crescente e per me sempre più imbarazzante, mi lasciò quello che io ritenni, magari a torto anche questa volta, un messaggio. Che poi, alla prima occasione di un incontro personale a Roma, non fidandomi del telefono, vi confesso, riferii a Bettino senza ricevere una parola di commento. Colsi solo sul suo volto una smorfia di sorpresa e fastidio. “Vorrei che il presidente sapesse – mi aveva detto all’incirca Borrelli- che l’arresto di Chiesa è avvenuto in flagranza di reato, dopo mesi di indagini, per mia espressa volontà, proprio perché nessuno potesse commentarlo come ha fatto Bobo Craxi”, cioè strumentalizzandolo – mi parve di capire- in chiave politica. Non ebbi altre occasioni di incontro con l’allora capo della Procura della Repubblica di Milano. Né mi lamentai dell’accaduto con Spadolini, pur essendone stato tentato, per non metterlo in imbarazzo né come amico né come seconda carica dello Stato.

Su Borrelli è rissa tra Anm e avvocati. Luca Fazzo, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Scontro frontale tra avvocati e giudici sulla figura di Francesco Saverio Borrelli, l'ex procuratore della Repubblica di Milano morto sabato dopo una lunga malattia. Accade che l'Unione delle camere penali (Ucpi), l'organismo che raduna i penalisti di tutta Italia, rompe il fronte delle commemorazioni commosse e va giù piuttosto pesante sulla figura di Borrelli e soprattutto sull'esperienza del pool Mani Pulite, parlando di «clima di terrore». E innesca a stretto giro di posta la replica indignata dell'Associazione nazionale magistrati, che accusa gli avvocati di avere in questo modo mancato rozzamente e volgarmente di rispetto alla figura dello scomparso. «Il triste evento non può costituire l'occasione né di servile ipocrisia, né di manipolazione della reale eredità storica e culturale di quella tempesta giudiziaria e politica che fu Mani Pulite», dice l'Ucpi. Dopo avere premesso che non sono in discussione né l'alta professionalità di Borrelli né la sua integrità morale, i penalisti ricordano come «Mani Pulite, lungi dal poter essere beatificata, è entrata nella storia del diritto italiano per il grave e diffuso arretramento delle garanzie processuali che quella inchiesta determinò, con estese influenze negative su tutto il sistema giudiziario, tuttora presenti». Oltre all'utilizzo del carcere per ottenere le confessioni, l'Unione ricorda «un meccanismo perverso ed estraneo alle regole che per alcuni si rivelò fatale: la diffusione mediatica dello stato dell'indagine per condizionare le scelte processuali». E ancora: «La spettacolarizzazione degli arresti, la lunga custodia carceraria di chi non ammetteva gli addebiti, crearono un clima di autentico terrore a cui vanno ricondotti i gesti estremi di quanti videro distrutta la propria dignità personale, professionale e familiare». La risposta dell'Anm non si fa attendere: «Sconcerta che un organismo rappresentativo dell'avvocatura italiana ignori le regole elementari del rispetto, persino nel giorno del lutto, che la migliore parte del paese, a cominciare dal presidente della Repubblica, ha dolorosamente manifestato per la scomparsa di un gigante della storia repubblicana, come Francesco Saverio Borrelli. E lo faccia, peraltro, con la più bieca e triste polemica, con un insieme di rozzi luoghi comuni, accostando volgarmente episodi e fatti, con un intento di polemica politica che sconcerta e offende la persona, la memoria, la storia, le istituzioni, e l'intera Magistratura». L'Anm ricorda peraltro come numerosi avvocati milanesi abbiano partecipato in prima fila alla cerimonia funebre dell'ex procuratore tenutasi a Palazzo di giustizia.

Che errore se il giudice vuole fare il giustiziere. Iuri Maria Prado il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Il teorema che si fonda sulla stortura di chi pretende un potere invasivo. Spetta alla polizia far rispettare la legge, non al magistrato. Tocca al parlamento e al governo il compito di rimediare alle ingiustizie. Caro direttore, ricordando la figura di Francesco Saverio Borrelli, il dottor Gherardo Colombo, celebre componente del manipolo che fu capeggiato dal primo, ha indicato il ruolo di cui dovrebbe farsi carico il buon magistrato: e cioè, scrive Colombo, “realizzare il compito della Repubblica (e delle sue funzioni) di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» ”. È un modo apparentemente più soffice e visionario per riproporre quel che non molto tempo fa uscì di bocca a un altro esponente del cosiddetto “pool” di Mani Pulite, il dottor Piercamillo Davigo, poi abituale compagno di conferenze del medesimo Colombo: e cioè che compito del magistrato sarebbe di “far rispettare la legge”. Ma in uno Stato di diritto né quel ruolo né questo compito sarebbero di competenza del magistrato, e il fatto che invece essi siano in questo modo proposti e democraticamente imbandierati denuncia con efficacia terribile su quale base di irrimediabile stortura pretende di fondarsi il potere di indagare e giudicare le persone. Non sta al magistrato di far rispettare la legge. E non gli sta di rimettere in sesto una società eventualmente ingiusta. Perché a far rispettare la legge è messo il poliziotto: non il magistrato; e a rimediare all’ingiustizia sociale sono messi il potere parlamentare e di governo, così come l’azione privata e associativa nei luoghi della formazione civile e culturale: non i magistrati, non negli uffici delle indagini, non nelle aule dei processi. Credere che sia diversamente, come fanno mostra di credere, magari anche in buona fede, certi esponenti della magistratura, arma la convinzione che la società possa essere ricondotta a giustizia tramite una requisitoria dell’accusa pubblica o con la sentenza che accerta e sanziona un illecito. La convinzione, appunto, che con questi strumenti possano ( e dunque debbano) essere rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che un sistema ingiusto e corrotto frappone al trionfo dell’uguaglianza tra i cittadini. L’idea che il magistrato sia quello che si mette al lavoro per rimuovere l’ingiustizia sociale, e che in questo cimento risieda la giustificazione del suo potere di accusare, di arrestare, di condannare, veramente frantuma le fondamenta dell’organizzazione civile e democratica, con un ripiego del sistema in senso autoritario tanto più temibile perché si ammanta di “legalità”. E a questo pessimo risultamento si giunge tanto più facilmente quando l’azione giudiziaria è assistita da un consenso fatto di adunate intorno ai Palazzi di giustizia, con la turba dei buoni cittadini che chiedono ai magistrati di farli sognare. È stato scritto ( sempre dal dottor Colombo) che Francesco Saverio Borrelli era “completamente indipendente dal potere politico”. È probabilmente vero. Come è vero tuttavia che di quel potere non aveva bisogno perché ne deteneva uno diverso e più vasto: il proprio, tutelato da quei cortei. La materia passiva dei costituzionalissimi esperimenti di giustizia sociale rivendicati dai militanti di Mani Pulite.

Ma il controllo di legittimità tutela la Repubblica. Nel ’92 proposi: chi confessa, restituisce i profitti e lascia la politica sia esente da pena. Gherardo Colombo il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Caro Direttore, a proposito delle osservazioni dell’avvocato Prado vorrei richiamare l’articolo 3, comma 2, della Costituzione, secondo il quale "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Ora, chi è la Repubblica, chi ha il compito di rimuovere gli ostacoli…? Io credo che questa domanda sia cruciale. A rispondere ci aiuta l’articolo 1, secondo il quale l’Italia è una Repubblica democratica, e la sovranità appartiene al popolo ( che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione). La Repubblica è l’Italia. Cioè, non è ( solo) il Parlamento che fa le leggi, non è ( solo) il Governo, che amministra, non è ( solo) il Presidente della Repubblica, capo dello Stato che rappresenta l’unità nazionale, non sono ( solo) le istituzioni locali, ma è ( anche) l’ordine giudiziario al quale è attribuito nel settore civile, penale e amministrativo il controllo di legittimità degli atti e dei comportamenti. La Repubblica è anche i suoi cittadini, ai quali sono riconosciute prerogative specifiche e diritti soggettivi attraverso i quali ( capoverso dell’articolo 4) concorrere, tra le altre cose, al progresso materiale o spirituale della società. Se, dunque, la Repubblica sono i cittadini e le istituzioni, ne consegue che sia quelli che queste hanno il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono pieno sviluppo ed effettiva partecipazione. I cittadini hanno un compito duplice: specifico in ordine alla loro attività lavorativa, tanto più se si svolge nell’ambito istituzionale; generico per quel che riguarda il fatto stesso di essere parte della collettività. Per quel che riguarda l’ordine giudiziario, che è il centro dei rilievi dell’avvocato Prado, credo vadano in primo luogo distinti i ruoli del giudice e del Pubblico ministero ( dal procuratore della Repubblica). Secondo il codice di procedura penale il Pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria ( art. 327); il Pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa… ( art. 330). Queste disposizioni sono indirizzate a far sì che si verifichi se sono stati commessi reati e che, in caso affermativo, si sanzioni il responsabile.

Perché? Perché, tra l’altro, si prevenga la commissione dei reati, in altre parole perché si rispetti la legge. Direttamente, dirigendo la polizia giudiziaria, e acquisendo anche autonomamente le notizie di reato, il Pubblico ministero, anche di fatto ( vi ricordate il testo dell’art. 3 Cost.) persegue lo scopo di far rispettare la legge. Cosa che si ottiene, secondo il nostro sistema, estromettendo dal processo chi non ha responsabilità della trasgressione, ma sanzionando invece il responsabile. L’accertamento avviene tramite un percorso munito di una serie di garanzie, perché il risultato sia il più possibile coincidente con quel che si è verificato, e contemporaneamente si rispettino i diritti ( tutti) delle persone coinvolte. Ma lo scopo finale è quello di far sì che in futuro la legge sia rispettata ( efficacia deterrente della sanzione penale). La stessa funzione, con i dovuti distinguo, svolge il giudice: separare il grano dal loglio, perché la cittadinanza rispetti la legge. Il giudice ha un compito ulteriore, affidatogli dalla legge costituzionale che ha stabilito "le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale" ( art. 137 Cost.) La Corte Costituzionale, il giudice delle leggi, quello che così tanto ha contribuito a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…" fin dalla sua istituzione, può essere attivata soltanto da un giudice. Il quale evidentemente concorre alla rimozione degli ostacoli di cui parla l’articolo 3 ogni volta che il pubblico ministero o il difensore gli propongono la questione di legittimità di una legge ed egli, ritenendola non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione, la rimette al giudizio della Corte. Si chiude il cerchio, anche l’ordine giudiziario, e cioè il giudice e il pubblico ministero, concorre per la parte che gli spetta a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle persone. Certo concorre, insieme ai cittadini e a tutte le altre istituzioni, ciascuno per la sua parte. Altri profili che potrebbero stimolare riflessioni sull’esigenza di regolare i confini tra una istituzione e un’altra non sono stati toccati dall’avvocato Prado, e quindi non ne parlo. Vorrei però aggiungere che avendo fatto parte del “manipolo” (ahi, quanto una sola parola può rivelare il pregiudizio) capeggiato dal dottor Borrelli, già nel 1992 avevo suggerito l’idea di risolvere la situazione al di fuori del processo penale: chi racconta come si sono svolti i fatti, restituisce l’illecito profitto e si allontana per qualche tempo dalla vita politica va esente da pena. Il suggerimento non è stato accolto.

La magistratura non deve fare opposizione al sistema, ma stare di fronte alla legge. Giuseppe Gargani l'1 agosto 2019 su Il Dubbio. La tesi di Colombo non è corretta ed è pericolosa perché attribuisce una funzione al magistrato non conforme allo spirito e al contenuto delle norme del complessivo ordinamento giuridico. Gli articoli di Iuri Maria Prado e di Gherardo Colombo in polemica tra di loro, pubblicati su “Il Dubbio”, sono importanti e significativi perché rappresentano in modo profondamente diverso il ruolo del giudice nell’attuale ordinamento giuridico e nella società moderna. Prado sostiene che “non è compito del magistrato far rispettare la legge” perché “il potere di indagare e giudicare le persone” non può essere interpretato in maniera così distorta. Colombo invoca tanti articoli della Costituzione ma soprattutto l’art. 3 che attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, per attribuire al magistrato un ruolo complesso e multiforme. Il ragionamento di Colombo in estrema sintesi è che lo scopo finale del magistrato è quello di far rispettare la legge “separando il grano dall’olio” e in più ha un compito del tutto particolare di far ricorso alla Corte Costituzionale per verificare l’aderenza delle leggi alle norme costituzionali. La tesi di Colombo non è corretta ed è pericolosa perché attribuisce una funzione al magistrato non conforme allo spirito e al contenuto delle norme del complessivo ordinamento giuridico. Colombo in verità esplicita in maniera argomentata quello che sostiene dagli anni 80 quando teorizzò , a nome di “magistratura democratica ” che la magistratura era costretta “a fare opposizione al sistema” perché il consociativismo tra la DC maggioranza in Parlamento e il PCI minoranza, aveva affievolito l’opposizione e la contestazione al partito di maggioranza da parte dello stesso PCI. La magistratura cioè doveva farsi carico di contestare “il potere della maggioranza” attraverso la interpretazione della legge.

Questa valutazione “politica” della funzione del magistrato io l’ ho contestata sin da allora, e Colombo lo sa bene, ma oggi debbo dire che c’è una coerenza nel suo ragionamento che considero ancora più pericoloso, perché dopo la esperienza del pool di Milano degli anni ’ 90 a Colombo sembra ormai scontato questo ruolo omni comprensivo che rende il magistrato, a suo dire, “protagonista delle istituzioni”. Una funzione così indicata farebbe venir meno l’indipendenza della funzione giudiziaria per cui il magistrato non sarebbe più chiamato a reprimere la illegalità, funzione tipica e preziosa, ma a garantire la legalità cioè ad avere una funzione etico- politica. La funzione del magistrato è in contrasto con la funzione politica- etica, che si vuole attribuire: il reato crea un. vulnus nella società e la sanzione ricuce lo strappo e ricompone la comunità nella sua convivenza civile. Si tratta di un ruolo di garanzia di chi controlla e sanziona. Colombo naturalmente sa bene che c’è un problema enorme negli Stati moderni e non solo in Italia, ed è la funzione del giudice e del pubblico ministero. Un ruolo diverso è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore: il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per assegnare un ruolo di supplenza alla magistratura, la quale non si sente più sottoposta alla legge, ma sta "di fronte alla legge", per ripetere una splendida espressione di un vecchio un giurista come Mastursi. Quando il Parlamento prevede il reato di "traffico di influenze illecite", costruito sul nulla e dà al magistrato il massimo di discrezionalità per definirlo a suo piacere, siamo alla follia legislativa che determina inevitabilmente conflittualità e rapporti cattivi tra le Istituzioni. Quando i costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto alle passioni politiche. La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. È questa la questione della giustizia in Italia. Nessuno finora aveva spinto la riflessione fino ad immaginare che il magistrato avesse la funzione di far “rispettare la legge” perché il rispetto della legge viene prima della devianza e deve essere garantito dalla scuola, dalla conoscenza, dalla cultura, dai valori morali, dalla solidarietà civile che è il contrario dell’odio e del rancore. Quella idea non è solo di Colombo ma sostanzialmente di tutta la magistratura che si attribuisce un potere non controllato perché autonomo e autoreferenziale. Sta al Governo e al Parlamento correggere questo equivoco ma debbo riconoscere che anche governi più solidi, più maturi non hanno fatto niente per evitare questa deformazione. E questo è un problema serio e fondamentale della nostra democrazia esposta sempre a pericoli ricorrenti.

Borrelli, ovvero l’aristocratico delle manette. Tiziana Maiolo il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. I funerali del procuratore capo di mani pulite, il pianto di Di Pietro. Quarantuno si sono suicidati, altri assolti: se il giudice soffrì lo fece in silenzio. La morte del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli ha ricreato quel partito di laudatores formato da inquisitori, direttori di giornali e tv e politici codardi, che negli anni 1992- 93 mise in scacco la democrazia e inventò il populismo giudiziario. Al funerale della nostalgia abbiamo rivisto in lacrime Di Pietro, cui qualcuno ha prestato la toga che lui lascò nel ’ 94, abbracciato a Gherardo Colombo, il più aristocratico del pool, che sentenzia come la corruzione oggi sia peggio di ieri. Che è poi quel che pensa Davigo, e cioè che i politici ancora in libertà sono i colpevoli non ancora scoperti. L’unica novità, in questo clima di rimpianti, è che la “società civile”, quella che manifestava con le fiaccole gridando “Borrelli facci sognare” oggi alla commemorazione non c’è. Ha altri problemi. E non sappiamo se nella memoria sia rimasto il Borrelli dei suoi primi sessant’anni di vita, o quello di “Mani pulite”, orribile espressione da Stato etico. Sul procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli avevo scritto nel 1995 la prefazione all’” Autobiografia di un inquisitore” ( non autorizzata ) di Giancarlo Lehner. Un libro forte, che ricambiava senza troppi riguardi la ferocia dei metodi che avevano distrutto per via giudiziaria la classe politica di governo della Prima repubblica. Metodi e anche linguaggio. Chi avrebbe mai potuto prevedere che una persona definita “scialba”, ma anche “per bene”, piuttosto che mite, elegante e gentile e colta come il dottor Borrelli, si sarebbe trasformata in un capo procuratore che dice senza pudore una frase come questa: “Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Il fine che giustifica il mezzo, sulla bocca di un inquisitore, può portare al paradosso, al di là delle intenzioni, di giustificare “qualunque” mezzo, fino alla tortura o alla pena di morte, per raggiungere lo scopo. La frase del procuratore aveva in sé anche una sua crudeltà, se pensiamo a quanti, dopo le inchieste di “mani pulite” e dopo una lunga e ingiusta carcerazione preventiva, sono stati assolti e ai quarantuno che si sono suicidati. La mia prefazione al libro l’avevo dedicata a uno di loro, quel Gabriele Cagliari che avevo incontrato nel carcere di San Vittore pochi giorni prima della morte, che era di buon umore perché pensava di uscire e che un’altra crudeltà aveva poi portato a un altro destino. Non ricordo che nessun magistrato della procura ( tranne Antonio Di Pietro ) abbia mai pronunciato parole di compassione nei confronti dei tanti morti di Tangentopoli, anche se oggi la figlia del procuratore Borrelli, in un’intervista al Corriere, dice che il padre soffrì per i suicidi. All’epoca, se soffrì, lo fece in silenzio. Eppure il Borrelli di “mani pulite”, il Borrelli che inneggiava alle manette come strumento per raggiungere la verità, il Borrelli che nel 1994 disse esplicitamente a Silvio Berlusconi “chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”, e che subito dopo il trionfo di Forza Italia , si offrì al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio dci complemento”, non era il Borrelli che avevo conosciuto io. Prima. Ma prima era prima. Ero cronista giudiziaria fin dagli anni settanta, il palazzo di giustizia di Milano era la mia seconda casa. Da quando era diventato procuratore capo della repubblica, il dottor Borrelli mi vedeva ogni mattina e sapeva con certezza che la mattina successiva sarei stata lì, con la petulanza del cronista, a tormentarlo per avere notizie. Pure un pomeriggio, con sorpresa mia e dei miei colleghi, lui si avventurò nello scantinato di via Sottocorno dove c’era la redazione milanese del Manifesto, per una piccola precisazione su un mio articolo. Non una smentita, ma una puntualizzazione. E si era spinto fino al nostro sotterraneo, scusandosi molto, quasi con timidezza, solo per chiarire un punto di non so quale inchiesta. Quello era il Borrelli che mi era sempre piaciuto. Ma poi le inchieste di “mani pulite” hanno cambiato tutto, hanno cambiato le persone e prodotto un impazzimento generale. Fino al famoso “Resistere resistere resistere come sulla linea del Piave”, la sua relazione da procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002, un vero proclama politico che diventerà, purtroppo, il suo testamento prima della pensione. In quello stesso discorso Francesco Saverio Borrelli contribuì a creare una situazione da stadio, con gente che applaudiva, magistrati in toga nera su indicazione del loro sindacato, politici che lasciavano l’aula, e lui che arringava, scagliandosi contro il governo. E mentre tuonava contro la separazione della carriere usando anche l’argomento più frusto, cioè il timore di una sottoposizione del pm all’esecutivo, nello stesso momento assumeva lui stesso, lui capo di tutti i pubblici ministeri, il ruolo del leader politico dell’opposizione. Non era mio amico, il dottor Borrelli, come lo era stato invece il suo vice Gerardo D’Ambrosio, che mi aveva deluso in modo più bruciante. Non era mio amico ma l’avevo sempre rispettato. E spero che, nei momenti in cui si comincia a fare i conti con la propria vita, nella sua memoria sia prevalsa la storia di se stesso come la persona gentile e mite che io avevo conosciuto e che un giorno si era avventurata nello scantinato del Manifesto. A me piacerebbe poterlo ricordare così. Anche se è difficile. 

Borrelli ha processato il “sistema” e alimentato l’avversione verso la politica. Giuseppe Gargani il 24 luglio 2019 su Il Dubbio. Si è trovato con un “pool” acclamato dalla folla e forse se ha poi riconosciuto che le indagini possono essere state “esagerate” vuol dire che non è riuscito a guidare i suoi sostituti. La scomparsa di Francesco Borrelli procuratore della Repubblica di Milano negli anni 90, all’epoca di Tangentopoli, ci rattrista come la perdita di uomini significativi che hanno influito sul corso della storia, ma al tempo stesso ci consente di poter dare un giudizio più distaccato e sereno sul suo operato. Ho conosciuto Borrelli e ho avuto con lui incontri pubblici e privati: non posso non riconoscere il suo stile, la sua sensibilità, e in particolare la sua sensibilità musicale che apprezzavo perché la raffrontavo alla mia per avere anch’io da giovane studiato pianoforte e per essere cultore di musica classica. Ma la domanda che dobbiamo porci è: Borrelli fu un magistrato indipendente pur essendo pubblico ministero, e la sua azione fu in linea con il tradizionale metodo di fare indagini secondo il codice? Questa domanda complessa merita una risposta che è stata già data da Gherardo Colombo suo collaboratore il quale ha esaltato la sua indipendenza perché ricercava anche di prove a favore dell’indagato?! Ho scritto negli anni scorsi tante pagine sull’argomento e ho dato giudizi molto severi su quella indagine che andava sotto il nome di “mani pulite” e non posso che confermare un giudizio che ormai è storico e cioè: tutta l’attività investigativa non era riferita solo agli indagati presi singolarmente, ma alla corruzione come tale, ad un costume ritenuto corrotto. La grande inchiesta del secolo doveva dimostrare appunto che il “sistema” era corrotto e quindi andava liquidato. Le indagini furono rivolte al “sistema” nel suo complesso, al comportamento generale dei partiti più che al singolo indagato e alle sue responsabilità personali. Borrelli si è trovato in un periodo di passaggio tra la tradizionale funzione della magistratura e un ruolo profondamente diverso che si imponeva, non solo in Italia, perché già in quegli anni era superato il dettato costituzionale che indicava nella magistratura “un ordine autonomo”. Per ragioni complesse istituzionali certamente non banali, che non posso ripetere in un commento breve, la magistratura è diventata un “potere”. La magistratura per tanti anni è stata interprete fedele della legge, e ha costituito un “potere neutro”. L’equilibrio dei poteri si è attuato in questo modo: la magistratura è stata un “ordine” “indipendentemente dagli altri poteri” ma non un “potere”. Intorno agli anni 80 la magistratura ha avuto una evoluzione: la giurisprudenza si è imposta come riferimento principale, come faro per i giudici, la certezza della legge si è attenuata, le norme incerte, in capaci di regolare i rapporti sociali hanno consentito che il legislatore delegasse tutte le interpretazioni e le decisioni al magistrato, e l’” ordine” ha lasciato il posto al “potere”. Si trattava forse di un’evoluzione inevitabile. La magistratura prendeva atto che ad essa era stata devoluta dalla legislazione una serie di compiti che non erano suoi propri e che investivano la funzione politica più che quella giurisdizionale e di conseguenza il suo controllo giurisdizionale si trasformava in un controllo politico e incideva sulla vita politica dello Stato. Queste sono state le teorizzazioni di “magistratura democratica“! Questa la premessa generale. Borrelli ha segnato questo passaggio e processando il “sistema” ha alimentato l’avversione dei cittadini nei confronti della politica e ha allontanato i cittadini dalle istituzioni. La convinzione ancora presente nell’opinione pubblica è che la corruzione sia generalizzata cioè appunto sistemica. Se Gherardo Colombo e Armando Spataro due giuristi raffinati e colti ancora oggi ci dicono che il “sistema” era corrotto, vuol dire che non c’è una valutazione retrospettiva e una revisione autocritica del metodo utilizzato per le indagini che erano rivolte a scoprire quale collegamento vi fosse tra tutta la classe dirigente e la carcerazione preventiva serviva per costringere alla confessione e alla delazione.

Riconoscere queste “imprudenze”, che lo stesso Borrelli pare abbia riconosciuto servirebbe a “mettere a posto la storia” e a riconoscere che la piazza, la scatenata opinione pubblica, ha avuto influenza notevole, ha osannato un “angelo sterminatore” nella persona di Di Pietro che doveva, ahimè! fustigare i costumi!!? Come non riconoscere che non era il sistema corrotto, ma erano corrotte singole persone, se le sentenze di condanna a seguito di quei processi sono ben… poche! Borrelli si è trovato con un “pool” acclamato dalla folla e forse se ha poi riconosciuto che le indagini possono essere state “esagerate” ( che nella fase istruttoria di un processo sono gravi) vuol dire che non è riuscito a guidare i suoi sostituti. Ma ho una testimonianza da raccontare che conferma le mie osservazioni. In un convegno alla Camera dei Deputati negli anni 90, accorsato da giuristi e politici Borrelli disse una cosa che al momento mi procurò perplessità ma grande afflato umano. Disse una frase che ha poi ripetuto: “Nonostante l’azione della Procura di Milano si continua a rubare“. Gli risposi che 2000 anni fa è venuto sulla terra un Signore che si chiamava Gesù che voleva redimere l’uomo, il quale resta pieno di peccati, costituisce “il legno storto dell’umanista” per ricordare il titolo di un grande scrittore. Dopo il convegno mi disse di aver apprezzato il mio esempio paradossale ed io gli dissi che l’espressione da lui usata era una voce dal “sen fuggita“, che indicava una presa di posizione morale, etica e non giuridica. In quell’occasione gli chiesi di darmi un aiuto come presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati per depenalizzare il finanziamento pubblico ai partiti che era la spia per trovare la corruzione ma era altra cosa dalla corruzione, “se agite solo sulla corruzione sarà più limpida e trasparente la vostra azione”; gli dissi. La verità è che il luogo comune ormai diffuso e pericoloso che il magistrato “garantisce la legalità” ha contribuito da allora ad alterare la funzione del magistrato che “lotta” per far vincere il bene sul male: funzione molto pericolosa perché etica e non giuridica. In definitiva ho sempre sostenuto che il pubblico ministero è una parte nel processo che accusa, come l’avvocato che difende, e il giudice deve essere terzo ma entrambi dovrebbero avere una responsabilità istituzionale che è necessaria per ogni funzione di qualsiasi natura, per evitare che il “legno storto” immagini di essere dritto e quindi assoluto. Era difficile resistere alla eccitazione oltre misura dell’opinione pubblica che reagiva appunto perché convinta che non si trattava di singoli responsabili ma di un “sistema di corruzione generalizzata”, ed infatti una frase di Borrelli riportata in questi giorni che “la gente deve sapere che c’è un coefficiente di successo nella nostra attività legata al consenso” è estremamente rilevatrice della situazione nella quale si operava in quel periodo. Purtroppo non allora ma oggi la corruzione, a differenza di quello che pensa Colombo, è diventata “sistema” perché diffusa, alla portata di tutti, tant’è che c’è assuefazione e rassegnazione a differenza degli anni 90 e l’antipolitica e il populismo sono al governo del paese, e il rapporto tra i poteri, come possiamo ben notare, è squilibrato. Le conseguenze di quelle azioni giurisdizionali sono queste, forse, non immaginate da Borrelli, ma assai concrete e deleterie.

VE LA DO IO “MANI PULITE”. Mani pulite, anche Francesco Saverio Borrelli partecipò al circo mediatico che distrusse la classe politica. Lettera di Fabrizio Cicchitto a “Libero quotidiano” il 24 luglio 2019. Caro direttore, mi consenta di aggiungere alcune riflessioni al quadro che in questi giorni Libero ha fatto di Mani Pulite. Certamente la morte richiede rispetto, ma molte rievocazioni, a mio avviso, sono state acritiche. È stato ricordato che lo stesso Borrelli nel 2011 aveva espresso un giudizio critico su ciò che era accaduto dopo Mani Pulite: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani Pulite, non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente con quello attuale». Perché le cose sono andate in questo modo? A nostro avviso per due ragioni di fondo: per il carattere unilaterale di Mani Pulite e perché essa comunque comportò una distruzione di classe politica e di partiti che non è stata affatto sostituita da una nuova classe dirigente superiore a quella della prima Repubblica in termini di qualità, di preparazione, di cultura di governo e anche di onestà. Specie dopo la fase dell' unità nazionale Tangentopoli era un sistema di finanziamento irregolare dei partiti che coinvolgeva sia tutti i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici (Fiat e Cir compresi) sia tutti i partiti. Invece la gestione giudiziaria e mediatica del pool, senza eccezione alcuna (quindi Borrelli e Di Pietro compresi, mentre Tiziana Parenti fu espulsa proprio per questo), fu quella di concentrare il fuoco contro il Psi di Craxi, contro i partiti laici e contro il centro-destra della Dc, salvando invece il Pds e la sinistra democristiana. Le ragioni per cui il pool dei pm si è mosso in questo senso sono state diverse per i suoi protagonisti. Per Borrelli si trattava di assicurare comunque al pool un sostegno politico. Ci fu un momento nel quale egli accarezzò il progetto che un' élite di magistrati avrebbe potuto essere chiamata dal presidente della Repubblica a prendere in mano la guida politica del Paese, ma si trattò di una suggestione durata lo spazio di un mattino. Invece per parte sua il viceprocuratore D'Ambrosio giocò una partita politica in difesa di un Pci-Pds che di finanziamento irregolare di tutti i tipi si era alimentato dagli anni '40 in poi. Fu D' Ambrosio a dichiarare a un certo punto che Mani Pulite era conclusa perché erano state accertate le responsabilità della Dc e del Psi. Non a caso il Pds testimoniò la sua riconoscenza a D'Ambrosio eleggendolo più volte parlamentare. Come è stato scritto su Libero Mani Pulite, però, non ci sarebbe stata senza il ruolo dirompente svolto da Di Pietro. L'azione di Di Pietro, però, non si limitò a quello che è stato ricordato. Egli rovesciò nella sostanza alcuni aspetti fondamentali della procedura. Il messaggio che egli dava a imprenditori e avvocati spesso era il seguente: fatemi i nomi dei politici o butto la chiave. Questo tipo di approccio per un verso fu assai efficace, ma per altro verso attraverso di esso avvennero molte deviazioni sul terreno dell' unilateralità e dell' arbitrio, con conseguenze disastrose per lo stato di diritto. La testimonianza massima di tutto ciò è stata offerto dalla vicenda Sama-Cusani-Pci. Sama e Cusani sono stati condannati come corruttori avendo portato una valigetta con circa 600 milioni di lire alla direzione del Pci. Siccome però non c'è stata la prova provata che i dirigenti del Pci con i quali essi avevano un appuntamento avessero anche ricevuto la valigetta ecco che i corrotti sono rimasti senza nome. L'impostazione giudiziaria della vicenda allora fu così unilaterale che in sede di processo il presidente Tarantola addirittura rifiutò l'escussione di Occhetto e di D' Alema come testimoni. Non credo che se Sama e Cusani si fossero recati con una valigia contenente del denaro nella sede di un altro partito avendo un appuntamento con alcuni dirigenti questi l' avrebbero fatta franca al punto da non ricevere neanche un avviso di garanzia. Mi consenta di osservare, caro direttore, anche se so che questa riflessione non è condivisa da molti nel suo giornale, che non a caso l' Italia è stato l' unico Paese in Europa dove ben cinque partiti sono stati distrutti e spazzati via dalla scena politica non per il voto degli elettori, ma per la "sentenza anticipata" del circo mediatico-giudiziario e che oggi il nostro Paese è caratterizzato da una maggioranza di forze politiche in un caso sovranista nell' altro populista.

Quando uccisero la Prima Repubblica (senza manette). Il Giornale, Mercoledì 24/07/2019. Massì, dai, sarà il solito brano da idioti che dura tre mesi e poi ciao. Quando è uscito Hanno ucciso l'Uomo Ragno, le aspettative della critica erano pari a zero. In compenso quelle del pubblico erano sottozero perché nessuno li conosceva, questi 883, mentre le folate del grunge alla Nirvana stavano demolendo gli anni Ottanta e i paninari sembravano già reperti storici. Poi, ovvio, il brano è diventato un tormentone e oggi lo conoscono a memoria anche quelli che allora per carità, ma che cos'è sta robina qua. Gli 883 erano due ragazzi pavesi che in realtà amavano il rock e il rap e immaginavano di finire dietro una scrivania dal lunedì al venerdì. Già, così si immaginavano Max Pezzali e Mauro Repetto. E invece, guarda il gioco delle coincidenze, Hanno ucciso l'Uomo Ragno è diventata l'involontaria colonna sonora di una delle nostre fasi più turbolente del Dopoguerra, incastrandosi quasi alla perfezione nel marasma istituzionale e sociale dei primi anni Novanta. «Solita notte da lupi nel Bronx, nel locale stanno suonando un blues degli Stones». E vai con un suono di sirene. Hanno ucciso l'Uomo Ragno è stato pubblicato il 10 febbraio 1992, un giorno qualunque di un mese qualunque in concomitanza del Festival di Sanremo. Però - e qui la malizia del caso è perfida - sette giorni dopo, ossia il 17 febbraio, la polizia arresta Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio a Milano, la casa di riposo dei cosiddetti «meno abbienti». In tasca aveva una bustarella da sette milioni di lire e la maledizione di diventare il primo politico a battezzare Tangentopoli. Mario Chiesa non è altro che «un mariuolo» per Bettino Craxi ma diventa subito il bersaglio di quelli che, se ci fossero stati i social, sarebbero stati chiamati «haters». È il tappo che salta dalla magnum della corruzione. Antonio Di Pietro diventa il Robespierre della rivoluzione di Mani Pulite, mentre Francesco Saverio Borrelli gestiva il «club dei Giacobini» che per qualcuno stava realizzando un colpo di Stato destinato a stravolgere completamente i vertici istituzionali e il tessuto politico italiano. «Il guercio entra di corsa con una novità, dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto bang». Per carità, il tormentone degli 883 non c'entra nulla con Tangentopoli, è stato scritto prima di qualsiasi manetta, così come non c'entra nulla con i lutti disastrosi e indimenticabili di quell'anno, gli assassinii di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, tra maggio e luglio. «Il brano è stato scritto molto tempo prima delle stragi di mafia» ha confermato Max Pezzali sganciandosi per l'ennesima volta da qualsiasi coinvolgimento «impegnato». Non a caso, anche per questo gli 883 sono diventati in tempo quasi reale il bersaglio preferito dei puristi del pop, dei soliti tromboni per i quali una canzone non ha senso a meno che non sia impegnata. La leggerezza, si sa, subisce sempre giudizi pesanti. Però i brani che resistono per decenni sono spesso quelli che, anche involontariamente, intercettano lo zeitgeist, lo spirito del tempo, la sensazione spesso ancora impercettibile di essere alla vigilia di un cambiamento. «L'Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti» ha spiegato Pezzali, uno che, molto prima di Twitter, ha avuto il dono della sintesi. «Hanno ucciso l'Uomo Ragno chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità». Nel 1992 senza dubbio è stata ammazzata anche la Prima Repubblica, o magari è morta di morte naturale, e mentre il brano iniziava lentamente a farsi luce in classifica, le manette iniziavano a tintinnare. Tanto per capirci, Max Pezzali ha raccontato che Hanno ucciso l'Uomo Ragno è nato quasi per caso dopo «un panino piccante pancetta e tabasco». «Il testo non veniva e allora uscimmo a caccia di ispirazione. Poi la sera, di rientro a casa, mia madre, aveva preparato il minestrone che, unito al tabasco e alla pancetta non vi dico la sensazione. All'improvviso mi è venuta una frase Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. A quel punto sono corso in cameretta e la canzone è nata da sola». Spontaneità e provincia. Buoni sentimenti ed epica da fumetto. In fondo qui ci sono alcuni degli ingredienti di uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi decenni, senza dubbio il più bombardato dalla critica perché non impegnato, non schierato a sinistra, non referenziale ma nemmeno autoreferenziale. Semplicemente Max Pezzali raccontava la vita al di là della metropoli, nei piccoli centri dove c'erano ancora le «compagnie» di amici, dove il «deca» era l'unità di misura del sabato sera, dove «non me la menare» era il claim preferito del (post) adolescente ancora in cerca d'autore. Gli 883 hanno intercettato questo pubblico, con un successo straordinario. Il disco ha venduto seicentomila copie e il brano è andato al numero uno in classifica per settimane. Mentre i telegiornali raccontavano lo sfacelo di uno Stato e la terrificante prova di forza della mafia, c'erano due ragazzi pavesi che smontavano i luoghi comuni dei scintillanti anni Ottanta.

Gli 883 erano gli anti yuppies ma non erano neanche grunge. Non sognavano Wall Street ma neppure vestivano camicie a quadretti e si facevano crescere i basettoni. Erano figli della provincia nei quali non vedevano l'ora di riconoscersi anche i figli della metropoli. In ogni caso questo tormentone, che partecipò al Festivalbar e vinse Vota la voce, è diventato uno dei simboli di un'epoca e basta vedere il videoclip per capirlo (tratto dal film Jolly Blu). C'è Max Pezzali giovane e spaurito che viene presentato dal suo manager (Saturnino) al capo della casa discografica (Jovanotti). Dopo scene di ordinaria managerialità (telefonate, caos, pose da megadirettore), Pezzali riceve il via libera per pubblicare il disco e Saturnino gli conferma di essere «un ragazzo fortunato» (come il brano che Jovanotti aveva appena pubblicato). Un'ingenua sequenza da musicarello. Però il testo era inconsapevolmente perfetto: «Il crimine non vincerà ma nelle strade c'è il panico ormai, nessuno esce di casa, nessuno vuole guai e agli appelli alla calma in tv adesso chi ci crede più». È un tormentone pop, potrebbe sembrare la cronaca di un'epoca.

·         È morto lo sceneggiatore e regista Mattia Torre.

È morto lo sceneggiatore e regista Mattia Torre, da Boris a La linea verticale. Aveva 47 anni. Aveva raccontato la malattia nella serie con Valerio Mastandrea. Chiara Ugolini il 19 luglio 2019 su La Repubblica. È morto Mattia Torre, sceneggiatore, autore televisivo e regista, un vero talento nel raccontare la quotidianità, una scrittura contemporaneamente ironica e toccante in cui il pubblico si riconosceva con facilità. Insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico aveva creato la serie di successo Boris, poi diventata film, in cui si raccontavano le esilaranti avventure di un gruppo di lavoro intorno ad una soap opera, Gli occhi del cuore. Al cinema, sempre in trio con Vendruscolo e Ciarrapico, aveva firmato anche la commedia grottesca Ogni maledetto Natale. Prima del successo della serie, che aveva debuttato nel 2007, Torre aveva fatto la gavetta nel mondo teatrale romano dove aveva conosciuto Ciarrapico e in seguito Luca Vendruscolo con cui aveva scritto il film Piovono mucche, premiato col Solinas. È stato autore per Serena Dandini (Parla con me e The show must go off), forte la collaborazione con Valerio Mastandrea per il quale ha scritto prima Il migliore per il teatro e poi la serie tv La linea verticale. Proprio Mastandrea aveva letto un toccante ed esilarante monologo di Torre durante una puntata di Propaganda Live che aveva avuto un grandissimo successo. Anche scrittore, tra i titoli La linea verticale da cui è stata tratta la serie tv, che era la sua storia autobiografica (raccolta nel libro edito da Baldini e Castoldi), paziente dell'ospedale romano Regina Elena. La serie, resa disponibile prima su RaiPlay, aveva avuto un grande successo, 600.000 visualizzazioni nella prima settimana. A maggio era arrivato in libreria In mezzo al mare(Mondadori), versione aggiornata della raccolta di "atti comici" pubblicata nel 2012 che aveva ispirato monologhi brillanti come Perfetta, portato a teatro da Geppi Cucciari. Tra i primi ad esprimere cordoglio, Corrado Guzzanti, con cui Torre aveva scritto anche la serie 'Dov'è Mario?' "Mattia Torre, amico carissimo e brillante, scrittore sopraffino, 47 anni, venti romanzi ancora da scrivere, cento sceneggiature. Una curiosità, un coraggio e un senso dell'umorismo rari in questo mondo, rarissimi in Italia. Uno che se adesso gli dicessi "che la terra ti sia lieve" ti scoppierebbe a ridere in faccia, ci scriverebbe sopra un monologo. Mi mancherai tanto. Ci eri indispensabile", ha scritto commosso Guzzanti. Torre stava preparando il suo prossimo film in programma per il 2020, Figli, in cui avrebbe dovuto dirigere Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi e Stefano Fresi. In ricordo del regista questa sera su Raimovie verrà programmato il film Ogni maledetto Natale.

Addio Mattia Torre, ci mancherai tanto, ci eri indispensabile. Se ne è andato a soli 47 anni una grande penna. Autore di "Boris" e "La linea verticale", scrittore e regista, persona dall'intelligenza illuminata. Beatrice Dondi il 19 luglio 2019 su L'Espresso. «Ci mancherai tanto, ci eri indispensabile». Così l'ha ricordato Corrado Guzzanti, e così lo ricorderanno tutti coloro che sono passati, anche solo per un attimo sui risultati della sua formidabile penna. Mattia Torre, sceneggiatore, commediografo e regista italiano, mente acuta e sensibilità profonda, se ne è andato a soli 47 anni. Al suo attivo lascia come si dice, una produzione strepitosa: libri, film, spettacoli teatrali, serie televisive, programmi, perle di vario genere e numero. Dalle commedie teatrali "Io non c'entro", "Tutto a posto", "Piccole anime" e "L'ufficio" al film "Piovono Mucche" dalla serie "Buttafuori" alla raccolta di monologhi "In mezzo al mare". Sino a “Boris”, un esempio di televisione talmente intelligente che a furia di essere imitato è diventato persino un modo di dire. Con Mattia Torre Serena Dandini si è seduta sul divano rosso di "Parla con me". Con Mattia Torre Corrado Guzzanti è tornato sul piccolo schermo per quello strano quanto esilarante esperimento di “Dov'è Mario”. E con Mattia Torre Valerio Mastandrea ha indossato il camice ospedaliero per lasciare il segno con una produzione che ha colpito e affondato. "La linea verticale", andata in onda su Rai Tre nel 2018 dopo essere stata un libro e aver occupato la piattaforma Rai Play, è riuscita con la sola forza del racconto a mettere in scena il dolore della malattia, la violenza che sprigiona la voglia di lottare per la vita e l'importanza di vivere in un Paese che bene o male ancora può contare sulla sanità pubblica. Un gioiello, che senza smettere mai di usare l'ironia ha urlato sottovoce quanto lontano possa arrivare una penna capace. Anche per questo caro Mattia, ci mancherai tanto. Perché è vero, ci eri indispensabile.

"In corsia c’è la luce del mondo": quando Mattia Torre raccontava la “Linea verticale”. La diagnosi di cancro. Il ricovero. Il reparto dove si lotta per la vita. E la scoperta di un’umanità fantastica. In questa intervista l'autore scomparso spiegava come era nato il progetto sulla serie tv. Denise Pardo il 19 luglio 2019 su L'Espresso. La temperatura. Il problema era la temperatura del tono e del racconto. Nella serie tv e nel libro non era semplice misurarla bene, anche se Mattia Torre, scrittore, sceneggiatore, regista, si era appena ripreso da qualcosa di molto più complicato. L’esperienza di un intervento importante per un tumore al rene: ventuno giorni nel reparto di urologia di un grande ospedale, che aveva l’urgenza culturale, antropologica, sentimentale di raccontare. Poi ha pensato, spiega, che se qualcuno si fosse sentito offeso dalla temperatura del racconto, a volte satirico, surreale, a tratti tragico e un po’ folle, lui sarebbe stato protetto dall’onestà della verità, «e dall’aver voluto esternare la mia personalissima storia». Con un’ulteriore aggravante al paradosso della comicità in un affare così serio. La rappresentazione di una sanità buona di un ospedale che funziona come un dio. Il simbolo che può esistere nel pieno della normalità. La storia è “La linea verticale”. Laddove verticale sei vivo, orizzontale sei morto, 137 pagine di carta scritte da Torre e quattro prime serate su Rai 3 sceneggiate e dirette sempre da lui. Il racconto di una pagina sociale del paese dove una piccola porzione dell’arcipelago della sanità italiana si trasforma nella parabola anche politica di quello che il Paese potrebbe essere, e che infatti lo è in certi o in tanti posti e non lo veniamo a sapere nemmeno «Perché siamo il Paese dove ognuno vorrebbe stare da un’altra parte, dal presidente del Consiglio che farebbe carte false per governare un civile Paese nord europeo all’ultimo dei disperati che cerca rame per venderlo come negli anni Cinquanta». Un paese disomogeneo, in conflitto permanente dove in un ospedale, l’ultimo dei luoghi che ti viene in mente di andare a cercare, è possibile ritrovare «un mondo luminoso». Dice luminoso, proprio così. E Torre ha fama di uomo ironico, intellettuale, tecnico raffinato di satira e dei suoi trucchi, che ha scritto per Guzzanti e Dandini, autore e regista di “Boris” e di “Ogni maledetto Natale”, uno che ha senso dell’umorismo e dell’autoironia e non parla di luminosità tutti i giorni e tanto per dire. Da un minuto all’altro due anni fa gli dicono che ha un tumore da operare d’urgenza. Nel giro di pochissime ore si trasforma nel paziente italiano, uno come tutti, un paziente zero di cui nella serie e nel libro, a parte una moglie all’ottavo mese di gravidanza e una figlia di sette anni, non si saprà cosa faccia nella vita, in quale quartiere abiti, perché nel microcosmo del reparto dell’ospedale questo non conta nulla. Conta invece che «tutto è possibile a chi crede» come segnala la grande scritta nell’atrio dell’istituto che lascia costernati lui e Valerio Mastandrea (nella serie è il protagonista) che era passato a trovarlo. «Una frase dalla violenza inaudita. «Allora io sono spacciato», gli ho detto. Per fortuna l’input non era proprio esatto», racconta Torre, a proposito di temperatura. «Forse è una forzatura dirlo ma la malattia è stata una grandissima occasione di crescita», spiega seduto come un guru su una sedia da ufficio che fa muovere come una lancetta nel piccolo studio simile a quello di uno psicanalista; l’atmosfera è questa, e infatti le altre stanze sono occupate da medici e lettini che fanno il loro lavoro. «Se hai la fortuna di uscire quanto meno da quella porzione di crisi, naturalmente il futuro è sempre incerto, puoi trarne qualcosa di molto costruttivo. Per me è stato esaltante trasformare un’operazione dolorosa in un progetto culturale, scrivendo senza rete, affrontando un tabù molto forte, parlare di dolore afferrando la comicità delle situazioni, esorcizzando la paura che è sentimento comprensibile ma il più inutile in un ospedale dove devi affidarti e basta». Se non hai paura di niente, scrive, puoi sopravvivere a tutto. “Linea verticale” è un grande piccolo pezzo del racconto della condizione umana, il corridoio di un reparto di malati, la sveglia del pop italiano della caposala, vera macchina da guerra. Il su e giù dei sentimenti (è un dramedy, «ok ok, ho scritto un dramedy ma l’ho saputo dopo»), lacrime e vasi sanguigni, risate e valore dell’emoglobina, la vita e la morte per ridere o tremare. E poi le infermiere che danno subito del tu, le tipologie dei medici, quelli che ripetono la stessa incomprensibile frase, quelli dalla falcata calcolata al millimetro per scappare senza dare l’impressione di sfuggire come invece hanno intenzione di fare, i mantra che non vogliono dire nulla come “un passo alla volta”, per esempio, oppure “ci devi mettere la testa”, «che mi faceva impazzire, che volete dire, datemi una ricetta, una formula chimica, dove la devo mettere questa testa?». Tra l’operazione e la degenza passano tre settimane, ma già dopo i primi giorni in una sorta di sdoppiamento da trattato teatrale, uno scrittore che si ritrova nella sua storia che poi scriverà, è come si spalancasse uno scenario sconosciuto e affascinante. Come la scoperta di un reparto di eccellenza (al Regina Elena di Roma, «dove sono stato curato senza pagare un euro con le migliori cure e le migliori terapie»), in cui tutti sono carini e bravi, nessuno parla male di nessuno, segnato dalla figura di un chirurgo anti barone amato da tutti, innamorato del suo lavoro e a cui tutti riconoscono le qualità che ha. Uno spaccato quasi irreale. Dove la differenza rispetto all’inquietudine collettiva tra gerarchie, famiglie, condomini della società «sana» pervasa dal senso dell’estraneità, fa spalancare gli occhi. «La mancanza di coesione, la rabbia scaricata verticalmente, la ferocia ingiusta del conflitto latente che nella vita normale sembrano ormai acquisite, in quel reparto d’ospedale così armonioso mi sono apparsi davvero il tema capitale. Soprattutto osservando come il chirurgo che mi ha operato rappresenti tutto il contrario di chi in una posizione di potere debba rivelarsi per forza uno stronzo scollato dalla realtà pronto prima o poi a abusare di questa posizione di potere». Nella serie il suo chirurgo, il professor Zamagna gli appare oniricamente di notte. Nella vita reale il professor Michele Gallucci, questo è il vero nome, abbandona la noia delle cene per andare a controllare come stanno i suoi pazienti. «Non si aspettava che il mio lavoro sarebbe stato anche un monumento a lui. È un uomo buono e sentimentale e c’è qualcosa di più profondo e raro in lui che ho cercato di raccontare». L’immersione è in un mondo virtuoso dal quale si esce arricchiti e non impoveriti, gli amici gli fanno visita e prima di andare via lo avvertono che ne scriverà una grande storia, il professore Zamagna-Gallucci gli chiede «Come hai potuto vedere tutto questo nella condizione in cui eri?». Torre in realtà non ha in mente nulla, allo choc della malattia si è aggiunta la curiosità di un mondo parallelo di positività inaspettata. Quando lo scrittore Vittorio Sermonti va a trovarlo gli raccomanda: «Lasciati andare a un abbandono vigile». Al ritorno a casa, senza aver preso un appunto ma avendo solo osservato, incamerato, assorbito, gli torna in mente tutto come qualcosa che era dentro ma poteva uscire quando lui sarebbe stato fuori. E quando le porte dell’ascensore, altra linea simbolicamente verticale (le sale chirurgiche nel ventre della terra, gli inferi, il piano meno tre, i reparti a quelli superiori), lo riconsegnano alla sua vita. «Doveva essere uno spettacolo teatrale poi Lorenzo Mieli, il mio produttore, mi ha scongiurato di provare a fare almeno un episodio pilota di una serie. Ha avuto ragione lui», ricorda Torre. Tinni Andreatta, capa di Rai Fiction si è entusiasmata e i critici continuano a applaudire. «Quando è andata in onda m’hanno chiamato gli infermieri del reparto: la loro categoria è il motore della sanità italiana, fanno un lavoro fondamentale, sottopagato, faticosissimo. Erano davanti alla tv, tutti insieme intorno al mio ex letto ora occupato da un giudice costretto a vedere la mia storia di cui non gli fregava proprio nulla. Oggi mi ha telefonato Carla Taviani, la moglie di Vittorio: “Conosco le strutture pubbliche”, mi ha detto, “e leggendo il libro ho capito che l’ospedale è un luogo dove le persone si amano”. È proprio così e non avevo mai pensato che potesse capitare in un paese disomogeneo come il nostro. Eppure, gioco forza, si sviluppa una forma di fratellanza credo inevitabile, qualcosa tra tenerezza e solidarietà, una spiritualità poco religiosa». C’è Peppe, il compagno di stanza architetto, elegantissimo, di Gaeta, diventato un fratello nella vita reale con il quale registrare tic e ritualità della degenza. C’è il compagno di stanza chirurgo somalo «che nel momento del massimo dolore diceva “i drenaggi sono molto buoni, bene, bene mi piacciono”, e io mi domandavo “ma chi cavolo è questo?”». C’è quello che viene in visita trascinando flebo e sacchetti e nessuno sa se sta parlando a un amministratore delegato o a un criminale. «Era una rappresentazione alla Spike Lee. Uomini in pigiama e pantofole, la livella sociale più evidente, tutti disgraziati con cui chiacchierare di cose di cui nessuno sapeva nulla come l’emoglobina e ridere perché qualunque dolore si provasse era sempre colpa dei vasi sanguigni. Eravamo dei complici riuniti nei corridoi senza nessuna altezzosità. Hai poco da far valere la tua individualità. Stai lottando in un altro campionato, un campionato assoluto». Tutto cambia, dopo: soprattutto il rapporto con il desiderio, qualcosa di viscerale e potentissimo che trascuriamo sempre. Capire cosa si vuole sul serio è stata una delle tappe della malattia. Nel racconto ci sono tanti bellissimi flash: «Come stai Amed?», chiede al suo compagno di stanza. «Come un tramonto», risponde l’altro. Arriva la ripresa della vita normale, «ora sai che non sei indistruttibile, e quindi provi riflessologia, meditazione, pilates, dieta. Ecco, no. Ho retto tutto, terapie, tac, farmaci pesantissimi ma rinunciare a polpette e a pane burro e alici, no. Bisogna cercare di essere felici e a me la felicità la dà lo chardonnay ». Linea verticale è un racconto politicamente sano di una sanità politicamente pulita e di una leadership luminosa. «La luminosità che aveva il corridoio del reparto bagnato dalla luce morbida delle undici del mattino». Forse è la sindrome della montagna incantata ma, dice Mattia Torre, «questo tumore mi ha salvato la vita». 

Dagospia il 27 luglio 2019. ''ECCO COME SOGNO IL MIO FUNERALE'': Appena ho saputo di essere malato, ho subito pensato al mio funerale, ho immaginato come doveva essere: doveva essere molto doloroso. Perché i funerali più riusciti, quelli che rimangono impressi nella memoria, sono quelli molto dolorosi. In questo senso andava subito escluso il funerale cattolico, perché il funerale cattolico non è abbastanza doloroso. Per la maggior parte del tempo non si capisce bene cosa il prete dica, legge dalla Bibbia parabole di dubbia presa sul pubblico, cita a vanvera episodi della sua infanzia, e poi quelle musiche di organo sono distraenti, uno inizia a pensare ai fatti propri e questo è sbagliato, perché i pensieri, le emozioni dei presenti dovrebbero convergere in un unico, straziante dolore. Niente funerale cattolico quindi, e niente preti. Solo amici commossi che magari raccontino qualcosa sul defunto, qualcosa di intimo, di toccante, aneddoti, aneddoti mirati, sulla persona, sulle sue qualità che ora appaiono superlative, un santo praticamente, aneddoti talmente emozionanti che chi li ha scritti non riesce a leggerli, e scoppia a piangere perché il dolore è troppo forte; oppure anche divertenti, che uniscano cioè allo strazio quella nota comica che rende il dolore ancora più insopportabile – «amava la famiglia, gli amici, lo chardonnay» – e infatti tutti piangono a dirotto, questo è il mio funerale, nessuno che fuma fuori, no, tutti dentro, accalcati, c’è posto per tutti. Perché il funerale perfetto è importante che sia devastante anche fisicamente, devi uscire col mal di testa e la voglia di vomitare. Non devi quasi più avere voglia di vivere dopo un funerale veramente riuscito. Ti deve passare la voglia di stare con gli altri, la fiducia nel futuro, l’inclinazione al lavoro, l’appetito. Mentre dentro tutti continuano a piangere a boati, come se non ci fosse un domani.

Silvia Fumarola per La Repubblica il 27 luglio 2019. Sullo schermo è Valerio Mastandrea, protagonista di La linea verticale, alter ego di Mattia Torre, a raccontare come dovrà essere il funerale. "Appena ho saputo di essere malato ho subito pensato a come dovesse essere il mio funerale. Niente funerale cattolico, non si capisce mai quello che dice il prete. Solo amici che raccontano qualcosa del defunto. Questo è il mio funerale, voglio tutti dentro, accalcati". Sì, l’addio a Mattia Torre geniale sceneggiatore, autore, scrittore, al teatro Ambra Jovinelli di Roma, è come nella scena che aveva voluto girare. Tante tantissime lacrime, tanto amore, tanti ricordi, tanti amici. Il produttore Lorenzo Mieli racconta il suo rapporto con Torre ("Per me Mattia era uno che se lo leggevi, volevi anche produrre i suoi sms; volevi far parte della sua famiglia di amici, volevi essere il suo compagno di scuola"). In questo funerale laico scorrono le immagini, le foto, momenti di vita con Fru, Francesca, la moglie, i figli, gli amici, sempre circondato da amici. In tanti sono venuti a salutarlo, mescolati tra il pubblico, le famiglie, Francesco Pannofino, Serena Dandini, Francesco Piccolo, l’ex direttore generale della Rai Mario Orfeo, Maya Sansa. Sul palco i ricordi di Marco Damilano, direttore dell’Espresso, che con Torre fece il servizio civile e da quell’esperienza nacque Piovono mucche, il direttore de La7 Andrea Salerno, che ricorda l’esperienza di Buttafuori, poi Paolo Calabresi, commosso, che racconta l’amico attraverso gli sms. "L’ultimo, poco tempo fa. ‘Dobbiamo brindare’. Gli rispondo: ‘A cosa?’. Mi ha scritto: ‘Poi ci pensiamo’. Quando era ricoverato gli misero in stanza un signore che veniva dal pronto soccorso, mi scrive: ha una faccia pasoliniana, sarà un assassino. Il giorno dopo era pazzo di lui". Sorrentino ricorda gli incontri con Torre e Corrado Guzzanti, “la perfezione del pomeriggio in cui trovavamo qualcosa da far fare a Corrado: un nobile, una vecchia signora russa, un portiere di calcio calabrese ma con l’alluce valgo. Bello bello. Poi non se ne faceva niente. La sera a cena si giocava a Dizionario, si sceglieva una parola sconosciuta per poi trovarne il significato. Era l’insensatezza della sera". Nemici della retorica, tutti e due, "ma tre mesi fa Mattia mi ha scritto: ‘Ti voglio bene’ e ho risposto ‘Anch’io’". Giocare per non parlare della malattia, Serena Dandini dice che "Mattia aveva un talento gigantesco, quello di vivere. Mattia sapeva scrivere così bene perché sapeva vivere ancora meglio". Sul palco Vendruscolo, Filippo Ceccarelli, ognuno si porta un ricordo, Geppi Cucciari, protagonista dell’ultimo spettacolo teatrale di Torre, Perfetta, racconta come quattordici anni fa nacque la grande amicizia con Torre e Francesca, la fidanzata che sarebbe diventata la moglie, il punto di riferimento, una donna straordinaria come lui. "Mattia era un trapianto di vita senza paura di rigetto. Io ero lì con un amore appena finito, il loro era un amore appena nato". Torre accoglie, stempera tutto nell’ironia, anche quando parla del laser "che dove colpire il microscopico grumo in testa. Se sbagliano posso scrivere al massimo per Peppa Pig". Il professor Michele Gallucci, che ha seguito Mattia, scoppia in lacrime. A lui è ispirata la figura del primario Zamaglia,  idealizzato nella Linea verticale: "Mi ha fatto vedere come i pazienti vedono il medico" racconta "ho provato la gioia nel vederlo e il dolore nel non vederlo qui. Io ce l’ho messa tutta" dice tra gli applausi che non finiscono più. C’è l’agente di Mattia, Moira Mazzantini, che spiega come fosse profondo lo scambio tra loro, poi Valerio Aprea con una disperata passione racconta come Mattia rilanciasse, rilanciasse sempre. "Andiamo a Montecarlo? Siamo vicini. Eravamo a Capalbio. E lui: dai arriviamo a Livorno, a Genova e ci siamo. Il giorno eravamo a Montecarlo". Nessuno sapeva dirgli di no, perché quell’intelligenza speciale, l’ironia in cui mescolava tutto, dolore vita risate, anche quando era un’impresa impossibile ridere, lo rendevano unico. Poi tocca a Valerio Mastandrea parlare dell’alter ego, ed è straziante. Spiega bene cosa significhi sentirsi un sopravvissuto. "Scompare l’arancione al semaforo, ti lavi solo i denti di sopra: devi tornare a scuola".

Il voto infelice e contento. Le elezioni del 2018 viste da Mattia Torre. "La forza politica che negli anni hai votato ti ha sistematicamente deluso, ti ha sempre fatto soffrire, sia che perdesse (perché perdeva) sia che vincesse (perché al governo non ha poi fatto ciò che ti aspettavi facesse)". Così lo scrittore scomparso raccontava l'italiano in cabina elettorale. Mattia Torre il 19 luglio 2019 su L'Espresso. Siamo sotto elezioni, presto saremo chiamati a votare, a esercitare il nostro diritto/dovere di esprimere un voto; e al di là dell’orientamento politico, ci sono modi diversi di votare: c’è chi vota inseguendo un tornaconto personale, chi vota solo per odio nei confronti dell’avversario, chi esercita il cosiddetto voto utile, e c’è chi ancora – provando ormai quasi imbarazzo – vota in nome di ragioni ideali; ma in fondo tutti, tutti sono voti disperati. Sono voti che nascono dalla disperazione, e infatti generalmente l’italiano entra nella cabina elettorale di pessimo umore; è insofferente alla matita, è insofferente allo scrutatore annoiato che mastica la gomma, è insofferente persino a quelle cabine di legno che pure lontanamente potrebbero ricordargli le cabine del mare, dove da piccoli si lasciavano pinne, maschere e costumi bagnati. Ma quei tempi sono lontani: ora hai una matita in mano, ti trema la mano, devi votare: e sei solo infelice. Qualcuno potrebbe dire: non è vero, io voto felice. Ma sta mentendo. Sono come quelli che ti dicono che in aereo non hanno paura. Non è vero. Tutti in aereo hanno paura, o quantomeno tutti sono stressati. E cosi in cabina elettorale: quantomeno, sei stressato. Chi ti dice che vota felice, o mente, oppure, peggio ancora, crede davvero di essere felice, ed è la categoria più pericolosa: quelli disperati senza saperlo. Il voto è infelice perché la forza politica che negli anni hai votato ti ha sistematicamente deluso, ti ha sempre fatto soffrire, sia che perdesse (perché perdeva) sia che vincesse (perché al governo non ha poi fatto ciò che ti aspettavi facesse). E quando poi, secondo le regole della democrazia, al governo è andata una forza avversaria, quella a sua volta ha deluso chi l’aveva votata, e tu hai goduto di questo, che quelli fossero delusi, e quando dopo un certo periodo di tempo quel movimento politico, a furia di delusioni, ha di nuovo lasciato il governo alla tua forza politica, gli elettori della forza avversaria hanno pregustato la tua delusione, che poi puntualmente è arrivata, e hanno goduto tantissimo che tu fossi deluso, e la politica italiana da molto tempo è una lotta a chi è più deluso, e gli altri sono soddisfatti se tu sei più deluso di loro, e tu godi se loro sono delusissimi (e se il loro governo non ha i numeri per un provvedimento di buonsenso che al limite condividi pure, tu comunque esulti “E sì! E vai! To’!”). E anche nella tua regione e nella tua città, se perdi alle elezioni dici subito: “Tanto vi do nove mesi, tempo nove mesi qui sprofonda tutto! Voglio proprio vedere!” E ridi anche, ridi pazzo (“Ah ah ah”) e lo speri davvero che tutto sprofondi, lo speri intimamente, ma poi ti accorgi che stai parlando della tua regione, della tua città, ed è come se ti augurassi che sprofondi casa tua, ma sei talmente accecato dall’infelicità che non ti frega niente. E questo fenomeno, che si chiama tecnicamente deficit di rappresentanza (ossia che non c’è in campo una forza politica che non ti deluderà), alla lunga ha creato un sentimento, per così dire, di sfiducia, e questo è il punto. Il punto è che la sfiducia e l’infelicità vanno di pari passo, così come vanno di pari passo i loro contrari: la fiducia e la felicità. La fiducia e la felicità sono cose che vanno insieme, perché l’atto di dare fiducia a qualcuno per definizione non è un atto infelice, è un atto felice. Se ti fidi, sei felice. Se si fidano di te, sei felice. Ed è ciò di cui abbiamo più bisogno: di fiducia. Fiducia da ricevere e fiducia da dare. Allora, solo allora, torneremo ad essere e votare felici.

Marco Giusti per Dagospia il 19 giugno 2019. Mattia Torre, autore di culto grazie a serie tv popolarissime come Boris, a spettacoli teatrali e a film, come Ogni maledetto Natale, magari non sempre riusciti, come la serie Dov’è Mario? con Corrado Guzzanti, ma sicuramente originali e divertenti, se ne va a soli 47 anni dopo una malattia inesorabile e un calvario che lui stesso ha descritto proprio in una delle sue ultime serie, La linea verticale, interpretata dall’amico fraterno Valerio Mastandrea. Aveva, scrive un Corrado Guzzanti, “una curiosità, un coraggio e un senso dell’umorismo rari in questo mondo, rarissimi in Italia. Uno che se adesso gli dicessi “che la terra ti sia lieve” ti scoppierebbe a ridere in faccia, ci scriverebbe sopra un monologo”. Ogni situazione, anche la peggiore, era buona per scriverci su uno spettacolo, un monologo, una serie. E ogni situazione drammatica era riscrivibile in maniera ironica. Torre non è ben definibile rispetto all’egocentrismo del regista e dello sceneggiatore medio italiano. Perché quasi tutti i suoi lavori, film o serie tv, sono lavori di gruppo. Boris, sia la serie che il film, Piovono mucche o Ogni maledetto Natale, erano scritti assieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico. Difficile capire di chi fossero i meriti. Ma certo Boris è stata oltre che una fucina di nuovi talenti comici, pensiamo solo a Francesco Pannofino o a Pietro Sermonti, una grande fonte di divertimento intelligente per tutti, soprattutto per chi lavorava dentro al mondo delle serie tv e viveva le stesse frustrazioni e follie che vivono i protagonisti. Per Mastandrea e Marco Giallini aveva scritto anche una curiosa e non fortunata serie di Raitre, Buttafuori. Ma le sue cose più personali, a parte La linea verticale, che scrisse e diresse sempre per Raitre, sono i monologhi resi celebri da Valerio Mastandrea o il geniale Coatto unico, cavallo di battaglia di Giorgio Tirabassi. Lì dimostrò una capacità di scrittura e di costante ironia del tutto originali, qualcosa che proprio molto spesso manca alle nostre commedie. Soprattutto cinematografiche. “Se n’è andato il più bravo di tutti, che dispiacere grande non poterti ascoltare più”, scrive Maria Sole Tognazzi. Non ci resta che ricordarci uno dei monologhi di Mastandrea per La linea verticale, di fatto il suo testamento: "Devi vivere in asse, concentrato. Su una linea verticale in piedi. Orizzontale ci sei stato troppo tempo. Orizzontale devi uscire da morto. La vita va vissuta da uomo verticale."

·         È morto Luciano De Crescenzo.

È morto Luciano De Crescenzo. Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Corriere.it. «Sono stato fortunato». Una frase che riassume lo spirito ottimista, positivo e un po’ scanzonato con cui Luciano De Crescenzo ha vissuto, tanto da aver scelto quelle tre parole come titolo della autobiografia che si era regalato l’anno scorso, per i novant’anni. Personaggio popolare e molto amato, lo scrittore partenopeo nato nel 1928 avrebbe compiuto novantuno anni il prossimo 18 agosto. De Crescenzo ha avuto una vita ricca e intensa con almeno due grandi passioni: la prima l’ha portato a diventare ingegnere elettronico; la seconda, a fare lo scrittore. Era stato allievo del matematico Renato Caccioppoli laureandosi in ingegneria elettronica; ha lavorato in ufficio facendo carriera fino a diventare dirigente alla Ibm. Un lavoro sicuro che lascia a metà degli anni Settanta per dedicarsi alla scrittura. L’esordio è, nel 1977, con Così parlò Bellavista, pubblicato da Mondadori come tutta la sua opera a seguire. Sarà un romanzo destinato a diventare un bestseller e da cui sarà tratto anche un film omonimo, da lui diretto: nel libro fa la sua comparsa il personaggio del professor Bellavista, vice portinaio, che impartisce lezioni di vita (milanese) all’ingegner De Crescenzo. Fin da subito lo scrittore alla vocazione di romanziere affianca con successo quella di divulgatore con opere quali i due volumi de La storia della filosofia greca (1983 e 1986), prima e dopo Socrate, che raggiungono il grande pubblico. Ed è proprio l’affetto dei lettori a non essergli mai mancato in carriera facendo di lui uno degli autori più venduti in Italia e all’estero. De Crescenzo ha scritto una quarantina di opere; è stato tradotto in 21 lingue e ha venduto oltre 14 milioni di copie nel mondo. Tra i suoi titoli più noti: Oi dialogoi (1985), Fosse ’a Madonna! (2012), Garibaldi era comunista (2013) e Stammi felice (2015). Molto tempo prima dell’autobiografia Sono stato fortunato si era raccontato con divertito umorismo in Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo (1989), pure diventato un bestseller. De Crescenzo è stato anche attore (memorabile nei panni di se stesso nel film di Renzo Arbore FF.SS. - Cioè: «...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?», 1983), regista (di Così parlò Bellavista, 1984, Il mistero di Bellavista, 1985, e altri) e sceneggiatore ( tra cui Il pap’occhio, 1980). Tornando alla carriera di scrittore con il volume Non parlare, baciami (2016) aveva trovato una sintonia con i giovani, un canale per parlare ai ragazzi di amore e filosofia con le frasi del libro condivise sui social o diventate hashtag. Con l’ultimo lavoro, Napolitudine (2019) firmato con un altro partenopeo doc, Alessandro Siani, De Crescenzo, irresistibile istrione, inventa il modo, seduto al tavolino di un bar della Capitale, di catturare l’attenzione dei giovanissimi, una scolaresca di bambini in gita. In quelle pagine, per raccontare il profondo rapporto con la città natale De Crescenzo, che viveva Roma, scriveva: «A me Napoli manca sempre, persino quando sono lì!». Ora sarà lui a mancare, e non solo ai napoletani.

Morto Luciano De Crescenzo, l'ingegnere filosofo che raccontò Napoli. Scrittore, regista, attore e conduttore televisivo, aveva quasi 91 anni. Arbore: "Era maestro delle cose belle". Il sindaco de Magistris proclama lutto cittadino. Camera ardente domani in Campidoglio. Antonio Ferrara ed Alessandro Vaccaro il 18 luglio 2019 su La Repubblica. Addio al professor Bellavista. Si è spento poche ore fa Luciano De Crescenzo, artista poliedrico, napoletano doc, scrittore, regista e interprete di film cult come “Così parlo Bellavista” e “32 dicembre”. Fatale una polmonite. Era ricoverato da alcuni giorni a Roma ed è stato assistito fino all’ultimo dalla figlia Paola, dai nipoti e dall’agente Enzo D’Elia. De Crescenzo era nato il 20 agosto 1928 a Napoli, nel borgo di Santa Lucia, nello stesso palazzo di Bud Spencer, di cui fu grande amico. Viveva da tempo con la famiglia nella capitale, avrebbe compiuto 91 anni tra un mese. Il sindaco de Magistris proclama il lutto cittadino per il giorno dei funerali: disposto che sugli edifici pubblici le bandiere siano poste a mezz'asta. Laureatosi in ingegneria, De Crescenzo ha lavorato per vent’anni all’Ibm Italia, raggiungendo il livello di dirigente nella sede di Roma. La sua passione per i libri e la filosofia si è tradotta nel ’77 con la pubblicazione per Mondadori di “Così parlo Bellavista”. Nonostante il buon successo editoriale, De Crescenzo sceglie di non abbandonare il posto fisso. Solo una fortunata partecipazione a “Bontà loro”, il talk show di Maurizio Costanzo, lo convince a rinunciare allo stipendio sicuro. Da quel momento il suo percorso professionale è ricco di colpi di scena. Nel corso degli anni Luciano De Crescenzo è diventato un autore di successo internazionale. Ha pubblicato una cinquantina di libri, vendendo 18 milioni di copie nel mondo. Le sue opere sono state tradotte in 19 lingue e diffuse in 25 paesi. Inoltre, ha scritto, diretto e interpretato quattro film: “Così parlò Bellavista” nel 1984, “Il mistero di Bellavista”, il sequel girato l’anno seguente, poi “32 dicembre” nel 1988 e “Croce e delizia” nel 1995. Da attore è stato diretto, tra gli altri, da Renzo Arbore nel film “Il pap’occhio” nel 1980 e da Lina Wertmüller in “Sabato, domenica e lunedì” nel 1990. Il grande pubblico lo ricorda anche per i due film di Renzo Arbore, Il pap'occhio e "FF.SS." - Cioè: "...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?". "Con la scomparsa di Luciano De Crescenzo perdiamo tutti un grande amico - dice Arbore con la voce rotta dal pianto - Era un maestro per tutte le cose belle che c'ha fatto conoscere. È una gravissima perdita per la cultura italiana e per la città di Napoli di cui era un esponente fiero ed orgoglioso". "Purtroppo Luciano ci ha lasciati, ho tanti, tantissimi ricordi con lui - prosegue - Abbiamo avuto un'amicizia che non si è mai incrinata nemmeno per un attimo. Abbiamo fatto insieme film, zingarate, trasmissioni tv e passato tanto tempo insieme. Quando lui scriveva i suoi libri, spesso io li presentavo. E in tanti anni non abbiamo mai avuto nemmeno una discussione, come due persone che si vogliono molto bene. Luciano era persona buonissima, non l'ho mai sentito parlare male di qualcuno, nemmeno quando un critico bocciava una sua opera. Gli unici litigi li faceva con i computer, con cui lui aveva a che fare, da ingegnere informativo, quando ancora noi non sapevamo nemmeno cosa erano". "Tra le altre cose che ho imparato di lui, forse la più importante è l'umorismo napoletano raffinato, di cui era maestro. Da signore quale era. Con Marisa Laurito e altri amici stiamo pensando al modo migliore per salutarlo. Credo che lo ricorderemo domani in Campidoglio e dopodomani lo accompagneremo a Napoli, doveva voleva essere riportato assolutamente", conclude Arbore. Marisa Laurito non trattiene le lacrime: era accanto a lui, insieme a Renzo Arbore, quando De Crescenzo si è spento a Roma, in ospedale: "Non lo abbiamo mai lasciato solo in questi giorni, gli siamo stati sempre vicini, se ne è andato serenamente". Laurito chiarisce: "Luciano era la mia famiglia, è stato mio padre, mio figlio, un parente stretto, tutti i Natali li abbiamo passati insieme. Era un uomo straordinario che ha illuminato il mondo con i suoi libri fantastici, con la sua cultura e con la sua ironia unite a bontà, allegria e al grande amore per Napoli".

I messaggi di cordoglio:

"Esprimo il cordoglio profondo mio personale e della città di Napoli per la fine terrena del grande Luciano De Crescenzo, uomo di immensa  cultura che ha saputo interpretare al meglio l'anima del popolo napoletano. Persona di estrema intelligenza, enorme cultura e di una naturale simpatia tutta partenopea. Luciano mancherà molto a Napoli e alla sua gente, lo ricorderemo tutti con immenso affetto e gratitudine". E' il messaggio del sindaco di Napoli Luigi de Magistris.

"Luciano De Crescenzo è stato una delle figure più belle, più semplici, più rappresentative dell'umanità e della cultura meridionale. Il filosofo di Napoli, della nostra terra" scrive sui social il presidente della Campania, Vincenzo De Luca. "Ha saputo interpretare al meglio il senso della storia che è dentro la gente del Sud: questo senso non significa solo non avere l'ansia, l'affanno e l'ossessione della corsa alla ricchezza - aggiunge - ma anche un senso umano delle relazioni tra gli uomini che forse è andato perdendosi negli ultimi tempi. Gli siamo infinitamente grati".

"Una notizia che mi rattrista profondamente. Quanto ci hai fatto ridere, riflettere, pensare. Hai raccontato Napoli come pochi altri. Ciao Luciano" ha scritto su Facebook Roberto Fico, presidente della Camera.

"De Crescenzo è stato un uomo di grande cultura, di fine ironia, di naturale simpatia: un vero signore, un ambasciatore di Napoli nel mondo - dice l'ex sindaco Antonio Bassolino - Quando decidemmo di fare per la prima volta il Capodanno in piazza del Plebiscito gli chiesi di venire per stare tutti assieme e fare un brindisi alla città. Immediata fu, assieme a Marisa Laurito, la sua entusiastica adesione: grazie di tutto e un bacio, Luciano".

"Luciano De Crescenzo mi è caro non solo perché è stato un grande napoletano, ma anche perché ha sempre ricordato con orgoglio le sue origini professionali come ingegnere. La nostra professione implica la capacità di connettere dati e informazioni e mi piace pensare che questa dote, in parte, lo abbia anche reso il grande scrittore e il brillante divulgatore di filosofia che ha saputo essere. E De Crescenzo, oltre a connettere dati, ha saputo connettere i cuori dei tanti che oggi ne piangono la scomparsa, ma che al tempo stesso sorridono, ricordando le tante perle della sua filosofia di vita e dei suoi memorabili film". Queste le parole di di Edoardo Cosenza, presidente Ordine ingegneri di Napoli.

"Ricordo quando a Bontà loro, nel 1977, presentai il libro di Luciano De Crescenzo 'Così parlò Bellavista'. Allora era un ingegnere. Ecco, lo dico sinceramente: quella trasmissione lo fece dimettere da ingegnere e fece lo scrittore". Maurizio Costanzo "rivendica" così di aver lanciato De Crescenzo, che volle come opinionista per il suo talk di successo, nel pianeta della cultura. Fra il 1976 e il 1977 "Così parlò Bellavista" vendette oltre 600mila copie, diventando negli anni, grazie alla sua forza dirompente e la sua sagacia filosofica, un 'piccolo classico' della letteratura partenopea e insieme una straordinaria rappresentazione della natura umana. La camera ardente sarà allestita nella Sala della Protomoteca in Campidoglio domani, venerdì 19 luglio. E sarà aperta al pubblico è dalle 10 alle 20.

Da Cinquantamila.it, sito a cura di Giorgio Dell'Arti il 18 luglio 2019.

• Napoli 20 agosto 1928. Scrittore. Tra i suoi molti libri: Così parlò Bellavista (1977), Storia della filosofia greca (1983), Panta rei (1994). Da ultimo Gesù è nato a Napoli (tutti Mondadori 2013). «Se un autore è divertente, per ottenere un giudizio positivo deve almeno morire».

• Vita «Mia nonna aveva dieci figli. Qualcuno si era creato una famiglia, ma nubili e scapoli, ovvero zio Luigi, zio Alfonso, zia Maria e zia Olimpia, vivevano con noi. E poi c’era la balia, la mia buonissima Rosa».

• È cresciuto nel quartiere Santa Lucia di Napoli, con Carlo Pedersoli-Bud Spencer che lo difendeva dai pugni degli altri ragazzini: «Sono nato in una casa piena di gente. Quando ci riunivamo per il pranzo sembrava sempre che ci fosse una festa. A capotavola, a impartirci due volte al giorno la benedizione con l’acqua santa, si piazzava la nonna materna. Ci guardava per un attimo con l’occhialetto, per vedere se eravamo tutti attenti, e poi biascicava qualcosa in latino che non sono mai riuscito a capire. (...) Alla sua destra si accomodavano mio padre, mia madre e mia sorella Clara, e sulla sinistra i miei tre zii single: zio Luigi, zia Olimpia e zia Maria. All’altro capo della tavola stavamo seduti io e Rosa, la mia balia ciociara. (...) Chi invece non mangiava mai con noi, ma in cucina, era la cameriera numero due, continuamente sostituita perché sempre sospettata di aver rubacchiato." (Luciano De Crescenzo)

• «Negli anni Cinquanta lavoravo in una casa chiusa. All’epoca ero studente universitario e mi guadagnavo da vivere portando i conti alla Pensione Gianna, casa di tolleranza situata a Napoli, in via Sedile di Porto, nei pressi dell’università».

• Ingegnere per vent’anni all’Ibm, nel 1977 guadagnava 700 mila lire al mese (che era molto): «Ma m’annoiavo, così scrissi Così parlò Bellavista. Maurizio Costanzo a una festa s’appassionò alla storia e disse: “Perché non la racconta in tv?”. Fui il primo autore la cui copertina fu mostrata alla telecamera».

• Ha fatto anche l’attore in molti film (tra questi: Il pap’occhio (1980); Così parlò bellavista (1984), tratto dal suo romanzo, da lui diretto e sceneggiato insieme a Riccardo Pazzaglia; Sabato, domenica e lunedì (1990) di Lina Wertmüller con Sofia Loren) e ha presentato programmi televisivi di successo. Ha raccontato per la tv tutta la mitologia greca, imponendo le riprese su pellicola in modo da diminuire il rischio di deterioramento.

• Amori. «Il primo incontro con l’erotismo avviene all’età di 10 anni, quando Luciano frequentava la prima media all’Umberto 1 di via Carducci con il ritrovamento in palestra di un preservativo, tra le urla e le imprecazioni del professore Carosone, insegnante di ginnastica ed amante delle parolacce che per lui, memore dell’etica fascista erano indice di virilità. E poi dopo aver appreso la parte meccanica del sesso, il primo amore; anzi i primi, perché Luciano confessa candidamente di aver avuto quattro primi amori uno per età: bambino, adolescente, giovanotto ed infine adulto. E di essere ancora in attesa di quello da vecchio. Lilly, Gisella, Gilda e Irene le quattro fortunate mortali» (Achille Della Ragione) [Scena Illustrata giugno 2000].

• Nel 1961 si è sposato con Gilda ma «mia moglie non solo mi lasciò, ottenne anche l’annullamento dalla Sacra Rota». Una figlia Paola e un nipote Michelangelo.

• Critica. «Che l’uomo sia molto simpatico può immaginarlo soltanto chi lo abbia visto e sentito parlare in qualche talk show televisivo. Coloro che lo conoscono di persona, compresi quelli che più gli vogliono bene, sanno invece che per sopportarlo ci vuole molta pazienza. Giacché lui, ogni volta che incontra un amico, non riesce mai a parlare che di se stesso e dei propri libri, dei quali non manca mai di evocare, con raffiche di cifre favolose circa le copie vendute in Italia e all’estero, la strepitosa carriera nel mondo. Che come scrittore valga poco è invece un’idea scaturita dall’efficacia congiunta di due micidiali passioni: l’invidia, che intossica il vasto popolo di quegli autori di ogni genere e lignaggio che i dispettosi numi del mercato letterario si ostinano a torto o a ragione a escludere dall’eldorado delle tirature miliardarie; e lo snobismo, che istiga al disprezzo legioni di scrittori che, essendo al tempo stesso grossolani e schifiltosi, non possono sottrarsi al pregiudizio secondo il quale successo e qualità sono per definizione opposti» (Ruggero Guarini).

• Frasi. «Per me i tre esseri umani più importanti sono, nell’ordine: Fellini, Socrate e Gesù».

• «L’epicureismo non è, come generalmente si crede, perseguire il massimo del piacere, ma minimizzare il dolore. Detto ciò, sono pronto a definirmi epicureo».

• «Lo studio non è lavoro ma la forma più gloriosa di gioco».

• «Il mio funerale si terrà minimo alle ventidue... alle undici di mattina i miei amici dormono tutti».

• Religione. «Una sera ero a Porta a Porta. L’argomento era la fede. Margherita Hack disse: “Sono atea”. Un pochino lo sono pure io, però non lo dissi. Avere fede fa vivere meglio. Se uno magari mi ascolta e si lascia convincere che Dio non esiste, finisce che gli faccio del male e, quindi, compio peccato».

• Vizi. Non usa i soldi: «Non ho nemmeno la carta di credito. Entro nei negozi, compro e non pago. Dico: “Passerà Edoardo”. Edoardo è il mio assistente. Ma ci potete provare anche voi, basta usare il tono giusto. Bisogna comprare molto e uscendo, disinvolti: “Passerà Edoardo”».

• «Avaro io? Dipende dalla cifra: sotto le 100mila lo sono, sopra i dieci milioni no» (quando ancora c’era la lira).

• È afflitto da una patologia che gli impedisce di riconoscere i volti delle persone, la prosopoagnosia (nei casi più gravi si può addirittura non identificare il proprio volto riflesso nello specchio): «Se sono invitato in casa di amici e ci sono altri ospiti, cerco di arrivare prima degli altri per sapere i nomi di chi incontrerò. In questo modo, quando gli ospiti arrivano sono in grado di riconoscerli» (a Rita Pomponio).

• Quando aveva poco più di vent’anni, Isabella Rossellini ebbe una storia con lui, allora quasi cinquantenne. «Il suo editore, che era anche il mio, mi pregava: “Isabella, fallo soffrire”» (pensava che le pene d’amore ne facessero esplodere la creatività come nient’altro). «Da giovane e crudele quale ero allora, ho contribuito alla sua fuga verso la stratosfera degli interrogativi filosofici. Gli dissi: “Luciano, sei l’amante più vecchio che abbia mai avuto”. Mi rispose: “Anche tu”».

• «Per me la peggior cosa è un rivale di pari grado. Se la mia donna mi tradisce con Totti, soffro di meno che se va con Bevilacqua lo scrittore».

• Tifo. Napoli: «La mia prima partita fu contro l’Ambrosiana, perdemmo 1-0: piansi per quella sconfitta».

De Crescenzo, novant’anni all’ombra di Socrate e Bellavista. Pubblicato venerdì, 17 agosto 2018 da Corriere.it. Il suo pubblico lo ha già festeggiato, visto che ha fatto entrare in classifica il nuovo memoir da poco uscito in libreria. Luciano De Crescenzo, ingegnere, scrittore, regista, attore e «filosofo», compie novant’anni proprio oggi, lui che è nato a Napoli il 18 agosto 1928. E li racconta in un’autobiografia, Sono stato fortunato (Mondadori), che ripercorre i suoi diciotto lustri senza rimpianti o malinconia ma al contrario con una vena umoristica scanzonata che ricorda il suo personaggio più celebre, il professor Gennaro Bellavista. Luciano De Crescenzo, «Sono stato fortunato. Un’autobiografia» (Mondadori, pagine 276, euro 19)Una lunghissima esistenza, passata anche attraverso la guerra, la fame, ma anche il primo amore (scrive: «Ne ho avuti quattro: il primo amore da bambino, poi quello da adolescente, poi da giovanotto e infine da adulto»), l’esperienza di ingegnere all’Ibm, quasi fantascientifica negli anni Sessanta (tanto che sua madre si confondeva e diceva: «Mio figlio è ingegnere alla Upim»). E poi la lunga e fortunata carriera letteraria, anzi letterario-saggistica: accanto a bestseller come Così parlò Bellavista, uscito nel 1977 per Mondadori e padre di una felice serie, De Crescenzo ha raccontato in decine di saggi divulgativi (a cominciare dalla Storia della filosofia greca. I presocratici, del 1983) la filosofia d’ogni tempo e i miti greci. Lui, però, si sente tutt’e due le cose, autore e saggista. E, raggiunto dal «Corriere della Sera», spiega: «Uno scrittore, in quanto tale, può scrivere di tutto, anche di filosofia. Se poi come me ha la fortuna di essere letto da tanti, può capitare che il suo libro si trasformi in un’opera di carattere divulgativo. Anzi, di più, è possibile che riesca ad avvicinare chiunque a una materia come la filosofia, considerata di difficile comprensione. Ecco, credo che la mia soddisfazione come scrittore sia stata riuscire a spiegare con parole semplici concetti all’apparenza molto difficili». Molti gli episodi comici e paradossali, e molti i ricordi narrati nel libro. Ma qual è il ricordo cui è più legato? «Ce n’è uno — risponde lo scrittore — che forse più di tutti risveglia in me una grande emozione. Quando nel ’94 sono stato proclamato cittadino di Atene. Per l’occasione hanno organizzato una cerimonia sull’Acropoli. Oggi quasi non mi sembra vero. Era un’occasione importante, quindi decisi di indossare un elegante vestito blu. Ma all’ultimo momento decisi di non calzare né calzini né scarpe. Mi dissi: “E quando mi ricapita di calpestare le pietre toccate dal mio amato Socrate?”. Non dico l’imbarazzo quando mi ritrovai al cospetto del sindaco di Atene. Era lì, tutto preso dalla cerimonia solenne, con accanto un uomo scalzo che non riusciva a smettere di sorridere». L’amato Socrate e l’amata Grecia. Ma c’è una persona che ha lasciato il segno nella vita dello scrittore? Magari uno degli amici, come Renzo Arbore, o figure come Federico Fellini, cui De Crescenzo ha reso omaggio interpretando il film FF. SS. Cioè: «...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?», diretto da Arbore. «Di sicuro, Renato Caccioppoli — risponde De Crescenzo —, il docente di Analisi e Calcolo che considero da sempre il mio mentore. La sua aula in via Mezzocannone era così affollata che trovare un posto era quasi impossibile. Una notte lo trovai in strada, seduto sui gradini di una chiesa. Mi invitò a sedere al suo fianco. Chiacchierammo, poi a un certo punto mi disse: “Sai, quando hai paura di qualcosa, prendi le misure e ti accorgerai che si tratta sempre di una cosa molto piccola”. Insomma, non perdeva occasione per insegnarti qualcosa». E infine Napoli, e la «napoletanità», come l’ha chiamata nei suoi libri. Ma che cos’è la «napoletanità»? «Il legame che ho con Napoli — conclude — è indissolubile, non soltanto perché ci sono nato, ma perché voglio bene alla mia città e mi sembra che ricambi l’affetto. La napoletanità è la capacità di proporzionare i propri stati d’animo alla gravità delle cose. Come diceva il professor Caccioppoli, qualsiasi cosa accada, noi napoletani abbiamo la capacità di valutarla e lasciarci un margine di disperazione per gli eventi più dolorosi. Che poi, una cosa simile l’ha detta anche Socrate: se misurassimo le nostre esperienze con il metro della morte, tutto il resto sembrerebbe di sicuro più facile da superare».

"La mia vita dall'Ibm alla tv da Costanzo. Se conosco me stesso? Ho dei dubbi..." Prima di Socrate, amò la matematica, alle lezioni di Caccioppoli. Eleonora Barbieri, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale.

È vero che da ragazzino era vicino di casa di Bud Spencer?

«Carlo non era solo il mio vicino di casa, eravamo anche compagni di scuola.

Abitavamo nel quartiere Santa Lucia. Era grazie alla sua stazza che ogni mattina riuscivo ad attraversare il Pallonetto, una specie di via Pal pericolosa, rimanendo incolume».

Poi scelse di iscriversi a Ingegneria.

«Fu tutta colpa di una donna. Avrei voluto iscrivermi a Filosofia ma, mentre andavo all'università, incontrai una ragazza. Subito attaccai bottone e scoprii che anche lei stava andando lì, ma per una lezione di Matematica».

Così la seguì a Matematica?

«Sì. E mi innamorai, non di lei però, bensì del professor Caccioppoli e della passione con cui tenne la sua lezione. Così decisi di cambiare i miei piani».

Poi ha lavorato 20 anni all'Ibm, come rappresentante commerciale.

«Inizialmente fui nominato marketing manager; dopo poco vicedirettore. Poi quando ero lì lì per diventare direttore lasciai il lavoro per la scrittura».

Fu una scelta difficile?

«Ora che ci penso, non fu così difficile come sembra... La verità era che il lavoro mi annoiava un po'».

Come ha scoperto la passione per la scrittura?

«Scrivere mi era sempre piaciuto, ma il lavoro fagocitava buona parte del mio tempo, fino a quando decisi di scrivere Così parlò Bellavista».

Come nacque l'idea?

«All'inizio volevo raccogliere dei fattarielli in un libro. Alcuni li avevo vissuti, altri mi era capitato di leggerli sui giornali locali. Man mano che li mettevo insieme il libro prendeva forma».

Successo enorme. Come avvenne?

«Una sera mi ritrovai a cena a casa di Renzo Arbore e, tra gli ospiti, c'era un signore paffutello e con i baffi. Il signore in questione era Maurizio Costanzo. Durante la serata gli raccontai che avevo da poco pubblicato un libro e lui mi invitò a parlarne durante la sua trasmissione dell'epoca, Bontà loro».

Così fece.

«Durante la trasmissione Costanzo mostrò la copertina del libro. Fino a quel momento aveva venduto circa cinquemila copie. Un mese dopo erano centomila, poi duecentomila... A quel punto lasciai il lavoro di ingegnere per dedicarmi alla carriera di scrittore».

È felice?

«Più che felice mi sento fortunato. A differenza di tante altre persone ho avuto la possibilità di vivere due vite: la prima da ingegnere e la seconda da scrittore. Se non è fortuna questa».

Ma lei «conosce se stesso»?

«Sicuramente ho dei dubbi a riguardo».

De Crescenzo: "Ma Napoli è più forte dei suoi abitanti". "Questo è l’unico luogo che riesce a mantenere intatta la propria identità". Anna Laura De Rosa il 27 settembre 2018. Ingegner De Crescenzo, auguri per i suoi 90 anni. “Così parlò Bellavista” arriva a teatro a distanza di 34 anni dal film. Un bel regalo per il filosofo scugnizzo di Santa Lucia.

Cosa ha provato nel vedere lo spettacolo in scena con attori diversi?

«Mi sono sentito come un padre che vede suo figlio crescere e andare via da casa. È vero, la maggior parte del cast è cambiato, eppure, sarà stata la presenza di Benedetto e di Geppy che hanno già recitato nel film, e quella di Marisa che considero parte della mia famiglia, ma per un attimo mi è sembrato di essere di nuovo lì, tra le scale di Palazzo Ruffo, e rivivere le stesse emozioni provate durante le riprese del film».

Com’è cambiata Napoli da allora?

«Forse sono la persona meno adatta a rispondere a questa domanda, ho un rapporto viscerale con la città e non sempre riesco ad essere obiettivo. Detto questo, Napoli è più forte dei suoi abitanti, può cadere ma si rialza sempre».

Napoli è ancora “l’ultima speranza dell’umanità”?

«In questo mondo in cui il progresso sembra prendere il sopravvento su tutto, in cui le città sono sempre più simili le une alle altre, Napoli è l’unico luogo che riesce a mantenere intatta la propria identità. Una copia di Napoli non potrà mai esistere, per questo è l’ultima speranza che abbiamo».

I boss sono sempre più giovani. Si può battere la camorra?

«Io credo la camorra si possa battere. Si dovrebbe investire sull’istruzione e dimostrare alle nuove generazioni che intraprendere la strada della legalità è più conveniente rispetto a quella dell’illegalità».

Nel suo film Giorgio era costretto a partire per Milano nonostante la laurea in architettura. I cervelli in fuga sono aumentati da allora e i disoccupati sono numerosi. Cosa consiglia ai giovani che cercano lavoro?

«Di studiare, informarsi, investire sulla propria formazione, mettersi alla prova anche in ambiti che mai avrebbero immaginato, purché siano legali. A volte per imboccare la strada del proprio destino è sufficiente incamminarsi per percorsi inaspettati, come è accaduto a me. Chi lo avrebbe mai detto che sarei diventato scrittore?»

Cosa pensa dell’ondata di razzismo nel Paese?

«Non credo che l’Italia sia un Paese razzista. Detto questo, una certa intolleranza è sempre esistita. Fino a qualche anno fa era indirizzata ai meridionali che si trasferivano al Nord per cercare lavoro. Oggi invece, è indirizzata a chi è costretto a lasciare il proprio Paese a causa di guerre e crisi economiche. Passano gli anni, ma il problema resta sempre lo stesso: la mancanza di empatia. Se solo provassimo a metterci nei panni di queste persone, a capire cosa li spinge ad abbandonare la propria terra e i propri cari, forse, e sottolineo forse, anziché travolti dall’odio ci ritroveremmo carichi di compassione».

Qual è l’esperienza che l’ha segnata di più nella vita?

«Tutto ciò che ho vissuto. Di sicuro però, c’è stato un momento cruciale: quando ho deciso di lasciare il posto fisso all’Ibm per dedicarmi alla scrittura. Un azzardo, ma anche la scelta più saggia della mia esistenza».

Ci sono stati omaggi e celebrazioni per i suoi 90 anni.

«Rappresentano un traguardo importante nella vita di un individuo ma mai avrei immaginato di essere travolto da così tante manifestazioni d’affetto. Migliaia di messaggi sui social, per non parlare delle interviste. Insomma, quando il 18 agosto ho festeggiato il mio compleanno, non ero circondato soltanto dai miei familiari e dai miei amici più cari, ma anche dall’abbraccio dei tanti che mi hanno dedicato un pensiero».

Tra i giovani autori della letteratura contemporanea c’è qualcuno che l’ha colpita?

«Tutti, anche se non li conosco personalmente. Ciò che mi piace di più in realtà, è che ci siano nuovi scrittori che possano avvicinare i giovani alla lettura. Leggere è fondamentale, e il libro è il biglietto più economico per fare lunghi viaggi».

C’è una frase che l’ha guidata nella vita?

«Ama il prossimo tuo come te stesso».

Lei vive a Roma. Le manca questa città?

«Per me Napoli non è una città, ma uno stato d’animo, quindi è sempre con me».

Che regalo vorrebbe per i suoi 90 anni?

«Ebbene, a giugno Mondadori ha pubblicato la mia autobiografia, lunedì scorso ho ricevuto un riconoscimento al Maschio Angioino e il Premio San Gennaro. Ieri è andata in scena la prima della trasposizione teatrale di “Così parlò Bellavista”. Cosa potrei chiedere di più?»

Progetti per il futuro?

«Ho novant’anni, avere progetti per il presente mi sembra già una fortuna».

Addio a Luciano De Crescenzo. Luciano De Crescenzo, saggista, attore e conduttore televisivo, ha trasmesso e divulgato il suo amore per la mitologia e la filosofia greca. Francesco Curridori, Giovedì 18/07/2019, su Il Giornale. Saggista, attore e conduttore televisivo. Luciano De Crescenzo era tutto questo ma soprattutto un grande amante e divulgatore della mitologia e della filosofia greca. È morto a Roma, dov’era ricoverato da alcuni giorni, all'età di 91 anni. De Crescenzo nasce a Napoli nel 1928, nel quartiere San Ferdinando dove frequenta le elementari insieme a Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer. Le nozze dei suoi genitori arrivano piuttosto tardi dal momento che a “combinarle” è una famosa sensale dell'epoca, Amalia 'a Purpessa. Da giovane lavora nell’azienda di guanti del padre dove impara a intagliare le pelli e, durante la Seconda Guerra Mondiale, si trasferisce a Cassino con la famiglia. Si laurea col massimo dei voti in ingegneria elettronica all’'Università degli Studi di Napoli Federico II. “Avrei voluto iscrivermi a Filosofia ma, mentre andavo all'università, incontrai una ragazza. Subito attaccai bottone e scoprii che anche lei stava andando lì, ma per una lezione di Matematica”, rivelerà. Entra all’Ibm e, pochi anni dopo, viene nominato vicedirettore ma, proprio quando stava per essere promosso di nuovo, lascia il lavoro per dedicarsi alla scrittura. Nel 1976, infatti, dopo aver trascorso quasi 20 anni in quella azienda, capisce che la sua vocazione è quella di “scrittore divulgatore”. A determinare il suo improvviso successo è l’incontro con Maurizio Costanzo nel corso di una cena a casa di Renzo Arbore: “Durante la serata gli raccontai che avevo da poco pubblicato un libro e lui mi invitò a parlarne durante la sua trasmissione dell'epoca, Bontà loro”. In quell’occasione Costanzo mostra la copertina di Così parlò Bellavista che, fino a quel momento aveva venduto solo 5mila copie ma, a seguito di quella partecipazione televisiva, il suo libro, tra il ’76 e il ’77, vende più di 600.000 copie e viene tradotto persino in giapponese. È da quel momento che la carriera di De Crescenzo prende una svolta e lui arriva a vendere circa 18 milioni di copie nel mondo dei suoi libri (più di una ventina in totale) che vengono tradotti in 19 lingue e diffusi in 25 paesi. Tra i romanzi più importanti troviamo: Oi dialogoi (1985), Sembra ieri (1997), La distrazione (2000) e Il tempo e lafelicità, con cui nel 1998 vince il Premio Cimitile. Ma sono i saggi di filosofia a dargli la fama di divulgatore culturale: Storia della filosofia greca - I Presocratici (1983), Storia della filosofia greca - Da Socrate in poi (1986), Storia della filosofia medievale (2002), Storia della filosofia moderna - da Niccolò Cusano a Galileo Galilei (2003), Storia della filosofia moderna - da Cartesio a Kant (2004), Il pressappoco (2007), Il caffè sospeso (2008), Socrate e compagnia bella (2009). E, poi, vi sono i libri storici dal titolo irriverente: Ulisse era un fico(2010), Tutti santi me compreso (2011), Fosse 'a Madonna (2012), Garibaldi era comunistae Gesù è nato a Napoli (2013). De Crescenzo, nel corso degli anni ‘80 e ’90, ha condotto sulla Rai Zeus - Le Gesta degli Dei e degli Eroi, una trasmissione sui miti e sulle leggende degli antichi greci, ritrasmessa anche da Mediaset.

Il De Crescenzo attore. De Crescenzo esordisce al cinema come attore nel film Il pap'occhio (1980), diretto dall’amico Renzo Arbore con protagonista Roberto Benigni. Nel 1982 recita in Quasi quasi mi sposo, mentre due anni dopo è il regista di Così parlò Bellavista, il film tratto dal suo best seller che ottiene un grande successo al botteghino e gli vale la vittoria del David di Donatello come miglior regista esordiente. Nel 1985 gira il seguito Il mistero di Bellavista e tre anni dopo il film a episodi 32 dicembre, tratto dal libro Oi dialogoi. Protagonista di queste pellicole, oltre alla filosofia, è la sua Napoli, di cui tesserà più volte la lodi e, con una punta di amarezza, dirà:“è come una donna capricciosa di cui sono perdutamente innamorato: per quanto mi faccia arrabbiare, non riesco a non perdonarla”. Nel 1990 recita accanto a Sophia Loren in Sabato, domenica e lunedì, diretto da Lina Wertmüller mentre nel 1995 è lui a tornare dietro la macchina da presa per dirigere e interpretare il film Croce e delizia, sempre prendendo spunto da un suo omonimo libro. Fa le sue ultime apparizioni come attore nel film per la tv Francesca e Nunziata, diretto dalla Wertmüller (2001) e in Stasera lo faccio, dove recita accanto a Raoul Bova.

Gli ultimi anni di vita. Nel 1995 Forza Italia gli propone di candidarsi ma lui rifiuta e, a chi gli chiede di schierarsi politicamente, risponde con ironia:“A quanti vogliono sapere se io sono di centro destra o di centro sinistra, io rispondo che sono del centro storico” anche se negli ultimi anni della sua vita ha invitato a votare per Emma Bonino. Nel 2000 De Crescenzo rivela di soffrire di prosopagnosia, una patologia che gli impedisce di riconoscere i volti delle persone in quanto il suo cervello non è più in grado di percepire tutti insieme i lineamenti dei volti. ''Ormai riconosco gran parte delle persone da me frequentate da sempre grazie soprattutto alla loro voce o ad alcuni segni particolari. La regista Lina Wertmuller, ad esempio, la riconosco perché ha sempre gli occhialini bianchi. Anche il giornalista Giuliano Ferrara lo riconosco subito dalle dimensioni. Ma quando non sono esagerati nelle misure sono incapace di identificare i volti dei miei interlocutori e commetto errori imperdonabili', spiegherà De Crecenzo.

Marisa Laurito in lacrime per Luciano De Crescenzo: "Era la mia famiglia". L’attrice è accorsa al capezzale dello scrittore-filosofo napoletano appena scomparso: era accanto a lui, insieme a Renzo Arbore, quando De Crescenzo si è spento. Alessandro Zoppo, Giovedì 18/07/2019, su Il Giornale. “Non lo abbiamo mai lasciato solo in questi giorni, gli siamo stati sempre vicini, se ne è andato serenamente”: così Marisa Laurito racconta all’Agi la scomparsa di Luciano De Crescenzo, lo scrittore-filosofo napoletano morto a 90 anni a Roma, dov’era ricoverato da alcuni giorni. Accanto all’attrice non poteva che esserci Renzo Arbore, amico e compagno di mille avventure filmiche e televisive. “Luciano – chiarisce la Laurito – era la mia famiglia, è stato mio padre, mio figlio, un parente stretto, tutti i Natali li abbiamo passati insieme. Era un uomo straordinario che ha illuminato il mondo con i suoi libri fantastici, con la sua cultura e con la sua ironia unite a bontà, allegria e al grande amore per Napoli”.

Napoli e il Napoli ricordano Luciano De Crescenzo. Proprio da Napoli è arrivato il cordoglio profondo del sindaco Luigi de Magistris, che ha proclamato il lutto cittadino nel giorno dei funerali di De Crescenzo e ha disposto che sugli edifici pubblici le bandiere siano poste a mezz’asta. De Crescenzo è stato, nelle parole del primo cittadino, “un uomo di immensa cultura che ha saputo interpretare al meglio l’anima del popolo napoletano. Persona di estrema intelligenza, enorme cultura e di una naturale simpatia tutta partenopea. Luciano mancherà molto a Napoli e alla sua gente, lo ricorderemo tutti con immenso affetto e gratitudine”. Insieme al cordoglio via social, è arrivato anche il tweet del Napoli in memoria dell’“ingegnere filosofo” di Così parlò Bellavista. “Ciao Luciano”, è il messaggio del club azzurro, che pubblica anche una foto dello scrittore e regista accompagnata da una sua celebre frase: “Essendo napoletano mi rendo conto che quasi tutti i napoletani sono uomini d’amore, quindi se dovessi nascere un'altra volte io preferirei sempre Napoli”. Un dolce messaggio d’addio è arrivato infine da Lina Wertmüller, che aveva diretto De Crescenzo due volte: nel 1990 accanto a Sophia Loren e Luca De Filippo in Sabato, domenica e lunedì (non risparmiandogli un celebre morso ad un dito) e nel 2001 con la Loren e Giancarlo Giannini nel film per la tv Francesca e Nunziata. “Sono molto dispiaciuta – ha detto la regista all’Adnkronos –, se ne è andato un grande amico, un uomo geniale, una persona molto intelligente. Sentiremo molto la sua mancanza”.

Luciano De Crescenzo, il cordoglio vip sui social. Da Renzo Arbore a Vincenzo Salemme, passando per politici come Mara Carfagna e Vincenzo De Luca, l’ultimo saluto allo scrittore e regista napoletano. Alessandro Zoppo, Giovedì 18/07/2019, su Il Giornale. Era morto da pochi minuti Luciano De Crescenzo quando i messaggi di cordoglio hanno iniziato a inondare i social. “Siamo angeli con una sola ala: possiamo volare soltanto abbracciati. Addio Maestro”, scrive Salvatore Esposito (il Genny Savastano di Gomorra) su Twitter accompagnando il suo post con una foto in bianco e nero dello scrittore e regista napoletano. “Senza di te, un pezzo di Napoli va via”, sono le parole di Vincenzo Salemme per l’“ingegnere filosofo” di Così parlò Bellavista. “La filosofia è per tutti. Non devono esistere ‘élite’ intellettuali. La cultura è patrimonio di ciascuno di noi. Luciano De Crescenzo lo ha saputo spiegare in modo sublime”, si legge nel post di Riccardo Cucchi, storica voce di Tutto il calcio minuto per minuto. A esprimere la propria tristezza per la morte di De Crescenzo anche molti politici.

Cinema, tv e politica ricordano Luciano De Crescenzo. “Appena tornata dall’ultimo saluto ad Andrea Camilleri apprendo che se n’è andato un altro importante scrittore. Giorni tristi per la cultura”, scrive su Twitter Laura Boldrini. “Nessuno è stato in grado di fondere filosofia e vita quotidiana come ha fatto Luciano De Crescenzo. Il suo brillante spirito, squisitamente partenopeo, ha appassionato milioni di lettori in Italia e nel mondo. Il cielo di Napoli da oggi ha una stella in più. Ciao Luciano”, si legge nel tweet della Vicepresidente della Camera Mara Carfagna. “Luciano De Crescenzo è stato una delle figure più belle, più semplici, più rappresentative dell’umanità e della cultura meridionale. Il filosofo di Napoli, della nostra terra. Ha saputo interpretare al meglio il senso della storia che è dentro la gente del Sud. Infinitamente grati”, è il post del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Più polemico Daniele Capezzone. “Dispiaciutissimo per morte di Luciano De Crescenzo. Più aveva successo e più i sommi sacerdoti della cultura ufficiale lo schifavano, derubricandolo a divulgatore. La verità è che si faceva capire, sapeva raccontare ed era spiritoso: tre cose che generano panico e invidia”, scrive il giornalista ex parlamentare. Non poteva mancare il commento di Renzo Arbore, con cui De Crescenzo aveva collaborato per due film e tanti varietà televisivi. “Con la scomparsa di Luciano De Crescenzo perdiamo tutti un grande amico. Era un maestro per tutte le cose belle che c’ha fatto conoscere. È una gravissima perdita per la cultura italiana e per la città di Napoli di cui era un esponente fiero ed orgoglioso”, ha detto Arbore.

Renzo Arbore: «De Crescenzo, amico di tutta la vita. Da lui ho appreso l’umorismo elegante». Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Renato Franco su Corriere.it. «Sono con Marisa Laurito, siamo abbattuti, ma confortati dal fatto che Luciano se ne sia andato avendo intorno i suoi amici. Sono stati 14 giorni di sofferenza...». Il vostro primo incontro era un classico che lui amava raccontare: vi ritrovaste a una cena e, chiacchierando, scopriste di avere la stessa fidanzata...«È vero, era la sua storia preferita... Il primo ricordo che ho di lui è quando — ingegnere della Ibm — lo vedevo al computer senza che io sapessi bene cosa fosse un computer. Faceva non so quali giochi, perdeva e si accigliava. Furono le uniche occasioni in cui lo vidi accigliato...». 

De Crescenzo fu eletto a capo di un cenacolo di napoletani, anche acquisiti come lei che è foggiano...

«La sua casa era un punto di riferimento: lì abbiamo inventato film e trasmissioni televisive, abbiamo fatto cene e condiviso risate. E poi c’erano i suoi racconti: il suo essere affabulatore mi spinse a segnalarlo a Maurizio Costanzo per il suo show».

Qual era la sua qualità umana più spiccata?

«La bontà e la grande generosità con il prossimo. Era una mosca bianca nel mondo della letteratura e dello spettacolo. Pure essendo invidiato da un certo tipo di intellettuali, non gli ho mai sentito parlare male di nessuno, mai uno sfogo, un moto di stizza. Pensare che anche noi non abbiamo mai litigato. Mai una volta. E nemmeno una discussione, anche perché non avevamo mai punti di vista diversi».

Per la cultura cosa ha rappresentato De Crescenzo?

«Ha avuto un doppio ruolo: è stato un grande divulgatore della cultura napoletana e ha saputo trasmettere la passione per la filosofia raccontando i miti dell’antica Grecia in “parole povere”. Qualità non da poco. Per me ha rappresentato il rapporto con la grande Napoli della quale ero innamorato, quella di Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Eduardo De Filippo. Quella di Luciano De Crescenzo».

Cosa vi univa?

«Tutto, in primis la passione per la musica e per il cinema. Tra l’altro non è da sottovalutare la sua opera come regista, a partire da Così parlò Bellavista, caposaldo di una Napoli classica e che qualcuno definiva oleografica: ma non è un reato parlare delle bellezze di Napoli»

Cosa le ha insegnato?

«L’umorismo napoletano elegante, l’ironia non banale, che ha saputo dimostrare perfino in libri fotografici. Un intellettuale e un umorista, termine che per molti, chissà perché, rappresenta una diminutio...».

Silvia D’Onghia per il “Fatto quotidiano” il 19 giugno 2019. "Luciano era un uomo del Sud, un punto di riferimento; faceva parte di quella ristretta cerchia di artisti dentro, perbene, modesti, non traffichini. E ha pure pagato lo scotto di non essere ruffiano". Appena resa nota la notizia della morte di Luciano De Crescenzo, prima di recarsi - con Marisa Laurito - al Policlinico Gemelli, dove da tempo era ricoverato lo scrittore, Renzo Arbore risponde a più telefoni contemporaneamente: tutti lo cercano, tutti gli chiedono com'era, quella profonda amicizia. "Fino a qualche giorno fa, quando lo andavo a trovare, gli facevo ascoltare le canzoni napoletane dal mio iPad".

Arbore, ricorda quando e come vi siete conosciuti?

«L'ho conosciuto a casa sua, mentre litigava con il computer. Era un ingegnere dell' Ibm molto stimato e, mentre noi non sapevamo neanche cosa fosse, lui già dialogava con le macchine. Spesso capitava di vederlo accigliato o proprio incavolato, ma alla fine vinceva: aveva la meglio sul computer. Non solo era bravo, ma era un grande sperimentatore. Ed eccelleva in tutto».

Parla della letteratura, del cinema, del teatro?

«Anche. Ricordiamoci che Luciano ha venduto 18 milioni di libri in venti Paesi del mondo. Nel suo ufficio ci sono le sue copertine attaccate persino sul soffitto. Ma mi riferisco a tutte le sue passioni. Se si dedicava alla motonautica, vinceva ogni anno la Napoli-Capri. E poi aveva una precisione incredibile: sa che era stato il cronometrista della vittoria di Livio Berruti? Ha ottenuto grandi risultati in ogni attività, e si è tirato indietro molte invidie».

Ma con lei ha mai litigato?

«Mai. Era impossibile discutere. Aveva in sé la quiete, la bontà, l' affettuosità del napoletano tipico. E pensi che abbiamo condiviso una ragazza Sta scherzando? No, no. Solo che non lo sapevamo. Lei diceva a me di dover andare a trovare l' amico Luciano a Napoli, e a lui di dover venire a Sorrento dall' amico Renzo. Abbiamo capito dopo che non era amicizia, diciamo che voleva bene a tutti e due».

Quindi ne avete riso?

«Come sempre, come quando abbiamo lavorato insieme in due miei film (" FF . SS ." e "Il Pap' occhio", ndr), divertendoci come goliardi. Luciano, che faceva parte dell' Ugi, era un principe della goliardia napoletana, che a quei tempi produceva grandi intellettuali».

De Crescenzo faceva parte e ha saputo raccontare una Napoli che, secondo lei, esiste ancora?

«Sono fiero che ci sia ancora quella parte di Napoli e della napoletanità. La cronaca si occupa sempre della "malattia" della città, ma ci sono tante persone "sane". È la Napoli del sorriso, dell' accoglienza, della simpatia. Con Luciano abbiamo sofferto molto e a lungo, quando ci accorgevamo di tornare a Roma con le pive nel sacco. Ma poi, per fortuna, la situazione è migliorata. E lui ha celebrato fino all' ultimo le sue origini. Faceva parte di una generazione importantissima di intellettuali, come Raffaele La Capria o come la napoletana "acquisita" Lina Wertmüller».

Un uomo d'altri tempi, insomma.

«Una perdita incolmabile per la cultura. Adesso tutti lo ricorderanno, eppure in vita era guardato da molti con sospetto».

Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 19 giugno 2019.  “Ho sempre detestato quando gli attori gesticolano troppo, soprattutto se si trattava di miei attori. Eravamo sul set di “Sabato, domenica e lunedì” e c’erano anche Sophia Loren, Luca De Filippo e Pupella Maggio. Lui non smetteva mai di muovere quel dito e la cosa mi diede molto fastidio. Gli dissi di fermarsi, di smetterla, ma lui nulla. Alzai anche la voce. Alla terza volta però, glielo morsi. Gli cucii poi la mano nella tasca, per far sì che non lo tirasse fuori mai più!”. Raggiunta a telefono a Ischia dall’HuffPost, con quella sua solita ironia che non la abbandona mai, la regista Lina Wertmüller ricorda Luciano De Crescenzo, scomparso oggi all’età di 90 anni dopo una lunga malattia. “Siamo stati molto amici, era una persona meravigliosa”, ricorda la prima donna candidata all’Oscar come Migliore regista per il film “Pasqualino Settebellezze” nel 1977, proprio lei che tra pochi mesi ne riceverà, finalmente, uno alla carriera. “Mi stava molto simpatico, era napoletano e per questo aveva una marcia in più”, aggiunge. “Ho avuto sempre stima nei suoi confronti come uomo e come filosofo/ingegnere, come lo hanno definito i più. Ho sempre ammirato la sua grande cultura. Come si sa – continua - nel corso degli anni è diventato un autore di successo internazionale, ha pubblicato una cinquantina di libri, vendendo milioni di copie nel mondo e le sue opere sono state tradotte in tante lingue e diffuse in tanti Paesi. È stato anche un mio collega dirigendo, oltre ad interpretare film come “Così parlò Bellavista” e il sequel “Il mistero di Bellavista”, “32 dicembre” e “Croce e delizia”. Dirigerlo era un piacere”. “Il suo grande pregio? Tra i tanti, l’aver parlato di filosofia rendendola sempre divertente e mai pesante. Con lui se ne va un artista che ha saputo far arrivare la cultura a tutti, un po’ come il mio amato Camilleri di cui avevo sempre un libro in borsa. Con lui se ne va l’artista del popolo. Mi mancherà molto”.

Da Il Mattino il 19 giugno 2019. «Non se ne è andato solo Luciano, ma anche una parte della nostra vita. Tante feste, tante cene, tante telefonate...tante cose insieme condivise. Non era un personaggio. Io ne ho visti tanti: una volta raggiunto il successo diventano personaggi. Lui invece è sempre rimasto una persona, non è mai cambiato, è rimasto sempre lo stesso, senza mettersi maschere. Aveva risentimento nei confronti di una cultura italiana che lo snobbava. Come sempre succede, se sei ironico, sei un umorista, appartieni alla serie B. In Italia è stato sempre così». Così il giornalista e ideatore del sito Dagospia Roberto D'Agostino arrivando nella sala della Protomoteca in Campidoglio dove è stata allestita la camera ardente dello scrittore napoletano Luciano De Crescenzo, morto ieri a Roma all'età di 90 anni. «Questa cosa - ha proseguito D'Agostino - lo addolorava. Non riceveva neanche una recensione da parte della scena culturale italiana. Aveva una storia fantastica, era passato dai computer dell'Ibm a Socrate e Platone. Aveva la capacità di raccontare quello che accade a tutti noi nella chiave della filosofia greca. Un grandissimo divulgatore, pochi sono riusciti ad attirare così un pubblico che non ne sapeva nulla». Poi D'Agostino, noto anche per le sue provocazioni, ha fatto un paragone con l'altro grande scrittore scomparso questi giorni: «Va bene Camilleri - ha detto - grandissimo romanziere, tante pagine... Però vedere che a Luciano una paginetta e via...lui è stato qualcosa di molto più importante. Ha portato un libro in casa di persone che non ne avevano neanche uno. Solo per questo andrebbe messo sugli altari». Chi potrebbe raccogliere il suo testimone? «Secondo me un grande attore sottovalutato, di “filosofia napoletana”, è Vincenzo Salemme, che non viene preso in considerazione. Ma chi sta nel campo della battuta e del gioco perde sempre nei confronti degli intellettuali che non sanno far ridere nessuno, se non involontariamente». 

Giulio Giorello per il “Corriere della sera” il 19 giugno 2019. L'amore «è uno strano augello», come recita la Carmen , famosa opera del compositore francese Georges Bizet. È un volatile bizzarro che si posa dove vuole. «C'è chi si innamora di Sophia Loren, chi di Marx, e chi per tutta la vita porta fiori sulla tomba di Rodolfo Valentino». Così ebbe a scrivere una volta lo scrittore e saggista napoletano Luciano De Crescenzo, che ci ha appena lasciati. Lo diceva per aggiungere subito che «l'amore della mia vita è stato Socrate». Sì, proprio quell'ateniese anticonformista «vissuto 2.400 anni fa», che rappresenta «un modo di intendere la vita in lui non esistono le tensioni dell'uomo comune, tutto proteso alla ricerca del Potere, del Denaro e del Successo. In Socrate predomina la voglia di sapere», cioè il desiderio «di mettere sempre in discussione ciò che già conosce, di capire da che parte si nasconda il Bene». In breve, «era buono d'animo, tenace, intelligente, ironico, tollerante, nel medesimo tempo, inflessibile». Certo, proseguiva De Crescenzo, il filosofo condannato a morte dai suoi concittadini ateniesi non è stato l'unico di quella levatura: basti pensare «a Gesù, a Gandhi, a Buddha, a Lao Tse e a San Francesco». Ma mentre per tutti questi «grandi» c'è sempre «il sospetto che un pizzico di esaltazione abbia contribuito a tanta eccezionalità», nel caso di Socrate si trattava di «una persona estremamente semplice, un uomo che non lanciava programmi di redenzione e che non pretendeva di trascinarsi dietro torme di seguaci». Socrate e compagnia bella si intitolava appunto quel libro da cui ho tratto le citazioni precedenti (pubblicato nel 2009 da Mondadori, che è stato l'editore di tutti i libri di Luciano). E le sue frequenti incursioni nelle vite dei filosofi - spesso nella forma di intelligenti provocazioni - lo hanno portato di volta in volta a ritrovare in Platone, allievo di Socrate, «il vero volto dell'amore»; in Epicuro «l'amicizia e la felicità»; in Eraclito «l'idea che tutto scorre». E in un santo padre della Chiesa cattolica come Agostino d'Ippona «il senso del peccato», in Erasmo da Rotterdam «un nuovo modo di guardare alla follia», in Friedrich Nietzsche «il superamento della morale comune». Ma Luciano De Crescenzo guardava anche all'indagine sperimentale sui fenomeni naturali. Infatti amava aggiungere che «sono stati due scienziati, Galileo ed Einstein, a darmi una lezione sulla forza della curiosità intellettuale e su come ogni cosa dipenda dai punti di vista». La sua - soleva dire Luciano - è stata una vita in cui la fortuna si è rivelata generosa. Confessava che talvolta avrebbe desiderato possedere «un televisore magico» con cui poterla rivedere tutta, «anno dopo anno, giorno dopo giorno». E concludeva sul filo dei ricordi: «Chissà che effetto mi farebbe vedermi agire secondo impulsi, idee ed emozioni che non appartengono più al mio modo di pensare? Sono davvero io quel biondino che si strugge d' amore mentre aspetta la fidanzata all' uscita dalla scuola? Mi batterebbe ancora il cuore durante l' esame di maturità? Ripeterei certe goliardate, come farsi rinchiudere nella gabbia delle scimmie, sotto la scritta Vulgaris Mandrillus Parthenopeus?». Anche queste alla fin fine sono autentiche domande filosofiche, nel senso in cui le intendeva Socrate. E riguardano il tempo, che «tutto dà e tutto toglie», come diceva un altro grande pensatore, Giordano Bruno da Nola, una città non distante dalla Napoli di De Crescenzo. E infine, perché non usare il televisore magico per «sbirciare nel futuro», e così conoscere in anticipo «tutte le difficoltà e le gioie che mi aspettano?». A questo punto però Luciano De Crescenzo si imbatteva nella difficoltà maggiore insita nel suo desiderio: l' eventualità di spingersi «troppo avanti» nel percorrere il cammino inesorabile del tempo, finendo per raggiungere «quella data tremenda, dopo la quale lo schermo non avrebbe più dato immagini in movimento», in cui sarebbe terminato quel film in cui consiste il piacere e insieme il dolore dell' esistenza di ciascuno.

L’ultimo saluto a De Crescenzo: «Aveva il mare di Napoli negli occhi e il Vesuvio nel cuore». Il Dubbio il 20 luglio 2019. Il retroscena svelato da Geppy Gleijeses: «Fu minacciato dalla camorra, ma non lo raccontò mai». «Il Signore sicuramente starà sorridendo per qualcosa che Luciano gli ha detto». E’ con queste parole che il sacerdote, Giovanni Paolo Bianco, ha aperto la cerimonia funebre per Luciano De Crescenzo, popolare scrittore e intellettuale napoletano morto a 90 anni a Roma. Il feretro dell’ingegnere filosofo è arrivato nella chiesa di Santa Chiare alle 10.50 di oggi, tra gli applausi delle migliaia di persone in attesa all’esterno della chiesa, piena sin dalle prime ore del mattino. «Le parole da dire sarebbero tante – ha affermato il parroco durante la sua omelia – Luciano era il figlio di questa terra conosciuto in tutto il mondo. Ha sempre sottolineato con passione il suo essere napoletano. Ci fa capire la bellezza delle radici. Era un uomo che pensava e lasciava pensare. Filosofo è riuscito a spiegare la filosofia con parole semplici. Un uomo d’amore, perché il napoletano è un popolo d’amore. Lui aveva il mare di Napoli negli occhi e il Vesuvio nel cuore». Tanti gli amici giunti a rendere omaggio, così come cittadini comuni, che hanno accolto il feretro con applausi scroscianti e uno striscione con le parole: “Grazie Professore”. «L’amore sconfinato che hanno i napoletani veri – ha sottolineato, commosso, Renzo Arbore – L’applauso che gli ha tributato la gente, questo è quello che ha seminato». Il momento delle esequie è stato anche utile a svelare un retroscena mai raccontato da De Crescenzo e reso noto, oggi, dal regista Geppy Gleijeses. «Dopo quella scena di “Così parlò Bellavista, con il camorrista interpretato da Nunzio Gallo – ha sottolineato – Luciano fu minacciato dalla camorra. Non lo ha mai raccontato». Nel corso dei funerali, inoltre, l’assessore del Comune di Napoli, Nino Daniele, ha annunciato l’intitolazione di una strada al filosofo. «Sarà vicolo Belledonne – ha spiegato – perché Luciano per noi è il sorriso».

Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 21 luglio 2019. Luciano De Crescenzo detestava i grandi ascolti. In un articolo per il Corriere del novembre 2002 scriveva: «La parola audience (che, attenzione, si scrive audience ma che si pronunzia odiens, proprio per sottolinearne la pericolosità) produce un abbassamento della qualità di tutti i programmi televisivi. La tv, infatti, proprio per andare incontro al gusto delle masse abbassa il proprio gusto fino a farlo coincidere con quello della maggioranza». La tesi è dibattuta, potrebbe essere applicata a tutte le scritture di massa. De Crescenzo, citando Biante di Priene (il pensiero greco classico riveduto e corretto dalla verve partenopea), faceva sua la massima secondo cui «la maggioranza degli uomini è stupida». Verrebbe da dire, meno male che questa supremazia della stupidità si applica solo a certi programmi tv. «Se la maggioranza è stupida, come fa una nazione a vantarsi di essere democratica?», incalza però De Crescenzo. Interrogativo vero, tremendo, spietato, da far tremare i polsi. E se il Paese finisse in mano agli incompetenti? Per fortuna, a nostra parziale consolazione, certe brutte cose succedono solo con l' audience, che si pronunzia odiens.

Marco Ciriello per “il Mattino” il 21 luglio 2019. Con la folla e l’amore è venuto fuori il dolore, non solo quello collettivo per la perdita di Luciano De Crescenzo, ma anche il suo, quello nascosto e raccontato da Renzo Arbore e Roberto D’Agostino solo ora: la sofferenza patita per non-appartenenza, per il non essere mai entrato a far parte dell’élite culturale. Ma De Crescenzo, che è una idea, come ha scritto Francesco Palmieri su “Il Foglio”. Una idea divenuta tramite, desiderosa di una licenza che non gli serviva, un titolo che aveva ampiamente scavalcato e che pure anelava, non per arroganza, ma perché tutto era cominciato a Milano all'Ibm, dove si sentiva fuori posto. E lo spiegò, per primo, a Gianni Infusino su questo giornale: «Entrai in un complesso di inferiorità nei confronti dei milanesi, veramente drammatico e per campanilismo, per amor di patria cercavo di far capire loro: Sì, voi siete più bravi, più precisi, però noi napoletani abbiamo altre cose che voi non avete e tentavo di spiegare questa dimensione napoletana. Per avallare le cose che raccontavo e per renderle nobili le legavo alla filosofia greca che al liceo era stata una specie di passione: vedete, dicevo, noi siamo gli eredi dei greci, Napoli in fondo era una colonia greca. Raccontavo il distacco dalle Nazioni, vendevo il concetto di agorazonta, di stare nell'agorà, di passeggiare e interessarsi alle cose umane. È nata così la mia trasformazione da ingegnere a scrittore». E la gente l'ha capito, sentiva la difesa, in una Italia differente che era divisa in due da un razzismo fatto in casa. In più come aggravante De Crescenzo era bello, un napoletano apollineo, che rideva di tutto e qua si potrebbero scomodare la poetica di Aristotele e il riso e in un balzo arrivare a Il nome della rosa di Eco e in uno scherzone del destino leggerlo come riduzione del problema decrescenziano. Un ingegnere che faceva e sapeva ridere, diventava tramite tra mondi lontani, col torto di non essere dionisiaco in una città, Napoli, che lo era e lo è tutt'ora: da Roberto De Simone a Maradona arrivando fino a Liberato. Nella contrapposizione apollineo/dionisiaco ecco la tragedia attica, quindi napoletana. E, infatti, il dispiacere non veniva dall'Italia che se ne fece una ragione davanti all'accerchiamento del romanziere, filosofo, divulgatore, fotografo, regista, sceneggiatore, attore, intrattenitore e pure cantante che riusciva a tenere insieme la leggerezza di Dino Risi, dare del tu a Fellini e togliersi lo sfizio di stare ovunque con un libro: fosse pure in un basso; tanto che in una puntata di Mixer cultura le autorità (preposte) Vattimo e Severino si arresero al fuori luogo accettandone le provvidenze del lavoro sporco, beneficiandone, a cominciare da quella sera: in un paradosso, brillavano di luce riflessa. Il problema era Napoli come disse sempre a Infusino «chi mi critica è quasi sempre un napoletano e questo è un mistero che neppure Bellavista riuscirebbe a risolvere. Enzo Golino aveva posto il veto per L'Espresso, Rosellina Balbi per la Repubblica, Luigi Compagnone soltanto negli ultimi anni ha mostrato un certo interesse per quel che scrivo, Domenico Rea un giorno mi incontra e mi abbraccia, un altro giorno mi incontra, punta gli occhi nei miei e spara un enigmatico: E io che so', 'nu fesso?». No, non era un fesso, ma uno scrittore che non riusciva a capire l'anomalia che aveva di fronte. Poi, uscendo da Napoli, sotto Vattimo e Severino, c'erano gli altri professori debolucci come critici Mario Vegetti storico della filosofia, su Alfabeta, e Gabriele Giannantoni su Rinascita, che dicevano: la filosofia è qualcosa di serio, intoccabile, nostro, soprattutto. Giannantoni scrisse: «Non si può parlare dei filosofi greci come se si parlasse di Piedigrotta». E perché no? Il problema era che De Crescenzo faceva il professor John Keating prima de L'attimo fuggente, saliva sui banchi dell'università italiana e invertiva le parti, regalando Socrate allo spazzino (come in Bellavista). Carlo Carena, che era il curatore della soggettistica di Einaudi, disse che De Crescenzo «aveva scritto con cattivo gusto e con mediocre umorismo». Sul mediocre umorismo riderebbe anche Carena oggi, almeno speriamo. Lo stigma era verso la commedia naturale di cui era figlio, verso la semplificazione: l'accademia non capiva il salto, né l'uomo. Che ne ha sofferto, ridendo. Gli altri hanno solo sofferto. È stato amato anche da vivo, dal popolo, rarità, che non legge le etichette, e che ora lo saluta, a Santa Chiara, come un re.

Ignazio La Russa per “Libero quotidiano”  il 22 luglio 2019. Luciano De Crescenzo avrebbe compiuto 91 anni il 18 di Agosto. Se ne è andato esattamente un mese prima. In punta di piedi, come è sempre vissuto e forse col sorriso ironico di un «filosofo e umorista» (così lo definisce Renzo Arbore) che non ha voglia dei rituali festeggiamenti di un altro compleanno. Chi lo ha conosciuto sa che il titolo che scelse per la sua autobiografia "Sono stato fortunato" è molto bugiardo. Perché De Crescenzo, il suo successo se lo è meritato fino in fondo e anzi, resta fortemente in credito nei confronti dei troppi soloni della cultura italiana che lo hanno sempre guardato con una certa aria di superiorità che si riserva a chi, magari simpaticamente, vuole invadere campi non suoi. Nella loro testa un ingegnere della Ibm può mai spiegare al mondo la filosofia? Può essere al contempo scrittore, attore e anche regista riuscendo sempre a farsi amare e apprezzare dal grande pubblico? Eppure i suoi oltre 40 libri, tradotti in 25 lingue, hanno venduto oltre 18 milioni di copie e anche il vice portinaio napoletano Bellavista, del suo primo libro e poi film, è rimasto una icona popolare. E anche Atene, madre della filosofia, gli ha conferito la cittadinanza onoraria. I critici che hanno, a torto o a ragione, innalzato agli onori dei grandi della letteratura il giallista marxista Camilleri, con lui sono stai molto avari nei giudizi. Oggi, anche quelli che lo hanno a lungo sottovalutato si uniscono al rimpianto di chi lo ha amato e apprezzato e di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Ecco, io mi sento fortunato per averlo potuto incontrare in molte occasioni e ancor di più per essere stato testimone di un suo inedito piccolo capolavoro di ironia: insieme a Gasparri, oltre 15 anni fa provammo a proporgli di candidarsi alle elezioni per Alleanza Nazionale. Ne ricevemmo un garbato ma sicuro diniego perché, ci disse, la politica non era nei suoi progetti. E a Gasparri che insisteva, aggiunse: «vede, non lo farò ma se mai ci pensassi lo farei solo per il centro». «Per il centro?». Domandammo noi meravigliati e pronti a illustrare i meriti della Destra. E fu a quel punto che De Crescenzo ci diede prova della sua incomparabile spontaneità ironica. «Che avete capito?», ci disse. «Intendo dire per il centro cittadino, cioè per avere il pass per il centro storico che altrimenti mi negano». La ammirata risata liberatoria mi risuona nella testa come le sue parole per descrivere Socrate («era buono d' animo, tenace, intelligente, ironico, tollerante, nel medesimo tempo inflessibile») che a ragione potremmo oggi usare per ricordare la grandezza di Luciano De Crescenzo.

Difendo De Crescenzo dalla perfidia dell’elite che non sa parlare al popolo. Errico Novi il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. C’è chi è arrivato a pungere Luciano il giorno dopo i funerali. Tanta perfidia serve a nascondere l’incapacità di comunicare con la “massa”, cosa che sapeva fare Bellavista. A Napoli c’erano pochissime autorità. Solo persone, tante, tanti napoletani, ma nessuna istituzione a parte quelle indispensabili: Comune e Regione. Luciano De Crescenzo è stato acclamato, il nome scandito dalla folla all’uscita dalla chiesa di Santa Chiara, ma certo non c’erano né solennità istituzionale né presenzialismo glamour. Anzi. Prima durante e dopo l’ultimo saluto a Luciano c’è stato veleno. Dietro l’indifferenza per De Crescenzo c’è l’élite che non sa parlare al “popolo”. A Napoli c’erano pochissime autorità. Solo persone, tante, tanti napoletani, ma nessuna istituzione a parte quelle indispensabili: Comune e Regione. Luciano De Crescenzo è stato acclamato come un leader di partito, il nome scandito dalla folla all’uscita dalla chiesa di Santa Chiara, ma certo non c’erano né solennità istituzionale né presenzialismo glamour. Anzi. Prima durante e dopo l’ultimo saluto a Luciano c’è stato veleno. Molto. Nei titoli, nelle scelte d’impaginazione, nello scarto tra lui e Camilleri. Fino al culmine: Aldo Grasso. Il suo “Padiglione Italia” di domenica era acido: De Crescenzo, scrive Grasso, «citando Biante di Priene ( il pensiero greco classico riveduto e corretto dalla verve partenopea), faceva sua la massima secondo cui “la maggioranza degli uomini è stupida”». E certo, ha aggiunto il critico televisivo, se ne ha il riflesso più diretto «con l’audience» e con la tesi, pure cara a De Crescenzo, secondo cui «la tv, proprio per andare incontro al gusto delle masse abbassa il proprio gusto fino a farlo coincidere con quello della maggioranza». «Tesi dibattuta», annota Grasso con perfidia, «potrebbe essere applicata a tutte le scritture di massa». Scoperta allusione — di una cattiveria da strega delle fiabe — all’enorme successo dei libri di De Crescenzo. Mai visto nulla di simile a meno di ventiquattr’ore da un funerale. Manco si fosse trattato di un sanguinario dittatore, del più spregevole nemico della democrazia. C’è da chiedersi perché. Perché la critica, gli intellettuali, odiassero, e odino ancora, così tanto Luciano De Crescenzo. In parte si è risposto. Persino al funerale a Santa Chiara, il suo fraterno amico Renzo Arbore ha trovato una spiegazione nell’invidia: «Non ti hanno perdonato di aver venduto tanto». Forse però c’è altro. C’è il senso di una battuta scappata a Luciano e rovesciato da altri odiatori sui social: «Napoli sommersa dalla spazzatura? È un sintomo di ricchezza». Qualche fesso ne ha approfittato per sbavare il solito odio contro la Napoli ritenuta refrattaria all’igiene e meritevole di essere purificata dal fuoco del Vesuvio. Quando lo cantano allo stadio, i napoletani ballano, tanto che non prendono sul serio quell’odio da miserabili. Il punto è nel senso vero della battuta: in quei giorni orribili delle montagne di rifiuti cosparse di creolina per attutire la catastrofe sanitaria, De Crescenzo provò a offrire un po’ di tenerezza. Era un modo per accarezzare la smorfia di vergogna di noi partenopei, per consolarci con l’iperbole di una fantastica opulenza. Cosa c’è, in un simile bisogno di tenerezza, se non la ricerca del bene altrui? De Crescenzo ha praticato in ogni suo istante la rimozione della miseria per risvegliare in ciascuno, ma innanzitutto nella sua Napoli, la coscienza del meglio che si ha. Ha capito che la “plebe” non va disprezzata ma incoraggiata. La sua divulgazione è desiderio di condividere il sapere con tutti. Desiderio sincero. Animato dalla fede nella capacità, riconosciuta a ciascuno, di amare la conoscenza. Una fede che Aldo Grasso non sembra coltivare. E che forse neppure coltivano tanti di quelli che odiano, disprezzano o snobbano De Crescenzo. La distanza fra lui e loro è tutta nelle due opposte idee di popolo. L’odio per De Crescenzo è una rimozione di quella diffidenza. È il rifiuto della distanza dal popolo, mascherata con lo spregio per il presunto cialtrone. Dietro lo snobismo di chi liquida De Crescenzo c’è tutto il disastro delle élite dissociate dalle persone in carne e ossa, della frattura con il popolo. È la stessa incapacità di comunicazione. Lo stesso presuntuoso distacco. E persino l’ultimo appiglio dell’aristocrazia intellettuale, secondo cui De Crescenzo falsifica perché riproduce una Napoli in cui si è ben guardato dal continuare a vivere, anche quest’ultima smorfia accigliata casca male. Perché se c’è una luce che si può offrire a Napoli per rischiararne il futuro è proprio la fiducia nel bene nascosto sotto la coltre del fatalismo. Napoli è l’ultima speranza che l’umanità ha per sopravvivere, disse Bellavista. Ma la coscienza del bene oscurato dalla sfiducia è l’ultima speranza che Napoli ha per sopravvivere a se stessa. Liberarsi dal buio dell’irrimediabile è la sola possibilità di riscatto. Napoli ne ha bisogno. E s’è c’è un intellettuale che si è sforzato di accenderle la speranza, è il nostro, amatissimo, per sempre, Luciano.

·         E' morto Andrea Camilleri.

E' morto Andrea Camilleri. Edoardo Frittoli il 17 luglio 2019 su Panorama. Dopo una lunga malattia, alle 8:20 del 17 luglio 2019 Andrea Camilleri è morto all'ospedale Santo Spirito di Roma dove da tempo si trovava ricoverato nel reparto di terapia intensiva. Classe 1925, lo scrittore era nato a Porto Empedocle (Agrigento). Il successo letterario arriverà soltanto all'età di 70 anni, promosso dalla storica casa editrice palermitana Sellerio. Prima di concepire la saga del Commissario Montalbano fu regista, sceneggiatore e funzionario RAI. Andrea Camilleri è stato autore in meno di tre decenni di ben 100 libri. La serie del commissario Montalbano (poi interpretato nella omonima serie tv da Luca Zingaretti) era iniziata nel 1994 con " La forma dell'acqua". La consacrazione avviene quattro anni dopo, nel 1998, con il best seller "La concessione del telefono". L'ultimo episodio, uscito nel maggio 2019, è stato "Il cuoco dell'Alcyon". Personalissimo lo stile dialettale d'invenzione, così come la fantasia gli ispirò il paese dove sono ambientate le indagini del commissario più famoso d'Italia: Vigata. Le sue opere sono state tradotte in più di 120 lingue.

Morto Andrea Camilleri, «papà» del Commissario Montalbano. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Corriere.it. Da qualche tempo aveva perso la vista, ma la capacità di raccontare era rimasta la stessa: ipnotica, teatrale, capace di mescolare ironia e dolcezza. Fino all’ultimo Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925, è morto oggi a Roma all’età di 93 anni, ha continuato ad affabulare: le avventure di Montalbano, le memorie dettate alla sua assistente e agente Valentina Alferj anche quando non poteva più scrivere, i ricordi di una vita lunga, affrontata sempre stando dentro le cose, vivendo appieno il suo tempo con consapevolezza e generosità. Raccontava che il suo libro, «Esercizi di memoria», uscito nel 2017 da Rizzoli «aveva rischiato di rimanere nel cassetto» e non per via della cecità, ma perché, con umiltà, lui che aveva venduto milioni di copie ed era in grado di attirare folle a ogni incontro, si chiedeva a chi potessero interessare quelle storie private. Andrea Camilleri è stato autore di oltre cento libri, tutti pubblicati in età matura. «Un filo di fumo», uscito da Garzanti nel 1980, fu il primo di una serie di romanzi storici ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigàta a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a cui erano seguiti «La strage dimenticata», «La stagione della caccia», «La bolla di componenda». Erano libri di nicchia, che piacevano ai lettori più raffinati. Camilleri aveva portato a Leonardo Sciascia i documenti della «Strage dimenticata» perché gli sembravano molto in linea con il genere a cui l’autore del «Giorno della civetta» si dedicava in quegli anni, cioè la ricostruzione di vicende storiche emblematiche ma dimenticate. Sciascia lo invitò a scrivere quella storia lui stesso e lo presentò a Elvira Sellerio con cui Camilleri instaurò un lungo e affettuoso sodalizio durato fino alla fine. Del 1994 è la nascita del commissario Montalbano con «La forma dell’acqua», primo libro della serie. Nel 1998, il fenomeno esplose con la serie televisiva interpretata da Luca Zingaretti imponendosi come uno dei casi editoriali più significativi degli ultimi vent’anni. Con le avventure del commissario e dei suoi colleghi Augello, Fazio, Catarella e gli altri, Camilleri è riuscito a portare tutti, anche i lettori del Nord, nella Sicilia bianca e azzurra, quella del ragusano, da cartolina, ma reale. Lo ha fatto con quel suo dialetto reinventato, solo apparentemente difficile da capire, costringendo tutti a imparare il significato di parole come cabasisi, spiare, cataminarsi. Non aveva pose da grande saggio né da autore superstar, Camilleri. Non amava la solitudine e quando partecipava a un incontro pubblico, durante un festival o una presentazione, quando, magari forzando le cautele del suo entourage familiare, preoccupato che si stancasse troppo, si entrava nella sua casa romana per un’intervista, un servizio fotografico, un incontro, si abbandonava a una disponibilità senza condizioni. Seduto nello sua poltrona, circondato dai libri, distillava il fumo della sigaretta sempre tra le dita e piccole gemme narrative: lo sbarco degli alleati in Sicilia, il padre, amatissimo, che aveva partecipato alla marcia su Roma, gli anni del liceo ad Agrigento, l’amore per i gatti. E poi il mondo del teatro (aveva iniziato a fare il regista negli anni Quaranta) e della tv (nel 1957 era entrato in Rai, aveva firmato, come sceneggiatore, alcune produzioni tra cui due serie poliziesche rimaste leggendarie, il Tenente Sheridan interpretato da Ubaldo Lay e il Maigret di Simenon con Gino Cervi), le vicende (romanzesche) della sua creatura più famosa, il commissario Montalbano. Ma anche quello che definiva «il teatrino del mondo»: l’attualità, la politica, i cambiamenti sociali che fossero il ruolo dell’Europa, l’emergenza migranti o l’avanzata del populismo perché, come scrive in «Ora dimmi di te», libro- lettera alla bisnipotina Matilda edito da Bompiani nel 2018 «l’ultima cosa che ho imparato consiste nell’avere necessariamente un’idea, chiamala pure ideale, e a essa attenersi fermamente ma senza nessuna faziosità, ascoltando sempre le idee degli altri diverse dalle proprie, sostenendo le proprie ragioni con fermezza, spiegandole e rispiegandole, e magari perché no, cambiando la propria idea». Era stato un meraviglioso Tiresia per una notte, nel giugno 2018, quando aveva tenuto in pugno i diecimila spettatori del Teatro greco di Siracusa raccontando le peripezie del mitico indovino accecato dagli dèi e poi adottato dalla letteratura di tutti i tempi, da Omero a Ezra Pound, da Giovenale a Virginia Wolf a Pier Paolo Pasolini. Un’ora e mezza di monologo diventato un film con la regia di Roberto Andò e Stefano Vicario che resta il testamento di un uomo che fino all’ultimo ha saputo guardare lontano.

Addio Camilleri, il bambino Nenè che incontro il mito. Lanfranco Caminiti il 18 luglio 2019 su Il Dubbio. Da nord a sud, il grande cordoglio. Ora l’inedito su Montalbano. Si considerava “un impiegato della scrittura”. Al contrario di Maigret, Montalbano vive e invecchia nel suo tempo. Lo screzio con Sciascia.

Addio Camilleri. Tanto e tanto tempo fa, doveva essere il ‘ 95 – di lui, anni prima, avevo letto La strage dimenticata sull’orribile fine di 114 carcerati a Porto Empedocle che alla rivoluzione del ’ 48 vennero rinchiusi in una fossa comune, soffocati, massacrati e bruciati vivi, perché il responsabile della Torre temeva che potessero liberarsi e partecipare ai moti rivoluzionari – andammo, io e mia moglie, un pomeriggio di fine estate a una presentazione di un suo nuovo libro. Era il “suo” quartiere, Prati, e una libreria aveva organizzato il piccolo evento. Camilleri non era ancora il monumento che è diventato, letterario, commerciale, nazional- popolare, ma era già uscito La forma dell’acqua. Me l’aveva segnalato una amica siciliana, e io a mia volta l’avevo segnalato a amici siciliani – forse iniziò così il suo successo, una cosa tra siciliani sparsi per il mondo. E siamo assai. Camilleri presentò il suo nuovo libro e poi alla fine, dietro il tavolo, firmava le copie. Ci mettemmo in fila. Quando arrivò il mio turno, mi resi conto che non avevo con me una copia del libro, non avevo neppure un foglio di carta. Allora allungai il braccio, dove ho tatuato la triscele della Trinacria e ci dissi, ci può mettere la sua firma qua. Rimase stranito, mi guardò. Poi, senza fare una piega, prese il suo pennarello nero a punta fine e firmò a fianco del mio tatuaggio. Un paio di giorni dopo, sulle pagine romane de «la Repubblica», Camilleri scriveva un piccolo editoriale che cominciava così: “I miei lettori sono gente strana. Ieri l’altro, un signore, un siciliano, ha voluto che apponessi la mia firma sotto il suo tatuaggio della Trinacria”. Lo trovai molto divertente, così tenni la sua firma finché non si cancellò da sola. Camilleri ha sempre avuto rispetto dei suoi lettori. Anche di quelli strani, come me.

Una miniera di aneddoti. A novantaquattro anni, Camilleri è una miniera di aneddoti. Ma non per forza di cose. È proprio un suo modo di stare al mondo. Sentirlo raccontare la vicenda delle ceneri di Pirandello – prima al Verano, a Roma, poi in un primo tentativo d’epoca fascista di riportarle a Agrigento, fallito per un gerarca che considerava Pirandello troppo antifascista, poi un altro tentativo a guerra finita fallito per un burocrate che considerava Pirandello troppo fascista, poi infine in parte interrate dove il grande scrittore voleva, nella terra del suo Caos, e in parte da gettare nel “mare africano”, ma che una folata di vento riportò indietro sul volto dell’addetto, proprio come nella scena del Grande Lebovski – è una delizia. D’altronde, è nota la sua lontana parentela con Pirandello, che venne a trovare la nonna Carolina a Porto Empedocle e si trovò davanti il piccolo Andrea, detto Nené. Erano le tre del pomeriggio, e bussano alla porta di casa e Andrea bambino si trova davanti un «ammiraglio in grande uniforme» che gli chiede: «Cu sì tu? C’è tua nonna Carolina? Dicci una cosa, che c’è Luigino Pirandello che la vuole salutare». Beh, non è una storia che tutti possono raccontare. Ma Camilleri, che da regista mise in scena più e più volte Pirandello, non pensò mai di avervi familiarità. Una volta disse che non si sarebbe mai rivolto al grande maestro con il “tu” ma gli avrebbe dato del “voscienza”, un’espressione di rispetto. E del teatro pirandelliano pensava che avesse davvero rinnovato tutto il teatro. Disse che «il Living non sarebbe mai esistito se tra le sue prime opere non avessero inscenato un lavoro come Questa sera si recita a soggetto che ritengo alla base di tutto il rinnovamento e la ricerca del teatro mondiale contemporaneo».

Una produzione sterminata. Io non so se Camilleri sarà ricordato nella lunga fila dei Grandi Siciliani Scrittori – insomma, da Verga a Capuana a De Roberto, a Pirandello, a Tomasi, a Vittorini, a Sciascia, a Bufalino, a Consolo – ma so che la quantità del suo lavoro è impressionante: cento lavori (tra romanzi, saggi, racconti e scritti vari), 26 romanzi per 25 milioni di copie vendute, sono numeri da capogiro. E non so neppure se lui ci si metterebbe in quella lunga e impressionante fila. Di sé disse in un’intervista a Stefania Parmeggiani per «la Repubblica» nel 2016, quando era appena uscito L’altro capo del filo: «Io sono un impiegato della scrittura». Il segreto stava proprio nella continuità: alzarsi la mattina presto, farsi la barba, fare colazione, scendere in studio, lavorare dalle sette alle undici e nel pomeriggio rivedere quanto si è scritto. In questa stessa intervista sottolineava la differenza tra il suo Montalbano e il Maigret di Simenon: le indagini di Maigret sono senza tempo – diceva – e c’è la guerra del ’ 40, l’invasione dei tedeschi, ma di tutto questo in Maigret non c’è traccia; io invece, fin dall’inizio, mi sono proposto di far vivere, e invecchiare, Montalbano nel suo tempo, che poi è il nostro tempo. Eppure, tra Camilleri e Simenon una similitudine e forte c’era: Simenon era una macchina da guerra della scrittura, scriveva fino a ottanta- novanta pagine al giorno, alzandosi al mattino, facendosi la barba, caricando diverse pipe, mettendosi alla macchina da scrivere con a fianco i fogli gialli per appunti e matite ben appuntite, e poi attaccava alla maniglia della porta del suo studio un cartellino con la scritta “non disturbare”, di quelli in uso negli hotel.

Il rapporto con Sciascia. In realtà, è vero che “l’apparizione” di Camilleri sia un debito verso i siciliani, e lui non l’ha mai dimenticato. Conosceva Leonardo Sciascia, ma non era della sua “prima cerchia” di amici, ma della seconda, racconta quasi con civetteria. Comunque, gli fece arrivare un po’ di carte storiche che aveva messo assieme sulla “strage dimenticata”, cui aveva sempre pensato a partire dai racconti di famiglia. Era convinto che Sciascia potesse ricavarci un suo “libretto aureo”. Sciascia lesse e gli restituì le carte, dicendogli, ma perché non lo fai tu, il libro? E così ne parlò alla Elvira Sellerio e vennero fuori quelle poche ma dense pagine – la bandella, la scrisse Sciascia. Il resto è noto. Di Sciascia, della sua intelligenza, della sua lucidità, della sua dirittura, Camilleri ha una venerazione. Eppure, e qui uno scivolone, rimproverò a Sciascia di avere “esaltato” ne Il giorno della civetta il capo mafioso, quello del discorso su uomini, ominicchi e quaquaraquà. E poi, ebbe uno scontro con lui durante il sequestro Moro, quando Sciascia seppe, di viva voce, dei timori di Berlinguer di una possibile regia tra servizi americani e russi e li rivelò ai giornali e Berlinguer ovviamente negò e Sciascia chiese la testimonianza di Guttuso che era presente e Guttuso negò e Camilleri gli disse che aveva sbagliato a tirare in ballo Guttuso – che cosa si aspettava? E Sciascia rispose, siete tutti uguali, voi comunisti. Ma lo screzio finì lì, proprio perché lui non era nella “prima cerchia”. Ovviamente, i più feroci critici e anche i più entusiasti sostenitori di Camilleri, sono i siciliani. All’un lato dello spettro ( i feroci critici) si può mettere Fulvio Abbate, palermitano: «Camilleri è il prodotto perfetto per restituire una Sicilia di genere, lompo in luogo del caviale, un’isola da sarde a beccafico.

Sostenitori e detrattori. Il dialetto di Camilleri è un dialetto da pro- loco, da ente provinciale del turismo, un dialetto depotenziato, buono anche per il cabaret “Madison” di piazza Don Bosco. Perfino la mafia nei suoi libri diventa un souvenir, come il carrettino o la coppola o il grembiule con l’effigie di Brando nei panni del Padrino. Souvenir de Sicilie». E all’altro lato dello spettro ( i sostenitori entusiasti) si può mettere Pietrangelo Buttafuoco, un catanese: «A dispetto dei Roberto Saviano – di cui, oltre il marketing ruffiano, non resterà nulla – Camilleri resterà. A differenza di un Carlo Cassola, di cui non è rimasto nulla ( ma che pure vendeva tantissimo), Camilleri rimarrà. A differenza di un Alberto Moravia – di cui sono rimaste le sopracciglia – Camilleri ci sarà per tanto tempo ancora» . Mi pare che non ci sia altro da aggiungere.

Mariarosa Mancuso per ''Il Foglio'' il 18 luglio 2019. Ha fatto più lui per far leggere gli italiani di tutti i saloni, le associazioni, i mesi intitolati ai libri, i festival, i tour di presentazione su e giù per la penisola. Andrea Camilleri ha colpito il cuore dei lettori come nessuno prima di lui. L’unico paragone potrebbe essere con Giovanni Guareschi. Né Susanna Tamaro né Oriana Fallaci né Luciano De Crescenzo, che pure hanno occupato a lungo le cronache libresche, appartengono alla stessa categoria. Neanche all’estero – dove vantano una solida tradizione in materia di bestseller – i lettori sono rimasti indifferenti, le traduzioni si contano a centinaia. Uno e spesso più titoli in cima alle classifiche – l’ultimo è “Il cuoco dell’Alcyon”, uscito a fine maggio (si sussurrava, agli inizi, che gli aspiranti altri bestelleristi cercavano di incunearsi tra un camilleri e l’altro). Ogni novità immancabilmente rilanciava i libri precedenti, usciti da Sellerio o da altri editori: non c’è scrittore di grande successo che non diversifichi, prima o poi (Stephen King si inventò il nom de plume Richard Bachman, e poi lo fece morire di “cancro allo pseudonimo”: sono mercati più maturi, da noi il nome dello scrittore vale come garanzia). Il Montalbano televisivo con Luca Zingaretti dava altre spinte alle vendite, lo spin off “Il giovane Montalbano” contribuiva alla già enorme popolarità (senza contare l’indotto, vale a dire il turismo letterario, nei luoghi dove la serie – pezzo a pezzo come si usa al cinema, un po’ è Ragusa, un po’ Scicli, un po’ Modica – ha ricostruito la cittadina di Vigàta). Una strepitosa – e generosissima – carriera da scrittore cominciata (per davvero, prima c’era stata qualche falsa partenza, una anche in poesia) a quasi 70 anni, dopo una vita trascorsa lavorando come regista alla Rai. L’occasione per impratichirsi con le tecniche del romanzo poliziesco: a Camilleri dobbiamo “Il tenente Sheridan” con Ubaldo Lay e “Le inchieste del commissario Maigret” con Gino Cervi, sceneggiati con un posto garantito nella storia della tv italiana. “La forma dell’acqua” – il primo romanzo con Montalbano, protagonista di una quarantina di titoli – esce nel 1994. Cinquemila copie di tiratura, il margine di errore con cui si lavora nell’editoria è sempre alto. Oltre al commissario, ci sono i romanzi storici come “La concessione del telefono”: nato da un vecchio carteggio ritrovato, relativo a una linea telefonica installata nel 1892, dopo pratiche amministrative che rasentavano il delirio. I labirinti della burocrazia hanno sempre il loro fascino, quantomeno letterario. Alla fine del 2016, i titoli firmati Andrea Camilleri erano 102, e le copie vendute in Italia puntavano verso i 30 milioni. Abbastanza per interrogarsi sulle ragioni del miracolo, che invita all’emulazione, “in fondo che ci vuole? (nelle intenzioni almeno, nei fatti nessuno c’è riuscito).

Primo: Andrea Camilleri racconta storie, con ritmo di chi vuole farsi ascoltare: le pause giuste, le digressioni che servono per tenere desta l’attenzione, i tormentoni – per esempio le telefonate “personalmente di persona”, i pranzi registrati con dettagli da commissario Maigret – che fanno la felicità (non solo dei lettori bambini).

Secondo, i personaggi acchiappa-simpatie, a cominciare da Salvo Montalbano, che intrattiene – in una Sicilia parecchio nostalgica – una modernissima relazione a distanza con la fidanzata Livia.

Terzo, la lingua: innesti di dialetto siciliano, vero o artefatto per l’occasione, che offrono al lettore il brivido di una letteratura posizionata più alta rispetto allo scaffale del poliziesco.

Una (seconda) vita sotto il segno del commissario Salvo Montalbano non può che chiudersi con Montalbano e con la sua ultima avventura. Andrea Camilleri raccontava di avere già scritto il romanzo, più di dieci anni fa, e lo aveva consegnato a Elvira Sellerio perché lo mettesse in cassaforte. Gli era venuta una bella idea, temeva l’Alzheimer (o che qualcuno si appropriasse del personaggio per seguiti apocrifi). Una cosa  soltanto sappiamo: “Montalbano non muore e nemmeno va in pensione”.

I 10 libri più belli di Andrea Camilleri. Nel giorno della sua morte celebriamo la storia del maestro siciliano con una selezione delle sue opere. Andrea Bressa il 17 luglio 2019 su Panorama.

La scomparsa di Patò. Romanzo scritto in un'originale forma di un dossier, fatto di lettere, documenti ufficiali, verbali e articoli di giornale. Racconta la vicenda di Antonio Patò, noto ragioniere di Vigata che il 21 marzo 1890 scompare durante la tradizionale rappresentazione del “Mortorio”, ossia la Passione di Cristo, in cui interpreta lo scomodo ruolo di Giuda. Gli ufficiali di Pubblica Sicurezza e i Carabinieri indagano, anche ostacolandosi, i giornali sono in fermento, la popolazione elabora e propone le più diverse teorie. La scomparsa di Patò di Andrea Camilleri (Mondadori) 250 pagine

Un filo di fumo. Secondo romanzo di Andrea Camilleri (il primo è Il corso delle cose), datato 1980. Il primo editore, Garzanti, decise la sua pubblicazione solo se completato con un glossario, che spiegasse i numerosi termini dialettali utilizzati dall'autore. Una breve storia ambientata nella Sicilia di fine Ottocento, che racchiude già tutta l'abilità e lo stile irresistibile del maestro di Porto Empedocle. Un filo di fumo di Andrea Camilleri (Sellerio) 148 pagine

La forma dell'acqua. Con questo libro, nel 1994, nasceva il personaggio di Salvo Montalbano. Primo capitolo di una fortunata serie di romanzi non ancora terminata, che hanno contribuito a costruire una figura letteraria ormai entrata nell'immaginario collettivo. La forma dell'acqua di Andrea Camilleri (Sellerio) 208 pagine

Il birraio di Preston. Romanzo storico di grande successo e ancora molto amato. La vicenda raccontata è realmente accaduta a Caltanissetta (nel libro nella lettararia Vigata) a metà dell'Ottocento, quando l'allora prefetto Fortuzzi (Bortuzzi nella finzione della trama), decise di far rappresentare, all'inaugurazione del nuovo teatro cittadino, Il birraio di Preston, opera lirica di Luigi Ricci, scatenando il malumore del popolo, già molto contrariato dalle ingerenze del governo centrale della neonata Italia negli affari paesani. Quest'opera rappresenta una delle più riuscite ed esemplari manifestazioni dello sperimentalismo linguistico di Andrea Camilleri. Il birraio di Preston di Andrea Camilleri (Sellerio) 248 pagine

Il re di Girgenti. Corposo romanzo scritto interamente in siciliano. Ispirato a fatti realmente accaduti nel Settecento, racconta di Zosimo Gisuè, un contadino di Agrigento che venne eletto re dai suoi concittadini. Il re di Girgenti di Andrea Camilleri (Sellerio) 448 pagine

Il diavolo, certamente. Raccolta di trentatrè brevi racconti in cui i fili delle trame sembrano essere tirati da Lucifero in persona. Ogni storia svela e racconta vizi, bassezze e slanci dell'essere umano, suggerendone in qualche modo sempre l'impronta diabolica. Il diavolo, certamente di Andrea Camilleri (Mondadori) 171 pagine

L'altro capo del filo. Due indagini parallele impegnano il commissario Salvo Montalbano in quello che rappresenta il centesimo libro pubblicato da Andrea Camilleri. Da una parte un brutto caso di violenza che ha per vittima una giovane migrante sbarcata sulle coste siciliane. Dall'altra l'omicidio di Marta, la sarta del paese e amica di Montalbano. L'altro capo del filo di Andrea Camilleri (Sellerio) 301 pagine

La relazione. Delicato romanzo che indaga le passioni umane. Il protagonista, Mauro Assente, opera con responsabilità sempre più alte alla Banca Centrale e si occupa di controllare l'operato degli istituti di credito. È un uomo scrupoloso, nella vita e nel lavoro, sposato e padre di un figlio piccolo che passa i mesi estivi con la madre in montagna. L'errore non è contemplato nel suo modo di essere. Ma l'estate raccontata in questo romanzo sarà rivoluzionaria nell'universo di Mauro. Costretto a rimanere in città per un importante incarico, si scoprirà più vulnerabile e fallibile di quello che pensava, soprattutto dopo l'incontro di un'affascinante ragazza. La relazione di Andrea Camilleri (Mondadori) 351 pagine

Noli me tangere. Attraverso le indagini riguardanti una donna scomparsa, Laura, Andrea Camilleri esplora i meccanismi che portano ognuno di noi alla creazione dell'immagine dell'altro, sempre diversa e mai completamente veritiera. Noli me tangere di Andrea Camilleri (Mondadori) 171 pagine

La lingua batte dove il dente duole, con Tullio De Mauro. Un saggio in cui Andrea Camilleri e Tullio De Mauro chiariscono come la lingua che utilizziamo esprima ciò che siamo. Tante riflessioni sull'italiano e il dialetto, attraverso numerosi aneddoti, ricordi ed esempi che toccano Gassman, Pasolini, Manzoni, Pirandello, Benigni, il commissario Montalbano. La lingua batte dove il dente duole di Andrea Camilleri e Tullio De Mauro (Laterza) 125 pagine

Addio Andrea Camilleri, così lo scrittore raccontava se stesso. Gli esordi, il vigatese, le letture. Ma anche le donne, l’eros, la cecità e la bellezza. Una descrizione accurata in prima persona di un uomo e di un artista che ci mancherà immensamente. Andrea Camilleri il 17 luglio 2019 su L'Espresso. L'esercizio per impossessarmi della scrittura è stato lungo e faticoso. Ci ho messo un tale impegno che per molto tempo il mio engagement era esclusivamente nella ricerca del mio linguaggio. Molti pensano che il mio vigatese sia un po’ di siciliano e un po’ di italiano mischiati insieme, come una cassata, ma significa non avere capito assolutamente nulla e, soprattutto, non conoscere il dialetto siciliano. Tant’è che i miei amici siciliani quando hanno letto i miei primi libri mi hanno detto: «Cumpà, ma chi dialettu scrivisti?». L’invenzione del vigatese è stato un percorso lungo, non so se sono abilitato a raccontarlo in poche righe. Ci ho messo anni. Avevo cominciato a scrivere in italiano ma sentivo di non riuscire a rendere tutto quello che volevo. Fu appunto mio padre a darmi la chiave quando mi disse che avrei dovuto scrivere il romanzo che avevo in mente esattamente per come glielo avevo raccontato. Così feci e quel primo tentativo, molto immaturo, lo portai a Niccolò Gallo, personaggio importantissimo della critica letteraria italiana, che su una serie di foglietti scrisse molti appunti, in cui mi rimproverava di non aver spinto il pedale verso la ricerca assoluta di un’autonomia di linguaggio. Niccolò voleva che io trovassi il mio linguaggio e mi disse: «Riscrivilo secondo queste indicazioni e io te lo pubblico».

Lui allora dirigeva la collana “Il tornasole” presso Mondadori, dove aveva pubblicato il primo Consolo e tanti altri giovani scrittori. Poi lui morì, e io questa revisione la feci, ma molti anni dopo. Nel frattempo mandai “Il corso delle cose” a tutti gli editori possibili e immaginabili ma per dieci anni nessuno lo volle pubblicare. Allora un mio amico, Dante Troisi - che era un giudice ma anche un importante sceneggiatore, autore del “Diario di un giudice” che allora scatenò un casino - mi disse: «Dato che non lo vogliono pubblicare, perché non ne fai uno sceneggiato televisivo? Te lo sceneggio io». «Va bene», risposi. Troisi era uno importante per cui l’operazione andò in porto velocemente. Prima della messa in onda dello sceneggiato, che si sarebbe intitolato “La mano sugli occhi”, uno di questi giornali che si occupano di programmazione tv, tipo “Sorrisi e canzoni”, pubblicò la notizia. Allora mi scrisse un editore a pagamento, Lalli, e mi disse: «Guardi, se lei nei titoli di testa o di coda scrive che il libro è pubblicato da me, io glielo stampo gratis». «Va bene», feci io. Fu un patto infame, perché appena ebbi tra le mani l’oggetto libro mi venne una gran voglia - erano intanto passati dieci anni in cui non avevo scritto assolutamente nulla - di scrivere un altro romanzo. E così scrissi “Un filo di fumo”. Lo feci leggere al mio amico Ruggero Jacobbi, che pigliò il dattiloscritto e lo portò a Milano a Garzanti. Dopo una settimana ricevetti una telefonata da Garzanti che mi diceva che lo avrebbero pubblicato. E questo è il mio esordio da scrittore. Diversi anni dopo rimisi le mani a “Il corso delle cose” secondo le indicazioni di Gallo e, in questa nuova versione, fu pubblicato da Sellerio. Nell’edizione Lalli si avverte ancora il lavorio del tentativo di commistione e di fusione di dialetto e italiano in una lingua terza. Una volta mi toccò spiegare a una giornalista cinese come nasce il vigatese e per farlo le raccontai il seguente episodio: a sedici anni ottenni da mia madre le chiavi di casa, in maniera che potevo rientrare quando volevo. Io facevo sempre tardi la notte. Un giorno mia mamma si scocciò e mi fece questo discorso che riferisco testualmente: «Nenè, figliu mè, cerca di arricamparti prima la sira. Pirchì si iu nun sentu la porta ca si chiui, nun arrinesciu a pigliari sonnu. Perciò, fallu pì mmia. E se questa storia dura ancora, io ti taglio i viveri e voglio vedere cosa fai fino alle 3 di notte».

Spiegai alla giornalista: «Vede, la prima parte, che è una mozione degli affetti, è tutta in dialetto. La seconda parte, che è un’intimidazione, è in lingua italiana. Questa è una divisione sostanziale nel nostro modo di parlare. Una minaccia, un’intimidazione è in italiano, una cosa d’affetto è in dialetto». A questo punto la giornalista cinese si mise a ridere come una pazza. Io e l’interprete ci guardammo come a dire: «Ma cos’ha da ridere così?». Lei spiegò: «Io vivo con mia madre e la sera torno tardi. Qualche giorno fa mia madre mi ha fatto un discorso simile a quello che le fece sua madre. Però la prima parte era in cantonese, che è il linguaggio familiare, la seconda in mandarino». Così ha capito come è nato il vigatese. Ma il passaggio dal vigatese spontaneo - quello che avevo usato con mio padre, quello di questi scambi con mia madre - al vigatese elaborato è stato un lavoro duro e preliminare, che ho fatto con me stesso. Scrivendo moltissime cose e cancellandole. Ho scritto migliaia di pagine, esercitandomi tutte le mattine come si esercita un pianista. Non si trattava di abbozzi di racconti ma di veri e propri esercizi: «lettera a un  signore incontrato all’edicola», «considerazioni sul pranzo di ieri »... le cose più disparate, nelle quali cercavo di elaborare il mio linguaggio. Ho distrutto tutto, io non lascio tracce, neanche le prime stesure dei romanzi. Non so perché, lo faccio d’istinto. L’unica cosa di cui esistono due versioni è proprio “Il corso delle cose”, e sulla differenza di linguaggio fra le due edizioni è stata fatta una tesi di laurea attorno alla quale c’è un aneddoto divertente. Diversi anni fa mi recai alla clinica Quisisana per sottopormi a una serie di visite e controlli. Mi portarono in una sorta di sotterraneo dove facevano le radiografie. L’addetto mi mise in posizione e poi andò dietro un vetro per azionare l’apparecchio. In quel preciso momento si aprì la porta e passarono due infermiere di cui una era bellissima, pareva finta, un’attrice di quelle serie americane ambientate negli ospedali. Allora istintivamente mi spostai e venni rimproverato. La ragazza si voltò e mi sorrise, doveva avermi riconosciuto. Dopo alcuni giorni ricevetti una telefonata dalla clinica: «Dottor Camilleri, sono l’infermiera che passò mentre lei stava facendo la radiografia. Ho i risultati dei suoi esami, avendo fatto anche il test dell’Hiv si tratta di una busta riservata e vorrei portargliela personalmente ». Quando venne confessò: «Era tutta una scusa, in realtà volevo portarle la mia tesi di laurea sulle due versioni de “Il corso delle cose”». Era infatti un’infermiera che si era laureata in lettere e la tesi era interessantissima, ma non fu pubblicata e io non la trovo più. Mi piacerebbe molto ritrovarla ma i traslochi mi hanno fregato e adesso poi, con la perdita della vista, non ho più il controllo dei libri, non so più dove sono.

Fino a dieci anni fa riuscivo a scrivere contemporaneamente romanzi storici e Montalbano, oggi che la cecità mi costringe a dettare le cose che scrivo, sarebbe impossibile. Io ho sempre scritto di mattina e alternavo: un giorno decidevo di scrivere Montalbano e quello dopo il romanzo storico su cui stavo lavorando. Per entrambi iniziavo sempre rileggendo, anche due volte se necessario, le ultime venti pagine che avevo scritto, in modo da entrarci dentro. Poi, quando sentivo di essere in grado di ricollegare la nuova scrittura alla vecchia, iniziavo a scrivere. Un’operazione assai più semplice da fare per i Montalbano che per i romanzi storici. Non ho mai sentito il bisogno di prendere appunti. Il 90 per cento della storia che voglio raccontare è già presente e organizzata nella mia mente. Per i romanzi storici ho alcuni brani iniziali, finali e centrali, che sono come i piloni di un ponte che reggono poi il resto. Per quelli di Montalbano è un po’ diverso: in quel caso mi costruisco il romanzo intero in testa, sempre senza appunti. Parto dal particolare che più mi colpisce e da lì costruisco il mio racconto, che quasi inizia a scriversi da sé. Quando sei in stato di felicità creativa, la scrittura tende a prenderti la mano. Nel “Birraio di Preston” c’è addirittura un intero brano che non è mio, è del racconto. Quando il prefetto in carrozza racconta alla moglie perché si è fissato a far rappresentare quell’opera, dice: «Perché se tu ti ricordi è stato lì, proprio alla rappresentazione del “Birraio di Preston” a Firenze che noi due ci siamo conosciuti». E qui finiva il capitolo. Le righe che seguono nascono dalle dita posate sulla tastiera, non sono mie: «No, caro, tu ti sbagli». «Come mi sbaglio? Non era Il birraio di Preston?». «Ma no, era la Celestina ». «Oh Gesu!». Ecco, queste cinque righe non sono mie, sono del racconto. È una cattiveria che mi venne così, tutto il romanzo si basa su un equivoco. Ovviamente nel mio lavoro ci sono dentro tutti gli autori che ho amato: Pirandello, Joyce, Faulkner, Gadda, Sciascia, e Simenon, ma il Simenon dei romanzi- romanzi, non di Maigret... sono autori che leggo e rileggo continuamente. Fra i classici antichi, sicuramente le Metamorfosi di Ovidio - a cui mi sono ispirato per tre miei romanzi: “Il sonaglio”, “Il casellante” e “Maruzza Musumeci” - e il “De rerum natura” di Lucrezio: li ho letti e riletti, sia in italiano che in latino. Lucrezio è un poeta assoluto. (...)

Le donne che descrivo nei romanzi sono, sì, donne che ho incontrato nella mia vita, ma non sono le donne che ho amato. Non ho mai scritto delle donne che ho amato perché credo che l’amore sia una straordinaria lente deformante. E poi in generale non parlo mai di me, è inutile cercare qualcosa di autobiografico nei miei libri, a meno che non sia espressamente dichiarato. “Esercizi di memoria”, per esempio, è esplicitamente autobiografico e racconto tutte cose che mi sono accadute, ma nei romanzi non c’è niente di mio. Le donne dei miei romanzi sono donne molto sensuali, molto carnali ma non per questo possono essere tacciate di non essere femministe. A me peraltro pare che stiamo vivendo un’ondata sessuofobica, forse eccessiva; oggi persino mettere la mano sul ginocchio di una ragazza è considerato una molestia. Credo che abbia ragione Catherine Deneuve, che ha detto «andiamoci piano, così finisce il gioco della seduzione». È anche vero che non è proprio una deriva recente. Io una volta sono stato addirittura accusato di essere un pedofilo. Andò così. Qualche anno fa ero ospite a “Che tempo che fa” e Fabio Fazio mi rivolse questa domanda: «Se lei fosse una donna, che donna vorrebbe essere?». Io, pensando alla mia pronipotina, risposi testualmente: «Vorrei essere una bambina di quattro anni perché a quell’età le bambine posseggono quella ingenua malizia, quella bellezza che poi con gli anni perdono e che per tutto il resto della loro esistenza si sforzano invano di riconquistare». Sul web si scatenò un linciaggio: «Camilleri pedofilo!». Ma ci fu anche chi disse: «Non avete capito un cazzo». Ad ogni modo un’associazione di padri di famiglia cattolici mi voleva denunciare. D’altronde io non posso capire tutto quello che sta accadendo oggi. Non posso essere contemporaneo al 2018. Io mi sono fermato all’invenzione della bomba atomica, della tv e della minigonna. Mi basta. La minigonna pare una cosa banale: in fondo si tratta di alcuni centimetri di stoffa. Pochi centimetri che però, grazie alla signora Mary Quant, hanno fatto una rivoluzione, che ho, diciamo così, gradevolmente vissuto. Ho visto i costumi sessuali cambiare da un giorno all’altro. Ricordo che io a un certo punto ho dovuto obbligare le mie allieve a venire in pantaloni a lezione perché avevo notato che con la minigonna erano inibite nel fare certi movimenti, tendevano a tenere le gambe strette, mentre a teatro era necessario essere totalmente liberi nei movimenti. Certo, il mondo del teatro e del cinema era già svezzato, è sempre stato sessualmente più libero. Credo sia dovuto a due elementi. Da un lato il fatto di dover interpretare molti ruoli implica da parte dell’attore una certa disinvoltura. Da sempre infatti le attrici, e quelle francesi sono rimaste leggendarie, sono note per la libertà dei costumi, anche quelle di uno-due secoli fa. L’altro motivo è senz’altro che si lavora in gruppo, con grande promiscuità e con un’intensità emotiva molto forte. C’è chi pensa che quando si invecchia lo sguardo nei confronti delle donne cambi, che non le si guardi (o non le si debba guardare) più con lo stesso desiderio e interesse. Ma chi l’ha detto? La pace dei sensi è la morte. La cosa che rimpiango più di tutte da quando sono diventato cieco è che non posso più ammirare la bellezza femminile. Le donne sono la meraviglia del mondo. 

Le parole che abbiamo pubblicato sono un lungo estratto di un numero speciale di MicroMega interamente dedicato ad Andrea Camilleri. Che conteneva un viaggio nella sua vita artistica e letteraria, attraverso le voci più rappresentative del suo universo: da Luca Zingaretti ad Alberto Sironi, da Carlo Degli Esposti, a Michele Riondino. C’è il vigatese in giro per il mondo, grazie ai traduttori che ne hanno accolto la sfida letteraria: Stephen Sartarelli, Pau Vidal, Moshe Kahn, Serge Quadruppani. “Il ricatto di Montalbano” è tra le ammissioni dello stesso scrittore: «Non solo Montalbano vende quello che vende, ma mi fa vendere anche i romanzi a cui tengo di più». Una sezione è dedicata alla trasposizione televisiva dei suoi libri. E una all’impegno politico e civile dello scrittore. Come nell’intervento di Giovanni De Luna che spiega perché gli storici del futuro troveranno nei suoi romanzi fonti utili a ricostruire il nostro tempo.

Camilleri: «La cecità mi ha reso libero. Non devo più vedere la mia faccia da imbecille». Colloquio a tutto campo con lo scrittore siciliano. Dal teatro, agli affetti, alla politica: «Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro». Roberto Andò l'08 giugno 2018 su L'Espresso. Tiresia è una figura che mi ha sempre affascinato e che ho coltivato nel tempo. Ricordo il piacere che ho provato quando ho letto la prima volta “La terra desolata” di Eliot. Fino ad allora di Tiresia avevo un ricordo non proprio glorioso, in teatro lo avevo visto interpretare da Annibale Ninchi, indubbiamente un grande attore, ma la sua recitazione era orientata a sopraffare il personaggio di Edipo, e mi sembrò persino ampollosa. Ricordo che, tornato a casa, presi il testo, lo lessi e fu allora che pensai che il personaggio avrebbe meritato un tono più dimesso. Proprio quello che ha fatto Eliot nel suo poema».

Andrea Camilleri, partiamo dunque da Tiresia. Quando hai incontrato per la prima volta questo personaggio?

«Quando diventa a tutti gli effetti personaggio, cioè leggendo Sofocle, l’Edipo Re».

Perché lo hai scelto come tuo eroe?

«L’idea di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità, nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia».

Com’è cambiata la tua vita da quando non vedi più?

«Primo Levi dice che riuscì a salvarsi dall’orrenda metamorfosi a non-uomo vissuta ad Auschwitz con la poesia. Io mi sono salvato con la scrittura. Pensavo di non poter più scrivere. Come fa un cieco a scrivere? Avrei potuto dettare, ma l’avrei dovuto fare in una lingua che non è esattamente la mia, cioè l’italiano. E non avrei più potuto scrivere i miei bei Montalbano in vigatese. Fortunatamente è intervenuta Valentina Alferj. I sedici anni vissuti accanto a me hanno fatto sì che potesse aiutarmi. Negli ultimi tempi, padroneggiando perfettamente la mia lingua, Valentina era in grado di correggere le bozze per conto mio e dunque al momento cruciale è stata la mia ancora di salvezza. Certo, la mia vita è mutata perché sto imparando una cosa abbastanza complicata, ma impararla a 93 anni non è così difficile per me, perché nella mia vita io non sono mai stato un uomo superbo, mai. È una colpa che non potrà mai essermi imputata. Da quando sono cieco sto imparando l’umiltà della dipendenza dagli altri. Gli altri erano già importantissimi per me, ma ora hanno acquisito una importanza che non è valutabile. Sono completamente dipendente dalla cortesia e dalla gentilezza di chi mi circonda. Mi sono dovuto abituare a tutto questo. Ma questa lezione di umiltà è stata comunque salutare, e l’ho accettata di buon grado».

Pensi che la cecità abbia influenzato la tua scrittura?

«No, credo di no. Forse mi ha fatto più riflessivo, o leggermente meno impetuoso. Insomma, oggi mi concedo uno spazio maggiore di riflessione».

Un illustre critico letterario, Silvano Nigro, sostiene che negli ultimi Montalbano tu cerchi di liberarti del romanzo giallo per approdare al romanzo tout court. Sei d’accordo?

«Se questo è vero, è dovuto a un piano. Gli ultimi Montalbano hanno la stessa scrittura dei miei romanzi storici, mentre prima si differenziavano. La scrittura dei Montalbano, sia pure in vigatese, era molto semplificata. Ora sono riuscito a non fare più distinzioni tra un romanzo storico, scritto rigorosamente, e i Montalbano, nei quali concedevo qualcosa anche alla casalinga di Voghera. Non ho più bisogno di questo, i due linguaggi possono essere uno solo».

Resta il fatto che tu sei uno scrittore per molti versi inclassificabile. Sei un grandissimo, amatissimo, scrittore di romanzi gialli ma scrivi anche romanzi che hanno un tono completamente diverso. In alcuni sembri metterti in ascolto del male, con risonanze dostoevskiane.

«Sì, ma direi che questo ascolto c’è sempre stato nei miei romanzi, anche in Montalbano. È la cosa che mi interessa di più. Da sempre. Negli altri a cui ti riferisci sondo un male che si può definire assoluto. Io sono stato un appassionato lettore di Bernanos, del suo “Mouchette”. Come classificheresti il male in “Mouchette”? Ecco, se c’è una influenza che rivendico è Bernanos».

Torniamo a Borges. Nel testo su Tiresia citi una sua frase: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.

«Sì, è un concetto che aveva già espresso in vario modo Shakespeare. Il mondo è un palcoscenico, il teatro è una metafora della vita».

E il teatro è al centro del tuo ultimo Montalbano, “Il metodo Catalanotti”. Il teatro sembra tornare nella tua scrittura come il luogo in cui rimettere tutto insieme. Questo accade sia nel testo su Tiresia, dove tu confondi ulteriormente le carte assumendo un triplice ruolo, d’attore, di persona e personaggio, sia nell’ultimo Montalbano, il cui sfondo è ambientato nel mondo del teatro d’avanguardia. Come mai?

«È un po’ come quelle fiamme che cerchi in tutti i modi di tenere a bada, ma che all’improvviso, a sorpresa, fanno una gran vampata. Se tu guardi la mia bibliografia, ti rendi conto che tra il primo romanzo e il secondo sono passati otto anni. Sono otto anni di silenzio totale. E sono quelli in cui cerco di dare l’addio al teatro. Perché il teatro è la mia vita. Da quando ho cominciato a fare teatro non sono più stato in grado di scrivere un rigo, neppure una poesia, un miserabile sonetto di quattordici versi. Non ci riuscivo più, il teatro mi aveva completamente permeato. Sono vissuto per il teatro, ho cercato di liberarmene, e ora sembra essere venuto il tempo di tornarci con libertà».

Cosa ti piaceva di più del teatro: il rapporto con gli attori? O con il testo?

«Mi piaceva vedere una mia idea di personaggio trasformata in carne e ossa. L’ho provato sommamente quando ho messo in scena “Finale di partita” di Beckett, dove non c’è movimento se non nella parola, è un lavoro sulla parola ridotta all’essenziale. Per me la parola è l’uomo. Spesso quando scrivo romanzi e deve entrare un personaggio nuovo non lo descrivo, lo faccio parlare. Mi chiedo: questo come parla? Una volta individuato il suo modo di parlare, ricavo il suo aspetto fisico dalle parole. Se parla così, non può che avere dei baffetti piccolini alla Hitler e dev’essere anche un pochino claudicante, capito?».

Perfettamente. Mi colpisce che tu citi Beckett e la tua regia di “Finale di partita” perché quando ho letto “Conversazione su Tiresia” l’ho visto un po’ come “L’ultimo nastro di Krapp”, lo stesso rapporto con la memoria, la stessa volontà di raccogliere frammenti di memoria esplosa. 

«È vero, ho fatto una sorta di “potage”».

Pensi che la vecchiaia sia anche umiliazione? Vedendo te non lo si penserebbe mai, anzi, si penserebbe il contrario.

«È il procedimento con cui se irrighi regolarmente un albero di arance lo preservi dalla morte, ecco, la mia irrigazione vitale è la memoria. Leonardo Sciascia diceva che da vecchi si è condannati alla presbiopia della memoria, cioè ti ricordi di un fatto che è accaduto quando avevi quattro anni e ti dimentichi di quello che hai mangiato il giorno prima. Ebbene, questa presbiopia è diventata vivissima in me. Per esempio, in questi ultimi giorni ho dialogato moltissimo con il mio nonno paterno. E dire che mi ero persino scordato come era fatto. Ora mi è tornato preciso, e mi è tornato anche il gioco che mi faceva fare. Poiché è morto quando io avevo appena compiuto tre anni, questa è una memoria di novant’anni fa. L’immagine è questa. Lui è malato, seduto su una poltrona accanto al letto, di fronte all’armoir con lo specchio. Io sono seduto sulle sue ginocchia, e lui mi dice: «Nenè, taliati ’u specchio». Io rispondo: «Nonno, ci sono». E lui, di colpo, mi butta fuori dallo specchio. «E ora?», chiede. «Non ci sono più, nonno», rispondo. E, di slancio, torno a riflettermi nello specchio. Questo gioco mi è tornato lucidissimo in questi giorni. Ecco, questa irrigazione continua mi tiene vivo, e produce ancora qualche frutto sull’albero».

Ti dispiace descrivermi la tua giornata?

«Posso dirti che per ora è buona. Comincia in bagno, e per tutto quello che sono i lavacri mattutini sono completamente autonomo. Basta che non mi spostino gli oggetti e riesco a farcela da solo. E finalmente respiro, perché mi devi credere, Roberto, ti dico la verità assoluta, io mi sono sempre odiato. Vedere questa faccia da imbecille ogni mattina allo specchio, essere costretto a guardarsi e a fare le smorfie, mi pesava. Io mi sono odiato da sempre, e ora finalmente non mi vedo più. Ah, che meraviglia! Sì, vado un po’ alla cieca, mi faccio qualche taglietto in più, pazienza. Quando sono vestito di tutto punto, me ne vengo qui, allo studio. Prima, quando ancora vedevo, mi mettevo immediatamente a lavorare al computer. Ora è un po’ diverso, resto un po’ da solo a riflettere. Valentina deve accudire alle sue faccende domestiche, poverina, e quindi arriva intorno alle dieci. In quell’ora in cui la aspetto rifletto su quello che dovrò dettarle. Quando arriva lavoriamo sino all’una meno dieci. Poi vado a mangiare, e, dopo, a riposarmi, un’abitudine che in questi ultimi anni è diventata obbligatoria. Mi alzo verso le tre e mezzo, e, nel pomeriggio, viene una ragazza, non sempre è la stessa, che mi fa da lettrice, o mi aiuta a fare le mie ricerche. Con lei lavoro sino alle sei e mezza, a quel punto stacco e sento un po’ di musica alla radio. Alle sette mi trasferisco nell’altro appartamento e con mia moglie guardiamo il telegiornale, poi ceniamo, e verso le undici e mezzo andiamo a letto. Questa è la mia giornata tipo. Ah, dimenticavo di dire che nel pomeriggio mi faccio anche leggere un po’ della posta che arriva. Se qualcuno mi manda un libro di poesie, dico alla ragazza di leggermene qualcuna, e se è il caso le dico di mettermelo da parte, oppure le dico che può toglierlo dai piedi. Aggiungo che nel pomeriggio sono continuamente interrotto da figlie, nipoti e pronipoti. Queste interruzioni non mi dispiacciono, perché io sono stato capace di scrivere al computer avendo due bambini di tre anni sotto il tavolo che mi davano pedate, urlavano e cantavano, e un altro che girettava per la stanza. Ecco, questo casino più che dispiacermi mi piace, perché ho sempre avuto bisogno di sentire la vita attorno a me, non ho mai capito il poeta che si chiude nella turris eburnea. Cosa ci stai a fare nella tomba? Così è accaduto che un giorno mia moglie entrasse nello studio e vedendo un macello di bambini, e io che continuavo tranquillo a scrivere, mi dicesse: «Tu non sei uno scrittore Andre’, sei un corrispondente di guerra!».

Nel testo su Tiresia accenni a certe discussioni avute con Pasolini. Di cosa si trattava?

«È una storia terribile. Ero stato incaricato di mettere in scena il suo “Pilade”. E siccome ero molto amico di Laura Betti, le chiesi di procurami un incontro con Pier Paolo per parlargli della mia idea di regia. Ci incontrammo e ne discutemmo, lui si trovò sostanzialmente d’accordo. Al terzo incontro lui mi chiede: «E gli attori chi sono?». Dico: «Cercherò di prendere dei ragazzi usciti dall’accademia, quelli che sono stati miei allievi». «Eh, no», fa lui. «Non mi fare un Pilade che parla perfettamente italiano». «Perché, tu come l’hai scritto?», gli chiedo. «In italiano», risponde. «Ma le voci educate non mi piacciono, prendi dei ragazzi di strada». «No», dico io, «con i ragazzi di strada questo testo non posso farlo». Insomma, ci accalorammo, tanto che io gli chiesi di rivederci, pensavo che questa cosa tra noi due andasse chiarita. Lui mi rispose che stava per fare un viaggio e che al ritorno mi avrebbe chiamato. Io andai a Bagnolo con mia moglie, e quando una sera accesi il televisore sentii la prima notizia del telegiornale: era l’assassinio di Pier Paolo. Fu tremendo. Dopo, mi rifiutai di mettere in scena Pilade. Non potevo più».

Come ti arriva, ora, il rumore di tutto quello che sta accadendo dal punto di vista politico in Italia?

«Purtroppo non mi arriva ovattato. Gradirei che mi arrivasse attutito, invece arriva molto forte. E soprattutto colpisce la mia impotenza, perché in altri tempi avrei scritto degli articoli, ora non posso più, non me la sento. È il motivo per cui intervengo raramente nelle trasmissioni televisive. Non vado mai in studio, non sopporto l’accavallarsi delle voci. Non vedendo, le urla mi confondono».

Per te che sei uno scrittore che da sempre dialoga con Pirandello - un Pirandello imparentato a Gogol - dovrebbe essere particolarmente interessante questo momento di finzioni, in cui la politica cerca di purificarsi ma sembra essere allo stesso tempo pura finzione. In Sicilia persino l’antimafia, per fortuna non tutta, è diventata finzione, e in campo nazionale la politica del nuovo spesso nasconde un forte tasso d’impostura. Come la vedi tu?

«Malissimo. Ho sempre pensato che la politica dovrebbe essere uno specchio lucidissimo. Sono stato abituato male, perché tutto si poteva dire degli uomini di Stato con i quali sono nato alla politica - si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Togliatti, Sforza - ma pensando a loro oggi mi commuovo. Quando l’Italia nella persona di De Gasperi venne chiamata a Parigi a discolparsi davanti ai vincitori e a dire quale sarebbero stati i propositi dell’Italia democratica, lui sapeva che si sarebbe trovato in quel teatro, da sconfitto, davanti ad americani, inglesi, russi, francesi, neozelandesi. La sera prima, nella sua stanza - questo lo ha raccontato Vittorio Gorresio - c’erano con lui Togliatti, Nenni, Sforza, Parri, tutti a verificare il documento che avrebbe letto e a dire «senti, che dici?, sostituiamo questa parola, scriviamo così», in un clima cioè di totale collaborazione. Ecco, questa è l’Italia. Pensa che al momento di andare sul palco, Sforza disse a De Gasperi «Alcide, cambiati la giacca, questa è un po’ lisa», e lui rispose «Ma io non ne ho altre». Allora Sforza gli si mise accanto, vide che erano su per giù della stessa taglia, si levò la giacca, e gliela porse. dicendo: «Mettiti la mia che è più nuova». Questa è l’Italia che ho amato. Quella di oggi, con questi personaggi, mi fa oscillare tra l’orrore e lo spavento».

Ti faccio l’ultima domanda da Tiresia. Se tu dovessi avvertire gli italiani di un pericolo futuro, se dovessi predire il rischio più grosso che attraversa l’Italia come comunità, quale diresti?

«Quello economico, con i suoi riflessi sul sociale. La bilancia è sensibilissima, basta una mezza parola per fare precipitare la situazione. Lo spread che prima si manteneva sino a 150 è salito sino a duecento appena uno di questi due proconsoli ha detto che bisogna ritrattare i contratti con l’Europa. Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro. E provo una gran pena. Mi sono occupato per tutta la vita di politica, da cittadino, e lasciare un’Italia così ai miei pronipoti mi fa pensare di aver fallito tutto».

Chi è Mariolina Camilleri, la figlia del grande scrittore siciliano. Cristiana Mastronicola il 18 Giuno 2019 su TPI. Andrea Camilleri non è solo il “papà” di Montalbano. Oltre alla straordinaria creatura letteraria, lo scrittore siciliano è padre (reale) di tre figli, avuti dalla moglie Rosetta Dello Siesto sposata nel 1957, e nonno di quattro nipoti: Alessandra e Arianna sono figlie di Andreina, Francesco e Silvia sono figli di Mariolina. Mariolina è la terzogenita di Andrea e Rosetta. La donna è nata a Roma, dove il papà si era trasferito alla fine degli anni ’50 e dove ha incontrato la moglie Rosetta. Nonostante il maestro si sia sempre rimproverato di non aver trascorso abbastanza tempo con i suoi figli, loro sono particolarmente legati a lui e al resto della famiglia. L’ultima dei tre figli di casa Camilleri ha, in un certo senso, seguito le orme del padre, scegliendo la strada della cultura. Mariolina è, infatti, una nota e apprezzata illustratrice. Diplomata allo IED (Istituto Europeo di Design), Mariolina ha anche insegnato tecniche pittoriche, collaborando per diverse riviste. I bambini sono stati da sempre al centro del suo lavoro. Con Mila Venturini, Mariolina ha dato vita a un corso di scrittura creativa rivolta proprio ai bambini. Ma c’è stato spazio anche per le opere del padre nella vita lavorativa di Mariolina. In un libro ha illustrato l’opera di Camilleri su Achille Campanile, ma per i più piccini. Mariolina è molto legata al papà e da lui ha ereditato lo stesso spirito del prendersi poco sul serio. “Questo è l’insegnamento più grande che mi ha dato e che poi è pure il messaggio che, con la sua ironia dell’assurdo, ha voluto trasmetterci anche Achille Campanile”, ha riferito Mariolina parlando del padre. In diverse occasioni alla donna è stato chiesto che cosa significhi essere la figlia di uno degli autori più grandi della letteratura contemporanea italiana. Lei, seguendo l’insegnamento del padre, ha risposto spiritosa: “In famiglia non gli diamo tutta questa importanza”. Il padre per lei è sempre stato fonte di ispirazione e sempre ha spinto la figlia a seguire la strada del disegno, incoraggiandola a fare della sua passione il suo lavoro. In più di un’occasione Andrea Camilleri ha manifestato il suo rammarico di non esser stato presente come avrebbe voluto: “Tutto questo lavoro però aveva un risvolto negativo, quello che non riuscivo a stare vicino alle mie figlie che intanto crescevano. Stavo troppo tempo fuori casa: l’esempio più lampante è dato dallo svolgimento del tema ‘Mio padre’, fatto da tua nonna Andreina che allora andava alle elementari. “Mio padre quando torna a casa litiga con mia madre. Poi si chiude nello studio e legge copioni. La sera esce e torna il giorno dopo. Qualche volta sa fare andare la lavatrice”. A mia difesa dirò che proprio in quel tempo Rosetta e io vivevamo felici in pieno accordo, quindi quelli che Andreina credeva litigi erano normalissime discussioni familiari. Era vero che io uscivo la sera per andare a provare in teatro ma tornavo verso la mezzanotte quando la bambina dormiva, perciò per lei io rincasavo il giorno dopo”.

UN INCIDENTE O UN TENTATO SUICIDIO? Marco Castoro e Davide Desario per Leggo il 18 giugno 2019. «Montalbano finisce quando finisco io. La sua fine l'ho già scritta 13 anni fa. Ma Montalbano è un personaggio letterario...». Lo ha ripetuto più volte Andrea Camilleri che a 94 anni è ancora lo scrittore italiano che vanta il più alto numero di lettori. Orgoglio nazionale della Sicilia. Anche nel 2018 ha confermato il suo primato e il nuovo libro sta andando alla grande. Il commissario Montalbano, oltre che nei romanzi, continua a inchiodare i telespettatori (12 milioni a episodio inedito). E la sua fama sta crescendo anche all'estero, facendo la fortuna della Rai. Ma il 4 dicembre del 2018 è accaduto qualcosa che metterebbe i brividi anche al commissario più popolare d'Italia. Dall'abitazione romana di Camilleri, in zona Prati, viene chiamata l'ambulanza con una telefonata al 112. Un'emergenza. Proprio per l'anziano Camilleri. Pochi minuti e i medici del 118 arrivano. E quando salgono al quarto piano del palazzo si trovano davanti il maestro, insanguinato, con una seria ferita sul polso sinistro inferta da una lametta che ha tagliato profondamente. Una situazione complessa. Anche per l'età avanzata dello scrittore. Il personale medico suggerisce l'immediato ricovero in ospedale. Ma il rifiuto è categorico. Probabilmente per mantenere il massimo riserbo. Così ai medici non resta altro che prestare tutte le cure del caso a Camilleri tra le sue mura domestiche. Cosa è successo quel 4 dicembre? Un incidente? Una lite? Il maestro aveva deciso di farla finita? Camilleri in una recente intervista aveva confessato: «In questo silenzio che si sta creando dentro di me mi è venuta la voglia di intuire - non di capire perché sarà assai difficile capirla - cosa possa essere l'eternità». Che cosa sia accaduto sei mesi fa resta e resterà un mistero che contiene il grande dubbio di una vita.

E Camilleri disse: "Vorrei l’eutanasia, quando sarà il momento. Non temo la morte". Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. «Vorrei l’eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi». Ecco, Andrea Camilleri non andava sempre preso alla lettera. A volte esagerava, inventava, o mentiva: perché Andrea Camilleri non sarà dimenticato. Ma era serio quando aggiungeva: «Mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire». Quando raccontava, le sue parole si sarebbero potute registrare e stampare senza cambiarne una, al limite infilando qui e là «figghiu», «tanticchia d’olio» e ovviamente i «cabasisi». Amava parlare di suo padre Giuseppe, «un uomo leale, ironico, coraggioso, generoso. Insomma: Montalbano». Il padre di Andrea, però, era fascista. Insomma, uno scrittore vissuto e morto comunista ha modellato il proprio eroe — forse il personaggio più popolare della letteratura e della fiction europea degli ultimi vent’anni — su un capo milizia che aveva fatto la marcia su Roma. Non a caso, raccontava Camilleri, sua madre — prima di sposarlo — detestava suo padre. Lo vedeva passare con manganello, fez e camicia nera, e lo considerava «un delinquente di prim’ordine». A Porto Empedocle gli scontri furono duri. Giuseppe Camilleri, già veterano della Grande Guerra — uno dei pochi ufficiali siciliani della Brigata Sassari — era il leader delle squadracce; poi divenne segretario del fascio. «Mia madre fu costretta a sposarlo: matrimonio combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Ma lei cambiò subito idea sul marito. Scoprì un uomo meraviglioso – narrava Andrea -. E’ stata mia moglie, che l’ha conosciuto bene, a farmelo notare: “Montalbano è per tre quarti tuo papà, e tu hai scritto una sua lunga biografia”». Un episodio in particolare accaduto a Giuseppe Camilleri sarebbe potuto accadere a Montalbano. Il capo dei comunisti di Porto Empedocle era un sarto: Salvatore Hamel. Ala dura del partito, tipo Pietro Secchia. Cinque anni di carcere, sei di confino. Tornato a casa, faceva la fame. Papà Camilleri volle aiutarlo, ma alla sua maniera: «Mastro Turiddo, fate una bella divisa nera per me e per quattro miei amici, e non prendetela come un’offesa». Generosità, ironia, rispetto dell’avversario; tutte cose da Montalbano. «Quando mio padre morì - ricordava Andrea - al passaggio del tabuto, del feretro, Turiddo Hamel, tutto vestito di nero, s’inchinò fino a terra». Giova ripeterlo: non tutto quello che Camilleri raccontava andava preso alla lettera. Diceva ad esempio di essere stato tra i giovani siciliani che avevano seppellito Pirandello, morto nel 1936, quando lui aveva undici anni. Il Nobel aveva chiesto di essere cremato e che le ceneri fossero disperse nella contrada in cui era nato, Càvusu, dal greco Kaos. Ma il vescovo di Agrigento rifiutò di celebrare le esequie a un’urna. Alcuni discepoli di Pirandello affittarono una bara, in cui misero le ceneri, e riuscirono così a compiere le ultime volontà del maestro. Tra loro c’era il piccolo Andrea. Fu chiamato alle armi il primo luglio 1943. Si presentò alla base navale di Augusta e chiese la divisa. «Quale divisa?» gli risposero, e lo mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La guerra di Camilleri durò nove giorni. «Nella notte dell’8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando”. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!”. Arrivarono gli americani e abbatterono tutto con i carri armati. In testa c’era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una scheggia. Il generale batté con le nocche sull’elmetto del negro, e la jeep si fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono sedici uomini. Io ero annichilito dalla paura. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi in un pianto dirotto. Poi chiesi chi fosse l’uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che avemo; ma como omo è fitusu. S’acchiama Patton”». Nella Sicilia liberata dal nazifascismo, gli amici di Camilleri rifondarono ognuno un partito. Uno, la Dc. Un altro prese il Psi. Lui decise di prendersi il Pci. Ma gli ufficiali americani dissero di no; più in là dei socialisti, niente. «Così andai dal vescovo. Lui ci pensò su e acconsentì: “Se qualcuno deve fare il partito comunista a Porto Empedocle, meglio tu di un altro”». Poi venne Portella della Ginestra. «Era il primo maggio. Al mattino mi sbronzai, per festeggiare. Poi mi dissero della strage di compagni, la prima strage politica, ordita per impedire al Pci di governare. Vomitai fiele per il resto del pomeriggio. Da allora non ho più toccato un goccio di vino». Le sigarette, sì. Quando non era ancora uno scrittore di successo, vedeva sovente passare Moravia sotto casa, in zona Rai, e fermarsi davanti alle vetrine del salumiere. «Bestemmiava tra sé, credo perché non poteva mangiare le leccornie che guardava. Non ho mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola». E Pasolini? «Mi chiesero di portare a teatro il suo Pilade. Andai a trovarlo a casa della comune amica Laura Betti. Pierpaolo si raccomandò che prendessi gli attori dalla strada, non dall’accademia. Gli risposi che così gli spettatori non avrebbero capito nulla; piuttosto avrei rinunciato. “Devo partire per un viaggio, ci sentiremo al mio ritorno” rispose Pasolini. Lo ammazzarono pochi giorni dopo». Il primo romanzo di Camilleri, «Il corso delle cose» venne rifiutato da dieci case editrici e uscì da Lalli, un editore che stampava i libri a pagamento ma per quella volta fece un’eccezione e lo pubblicò gratis. Del secondo, «Un filo di fumo», si accorsero Gina Lagorio e Livio Garzanti. Una vocazione tardiva, dopo una vita da insegnante al centro sperimentale, regista Rai, produttore delle serie di Maigret e Sheridan. Poi un giorno Camilleri suggerì a Leonardo Sciascia di scrivere un saggio sulla torre di Carlo V a Porto Empedocle, che fu teatro di un eccidio oscuro di cui è rimasta traccia nelle leggende locali: 114 uomini uccisi alla stessa ora, nello stesso luogo e nello stesso modo. Erano scoppiati i moti del 1848. Piuttosto che vedere liberi i reclusi, i carcerieri li ammazzarono facendo esplodere due bombe e chiudendo le condotte di areazione. Leonardo disse ad Andrea che la storia gli piaceva, ma avrebbe dovuto scriverla lui. Nacque così «La strage dimenticata», Sellerio. Il primo di una serie di successi. «Devo molto anche a Maurizio Costanzo - riconosceva lui -. Mi portò in tv e disse: a chi compra il libro di Camilleri e non è contento, rimborso i soldi io. Poi si rivolse a un altro ospite del suo show, Pietro Calabrese, allora direttore del Messaggero, e gli suggerì di farmi collaborare. Cominciai così a scrivere pure sui giornali». Per Camilleri, «Sciascia era un anticomunista trinariciuto, e questo ci costò qualche litigata. Si è servito della politica per i – nobili – fini suoi. Gli pesava molto essere deputato ma gli interessava far parte della commissione Moro, per avere accesso a certi documenti. La litigata più dura fu quando, nei giorni del rapimento, Leonardo andò a fare visita a Berlinguer insieme con Guttuso. Berlinguer disse che c’erano poche speranze di ritrovare Moro vivo, poiché nella vicenda erano collusi la Cia e il Kgb. Sciascia lo scrisse sul Corriere, Berlinguer smentì. Chiamato a testimone, Guttuso inevitabilmente disse che Leonardo non aveva capito bene. Lui se ne lamentò con me, ma io presi le difese di Guttuso: “Tu hai sicuramente ragione, ma Renato siede nel comitato centrale del partito, che cos’altro poteva dire?”. Sciascia si arrabbiò moltissimo: “Tutti cusì siete voiauti communisti, meglio il partito della verità e dell’amicizia!”». Nella politica di oggi, a Camilleri non piaceva nessuno. A Berlusconi dedicò una poesia che lesse in piazza Navona a una manifestazione dei girotondi: «Ha più scheletri dentro l’armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici/ Teme che le ante dell’armadio si aprano/ e che torme non di fantasmi ma di giudici in toga/ balzino fuori agitando come nacchere/ tintinnanti manette…». D’Alema gli ispirò il personaggio del diavolo «Delamaz», «un bruco coi baffetti che pilotava ‘na varca sia pure fatta di foglie… Dicivano macari che era ‘ntelligenti, ma grevio e scostante…». Prodi? «Dovrebbe fare un corso di dizione. Tra una sua parola e l’altra passano due treni accelerati di una volta». Stimava meno ancora Renzi, e alla vigilia del referendum disse al Corriere che si sarebbe fatto portare a braccia – lui cieco – al seggio pur di votare No. Ma non era tenero neppure con i Cinque Stelle: «Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti». Figuriamoci Salvini: «Mi fa vomitare». Era però grande amico dell’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, che definiva «il primo risarcimento del Piemonte alla Sicilia dai tempi della conquista. Ci siamo conosciuti per caso: ero a Torino, Marcello Sorgi che allora dirigeva La Stampa mi aveva organizzato una cena con Fruttero e Lucentini. All’ultimo momento cambiò programma: “Andrea, ti porto da Caselli”». Fu innamoramento, non incrinato neppure dall’esito del processo Andreotti. «E perché mai? Non sono stati forse dimostrati i suoi rapporti con la mafia precedenti il 1980? E ci ricordiamo cosa accadde in quegli anni a Palermo? Chinnici saltato per aria, Piersanti Mattarella assassinato?». Di Andreotti però conservava un biglietto amichevole. «Fu quando, di passaggio a Catania, rilasciai un’intervista a una minuscola tv locale, del tutto ignota fuori dalla Sicilia e tanto meno a Roma, in cui distinsi l’atteggiamento di Berlusconi che sfuggiva ai giudici da quello di Andreotti che li affrontava. Due giorni dopo mi arrivò un suo scritto: “Grazie per avere capito il mio calvario. Suo G.A.”». Non aveva pudore a parlare della cecità, cui aveva dedicato uno splendido monologo ispirato dalla figura di Tiresia, l’indovino. «Da quando non vedo più, i pensieri tinti — così Camilleri chiamava la paura della morte — mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina Alferj, cui detto i libri: è l’unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese. Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta, mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a ricostruire le immagini. L’altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di Piero della Francesca. Ho pensato all’ultima volta che l’ho vista, a Urbino, e l’ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È stato meraviglioso».

Il messaggio di Zingaretti: «Addio maestro e amico,  alla fine mi hai spiazzato». Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Corriere.it. Con un commovente post su Instagram Luca Zingaretti saluta lo scrittore Andrea Camilleri. «E alla fine mi hai spiazzato ancora una volta e ci hai lasciato», scrive il commissario Montalbano della fortunata fiction. «Nonostante le notizie sempre più tragiche, ho sperato fino all’ultimo - ha scritto - che aprissi gli occhi e ci apostrofassi con una delle tue frasi, tutte da ascoltare, tutte da conservare». «E invece è arrivato il momento di ricordare. Di cercare le parole per spiegare chi sarà per sempre per me Andrea Camilleri. Un Maestro prima di tutto, un uomo fedele al suo pensiero sempre leale, sempre dalla parte della verita' che ha raccontato tutti noi e il nostro paese. Mancherai. È inevitabile, è doveroso. Per la tua statura artistica, culturale, intellettuale e soprattutto umana. Le tue parole resteranno sempre con la stessa semplicità e con l'immensa generosità e saggezza con cui le hai condivise, da mente libera e superba quale sei. Ma soprattutto mancherai a me perché in tutti questi anni meravigliosi in cui ho incrociato la mia vita con quella del commissario, mi sei stato amico. Ho avuto la strana sensazione che bastasse un tuo tratto di penna a cambiare la mia vita». «Ho vissuto accanto a te, nel tuo mondo, quello che avevi creato, quello che ti apparteneva perché uno scrittore non può che riportare se stesso nelle cose che scrive. E ho imparato tantissimo. Il rispetto per le persone, tutte, per se stessi, e per le persone deboli. Perchè il tuo commissario è così che la pensa. A volerti bene no. Quello già sapevo farlo dai tempi dell’accademia, quando non ci trattavi da allievi, ma piuttosto da colleghi. Ho imparato che il valore delle persone non c’entra nulla con quello che guadagnano, con le posizioni che ricoprono, con i titoli che adornano il loro cognome: le persone si valutano per quello che sono. Adesso te ne vai e mi lasci con un senso incolmabile di vuoto, ma so che ogni volta che dirò, anche da solo, nella mia testa, “Montalbano sono!” dovunque te ne sia andato sorriderai sornione, magari fumandoti una sigaretta e facendomi l’occhiolino in segno di intesa, come l’ultima volta che ci siamo visti a Siracusa. Addio maestro e amico, la terra ti sia lieve! Tuo Luca».

Renato Franco per il “Corriere della sera” il 18 luglio 2019. «Buon viaggio Maestro... Io lo chiamavo sempre e solo in questo modo, il Maestro». Fiorello ricorda così lo scrittore che ha cesellato in una delle sue imitazioni più riuscite. Camilleri il solista delle sigarette, il fumatore disperato per lo sciopero dei tabaccai, l' uomo che per trovare la strada di casa seguiva i suoi mozziconi, lo scrittore che concepiva la sua arte solo come mezzo di sostentamento per comprare stecche una dopo l' altra: «Fumare non è un vizio, è vocazione» diceva il Fiorello-Camilleri. «Il Maestro non se l' è mai presa, anzi era divertito».

Come vi eravate conosciuti?

«Fu ai tempi di Viva Radio2 perché Camilleri abitava a qualche numero civico di distanza dagli studi di via Asiago, a Roma. Lo vedevo ogni mattina: il Maestro faceva il giro del palazzo perché il dottore gli aveva detto che doveva fare moto, il perimetro del palazzo era la sua ginnastica quotidiana».

Lei lo vedeva dalla famosa finestra di «Viva Radio2»...

«Mi affacciavo e lo chiamavo: Maestrooo, che ci fa con quella stecca di sigarette sotto il braccio? Lui guardava in alto e con la sua la sua voce unica mi rispondeva: eh, fino a questa sera ci devo arrivare».

Nacque così la sua imitazione?

«Sì, quella battuta sulle sigarette fu l'inizio di tutto, da lì venne l' imitazione di Camilleri, immaginato come un fumatore incallito, sempre con la sigaretta accesa».

Lei propose anche a Camilleri di fare lo spot della trasmissione con Marco Baldini.

«Era un video dove mise a disposizione la sua ironia: lui camminava in via Asiago, io e Baldini lo seguivamo a piedi, si girava verso di noi e ci attaccava: - Ma che minchia volete? - Volevamo solo dirle che inizia Viva Radio2. - E che minchia me ne fotte...Fu di una disponibilità rara».

Tra i tanti incontri quale la fa sorridere ora?

«Dovevo fare l' audiolibro di un suo romanzo. Mi fermò subito: Fiorello, non l' hai letto, è vero? In effetti proprio questo non ho letto Maestro, mi dispiace... Quante risate...».

Da «cabasisi» a «camurrìa»  e «ammazzatina»: le parole di Montalbano che sono diventate anche un po’ nostre. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Corriere.it. Una parola gentile e allegra che ormai mette di buonumore e stempera anche le situazioni più tese. Quelle in cui si usano locuzioni non proprio dolci come “una rottura di cabasisi”, “scassare i cabasisi”, “non mi rompa i cabasisi” e simili. Eppure con la dolcezza ha a che fare: deriva dalle parole arabe habb, bacca, e haziz, dolce. I cabasisi (nome scientifico della pianta: Cyperus esculentus; zigolo dolce in italiano) sono infatti dei piccoli tuberi commestibili dal sapore dolciastro. È una delle parole che più riportano alla mente il dottor Pasquano, lo scorbutico medico legale dei romanzi di Camilleri.

Andrea Camilleri, il successo arrivato a 67 anni e i libri in 120 lingue: “dialetto per diletto” e umanità, così si è fatto capire in tutto il mondo. Con lo scrittore siciliano se ne va una delle stelle di riferimento della letteratura contemporanea che da direttore di produzione in Rai fu "scoperto" all'età della pensione da Sellerio, arrivando a vendere oltre 10 milioni di copie. Con il suo "vigatese" (lingua pittoresca e standardizzata) è riuscito a farsi capire da chiunque, con il suo eloquio ipnotico ha vissuto una terza giovinezza nel suo agire pubblico e politico, da uomo di sinistra. Davide Turrini il 17 luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Andrea Camilleri è morto: aveva 93 anni. Camilleri sono. Andrea Camilleri è morto. Avrebbe compiuto 94 anni il prossimo settembre. Se ne va una delle più popolari e maestose stelle della letteratura contemporanea, tradotta in 120 lingue, venduta in oltre 30 milioni di copie. Uno scrittore che con quel “dialetto per diletto” usato per il suo commissario Montalbano è diventato una pietra miliare della scrittura italiana. La lingua della propria regione trasformata in passepartout nazionale. Il “vigatese”, dialetto standardizzato e italianizzato, proverbiale, pittoresco e continuamente spiegato. Con quei verbi appuntiti, gli aggettivi e sostantivi irruviditi, il miracolo linguistico Camilleri – il suo “italiano bastardo”, quel “flusso di un suono” – si è fatto case-study espressivo unico, prepotente e innegabile. Ben oltre la Ferrante-mania o le radicali genialità stilistiche di un Gadda. Camilleri si è fatto capire da chiunque. E parafrasando clandestinamente Alberto Moravia“abbiamo perso prima di tutto un romanziere, e di romanzieri ne nascono solo tre o quattro in un secolo”. Poi c’è l’invenzione del personaggio letterario. E qui forse c’è un pizzico in più di casualità nel successo che di furbesca premeditazione. Salvo Montalbano, commissario come Maigret, con una “o” aggiunta in omaggio al grande Manuel Vazquez Montalban e al suo Pepe Carvalho, omo di ciriveddro e d’intuito, è una figura cesellata a tutto tondo, alquanto burbero e spigoloso, con un passato che i lettori hanno imparato a scoprire pagina dopo pagina. Nulla di eccezionale, ma tutto di superlativo. Complice il faccione calvo di Luca Zingaretti in tv, e la regolarità con cui Camilleri e la sua saga edita da Selleriohanno trascinato verso i piani alti delle vendite il giallo, Montalbano ha assunto il valore di archetipo letterario in mezzo ad un profluvio di epigoni più o meno maldestri, più o meno scopiazzati. Il caso è anche dietro all’affermazione di Camilleri scrittore. Nel 1992, alla non più giovane età di 67 anni, un signore siciliano che aveva lavorato come direttore di produzione in Rai, drammaturgo e “tragediatore” per il teatro sul finire degli anni Cinquanta, insegnante di regia al Centro Sperimentale di Roma fin verso i Settanta, comincia a mietere successo di critica e lettori con il suo libro La stagione della caccia (Sellerio). Qualche centinaio le copie acquistate dei suoi romanzi e delle sue poesie per i volumi pubblicati silenziosamente negli anni Ottanta. Scartato e dimenticato da parecchi editori per decenni, dall’anonimato letterario, Andrea da Porto Empedocle (Agrigento) si scopre scrittore popolare quando è già in fila alle Poste per le prime mensilità Inps. Il Commissario Montalbano in nemmeno due anni diventa marchio di fabbrica e macchina da guerra nel vendere quei piccoli volumetti blu Sellerio come non era riuscito ad alcun autore. Dal 1994 con La Forma dell’acqua, la saga, anzi la formula “Montalbano” è stata riprodotta fino ad oggi in altri 37 volumi, alcuni di raccolte, altri in collaborazione con colleghi, ma sempre con il mitico commissario protagonista. “Tutti i romanzi di Montalbano si compongono di 180 pagine conteggiate sul mio computer, divise in 18 capitoli di 10 pagine ciascuno”, spiegò Camilleri in un’intervista nel 2010. “Finirà Montalbano – affermò nel 2018 – nel momento nel quale finisco io finirà anche lui, ma Montalbano non muore e non va nemmeno in pensione”. Camilleri l’aveva raccontato un paio di anni fa. Il metaromanzo pronto dai primi anni Duemila, con Montalbano che dialoga con Camilleri e a sua volta con il Montalbano della tv, da pubblicare solo dopo la sua dipartita. Stava provando ad intuire, “non a capire”, cosa fosse l’eternità, il 93enne scrittore siciliano, 60 sigarette al giorno, ironia apparentemente distaccata e improvvisamente accesa e puntuta, eloquio magmatico e ipnotico. Sposato dal 1957 con Rosetta Dello Siesto, tre figlie, quattro nipoti, Camilleri ha vissuto una sorta di terza giovinezza anche nel suo agire pubblico e politico. Non ha mai nascosto di essere un uomo di sinistra, modello vecchio partito comunista, con relativa ricollocazione odierna post ’89. Antiberlusconiano subito nella galassia Micromega, dipietrista con il magistrato in politica, vicino alla Lista Tsipras (e poi lontanissimo) alle Europee del 2014, per il No contro Renzi al referendum del 2016 (fece diverse visite mediche e si fece accompagnare in cabina elettorale per poter votare nonostante l’incipiente cecità), infine sarcastico sui 5 Stelle e furente su Salvini con in mano il rosario durante un comizio (“mi fa vomitare”), Camilleri è tornato recentemente a teatro sul palco del Teatro Greco di Siracusa per un’indimenticabile “interpretazione” da attore supremo con Conversazioni su Tiresia, con grande successo anche televisivo. Avrebbe dovuto esibirsi per la prima volta alle antiche Terme di Caracalla, il 15 luglio, con lo spettacolo che racconta la sua Autodifesa di Caino. “Se potessi vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto, passare tra il pubblico con la coppola in mano” aveva detto. Perché dietro a quell’omone dal vocione ingrossato e reso roco dalla nicotina, dietro all’aura dell’infallibile Montalbano, ci è sempre sembrato scorgere una bonarietà e un’umanità infinita che da oggi ci mancherà come per un cristiano il Vangelo sul comodino. Così si è fatto capire in tutto il mondo.

Morto Camilleri, i libri che usciranno postumi: «Riccardino» e un saggio. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Cristina Tagliettti, Alessandra Arachi, Marisa Fumagalli su Corriere.it. Era previsto in autunno il nuovo libro di Andrea Camilleri: non un Montalbano, ma un testo sulla scrittura per il suo editore di sempre, Sellerio. Proprio nei giorni prima del malore, lo scrittore stava ragionando sulle diverse opzioni di titolo con l’editore. Il progetto era ben avviato, la pubblicazione potrebbe slittare ma dovrebbe uscire entro l’anno. Non si sa, invece, quando potrebbe arrivare tra le mani dei lettori il famoso Riccardino, come lo aveva ribattezzato il suo autore che ne aveva parlato spesso: il volume che contiene l’uscita di scena (non la morte) del commissario Montalbano, custodito dalla casa editrice palermitana. Un affettuoso accordo con Elvira Sellerio aveva sancito che sarebbe stato pubblicato postumo. Nessun altro lo ha letto, non ha voluto farlo nemmeno Antonio, il figlio di Elvira che ora guida la casa editrice con la sorella Olivia. I lettori sperano che prima dell’uscita di scena ci sia qualche altro Montalbano nei cassetti, anche perché Camilleri era uno scrittore molto prolifico. Ieri il marchio palermitano ha dato l’addio al suo simbolo con una foto e un messaggio pubblicati sui social. Un volto sorridente e una frase — «Con immenso affetto e infinita gratitudine salutiamo Andrea Camilleri» — rendono omaggio a un rapporto lungo oltre 30 anni. A Sellerio infatti Camilleri è rimasto sempre fedele, a parte qualche concordata scappatella (con Mondadori, ma anche con Rizzoli, Skira, Bompiani e Salani) che sarebbe stata pericolosa se tra i due non si fosse instaurata subito, fin dal primo incontro a Palermo, quella sorta di «confidenza reciproca e spontanea» durata fino alla morte della Signora, nel 2010, e poi continuata con Antonio. «È inevitabile che tu un giorno o l’altro finirai col mettermi le corna. Ma attento: posso perdonarti solo se mi tradisci con Marilyn Monroe e non con una donnetta qualsiasi»: è lo stesso scrittore a ricordare quell’avvertimento della Signora nel volume La memoria di Elvira (Sellerio, 2015). Quando lei pronunciò quella frase i libri di Camilleri avevano cominciato a vendere bene e a casa dello scrittore avevano iniziato a fioccare gli inviti, anche da parte di quegli editori che, per 10 anni, li avevano rifiutati perché scritti, a parer loro, «in un modo incomprensibile». Elvira Sellerio e Andrea Camilleri si erano conosciuti nel 1983, grazie a Leonardo Sciascia, a cui lo scrittore aveva portato i documenti della Strage dimenticata. «Mi aspettavo di trovarmi di fronte, va’ a sapere perché, una sorta di virago, una donna dai modi imperiosi e sbrigativi. Senonché appena la guardai e appena mi accorsi di come mi guardava, mi resi conto che, in un attimo, ogni mio disagio era scomparso di colpo. Mi capitò di sentire una strana sensazione di familiarità, come se ci fossimo conosciuti da gran tempo e ora riprendevamo un discorso che era stato interrotto», scriverà Camilleri ricordando quel primo incontro. La pubblicazione della Strage dimenticata segna l’inizio di un’amicizia rara anche se, per gli 8 anni successivi, Camilleri non darà più niente alla Signora per dedicarsi al suo «lungo addio» al teatro. Eppure la va a trovare anche tre o quattro volte l’anno, sempre nella sede di via Siracusa. Trascorrono il tempo a parlare non di letteratura ma di politica, avvenimenti, fatti privati. È quella che Camilleri definisce «l’amicizia siciliana» fatta anche di silenzi e occhiate, del «piacere di sentirsi l’uno accanto all’altro». Lui arrivava, percorreva il corridoio foderato di libri che conduceva al suo ufficio, entrava, lei lo accoglieva allargando le braccia e dicendo: «Mio amico del cuore». Lui ricambiava chiamandola «Elvirù». Quando, nel 1998, Mondadori pubblica Un mese con Montalbano, Sellerio ha già mandato in libreria 4 volumi della serie del commissario di Vigàta e 5 romanzi storici. Sono anni difficili per la casa editrice, la fuitina di un autore che comunque vende 25 mila copie con il grande editore potrebbe essere fatale. Non sarà così: il passaggio con Mondadori (che venderà 100 mila copie di Un mese con Montalbano), insieme alla prima puntata della serie televisiva con Luca Zingaretti, trasmessa quell’anno, sdogana, anche presso il grande pubblico, uno scrittore fino a quel momento di nicchia. Il suo nome e il suo successo hanno contribuito a fare della casa palermitana un punto di riferimento, non solo per il giallo, non solo siciliano. È lui, per esempio, a consigliare la coppia svedese Maj Sjöwall e Per Wahlöö, anticipando il filone del thriller scandinavo. Con Sellerio, Andrea Camilleri ha costruito una storia editoriale straordinaria, ma fino all’ultimo ha avuto diritto alle sue fuitine, come quella di Km 123, romanzo fatto di dialoghi, scritto per celebrare i novant’anni dei Gialli Mondadori.

La morte di Montalbano? Il giallo nel libro postumo custodito da Sellerio. Claudio Rizza il 18 luglio 2019 su Il Dubbio.  Venticinque milioni di copie, 93 anni fumati al ritmo di 60 sigarette al giorno, e una certezza: è il pensiero della morte che aiuta a vivere. La morte di Montalbano? Forse, odiando la banalità e cavalcando l’ironia, avrebbe risposto a chi ora si duole della voragine appena aperta nella cultura italiana che i suoi cento lavori, i 26 romanzi e i 25 milioni di copie vendute, oltre a qualche miliardo di telespettatori, quel buco l’hanno già riempito. Tranquilli. Se ne va, Andrea Camilleri, lasciando un ultimo segreto che moltiplicherà copie e ascolti: l’ultimo atto di Salvo Montalbano, consegnato alla Sellerio col patto di pubblicarlo dopo la morte e che Antonio Sellerio dice, per scaramanzia, quindi di non averlo mai aperto, neanche un’occhiata di straforo. Si deciderà nelle prossime settimane quando pubblicarlo e se, come tanti si aspettano, dovremo celebrare il secondo funerale, quello persino più doloroso del nostro eroe, il commissario di Vigata più amato del terzo millennio. Salvo, uomo umanissimo dalla testa ai piedi fin dentro lo stomaco, amante dei profumi e sapori del mare in cucina e sulle donne, tanto sensibile da scantarsi quando si calava negli abissi dell’animo umano. Perché il crimine rivela spesso precipizi terribili e inimmaginabili, voragini inspiegabili e folli. Camilleri ha voluto provare al mondo che si può tranquillamente arrivare a 93 anni fumando 50- 60 sigarette al giorno senza morire d’infarto ma facendolo venire agli altri, circondato da gente che ti rompe i cabasisi, da camurrie d’ogni tipo, da rompiscatole che devi catafottere, da tutta quella vita ossessiva che ci circonda e che trama contro la nostra tranquillità. La Crusca dice che ha creato una lingua, ma in realtà ha usato a suo piacimento il dialetto siculo piegandolo per quanto possibile alla comprensione dei nordisti, senza bisogno del dizionario, che se non ti capisce nessuno a che serve? Ha condito il tutto con un forte impegno civile e la sua etica di sinistra. Però anche tutta la destra, più o meno fascista, lo celebra senza retropensieri. Nonostante il «vedere Salvini che impugna il rosario mi dà un senso di vomito». Un’unanimità incredibile, che sembra finta ma non falsa, per questo Paese completamente slabbrato. «E’ il pensiero della morte che aiuta a vivere»: hanno ragione Montalbano e il suo profeta.

Marco Travaglio per il “Fatto Quotidiano” il 18 luglio 2019. Ci vedemmo un anno e mezzo fa, prima delle elezioni-terremoto del 4 marzo 2018. Nella sua casa romana, più biblioteca che casa, in via Asiago, a due passi dal palazzo di Radio Rai. Andrea Camilleri l' avevo incontrato qualche mese prima a teatro, alla prima di uno spettacolo con Moni Ovadia su un suo racconto. E mi aveva invitato a fare due chiacchiere. Non ci vedevamo da quando aveva aderito con entusiasmo alla campagna del Fatto per il No alla schiforma costituzionale Renzi-Boschi. Come del resto a tutte le nostre campagne di impegno civile, da quelle contro il berlusconismo a quella contro le interferenze del Quirinale nell' inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e in difesa dei pm di Palermo. La novità, rispetto all' ultima volta, era la sua completa cecità, che però non gli aveva tolto il buonumore e nemmeno la voglia di scrivere, di raccontare, di combattere. Parlammo un po' di tutto, per un' ora e mezza. Anche della sua menomazione e di come, da scrittore impenitente, ci conviveva. Ma soprattutto di politica: dell' annunciata vittoria dei 5Stelle alle imminenti elezioni, della sua sinistra violentata dal renzismo (all' epoca si parlava di una lista guidata da Giuliano Pisapia), del Rosatellum fatto apposta per propiziare l' ennesimo governo di larghe intese fra Pd e B. Fu lì che, fra un aneddoto e l' altro, mi confidò di essersi un po' pentito di aver sempre respinto le proposte di candidatura per fare politica anche direttamente: da parlamentare e non da intellettuale. A un certo punto però s' interruppe: "Ora sono un po' stanco, se non ti dispiace tieni gli appunti in freezer e riprendiamo la nostra chiacchiera tra qualche settimana, quando sarò tornato dalla Sicilia". Dopodiché, fra impegni miei e suoi (aveva sempre un nuovo libro in uscita e le esigenze di promozione editoriale escludono le interviste "politiche"), quel colloquio interrotto e mai pubblicato restò lì nel congelatore, scavalcato dagli eventi tumultuosi dell' ultimo anno (Renzi sconfitto e tramontato, Pisapia scomparso dai radar, il voto del 2018, il governo giallo-verde, l' ascesa di Salvini: tutto un altro mondo, che non gli piaceva per nulla). Ieri ho ripreso in mano quel taccuino con quegli appunti, alla notizia che Andrea non c' è più. E, per quanto monca della seconda chiacchierata rimasta nelle intenzioni di entrambi e dei suoi pensieri sull' ultimo anno, mi è parsa una bellissima intervista. La trascrivo così com' era, con le parti invecchiate e quelle freschissime, quasi di giornata. Sperando che Andrea, di Lassù, non se ne abbia a male.

Andrea, cosa faresti se ti affidassero le sorti della sinistra italiana?

«Dedicherei tutto il mio tempo all' unica cosa seria che c' è da fare: il lavoro. Qui invece si parla di legge elettorale: importante, per carità, ma nulla di concreto, nulla che si mangi. L' altro giorno sono venuti a trovarmi mia nipote e 14 ragazzi suoi compagni del liceo Mamiani, erano lì davanti l' uno sull' altro. Mi sono scusato con loro: sono un vecchio che ha creduto in questa Italia e non vi lascio nessuna eredità, in un Paese che ormai va accettato con beneficio d' inventario. La sento su di me come una colpa personale.

Ma tu non hai mai fatto politica.

«Vero, l'ho sempre accettata da esterno e sono fuggito da due proposte di farla da interno. Forse per il rispetto che ho per questa funzione altissima, perché non avrei mai avuto il tempo di farla seriamente.

Pentito?

«Sì, forse ho sbagliato a non impegnarmi direttamente. Ora almeno potrei dire di averci provato, invece non posso dire nemmeno questo.

Chi ti voleva candidare?

«Il Pci, poco dopo la morte di Enrico Berlinguer, sotto la segreteria di Alessandro Natta. Venne Pietro Folena, allora segretario della Fgci, quello che Cossiga dileggiava come "braccia rubate all'alta moda", e mi offrì un collegio sicuro al Senato. Risposi di no. Un' altra volta, nei primi anni Duemila, i vescovi siciliani proposero al presidente Ciampi di nominarmi senatore a vita. Accadde ad Agrigento, dove eravamo scesi entrambi a inaugurare dopo 40 anni il teatro tanto amato da Leonardo Sciascia. Dalla sua segreteria mi fecero sapere che il presidente voleva incontrarmi, infatti venne da me con la moglie Franca. Mi offrì il laticlavio, io lo implorai di non farlo: 'Per carità!'. Così mi fece solo Grand' Ufficiale.

Pentito anche di quel no?

«Un po' lo rimpiango. Non avrei fatto molto, ma qualcosa magari sì. Ti racconto una storiella senegalese. Una foresta prende fuoco per un terribile incendio e tutti gli animali scappano. Tutti tranne uno: il leone che, essendo il re, non può dileguarsi per dovere d' ufficio, e resiste fino all' ultimo. Poi però non ce la fa più e corre via anche lui. Mentre scappa, vede venirgli incontro in senso inverso un colibrì con una goccia d' acqua sul petto. Gli domanda dove vada e come possa sperare di spegnere l' incendio con quella goccia d' acqua. Il colibrì risponde: "Non importa, intanto vado a fare la mia parte".

Ma tu, con i tuoi libri e i tuoi interventi pubblici, hai fatto molto di più di una goccia d' acqua. Sicuro?

«Il mio consuntivo sono cento e più libri, di cui 25 romanzi e cinque raccolte di racconti sul commissario Montalbano.Ma quanto hanno inciso sulle persone? La gente li legge solo come romanzi, come storie di fantasia, temo che non abbia mai preso sul serio quello che volevo dire con quelle storie.

Io non ne sarei così sicuro.

«Forse fa eccezione Il giro di boa, dove racconto che Montalbano vuole dimettersi dalla Polizia dopo i fatti del 2001 al G8 di Genova. Quella volta alcuni sindacati di Polizia mi presero sul serio e organizzarono una serata di dibattito al teatro Eliseo. C' era anche "il Cinese", Sergio Cofferati, nel suo ultimo giorno da segretario della Cgil. La conclusione del dibattito fu questa: la democrazia ha bisogno di una manutenzione quotidiana. Avevano capito che quello non era solo un romanzo.

Ora però pare tutto dimenticato, anche le vergogne del ventennio berlusconiano.

«Tant'è che Renzi vuole riportarlo al governo e tutti, anche nell' intellighenzia di sinistra, ne parlano come di una cosa tutto sommato accettabile, o comunque inevitabile, per salvare l' Italia dai "populisti".

Con il più populista di tutti. Già, heri dicebamus. Ci scusiamo per la breve interruzione e riprendiamo le trasmissioni.

Mi ricorda l'immediato dopoguerra: ci eravamo appena liberati di Mussolini e già si sentiva dire 'Ridateci il puzzone, rivogliamo il capoccione nostro!'. Gli italiani purtroppo ricordano due sole cose: la storia del calcio e le canzoni di Sanremo.

Dici?

«Guardi i quiz alla televisione e scopri che c' è gente che ricorda perfettamente la formazione della Juventus del 1926 o l' elenco completo dei vincitori del Festival. Poi gli domandano la data delle leggi razziali e rispondono con grande sicurezza: il 1952! Non sanno nulla! Quei quindici liceali del Mamiani mi hanno fatto un sacco di domande sul fascismo e ho capito che a scuola non gli avevano detto niente. Mi è toccato pure spiegare il referendum costituzionale a un gruppo di studenti universitari: buio completo. Scuola e università non danno più alcun aiuto. E con la smemoratezza si giustifica tutto.

Neppure la cosiddetta informazione aiuta.

«Da quando non ci vedo più, ho smesso di leggere. Ma mi faccio leggere molti giornali e ascolto i notiziari in tv. Non so tutto quel che vorrei, ma abbastanza per essere aggiornato. Eppure ho una curiosità che tu mi devi soddisfare: qualche mese fa arrestano i fratelli Occhionero che pare avessero intercettato tutti i più alti vertici dello Stato. Esplode il caso in tv, per due giorni non si parla d' altro, anche sui giornali. Poi silenzio totale. Nessuno ne sa più nulla. Perché? Che è successo? Dove sono finiti? Chi avevano effettivamente intercettato? Ogni giorno pare che crolli il mondo, poi cala il black out e si passa al crollo successivo.

Sul Fatto Quotidiano abbiamo la rubrica "Com' è andata a finire", dove spesso riprendiamo le notizie scomparse o dimenticate, aggiornandole agli ultimi sviluppi. E giuro che ti faremo sapere dei fratelli Occhionero. Intanto dimmi una cosa tu: ti spaventano l'"antipolitica" e il "populismo"?

«No, perché non capisco il senso di queste parole. L' antipolitica è una forma di politica, spesso comprensibile visto come si è ridotta la cosiddetta politica. E i populisti, a sentire i politici, sono sempre gli altri, di solito quelli che prendono più voti. Ma allora sono popolari, non populisti. È scaduto il peso-massa delle parole, che un tempo avevano un loro potere, un loro senso. Erano pietre.

Che ne pensi di Renzi?

«Mi faceva paura prima, me ne fa ancor di più oggi. Lui ha voluto quella riforma costituzionale orrenda, lui ha personalizzato il referendum, lui ha promesso di ritirarsi se l' avesse perso: e allora che ci fa ancora lì? È un giocatore d' azzardo e un presuntuoso, che mi fa perdere quel poco di fiducia che avevo ancora nella politica e nel centrosinistra.

C' è sempre la sinistra-sinistra, che si agita dalle sue decine di sigle e siglette.

«Quelli mi ricordano quei poveri naufraghi che arrivano sulle nostre coste a nuoto, stremati. Spero che Pisapia o chi per lui faccia il miracolo che fece Alexis Tsipras in Grecia, almeno all' inizio.Riuscì a riunire e a placare tutti quei corpuscoli che si muovevano a sinistra senza una mèta, ciascuno tronfio sul piedistallo delle sue vacue ambizioni. Ci siamo sentiti qualche volta, quando tentai di dare una mano alla nascente Lista Tsipras per le elezioni europee. Ma poi è finito male anche lui, ricattato dalla troika e costretto ad attuare politiche di austerità che sono l' esatto contrario del programma su cui era stato eletto. Quello della Grecia è stato il matricidio dell' Europa: abbiamo ucciso le radici della nostra cultura.

Renzi l'hai mai incontrato?

«Mai. Però l'ho sentito una volta al telefono, in una circostanza buffa. Ricordo anche la data: sabato 25 aprile 2016. Alle 10 del mattino squilla il telefono di casa: 'È la segreteria di Palazzo Chigi, lei dottor Camilleri sarebbe disposto a ricevere una telefonata dall' estero?'. Rispondo: “Mi dica chi mi deve chiamare e io le dirò se gradisco o meno”. Ma il centralinista non osa o non può nominare il sacro personaggio: 'Non sono autorizzato a dirglielo'. Gli dico di passarmi qualcuno che sia autorizzato e finalmente un funzionario svela l' arcano: “Il presidente Renzi, che si trova a New York, vorrebbe parlarle”. A quel punto penso: vuoi vedere che è una presa per il culo di qualche cornuto, tipo Fiorello o quelli della Zanzara?

Perché escludesti che fosse davvero Renzi?

«Ma perché erano le 10 del mattino e perché avevo sempre parlato male di lui. Comunque, pensando allo scherzo, mi misi in posizione gelida e, quando mi passarono la comunicazione, risposi: 'Mi dica'. E quello cominciò a raccontare che la sera prima era a cena con alti papaveri dell' Onu e della Casa Bianca, i quali gli avevano detto una cosa bella su di me che gli aveva fatto piacere e sperava avrei gradito anch' io.

E qual era?

«A quel punto Renzi - perché era proprio lui - svelò che alla cena c' era anche l' ex presidente Bill Clinton, che gli aveva chiesto se conoscesse Camilleri. 'Camilleri chi?', aveva domandato lui. E Clinton: 'Lo scrittore'. Renzi tirò un sospiro di sollievo e disse: 'Ah sì, lo conosco, l' autore di Montalbano'. Ma Clinton ribatté: 'Sì, Montalbano è bello, ma Il birraio di Preston è un capolavoro'. E temo proprio che Il birraio Renzi non sapesse nemmeno cosa fosse. Clinton gli disse che voleva conoscermi e gli chiese di procurargli un incontro con me, non appena fosse venuto a Roma. Io ringraziai Renzi e lui mi inviò l' indirizzo email di Clinton, pregandomi di scrivergli due righe di cortesia per non fargli fare una mala figura.

E poi?

«Nel giro di due o tre giorni mi arrivò l' indirizzo email di Clinton. Allora chiamai Valentina Alferj, la mia collaboratrice che mi aiuta a scrivere sotto dettatura da quando sono diventato cieco: 'Valentì, dobbiamo scrivere una email a Clinton. Io detto, tu traduci e scrivi Caro Presidente, l' ho sempre ammirata per il modo distaccato e sereno in cui, dalla sua scrivania alla Casa Bianca, è riuscito a vedere i problemi del mondo Le sono grato per l' apprezzamento Sarò felice di incontrarla quando verrà a Roma". Mi rispose il giorno stesso, in una lettera allegata alla email su carta intestata "William Jefferson Clinton", che era felice di avere un contatto col suo scrittore preferito. Gli mandai il mio libro storico sulla politica e le donne, La rivoluzione della luna, e ora lo aspetto. Ma m' immagino ancora il povero Renzi tutto sudato, come diciamo dalle mie parti pigghiato dai turchi, che non capiva bene chi fosse questo birraio di Coso. Le risate!

Dei 5Stelle cosa pensi?

«Che devono prepararsi bene, perché certamente vinceranno, in questa politica senza ricambio. E dovranno essere all' altezza per governare, perché si capisce benissimo che toccherà a loro. Mi auguro che funzionino, perché non rimanga delusa anche questa speranza. Che è grande: gli italiani sono disperati e impazienti, come si dice in Toscana sono "alle porte coi sassi". Io non escludo che ce la possano fare: certo, hanno dato anche esempi negativi, ma per esempio a Torino la sindaca Appendino e la sua squadra sono un modello positivo, e vengono dopo un sindaco come Fassino che funzionava benino: perché non se ne parla mai? Io credo che l' unica soluzione, specialmente dopo questa truffa dei voucher cancellati per ammazzare il referendum della Cgil e poi ripristinati il giorno dopo, sia che nasca un' unica formazione a sinistra del Pd, che ormai è destra, e cerchi un' intesa con i 5Stelle sulle politiche sociali: lavoro e reddito minimo. Tutto il resto non conta.

(Squilla il telefono: è Antonio Manzini, il giallista, che si complimenta con Andrea per il nuovo romanzo): Antonio è stato mio allievo all' Accademia, ha anche recitato in quattro-cinque commedie prima di darsi alla scrittura. Siamo amicissimi e ci sfottiamo di continuo. Lui mi chiama quando un suo romanzo supera in classifica il mio: "Come godo, ti ho sorpassato!". Io faccio sempre notare che non è una gara sui 100 metri piani e non è lo sprint che conta: è la tenuta, la durata nel tempo Ci vogliamo bene. (Risquilla il telefono: è la Sellerio che comunica le vendite de La rete di protezione).

A proposito, Andrea: quando inizi a scrivere il prossimo?

Quando finisco, vorrai dire? Ogni mattina Valentina e io ci mettiamo lì al nostro tavolo matrimoniale, a due piazze. Io ormai intravedo solo ombre: detto e lei riporta, rilegge e corregge sul suo computer. Due ore filate di scrittura ogni giorno, prima che inizi l' assedio di quelli che chiamano per un parere su un fatto di cronaca, quelli che vogliono premiarmi col Bullone d' Oro, quelli che vorrebbero due paginette sull' evoluzione del fico d' India Col nuovo Montalbano siamo a buon punto: l' altro giorno abbiamo scoperto chi era l' assassino e ora dobbiamo capire se è quello giusto Così ci siamo fermati prima dell'ultimo capitolo.

In poco più di un' ora hai acceso e spento cinque sigarette. Quante ne fumi?

Diciamo due pacchetti e mezzo, ma solo per finta. In realtà sono molte meno. Accendo, do due o tre tiri, poi spengo. Essendo cieco, non sono più costretto a vedere quell'orrenda scritta sui pacchetti "Il fumo rende ciechi". Già fatto, grazie. Per il resto sto benone, compatibilmente con i miei 90 anni suonati. Mia madre diceva: "Passata la sittantina, un dolore ogni matina". I medici continuano a visitarmi alla ricerca di qualche intoppo, stanno qui per ore, ma alla fine non trovano mai nulla e ci restano male. Se ne vanno con l' aria sconsolata: 'Che le devo dire, dottò, è tutto nella norma. Se vuole, si faccia un po' di vitamina B". Ma poi ritornano: esami, analisi, accertamenti. E il sangue, e l' aorta, e l' eco-coso Niente, li deludo sempre. Se mi levassero le sigarette ora, mi ammazzerebbero.

Perché gli snob di destra e di sinistra detestano Camilleri e Montalbano? Antonio D’Orrico. Sette, supplemento del Corriere della sera, 6.2002. Di Andrea Camilleri e del suo Commissario Montalbano ho già detto tutto il bene possibile e, forse (me ne accorgo mentre la sto scrivendo), ho già detto anche questa frase. Eppure si può dire ancora di meglio. Il teatrino del commissariato di Vigàta replica deliziosamente le sue avventure in una nuova serie di racconti dove spicca, per maestria, Il quarto segreto, un romanzo breve più che un racconto lungo, che narra una sospetta serie di incidenti sul lavoro e li intreccia a vicende di mafia, di politica e di polizia, e ruota attorno alla figura disperata di un maresciallo dei carabinieri condannato a morte dal cancro. Un personaggio che non si dimentica così come non abbiamo dimenticato altri personaggi di precedenti inchieste di Montalbano (ma quanti ne ha inventati, a volte nel giro di pochissime pagine, Camilleri?). E in un'altra storia, qui raccolta, ecco altri due personaggi scavati con sapienza e umanità. Il povero Dindò, garzone di supermercato che è rimasto bambino nella testa, e Grazia, un'altra sfortunata ragazza, schiavizzata anche sessualmente da uno zio usuraio, che si rivelerà poi, a modo suo, una dark lady. Dindò, con la sua innocenza di disgraziato, si innamorerà di Grazia che lo piegherà ai suoi biechi voleri. La bravura di Camilleri è indiscutibile. Lui quasi a volte sembra vergognarcene. E, nel farlo, per distogliere l'attenzione dalla sua arte, si mette a celiare, a scherzare con i suoi pupi, a magari esagerare con il centralinista Catarella e i suoi sfondoni, fin quasi a proporlo come protagonista, a fargli sfiorare per un attimo lo status di personaggio tragico, eroico, da opera lirica. La bravura di Camilleri è indiscutibile e il fatto di averlo così tardivamente scoperto ci dice molto di come (non) funzioni il mondo letterario ed editoriale italiano. Vedo ancora che c'è qualcuno che sparla di Camilleri, che lo contesta linguisticamente, mentre il linguaggio da lui inventato fa molto riflettere su una unità linguistica che va dalla Sicilia alla Calabria Citeriore, un tesoro idiomatico che sembrava perduto e che lo scrittore ha portato a dignità letteraria. La bravura di Camilleri è indiscutibile e la conferma del suo valore ci viene da un test infallibile. Dunque, in Italia si è formato un partito trasversale composto dagli snob di sinistra e dagli snob di destra. I primi (quelli di sinistra) sono antichi. I secondi (quelli di destra) sono i nuovi venuti. La saldatura tra le due fazioni snobistiche avviene proprio nei confronti di Camilleri che, su entrambi i fronti (ma è un fronte unico), viene liquidato con sufficienza. Si sbagliano, e si sbagliano di grosso. Gli snob di sinistra non sopportano il successo di Camilleri, la sua popolarità, la capacità abbastanza unica oggigiorno di coniugare malinconia e umorismo. Gli snob di destra odiano Camilleri per questioni politiche (sono ancora a quel livello, e pretendono di essere snob). Questa doppia ostilità è garanzia assoluta della grandezza di Camilleri. 

La Meloni non cede alla demenza del web su Camilleri e si inchina a lui e alla Sicilia. Ginevra Sorrentino mercoledì 17 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Con Andrea #Camilleri se ne va un grande protagonista della letteratura italiana contemporanea. Grazie alle sue opere tradotte in tutto il mondo, ha fatto conoscere e riscoprire la bellezza e le contraddizioni di una terra meravigliosa come la #Sicilia». Giorgia Meloni affida a Twitter il suo messaggio di cordoglio per la scomparsa dello scrittore siciliano su cui il web si sta dividendo, tra chi se ne accomiata con rimpianto, e chi invece continua a professare la propria irriverenza. E tra vip e intellettuali di sinistra che rivendicano lo scrittore appena scomparso tra le fila di un esercito di buonisti dem e rivoluzionari anticonformisti radical chic – per cui Camilleri è stato il guru del sentire civile e del comune dissentire – e chi se ne discosta polemicamente, dissociandosi da una visione del mondo e della letteratura in cui non riesce a riconoscersi, ci sono anche i messaggi, i post e i tweet della politica che, al “papà di Montalbano” riconosce istituzionalmente meriti culturali e virtù sociologiche come pregi universali. E il tweet di Giorgia Meloni dimostra l’appartenenza a quest’ultima modalità di commento. Tra le righe del messaggio della Meloni, infatti, non possono non intravedersi i rimandi a piè di pagina e le note a margine di una meta-scrittura che diventa meta-interpretazione, tipiche di una lettura di più ampio respiro del lavoro di Camilleri. Del resto, proprio l’ultima fatica letterario-drammaturgica portata sotto i riflettori dall’autore siciliano nelle vesti dell’indovino cieco Tiresia, non si rivolge forse a tutti, provando a scuotere la coscienza collettiva e a formulare nuovi scenari di là da venire? Guarda caso, lo stesso Fatto Quotidiano, in uno dei tanti servizi dedicati oggi alla scomparsa di Camilleri, riperticando le parole dello scrittore siciliano rilanciate da Tomaso Montanari, scrive: «Non credete a Renzi o ai 5 Stelle, sono già cadaveri, già fuori dalla vostra storia e dal vostro avvenire, teneteli lontani dal vostro avvenire. Voglio darvi un consiglio: rifate la politica che è quasi diventato un sinonimo di disonestà»: già, perché così parlava Camilleri rivolgendosi agli studenti del liceo Empedocle di Agrigento, puntando il dito – prosegue Montanari – «contro due leader popolari, Matteo Renzi da un lato, Luigi Di Maio dall’altra» e utilizzando «un linguaggio duro, provocatorio, un linguaggio della verità. È la grande eresia di chi per statura morale e per età, può sentirsi davvero libero di dire quello che pensa, spiega lo storico dell’arte». Forse allora, proprio quella libertà e il pregio di saperla esprimere con la cifra stilistica dell’immaginazione innestata su un profondo senso dell’appartenenza culturale, è il comune denominatore di Camilleri: quello che ha ammaliato tutti, intellettuali e politici, in maniera bipartisan.

Perché essere grati (nonostante tutto) ad Andrea Camilleri. Pubblicato il 17 Luglio 2019 da Giuseppe Del Ninno su Barbadillo. Evento atteso: la morte di Camilleri.  E si fa tempo di bilanci, non solo della sua opera, ma della narrativa italiana in genere. E’ stato un grande scrittore il padre del commissario Montalbano? Credo che nel rispondere peseranno simpatie o antipatie ideologiche: l’uomo non ha mai nascosto la sua adesione al mondo della sinistra. Eppure… Ho appena sentito il “coccodrillo” di Pietrangelo Buttafuoco, sul Tg2 : un intervento poetico e centrato, che collega Camilleri alla migliore letteratura siciliana – e quindi, secondo Pietrangelo, universale – da Verga a Pirandello a Sciascia e, aggiungo, allo stesso Buttafuoco. Io stesso lo annovero fra i miei preferiti, superando le sue tirate antifasciste, le cui propaggini arrivano al libro dedicato alla piccola bisnipote, alla quale destina, fra l’altro, il lascito di un antifascismo viscerale. Riconosco pure che il Montalbano, le cui avventure sono state vendute a milioni di copie in tutto il mondo – e che ha incrementato il PIL dell’Isola, con i flussi turistici che continuano a visitare i luoghi immaginari e reali di quelle avventure – è un poliziotto anomalo, ma politicamente corretto: non è solo insubordinato, ad esempio, ma non nasconde le sue simpatie per i migranti e, naturalmente, il suo disprezzo per la classe politica. Malgrado ciò, gli enormi ascolti, anche in replica, delle “sue” serie televisive parlano chiaro sul giudizio del pubblico. Camilleri però non è soltanto un fecondo narratore: è il creatore di una lingua, come solo i grandi scrittori hanno fatto: e questo è un dato oggettivo, che piaccia o non piaccia la sua invenzione; ed è un efficace illustratore della “commedia umana”, nonché reinventore di un paesaggio magico, come quello della sua patria siciliana; tutti connotati che, innegabilmente, pongono Camilleri fra le eccellenze della nostra letterature recente. Per carità di patria, tralascio qualsivoglia paragone con gli autori i cui nomi campeggiano nelle classifiche e sugli scaffali delle librerie come i più venduti. Aggiungo che fra i motivi della mia gratitudine annovero il suo lontano lavoro in RAI, per la trasposizione televisiva delle inchieste di Maigret, con un monumentale Gino Cervi: ai miei occhi, già questo determinerebbe un pregiudizio positivo. Ora gli auguro una battaglia vittoriosa, in quella dimensione misteriosa che da tempo, dichiarava, aveva cominciato a sondare, nel suo finale destino di Tiresia. Giuseppe Del Ninno

Camilleri e la politica, nessuno è stato più a sinistra di lui. Il Mattino 17-07-2019 (di G. Del Ninno). In politica, Andrea Camilleri era di sinistra. O meglio, nessuno forse è stato più a sinistra di lui. Un comunista romantico si può definirlo. E non riusciva a farsi piacere però anche molti di quelli della sua parte politica. Su Berlusconi ha infierito abbondantemente. Gli dedicò tra l'altro una poesia che lesse in piazza Navona a una manifestazione dei girotondi: Ha più scheletri dentro l’armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici/ Teme che le ante dell’armadio si aprano/ e che torme non di fantasmi ma di giudici in toga/ balzino fuori agitando come nacchere/ tintinnanti manette...Massimo D’Alema gli ispirò il personaggio del diavolo "Delamaz", «un bruco coi baffetti che pilotava ‘na varca sia pure fatta di foglie… Dicivano macari che era ‘ntelligenti, ma grevio e scostante…». Prodi? «Dovrebbe fare un corso di dizione. Tra una sua parola e l’altra passano due treni accelerati di una volta». Per non dire di Renzi. Non lo poteva sopportare e alla vigilia del referendum disse che si sarebbe fatto portare a braccia – lui cieco – al seggio pur di votare No. Ma non era tenero neppure con i Cinque Stelle: «Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti». Di Salvini, si sa: «Mi fa vomitare». Lo considerava un "federale minore".

Andrea Camilleri politico, da Mussolini a Salvini la sua idea di fascismo. Lo scrittore Andrea Camilleri, morto oggi dopo un mese di ricovero, ha tentato più volte di spiegare cos’è il fascismo, fenomeno complesso che ha sperimentato in prima persona durante gli anni della guerra. Raccontava spesso un aneddoto divertente in cui era presente il Duce in persona. Mentre negli ultimi tempi lo aveva spesso associato alla politica di Matteo Salvini. Titti Pentangelo su Fanpage il 17 luglio 2019. Cos'è il fascismo? Tra gli intellettuali e scrittori che ne hanno dato una spiegazione c'è anche Andrea Camilleri, classe 1925, morto oggi dopo essere stato ricoverato in rianimazione all'ospedale Santo Spirito di Roma, è intervenuto più volte precisando la sua personale visione ed esplicitando il suo personale atteggiamento rispetto agli eventi che si verificarono in quegli anni. Tralasciando i suoi memorabili scontri con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, per spiegare il fascismo raccontava sempre un aneddoto divertente con al centro Raul Radice, critico teatrale del Corriere della Sera che aveva iniziato la sua carriera come redattore di un giornale del ventennio, "L'impero". Ad amministrare le pubblicazioni fasciste del giornale era proprio il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini. Un giorno Arnaldo Mussolini chiese a Radice di accompagnarlo dal Duce per la relazione mensile sull'andamento delle pubblicazioni. Così entrano nello studio di Benito Mussolini, a piazza Venezia, col giovanissimo Radice nel ruolo di portaborse e col cuore che gli batteva forte. Il duce era chino sulla scrivania a scrivere, fitto fitto. Saluto romano di rito, poi il fratello si mise accanto a Benito, aprì la valigetta con tutti i documenti e glieli porse. Ma questi, prima ancora di scorgerli, esordì: «Arnaldo, da qualche tempo "L'Impero" mi sembra che abbia perduto mordente. Ma che succede?». E il fratello rispose: «Sai, è una cosa molto delicata e pure sgradevole..». «E cioè?» «Beh, sai, la moglie di uno dei due va a letto con l'altro. Il marito l'ha scoperto. Ora i due non si parlano più, e così sta andando un po' tutto a rotoli». Arnaldo non pronunciò nessun nome, non disse quale dei due era stato tradito. Così Mussolini si chinò, pensoso, e dopo un lungo silenzio alzò lo sguardo, guardò dritto negli occhi il fratello e disse: “Licenzia il cornuto!». Per Camilleri in quest'unica frase pronunciata dal Duce poteva sintetizzarsi tutto il pensiero fascista.

Camilleri e il fascismo: la lettera al Duce. Eppure, da giovane, ne fu affascinato anche lui. Camilleri aveva appena quattordici anni quando scrisse una lettera al Duce per chiedergli di farlo partire volontario nella guerra in Abissinia. All'epoca, credeva che l'ideologia fascista fosse veramente in grado di modificare il tessuto sociale, apportando delle trasformazioni positive. Presto, però, ne scoprì le menzogne e si distaccò, avvicinandosi al comunismo anni dopo. Come rivelò al Salone del libro di Torino più di quindici anni fa: Non mi vergogno di essere stato fascista. Sono orgoglioso di essere stato e di essere un uomo di sinistra. Nel 1943 Andrea Camilleri era in Sicilia. Mentre lo sbarco degli Alleati era alle porte, lui conseguiva la maturità classica senza sostenere esami per via dei bombardamenti. Per lui quel periodo rappresentò un lungo peregrinare in giro per l'isola, sballottato da un luogo all'altro. Tra il 1946 e il 1947 si stabilì ad Enna, perfezionando i suoi studi tra due stanzette prive di riscaldamento. L'esperienza della guerra si portò dietro dei lunghi strascichi che riuscì ad elaborare soltanto in età adulta, comprendendo appieno di cosa si era fatto portatore il fascismo.

Camilleri e il fascismo oggi: lo scontro con Salvini. Sempre in proposito sul tema "fascismo", negli ultimi tempi Andrea Camilleri si era espresso più volte, utilizzando questo termine per definire l'atteggiamento e la politica del leader della Lega, Matteo Salvini, con cui ha sempre avuto uno scontro molto duro. Nell'ultima intervista, a Radio Capital, disse: Non credo in Dio, ma vederlo impugnare il rosario mi dà un senso di vomito. Tutto questo è strumentale, il Papa non ha bisogno di fare questi gesti. Sa che offenderebbe i Santi. Questo gesto di Salvini fa parte della sua volgarità.

Camilleri e Salvini: quel malessere per l’Italia di oggi. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Corriere.it. ROMA - «Sui colli fatali di Roma è tornata / a bruciare la fiamma tricolore! / In soffitta, camerati, il manganello / Oggi si fa tutto a regola democratica, / via i campi nomadi, i romeni stupratori / i nordafricani assassini (…) Una volta diceva di avercelo duro / alquanto acciaccato, biascica la sostituzione / del membro col fucile». Uno dei pregi più grandi dell’Andrea Camilleri «politico» è finito sotterrato dalle centinaia di migliaia di libri che ha venduto, dai milioni di telespettatori delle fiction che ha generato-non-creato, dall’empatia con cui – già avanti con gli anni – ha decrittato il codice per parlare con un’enorme vastità di italiani e non, conquistando il ruolo da prim’attore da anziano come forse, al mondo, solo i Buena Vista Social Club di Compay Segundo erano riusciti a fare prima di lui. Difficile convincere il lettore che quei versi di Camilleri – presi dalle «Poesie incivili» pubblicate da MicroMega – risalgono a un’epoca in cui probabilmente l’autore non aveva la più pallida idea di chi fosse Matteo Salvini. Quello stesso Salvini che oggi tenta di omaggiarlo su Twitter («Addio Andrea Camilleri, papà di Montalbano e narratore instancabile della sua Sicilia») ricevendo in cambio una sequela di improperi («Ipocrita», «era meglio non scrivere nulla»…). Si respira l’Italia di oggi, in quei versi. Eppure sono del 2008. Perché l’Andrea Camilleri «politico» era arrivato a raccontare i rischi odierni del nostro Paese talmente in anticipo sulla tabella di marcia del presente da rimanere spiazzato. Forse è per questo che, di fronte al Salvini di governo, era stato di recente costretto ad attualizzare il suo malessere evocando il vomito, sì, proprio il vomito – testualmente - «quando Salvini impugna il rosario mi viene un senso di vomito». Anche il più efficace antidoto umano al salvinismo, Camilleri l’aveva creato prima di conoscere Salvini. Il commissario Montalbano è stato l’unico tank man rispetto al quale persino il vicepremier ha fermato la sua ruspa. «Lo adoro», disse del poliziotto di Vigata il leader leghista qualche ora prima della prima puntata dell’ultima serie, in cui il protagonista e la sua squadra salvavano dei migranti dalla morte in mare. Perché Montalbano è stato questo. Uno che è riuscito a dividere il mondo davanti a sé non è in ricchi o poveri, italiani o non, giustizialisti e garantisti; bensì in forti e in deboli. L’immaginazione di Camilleri ha prodotto, insomma, il leader impossibile che la sinistra va cercando, il sacro graal umano che i progressisti italiani sognano di incontrare, prima o poi. E questo resterà. Tra le pagine e chiare e le pagine scure. Per molto tempo ancora.

Camilleri attivista: la sinistra, il Cav e Salvini. Pungolatore della politica ha sempre difeso il ruolo dei giovani e della cultura: “E’ facile cadere nell’antipolitica, ma il populismo è la fiammata di un mattino”. Lasiciliaweb.it mercoledì 17 luglio 2019. La firma al manifesto per salvare la storia a scuola dal progetto di ridimensionamento vissuto come “attentato alla vita culturale e civile del nostro Paese” è stato solo uno degli ultimi impegni di un indomito Andrea Camilleri, il cui attivismo civico e politico è parte fondamentale della sua figura. Il dialogo con i cittadini, il rapporto maieutico e strettissimo con i giovani è sempre stato al centro quasi come una missione di vita. Camilleri non ha mai nascosto da che parte politica stava, non ha mai avuto timore di dire quello che pensava e per questo è stato spesso al centro di polemiche politiche. Non ultima quella con il vicepremier Matteo Salvini. “Non voglio fare paragoni ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto, il razzismo, aveva detto più volte. E Salvini puntualmente replicava: “Eccolo! I suoi libri mi piacciono parecchio, i suoi insulti non tanto”. Il tema dei migranti e del razzismo lo aveva visto fieramente opposto al ministro e proprio pochi giorni fa, il rosario baciato da Salvini in piena campagna elettorale era stata una nuova occasione per attaccarlo: “mi fa vomitare” aveva detto Camilleri. E il ministro dell’Interno gli aveva risposto: “Scrivi che ti passa, io continuo a lavorare e, nel mio piccolo, a credere. Mi dispiace perché io adoro Montalbano. Non pensavo che un rosario, parlare di Maria, di padre Pio o San Francesco potesse far vomitare o fosse sintomo di volgarità”. Camilleri aveva un cruccio, che poi è lo stesso di tanti della sua generazione: “Ho vissuto l’entusiasmo del 1945, del 1947 per rifare l’Italia. E poi? Poi io consegno a mia pronipote e a voi un futuro incerto. Questo è un fallimento che mi porto nella tomba”, aveva detto nel 2017 agli studenti della ‘sua’ Porto Empedocle incitandoli a non mollare. E non era un invito ad estraniarsi dalla vita pubblica: “E’ facile cadere nell’antipolitica, ma il populismo e’ la fiammata di un mattino”. Per questo ai ragazzi aveva detto: “Non credete ai Renzi o ai CinqueStelle” perché “sono già cadaveri, già fuori dalla vostra storia e dal vostro avvenire. Teneteli lontani dal vostro avvenire. Fatevelo voi…”. Andrea Camilleri è stato “un giovane fascista” ma maturò pian piano una coscienza di sinistra, arrivando a fondare nel ’43 una sezione del Pci col permesso degli americani, grazie all’intercessione di un vescovo. Camilleri non ha mai “votato Democrazia Cristiana. Io ho sempre votato Partito Comunista che, bene o male, aveva il rispetto delle istituzioni”, ma della sinistra è sempre stato una sorta di spina al fianco, di pungolatore, criticandola infinite volte e sollecitandola ad avvicinarsi di più alla gente, cogliendo le istanze dal basso, partecipando non a caso alla stagione dei "girotondi" in piazza. Da "senza partito" nel 2009 si era in qualche modo speso alle europee per l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Si era con clamore opposto alla rielezione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (“sono suo coetaneo e so quale è a questa età lo sfaldamento delle cellule cerebrali. Io posso scrivere un romanzo imbecille, lui ha altre responsabilità”, ha scritto nel saggio ‘Come la penso io’). Berlusconi era stato per anni oggetto di critiche: all’Europarlamento nel 2002 aveva denunciato il conflitto d’interessi del presidente del Consiglio: “Non solo continua possedere le sue reti televisive, le sue case editrici, i suoi giornali, ma ha anche tramutato la televisione di stato in televisione del governo”, sottolineando le ‘epurazioni’ di Biagi e Santoro. Ma più che Berlusconi si crucciava del berlusconismo, della ‘corte’ del premier pur ammettendo con amarezza che “la forza di Berlusconi è, sì, chi lo vota, ma soprattutto la debolezza estrema dell’opposizione”. E oggi? “Oggi la politica è rappresentata da gente che ha degradato il lavoro. Nel lavoro consiste buona parte della dignità dell’uomo. La verità è che i primi a non considerarla sono i partiti della sinistra, del cosiddetto centrosinistra”.

Andrea Camilleri e la tv: quando la Rai non lo prese «perché troppo comunista». Con Zingaretti coppia perfetta. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Corriere.it. Attore di teatro prima (e scrittore poi) il creatore di Montalbano Andrea Camilleri ha incrociato più volte il mondo della televisione lungo la sua strada. Paradossalmente però, nonostante la fiction tratta dai suoi romanzi da 20 anni a questa parte sia campione d'ascolti sulla rete ammiraglia della Rai, il suo primo incontro con l'azienda - per lavorare dietro le quinte - non fu dei migliori: nel 1954 aveva sì superato un concorso per funzionari ma non venne assunto in quanto l'amministratore delegato Filiberto Guala, aneddoto raccontato dallo stesso Camilleri, lo giudicò «troppo comunista». Riuscì ad entrare in Rai soltanto tre anni dopo, e dal 1959 fu delegato alla produzione (si occupò di sceneggiati di successo come quelli con protagonista il tenente Sheridan - Ubaldo Lay - e «Le inchieste del commissario Maigret» con Gino Cervi).

D’Alema: «Gli feci conoscere  Manuel Vázquez Montalbán». Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Tommaso Labate su Corriere.it. «Camilleri e Manuel Vázquez Montalbán, prima di quella sera, non si erano mai visti. Non si conoscevano. Dopo averli presentati, dissi loro che mi sarei limitato al ruolo di giornalista, di conduttore. Una folla oceanica aspettava solo che iniziasse quel dibattito su letteratura e vita, che poi sarebbe stato ripubblicato da alcune riviste letterarie. Dopo l’incontro, i due iniziarono un percorso che li avrebbe portati a pubblicare un libro a quattro mani. Se non fosse stato per la morte improvvisa di Vázquez Montalbán...». Massimo D’Alema (Roma, 1949)Massimo D’Alema era amico di Andrea Camilleri. Lo aveva intervistato per «Italianieuropei» nel dicembre del 2017 e lo scrittore gli aveva affidato la sua critica nei confronti di un centrosinistra sempre più centro che tende quasi a destra e di sinistra aveva ormai nulla. «Per votare al referendum, essendo ormai cieco, disse che aveva dovuto sostenere un esame all’Asl ma che non avrebbe più fatto la trafila per votare alle elezioni, non avendo più per chi votare», ricorda D’Alema nel suo ufficio alla fondazione Italianieuropei dove stanno confezionando la rivista, in cui quel colloquio verrà ripubblicato. E gli aveva presentato Vázquez Montalbán. «Me l’ha ricordato Camilleri, quando l’ho incontrato nel 2017».

Il catalano era il suo scrittore preferito. Tanto da battezzare il commissario Montalbano in suo onore.

«Li presentai dietro le quinte prima di moderare un dibattito con loro due protagonisti alla festa nazionale dell’Unità a Bologna, nel 1998. Dissi che mi sarei limitato a fare il giornalista, la gente voleva sentire loro. E io anche».

Comunista l’uno…

«… iscritto al Partito socialista unificato della Catalogna l’altro. Vedo che da più parti è in corso un processo di beatificazione “politica” di Camilleri mentre è giusto che venga ricordato per quello che era: un uomo orgogliosamente di parte, che ha avuto il merito di offrire alta cultura a tutti. Sembra semplice ma è un’operazione difficilissima. Che riesce solo a pochissimi grandi».

Lei è un suo lettore?

«Ho letto tutto. Tutto. Il mio preferito rimane Un filo di fumo». 

Un libro senza Montalbano, in cui molti vedono i tratti di quel leader della sinistra in grado di battere Salvini.

«Non so rispondere anche perché non ho una grande considerazione di Salvini. Ne ho, e tanta, per Montalbano, personaggio che vive solo all’interno della dimensione della sua grande moralità».

Non sembra granché dalemiano, Montalbano.

«Conosco Montalbano ma non so in che cosa consista la patente, da me tra l’altro mai attribuita, del dalemiano». 

Sinistra e intellettuali, tema antico. I consigli di Camilleri non vi sarebbero stati utili?

«Parlare con gli intellettuali è difficile. Io, però, l’ho sempre fatto. Anche quando gli intellettuali li avevo contro. L’ho fatto anche con Camilleri e questa intervista (mostra il numero di “Italianieuropei”, ndr) ne è la riprova. Con lui ci siamo subito dati del tu, come con tutte le personalità in cui riconosci un patrimonio comune di valori». 

ABBIAMO RACCOLTO TUTTI I POST IN RICORDO DELLO SCRITTORE, COSÌ NON DOVETE FARLO VOI. Dagospia il 17 luglio 2019. 

Matteo Salvini: Addio ad Andrea Camilleri, papà di Montalbano e narratore instancabile della sua Sicilia.

Luca Morisi: Camilleri era un genio, assoluto. Le sue storie mi hanno fatto compagnia per vent’anni. Gli bastava una manciata di parole per far materializzare un personaggio. Non solo Montalbano: i suoi capolavori sono i romanzi storici, indimenticabile “Il Re di Girgenti”. Addio Maestro.

Matteo Renzi: Un grande uomo di cultura che ha educato alla lettura donne e uomini di tutto il mondo. Un grande italiano. Rip Camilleri. 

Giorgia: “T’arridduci a desiderare la morti perché è un vuoto assoluto, un niente, liberati dalla dannazione, dalla persecuzione della memoria.” Andrea Camilleri

Polizia di Stato: Un affettuoso arrivederci ad Andrea Camilleri. Il Commissario Montalbano ha svelato tanto del nostro lavoro mettendo in luce l’umanità dei poliziotti sempre al servizio delle comunità. Ci mancherà Maestro.

Luciana Littizzetto: Sarai luce per sempre. Camilleri.

Nicola Zingaretti: Scompare una voce unica e meravigliosa. Andrea #Camilleri ha suscitato un sentimento di vicinanza in una moltitudine di persone. Abbiamo perso molto più di un grande scrittore. Resterà la bellezza dei suoi racconti e del suo raccontare i risvolti della vita. Grazie Maestro.

Sellerio editore: Con immenso affetto e infinita gratitudine salutiamo Andrea Camilleri.

Giuseppe Conte: Se ne è andato Andrea Camilleri, maestro di ironia e di saggezza. Con inesauribile vena creativa ci ha raccontato la sua Sicilia e il suo ricco mondo di fantasia. Perdiamo uno scrittore, un intellettuale che ha saputo parlare a tutti.

Accademia della Crusca: «Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore».

Nicola Lagioia: "A stimare da come l'alba stava appresentandosi, la iurnata s'annunziava certamente smèusa, fatta cioè ora di botte di sole incaniato, ora di gelidi stizzichii di pioggia, il tutto condito da alzate improvvise di vento".

Fabio Fazio: Con infinita tristezza scrivo queste parole per ricordare Andrea Camilleri. Un uomo gentile, coraggioso e generoso. Un intellettuale col cuore. Una persona limpida la cui onestà ci ha fatto da guida e ci ha consolato.

Antonio Spadaro: Grazie, Andrea Camilleri. La tua voce ci aiuta a vedere il nostro tempo e la tua passione ci accompagna nel fare la nostra parte perché il nostro mondo e la nostra Italia sia più sana, sia migliore.

Pietro Bartolo: Ha raccontato la Sicilia migliore, senza fronzoli, senza retorica, sempre dalla parte degli ultimi. Ci mancherà, Maestro. Grazie di tutto.

Quirinale: Mattarella: Camilleri è stato un grande e moderno narratore, dotato di una scrittura coinvolgente e originale.

Patrizia Prestipino: La standing ovation dei deputati alla memoria di Camilleri. Solo alcuni deputati della Lega restano, pervicacemente, seduti e silenti. Cialtroni!

Paola Turci: “Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro”. Grazie Maestro Camilleri.

Teatro La Fenice: «Che hosa cercate?» domandò il prefetto che senza rendersene conto si era alzato in piedi. «Una musica, cillenza, che mi facesse provare la stessa felicità, ca mi facissi vìdiri com’è fatto u cielu». Che la terra ti si sia lieve, Andrea Camilleri.

Riccardo Puglisi: Una delle cose fantastiche di Camilleri è che ha cominciato a scrivere tardissimo. Quelli intanto prepensionano i sessantenni per farli "tornare a una vita normale" (cit. Salvini)

Riccardo Cucchi: I suoi libri, uno accanto all'altro nella mia libreria, mi faranno sentire meno solo quando li sfoglierò. Ci mancherà, eccome.

Alice Venturi: “Malgrado sia lontano più di centomila miglia, mi sento molto tranquillo. E penso che la mia astronave sappia dove andare”. Arrivederci Maestro.

Luca Telese: Ha combattuto come un leone. E se ne va portandosi dietro lo stampo.

Paola Taverna: Va via un simbolo della Sicilia e dell’Italia tutta. Uno dei pochi scrittori che ha saputo descrivere il meridione, i suoi personaggi, l’assurdo della vita reale e “u scrusciu du mari”. Buon viaggio Maestro restano qui i tuoi racconti e i sorrisi che ci hai rubato.

Luigi Di Maio: Una triste notizia per la Sicilia, che perde un suo figlio, e per l’Italia, che vede andarsene un suo magnifico maestro di vita. Addio Andrea Camilleri, ci mancherai.

Marco Mengoni: "Le parole sono pietre, sono pallottole. Bisogna saper pesare il peso delle parole e soprattutto fermare il vento dell’odio”. Oggi le parole mi mancano. Spero che la sua arte, maestro Camilleri, ci accompagni nel tempo.

Camilleri, insulti choc in radio: "Salvini mi dà un senso di vomito". Lo scrittore: "Vedere Salvini impugnare il rosario dà un senso di vomito". Ma il leghista lo zittisce: "Scrivi che ti passa". Sergio Rame, Mercoledì 12/06/2019 su Il Giornale. Un'aggressione a testa bassa, infarcito di insulti senza precedenti. Andrea Camilleri sceglie i microfoni di Radio Capital per attaccare, con violenza inaudita, il ministro dell'Interno Matteo Salvini. Lo fa rimettendo al centro del dibattito l'uso del rosario i campagna elettorale. "Non credo in Dio - spiega lo scrittore - ma vedere Salvini impugnare il rosario dà un senso di vomito". Un'invettiva verbale che, però, non sembra scalfire il leader leghista che, durante una diretta su Facebook, replica con il sorriso sulla bocca: "Scrivi che ti passa...". "Non credo in Dio, ma vedere Salvini impugnare il rosario dà un senso di vomito". Intervistato da Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto a Circo Massimo, su Radio Capital, Camilleri usa parole durissime per insultare Salvini e denigrare la sua scelta di affidare al rosario la passata campagna elettorale per le europee. "È chiaro che tutto questo è strumentale - tuona lo scrittore agrigentino - fa parte della sua volgarità". Quindi, passa a strumentalizzare papa Francesco. "Lui, che sa quello che fa, non impugna il rosario, non ne ha bisogno, sa che offenderebbe profondamente i santi". "Più passano i giorni - incalza poi - più gli interventi di papa Francesco si fanno incisivi e precisi. È l'unico grosso uomo politico che esista oggi al mondo. Certo non è paragonabile a Trump...". L'attacco del padre del commissario Montalbano non è passato inosservato. "Andrea Camilleri ha detto che lo faccio vomitare, mi spiace perché amo il commissario Montalbano", ribatte Salvini nel corso di una diretta facebook (guarda il video). "Camilleri, scrivi che ti passa - lo esorta poi - io continuo a fare il mio e nel mio piccolo a credere...".

Salvini a Camilleri: "Scrivi che ti passa, io vado avanti".  Salvini twitta su Camilleri e scoppia la polemica sui social. Il Messaggero Mercoledì 17 Luglio 2019. «Addio ad Andrea Camilleri, papà di Montalbano e narratore instancabile della sua Sicilia». Lo scrive il ministro dell'Interno Matteo Salvini su Twitter. E, proprio su Twitter, si scatenano i commenti polemici di alcuni utenti. Quelli soprattutto che hanno seguito il confronto di qualche mese tra il politico e il grande scrittore. Quest'ultimo, in più di un'occasione, non aveva nascosto il suo pensiero sul leader leghista. «Non voglio fare paragoni ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto, il razzismo, aveva detto più volte». Diceva Camilleri. E Salvini puntualmente replicava: «Eccolo! I suoi libri mi piacciono parecchio, i suoi insulti non tanto». Il tema dei migranti e del razzismo lo aveva visto fieramente opposto al ministro e, in occasione del rosario baciato da Salvini in piena campagna elettorale, aveva colto l'occasione per attaccarlo nuovamente: «mi fa vomitare» aveva detto Camilleri. E il ministro dell'Interno aveva replicato: «Scrivi che ti passa, io continuo a lavorare e, nel mio piccolo, a credere. Mi dispiace perché io adoro Montalbano. Non pensavo che un rosario, parlare di Maria, di padre Pio o San Francesco potesse far vomitare o fosse sintomo di volgarità». Ecco proprio in questo "confronto" intervengono gli utenti Twitter: «Non hai avuto rispetto di lui da vivo dovresti solo vergognarti di onorarlo da morto!!!»; «lo hai infamato ed ora lo lodi....chi semina vento raccoglie tempesta Capitano!!!»; «Almeno oggi potevi avere la decenza di stare zitto». 

"Comunista inutile", insulti a Camilleri. Adnkronos.com. Pubblicato il 17/07/2019. Non solo cordoglio. Con la morte di Andrea Camilleri, il lato disumano della rete si manifesta in tutto il suo orrore. Sotto gli articoli, i ricordi e le manifestazioni di vicinanza alla famiglia dello scrittore 93enne scomparso oggi, ecco infatti spuntare un'orda di commentatori intenzionati a gridare - pubblicamente e senza remore - tutto il disprezzo per la figura dell'autore. Reo, secondo alcuni, di aver attaccato fin troppe volte il ministro dell'Interno Matteo Salvini. E' infatti sotto al tweet, criticatissimo, del leghista che in tanti hanno scelto di distinguersi dal generale abbraccio della rete, compreso quello del vicepremier. Come ad esempio Cesare - "Dopo 93 anni di vita da inutile comunista è arrivata la grande mietitrice - o Lory, che al tweet di Salvini replica: "MA PER FAVORE! Via un’altra zecca anacronistica di propaganda! Si respira meglio senza quel tisico kompagno komunista, molto meglio!". E ancora Mescal - "M'importa 'na sega di Camilleri #SALVININONMOLLARE" -, o l'utente Polterscheiss, che al tweet risponde con una gif animata sulla "vastità del c.... che me ne frega". Da Alessandro ecco quindi il monito al Capitano: "Sti ca..i Salvi, ricorda come te ha trattato.. Per certa gente - dice - nn si versano lacrime". Quindi Mortimer, che assicura: "Camilleri? Il comunista? Non me lo ricorderò...". Ma non è certo solo il post di Salvini a raccogliere i commenti avvelenati dedicati alla scomparsa del Maestro. A farne una raccolta, pubblicando nomi e cognomi, sono diverse fan page su Facebook, come ad esempio 'Abolizione del suffragio universale'. Qui infatti si trovano gli screenshot dei commenti di Marina - "Un pidiota di meno" -, Roberto - "Un voto in meno per il Pd. Rip nel regno dei comunisti ti troverai bene" -, Richard - "E' sempre un comunista in meno" - Andre - "Ohhhh ma che dispiacere è morto un vecchio tartarugone ritardato" - e Nicola, che taglia corto: "Una mer.. in meno". Comparsi in mattinata a centinaia su Twitter e Facebook alla notizia della morte dello scrittore, i commenti carichi di odio e insulti stanno man mano scomparendo dal web e dai commenti ai vari articoli linkati sui social grazie alle tante segnalazioni degli utenti e all'intervento dei moderatori delle pagine.

Dagospia il 17 luglio 2019. POTEVANO MANCARE GLI HATER? CERTO CHE NO: “ZECCA ANACRONISTICA”, “PDIOTA”, “UN COMUNISTA IN MENO”. 

Matteo Salvini: Addio ad Andrea Camilleri, papà di Montalbano e narratore instancabile della sua Sicilia. 2.102 09:25 - 17 lug 2019. 

LoryLynnTarallo:MA PER FAVORE! Via un’altra zecca anacronistica di propaganda! Si respira meglio senza quel tisico kompagno komunista, molto meglio!

Luca Colombo: Matteo, questa te la potevi evitare. Ricordare un seminatore di odio come Camilleri, un incallito ammiratore del comunismo, la più mortifera delle ideologie, un mediocre assurto a genio solo per la sua militanza, uno che disprezzava te e i milioni di italiani che ti votano....

Giovanni Drogo per Next Quotidiano il 17 luglio 2019.  Questa mattina è morto lo scrittore Andrea Camilleri. L’autore della fortunata serie de Il Commissario Montalbano si è spento oggi all’età di 93 anni, ad un mese dal suo ricovero in rianimazione all’ospedale Santo Spirito di Roma. Oggi come quel giorno di un mese fa Camilleri è vittima dell’oltraggio di chi ne festeggia la dipartita. Ad esultare, e la cosa non sorprende, sono i fan del ministro dell’Interno, in passato oggetto di critiche da parte dello scrittore siciliano.

Quella zecca anacronistica di Camilleri! L’elettore leghista, il fan salviniano, il patridiota quella dichiarazione di Camilleri se l’è legata al dito. Ed ha atteso pazientemente sulle rive del fiume che passasse il cadavere del “nemico” per dare il via ai festeggiamenti. Tutta colpa di quando lo scrittore disse che la vista (Camilleri ormai non ci vedeva più) di Salvini con il Rosario in mano gli dava “un senso di vomito”. Secondo Salvini e i suoi un insulto gravissimo. Ma in quell’intervista il narratore siciliano ne aveva anche per il PD e per il M5S. E già in un’intervista del 2013 aveva espresso giudizi ancora più duri nei confronti di Renzi e del M5S.

Salvini oggi su Twitter ha voluto mostrare di essere uno sportivo, dedicando un ricordo e un saluto al papà di Montalbano. I suoi fan però non hanno apprezzato il gesto. «Via un’altra zecca anacronistica di propaganda» scrive Lory, contenta di poter respirare meglio «senza quel tisico kompagno komunista».

Luca invece bacchetta “Matteo” e gli rimprovera di «ricordare un seminatore di odio come Camilleri, un incallito ammiratore del comunismo, la più mortifera delle ideologie, un mediocre assurto a genio solo per la sua militanza, uno che disprezzava te e i milioni di italiani che ti votano». Evidentemente criticare un politico che si fa le foto con il Vangelo o il Rosario in mano equivale a disprezzare tutti i suoi elettori. Chissà quanti di loro sanno recitare un Rosario.

Le scariche d’odio degli sciacalli contro Camilleri. Non va meglio nei commenti sparsi sotto i post dei giornali che danno la notizia del decesso dello scrittore. Anche lì è una gara a chi si dimostra capace di disprezzare meglio una persona che non può più rispondere agli insulti (e per fortuna Camilleri aveva troppa classe per farlo quand’era in vita). «Una merda di meno!», «È sempre un comunista in meno» si consolano alcuni che evidentemente non riescono a trattenere la gioia per la morte di una persona. Odiatore seriale, pdiota è così che alcuni scelgono di ricordare Camilleri, felici che ci sia “un voto in meno per il PD” e augurandosi cristianamente che “nel regno dei comunisti” lo scrittore possa trovarsi bene. Il migliore è senza dubbio quello che scrive “riposa non in pace comunista“, chissà quanto l’ha pensata prima di scriverla. Più che la frase sul rosario, che certamente rimane impressa nelle menti semplici, va ricordata in questa intervista rilasciata al sito di Michele Santoro e che risale al 25 aprile scorso dove fa notare al ministro dell’Interno che la Liberazione “non fu una rissa tra comunisti e fascisti come dice Salvini: così offende i caduti di entrambe le parti, perché i fascisti che andavano a morire giovani credevano in un ideale sbagliato, orrendo, ma ci credevano. Non posso trattenermi dal dire che con il governo di oggi abbiamo un esempio lampante di mentalità fascista, quella del ministro Salvini”.

M.A. per “il Messaggero” il 18 luglio 2019. «Montalbano è meno di sinistra di me». Parola di Camilleri. Che è stato un comunista romantico. Senza quei voli di fantasia, e quelle posizioni particolarmente originali ed eterodosse rispetto al benpensantismo goscista che comunque non sono richieste a uno scrittore. Il quale non amava affatto Salvini. Il tweet del capo leghista - «Addio ad Andrea Camilleri, papà di Montalbano e narratore instancabile della sua Sicilia» - ha suscitato infatti una mucchio di polemiche. Del tipo: «Salvini fascista non ti azzardare a nominarlo». Su di lui, l'inventore di Montalbano ha infierito tante volte, e l'ultima così: «Non credo in Dio, ma vedere Salvini che impugna il rosario mi dà un senso di vomito». «Scrivi che ti passa» era stata la replica del leader lumbard. A Berlusconi, Camilleri dedicò tra l'altro una poesia che lesse in piazza Navona a una manifestazione dei girotondi: «Ha più scheletri dentro l'armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici». Ma anche la sinistra ha colpito lo scrittore. Massimo D'Alema gli ispirò il personaggio del diavolo Delamaz, «un bruco coi baffetti che pilotava na varca sia pure fatta di foglie Dicivano macari che era ntelligenti, ma grevio e scostante». Prodi? «Dovrebbe fare un corso di dizione. Tra una sua parola e l'altra passano due treni accelerati di una volta». Per non dire di Renzi. Non lo poteva sopportare e alla vigilia del referendum disse che si sarebbe fatto portare a braccia lui cieco al seggio pur di votare No. Ma non era tenero neppure con i 5 stelle e con il loro «totale fallimento». Ma ora la polemica dei fan di Camilleri è su Salvini («Ipocrita», «Dovevi onorarlo da vivo»). E molti ricordano gli scontri tra i due. In un'intervista, di marzo, Camilleri aveva affermato: «Salvini sarebbe stato un meraviglioso federale di Mussolini». Gli ha anche dato del «mafioso» e del «razzista». Adesso però Salvini si dice addolorato: «Politicamente me ne ha dette dietro di tutti i colori, ma l'Italia ha perso qualcosa». E c'è chi è con lui e apprezza i suoi tweet di cordoglio: «Fu un suo tenace oppositore - scrive ad esempio Francesco - e il fatto che Salvini ugualmente lo ricordi dimostra che la Cultura può vincere sulla Politica».

Camilleri, senza esagerare. Marcello Veneziani il 17 luglio 2019. Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi impietosi detrattori ma anche dai suoi esagerati incensatori. Andrea Camilleri era uno scrittore televisivo che vendeva libri, che intrigava con le sue trame e il suo linguaggio fantasiculo; che sapeva gigioneggiare dall’alto dei suoi novant’anni, recitando un ruolo ironico-profetico da oracolo televisivo che parodiava bene Fiorello. E poi, per compiacere la Ditta, Camilleri andava sul sicuro, faceva l’antifascista, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, oggi antisalviniano ma sempre contro il Duce, a babbo morto. Una polizza per la gloria. Era uno scrittore bravo, non un Grande Scrittore, come lo presentano. Non entra nella grande letteratura, non esagerate, ma rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria letterario-televisiva. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga, e pure a Sciascia. Via, abbiate senso della misura. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto.

Camilleri, ottimo scrittore ma cattivo maestro. Alessandro Gnocchi, Giovedì 18/07/2019, su Il Giornale. Dietro il simpatico aspetto da nonno della nazione, si celava un uomo dalle unghie affilate. Quando doveva giudicare le vicende italiane, in particolare la politica, Camilleri lasciava da parte lo spirito analitico del detective per far uscire uno spirito da hooligan. Raffinato scrittore e grossolano commentatore, Camilleri si è sempre esposto dalla parte giusta, quella più conveniente per un intellettuale italiano. Lo ha fatto con piglio sicuro. Nel 2008 ha pubblicato le Poesie incivili ispirate a Marziale, senza offesa per Marziale. Ecco qualche esempio: «Il ricco porco, eletto a capo dei suoi simili/ alle scrofe da lui montate ripagò il favore/ ammettendole al truogolo riservato a pochi/ a suoi legulei, ai suoi giornalisti, ai suoi boia/ grufolanti e grugnenti. I porci, com'è noto/ non sono bestie di fiuto fine. Rovistano nel letame/ vi si rotolano, vivono alla giornata. Non sospettano/ che un giorno saranno mutati in salsiccia». Una «raffinata» analisi in versi ispirati dall'odio per Silvio Berlusconi e i suoi elettori. Come questi altri: «A loro il linguaggio non si forma nel cervello, ma nel ventre/ e quindi non emettono fonemi, ma borborigmi, rutti, scoregge». Roba imbarazzante. Per carità, non ce l'abbiamo con Camilleri perché faceva satira su Berlusconi. Ben venga la satira su chiunque. Camilleri incarna piuttosto l'incapacità di capire gli avversari politici, la presunzione di essere migliori degli altri, lo scarso interesse per un mondo, quello estremamente variegato della destra, che andava al di là di Berlusconi. Una destra sola conosceva Camilleri: il fascismo. Era infatti cresciuto nel Ventennio. Nato nel 1925, un anno dopo l'assassinio Matteotti, era adolescente quando furono approvate le leggi razziali. Durante la guerra civile era maggiorenne. Ma anche questa tragica esperienza è stata piegata alla ragione dell'applauso e del consenso. Disse nel 2010 a una platea di ragazzini: «L'unica cosa che posso dirvi è di farvi condizionare il meno possibile da una società che finge di darti un massimo di libertà e che in realtà ti sottopone a un massimo di condizionamenti». Gran finale: «Potrà sembrare un paradosso ma ai miei tempi, sotto il fascismo, si era molto più liberi di oggi». Il giudizio è insensato sotto ogni punto di vista. Senza contare che Camilleri, già all'epoca, pubblicava regolarmente i suoi libri con due case editrici, una delle quali di proprietà di Silvio Berlusconi. Eja Eja Camilleri. Negli ultimi tempi, come tutti i sedicenti intellettuali, si era scagliato contro Matteo Salvini. Pochi giorni prima di morire, aveva dichiarato: «Stiamo peggiorando in tutto: nel linguaggio, nel modo di rapportarci gli uni con gli altri, in questa assurda aggressività. La politica dà un cattivissimo esempio, e i cittadini, il 90% ci sguazza». Il popolo dunque era bue. E il leader della Lega? «Non credo in Dio, ma vedere Salvini impugnare il rosario dà un senso di vomito. È chiaro che tutto questo è strumentale. Il Papa che sa quello che fa, non impugna il rosario, baciandolo. Sa che offenderebbe i santi nel momento in cui se ne serve. Fa parte della sua volgarità». Sì, Camilleri era un tipico intellettuale italiano: credeva di essere un modello di libertà dello spirito e invece vedeva solo quello che voleva vedere. Fiero in cuor suo di essere il portavoce di idee antagoniste, in realtà era il fedele vassallo dei vincitori. Certo di sfatare i luoghi comuni, come tutti i falsi anticonformisti, era prigioniero del pregiudizio. Confondeva il paternalismo con l'amore per il popolo. Non a caso, nove italiani su dieci, a suo dire, sguazzavano nella volgarità. Il valore della sua indignazione è sempre stato fissato dal mercato che, da comunista, forse voleva abbattere. Ironia della sorte, era il prodotto perfetto per gli scaffali delle librerie.

Marco Ciriello per Il Mattino il 19 giugno 2019. La morte fa perdere sempre il senso delle cose, la misura della realtà e porta i deboli e i poco sapienti a spararla grossa per sentirsi parte della perdita, per entrare nella partita. Andrea Camilleri è stato salutato come un papa, e ci sta, sicuramente è stato un bestsellerista mai banale, ma non era il più grande intellettuale italiano di questi anni, come è stato scritto a giornali unificati. È mancato l’equilibro nei ricordi, e si è lasciato prevalere il sentimentalismo. In questi anni ci sono stati e ci sono ancora Alberto Arbasino – soprattutto – Gianni Celati, Antonio Tabucchi, Umberto Eco, e diversi altri, che non si sono fossilizzati in un genere e che pure hanno fatto parte del dibattito politico, ma si è lasciato e si lascia, ormai, parlare solo il mercato, la mole delle vendite, l’occupazione dei cataloghi, riducendo “Horcynus Orca” a un errore. Si calcolano solo i benefici delle vendite camilleriane e non l’offuscamento di altri scrittori con una lingua più potente come Vincenzo Consolo. La morte dovrebbe essere il momento dei bilanci – non economici –, ma diventa il momento solo dei successi, senza ombre, senza critiche, finendo per fare un torto alla grandezza del morto.

Clinton e Camilleri si sono più volte scambiati messaggi e avevano intenzione di organizzare un incontro per conoscersi di persona. Gioacchino Amato il 19 luglio 2019 su La Repubblica. Roma, l'addio ad Andrea Camilleri: in migliaia al cimitero acattolico. Riposerà vicino a Gramsci. "Ho letto, ho apprezzato e ho imparato molto dalla lettura dei libri di Montalbano di Andrea Camilleri. Era uno scrittore saggio e di talento. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Mi mancherà e mi mancherà Montalbano, molto". È il tweet postato dall'ex presidente degli Stati Uniti in memoria di Andrea Camilleri. In realtà Clinton e Camilleri si sono più volte scambiati messaggi e avevano intenzione di organizzare un incontro per conoscersi di persona. L'ex presidente Usa, infatti, è anche scrittore e nel 2018 si è cimentato nel giallo per l'editrice Longanesi. Il romanzo è "Il Presidente è scomparso", scritto a quattro mani con il maestro del thriller James Patterson.

Lutto cittadino per Camilleri ma il manifesto del Comune è pieno di errori di ortografia. Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 su Corriere.it. «E’ partito, si e separato da suoi cari, dalla sua «Marina», ma lascia una grande Eredetà: le sue grandi riflessioni sulla vita, ma anche sulla morte, i suoi romanzi, colmi di sicinialità, la sua instancabile voce; Eredità che i marinisi tramanderanno ai propri figli, perché ne facciano tesoro e crescano fieri di vivere nella terra che fù di Nenè Camilleri. Firmato: «il Sindaco e l’Amministrazione Comunale» di Porto Empedocle. E’ il manifesto fatto affiggere da Ida Carmina, sindaco del comune natio di Andrea Camilleri nonché docente di scuola secondaria superiore, in occasione della sua scomparsa. L’annuncio pieno zeppo di errori di ortografia ha suscitato la rabbia e l’ilarità di quanti lo hanno letto e immediatamente postato sui social. «Si tratta di errori tipografici» ha tentato di spiegare il sindaco alla stampa locale facendo ricadere la colpa sul tipografo che non sarebbe riuscito a correggere in tempo la bozza. L’azienda che ha stampato il manifesto è la tipografia Bulone che lavora in questo settore dal 1927. Ma i titolari, contattati dal Corriere al telefono, hanno smentito la versione del primo cittadino. «Abbiamo semplicemente ribattuto la bozza inviataci dal funzionario comunale - replica Maurizio Bulone, 42 anni, titolare della tipografia insieme al fratello Salvatore -. Non solo. Prima di farli affiggere abbiamo inviato la nuova bozza tramite Whatsapp all’impiegata comunale che ci ha dato nuovamente l’ok, abbiamo i messaggi conservati sul telefono. Noi non abbiamo colpe». Ma possibile che nello stampare il manifesto non si siano accorti di errori abbastanza grossolani? «Guardi, io lavoro da quando ho finito la terza media, ho molta esperienza, per un paio d’anni ho frequentato anche la scuola per geometri, quindi non sono un analfabeta. Qualche errore effettivamente c’era ma mi sembrava insignificante. Tanto clamore è ingiustificato». Una battuta degna del Catarella firmato Camilleri. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 giugno 2019. La morte di Camilleri, pur attesa, ha suscitato in Italia una ondata di scalpore. Se ne è andato uno scrittore molto popolare e ciò è spiacevole, tuttavia bisogna ricordare che egli viaggiava verso i 94 anni. Ha resistito un mesetto grazie all' ausilio di macchinari sofisticati, poi ha ceduto. A una certa età si crepa, è inevitabile per ogni persona, geniale o insignificante. Già, più che vecchi non si può diventare, lo sappiamo. Il cordoglio per Camilleri è doveroso, stiamo parlando di un signore che alla letteratura ha dato qualcosa di importante e non si può ignorare. Però c' è un però. Il narratore era ed è ancora rispettabile, le sue idee politiche invece erano grossolane se non banali, indegne di essere prese in seria considerazione. Egli non ha mai nascosto i propri orientamenti comunisti, antiquati, obsoleti e addirittura ridicoli. Il marxismo per fortuna ha tirato le cuoia prima dello scrittore siciliano e il fatto che questi non se ne rendesse conto la dice lunga sulla sua personalità tramontata. In questi giorni la tv ha diffuso una dichiarazione del povero vegliardo Andrea, riguardante Salvini, disprezzato dal dichiarante poiché sorpreso a baciare il crocefisso. Confesso che anche a me il gesto del capo leghista ha impressionato pure me e non mi è piaciuto, ma non ho capito e non capisco perché sia stato giudicato scandaloso, fuori luogo. Ciascuno ha il diritto di manifestare le proprie preferenze religiose, pur sfruttate a fini politici, anzi elettorali. A nessuno venne in mente di criticare don Luigi Sturzo in quanto fondatore della Democrazia Cristiana, che nel proprio simbolo recava la croce. Né alcuno osò strapazzare gli scudocrociati perché, in accordo col Vaticano, nel 1948, mandarono in giro per l' Italia la Madonna pellegrina allo scopo di procacciare voti alla Dc. Operazione che ebbe un successo strepitoso. Spiegatemi per quale motivo era lecito a quel tempo sfruttare la Vergine per riempire le urne mentre oggi è vietato a Matteo di "brandire" il rosario? Usare due pesi e due misure per valutare episodi analoghi è scorretto, anche se a farlo è un artista della penna. Camilleri merita i nostri elogi per la sua attività di uomo di lettere, non certo per quella di propagandista bolscevico, della quale non si è mai vergognato. Quanto al suo commissario Montalbano, non credo sia obbligatorio osannarne l'invenzione: a me sta sulle balle. Pretendo di poterlo affermare senza essere condannato per blasfemia. Una mia amica mi informa che Camilleri tempo fa salvò un gattino dalle grinfie di alcuni ragazzetti che se lo rimbalzavano quale pallone. Una scena orribile cui l' autore isolano pose fine prendendo con sé il povero felino, il quale gli restò accanto per 18 anni. Questo episodio mi intenerisce e mi convince che Andrea era una persona generosa e sensibile. Gliene rendo merito.

Da I Lunatici Radio2 il 19 giugno 2019. Vittorio Feltri è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Su Andrea Camilleri: "Non l'ho mai conosciuto, però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c'è sempre un certo dolore. Però mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. Basta, mi ha stancato. Poi quando vedo Montalbano mi viene in mente l'altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, in me Camilleri suscita ammirazione, è un grande scrittore, e bisogna ricordare che la lingua italiana è nata in Sicilia, solo dopo abbiamo adottato quella Toscana. E i siciliani parlano meglio di qualunque altro italiano. E scrivono meglio degli altri italiani".

Redazione Bergamo News 19 giugno 2019. Feltri: “Non vedere più Montalbano in tv unica consolazione se Camilleri se ne va” Dall'editoriale di mercoledì 19 giugno all'intervista in radio: il pensiero del giornalista bergamasco sullo scrittore siciliano sta creando imbarazzo e indignazione. Il dispiacere per le condizioni siche di “un grande scrittore”, le lodi per le sue “capacità affabulatorie” e, inne, il solito commento personale senza peli sulla lingua: sta creando imbarazzo e indignazione l’editoriale del direttore di Liberto Vittorio Feltri, pubblicato sull’edizione di mercoledì 19 giugno. Già dal titolo “Pur grande scrittore – Andrea Camilleri marxista impenitente” si era capito su cosa avrebbe poggiato il commento del giornalista bergamasco: “Camilleri è in punto di morte e probabilmente se ne andrà presto – inizia – Mi affretto a dire che, per quanto comunista, aveva un talento notevole di narratore che me lo rendeva simpatico”. Così, nella storia “politica” di Camilleri, Feltri inserisce anche le lodi per le sue qualità: “Alcune sue opere si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria siciliana, cito a capocchia Pirandello, Verga, Sciascia. D’altronde la lingue italiana si è sviluppata in Sicilia per merito di Federico II di Svevia, sebbene in seguito sia stato ufcialmente adottato l’idioma toscano o, meglio, orentino. Segno che gli isolani padroneggiano il lessico e non stupisce che palermitani e catanesi siano diventati scrittori importanti, fondamentali. Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile”. “L’arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi – ha concluso – Oggi, di fronte alla probabilmente prossima ne, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L’unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che nalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo”. E il direttore di Libero ha poi confermato tutto a Rai Radio2, nel programma I Lunatici: “Non ho mai conosciuto Camilleri però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c’è sempre un certo dolore. Mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. E mi fa venire in mente l’altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, Camilleri mi suscita ammirazione, è un grande scrittore”.

Feltri su Camilleri: “Se muore non vedremo più il terrone rompicoglioni Montalbano”. Marco Nepi il  19 Giugno 2019 su TPI. Andrea Camilleri? “Mi dispiace per lui, ma se muove non vedremo più qual terrone di Montalbano”. Sono parole e musica di Vittorio Feltri, nel suo editoriale di oggi in prima pagina su Libero, commentando le condizioni dello scrittore siciliano, da due giorni ricoverato in ospedale in condizioni gravi. Il giornalista, nel suo articolo “Andrea Camilleri marxista impenitente” scrive: “Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile. Ma la sua testa matta, oltre che affascinante, desta qualche perplessità”. Andrea Camilleri – continua Feltri su Libero – “non riusciva a capire che il marxismo era già marcio ancor prima di imporsi. E quando esso si rivelò una bufala e svanì quale neve al sole, Andrea non ebbe la forza di riconoscerne il fallimento brutale. Rimase rosso ma non di vergogna. Egli ha rivendicato fino all’ultimo la sua adesione al bolscevismo. Tuttavia l’arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi. Oggi, di fronte alla probabilmente prossima fine, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo”. Poi l’affondo contro Salvo Montalbano, il protagonista della amata e fortunata serie televisiva nata dai romanzi di Camilleri, interpretato dall’attore Luca Zingaretti, fratello dell’attuale segretario del Pd Nicola Zingaretti. “L’unica consolazione per la sua eventuale dipartita – scrive Feltri – è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo”. Senza mezze misure.

"Camilleri in punto di morte. Chi è, cosa penso di lui". La parola a Vittorio Feltri. Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. Andrea Camilleri è in punto di morte e probabilmente se ne andrà presto, come è ovvio che sia: un uomo, benché bravo nel suo mestiere, essendo giunto a 94 anni pur fumando montagne di sigarette (alla faccia degli antitabagisti), più che vecchio non può diventare. A tutti tocca andare al cimitero, lui non fa eccezione come non la farò io. Attendo il trapasso senza fretta, però so che arriverà. Mi preoccupa il modo. Più che il decesso temo la sofferenza che esso spesso comporta. Chiunque vorrebbe tirare le cuoia durante il sonno, non rendendosene conto. Ciò detto mi affretto a dire che Camilleri, per quanto comunista, aveva un talento notevole di narratore che me lo rendeva simpatico. Egli ebbe un gran successo quando aveva superato i 70 anni. Non è una bella cosa affermarsi in età pensionabile, ciononostante è sempre meglio che non affermarsi mai. Alcune sue opere si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria siciliana, cito a capocchia Pirandello, Verga, Sciascia e ne trascuro altri per brevità. D' altronde la lingua italiana si è sviluppata in Sicilia per merito di Federico II di Svevia, sebbene in seguito sia stato ufficialmente adottato l' idioma toscano o, meglio, fiorentino. Segno che gli isolani padroneggiano il lessico e non stupisce che palermitani e catanesi siano diventati scrittori importanti, fondamentali. Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile. Ma la sua testa matta, oltre che affascinante, desta qualche perplessità. Non riusciva a capire che il marxismo era già marcio ancor prima di imporsi. E quando esso si rivelò una bufala e svanì quale neve al sole, Andrea non ebbe la forza di riconoscerne il fallimento brutale. Rimase rosso ma non di vergogna. Egli ha rivendicato fino all' ultimo la sua adesione al bolscevismo. Tuttavia l' arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi. Oggi, di fronte alla probabilmente prossima fine, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L' unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo. Vittorio Feltri

Ruotolo e Borrometi si autosospendono dall'Ordine dei giornalisti: "Le parole di Feltri su Camilleri sono inaccettabili". I due giornalisti: "Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria". Il presidente Verna: "Sarà sottoposto a procedimento disciplinare". La Repubblica il 20 giugno 2019. "Caro Presidente, abbiamo deciso di autosospenderci dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l'iscrizione all'albo professionale di Vittorio Feltri". Comincia così la lettera aperta scritta da Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo al presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna. "Proprio noi, che più di altri, ci battiamo per la difesa dell'articolo 21 della Costituzione, riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista" scrivono i due giornalisti. "Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere - aggiungono - hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui. Quel "terrone che ci ha rotto i coglioni" per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione. Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia". "Dopo la miseria portano le malattie" (rivolto ovviamente ai migranti), l'ormai tristemente celebre "Bastardi islamici" - ricordano ancora nella lettera - o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come "Più patate, meno mimose" in occasione dell'8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il "patata bollente") o "Renzi e Boschi non scopano". Poi gli insulti a noi del sud con il celebre "Comandano i terroni" e infine il penultimo, di qualche mese fa, "vieni avanti Gretina" (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)". "L'idea che Vittorio Feltri offre - sottolineano - è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico. E non è un problema solo suo. Almeno, non lo è più. A lui non frega niente: il limite, la deontologia, la misura, il buon senso, diremmo perfino la dignità sembrano saltate da tempo. Noi siamo convinti che resti intatta la bellissima frase che recita "Non condivido le tue idee ma darei la vita per permetterti di esprimerle". Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all'odio. Ne va della nostra credibilità". "Condivido le ragioni dei colleghi Borrometi e Ruotolo sul caso Feltri-Camilleri, se l'ordine dei giornalisti fosse un club mi autosospenderei pure io. Ma non lo è e l'istituto dell'autospensione non esiste, ci si può semmai cancellare, astenendosi dallo svolgere la professione e salvo il diritto d'opinione per poi iscriversi di nuovo quando sono cessate le ragioni di cui alla polemica". Così Carlo Verna, presidente dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti, replica alla lettera aperta di Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi. "Ma l'occasione è opportuna per chiarire il funzionamento in base alla normativa vigente dei consigli di disciplina - aggiunge Verna - totalmente autonomi dopo la cosiddetta legge Severino rispetto all'Ordine e in ogni caso privi di poteri cautelari di sospensione perché per fortuna esiste l'articolo 21 della Costituzione. Per cui Feltri come chiunque altro potrà semmai essere sottoposto al rituale procedimento disciplinare, al termine del quale ci sarà un pronunciamento che tutti dal sottoscritto a Borrometi e Ruotolo dovranno rispettare. Poi naturalmente le leggi si possono cambiare se il Parlamento lo ritiene e in tal senso già il consiglio nazionale ha avanzato proposte di riforma per ciò che attiene ai giornalisti,mentre per quel che riguarda le separate funzioni disciplinari la normativa è la stessa per tutti gli ordini professionali", conclude.

·         Camilleri e Ceronetti.

Camilleri e Ceronetti. Augusto Bassi il 19 luglio 2019. Guardo la mia luce che muore… è l’unica risposta che un saggio vi darà in età molto avanzata quando gli domanderete testimonianza. Nel giro di pochi mesi sono mancati Guido Ceronetti, a 91 anni, e Andrea Camilleri, a 93. Ebbene, alla pressoché totale indifferenza che ha accompagnato il viaggio del primo, si è registrata una straripante esibizione pubblica di cordoglio a scortare il secondo, investito di aura cristologica e chiamato perlopiù Maestro. Sorvolando sugli aspetti più intimi dell’uomo, che non conoscevo e che mi impongo di non inferire dalle oppugnabili prese di posizione politiche, la distanza intellettuale che separava Camilleri da Ceronetti era più ampia di quella che ha separato le rispettive eulogie. Per il primo l’oblio, per il secondo la gloria. Perché? La gloria non è altro che la capacità di intercettare l’imbecillità dei tempi? Non sarei così sbrigativo. Credo comunque che Camilleri sia stato il perfetto campione di un tipo umano, che tante volte abbiamo descritto in queste pagine. Tipo umano che vede nella cultura qualcosa di decorativo, da indossare, un accessorio pronto da portare: si può scegliere un foulard, una borsa e un libro di Camilleri. Che garantisce l’esibizione di un impegno senza richiedere impegno alcuno. In questa vicenda di afflizione mediatica vi è tuttavia un elemento supplementare e centrale, che tante volte abbiamo discusso, con gli amici Valentina, Franz e molti altri. Manca, al pensiero sapienziale libero, il marketing culturale, che è esercitato esclusivamente dalla serva controparte. Perché il pensiero libero lo rifugge, lo esecra. Quando mi dicono: «saresti anche bravo, ma non ti sai vendere», pensano di denigrarmi. In realtà sbagliano il verbo servile, perché servi sono e non mi denigrano affatto. Purtuttavia, sottolineano La questione. E’ necessario, urgente, opporsi al nulla, alla demenza che irrompe dove arretra o è assente il pensare, ai sinistri gangli di un dominio che dalla fine del Fascismo ha edificato l’imperialismo di un non-pensiero tecno-consumistico, fintamente umanitarista perché irriducibilmente antiumano, che nessun totalitarismo era mai stato capace di produrre. «Ma come fare se i sistemi scolastici più progrediti, i meglio come i peggio funzionanti, sono già in varia misura in suo potere? L’insegnante non contaminato trova il terreno occupato da qualcosa di soverchiante. Tutte le scuole organizzate in istituti si vanno a poco a poco configurando, adunata di arresi, come scuole, apparentemente libere, di suicidio mentale, vedo le loro pacifiche mani arrivare a toccare di nascosto i ramificati artigli delle scuole di terrorismo sacrificale. Quando sento parlare della funzione universitaria, di mera preparazione dei giovani in vista dei posti aziendali e professionali, mi pare incombente anche lì la nera sagoma di chi insegna a far scattare sul proprio corpo il dispositivo della strage suicida. Non sarai fatto a pezzi materialmente: lo sarai mentalmente, spiritualmente, e il tuo premio di paradiso sarà una rendita adeguata, l’illusione di muoverti senza manette sprofondato in un’oppressura disgregante, da cui non potrai più uscire. Il Nulla non è nei videogames e nelle discoteche: nel 1830 Georg Büchner scrisse, nella tragedia sulla morte di Danton: das Nichts, il Nulla «è il Dio che sta per nascere»… Quasi duecento anni dopo si può considerarlo universalmente cresciuto. Ma se l’insegnante è innanzitutto filosofo per se stesso, non troverà inesplicabile quanto gli succede e che lo impressiona dolorosamente: vedrà l’impero del Nichts, il Dio Tecnica heideggeriano nella sua onnipotenza, vedrà i confini del Nulla estendersi fino ai confini del mondo, e con la parola di un profeta, il lontano Isaia: “un Resto tornerà” si fabbricherà un’isola di rifugio. La filosofia, sempre i suoi maestri l’hanno saputo, non è ugualitaria. In una classe di trenta allievi ce ne può essere uno segnato per accoglierla, o neppure quell’unico. I pochi esistono: certo non è facile scoprirli, radunarli. Dai molti, dai più, ricavi scherni. Neppure compunzione ipocrita, rispetto finto: rivolte, scherni, ostilità aperta… E di questo Michael Smadja è consapevole: accenna all’inevitabilità di riservare la filosofia ad una élite “come nel Medioevo”, ai rari meritevoli di apprendere l’Inutile, di comprenderne la bellezza». Scrissi di Ceronetti in La città violata quando era ancora al mondo. Non mi macerai nel cordoglio per la sua morte. Non lo celebrai con messaggi commossi. Io mi sarei dovuto violentare, lui avrebbe detestato. Invece il promoter dell’industria culturale, il soldatino o la cheerleader del dominio… si vestono a lutto affinché la loro parata esistenziale sia la più magniloquente possibile, il loro schieramento più evidente. E si ammassano dove individuano la forza del collettivo dominante: a sinistra. Per separarsi e proteggersi dalla massa di chi credono essere i dominati, i subalterni: a destra. E per esibire ciò che non possiedono e segretamente invidiano: il pensiero. Quando entro in collisione con queste buffe e tragiche creature trovo sempre esemplare fingermi il perfetto troglodita che loro sognano di trovare. Non per un più sottile piacere della vanità – il fingersi imbecilli è delizioso – ma per osservare come si eserciti la cieca tirannia del collettivo. Loro, accoglientisti, tolleranti, dalla parte degli ultimi, non hanno alcuna pietà per te che non sai. Non ti invitano con gentilezza a scoprire quei mondi meravigliosi di virtute e conoscenza che loro abitano; sono piuttosto pronti a buttarti a mare mentre cerchi di salire sulla loro barca, anche se annunci disperatamente di non saper nuotare, anche se chiedi un permesso di soggiorno per motivi umanitari: loro vogliono guardarti annegare. Se poi riaffiori, e, ponendo fine alla farsa, ti lasci andare a qualche disinvolta bracciata… allora diventano famelici barracuda con denti da filetti di merluzzo, fanno banco e cercano di divorarti. In questi giorni di accascianti peana per il pur rispettabilissimo Andrea Camilleri, mentre i quasi pensanti ciarlano di Maestri, di intellettuali padri della patria, di cultura, di sapere, mi immagino quel Sapere osservarli come il Pappagallo di Palazzeschi: La gente passando si ferma a guardarlo, si ferma parlando fischiando e cantando, ei guarda tacendo. Lo chiama la gente, ei guarda tacendo.

Guido Ceronetti, l’ultimo bardo gnostico che cantava il dolore per la bellezza perduta. Morto a 91 anni il più irregolare degli scrittori italiani. Ernesto Ferrero il 14 Settembre 2018 su La Stampa. Nessun uomo è uguale alla somma delle sue apparenze», sogghignava Guido Ceronetti citando Valéry, consapevole che era impossibile stringerlo all’angolo di una sola etichetta, lui, l’irregolare e l’inclassificabile per eccellenza, che solo una società paramilitare e positivista come il Piemonte poteva produrre. Traduttore, poeta, narratore, saggista, corsivista, giornalista, disegnatore, cantastorie, marionettista (padre del casalingo e presto leggendario «Teatro dei sensibili», 1970), regista-attore di strada e di nicchia, profeta disarmato, filosofo, linguista, antropologo, collezionista d’oggetti surreali dell’uso quotidiano, di storie improbabili, di delitti rivelatori (Rosa Vercesi), epistolografo sommo (ha vergato migliaia di cartoline pittate da lui medesimo). Persino premiato ballerino di tango in gioventù e appassionato cultore di boxe. Si è sempre mosso con frenesia mercuriale nei millenni, ovunque si consumasse la tragicommedia dell’uomo, il suo interminabile incontro-scontro con le divinità. Felicemente unico anche nei panni dell’apocalittico, qualifica che rifiutava quasi con sdegno. Ci voleva soltanto mettere in guardia contro l’ottimismo, che è pernicioso perché si rifiuta di guardare in faccia le cose per quello che realmente sono («Come l’ossido di carbonio: uccide lasciando sui cadaveri un’impronta di rosa»). Libero e imprevedibile come un uccello. Del volatile araldico, uscito da una stampa di Dürer o di Callot, aveva i tratti. Nessuno si sarebbe stupito se si fosse sollevato in volo, o avesse camminato sulle acque del Po. Esce (1927) da una famiglia della piccola borghesia. Il padre, titolare di una piccola impresa di decorazioni, maniaco dell’ordine, sposa una cugina commessa. Puntualizza Guido: «Torinese sì, per foglietto anagrafico, l’accento incorreggibile, i ricordi… Finisce lì, io sono quello che ripeto spesso di essere, un cittadino di Gerusatene», Gerusalemme più Atene. Eppure il suo vero imprinting va cercato nelle vecchie case di ringhiera, nei fumosi cinemini di periferia, nelle balere, al Balôn, come si può leggere nel Piccolo inferno torinese (Einaudi, 2003).

Alle elementari dai Gesuiti ha per compagno il futuro cardinal Martini. È uno studente difficile che non accetta di essere eterodiretto, sia pure da un maestro. Appartiene alla specie non rara dei torinesi nomadi. Viaggiatore compulsivo, detesta le megalopoli, va a vivere in centri piccoli (Albano Laziale) o minuscoli (la medioevale Cetona), in case monacali affollate di libri (tra cui, si vanta, 200 dizionari). Quando all’inizio degli anni ’60 compare nella redazione della Einaudi, padroneggia il francese, il tedesco, il latino, il greco, l’ebraico. È già avvolto in impermeabili sapientemente sdruciti, capelli spiritati su una gran fronte spaziosa e naso imperioso, che lo fanno somigliare ad Artaud. Basco sulle ventitrè, voce strascicata, nemico acerrimo delle ideologie, ironizza sulle magnifiche sorti e progressive del socialismo reale. Anticomunista convinto dopo aver visto La corazzata Potëmkin e ambientalista quando i Verdi non era ancora nati. Vegetariano irriducibile dal 1957, sostiene con Leonardo che l’uomo non può ridursi a «transito di animali morti». «Salvate il mondo. Mangiate esclusivamente carne umana», recita un pensiero del 2014, ferocemente sarcastico. Ma misantropo non è: come già l’adorato Céline e Gadda, ama l’uomo di troppo amore per accontentarsi della risibile caricatura di se stesso che è diventato. Chiosa beffardo: «Con l’indignazione mi guadagno il pane. In cambio di scherni ricevo fama. Il furore contro l’uomo mi fa sentire vivo: irascor, ergo sum». Frequenta quello che allora veniva chiamato, con un brivido di disappunto, l’irrazionale. Giulio Bollati, che l’aveva scoperto, gli affida la revisione della traduzione dal tedesco del gran libro del Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo. A cose fatte, si scopre che Guido aveva interpolato di suo pugno interi paragrafi, là dove gli pareva che l’autore non ne sapesse abbastanza. Da quegli inserti apocrifi Bollati trae la conferma di avere identificato una piccola miniera, e lo dirotta nientemeno che sugli Epigrammi di Marziale per l’austera collana dei «Millenni». È quello il Big Bang del fenomeno Ceronetti, l’impresa sbalorditiva che infrange le regole severe della Traduzione. Guido ne combina un’altra delle sue: mette una mongolfiera in Marziale. Però ci sta benissimo, e lì viene lasciata. Nessuno gliela ha mai rimproverata. Seguono i Salmi, Catullo, Giovenale, il Qohélet, il Cantico dei cantici, Il libro di Giobbe, Il libro del profeta Isaia. Più che traduzioni, sono riscritture, reinvenzioni da vero artista, che vi può sfrenare la sua lingua ipercolta, tutta metafore tese da uno spasimo espressionista. Quasi una prosecuzione, o una integrazione, di un lungo lavoro poetico, da una prima raccolta del 1968 a Poesie per vivere e non vivere (1979), Compassioni e disperazioni (1987), Sono fragile sparo poesia (2012). Non contento, al pari di Pessoa si inventa un eteronimo, il poeta turco Mehmet Gayuk, cantore delle delizie e dei drammi del Gineceo (1998). La fama crescente gli apre le pagine de La Stampa, su cui scriverà per 40 anni. Nasce il Ceronetti corsivista, elzevirista, fustigatore pubblico, esploratore irritabile che percorre l’Italia per stilare il catalogo dei guasti in atto e di quello che ancora si salva di un immenso patrimonio umano e artistico abbandonato a se stesso. In Un viaggio in Italia e in Albergo Italia è già anticipata profeticamente la crisi terminale che stiamo vivendo. Nelle pagine giornalistiche e nei libri (Il silenzio del corpo, Pensieri del tè, La pazienza dell’arrostito, Cara incertezza, La lanterna del filosofo, Insetti senza frontiere, Tragico tascabile, e da ultimo Per le strade della Vergine, tutti presso Adelphi) prende forma un pantagruelico zibaldone, ribollente di citazioni erudite, aforismi, aneddoti storici, etimologie, letture, dissertazioni medico-legali, sogni, ossessioni. Al pari di un fachiro, si sdraia sul letto di chiodi che è l’esplorazione del Male e di lì guarda provocatoriamente il lettore con un sorriso sapienziale che non lascia scampo. Come Pasolini, cerca il divino nella fisicità, nel corpo offeso degli uomini. Quale che sia l’inchiostro nerissimo in cui intinge la penna, riesce a trasformarlo in colore verbale per vincere la sfida contro la Storia e la Morte. Dalle sue voluttuose requisitorie contro «le ondate spaventevoli del brutto e del dolore», vera cura omeopatica, si esce ogni volta non depressi ma tonificati. Ha sempre rivendicato il valore salvifico della tragedia, Ceronetti. Senza di lui, adesso, dovremo accontentarci della farsa.

Guido Ceronetti, i libri da leggere. Scomparso a 91 anni, il poeta Ceronetti lascia un’eredità letteraria importante e ancora attuale. Andrea Bressa il 14 settembre 2018 su Panorama. Una broncopolmonite ha stroncato Guido Ceronetti nella sua casa di Cetona, in provincia di Siena. Aveva 91 anni lo scrittore, poeta, filosofo (non per scelta), drammaturgo e intellettuale fra i più alti e originali nel panorama culturale italiano del Novecento e dei primi Duemila. Come un moderno anacoreta Guido Ceronetti conduceva da anni una vita fuori dai riflettori. Misantropo e pessimista nella sua lettura del ruolo dell’uomo nel mondo, descriveva però la realtà circostante con una caustica ironia e una vitale lucidità. Iniziò la propria carriera nel '45, collaborando con diversi giornali, ma la sua curiosità lo portò a interessarsi alle più disparate discipline umanistiche. Tradusse dal latino Marziale, Giovenale, Orazio e Catullo e si occupò anche di ebraico antico, proponendo famose traduzioni di alcuni scritti biblici (Qohèlet, Salmi, Libro di Giobbe, Libro di Isaia e Cantico dei Cantici). La sue principali espressioni letterarie furono la poesia e le raccolte di aforismi, ma si cimentò anche con il teatro, in particolare con gli spettacoli di marionette del suo celebre Teatro dei Sensibili. Scegliere quali siano le opere più significative di Guido Ceronetti non è semplice. I suoi lavori, che siano poesia, drammaturgia, narrativa, saggistica, traduzioni o raccolte di aforismi, rappresentano un unico grande corpo letterario da esplorare nel suo insieme per riuscire a comprendere pienamente un autore così libero da schemi ed etichette. Abbiamo comunque provato a selezionare una breve lista di opere capitali, in grado di dare il giusto avvio per provare a scoprire o riscoprire Guido Ceronetti e l’entità del suo contributo alla letteratura e alla cultura italiana.

Un viaggio in Italia. Fra il 1981 e il 1983 Ceronetti, su consiglio di Giulio Einaudi, percorre in lungo e in largo la Penisola. Visita città, musei, piazze, manicomi, cimiteri e tanti altri luoghi, annotando impressioni e riflessioni sulla degradazione che l’uomo causa all’Italia (e al mondo). Il risultato di quell’esperienza è in questo libro, più volte ristampato e aggiornato negli anni. 

Scrive l’autore: “Il campo di lotta tra Bene e Male è dappertutto, dove c’è un uomo capace di pensare: in Italia il loro contendere ha sempre coinvolto la bellezza, l’ha avuta come suprema moderatrice, oggi per vittima”. Si tratta per molti dell’opera migliore per riuscire ad avere un’infarinatura del pensiero spiazzante, eccessivo e unico di Guido Ceronetti. Un viaggio in Italia di Guido Ceronetti (Einaudi) 380 pagine.

La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette. Prima storia realizzata da Ceronetti per il suo celebre Teatro dei Sensibili, progetto di messa in scena di spettacoli di marionettenato nel 1970 nella sua casa di Albano Laziale, con l’aiuto della moglie Erica Tedeschi. In quell’appartamento assistettero alle piece numerosi importanti personaggi della cultura, fra cui Eugenio Montale, Guido Piovene, Natalia Ginzburg, Luis Buñuel e Federico Fellini. Nel 1985 il Teatro dei Sensibili divenne itinerante, con rappresentazioni in vari teatri d’Italia, debuttando proprio con La iena di San Giorgio. Il testo narra la storia di un macellaio che realizza salumi usando carne umana, tratta dalle cronache di San Giorgio Canavese, dove nel 1835 un tale di nome Giorgio Orsolano (detto "La Iena di San Giorgio") venne impiccato con l'accusa di omicidio e cannibalismo. La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette di Guido Ceronetti (Einaudi) 49 pagine.

Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina. Una raccolta di aforismi datata 1979 attorno al tema del corpo, luogo in cui abita il divino, nonostante la sua caducità, la sua sofferenza, la malattia. È uno dei più apprezzati esempi dell’erudizione e della curiosità di Ceronetti, il quale inserisce in questo libro osservazioni, riflessioni, enigmi ed efficaci collegamenti interdisciplinari fra scienza, medicina, letteratura, religione e attualità. Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina di Guido Ceronetti (Adelphi) 228 pagine.

Le ballate dell'angelo ferito. Poesie che traducono in parole, impressioni e immagini la natura (dis)umana dell'essere umano. Ceronetti tocca e rende omaggio al dolore che è nelle nostre esistenze, alle piccole e alle grandi tragedie. Troviamo l'ode a Eluana Englaro, ad esempio, con la sua esperienza di "priva di morte e orfana di vita", ma anche i riferimenti all'inferno in terra conosciuto con la strage di Beslan o agli abissi oscuri del "mattatoio infinito" che è la guerra. Le ballate musicano l'apocalisse del nostro mondo. Le ballate dell'angelo ferito di Guido Ceronetti (Il Notes Magico) 105 pagine.

Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e sopravvivenza del XX secolo. Pubblicata nel 2011, si tratta di una storia originale del Novecento, riassunta attraverso i personaggi e gli avvenimenti più rappresentativi. Un volume ricco di immagini e riflessioni puntuali, che raccontano di un secolo lungo (in contrasto con la lettura di Eric Hobsbawm) per la sua malvagità, pieno di violenza, genocidi, morte e rovine. Solo qualche barlume di speranza viene indicato da Ceronetti in alcune pratiche come il vegetarismo (di cui l’autore è uno dei primi seguaci) o il naturismo e nel lascito di autori particolarmente illuminati: Cesare Pavese, Ruediger Dahlke, Cornelius Castoriadis, Tadeusz Kantor e altri. Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e sopravvivenza del XX secolo di Guido Ceronetti (Einaudi) 124 pagine

·         Morto Alberto Sironi, regista tv del «Commissario Montalbano».

Morto Alberto Sironi, regista tv del «Commissario Montalbano». Aveva 79 anni. Pubblicato lunedì, 05 agosto 2019 da Corriere.it. Un’estate funesta per il «Commissario Montalbano». Dopo la morte del suo creatore, Andrea Camilleri, è scomparso anche Alberto Sironi che del commissario fu regista per la totalità delle puntate dello sceneggiato. Era originario della provincia di Varese e aveva 79 anni ed era malato da diverso tempo, tant’è che le ultime puntate del «Commissario» erano state dirette dallo stesso Luca Zingaretti. Di formazione teatrale , parte dalla scuola d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano e inizialmente è attore sul palcoscenico. E in Rai, sul finire degli anni’70 che passa dietro la cinepresa: inizia a realizzare inchieste, sia in Italia che all’estero, occupandosi anche di sport e collaborando con il compianto Beppe Viola. L’esordio con la fiction è nel 1978, quando cura la sceneggiatura e la regia di due telefilm tratti dalla raccolta di racconti «Il centodelitti» di Giorgio Scerbanenco mentre tra il 1987 e il 1990 scrive il soggetto della serie tv Eurocops dirigendone tre episodi. Nel 1995, per Rai 1, filma «Il grande Fausto», la fiction biografica in due puntate dedicata al ‘Campionissimo’ del ciclismo. Contemporaneamente scrive e dirige alcuni sceneggiati radiofonici, tra cui «Rimorsi», che consta di ben 80 puntate mentre alla fine degli anni Novanta, ancora in Rai, lavora su«Una sola debole voce». Poi, l’approdo alla corte del «Commissario» di Camilleri per cui ha diretto tutte le puntate sin dalla prima, oramai nel 1999. Fu lui a scegliere Luca Zingaretti per la parte del protagonista.

È morto Alberto Sironi, regista di Montalbano: scelse Zingaretti per il ruolo del commissario. Dietro la macchina da presa, il regista lombardo 79enne innamorato della Sicilia, raccontò le vicende del personaggio nato dalla penna di Andrea Camilleri. Il suo commissario Luca: "È penoso, è duro, è proprio un anno di merda! Addio amico mio!". Valeria Rusconi il 05 agosto 2019 su La Repubblica. È come se il secondo padre del commissario più amato d'Italia, Montalbano, se ne sia voluto andare prima del previsto, solo per incontrare l'amico Andrea Camilleri, scomparso lo scorso 17 luglio. Così Alberto Sironi, 79 anni, che il personaggio nato dalla penna del grande scrittore siciliano l'ha portato sullo schermo, ha lasciato per sempre il set, la sua macchina da presa. Da tempo era malato. "Quante volte ci siamo mandati a quel paese, quante volte hai cucinato per noi, quante battaglie abbiamo condiviso, quante scene abbiamo riscritto, quante volte ci siamo detti ok, quante volte mi hai compreso, mi hai appoggiato, mi hai confortato. Quante volte hai minimizzato dove gli altri avrebbero ingigantito. Sei stato l’unico regista che quando davi motore cominciavi a raccontare le barzellette. Gli altri chiedevano il silenzio, tu raccontavi di Alberto Sordi. Quanti bicchieri di vino, quante chiacchierate, quante confidenze. Quante volte abbiamo fatto fronte comune. E che sapienza! In poco tempo è la seconda volta che piango un complice di questa avventura che ci accomuna da tanto tempo. È penoso, è duro, è proprio un anno di merda! Addio amico mio!", così, con un lungo, intenso post su Twitter, lo ha ricordato il 'suo' commissario, Luca Zingaretti. Lombardo di Busto Arsizio, in provincia di Varese, anche dalla fredda e asettica Brianza non ha mai fatto mistero di essersi invaghito dei colori accesi di quella Sicilia barocca che, per vent'anni, è stata il territorio in cui si è mosso Zingaretti, l'attore da lui personalmente scelto per interpretare un uomo sempre alle prese con misteri e misfatti: "Sono legato alle mie origini ma qui mi sento a casa, tra la gente per strada o nelle trattorie, quando incontro i contadini e le maestranze locali. I siciliani mi hanno 'pesato', hanno capito che non sono un quaquaraquà e adesso sono diventati miei fratelli", raccontava a la Repubblica qualche anno fa parlando del suo amore per quell'indimenticabile territorio barocco che unisce Ragusa a Modica, Scicli a Noto e soprattutto Donnalucata - nella serie tv rinominata Vigàta - dove sorge la casa del commissario. Zingaretti lo estrasse come un asso da una tripletta di carte: c'erano solo tre attori. "Uno non poteva venire perché aveva litigato con la moglie e aveva un occhio nero", ricordava, "l'altro non ha fatto un ottimo provino, Luca invece è stato bravissimo. La scelta di mettere un poliziotto simpatico è ispirata dal poliziesco americano perché per noi, fino agli anni Ottanta, la polizia era quella fascista con il manganello in mano. Io mi sono concentrato sulla figura privata del commissario". E Camilleri? "Conosceva Luca perché era stato suo allievo all'accademia Silvio D'Amico ma quando gli dissi della mia scelta sbottò: 'Io lo avevo immaginato diverso, ho scritto un'altra cosa'". L'autore di Porto Empedocle emigrato a Prati, quartiere bene di Roma, aveva in effetti forgiato il suo uomo come fosse un nuovo dottor Ingravallo, protagonista di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un classico tra i romanzi gialli firmati Carlo Emilio Gadda: pancia prominente, vecchio, lento nei movimenti e soprattutto pieno di ricci, da vero mediterraneo. Certamente non calvo. "Poi però quando ha visto la prima puntata si è ricreduto: 'Mi sono piaciute anche le comparse'", aveva riferito Camilleri a Sironi.  Sironi nasce prima di tutto in teatro: alla scuola d'arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano, guidata da Giorgio Strehler e Paolo Grassi. L'incontro con 'mamma' Rai, negli anni Settanta, cambia tutto: per l'emittente di Stato realizza inchieste, sia in Italia che all'estero, e si occupa anche di sport, soprattutto per un nome importante, Beppe Viola. Da quel momento in poi la sua vita è tutta dedicata al piccolo schermo: nel 1978 cura la sceneggiatura e la regia di due telefilm tratti dalla raccolta di racconti Il centodelitti di Giorgio Scerbanenco mentre tra il 1987 e il 1990 scrive il soggetto della serie tv Eurocops dirigendone tre episodi. Nel 1995, per Rai 1, filma Il grande Fausto, la fiction biografica in due puntate dedicata al 'Campionissimo' Fausto Coppi. Contemporaneamente scrive e dirige alcuni sceneggiati radiofonici, tra cui Rimorsi, che consta di ben 80 puntate mentre alla fine degli anni Novanta, ancora in Rai, lavora su Una sola debole voce. Nel 1999 debutta Il commissario Montalbano, il traguardo che più di ogni altro sposerà qualità, successo - in termini di numeri - ma soprattutto d'affetto: la Penisola tutta rimarrà incollata alla tv per seguire, ogni volta con la stessa fedeltà e passione, le avventure di quell'investigatore che, nelle fattezze, doveva essere tutt'altro. Non nell'animo: "Ha una serie di difetti e qualità tipiche di tutti gli italiani", raccontava Sironi, "è un anarchico individualista: ragiona con la sua testa, gli piace mangiare bene, gli piacciono le belle donne". I funerali di Alberto Sironi, che è morto ad Assisi, città che lo aveva accolto e dove viveva con la moglie Lucia Fiumi, sposata nel 2016, si svolgeranno nella cittadina umbra presso la cattedrale di San Rufino. "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

·         Addio a Valentina Cortese.

Addio a Valentina Cortese,  una delle ultime divine  del cinema italiano. Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Maurizio Porro su Corriere.it. Era nata il 1 di gennaio del 1923, Valentina Cortese, scomparsa oggi a Milano dopo essersi ritirata da diverso tempo dalla scena pubblica, caduta come un fiocco di neve sulla campagna intorno a Milano, come inizia la sua autobiografia, dove fu allevata da una famiglia contadina e imparò portare annodato sul capo il foulard per proteggersi dal sole, moda che poi lanciò nei salotti mondani nel secondo tempo della sua vita. Valentina Cortese, sembra strano, ma non c’è più, ci mancheranno i suoi ritardi, i suoi affetti, le sue emicranie. Non ci sono più i suoi sorrisi in Cinemascope, la sua grazia nel saluto, i suoi racconti esclusivi di cinema e teatro, il suo ginocchio rovinato in una prova del “Gioco dei potenti” con Strehler, le sue cene eleganti davvero, il suo inebriante profumo di violetta e i compleanni nell’appartamento in Sant’Erasmo a Milano, arredato a sua immagine e somiglianza, dove le foto in cornici d’argento raccontavano chi era e chi era stata la padrona di casa, come nella deliziosa casa di Venezia arredata come il caffè Florian. E le sue acconciature da zarina con pellicce fino ai piedi, anche in mesi tiepidi, non da tundra, i colbacchi come fosse sempre nel “Giardino dei ciliegi” di Cechov, il suo Giardino sotto veli bianchi, rimasto famoso per il genio innamorato di Strehler, il loro ultimo incontro artistico. E le toilettes magnificamente ingombranti di Valentino con cui arrivava puntuale il 7 dicembre alla prima della Scala nel palco con la Toscanini e poi in platea, ma anche agli ultimi recital di poesia dell’adorata Merini o Testori o quando fece dopo anni di rimandi la Eleonora Duse (dopo essere stata la Bernhardt in tv) diretta dal regista del cuore Filippo Crivelli, togliendosi perfino il foulard alla fine per mostrare quanti bei capelli avesse ai soliti sospettosi; o quando al Teatro Studio raccontò il libro della sua vita o al Piccolo recitò una lettera di addio alla Melato, seduta al centro della fila 10 nel posto dell’amato e per sempre rimpianto Strehler, ai cui storici funerali tutte le sue donne piangevano in coro come alla morte di Valentino. Era l’ultima divina, si dice sempre così, ma in questo caso abbiamo le prove, è vero: divina – leggendarie liti e svenimenti per eccesso di tuberose in camerino per “Maria Stuarda” con la Falk – che sotto la scenografia dell’abito e del trucco nascondeva, diceva per comodità dato che il personaggio sofisticato funzionava, una donna generosa, sincera, straordinaria come sanno quelli che l’hanno conosciuta, amata, guardata negli occhi o su quella pelle da bambina. La sua vita è divisa in tre tempi, dall’infanzia campestre all’adolescenza ricca e metropolitana con i nonni, da cui scappò 15enne per seguire a Roma il primo grande amore della sua vita, il direttore d’orchestra Victor de Sabata, con cui ebbe una tumultuosa e appassionata relazione, intervallata da concerti e prime. Poi il cinema, che inizia sulle ginocchia di Ermete Zacconi nel “Bravo di Venezia” e in decine di altri titoli, fra cui “Nessuno torna indietro”, “La cena delle beffe” di Blasetti (fra le donne sedotte e abbandonate da Nazzari), diventando uno dei volti del regime, fidanzatina spesso lagnosa per amore, forse il “Primo amore” di Gallone, educata, modesta e molesta. Dopo la guerra è davvero brava in “Un americano in vacanza” di Zampa e “Roma città libera” di Pagliero e poi in un film del caro Dassin che “mi corteggiava e mi scriveva”. Una storia’? «Ma, chissà, non te lo dico». Intanto aveva già messo piede in teatro, era fra le “Donne” della Boothe Luce e il “Tempo e la famiglia Conway” (ancora con Blasetti che l’aveva notata per primo), ma anche Mauriac e O’Neill, fra altolocati colleghi. Una carriera felice che la porterà a Hollywood, come la sua amica Valli, dove gira alcuni film con divi come Gregory Peck, ma anche lei, come Alida, romperà il contratto con la Fox di Darryl F. Zanuck disgustata, raccontava, dall’amoralità dell’ambiente e di cocktail parties troppo eccentrici, troppo whisky e troppe mani addosso. Sul set di “Ho paura di lui” (sul cui poster lei è Cortesa) si innamora e sposa Richard Basehart, da cui avrà il suo unico, adorato figlio Jackie e da cui si divide dopo qualche anno. Quando torna in Italia si ricomincia, con un film di Rascel, con “La contessa scalza” accanto a Bogart e Gardner e con “Le amiche” di Antonioni, che a tutto il ’55 è la parte migliore, avrà un Nastro d’argento. Valentina è l’unica ad esser scelta da tutti i maestri, bipartisan politicamente, socialmente, sessualmente, compresi Visconti (“Old times” di Pinter), gli amici Zeffirelli (Fratello Sole e Sorella Luna, Gesù) e Fellini di cui fu nel ’75 musa stravagante e barocca in “Giulietta degli spiriti”, indimenticabili acconciature di Gherardi. Ma dal ’59 l’attrice sente inequivocabile il richiamo per il teatro e approda nel ’59 al Piccolo di Milano con “La congiura” di Prosperi, presto diventando la compagna di Strehler (terza impetuosa love story, prima del secondo matrimonio alto borghese con l’industriale Carlo DeAngeli). Con Strehler recita in spettacoli meravigliosi che hanno segnato la storia del teatro mondiale, da “Platonov e altri” di Cecov al “Gioco dei potenti”, straordinario collage scespiriano di 10 ore, dal classico “Arlecchino” di cui Valentia fu una delle Beatrici, alle due Giovanne d’Arco, quella di Brecht fra i macelli di Chicago e quella del Processo a Rouen di Anna Seghers, fino all’exploit memorabile di “Lulu” di Wedekind diretta da Patrice Chèreau. Non snobba la tv, sta benissimo in due sceneggiati di Fenoglio, è Gerda nei ”Buddenbrook” di Mann e ”I grandi camaleonti” di Zardi. Ed è adorabile nella “Granduchessa e i camerieri” con Franchi e Ingrassia, operetta di Garinei e Giovannini in cui fa rivivere il mito di Wanda Osiris, dopo aver sperimentato le stravaganze canore intellettuali di “Canzoni senza festival”, regìa di Crivelli ed aver recitato in spettacoli misti di danza con Carla Fracci, un’altra delle sue storiche care, adorate amiche. Ma i capolavori strehleriani indimenticabili e conosciuti in tutto il mondo, in cui batteva forte il suo cuoricino liberty e Valentina fu davvero grande, furono il “Giardino” cecoviano sotto il tulle bianco, come un gioco di bambini ma già anche presagio di morte (’74) e “I giganti della montagna” di Pirandello, ’66, dove è l’eroica contessa Ilse che vuole portare l’arte ai nuovi e vecchi barbari, ma la carretta dei comici viene schiacciata, secondo una famosa invenzione, dal sipario di ferro. Ed infine due volte fu milanese purosangue, nel dialetto che amava e assaporava battuta per battuta: “L’eredità del Felis” di Illica e “El Nost Milan” di Bertolazzi, affresco di una città impietosa, fra la povera gente. Il cinema le presenta qualche buona occasione, l’”Assassinio di Trotzky” di Losey, “Quando muore una stella” di Aldrich, ma la parte che nessuno ha dimenticato è quella dell’attrice smemorata nel grande film al quadrato di “Effetto notte” di Truffaut che la portò a un passo dall’Oscar, che le fu poi dedicato dalla generosa amica e vincitrice Ingrid Bergman. Cara, cara, adorata…

È morta Valentina Cortese, la signora delle scene. L'ultima grande diva del cinema e del teatro italiano se ne è andata a 96 anni nella sua bella casa, l'ex-conventino di piazza S. Erasmo a Milano. La camera ardente allestita al Piccolo Teatro, il "suo" palcoscenico. Anna Bandettini il 10 luglio 2019 su La Repubblica. Chi le era vicino, racconta che la morte del figlio unico, Jackie Basehart, nel 2015, gioia e dolore della sua vita, sia stato il colpo più duro. "Ancora un giro di clessidra e lo raggiungo", ripeteva Valentina Cortese con quella stessa voce morbida di quando, nel '73, recitava Séverine, l'ironico autoritratto di star col turbante in Effetto Notte di François Truffaut. L'ultima grande diva del cinema e del teatro italiano se ne è andata a 96 anni nella sua bella casa, l'ex-conventino di piazza S. Erasmo, luogo magico di Milano dove aveva vissuto l'amore furioso e passionale con Giorgio Strehler e quello placido col marito, l'industriale farmaceutico Carlo De Angelis, che le fu devoto. Qui, la sua gloriosa parabola si era, negli ultimi tempi, fatta più triste, per l'immobilità della vecchiaia e il complesso rapporto con la nuora Tatiana: gli amici raccontano che la controllasse, filtrasse le persone che potevano vederla e che avesse sgombrato in parte la casa dei suoi amati cimeli per allontanarla dal proprio passato. La camera ardente è al Piccolo Teatro Grassi di Milano, voluta lì dal direttore Sergio Escobar, il "suo" palcoscenico, giovedì 11 luglio dalle 12 alle 19 e venerdì fino alle 10.30, seguite dai funerali alle 11 nella chiesa di San Marco. I giovani non la ricordano, perché da anni Valentina Cortese viveva solo una vita privata, ma c'è stato un tempo in cui il suo nome era sinonimo di divismo e glamour e lei era una delle più grandi attrici italiane a Hollywood, Roma, Parigi, Londra e Milano: la sua seduttrice di camionisti in I corsari della strada, il noir di Jules Dassin del '49, Ljuba nel Giardino dei ciliegi diretto a teatro da Giorgio Strehler, con  Séverine di Truffaut sono icone indimenticabili. Occhi verdi pieni di fuoco, pelle perlacea, charme, eleganza haute couture, era amica della principessa Grace e di Ingrid Bergman che le dedicò l'Oscar nel '75 ("Lo meritava lei per Effetto Notte, non io", disse Bergman all'Academy). "Ho fatto i pop corn a casa di Paul Newman e ho tenuto a battesimo Anthony, il figlio di Gregory Peck", raccontava . Con la sua luminosa bellezza e un bel caratterino testardo ha attraversato una vita temeraria, ricca e divertita che qualche anno fa raccontò in un libro Quanti sono i domani passati. Aveva debuttato a 17 anni nel '40 nel cinema: primo ruolo importante Lisabetta in La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti, ma il successo lo ha in Caccia all'uomo (1948) e Tempesta su Parigi (1948).

Nel '48 a 25 anni era già Hollywood, con in mano un contratto con la 20th Century Fox, l'attrice italiana più conosciuta, più di Alida Valli e prima di Sophia Loren. Lavora ed è amica di James Stewart e Spencer Tracy(Malesia, del '49), di Gregory Peck, di Charlie Chaplin (con cui avrebbe dovuto fare Luci nella città, ma scoprì di essere incinta). Il successo internazionale arriva con La montagna di cristallo e col thriller di Robert WiseHo paura di lui (1951). "A Hollywood si stava in automobile tra una villa e l'altra, ville che parevano set - raccontava - Cary Grant ci invitava per il tè nel suo meraviglioso giardino: una volta lo trovammo mentre faceva il piccolo punto per ricamare delle sedie. Glielo aveva detto lo psicanalista. Io? Chi avrei davvero sposato era Fred Astaire: elegante, agile, serio". Invece nel '51 era diventata la moglie di Richard Baseheart, un attore americano aitante ma debole e col vizio di bere, da cui divorzierà nel 1960, tenendosi il figlio Jackie. Ma è proprio Hollywood a rivelarsi una lezione di vita severa. Darryl Zanuk, il gran capo della Fox una sera le mette le mani addosso e lei gli getta un bicchiere di whisky in faccia. "Fai schifo, gli urlai. Fu la mia fine. Mi tenne sotto contratto ma senza far niente. Tre anni. Ma di Hollywood non me ne fregava più niente. C'era l' Inghilterra dove i giornali di me scrivevano 'First Garbo, then Bergman, now Cortese'". Appena può fugge e torna in Italia dove vince i Nastri d'Argento per Le amiche di Michelangelo Antonioni, e gira La contessa scalza (1954) di Mankiewicz accanto ad Ava Gardner, Humphrey Bogart e Rossano Brazzi, Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini. Sessantanove i film della sua carriera tra cui Callas forever nel 2002 di Franco Zeffirelli di cui aveva anche fatto Fratello Sole sorella Luna (1971), Via Montenapoleone (1987) dei Vanzina, Le avventure del barone di Münchausen (1988) di Terry Gilliam al fianco di Robin Williams. Ma intanto, c'era stato il fatale incontro con Giorgio Strehler, il geniale regista del Piccolo Teatro di Milano. Si erano conosciuti nel '58 per  Platonov e gli altri ed era nato un amore ardente come quello precedente di Cortese con il direttore d'orchestra Victor De Sabata, ma anche più furioso. Insieme al Piccolo, Strehler e Cortese lasceranno capolavori insuperati: El nost Milan del '61, Arlecchino servitore di due padroni, edizione del '63, Il gioco dei potenti (1964), I giganti della montagna (1966), fino a Il giardino dei ciliegi (1973) e da lì il personaggio Ljuba resterà per sempre legato allo sguardo, alla voce, ai sospiri di Valentina Cortese. Spettacoli irripetibili, anche con altri registi, il tedesco Klaus Michael Grüberin Il processo di Giovanna d'Arco ('67), e Patrice Chéreau con Lulù di Frank Wedekind (1971). "Giorgio e il Piccolo Teatro erano la mia vita. Eravamo tutti giovani, bravi, pazzi per il teatro, felici di lavorare e talmente presi da questa fiamma". Ma incendiari erano anche i litigi. Vissero e lavorarono insieme per 15 anni, si lasciarono per sfinimento e, raccontò lei nella sua autobiografia, per un figlio che morì prima di nascere. Ha continuato a recitare in teatro fino al 2009, ma altrove: con Zeffirelli in Maria Stuarda, nel Magnificat di Alda Merini con la regia di Fabio Battistini, nel 2000, nel 2014 fu applaudita dall'allora presidente Giorgio Napolitano al Teatro Argentina con un testo dell'amato Testori in una serata dedicata all'Europa dove l'aveva voluta a tutti i costi il direttore Antonio Calbi, e poi via via fino al ritiro. Ai pochi amici intimi che le era permesso vedere raccontava dei suoi incontri Grace Kelly, Visconti, Baryshnikov, Spencer Tracy, De Sica e tanti contadini. Sì, perché la carriera di Valentina Cortese è stata gloriosa, ma commovente la sua vita, passata con leggerezza da una infanzia povera nella campagna lombarda al Beverly Wilshire Hotel di Los Angeles. Valentina Cortese era figlia di un legame illegittimo; piccola, la giovane mamma l'aveva affidata a una contadina di Agnadello, vicino Cremona. "Sono cresciuta tra persone semplici e vere, e nella miseria, non sapendo che era miseria, si viveva bene anche se mangiavo pane ammuffito - raccontò in una intervista - Questa libertà l'ho preservata anche quando, ormai ragazzina, andai a vivere da mia nonna a Torino. Lo devo ai miei contadini, la mia mamma Rina che poi ho portato alla Scala tante volte, suo marito Giuseppe, i figli Luigino e Uliva, se porto il foulard sul capo. Era il modo in cui lo usavano nei campi. Per me è come una loro carezza".

Marco Giusti per Dagospia  il 10 luglio 2019. Certo. Nella vita cinematografica e non solo di Valentina Cortese ci sono stati Fellini, Antonioni, Strehler, Zeffirelli, per non parlare di Jules Dassin, di Francois Truffaut, che la ricostruisce in Effetto notte proprio a partire dal suo incontro con Fellini in Giulietta degli spiriti, il grande Robert Aldrich che le affida un ruolo importante nel suo capolavoro Quando muore una stella. Ma, stracultisticamente parlando, non possiamo non ricordare tra il Mario Bava de La ragazza che sapeva troppo e il Riccardo Freda de L'iguana dalla lingua insanguinata, il suo ruolo di nobildonna milanese che in Dracula in Brianza di Lucio Fulci, di fronte a un Lando Buzzanca vampiro che fa sessualmente cilecca, se ne esce con un "Vai a dar via i ciapp" doppiata addirittura da Liu' Bosisio, la Pina Fantozzi originale, perché lei non lo voleva dire. Eppure spiritosa, come dimostra proprio il duetto con Lando e la sua celebre scena di parodia felliniana in Effetto notte, lo era assolutamente. Anche se da un certo punto nella sua vita in poi, diciamo dopo l'incontro con Strehler, la Cortese non può che mettere sempre in scena se stessa. Una sicurezza, ovvio, per certi film dove il ruolo richiesto era proprio quello, ma anche un limite. Al punto che in un film sballato e involontariamente comico come L'assassinio di Trotzky di Joseph Losey, con un Alain Delon killer e un Richard Burton col pizzetto di Trotzky, lei come moglie di Burton -Trotzky riesce anche a aumentare il grado del ridicolo. Va detto però che la carriera cinematografica della Cortese è comunque lunghissima e gloriosa, divisa tra una parte italiana nei primi anni 40 dove la vediamo  nei film più diversi, La regina di Navarra del glorioso Carmine Gallone, La cena delle beffe di Alessandro Blasetti dove non può competere con Clara Calamai e il sul seno nudo, la commedia Quartetto pazzo, il capolavoro di Marcello Pagliero Roma città libera, il geniale I miserabili di Riccardo Freda nel 1948 che le apre addirittura le porte di Hollywood. La Fox, infatti, che le dette un ruolo importante nel Cagliostro con Orson Welles tutto girato in Italia, la chiama a Los Angeles con l'idea di lanciarla come star di un mondo pacificato. I film americani della Cortese però non sono sempre bellissimi, anche se I corsari della strada di Jules Dassin è notevolissimo. Ma non sono dei successi né The House on Telegraph Hill, né Malesia di Richard Thorpe, dove divide la scena con star del calibro di James Stewart e Spencer Tracy  Fuoco magico di William Dieterle, Shadow of the Eagle di Sydney Salkow. Hollywood le lascia però uno status di star internazionale che le sarà utile al suo ritorno in patria a metà degli anni 50, dove si dividerà tra Le amiche di Michelangelo Antonioni e La contessa scalza di Joseph Mankiewicz, The Secret People di Thorold Dickinson con Audrey Hepburn e il delirante Donne proibite di Peppino Amato, dove è "una di quelle" accanto alla prorompente Linda Darnell scelta personalmente da Don Peppino. Non potendo contare su un fisico da maggiorata, la Cortese, finito il neorealismo italiano e quello americano, si deve accontentare di qualche buon ruolo di secondo piano dietro una diva più solida fisicamente come Linda Darnell o Yvonne De Carlo o Ava Gardner o dietro una star emergente come Audrey Hepburn. O fare da contorno di classe in  grandi produzioni internazionali come Barabba o Il segreto di Santa Vittoria, relegando il cinema a attività secondaria rispetto al teatro. Eppure la troviamo fino agli anni 80 in produzioni americane più o meni riuscite mentre si ritaglia un suo ruolo di svampita fellinian-strehleriana per commedie o drammi anni 60 e 70. Penso al curioso Scusi, facciamo l'amore? di Vittorio Caprioli o a Appassionata di Gianluigi Calderone dove è la moglie di Gabriele Ferzetti, dentista rovinato dalle ragazzine sexy. Sempre divertente, la Cortese si è però spesso limitata alla parodia di se stessa pensando che forse il meglio era già passato. Ma come moglie di Robin Williams re della luna col corpo diviso dalla testa ne Il barone di Munchausen di Terry Gilliam è molto divertente.  

·         È morto l’attore Rip Torn.

È morto l’attore Rip Torn, noto per il suo ruolo in «Men in black». Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Corriere.it. È morto l’attore Rip Torn. Aveva 88 anni. La causa del decesso non è stata ancora resa nota ma il corpo dell’attore è stato trovato nella sua casa di Lakeville. Rip Torn, all’anagrafe Elmore Rual Torn Jr., era nato a Temple, in Texas, il 6 febbraio 1931. Era stato introdotto dalla cugina, l’attrice Sissy Spacek, all’Actors Studio di Lee Strasberg. Il suo debutto risale al 1956 nel film di Elia Kazan «Baby Doll - La bambola viva». Nel 1984 viene candidato al premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film «La foresta silenziosa». Noto per avere preso parte alla sit-com «The Larry Sanders Show» e per aver recitato in «Men in Black» (1997) e «Men in Black II» (2002), negli ultimi anni ha interpretato Luigi XV in «Marie Antoinette» (2006) di Sofia Coppola, l’allenatore di dodgeball Patches O’Houlihan nel film «Palle al balzo - Dodgeball» (2004) e ha prestato la sua voce per il film d’animazione «Bee Movie» (2008). Torna ha anche vinto un Emmy per il ruolo di «Larry Sanders».

Addio a Rip Torn, attore irruento e selvaggio del cinema di ieri e oggi. Nella giornata di ieri a 88 anni si spegne l'attore Rip Torn, diviso fra cinema, teatro e tv. Carlo Lanna, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale. A 88 anni si spegne il celebre Rip Torn. L’attore di culto che ha segnato il cinema contemporaneo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, è diventato molto famoso per il ruolo che ha interpretato in Men in Black, al fianco di Will Smith e Tommy Lee Jones. Nella pellicola ha vestito i panni del criptico e stralunato Agente Z. La notizia della sua scomparsa si è diffusa nella notte di ieri. Rip Torn è morto nella sua casa di Lakeville, nel Connecticut, e vicino a lui c’era la moglie Amy Wright e le figlie Kate e Angelica. Nel corso della sua carriera ha interpretato diversi ruoli dividendosi fra cinema, teatro e tv. È stato candidato agli Emmy per la serie "The Larry Sanders show", e nel 1984 ha ricevuto anche una candidatura agli Oscar, come migliore attore non protagonista, grazie al film "La Foresta Silenziosa". Nato a Temple, in Texas, il sei febbraio del 1931, Rip Torn diventa attore grazie alla cugina, l’attrice Sissy Spacek. Frequenta l’actor studio di Lee Strasberg debuttando per la prima volta nel 1956 nel film "La bambola viva". Lo stesso regista lo vuole anche in "Un volto nella folla" . Da Karl Maden è stato diretto in "Il fronte del silenzio". In tv è celebre per i film "Tropico del cancro" e "Giorno di paga". Negli anni ’70 diventa un volto molto celebre dei film di fantascienza come "Coma Profondo" e "L’uomo che cadde sulla Terra". Le cronache raccontano che Rip Torn è sempre stato un attore selvaggio e burbero, preso da attacchi di panico e ira. Si ricorda che durante le riprese di "Underground", si è sfiorata la tragedia quando l’attore ha cercato di colpire il regista con un martello e tentò persino di strangolarlo.

·         È morto Ugo Gregoretti.

È morto Ugo Gregoretti, regista e narratore dell’Italia popolare. Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Corriere.it. È morto oggi nella sua casa di Roma il regista e attore Ugo Gregoretti. Maestro della satira di costume, arguto e ironico nelle sue critiche sempre divertite alla società italiana, Gregoretti era nato il 28 settembre 1930 a Roma . Inizia la sua carriera alla RAI nel 1953, diventando ben presto autore di servizi televisivi: realizza inchieste per le rubriche di costume Semaforo e Controfagotto (con puntate come Festa della matricola a Roma e Abbigliamento giovanile della Roma bene) e il documentario La Sicilia del Gattopardo. Narratore dell’Italia meno conosciuta e popolare, ha lanciato il suo sguardo pungente in opere come le serie parodistiche Romanzo popolare italiano e Uova fatali, nel 1962 poi esordisce nel cinema con I nuovi angeli, un film a episodi realizzato con attori non professionisti nel quale si attraversa l’Italia allo scopo di descrivere i modi di vivere dei giovani nelle diverse realtà. A seguire eccola satira fantascientifica di Omicron e il documentario Apollon, una fabbrica occupata. Alle soglie del Duemila poi firma Lezioni di design, trasmissione che presentava opere di designer italiani raccontando la storia di uomini e oggetti. Nel 2017 l’ultima opera, Io il tubo e la pizza. Artista poliedrico, Gregoretti aveva recitato in Amore mio aiutami e Il comune senso del pudore di Alberto Sordi, La fine del gioco di Gianni Amelio, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974). Si era dedicato anche alla regia teatrale e operistica — memorabili la sua messa in scena de L’italiana in Algeri e la rivisitazione dantesca Purgatorio 98 — ha diretto per quattro anni il Teatro Stabile di Torino e per dieci la rassegna teatrale Benevento città spettacolo, da lui fondata, è stato presidente dell’Accademia Nazionale di Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma e recentemente dell’Anac, l’Associazione Nazionale degli Autori Cinematografici. Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito e Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, Gregoretti aveva vinto il Prix Italia con La Sicilia del Gattopardo, il premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi e il Nastro d’argento alla carriera.

Marco Giusti per Dagospia il 5 luglio 2019. Ci mancheranno l’intelligenza, la grazia, l’ironia, l’eleganza, la cultura e ovviamente anche l’ideologia che Ugo Gregoretti portò nella tv degli anni ’60 e in tutto quello che fece a partire da quegli anni. Fosse il cinema, dove non ottenne gli stessi strepitosi risultati che ebbe nella Rai democristiana malgrado fosse stato lanciato come un giovane genio rivoluzionario alla pari di Roman Polanski o Jean-Luc Godard o Pier Paolo Pasolini, l’opera, la pubblicità, dove fu il primo a inventarsi i caroselli sociali e dove non nascose mai il suo nome e il suo volto, e perfino la musica, grazie alla strepitosa raccolta di dischi che curò per il “Fonografo italiano”. Ma è davvero con programmi come Controfagotto, 1961, dove cambiò il modo di fare le inchieste giornalistiche in tv, Il Circolo Pickwick, 1968, dove cambiò totalmente il modello narrativo dello sceneggiato televisivo e seppe dar vita ai personaggi di Charles Dickens dirigendo un gruppo di attori meravigliosi a cominciare da un giovanissimo Gigi Proietti che a lungo si porterà dietro, Romanzo popolare, 1975, dove iniziò a lavorare sul romanzo d’appendice, Ma che cos’è quest’amore?, tratto da Achille Campanile, dove tenne quasi a battesimo Roberto Benigni, Uova fatali, 1977, dove seppe trattare la satira di Bulgakov unendola alle nuove tecniche di ripresa televisiva, che non solo ha lasciato il segno nella tv di stato, ma è stato un grandioso esempio di intelligenza e di lucidità per tutti quelli che hanno lavorato sul piccolo schermo. Soprattutto per tutti quelli che, come lui, non si sono mai accontentati di portare a casa il risultato con il minimo impegno, il minimo rischio, il minimo sforzo puntando solo al quieto vivere aziendale o a buoni ascolti da commentare il giorno dopo. La tv di Gregoretti è stata spesso difficile, di scarso successo, troppo colta per un pubblico poco interessato alle novità e alle sottigliezze. Eppure, almeno per come mi ricordo la nostra visione da ragazzini, sia Gregoretti che Nanni Loy non furono solo sperimentatori e innovatori, ma ebbero un lungo periodo di popolarità proprio come personaggi della Rai, al pari di Mike Bongiorno o di Corrado. Per noi era un piacere sentirli parlare e il Pickwick fu una vera festa, qualcosa che usciva dalla rigidità dello schermo e puntava a farci desiderare di fare qualcosa di simile. Diverso il discorso sul cinema, che Gregoretti frequentò dai tempi de I nuovi angeli, 1962, dei suoi episodi in Rogopag, a fianco di Rossellini-Godard-Pasolini, Le più belle truffe del mondo, del fantascientifico Omicron con Renato Salvatori. Gregoretti, invitato a esprimersi molto più liberamente qui che non in tv, portò nel cinema una serie di pamphlet, di saggi sulla pubblicità, sui persuasori occulti, sul capitalismo. Pur lavorando con attori anche meravigliosi, pensiamo a Totò e a Annie Girardot ne Le belle famiglie, a Ugo Tognazzi per Rogopag, si sentì quasi limitato dal carico ideologico che metteva in scena anche un po’ maldestramente. Mentre in tv liberava la sua carica innovativa di narratore e di divulgatore culturale, al cinema rischiava di perdere proprio quella energia e quell’ironia che lo contraddistinguevano per volersi mostrare troppo scolastico. Non a caso dopo il ’68 si dedicò molto di più alla tv che al cinema, dove fece solo pochi documentari “militanti” come Apollon, 1969, o Il contratto, 1971, quando avrebbe certamente potuto dare molto di più se non si fosse sentito quasi in colpa per la sua figura popolare. Molti anni dopo, infatti, ritornò al cinema con film forse non di successo, ma sicuramente di grande interesse, penso a Maggio musicale, 1990, con Malcom McDowell come direttore d’orchestra, e al suo bellissimo episodio “Lungo le rive della notte” nel film girato a più mani Scossa, visto a Venezia nel 2011. Mi ricordo che glielo dissi, perché il suo episodio mi era molto piaciuto e ci riportava al Gregoretti sperimentale della tv degli anni ’70. Troppo colto e intelligente per associarsi al cinema sovvenzionato, non vorrei dire di partito, degli anni ’80, Gregoretti, a differenza di tanti suoi colleghi come Citto Maselli o Ettore Scola, preferì farsi da parte, anche se lo troviamo spesso come attore in film del tutto diversi, a fianco di Alberto Sordi o Renato Pozzetto, anche se proprio Ettore Scola seppe riprendere tutta la sua ironia in C’eravamo tanti amati e La terrazza, film che gli devono non poco. Anche nella pubblicità non seppe dividere il personaggio dal regista e finì per mettersi in scena apertamente anche quando i registi di sinistra che facevano caroselli erano stati battezzati quelli di Motta Continua. Non riuscì nella sua impresa maggiore, quella di descrivere gli anni del craxismo con una sorta di fiction tv innovativa di grande respiro economico. Il Conto di Montecristo, che doveva appunto essere questo, un romanzo ironico su Mani Pulite, interamente girato a Milano, interpretato da Corso Salani, non piacque né al pubblico né alla critica. Ma ogni volta che lo si invitava in trasmissione a parlare di tv e di cinema, Ugo Gregoretti riusciva sempre a stupirci con una intelligenza, una cultura rari in questi anni di talk improvvisati non solo politici e di toni urlati e non proprio civili.

L'Italia perde l'ironia di Ugo Gregoretti. Scompare l’Alter Ugo del genio che ha cambiato il cinema e la Tv con il suo sguardo dissacrante. Oscar Iarussi il 6 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Alter Ugo del genio, addio Gregoretti. Non fu «solo» un importante regista, ma anche un giornalista, un viaggiatore curioso e sornione nella vita quotidiana degli italiani, e un innovatore dell’inchiesta televisiva con il candore faceto che resterà la sua cifra negli annali della Storia dello Spettacolo. L’ironia è merce rara nell’Italia che tende a prendersi sul serio, soprattutto quando non fa sul serio, eppure Gregoretti non vi rinunciò neppure nelle stagioni appassionate delle lotte operaie e delle contestazioni alla Mostra di Venezia, che lo videro in prima linea con Pasolini (per dirne una, ribattezzò «Goldonia» la scena delle nuove baruffe lagunari). Infatti la sua adesione alle ragioni dell’antagonismo era scevro dei furori ideologici e della virulenza verbale di cui molti in seguito si sarebbero pentiti (molti no, limitandosi a far finta di nulla o scegliendo l’apostasia). Gregoretti entrò in Rai nel 1953 nel ruolo di impiegato «con regolare raccomandazione», quindi alla vigilia dell’inizio delle trasmissioni televisive, il 3 gennaio 1954. Aveva 23 anni e fu presto cooptato nel gruppetto di lavoro del neonato Telegiornale diretto da Vittorio Veltroni. Ricordò così gli esordi: «Ah Gregoré, ma ndò vai?, mi diceva il capo degli uscieri. E qualche volta il direttore mi invitava a casa sua e io mi divertivo a tenere in braccio il secondogenito Walter e lui, felicissimo, mi inondava di torrenziale pipì». Viene da quelle prime esperienze (la Tv, non la pipì) la propensione divulgativa e la cura dei tempi e dei modi del racconto cui Gregoretti riservava la massima attenzione. Perciò era guardato con sospetto dai cerberi della rivoluzione (presunta) che al cinema concionavano sulle classi subalterne, finendo non di rado per affliggerne gli umori nel tempo libero. Dissacrante e insofferente alla rigidità dei formati narrativi, sul farsi degli anni Sessanta e del boom, Gregoretti sperimentò un incrocio di reportage e satira nel programma intitolato Controfagotto, uno scandaglio dell’Italia minore tutt’ora molto imitato (fra gli ospiti Oriana Fallaci e Totò). Del resto, quella era la Rai-Tv di Mario Soldati, della candid camera di Nanni Loy che al bar faceva «la zuppetta» del maritozzo nel cappuccino di increduli avventori (Specchio segreto), di Sergio Zavoli capace di intervistare persino le monache di clausura. E un giorno o l’altro si potrebbe dedicare uno studio a certi programmi come abbrivio del Sessantotto, ovvero della rivoluzione dei costumi che è rimasta, in fondo, l’unica autentica eredità sessantottina. Nel fervore politico e culturale di quegli anni, ecco alcuni dei film celebri di Gregoretti, in verità pochini, nonostante sia stato a lungo presidente dell’Anac, l’associazione degli autori. Ricordiamo «Il pollo ruspante», con Ugo Tognazzi, episodio di Ro.Go.Pa.G, il cui titolo metteva insieme la prima sillaba dei cognomi dei registi impegnati nella produzione collettanea: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, il quale raccontava amabilmente che dovette «accontentarsi» di figurare con la sola G per evitare il rischio dell’effetto sonoro aggressivo del «gr» finale. Vanno poi menzionati Omicron con la sua satira fantascientifica e Apollon, «Cinegiornale Libero Roma 1969» recitava il sottotitolo, dedicato alla tenace occupazione della tipografia romana «Apollon» lungo la Tiburtina da parte degli operai licenziati (narratore Gian Maria Volontè). Intanto sul piccolo schermo Gregoretti continua a esercitare uno sguardo giocoso e libertario dirigendo sceneggiati memorabili come Il circolo Pickwick da Dickens (1968) in cui il Nostro appare in abiti moderni all’inizio di ogni puntata, un po’ alla maniera di Culloden di Peter Watkins, nel quale i soldati della storica battaglia di metà Settecento parlano guardando nell’obiettivo, come se fossero intervistati. Tocca quindi a Le tigri di Mompracem, Romanzo popolare italiano e, negli anni Novanta, a Il conto Montecristo con uno spirito parodico post-Tangentopoli. Non mancano le prove teatrali all’insegna del consueto disincanto e di una vena quasi surrealista. Quando viene nominato direttore dello Stabile di Torino nel 1985, Gregoretti esordisce portando in scena I figli di Iorio, versione beffarda di Eduardo Scarpetta della tragedia in versi dannunziana, e nel 1987 mette in cartellone al teatro Carignano Le miserie d’ Mônssu Travet, la commedia ottocentesca di Vittorio Bersezio, protagonista Paolo Bonacelli, un attore non piemontese. La scelta scatenò le ire del movimento leghista «Piemont-Autonomia Piemonteisa» orchestrate da Gipo Farassino, una «sommossa» di cui Gregoretti raccontava i dettagli con toni sapidi. Romano di nascita e napoletano per amore avendo sposato Fausta Capece Minutolo, discendente da un antico e nobile casato partenopeo, Gregoretti negli ultimi dieci anni era di casa a Bari. Sua figlia Orsetta, attrice e organizzatrice culturale, ha sposato Felice Laudadio, direttore del Bif&st, festival cui Ugo non mancava. Anzi, presentò con Veronica Pivetti la serata finale dell’edizione numero zero, quando si chiamava «Per il cinema italiano», nel gennaio 2009 al Kursaal Santalucia. 

Molti diranno che Gregoretti ci mancherà. Non è vero: nell’Italia di oggi la sua ironia è straniera, un’eco della battaglia bella e perduta contro la feroce stupidità in auge.

Marco Ciriello per mexicanjornalist  il 30 luglio 2016 uscito su “il Mattino”. Per il cinema era quello della tivù, per la tivù era troppo avanti, al punto di essere sempre contemporaneo. «Appaio ai giovani insonni che avrebbero tutto il diritto di ignorarmi». Ugo Gregoretti: regista, autore tv, pedagogo, antropologo, girava l’Italia con l’inganno al collo, quel microfono che ha fatto raccontare a moltissimi italiani passioni e illusioni. Elegante, ironico, mai sopra le righe, di una gentilezza unica che comincia nei modi e finisce – avvolgendoti – nel linguaggio, un italiano perfetto. Criticava costumi e svelava il carattere degli italiani, dai più famosi a quelli più lontani. Riuscendo a non essere mai catalogabile.

Dove passava le sue prime estati?

«La pediatria allora aveva due tendenze: il mare ricostituente e la collina rigenerante. Io preferivo il mare ma mi portavano in collina. In Abruzzo, Riofreddo, Scorrano, Arsoli, ce li siam fatti tutti questi paesini, mentre i miei cugini andavano a Santa Marinella, a Viareggio, Forte dei Marmi, con mio enorme rammarico».

E lei che faceva?

«Il poeta. Avrò avuto 12 anni, radunavo all’imbrunire intorno a una fontana: armenti, contadini e villeggianti, e leggevo loro le mie poesie. Li vessavo, costringendoli all’ascolto. È lì che credo sia cominciato tutto, con questo improvvisato teatro».

E dopo?

«Mi innamorai a Tagliacozzo, che rispetto agli altri paesi era una metropoli. Vidi questa ragazzina, bionda, bellissima. Avevo 13 anni».

E giù poesie.

«No, presi a leggere Benedetto Croce».

Che cosa?

«“Estetica come scienza dell’espressione”, mi sforzavo. Una volta, avrò avuto 16 anni, mio padre fece irruzione nella mia stanza e vide i libri di scuola sul tavolo mentre io leggevo altro in poltrona e se ne lamentò, allora alzai il libro e dissi: “Cazzo, sto leggendo Croce”».

Era posa o vera ricerca?

«Volevo essere un intellettuale di stampo napoletano. Anni dopo a Roma avrei scoperto col mio amico Nello Ajello che contava moltissimo venire da quella scuola, dall’Istituto degli studi filosofici, ma nonostante l’applicazione e le letture, mi mancava l’accento: non avevo il supporto lessicale e fonetico».

E poi che successe?

«Grazie a una formidabile raccomandazione di mio padre: entrai in Rai, dopo aver cambiato tre facoltà: architettura, giurisprudenza, lettere, e sperimentato un po’ di giornalismo. Era il ’53, c’era questo direttore Sernesi che stava traghettando l’Eiar verso la Rai. E dopo mesi da impiegato passai ai servizi giornalistici con Vittorio Veltroni – il papà di Walter – cominciando le estati di lavoro. Ho sempre lavorato. Inaugurai le trasmissioni da Napoli, allora la tivù era un affare che si fermava a Roma».

L’estate-lavoro migliore?

«Quella del ’60, in luglio, girai “La Sicilia del Gattopardo”, che rimane il mio lavoro migliore, almeno per la tivù. Vinsi il “Prix Italia” per il documentario, che allora andava sempre alla BBC, e passai da Gian Burrasca a ragazzo prodigio, e così mi fecero fare “Controfagotto”, il nome lo scelsi perché la parola era divenuta famosa per un errore a “Lascia o raddoppia” che era un programma che fermava l’Italia. Poi feci il “Circolo Pickwick” troppo avanti per gli sceneggiati in uso, anche se il “Time” mi dedicò una pagina di elogi».

Anche il suo primo film ha come tempo l’estate.

«Sì, “I nuovi angeli”. Proprio per il successo della tivù, venne da me Luigi Comencini, che oltre a fare il regista era anche produttore e mi propose di girare un film. A me parve un miracolo, allora tutti volevamo diventare registi, era il salto. Così mi licenziai dalla Rai – con drammi familiari enormi – e scommisi sul mercato».

E vinse. E tornò anche in Rai.

«Avevo bisogno di soldi, sa con cinque figli. Facevo di tutto. Ho fatto il reporter al “Cantagiro”, ricordo le sfilate sulle spider azzurrine della Fiat, tutte in fila con il nome scritto sulla carrozzeria. Mi sono divertito molto».

La ricordo cattivissimo con una madre che le mostrava il suo bambino ballerino, prima di “Bellissima” di Visconti.

«Doveva essere dalle parti di Cuneo. Facevo questi pezzi che allora venivano definiti di giornalismo satirico».

Invece era il futuro. Quel ragazzino era il padre delle ossessioni di oggi? Il suo pezzo migliore al Cantagiro?

«Sì, lo era. Quello che ancora mi fa ridere è l’intervista a Bobby Solo, lui parlava e io facevo crescere il mio interesse per la filologia romanza. Poi siamo diventati amici».

Oggi sarebbe impensabile. Ma perché preferiva agire d’estate?

«Lavoravo con la gente che trovavo in giro, e l’Italia estiva era più ricca, stava più tempo all’aperto, la gente usciva in massa e tra loro c’era un numero maggiore di stravaganti, e per me era più facile fare una congrua pesca. Ho fatto 4 anni di “Sottotraccia” sempre d’estate, per me era la stagione del fermento. Feci anche un programma che si chiamava “i R.A.S” (ridotte attitudini sociali)».

La storia più bella?

«Questa vecchia rivoluzionaria che si era dovuta ritirare in campagna, lasciando la comune che l’aveva vista guidare mille battaglie. I figli si vergognavano che alla sua età ancora avesse da battersi».

Che Italia era?

«Un paese molto più ingenuo, che si lasciava sfottere da me. Ma sotto la mia cattiveria, preziosamente celato, c’era e c’è amore. Il mio motto è: Amare vuol dire sfottere».

E che cosa unisce quelle estati passate a quelle di oggi?

«Sono unite dal desiderio di divertimento, dal sentimento del gioco. I parroci avevano un mucchio di fantasia ed erano anche più protagonisti, ricordo questo prete ad Aulla in Garfagnana che si divideva tra le messe e l’organizzazione di un torneo di morra cinese».

Una estate all’estero?

«Le racconto una storia di cui non c’è più traccia, credo che abbiano bruciato quei documentari».

Ma davvero?

«Sì, di mio son sparite molte cose anche un documentario sui profughi ungheresi. Appartengo alla stagione dove non si cacciava nessuno ma i servizi sparivano. Ho cercato e ricercato ma niente.

Che aveva fatto quella volta?

«La Rai e il Ministero degli Esteri volevano che raccontassi questa emigrazione che funzionava in Argentina e Brasile. E così io e questo operatore – un piagnone romano, dopo le racconto che successe a Rio de Janeiro – partimmo.

Arrivati in Argentina a Baia Blanca mi accorsi che i tornitori, i saldatori, e il resto, erano stati istruiti per l’occasione e che in realtà uno gestiva la prostituzione, un altro faceva il prestigiatore e via così. Immagini, per me erano perfetti. Tornai, proiezione. Putiferio. Il ministro disse di non voler versare il resto dei soldi, e il mio direttore Massimo Rendina, mentre tutti stavano uscendo dalla sala, mi disse bluffando: “Lo mandiamo in onda sabato sera”. Dopo un’ora arrivò questo centauro del ministero a portare l’assegno».

Che fece sparire il documentario. E invece a Rio?

«Ero sfinito dai lamenti dell’operatore, ci portavamo dietro questo grosso registratore, gli argentini ci dicevano: “muy lindo gravador”, sì ma pesava, e poi c’era il sacco della pellicola, gravarsi anche del lamento era inammissibile. Gli dico andiamo in un bel posto, ci svaghiamo poi lavoriamo. Saliamo sul monte Pan di Zucchero, una vista bellissima.

Mi volto e vedo che piange: bene, si è commosso. E chiedo: “piangi per il panorama?” E quello, asciugandosi le lacrime: “No, dottò, sto a pensà che a quest’ora mi figlio ha fatto a caca pe’ tera, e ce sta a giocà cor dito dentro”».

E morì la poesia. Si è mai pentito di qualcosa?

«Mi appaiono ricordi di cose fatte e sono incancellabili, quindi cerco di non ricordare. Penso spesso a un povero contadino al quale feci credere che a Piazza Venezia c’era ancora il Duce».

Si è mai dato un limite?

«Intervistavo gente molto fragile. Quindi avevo il senso di responsabilità e il rispetto per il prossimo, molte volte li ho fermati prima che peggiorassero la loro situazione, si aprivano in modo eccessivo».

Quale è il suo segreto?

«Il mio tasto più felice è la malinconia».

·         Eduardo Fajardo.

Marco Giusti per Dagospia il 4 luglio 2019. Non c'era cattivo più cattivo di Eduardo Fajardo nel mondo degli spaghetti western. Guardatelo come perfido Maggiore Jackson in Django di Sergio Corbucci, capace di far tagliare un orecchio a un uomo e metterglielo in bocca. O nel Mercenario, sempre di Corbucci, dove si esalta in atrocità anche maggiori. Eppure, adesso che se ne è andato a 94 anni, non possiamo che inchinarci di fronte alla mole dei suoi 180 film e dei suoi innumerevoli cattivi negli spaghetti western, negli eurospy, nei thriller, nei melodrammi. Rispetto a Fernando Sancho, altro grande cattivo spagnolo del western all'italiana, Eduardo Fajardo, nato nel 1924 a Pontevedra in Galicia, aveva una classe naturale da perfido ufficiale, crudele latifondista, ma anche un'eleganza tutta spagnola con un bel tocco messicano, grazie ancheal lungo periodo di cinema in Messico che passò negli anni 50, che nessun altto attore né italiano né americano possedeva. Corbucci capisce immediatamente che è lui il cattivo ideale per Django e per tutti i suoi spaghetti western successivi e gli cuce addosso un ruolo che non lo a abbandonerà più. Esattamente come farà Quentin Tarantino con Christoph Waltz o con Michael Madsen, Corbucci si reinvinta il cattivo ideale per il suo cinema violentp. Uno che faccia veramente paura, che non ha nulla di irpnico o di ammiccante. E il fatto che nom sia un attore popolare italiano o americano gioca a favore di Fajardo, perché non risulta identificabile con nessun altro genere o mondo precedente. Attivo fin dal 1947 con Heros del 95 dii Raul Alfonso e il Don Quijote de la Mancha di Rafael Gil,  Fajardo si dividerà presto fra cinema e teatro. Girerà di tutto nella Spagna a cavallo tra i 40 e i 50. Finirà per qualche anno in Messico specializzandosi in melodrammi e film storici e quando torna in Spagna diventa presto un volto popolare del cinema di genere delle coproduzioni con l'Italia. Il primo film italo-spagnolo che gira è I due toreri co  Franco e Ciccio, il primo avventuroso Erik il vikingo di Mario Caiano, il primo western Gli eroi di Fort Worrh di Alberto De Martino. Ma è grazie a Django, dove osa prendersela con Franvo nero e con la sua mitragliatrice che diventa il cattivo che amiamo. Diventa indispensabile per qualsiasi genere, al punto da potrr girare 15 film all'anno. Lo troviamo ne Il tempo degli avvoltoi, Gentleman Joe uccidi, Uno  straniero a Paso Bravo. Sfida tutti gli eroi del nostro cinema  George Hilton, Anthony Steffen, Giorgio Ardisson, Tomas Milian. Quando il genere finisce seguita a girare film anche in tv  a far teatro. Infaticabile fino alla fine. Muore in Messico, quello vero, il 4 luglio. Adios, amigo!

·         Morto il Mago Gabriel.

Morto il Mago Gabriel, icona di «Mai dire Tv» della Gialappa’s band. Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Corriere.it. Addio al Mago Gabriel. Si chiamava in realtà Salvatore Gulisano, era diventato famoso in tutta Italia negli anni 90 grazie al personaggio del «mago» preso bonariamente di mira dalla trasmissione televisiva «Mai dire Tv» della Gialappa’s Band su Italia Uno. È morto l’1 luglio. Aveva 79 anni. Nato a Palermo, era arrivato a Torino negli anni ‘60, dove svolgeva, appunto, la professione di medium con programmi su reti locali. L’involontario successo giunse grazie a Mai dire Tv in cui venivano riproposti gli «esperimenti» e le «sedute» (persino un «oroscopo cinese») tenuti dal mago sulla torinese TF9. Nel tempo Gulisano si è poi trasferito a La Cassa, sempre in provincia di Torino, dove ha abitato fino a tre anni fa. Divennero tormentoni i suoi strambi modi di dire, come l’intercalare «a sua volta» , da cui anche il titolo di un libro: «A sua volta gli uccelli volano». Dopo la fine di «Mai dire tv» il Mago aveva mantenuto una certa notorietà partecipando a diverse trasmissioni televisive in giro per l’Italia. Nel piccolo comune di La Cassa, Gulisano era stato denunciato per una truffa ai danni di Atc: era titolare di un contratto di affitto per un alloggio popolare in via degli Abeti anche se non ci abitava, concedendo l’alloggio ad una dominicana. Solo nel luglio dello scorso anno era apparso nella trasmissione «Dalla vostra parte» su Rete4. «Non ho mai rubato niente a nessuno - aveva detto - e ho sempre lavorato onestamente». «Purtroppo ci ha lasciato un artista a cui eravamo molto affezionati. Una figura fuori dagli schemi tradizionali, ma con un grande cuore! Riposa in pace Gabriello, ti vogliamo dare l’ultimo saluto con il nome affettuoso con cui ti abbiamo sempre chiamato», lo ricordano così Renato, Alex ed Ezio D’Herin.

È morto il Mago Gabriel: addio al mito della Gialappa's Band. Salvatore Gulisano (questo il suo vero nome) è scomparso all’età di 79 anni: era diventato famoso grazie a “Mai Dire TV”. Alessandro Zoppo, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Il Mago Gabriel, memorabile personaggio della tv locale piemontese portato al successo dalla Gialappa’s Band durante il periodo di Mai Dire TV, è morto all’età di 79 anni. Palermitano d’origine, Salvatore Gulisano (questo il suo vero nome) era il protagonista di una trasmissione in onda su Rete 3 Manila, dall’improbabile titolo di Gabriel e le mira-bolanti meraviglie (alla scoperta di... luoghi, personaggi della Torino Eso e Terica). Scherzando sulle sue lacune grammaticali, Gulisano aveva ideato un divertente personaggio che si abbandonava ai rituali esoterici, all’astrologia e ai luoghi magici di Torino e dintorni. Il “pinotismo” e il “paragnottico” divennero subito i suoi cavalli di battaglia, insieme alle sue buffe espressioni facciali (specie quando esercitava la facoltà di vedere gli gnomi) e ai celebri intercalari come “di cui” e “stupentemente”.

Mai Dire TV piange il Mago Gabriel. Dopo il successo raccolto grazie a Mai Dire TV (con tanto di apparizione come special guest nella telenovela piemontese), il Mago Gabriel fece persino delle comparsate in parecchi programmi Mediaset e Rai, dalla Buona Domenica di Maurizio Costanzo ad alcune edizioni del Festival di Sanscemo. Negli ultimi anni era stato ospite della fallimentare trasmissione Scalo 76 su Rai 2 e di Mattino Cinque su Canale 5. Poi la lunga malattia e la scomparsa. “Purtroppo – scrivono su Facebook Renato, Alex ed Ezio D’Herin, i responsabili dell’agenzia che in passato ne ha curato le apparizioni televisive – ci ha lasciato un artista a cui eravamo molto affezionati. Una figura fuori dagli schemi tradizionali, ma con un grande cuore! Riposa in pace Gabriello, ti vogliamo dare l’ultimo saluto con il nome affettuoso con cui ti abbiamo sempre chiamato”. Un messaggio d’affetto è arrivato anche via Facebook dalla Gialappa’s Band. “Ora – si legge in uno dei tanti commenti apparsi subito dopo – può essere ‘completamente seppellito di cui lo aspettano le entità superiori’ in un paradiso stupentemente suplime”.

Torino, addio al Mago Gabriel, personaggio reso celebre dalla Gialappa's band. Palermitano d'origine, Salvatore Gulisano (il suo vero nome) è morto a 79 anni. Giovedì i funerali. Gino Li Veli il 2 luglio 2019 su La Repubblica. Era diventato un personaggio noto in tutta Italia grazie alla presa in giro della Gialappa's band che aveva scovato alcune sue incursioni sullo schermo di una televisione privata torinese.  Il Mago Gabriel, al secolo Salvatore Gulisano,  scomparso ieri a 79 anni, più  che un mago, era un personaggio a metà tra il cabarettista e l'imbonitore, che giocava sulla sua cultura limitata, con modi di dire assurdi tipo "le palpebre della dita", "pinotismo" (al posto di ipnotismo). Era molto conosciuto, oltre che per alcuni strafalcioni linguistici,  per una danza presunta "scacciamalignità" e perché era solito pronosticare i risultati delle partite della Juventus e del Torino (inutile dire con quale esito). Eppure questo strano linguaggio unito ad un abbigliamento da gran cerimoniere dotato di presunti speciali poteri esoterici  aveva fatto breccia tra parecchia gente e aveva permesso al "mago" di essere ospite tra  gli anni Novanta e i primi anni del Duemila di parecchie trasmissioni televisive, soprattutto sulle reti Mediaset  (più volte al Maurizio Costanzo Show e Buona domenica).  Poi l'inevitabile declino per questo personaggio che è stato uno dei tanti figli dell'immigrazione meridionale a Torino degli anni Sessanta (ha vissuto per anni nel quartiere periferico delle Vallette) che ha avuto l'abilità di inventarsi un personaggio senza in realtà mai prendersi sul serio, distinguendosi da cartomanti e speculatori. L'agenzia che in passato ne ha curato le comparsate televisive lo ricorda così: "Purtroppo ci ha lasciato un artista a cui eravamo molto affezionati. Una figura fuori dagli schemi tradizionali, ma con un grande cuore! Riposa in pace Gabriello, ti vogliamo dare l’ultimo saluto con il nome affettuoso con cui ti abbiamo sempre chiamato", scrivono Renato, Alex ed Ezio D'Herin. I funerali giovedì 4 luglio, alle 16 nella Parrocchia S.S. Gervasio e Protasio di Via Roma 2 a None.

Da La Stampa il 2 luglio 2019. Il Mago Gabriel, noto personaggio televisivo torinese, famoso per essere stato la “vittima” privilegiata del programma «Mai dire tv» della Gialappa’s Band dei primi anni Novanta, è morto nella giornata di ieri, lunedì primo luglio, all’età di 79 anni. Nato a Palermo con il nome di Salvatore Gulisano, si era trasferito a Torino negli anni Sessanta: per molti anni ha vissuto in viale Mughetti 25 alle Vallette. Il Mago Gabriel si definiva un operatore esoterico e la sua trasmissione su Rete 3 Manila e TF9, dallo stravagante titolo «Gabriel e le mira-bolanti meraviglie» era stata presa di mira dalla Gialappa’s, che di fatto ha reso il siciliano torinese un personaggio noto in tutta Italia. In questo video uno spezzone di una sua trasmissione sulla rete Tf9.

Edoardo Venditti per La Stampa il 2 luglio 2019. Il Mago Gabriel, noto personaggio televisivo torinese, famoso per essere stato la “vittima” privilegiata del programma «Mai dire tv» della Gialappa’s Band dei primi anni Novanta, è morto nella giornata di ieri, lunedì primo luglio, all’età di 79 anni. Nato a Palermo con il nome di Salvatore Gulisano, si era trasferito a Torino negli anni Sessanta: ha vissuto a lungo in viale Mughetti 25 alle Vallette. Il Mago Gabriel si definiva un operatore esoterico e la sua trasmissione su Rete 3 Manila, dallo stravagante titolo «Gabriel e le mira-bolanti meraviglie» era stata presa di mira dalla Gialappa’s, che di fatto ha reso il siciliano torinese un personaggio noto in tutta Italia. La forza comica del personaggio consisteva soprattutto nelle sue storpiature grammaticali (famose quelle come «le palpedre delle dita» o «stupentemente»), per gli improbabili poteri esoterici e l’espressività facciale. Grazie alla notorietà raggiunta, è stato per due anni ospite fisso alla trasmissione Buona Domenica condotta da Maurizio Costanzo e ha partecipato anche ad alcune edizioni del Festival di Sanscemo. Attivo ancora negli anni duemila in diverse trasmissioni targate Mediaset. Nel 2012 era il Mago Gabriel era stato denunciato per truffa ai danni di ATC nel piccolo comune di La Cassa: era infatti titolare di un contratto d’affitto per un alloggio popolare, ma a viverci era una donna di nazionalità dominicana con le due figlie. Lo scorso anno, ospite della trasmissione di Rete4 «Dalla vostra parte», l’uomo di spettacolo aveva dichiarato: «Non ho mai rubato, ho sempre lavorato onestamente». A darne la notizia della morte è stato il prometer Renato D’Herin con un post su Facebook. «Ieri purtroppo - scrive - ci ha lasciato un artista a cui sono molto affezionato e a cui ho voluto bene... Una figura fuori dagli schemi tradizionali ma con un grande cuore!» I due avevano a lungo lavorato insieme.

Da Torino Today il 2 luglio 2019. (...) Tra i suoi intercalari più famosi c'è "A sua volta" che poi era diventato anche un libro: "A sua volta gli uccelli volano". Dopo la fine di "Mai dire tv" il Mago aveva mantenuto una certa notorietà, partecipando a diverse trasmissioni televisive. Solo nel luglio dello scorso anno era apparso nella trasmissione 'Dalla vostra parte' su Rete4: "Non ho mai rubato niente a nessuno - aveva detto - e ho sempre lavorato onestamente, a sua volta".

IN LODE DEL MAGO GABRIEL. Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 4 luglio 2019. Lunedì scorso, in un piccolo paesino della cintura torinese, è morto il Mago Gabriel, 79 anni. Il Mago Gabriel, come tanti altri incantatori, ha avuto due momenti di gloria. Il primo è coinciso con l' esplosione delle tv locali. Eravamo intorno alla metà degli anni Ottanta, prosperava un «sommerso» televisivo non scalfito dalla vergogna: imbonitori che si azzuffavano con la lingua italiana, maghi e maghetti che promettevano miracoli via etere preoccupati solo di segnalare il numero in sovrimpressione, cantanti flagellati dal tempo e danzatrici dalla cellulite, improponibili esperti di seduzione, maliarde con vistosi buchi nelle calze a rete. Ogni canale, anche il più piccolo, anche il più modesto, aveva il suo mago o cartomante o indovino che vivacizzava le lunghe dirette: Nascia Prandi, Ansea, Mago Davide, Nicoletta Paciaroni, Madame Lucienne Il secondo momento di notorietà arriva nel 1993, quando la Gialappa's Band costruisce un programma con il meglio delle trasmissioni locali: Mai dire tv. E qui il Mago Gabriel diventa uno dei protagonisti indiscussi: non si prendeva troppo sul serio, aveva tutta l'aria di essere un cabarettista che giocava a fare il mago, sfruttando anche il suo modesto bagaglio culturale con modi di dire sgrammaticati tipo «le palpebre della dita», «pinotismo» (al posto di ipnotismo). Meravigliosa una sua telefonata a Emiliano Mondonico: quel cognome era troppo difficile per lui e lo storpiava in mille modi. In quel mondo «paragnottico» ed «eso» e «terico» (è sempre il Mago Gabriel che parla) fanno il loro debutto due personaggi che ancora oggi frequentano i salotti televisivi: Roberto Poletti e Alessandro Meluzzi. Se dobbiamo credere alla teoria dell' imprinting messa a punto da Konrad Lorenz (una sorta di compromesso tra un apprendimento innato e uno acquisito) certi atteggiamenti ora ci appaiono più comprensibili.

·         Zeffirelli se ne va.

Zeffirelli se ne va. Ci lascia un gigante del cinema, orgoglioso delle sue idee. Guglielmo Federici sabato 15 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Scompare un gigante. Il cinema e l’arte nel suo complesso piange Franco Zeffirelli, deceduto nella sua casa romana sulla via Appia dopo una lunga malattia. Aveva 96 anni. Sceneggiatore, attore, regista. Il suo contributo alla cultura italiana è stato enorme e di altissima qualità. Ha legato il suo nome a grandi produzioni che rimangono scolpite nell’immaginario cinematografico: Gesù di Nazareth, soprattutto, ma anche Fratello Sole, Sorella Luna, Amore senza fine, Storia di una capinera, Un tè con Mussolini. Splendide le sue innumerevoli  regie liriche. L’eleganza formale, la cura estetica unite al gusto del racconto e al senso dello spettacolo lo hanno reso un maestro apprezzato nel mondo. Sapeva ammaliare raccontando. Le sue idee politiche erano molto vicine al centrodestra, fu fieramente anticomunista e ricoprì la carica di senatore in Forza Italia.

Fieramente anticomunista. Fiorentino purosangue, Zeffirelli ebbe una infanzia difficile. Dopo la morte della madre, trascorre la sua infanzia nell’Istituto degli Innocenti di Firenze finché la zia paterna lo prese in custodia. Il suo padre naturale lo riconoscerà a 19 anni. Studiò nel collegio del Convento di San Marco a Firenze con Giorgio La Pira, futuro sindaco di Firenze. Disse in molte interviste Zeffirelli: «Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso».  Zeffirelli, che durante gli anni della guerra fece la Resistenza da cattolico liberale, rivelò: «Rischiai di essere ammazzato dai comunisti. Li vidi  fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti». In un’intervista rilasciata in occasione dei suoi 95 anni confidò: «In Italia ho sempre avuto dei problemi ma il grande pubblico era dalla mia parte e mi ha dato tante soddisfazioni». Anche perché i critici erano tutti di sinistra: «Con loro ho avuto un rapporto spesso difficile. Tanto che lasciai fuori i critici dalla prima de La lupa, con Anna Magnani».

Un uomo libero. Controcorrente, uomo libero, Zeffirelli disse in varie occasioni: «Ero il solo a essere anticomunista. Mi odiavano perché non mi accodavo. Addirittura perché credo in Dio». Zeffirelli è l’unico regista italiano che può fregiarsi del titolo di cavaliere dell’ordine dell’impero britannico (KBE) da quando l’ambita onorificenza gli fu appuntata nel novembre del 2004.

Anticomunista e cattolico. Perciò la critica lo snobbò. Fu partigiano, ma non «rosso». E così l'intellighenzia italiana mal sopportò la sua opera. Adorata all'estero. Paolo Scotti, Domenica 16/06/2019 su Il Giornale. Osteggiato, insultato. Sarà il destino dei veri geni; ma com'è possibile che uno dei maestri del nostro '900 sia stato così incompreso proprio dall'intellighenzia del suo Paese? Semplice.

«Perché ero anticomunista riassunse tempo fa Zeffirelli al Giornale - E perché credo in Dio». Coraggioso nel denunciare gli orrori del marxismo; orgoglioso nel proclamare la speranza cristiana. Quanto bastava per aizzare intellettuali ultrasnob e servi sciocchi della dittatura marxista che ingabbiava la cultura nazionale. «I comunisti mi odiavano perché non mi accodavo ci disse il regista - Essere dei loro significava avere vita e carriera protetti. E io l'ho pagata cara. Per questo ho fatto carriera soprattutto all'estero. Contro di me negli anni '70 prepararono perfino un attentato. Doveva sembrare un incidente d'auto. La scampai solo perché un amico mi avvertì in tempo». A dirla oggi, che gli osanna piovono da ogni parte (sinistra compresa), sembra assurdo. «Ma il PCI usava la cultura come strumento di penetrazione delle coscienze - spiegava Zeffirelli - E chi era fuori era ostracizzato». Tanto più assurdo se si pensa che nel 1944 Zeffirelli, spinto dal suo professore Giorgio La Pira, s'era fatto partigiano. «Ma ricorda sempre - l'ammonì il futuro sindaco cattolico di Firenze - che nazisti, fascisti e comunisti sono la stessa cosa». Del che il giovane Franco s'accorse ben presto: «Io li ho visti in azione, i comunisti. Cose atroci». Del conte rosso Luchino Visconti, suo amante e mentore, dirà: «Vegliò la salma di Togliatti, ma i comunisti li detestava anche lui. Solo che non poteva dirlo. Una volta licenziò un domestico solo perché non aveva pettinato a dovere i suoi gatti persiani. Vedrete quando sarete più in là con la storia ripeteva - se Marx aveva ragione o meno. Beh: l'abbiamo visto». Fu proprio il «clan Visconti» a deprecare i primi passi «non ideologici» del regista («L'altro pupillo di Luchino, Francesco Rosi, firmò il politico Salvatore Giuliano; io il leggero Camping») e a sminuirne i primi successi all'estero. «Luchino mi sconsigliò di fare Romeo e Giulietta all'Old Vic, primo italiano nel tempio di Shakespeare. Io lo feci e il critico dell'Observer scrisse: Uno spettacolo che è una rivoluzione. Disapprovò che facessi Molto rumore per nulla con Maggie Smith, e il critico Simon Callow scrisse: Allestimento di supremo incanto teatrale e di glamour incomparabile». Gelosie e invidie toccarono il colmo quando, dopo i trionfi di Vienna, Berlino, Mosca, San Pietroburgo, Parigi, Zeffirelli portò a Roma La Lupa con Anna Magnani. «Siccome avevo destinato l'anteprima ai giovani, invece che ai critici, questi decisero di boicottare per un anno tutti i miei spettacoli. E mantennero la parola». Il successo popolare che arriderà ai film d'ispirazione religiosa non farà che gettare benzina sul fuoco. Di Fratello Sole, Sorella Luna lodatissimo dai frati di Assisi - si scrisse che era «inverosimile e fazioso». Il fatto che nel Gesù di Nazareth recitassero le massime star mondiali fu titolo di demerito piuttosto che, come sarebbe logico, di apprezzamento. Ma Zeffirelli sapeva come difendersi. E confermare le sue idee. Quando nel 1995 la rivista inglese Screen International gli diede del «fascista», la citò per duecentomila sterline di danni. Ne ottenne centomila. E le devolse alle opere caritatevoli del vescovo di Catania, Bommarito.

Firenze e Zeffirelli: "Addio caro Maestro, non ti dimenticheremo mai". Così lo ricorda il sindaco Dario Nardella. Il legame con la città. La bagarre contro la Juventus in difesa della Fiorentina, i rapporti burrascosi con i politici cittadini ma anche gli spettacoli memorabili e la Fondazione nata in suo nome nell'ex tribunale. Fulvio Paloscia il 15 giugno 2019 su La Repubblica. "Addio caro Maestro, Firenze non ti dimenticherà mai. E' stato un onore averti conosciuto e aver condiviso con te il sogno del tuo Centro internazionale per le Arti dello Spettacolo a San Firenze". Così il sindaco Dario Nardella sulla scomparsa di Franco Zeffirelli che, con Firenze,  aveva condotto un rapporto di gioie e dolori, strette di mano e polemiche. Un rapporto non semplice, pieno di contraddizioni e tempeste, finito per però in un vero e proprio abbraccio dopo la Fondazione nata a suo nome e ospitata in un luogo di lusso, nel cuore di Firenze, come l'ex tribunale in piazza San Firenze, complice l'amministrazione comunale ma anche il contributo finanziario di investitori stranieri. Un museo di bozzetti e figurini sia per la prosa che per la lirica, con una sezione dedicata al cinema, un auditorium per concerti e conferenze,  approdato in quel luogo suggestivo dopo progetti diversi in altri spazi della città: dalle scuderie delle Cascine alla Galleria Carnielo, in piazza Savonarola, interamente restaurata e ancora oggi in attesa di destinazione, che Zeffirelli però giudico non adatta ai suoi scopi e alla sua fama.

La Fondazione è dunque il lascito del maestro alla città, oltre a spettacoli storici, come le scenografie per "Troilo e Cressida" di Shakespeare con la regia di Luchino Visconti nel giardino di Boboli, messa in scena per il Maggio Musicale Fiorentino nel 1949, o La Lupa di Verga con una strepitosa anna Magnani, alla Pergola nel 1965. Nel 1985, sempre al Maggio, un discusso allestimento di Traviata, protagonista Cecilia Gasdia, poi i rapporti tra Firenze e Zeffirelli si raggelano, per scaldarsi con clamorose polemiche sulla Fiorentina, sui rapporti della squadra con la Juventus, con la politica cittadina, con alcuni spettacoli sempre alla Pergola - versioni definite "tascabili" di opere kolossal come "Aida" di Verdi - ma soprattutto con Un tè con Mussolini, il film del 1999 dove il regista racconta i suoi rapporti con la comunità angloamericana - che lo accolse come studente d'inglese e dove trovò i suoi primi impulsi d'artista. La città per Zeffirelli ha significato anche un progetto mai realizzato: il film "I fiorentini", dedicato alla cultura e ai grandi personaggi del Rinascimento.

Sgarbi, sulla sua pagina Facebook il 15 giugno 2019 ricorda Zeffirelli: “Con Zeffirelli non muore un grande regista (e probabilmente i critici faticheranno a trovargli il posto giusto) ma un artista che ha interpretato il suo compito d’illustratore e narratore al centro e con l’orgoglio della grande tradizione italiana, felice di esserne epigono piuttosto che velleitario innovatore. Il suo peso nel cinema e nel teatro è esattamente come quello di un pittore eluso ed evitato, per quanto popolarissimo, come Pietro Annigoni. Entrambi hanno pagato di essere bravi, mentre le avanguardie ideologiche distruggevano le forme e la memoria della tradizione. Zeffirelli è stato il custode della storia e dell’arte italiana, preferendosi epigono che dissacratore. Ha preferito essere l’ultimo dei classici piuttosto che l’ultimo degli avanguardisti. Ha raccontato, semplicemente: come Giorgio Bassani, come Vasco Pratolini, come Tomasi di Lampedusa . Oggi senza di lui la storia è orfana, senza tutela”.

È morto Zeffirelli, regista totale. Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 da Maurizio Porro su Corriere.it. A ricordarlo per sempre, nella sua amata Firenze c’è l’imponete fondazione intestata al suo nome e alla sua opera che occupa stanze zeppe di prodigi, incanti, scenografie fra cui brillano quelle dell’Inferno di una progettata Commedia. Franco Zeffirelli si è spento oggi, sabato 15 giugno, a Roma: era ammalato da tempo. Il «fiorentino» purosangue del ‘23 che non riuscì mai a dirigere il film sulla sua città (con cui non mancarono polemiche) ma per la quale fece il possibile e l’impossibile durante l’alluvione del ’66, è stato nel mondo dello spettacolo uno dei pochi che l’hanno frequentato per intero, come il suo maestro Visconti con cui ebbe un rapporto per così dire, bipolare. Sapeva cosa vuol dire far spettacolo e ammaliare il pubblico. Radio e tv, costumi e scenografo (i memorabili Williams, Cechov e Shakespeare), regista di cinema, d’opera (la Bohème scaligera), prosa. E ci fu pure un inizio da attor giovane e aitante nell’Onorevole Angelina con la Magnani, che poi dirigerà a teatro in La lupa di Verga. E non finisce qui: fu polemista su sponda sociale, morale e sessuale (tuonò contro la pornografia, visse un’omosessualità nota in privato ma velata in pubblico), politico di centrodestra, autore nell’86 di un’autobiografia che racconta la travagliata adolescenza. Pur liberale e anticomunista lavorò con Antonioni, De Sica, Rossellini e poi nel ’49 col regista allora più schierato, Visconti, arrivando alla Scala coi giovani Crivelli e Tosi. Fu assistente in La terra trema (con l’altro deb Francesco Rosi), Bellissima e Senso; poi scenografo di celebri spettacoli (Un tram che si chiama desiderio, Troilo e Cressida a Boboli), finché il sodalizio si ruppe, anche con pettegolezzi molesti: Luchino lo chiamò «il mio arredatore». Zeffirelli, o Scespirelli come l’avevano soprannominato allegri nemici perché frequentava molto Londra e sir William (celebri allestimenti dell’Old Vic con Judy Dench Giulietta), non fu un uomo facile: «Seguo sempre e solo il mio istinto» diceva. Passò anni a tuonare contro la sinistra al potere e la velleità populista del nostro cinema, pur apprezzando Fo e Benigni. Si sentiva vittima, ma pochi come lui hanno lavorato senza sosta, arrivando a successi internazionali come il Gesù di Nazareth tv (’76), clamoroso esempio del suo manierismo figurativo e del suo contagioso impeto spirituale: «Se i russi raccontano Guerra e pace e gli americani Via col vento perché noi non dovremmo fare altrettanto con la storia dei Vangeli?».

Puntava sempre alto, gli piacevano le Grandi Storie, l’Amore sfogliato in ogni declinazione romantica, vedi Romeo e Giulietta con i giovanissimi e bravissimi Guarnieri e Giannini; ma purtroppo anche le derive del melodramma in alcuni film americani strappacore come Il campione con Jon Voight e Amore senza fine con la giovane Brooke Shields. Amante dei classici, spettatore fin da piccolo di storiche mostre e serate d’opera e di prosa, confidente di coppie vip come Liz e Burton, e amico delle primedonne internazionali, dalla Callas (diresse un commosso film ricordo degli ultimi due mesi di vita complice Fanny Ardant) alla Sutherland, dalla Plowright a Maggie Smith, il giovane Zeffirelli visse un’adolescenza disagiata per mancanza di famiglia. Era figlio illegittimo di un uomo già sposato e con un’altra figlia e la madre morì quando aveva solo sei anni. Si innamorò subito dell’arte e prese parte alla lotta antifascista, coi partigiani alla macchia l’8 settembre ’43, come racconta nel suo film più sentito, Un tè con Mussolini, ricordo della Firenze in guerra. Al cinema ha allestito kolossal scespiriani belli e patinati, di gran clamore scenografico e sontuoso impatto visivo: la Bisbetica domata con Taylor e Burton, Romeo e Giulietta con Hussey e Whiting (nomination all’Oscar per la regia), accorgendosi con un’occhiata se qualcosa non andava, anche fosse il collare dei cani.

In teatro, pur amando Pirandello (Così è se vi pare per la vecchia Borboni, i Sei personaggi con Salerno) e Schiller (storica Stuarda con due regine in gara come la Falk e la sua amica Cortese), portò Eduardo in Inghilterra con Laurence Olivier (Sabato, domenica e lunedì) e la Plowright (Filomena Marturano). E aveva la vista lunga sugli americani: fu il primo a scoprire da noi Albee, allestendo Chi ha paura di Virginia Woolf? con Salerno, Ferrati, Orsini, poi Un equilibrio delicato con Morelli e Stoppa, mentre firmò con Vitti e Albertazzi Dopo la caduta, il dramma di Miller su Marilyn. Col suo cinema, come fossero film opera, voleva affascinare e commuovere, vedi Fratello Sole Sorella Luna (’71) su San Francesco e anche Storia di una capinera (torna Verga), il non riuscito Giovane Toscanini e Jane Eyre. Un capitolo a parte merita Amleto, allestito magnificamente nel ’64 a teatro con un Albertazzi in nero esistenziale e poi lo riprese nel ’90 al cinema con Mel Gibson in edizione gotico-country e la voce di Giannini. «Il teatro — diceva — è per me sempre alla base di tutto, mi piace attirare i giovani sui capolavori e faccio cinema da “metteur en scène”, lavoro alla bottega del Rinascimento».

Il genio e la sua ossessione: «Io incompreso perché non ho omaggiato il comunismo». Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 da Aldo Cazzullo, Emilia Costantini e Laura Zangarini su Corriere.it. Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare. La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo». Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore. «Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…». Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi. Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega». Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia». Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee». Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

ZEFFIRELLI da Cinquantamila.it di Giorgio dell'Arti.

(Gianfranco Corsi) Firenze 12 febbraio 1923. Regista. Tra i suoi film: Camping (1957), La bisbetica domata (1967), Romeo e Giulietta (1968, David di Donatello e Nastro d’argento, nomination all’Oscar), Fratello sole, sorella luna (1972), Gesù di Nazareth (1977), La traviata (1983), Otello (1986), Il giovane Toscanini (1988), Amleto (1990), Storia di una capinera (1993), Jane Eyre (1995). Nel 2002 David di Donatello alla carriera. Come regista di prosa ha sfondato prima all’estero che in Italia. Nell’opera, fra i tanti allestimenti, almeno due memorabili: la Bohème creata nel 1963 alla Scala, che continua ad essere ripresa, e la mini Aida fatta a Busseto nel 2001. «Chi è il suo maestro? “Dio, anche se sono indegno di lui”» (ad Alain Elkann).

Ultime Nell’ottobre 2014 ha scritto una lettera aperta di protesta alla Scala di Milano, accusata di aver escluso dal repertorio la sua Aida del 2006 e di averla venduta al Kazakistan: «Un’infame procedura che richiederà l’intervento della magistratura».

Entusiasta di Papa Bergoglio, ha voluto dedicargli un libro: Francesco (De Luca Editori d’Arte), dedicato al santo d’Assisi, illustrato con le foto del film Fratello Sole Sorella Luna (1972).

Nel 2013 ha compiuto novanta anni: «Per cosa sarà ricordato? “Dagli specialisti per le mie conquiste culturali e il mio senso estetico. Dal grande pubblico per Romeo e Giulietta, Fratello sole, e il Gesù di Nazareth”» (a Maurizio Caverzan).

Sempre nel 2013 è stata inaugurato a Firenze, nella Casa museo di Palazzo Carnielo, il Centro internazionale per le arti dello spettacolo, con un archivio intitolato a suo nome contenente scenografie, bozzetti e costumi. Un progetto cui lavorava da anni: «In parte museo e in parte scuola di regia e scenografia».

Nel 2012 ha curato regia e scene del Don Giovanni, la prima opera di Mozart ad essere rappresentata all’Arena di Verona.

Vita È figlio di Ottorino Corsi e Alaide Garosi Cipriani: «Mio padre era sposato con un’altra donna, quando mi riconobbe ero già grande. Mamma aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni» (da un’intervista di Aldo Cazzullo).

Il padre vendeva tessuti, la madre aveva sposato da giovanissima un avvocato, un po’ più grande di lei: «Alaide, per il signor Corsi, non fu esattamente come le altre: fu corteggiata a lungo, divenne la sua cliente preferita, cominciò a comprare da lui le lane più pregiate e scoprì quell’affetto che da due anni non aveva più trovato» (Claudio Cerasa).

«I figli illegittimi in quegli anni avevano una lettera secondo l’ordine alfabetico. Quando venne il mio turno toccava alla zeta, e giacché mia madre amava l’aria degli zeffiretti di Mozart in Così fan tutte (in realtà Idomeneo - ndr), scelse proprio quel cognome. Fu il caso a decidere per Zeffirelli: l’impiegato dell’anagrafe infatti dimenticò di apporre i trattini sulle t».

«A 19 anni, quando mio padre mi riconobbe, avrei dovuto buttare via Zeffirelli e diventare Corsi: ma io ci tenevo, perché lo aveva inventato mia madre. Sul passaporto, però, sono stato a lungo Gianfranco Corsi, anche se ero riuscito a farci mettere “in arte Zeffirelli”. La regolarizzazione l’ho ottenuta solo al mio ingresso in Senato».

La storia della sua infanzia è raccontata in Un tè con Mussolini (1999): «Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary O’Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, impersonata nel film da Cher, che saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare».

«Gli altri miei maestri furono padre Coiro, priore di San Marco, e un professore di Diritto romano che frequentava il convento, Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso».

La Resistenza. «Andai in montagna da cattolico liberale e rischiai di essere ammazzato dai comunisti. Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano».

Diploma all’Accademia di Belle arti a Firenze, dopo qualche ruolo d’attore, diventò scenografo e aiuto regista di Visconti: «Per me Luchino era il modello di tutto quel che conta davvero». Il rapporto tra i due si interruppe a metà degli anni Cinquanta quando, dopo un furto in casa di Visconti, Zeffirelli fu portato in commissariato insieme alla servitù.

Ingaggiato dalla Scala come scenografo, debuttò alla regia con Cenerentola. Al cinema il successo arrivò negli anni Sessanta con due trasposizioni shakesperiane: La bisbetica domata (con Elizabeth Taylor e Richard Burton) e Romeo e Giulietta. Grandi incassi anche con due film realizzati in America: il remake de Il campione di King Vidor (1979) e Amore senza fine (1981).

«Regista di primo piano, ricevuto dalla regina Elisabetta e da Paolo VI, (...) diventa amico di Liz Taylor e Burton, di Laurence Olivier e Joan Plowright. Ma soprattutto di Maria. Callas, adorata. Forse l’unica donna di cui un po’ si innamora». Nel 2002 le ha dedicato un film, Callas forever (protagonista Fanny Ardant): «La conobbi che era grassa e goffa, un anno dopo aveva perso 30 chili e era diventata una donna di insuperabile fascino. Una trasformazione che ha segnato il mondo della lirica, che da allora si può datare a.C. e d.C., prima e dopo Callas».

«All’oratorio, un frate lo sbaciucchia e lo molesta, come nella Mala educación di Almodovar: “Si rilassò, dopo aver soddisfatto il suo desiderio inconfessato con il semplice contatto del mio corpo... Poi però corse al suo inginocchiatoio piangendo calde lacrime di pentimento”. Il primo orgasmo ha una data, “il giorno della morte di Pirandello, nel 1936”. Il primo amore è un compagno di liceo. Gli altri ragazzi vedono, capiscono e sbeffeggiano. “Sono stato sempre discreto sulla mia sessualità. Solo una decina d’anni fa, a San Francisco, ammisi di aver avuto esperienze con uomini”. Omosessuale sì, ma non gay. “Una parola che odio, offensiva e oscena”» (Manin). Ha spiegato in un’altra intervista il motivo di tanta irritazione: «È l’etimologia. Nasce nella cultura puritana: l’idea che, per bilanciare questa “anomalia”, devi essere simpatico, gaio. E così in America vediamo questa roba da carnevale, si truccano come pagliacci, tutti felici e allegroni, sei così spiritoso e divertente che ti chiamano gay. Una specie di attenuante. Ma si può? Dire a Michelangelo che è gay? A Leonardo? Andiamo, essere omosessuali significa portare un grave peso di responsabilità, scelte difficili: sociali, umane e di cultura» (a Gian Guido Vecchi).

Ha due figli adottati da adulti: Pippo, figlio di un vecchio amico siciliano morto giovane, e Luciano, orfano fin da bambino, conosciuto sui set dove era un tuttofare. Il primo si occupa della gestione del patrimonio economico e artistico di Zeffirelli, il secondo manda avanti la casa. Doveva esserci anche una terza adozione per Adelina, dipendente del regista, poi bloccata da problemi burocratici. Vive a Roma in una villa sull’Appia antica di proprietà di Silvio Berlusconi, che ospita anche la sua vecchia Tata, Edvige Lazarotti, 101 anni (ndr nel 2014): «Ne aveva 16 quando è venuta nella casa dei miei zii per occuparsi di me».

Ha sostenuto di essere un discendente di Leonardo Da Vinci: «Un mio pro-pro-nonno mise incinta la contadina che generò Leonardo».

Nel 2006 per Mondadori è uscita la sua Autobiografia, un volume di 540 pagine.

Critica Andrea Porcheddu a proposito di una sua Traviata: «Non c’è un angolo libero in scena e dal soffitto pendono bargigli enigmatici, mentre svolazzano drappi e nastri, in una saturazione visiva che nemmeno sul palco dell’Ariston a Sanremo. Il palcoscenico, poi, tripartito in altezza, e collegato da ampie scalinate, farebbe felice la Wandissima, e quando Violetta riappare, dopo una suggestiva variazione al grigio, che fa sparire i rossi e gli ori dei matador, eccola scendere le scale lenta e già segnata dal male che l’ha colpita. È figura fragile: “Io spenta ancora, pur l’amerò...”. Sospiri e singhiozzi in platea. “Zeffirelli è sempre Zeffirelli”, “e come muove le masse lui...”». Michelangelo Zurletti ancora su Traviata (nell’84 a Firenze con Kleiber sul podio): «Una cura minuziosa dei dettagli e della recitazione certifica la mano di un vero uomo di spettacolo. Al quale chiederemmo soltanto meno spacconate, ma sarebbe come chiedergli una mutilazione (...) Successo anche per le stelle filanti, applaudite una per una...».

Tullio Kezich a proposito di Un tè con Mussolini: «Il regista, destrorso conclamato, firma il film più visceralmente antifascista di tutta la storia del nostro cinema». E in precedenza, su Romeo e Giulietta: «La versione teatrale di Franco Zeffirelli all’Old Vic, nel 1960, fu accolta da Kenneth Tynan come “una rivelazione e forse una rivoluzione”: in quel memorabile spettacolo, i due amanti scespiriani recuperavano polemicamente la loro età adolescenziale e la tragedia ne usciva vivificata. In Romeo and Juliet il regista vede soprattutto un contrasto di generazioni, la lotta dei giovani per emanciparsi dalla tirannia degli anziani (...) L’impostazione rimane valida anche nel film».

«Ha attaccato tutti, come solo un fiorentino riesce a fare, dai senesi (“cacciatori, comunisti e bestemmiatori”) ai sauditi, che gli avevano sequestrato un documentario. Difficile seguire i percorsi della vitalità, o se si vuole dell’aggressività del personaggio. S’è infatuato di Bossi, ha fatto una gita a Pontida e poi voleva mettere fuori legge la Padania. Ha invocato la censura sui film violenti e difeso i tifosi teppisti della squadra viola. Una volta, erano gli anni di Tangentopoli, ha teorizzato che era meglio dar soldi alla mafia che ai socialisti (almeno i picciotti “ti proteggono la bottega”). Un’altra volta, sempre furente, ha fatto notare che in un altro paese Craxi sarebbe stato già “impiccato”. Gli scappano frasi tipo: “Personalmente non posso vedere la faccia di D’Alema senza vomitare”» (Filippo Ceccarelli).

Frasi «Nel mio lavoro è implicita l’esigenza del comunicare. Non puoi andare a letto con qualcuno pensando ad altro, e fare cinema vuole dire proprio questo: fare l’amore con il pubblico. La pressione arriva dall’immensità della macchina: ogni film è come muovere un esercito. Per questo ho sempre sognato di fare film piccoli, agili e improvvisi, e forse un po’ mi è riuscito con Un tè con Mussolini».

«In tutti i miei film ci sono parti di me. Io sono stato Mercuzio, Giulietta e Romeo. Sono stato Amleto, la Caterina della Bisbetica domata e il personaggio di Jeremy Irons in Callas Forever. In fondo ogni regista non fa che raccontare se stesso. Visconti diventava tutti i suoi personaggi, anche i pescatori di Acitrezza».

«Tullio Serafin mi ha fatto capire che per fare una buona regia lirica bisogna servire il compositore, e non creare, come accade oggi, spettacoli in cui i registi si compiacciono solo di se stessi. Si mette in scena Verdi, o Gounod, o Berg, e tutte le produzioni sono uguali, vi riconosci il regista e non l’autore» (da un’intervista di Leonetta Bentivoglio).

«La mia fortuna è che fino ad oggi non ho mai accettato di fare una regia per motivi alimentari».

«Ho sempre amato il bello, quello semplice e rigoroso che perfora il cuore e la mente senza sforzo».

Politica Nel 1994 e nel 1996 fu eletto al Senato con Forza Italia. Oggi di quella esperienza dice che fu uno sbaglio: «Volevo dare il buon esempio della cultura al servizio della società. Non erano i tempi, come non lo sono nemmeno oggi. La politica purtroppo è il lusso dell’uomo qualunque, che crede di poter fare una grande carriera al di là delle possibilità che tutti hanno». Su Matteo Renzi: «È un ragazzo pieno di idee brillanti e aperte. Ma è fuori posto. Non gli ha giovato essere sindaco. Lo vedevo bene come avvocato». (a Valerio Cappelli) [Corriere della Sera 6/1/2013]. Grillo, «un imbecille» (a Paolo Conti) [Corriere della Sera 6/8/2013].

«Non mi è pesato l’ostracismo in patria, perché comunque non ha danneggiato la mia carriera. Mi ha indispettito perché è un ostracismo ideologico. È stato manovrato dal possesso della cultura operato dai comunisti in questi ultimi cinquanta anni. Siccome non ho mai nascosto quello che pensavo di loro e di Stalin, allora venivo messo al bando» (da un’intervista di Gigi Marzullo).

«La mia colpa è aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo».

«Una cosa che non perdonerò mai a Berlusconi è di aver privato il teatro italiano di una grande attrice com’era Veronica Lario» (ma nel 2007 la criticò pubblicamente per la sua lettera a Repubblica, vedi BERLUSCONI Veronica).

Religione «Lei è credente? "Non si può non esserlo. Lo è anche chi non crede di esserlo. Il soprannaturale ha il sopravvento”» (a Giancarlo Perna).

«Sono cristiano fino alle profonde viscere dello spirito. La Chiesa ha la mia disponibilità a un impegno al suo servizio. Paolo VI dopo aver visto il mio Gesù di Nazareth, mi chiese che cosa la Chiesa potesse fare per me. Gli risposi: “Vorrei che quest’opera arrivasse anche in Russia”. Lui mi disse profeticamente: “Abbia fede, presto sul Cremlino sventoleranno le bandiere della Madonna al posto di quelle rosse”» (a Giacomo Galeazzi).

Tifo È tifoso della Fiorentina (e dunque anti-juventino tra i più accaniti): «Nel 1969, l’anno dello scudetto, andando allo stadio per vedere Fiorentina-Cagliari, ebbi un incidente. Ero sulla Rolls-Royce di Gina Lollobrigida, che guidava come una pazza. A lei non importava nulla del calcio, doveva fare un servizio fotografico. Quando mi risvegliai dopo tre giorni di coma, la prima cosa che dissi fu che dovevo andare allo stadio. Ingessato per mesi, riuscii a vedere l’ultima di campionato» (a Mauro Balestrazzi).

Vizi Grande passione per i cani, al punto che ci dorme insieme. «L’affetto che danno è impagabile, ma è intensissimo anche il dolore di perderli». Il suo segreto per farli vivere bene e a lungo: «Un ottimo veterinario. Castrarli, maschi e femmine. Non fargli mai mangiare i nostri avanzi unti. E quando invecchiano dargli latte e mozzarella».

Da "l'Espresso" il 5 luglio 2013. L'omosessualità non ha mai ostacolato Zeffirelli nei rapporti con la Chiesa. «Credo che il peccato della carne sia tale se compiuto con un uomo o con una donna». Disprezza i Gay Pride, «esibizioni veramente oscene, con tutta quella turba sculettante. La parola gay stessa è frutto della cultura puritana, una maniera stupida di chiamare gli omosessuali, per indicarli come fossero dei pazzerelli». Essere omosessuale «è un impegno molto serio con noi stessi e con la società. Una tradizione antica e spesso di alto livello intellettuale, pensi solo al Rinascimento. Nella cultura greca l'esercito portava gran rispetto a due guerrieri che fossero amici e amanti, perché in battaglia non difendevano solo la patria, ma reciprocamente anche se stessi, offrendo una raddoppiata forza contro il nemico».

Riccardo Lenzi per "L'Espresso" il 5 luglio 2013. Chi volesse conoscere davvero il regista Franco Zeffirelli, celebrato in questi giorni a Firenze con l'istituzione dell'omonimo archivio e del Centro internazionale per le arti dello spettacolo che saranno custoditi nella Casa museo in Palazzo Carnielo, dovrebbe passeggiare nel giardino della sua dimora sulla via Appia. Disposto in maniera all'apparenza casuale, in realtà simmetricamente attraversato da sentimenti e ricordi, nella divisione delle zone di verde, creata con siepi di bosso, e nell'introduzione di fontane e pergolati, la composizione riprende i temi del giardino rinascimentale e tra percorsi lastricati in porfido sono collocate, insieme alle statue antiche, la collezione di calle in memoria di Maria Callas, un cimitero per gli amici a quattro zampe, quindi serre e specchi d'acqua, fino ad arrivare alla piscina, decorata con calchi su base in ferro battuto, gli stessi utilizzati nella sua celeberrima scenografia della "Traviata". Perché la musica ha segnato il suo destino fin dalla nascita: «I figli illegittimi come ero considerato negli anni Venti avevano per iniziale del cognome una lettera secondo l'ordine alfabetico», ricorda il 91enne Zeffirelli a "l'Espresso": «Quando venne il mio turno toccava alla zeta, e giacché mia madre amava l'aria "Zeffiretti lusinghieri", dall'"Idomeneo" di Mozart, scelse proprio quello, poi storpiato da un impiegato dell'anagrafe». Come i sentieri e i viali di quel giardino, ripercorriamo insieme la memoria dei personaggi che hanno attraversato la sua vita. I maestri della giovinezza fiorentina incontrati in quel cenacolo che era il convento di San Marco: il priore padre Gabriele Coiro, cupo e intenso quasi come un moderno Savonarola, e un professore di Diritto romano che gli fece da istitutore nel collegio, gli consigliò durante l'occupazione tedesca di raggiungere i partigiani e poi nel dopoguerra sarebbe diventato sindaco della città: Giorgio La Pira. «Firenze aveva resistito ai peggiori eccessi della modernizzazione e la Chiesa faceva da contrappeso ai tentativi del governo fascista di guidare e controllare le nostre menti», rammenta ancora Zeffirelli. E gli studi di architettura, scenografia e pittura all'Accademia di belle arti e all'università. E un'iniziazione musicale impreziosita dall'esperienza senese. «L'Accademia chigiana fu fondata dal conte Guido Chigi Saracini: un uomo ignorante ma istintivo, che si sentiva investito da una missione». A guerra finita, sempre a Firenze, al Teatro della Pergola, dove era assistente scenografo, comparve Luchino Visconti. Zeffirelli diventò suo aiuto regista e collaborò, fra l'altro, alla produzione di capolavori cinematografici come "La terra trema" e "Senso": «Per me Luchino era il modello di tutto quel che conta davvero, un uomo complesso, autoritario e umile, egoista e generoso, folle e saggio. Un tormentato Don Giovanni e un aristocratico dal sesso facile». Convisse con Visconti nella sua villa in via Salaria a Roma. Il rapporto tra i due si deteriorò quando, dopo un furto in casa, Zeffirelli fu portato in commissariato insieme alla servitù. Chiarita la sua innocenza ma offeso nell'animo, ebbe modo di riflettere: in quegli anni sotto la protezione di Visconti aveva avuto occasioni di lavoro incredibili, conoscenze importanti. Era però giunto il momento di emanciparsi, anche se non fu facile: il "conte rosso" era l'intellettuale più ammirato d'Italia, incensato persino da Togliatti. «Comunista lui?», sorride Zeffirelli: «Ma se licenziò su due piedi un cameriere perché si era dimenticato di pettinare i gatti persiani. Anche mentre si provava in teatro chiamava un domestico a lisciarli. Gridava: se non mi fate fare quello che l'istinto mi ispira, me ne vado su due piedi!».

Ad Anna Magnani deve invece il suo esordio cinematografico nell'estemporanea parte dell'attore, nel film "L'onorevole Angelina". «Mi trovai su quel set nell'estate del 1947 perché mio cugino mi incaricò di lavorare per la pubblicità di quella produzione», ricorda Zeffirelli. «In quel momento la grande attrice era infuriata con il regista Luigi Zampa perché aveva affidato il ruolo del giovane protagonista a un raccomandato». «Guardati in giro, il mondo è pieno di facce nuove», disse la Magnani a Zampa, «non è questa la regola del vostro cinema del neorealismo, per cui chiunque può fare l'attore?». Mentre gridava il suo sguardo si posò su Zeffirelli. «Quello stronzetto là, vedi se sa spiccicare due parole» e si rifugiò in camerino. Zeffirelli ricorda ancora: «Dopo il provino, Zampa sembrò deluso». Tornata la Magnani, sentenziò che quel ragazzo come look non era male, ma non era naturale: sapeva infatti recitare. Al che la Magnani s'adirò di nuovo: «Verismo del cavolo. Tanto alla fine il cinema lo facciamo noi attori», e riuscì a farlo assumere.

Ma la donna della sua vita, dopo la madre, fu Maria Callas, che diresse a partire dagli anni Cinquanta. «Per me la storia della musica si divide in a.C. e d.C: avanti e dopo di lei. La presenza scenica e le qualità musicali erano inscindibili, componeva e recitava quello che cantava. Una donna che poteva essere una ragazzina, una compagna di scuola e una virago. Il sesso se lo immaginava: aveva delle voglie non confessate, si innamorava spesso dei pederasti (usa proprio questa parola Zeffirelli, ndr.), li sentiva vicini. Gli intellettuali la sostenevano soffiando sul fuoco della rivalità con la Tebaldi. Maria rappresentava il nuovo, mentre la Tebaldi era la tradizione acquisita e accettata». Secondo Zeffirelli, Maria morì di crepacuore. «Quando vidi il suo corpo immoto pensai che fosse appartenuto a due persone distinte: alla donna che voleva amare ed essere amata e alla diva solitaria, una vestale sacrificata sull'altare dell'arte».

Un'altra "Divina" fu Joan Sutherland: «Cantante suprema come la Callas. Dire di preferire l'una all'altra è come dire che ti piace il blu invece del rosso. Fu Richard Bonynge, il marito direttore d'orchestra, a inventarla musicalmente e a esercitarsi con quello straordinario strumento. Joan portava con molta fatica le sue responsabilità, forse anche perché aveva un marito che con lei non aveva alcun rapporto carnale».

Regista d'opera ormai leggendario (tanto per dare una cifra approssimativa, circa 1.600 recite sono state tratte da suoi spettacoli al Metropolitan di New York), dal dopoguerra ha incontrato tutti i grandi interpreti della musica classica. A incominciare da Arturo Toscanini: «Una volta, appena tornato a Milano dall'America, entrò in sala alla Scala parlando ad alta voce. Non badò minimamente a chi da parecchie ore stava lavorando in teatro a "L'elisir d'amore". Ero stanco per aver passato una notte intera in sartoria: ordinai quindi ai tecnici di abbassare le luci in sala e riprendere le prove. Lui chiese il perché, poiché nell'opera di Donizetti non ci sono scene buie. Io scoppiai: "Mi dispiace, Maestro, di doverla incontrare in queste circostanze, da anni sognavo questo momento... ma lei ora viene a romperci le scatole mentre lavoriamo e non lo possiamo permettere"».

Il direttore d'orchestra Tullio Serafin. «Il vero, tipico, musicista di qualità. Ma anche un uomo divertente e un gran puttaniere. Fu per la Callas un padre vigile e severo. E senza andarci a letto. Il "Vangelo secondo Serafin" si rifaceva alle parole con cui Monteverdi consacrò la nuova arte dell'opera: il "recitar cantando". "Prima la parola, poi la musica"».

Herbert von Karajan: «Era un personaggio molto controverso, che faceva cose che soltanto lui si poteva permettere». Pare che Bernstein l'abbia definito il nazista più simpatico che avesse conosciuto. «Non rammento la simpatia», precisa ironicamente Zeffirelli: «Con me diventava un agnellino, forse perché comprendeva di trovarsi a contatto con un "genio improbabile".

Condividevamo un terreno comune: la ricerca e il senso della bellezza. Lui era felice di essere odiato, ma se uno non lo amava, si disperava. La nostra "Bohème" di Puccini fu un atto d'amore: affondammo il nostro coltello nelle carni vive della gioventù dei personaggi. In definitiva lui e Kleiber fecero rivalutare Puccini dai critici che prima mostravano la bocca storta». Meglio Puccini di Wagner, per Zeffirelli: «Il tedesco è un grande musicista, ma mi è poco simpatico. Con Puccini e Verdi mi piacerebbe uscire, andare a prendere un caffè. Con Wagner no». Quando gli si chiede di Carlos Kleiber, Zeffirelli giunge le mani come in preghiera: «Un dio. Fin dalle prove, al nostro primo incontro, per l'"Otello" che inaugurò la Scala nel 1976, mi accorsi dell'irresistibile, contagiosa energia creativa che emanava. Carlos era contraddittorio, fra l'arcano, il sublime e il volgare, nel senso del pratico. Molto legato alla moglie, ma aveva anche tante "distrazioni" con le quali era spesso ospite della mia villa di Positano. Per lui la musica era come l'aria, entrava e usciva. Anche quando mangiava, qualcosa sembrava suonargli dentro». Fra i primi ospiti della sua villa di Positano ci fu Leonard Bernstein, che già aveva frequentato negli anni Cinquanta alla Scala. A quei tempi Zeffirelli stava lavorando a "Fratello Sole, Sorella Luna", il film su San Francesco dove sarebbe stata molto importante la colonna sonora. «Coinvolsi subito Lenny (Bernstein), facendogli ascoltare una raccolta di musiche francescane, il "Laudario di Cortona". Bernstein se ne innamorò e mi consigliò di invitare Leonard Cohen a creare una colonna sonora riproponendo le melodie delle laudi. Successivamente feci conoscere l'operazione a un delizioso artista folk, Donovan, che compose una splendida colonna sonora. Ne parlai anche con i Beatles, ai quali piacque la storia di san Francesco, quella di un giovane che si autoesclude dalla società e dalle sue ricchezze terrene per lodare e cantare Dio attraverso le sue creature. Gli feci conoscere il Laudario, lo cantammo insieme e ne furono entusiasti. Fu per loro costante fonte d'ispirazione».

Con Riccardo Muti, tramite Luciano Pavarotti, andò meno bene. «Li conobbi per un "Don Carlo" che avrebbe inaugurato la stagione scaligera del 1992. Percepivo che Luciano aveva la morte addosso: vi erano delle zone dello spirito umano che lui non era capace di decifrare. In genere avverto molta angoscia in un tenore in carriera. Quella che non sento nel soprano. Il soprano ha una voce che si apre al Paradiso in maniera naturale. Pavarotti in quell'occasione fu spesso umiliato da Muti. Nel mondo dell'opera s'intrecciano molteplici energie individuali che debbono trovare un'armonia comune, senza la quale è difficile che si possa arrivare a risultati positivi. Le esperienze verso le quali ho grata memoria sono state quelle con giganti come la Callas, Serafin, Kleiber, Bernstein e Karajan. Muti è un artista molto diverso da questi, anche se non è infrequente imbattersi in casi di arroganza e vanità nel mondo della musica. Muti ha in testa un solo traguardo, che assorbe tutta la sua creatività: affermare a ogni costo il proprio genio, che ampiamente gli va riconosciuto, ma che purtroppo non vuole accettare critiche. Anche per quanto riguarda Kleiber, Muti ha sempre raccontato di essere suo amico, ma quando alla Scala decideva lui, per gelosia ne limitò le apparizioni».

A partire dal 1960 nei teatri e nei cinema, inizialmente nel nome di Shakespeare (basterebbe pensare al "Romeo e Giulietta" dell'Old Vic a Londra e a film come "La bisbetica domata", successi che gli valsero il soprannome di "Scespirelli" da parte di Ennio Flaiano), Zeffirelli divenne un punto di riferimento nel mondo anglosassone. Quando il grande Laurence Olivier s'interessò all'opera di Eduardo non trovò di meglio che approfittare della sua amicizia per la mediazione. Intendeva portare in scena "Sabato, domenica e lunedì" e successivamente volle fare altrettanto con "Filumena Marturano". «Ci furono due incontri fra Larry (Olivier, ndr.) ed Eduardo, uno a Firenze a casa mia, il secondo durante le prove londinesi di "Sabato, domenica e lunedì" con la mia regia», rammenta Zeffirelli. «Olivier tentò di tagliare una scena ed Eduardo, avvertito da qualche attore, mi intimò: "Dì a quel tuo nuovo padrone che la commedia la leggiamo in una edizione stampata, non è un copione dove si aggiunge e taglia". Olivier acconsentì, ma poi durante lo spettacolo fece quello che gli parve».

In quegli anni i più grandi attori d'oltremanica lavorarono per Zeffirelli. Alec Guinnes: «Il teatro inglese per eccellenza, con i suoi tic, ad esempio le inimicizie verso i colleghi». John Gielgud: «Un bravo attore, una bella signora». Maggie Smith: «Attrice straordinaria, l'Inghilterra fatta persona. Nel mio film "Un tè con Mussolini", raccoglie in sé l'anima della sua terra e la respinge al tempo stesso. Ma se qualcun altro osava parlare male della sua patria, prorompeva: devo farlo io, voi non ne avete il diritto». Albert Finney: «Eterno ragazzaccio prepotente e ricattatore del cuore delle donne».

E Richard Burton. La voce più bella del teatro britannico e non solo, come ricordano gli ammiratori del documentario di Zeffirelli del 1966 sull'alluvione di Firenze. L'eterna relazione con Liz Taylor forse ne limitò le qualità d'artista? «Temevo questo pericolo per il film "La bisbetica domata". Aspettavo con ansia la sua prova e, sorprendentemente, accadde che vinse il confronto con la Taylor. Lei fu brava, ma ricorse ad alcuni artifizi professionali. In quegli anni Burton aveva trasgredito, con il bere, la disciplina. Lei gli dette una regola, pur con i suoi parametri», ricorda Zeffirelli.

Zeffirelli in quegli anni era spesso a New York per montare e pubblicizzare i suoi film. «Andai a una festa di Paula e Lee Strasberg all'Actors Studio e v'incontrai Marilyn Monroe. Lee mi parlò della sua idea di farla debuttare in teatro nelle "Tre sorelle" di Cechov. Ero perplesso, ma Lee insistette che avessi un incontro privato con lei. Malgrado quel suo personaggio professionale di sventatella, mi parve una donna tutt'altro che stupida. La mia idea era che anziché pensare di cimentarsi come una delle sorelle, si sarebbe divertita di più nella parte della tremenda cognata Natascia, che portava un'aria nuova nella casa di quelle tristissime zittelle». Tanti grandi nomi del passato e tanti giudizi senza peli sulla lingua. Ma cosa pensa Zeffirelli di coloro che lo circondano oggi? Presto detto. Alexander Pereira, nuovo sovrintendente scaligero: «Credo che non mi piacerà. Non ho accettato di fare un tentativo di solidarietà a mezzo stampa. Certo è un buon professionista. Ma arrivando alla Scala si dovrebbe inginocchiare: non ha una cultura consapevole della sua storia». Il conduttore d'orchestra Tony Pappano: «È sempre un'avventura aprire un capitolo con un cantante. Pappano, come altri suoi colleghi, pensa che il perno di ogni espressione musicale sia il direttore. Lo si può anche sostenere ma bisogna essere Bernstein, Karajan o Serafin». I nuovi registi italiani: «Il mondo dei Nanni Moretti non mi interessa. Spesso questo nuovo cinema mi pare la fiera dei presuntuosi». Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi: «Un ragazzo molto sveglio. Ha intuito il tracollo dei comunisti. Ma le ultime elezioni locali li hanno rilanciati e modificheranno la sua strategia politica». Beppe Grillo: «Non merita di essere pensato. C'era una protesta passiva e molti giovani si sono lasciati strumentalizzare da lui. Il suo movimento mi ricorda vagamente il Fronte dell'Uomo Qualunque fondato a Roma nel 1944 da Guglielmo Giannini. Ma Giannini era un personaggio più interessante».

E il tema per lui fondamentale del rapporto con la Chiesa e la fede. «La Chiesa ha la mia disponibilità a un impegno al suo servizio. A sua volta Paolo VI, nel 1977, dopo aver visto il mio "Gesù di Nazareth", mi chiese che cosa la Chiesa avrebbe potuto fare per me. Gli risposi: vorrei che quest'opera arrivasse anche in Russia. Lui mi disse profeticamente: "Abbia fede, presto sul Cremlino sventoleranno le bandiere della Madonna al posto di quelle rosse". Quando, nel 1991, vidi in tv le bandiere rosse sovietiche ammainate dalle torri del Cremlino, e il bianco, l'azzurro e il rosso, i colori della precedente bandiera russa, sventolare sopra le cupole di Mosca, pensai che quei colori erano quelli dell'immacolata concezione: la vergine bianca e azzurra che schiaccia il rosso del demonio». E cosa pensa di papa Francesco? «Carino, innocente, mi piace come va incontro alla gente, facendo delle battute che vorrebbero essere spiritose e che non lo sono. Certi papi non sono adatti a fare dell'umorismo, come lo era Giovanni XXIII. Però la sua anima è pulita». Finale. Allegro ma non troppo: «Quando sono depresso passo da Firenze a rimirare la cupola del Brunelleschi. Ecco: se c'è un sogno che non ho realizzato è quello di un film sulla sua costruzione, che narrasse di quello che accadeva in una città a marmi bianchi e neri, con il Ghiberti che creava la Porta del Paradiso, il campanile di Giotto, le Cappelle medicee». Ovvero il film "I fiorentini", il cui progetto tuttora giace nel cassetto. Ma mai porre un limite alla Provvidenza.

Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per Il Fatto Quotidiano il 23 febbraio 2015. Sculture, quadri e lacrime: “Non sono un dio, ma un uomo semplice. Piangere è una consolazione. Un conforto. Una debolezza umana. Un impulso primitivo. Come fai a fermare un impulso primitivo?”. Oltre la finestra, più in là del giardino della sua Villa a sud di Roma, le domande di Franco Zeffirelli guardano al dolce domani. “Alla morte penso in continuazione, forse perché ho visto morire troppa gente. L’idea di non essere più qui è terribile, ma sono cristiano, venero il Vangelo e non posso che credere a quel che Cristo ha detto sulla vita eterna. Se vengo colto da improvvisi dubbi, li tacito con la fede. Non è in fondo, sempre e soltanto tutta una questione di fiducia?”. A Febbraio, Gianfranco Corsi in arte Zeffirelli ha compiuto 92 anni. Su una sedia, alternando sorrisi e cupezze, l’uomo che chiamano “maestro” osserva gli interlocutori occasionali con l’occhio azzurro e il guizzo curioso del professore che non si è stancato di discutere: “Mi sono incazzato spesso e spessissimo ho fatto incazzare gli altri. A volte, quando sono caduto in errore, mi è capitato persino di chiedere scusa. Se conosci la storia del mondo e della cultura, tentare di farsi perdonare non rappresenta un peso”. Alle pareti e sul pianoforte, le istantanee di un’esistenza intera. Fotografie di Benedetto XVI, Madre Teresa di Calcutta, Laurence Olivier, Silvio Berlusconi. Le stagioni si sono succedute una dopo l’altra, ma l’inverno del 2015 non coincide con quello del suo scontento. Dopo molti equivoci e qualche improvvisa frenata, Firenze sembra finalmente incline a concedere al più polemico tra i suoi registi un museo. Il vecchio tribunale: “L’unico monumento barocco della città”, a due passi da Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria, come scrigno per contenere le sue opere, i frammenti dell’esistenza, le schegge del passato, le regie liriche e teatrali, le memorie dei suoi tanti film, le molteplici candidature agli Oscar: “Dovreste vedere quel che ho accumulato. Questo museo è un miracolo divino. Nel vecchio tribunale andai a vedere un concertino molti anni fa e mi resi subito conto di che meraviglia fosse. "Sarebbe un sogno portarci le mie opere" pensai. Ora quell’aspirazione si avvera. Non credo ai miei occhi e trattengo il fiato. Di futura inaugurazione non voglio neanche parlar troppo”.

Perché signor Zeffirelli?

«Per scaramanzia e realismo. Se i comunisti andassero al potere lo chiuderebbero subito il mio museo»

Ma i comunisti sono quasi estinti.

Non credo proprio. Esistono, esistono. E sono sempre della stessa pasta di un tempo».

Non le sono mai stati simpatici.

«Li ho visti in azione, fin da ragazzo. Sono stato partigiano e dai comunisti, in montagna, sono stato quasi ammazzato. Ho visto cose atroci durante la guerra. Corpi inermi, facce bianche per la paura, pastorelli, monache smarrite, gente ignara della storia che mi moriva tra le braccia affidandomi gli ultimi pensieri, i rimpianti e le cose non dette. Cose tragiche e bellissime».

L’esperienza della guerra la segnò?

«Mi aiutò ad aprire ulteriormente gli occhi sul mondo. Del male e del bene avevo già un’opinione precisa, ma la guerra stravolse le percezioni. Un’enorme punizione a cielo aperto. Una sorta di Giudizio Universale. Un nugolo di innocenti mandati al macello in contesti anche geograficamente molto severi. Cosa avevano fatto di male?»

Lei era molto giovane.

«E assistevo, appena maggiorenne, alla dissoluzione degli ideali con i quali eravamo cresciuti. Cadevano tutti insieme e insieme a loro, veniva giù anche il sipario. Le parate, le amenità inutili, l’autarchia grottesca. Mio zio era socialista e a casa, fascisti intorno non ne avevo. Mio padre importava lana scozzese e si era messo in testa che dovessi imparare l’inglese per dargli una mano e forse, un giorno lontano, succedergli. Frequentavo gli inglesi, li incontravo al Caffè Doney e il dato generava sospetto tra i miei coetanei: “Vinceranno loro, il ragazzo si prepara un comodo futuro”».

Erano gli anni delle adunate. L’epoca della perfida, merdosa Albione.

«Con gli inglesi in effetti collaborai poi attivamente. Ma all’epoca, ben prima che lo scenario bellico precipitasse, anche il solo parlarci, in un certo senso, per molti significava tradire alla base i valori del fascismo».

Per lei erano valori fondanti?

«I fascisti erano dei poveretti. Poveri sognatori che si illuminavano di prepotenze, piccineria e voce grossa nelle adunate. A Firenze si scendeva spesso in piazza. Noi ragazzi storpiavamo le canzoni del ventennio. Ci divertivamo, ribaldi, a reinterpretare i motivetti. Sulle arie di “Giovinezza, giovinezza”, improvvisavamo: “Giovinetta, giovinetta, cazzo largo e fica stretta”».

Ma i fascisti, diceva, erano poveretti.

«Gente che una volta messa al muro dagli alleati, si rivelava vulnerabile. Il fascista, come tutti gli altri uomini, era solo un involucro pronto ad afflosciarsi. Un essere tremante di fronte al plotone di esecuzione. Padri e figli, impauriti. Bianchi come cenci. Ho visto tanto dolore. Tanto orrore. Un tempo brutto la guerra. Ma brutto, brutto, brutto».

Come aveva imparato l’inglese?

«Grazie a Miss Mary O’Neill. La incontravo in una stanza modesta del centro, sempre alla stessa ora, tre volte alla settimana. Miss O’Neill non era l’imperatrice di un popolo oppressore, ma una donna semplice e soave che mi forniva i rudimenti della lingua di Shakespeare, amava l’Italia e guardava al nostro paese con occhio benevolo e paziente: “Che peccato” diceva “siete cascati nell’inganno di Mussolini, una trappola che non meritavate”».

A un certo punto il Fascismo crollò.

«E dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti e qualche comparsata, io incontrai Visconti. Di Luchino ero innamorato alla greca. Un amore viscerale e profondo. Mi impregnavo della sua grandezza e della sua superbia e in cambio, lui mi offriva affetto. Era colto, altero, rabbioso, complesso. Mi affidò la scenografia di Un Tram chiamato desiderio, trascorremmo insieme anni meravigliosi. Tra noi c’era una comunicazione profonda».

Poi l’affetto svanì.

«L’avevo conosciuto al tempo del suo autoesilio in Francia. Io uscivo dal guscio antifascista e lui era chiaramente antifascista».

Chiaramente comunista soprattutto.

«Amavo Visconti, ma detestavo i comunisti. A dire il vero li detestava anche lui, ma non poteva dirlo. Quando il conflitto ideologico si acuì, iniziò a incrinarsi anche l’amicizia».

La vulgata racconta che il litigio tra voi deflagrò per un’inopinata convocazione in commissariato.

«Ci fu un furto in casa Visconti e Luchino fece chiamare tutti a deporre di fronte alle forze di Pubblica Sicurezza. La servitù, i parenti stretti, gli amici cari. Mi offesi molto. Luchino di certe mattane era capace. Una volta fece licenziare un domestico perché a suo dire si era dimenticato di lisciare a dovere i felini di casa. Le contraddizioni, anche interiori, per Visconti erano all’ordine del giorno. “Vedrete quando sarete più in là con la storia del mondo”, giurava, “se Marx aveva o meno ragione”».

Inutile dire che per lei Marx aveva torto.

«Respiravo conformismo, l’universo artistico, a iniziare dai cineasti e dagli scrittori, propagava un unico verbo. Non si poteva dire che non si era comunisti. La cultura era uno strumento di penetrazione delle coscienze e il Pci se ne era impossessato. Bisognava pensare a sinistra per forza e io non volevo pensare né a sinistra né a destra. Guardavo agli ideali della Roma antica o agli insegnamenti del Rinascimento».

I rapporti con i suoi colleghi com’erano?

«Per lo più civili. Certo, il cinema a tesi di certi registi mi irritava e se andavo a vedere un’opera di Petri, raramente mi illuminavo. Sono stato sempre in perfetta armonia con i miei pensieri segreti e non di rado, in certe riunioni plenarie con i comunisti, mi sono trattenuto dall’esprimere il disgusto. “Come può arrivare a un simile punto di merda il cervello umano?” mi domandavo».

E cosa si rispondeva?

«Che tenere famiglia era un gran problema. Di sicuro i compagni della macchina da presa la fecero pagar cara a tanti talenti che ebbero l’ardire di non schierarsi. In un certo senso, per paradosso, l’anatema del partito era uno dei massimi crucci di Visconti. Si era dovuto schierare in casa propria e soffriva per l’ostracismo degli americani. Gli inglesi se ne fregavano dell’orientamento politico. Erano laici: “If you want to be communist, be communist”. Gli americani, no. Gli americani erano inclementi».

Lei ha conosciuto anche Pasolini.

«Era innamorato di un mio amico e gli faceva passare le pene dell’inferno perché quel cretino aveva abboccato alla sua filosofia. Facevano cose turche».

A quale filosofia aveva abboccato il suo amico?

«Una filosofia primaria. La sintesi? “Faccio i cazzi miei”».

Letterariamente e cinematograficamente Pasolini la convinceva? 

«Non mi piacevano né i suoi film, né i suoi libri. Erano una riproposizione fuori tempo massimo del Neorealismo, cioè di qualcosa inventato negli ultimi anni del Fascismo».

La parabola di Pasolini ebbe un epilogo bestiale.

«Nel privato si diceva “Ben gli sta morire in quel modo”. Da un lato, per indole e ascendenza, Pasolini familiarizzava con i giovani conservatori più borghesi. Ma quando la storia diventava una noiosa questione di letto, fuggiva. Cercava altro. Il maschio ferino. Il maschio popolaresco».

Lei ha detto più volte di provare irritazione per la parola gay.

«L’idea che all’omosessualità corrisponda una gioia forzata, da arcobaleno obbligato e da circo permanente non mi ha mai persuaso. Non mi sentivo di appartenere a nessun movimento e sessualmente, ho sempre fatto le cose che preferivo. Non senza costi. Non senza prezzi da pagare. Andavo un po’ di qua e un po’ di là. Visconti mi capiva, ma a volte si incazzava. Una volta presi una piccola sbandata per la figlia di una principessa e Luchino si irritò: “Non la devi vedere mai più, ma lo sai da che famiglia viene? Da una famiglia di assassini”».

È contento dei film che ha girato?

«Sono contento di non aver mai scelto un progetto per ragioni alimentari. Ho sempre cercato di conservare un punto di vista originale, ma non c’è un film a cui mi senta più legato. Sono tutti figli miei.

Il primo, Camping, è datato 1957.

«Quello era un’escursione innocente. Un divertimento inoffensivo».

Che ricordo ha della sua amicizia con Maria Callas?

«Artista straordinaria e donna sublime. La conobbi a Dallas, ai tempi de La Traviata. Diventammo come fratelli. Maria era greca. Tragica. Assolutista. Un giorno, un certo luogo era il posto migliore del mondo e quello dopo, l’inferno. Il suo grande problema era la figura paterna. Le era mancata e lei andava cercandola ovunque. In vecchi orrendi come Onassis, nei capitalisti senz’anima, in uomini barbuti, gonfi, caduchi. “Che peccato che non ti piacciano le donne” mi diceva e io di rimando “Stai tranquilla, non è che non mi piaci, ma non farei mai l’amore con una mia amica”. Cremarla e spargere le sue ceneri nell’Egeo fu terribile. Diede profonda soddisfazione a tutti quelli, ed erano tanti, che l’avevano odiata. Per anni in Grecia non ho più messo piede».

Le piace il cinema italiano di oggi?

«Quale cinema? Non c’è più. Non esiste. Qualche punta d’eccellenza, penso a Bertolucci ad esempio , l’abbiamo avuta. Oggi ci restano i ricordi. E i ricordi non bastano ad accorrere in sala».

Per anni lei è andato allo stadio. Tifoso della Fiorentina. Antijuventino per scelta e convinzione.

«A calcio ho anche giocato, da mezzala, nella Giovanni Berta. Occuparsi di calcio è un trucco per rimanere giovani. A comportarsi in maniera puerile, a urlare come pazzi per i propri colori, a dipanare i propri riti non si invecchia mai. Il pallone, è vero, accende gli animi. Qualche volta si trascende e altre, si diventa animali. Ma c’è qualcosa di straordinario anche nella rappresentazione, non solo figurata, di un sentimento di guerra. Ognuno ha i suoi mostri».

Anche lei, Zeffirelli?

«Non faccio eccezione. Pensate che per la Fiorentina sono anche andato in coma. Era l’anno dello scudetto, ero sulla macchina di Gina Lollobrigida e stavamo andando a vedere la partita con il Cagliari. Lei guidava come una matta e avemmo un incidente. Stetti a letto per mesi. Appena mi rimisi in piedi corsi di nuovo allo stadio, appena in tempo per festeggiare il titolo. Oggi quell’ardore da monello incontinente è svanito».

Della Valle, il patron attuale della Fiorentina, le piace?

«Lo conosco poco, ma lo dovrei conoscere meglio. Ho bisogno dei suoi soldi. (Ride)».

Quante volte si è innamorato nella vita?

«Non le conto, ma bisognerebbe intendersi sulla parola amore. Dalla a alla z, poche volte. Ma dalla a alla c, moltissime. Specialmente con il calcio».

Da almeno un trentennio, del calcio si sono innamorati anche i produttori cinematografici.

«Vittorio Cecchi Gori, paonazzo sulla balaustra dell’Artemio Franchi, mi pare ancora di vederlo. Mario, suo padre, voleva prendere tutte le decisioni. Ma non è vero che Vittorio non avesse personalità né idee. Diciamo che senza fare qualche guaio i soldi non si fanno. Honorè de Balzac sosteneva che dietro ogni grande fortuna ci fosse un crimine. Per una bocca da riempire ne esiste sempre una da svuotare».

Lei è stato senatore di Forza Italia. La appassiona ancora la politica?

«Poco o nulla. Covo speranze nell’umanità, non nella politica».

Disse che in altri paesi Craxi sarebbe stato impiccato e che la faccia di D’Alema le provocava seri sommovimenti gastrici.

«Confermo. Lo so dove volete arrivare, volete arrivare a Berlusconi».

Siete ancora in buoni rapporti?

«Siamo amici, adesso più di ieri. La grande differenza tra Berlusconi e tutti gli altri è che lui ha costruito una straordinaria carriera finanziaria e in politica si è mosso più con la forza dei soldi che con i principi morali. Principi morali non ne vedo tanti, specialmente con le donne».

Glielo ha detto?

«Ne abbiamo discusso. Ultimamente mi ha fatto avere una sua biografia scritta da un americano: “Franco, gli puoi dare un’occhiata? Io non ho tempo”. “Presidente” gli ho detto “Io purtroppo ne ho meno di lei”».

E del suo concittadino Renzi? Qualcuno lo ha paragonato a Berlusconi.

«Paragone improprio. Non credo sia possibile diventare il nuovo Berlusconi e non solo per ragioni economiche».

A Papa Francesco lei ha dedicato un libro.

«Non c’è stato nessun segnale, forse non l’ha gradito. Francesco è cambiato, non mi piace più. Si è messo a fare l’uomo qualunque e un Papa, uomo qualunque non può essere».

La vedremo ancora a dirigere un film?

«Avrei i cassetti pieni di sceneggiature, un progetto sui Medici, uno sui grandi fiorentini, ma non accadrà mai più. Non ho più l’energia per bruciare i traguardi della vita. Non ho più la fiamma e non ho voglia di fare la questua. Non l’ho mai fatta, non inizio certo adesso».

Monicelli girò il suo ultimo film, “Le rose nel deserto”, a quasi 92 anni.

«Mario era un bravo regista ed un buon uomo, ma dite la verità, era forse straordinario l’ultimo capitolo della sua cinematografia? Lasciare a tempo debito è un’arte. Non voglio sporcare nulla. Non voglio chiedere. I prati che ho calpestato voglio ricordarmeli tutti in fiore».

Tabloit.it ripreso da Dagospia l'11 gennaio 2018. Una nuova, pesantissima, tegola si è abbattuta sul cinema italiano. La scottante esclusiva è stata lanciata dal sito americano People, che ha pubblicato le dichiarazioni di Johnathon Schaech, attore americano oggi 48enne protagonista nel 1993 di “Storia di una capinera” di Franco Zeffirelli. Schaech afferma di essere stato molestato sessualmente dal regista durante le riprese del film, un trauma che l’attore avrebbe tenuto segreto per 25 anni. Immediata è arrivata la replica del figlio adottivo di Zeffirelli, Pippo. “Sono accuse false che non possono essere dimostrate”. Franco Zeffirelli, oggi 94 anni, è uno dei registi italiani più famosi al mondo. Si è sempre dichiarato omosessuale e negli anni Cinquanta ha avuto una lunga storia con il regista Luchino Visconti. Vi riportiamo l’articolo-confessione scritto da Johnathon Schaech per “People”. L’attore, protagonista di decine di film e serie tv, aveva 22 anni quando il celebre regista Franco Zeffirelli lo scelse come protagonista di “Storia di una capinera”. Era il 1992 e per Schaech si trattava della prima, grande esperienza cinematografica. “Dopo più di sei audizioni mi portarono a Cinecittà e mi dissero che il ruolo era mio. Franco mi ripeteva che ero bello e meraviglioso, mi raccontava storie incredibili e quello che dovevo fare per essere un vero artista. All’epoca lui aveva settant’anni, io ne avevo 22 anni e pensavo di sapere esattamente chi fossi. Ma in realtà non sapevo nulla”. “Quando Franco portò me e gli altri attori a Roma, ci condusse in posti in cui nessuno poteva andare. Siamo stati nei luoghi più incredibili d’Italia e io mi sono sentito davvero fortunato, in quel momento. Però quando Franco beveva diventava molto aggressivo e violento. Non solo con me, ma anche con alcune attrici”. “Quasi ogni giorno Franco mi diceva: ‘Ho bisogno di stare con te‘. Spesso a tarda notte veniva a bussare alla porta della mia camera, ma io non aprivo mai. Lui però insisteva. Io non avevo un agente, nessuno con cui parlare o che potesse proteggermi. Franco stava diventando sempre più aggressivo, era arrivato al punto di criticarmi per qualsiasi cosa facessi. Non gli andava bene nulla”. “Poi una notte ci trovavamo in un hotel in Sicilia e Franco mi disse che sarebbe venuto nella mia stanza. Questa volta era riuscito ad avere una chiave. Io stavo dormendo, lui è entrato e si è sdraiato accanto a me. Mi ha preso il viso tra le mani, io ho detto "no" ma lui mi ha risposto "dobbiamo". Sai, quando diventi preda di qualcuno ti assale il panico. È quello che mi è successo con Franco. Ha oltrepassato il confine e io mi sono sentito come se avessi abbandonato il mio corpo. Mi ha molestato nel mio letto. Ha messo le mani in posti in cui non potevo immaginare avrebbe mai messo le mani e ha fatto cose di cui non sono orgoglioso. Ma non è colpa mia. Ha tentato di farmi sesso orale. Io non ho fatto niente. Sono rimasto disteso sul letto. Non ho pensato di doverlo fare per la mia carriera, ma credevo invece che fosse una sorta di rito di passaggio, come se fossi obbligato. Ero vulnerabile. Non ho urlato. Non l’ho fermato e mi ci sono voluti 25 anni per capire come mai non ci sono riuscito. È come se io mi trovassi altrove in quel momento, come se avessi abbandonato il mio corpo. Quando Franco capì che non avrebbe ottenuto da me ciò che desiderava, se ne andò. Non ha mai più provato a toccarmi”. “Quell’esperienza mi ha distrutto. Non sapevo perché fosse successo. Ho seppellito questa storia per oltre 20 anni. Mi ha causato problemi di alcol e droghe, dipendenze sessuali. Quell’esperienza mi ha lasciato confuso per molto tempo. Mi vergognavo e la mia autostima si è completamente azzerata. Che ne parli o no, resterà ancora dentro di me. Ma seppellire dentro noi stessi gli abusi causa malattie. Sono stato molestato, toccato, maltrattato verbalmente”. “Quando Rose McGowan, con cui ho recitato nel film “Doom Generation”, ha raccontato al mondo la sua esperienza con Harvey Weinstein, le ho rivelato quello che mi era successo e lei è stata grande. Ciò che mi ha cambiato davvero è stato l’incontro con mia moglie Julie Solomon. Avevo tanto bisogno di amore, ma non ero in grado di stare con qualcuno abbastanza a lungo da costruire una famiglia. Le ho raccontato delle molestie che ho subito e lei mi ha dato il coraggio di parlarne”. “La cosa più importante che posso fare adesso è aiutare qualcun altro in modo che quello che è successo a me non accada mai più. Dentro gli uomini c’è un male profondo che dobbiamo affrontare e far loro sapere che non va bene”. “Non va bene se un produttore usa il suo potere per approfittare di un’attrice. Non è giusto togliere l’innocenza a un bambino, a un ragazzo. Non mi importa se ha 22 anni, o 12, se è un uomo o una donna, non va bene portare via l’innocenza solo perché hai il potere di farlo. Ecco perché volevo parlarne. Voglio che le generazioni future sappiano che non sono soli”. People ha naturalmente contattato il figlio adottivo di Zeffirelli, Pippo, che ha commentato: “È stato affermato che 25 anni fa un attore, che era poco più che ventenne, è stato vittima di presunti abusi verbali e presunti tentativi di abusi sessuali da parte di mio padre. Ha dichiarato inoltre che mio padre era spesso ubriaco sul set. Il signor Zeffirelli e tutta la nostra famiglia vivevano in una villa all’epoca, mentre attori, produzione e personale stavano in un albergo a Catania; tutte queste accuse quindi non sono credibili. All’epoca Johnathon soffriva di un tipo di ostruzione alla gola che gli rendeva difficile parlare. I registi hanno stili diversi e qualche volta potrebbero essere molto più esigenti con attori inesperti. Mio padre è in cattive condizioni di salute e non è in grado di comprendere questo attacco e di rispondere alle accuse formulate da Schaech. Questo è un attacco a un grande regista, un artista e un uomo alla fine della sua vita che non è in grado, né sarà in futuro, di rispondere. Questo sarà un incredibile danno alla sua immagine e alla sua reputazione sulla base di accuse che non sono credibili e che non possono essere dimostrate“.

Lo "Shakespearelli" fiorentino. Nelle opere messe in scena in tutto il mondo dimostrò passione e tecnica unica. Giovanni Gavazzeni, Domenica 16/06/2019, su Il Giornale. Nella personalità di Franco Zeffirelli - regista e scenografo fra i più importanti del '900 non solo italiano - ha contato molto il luogo di nascita: Firenze. Il contatto vivo con i capolavori dell'arte che in ogni luogo della città granducale si offrivano al giovane studente dell'Accademia di Belle Arti, furono sicuro sprone per iniziare la «professione» di artista con quella completezza tecnica e quella ricchezza umana che era tipica dei fiorentini. La curiosità indomita, lo spirito salace, l'indole battagliera, il gusto per la battuta da bastian contrario, la provocazione beffarda, la scelta anticonformista di seguire politicamente un democristiano sui generis come La Pira, potevano trovarsi solo in un artista nato Firenze. Non a caso per tanti anni Zeffirelli avrebbe desiderato realizzare un film che trattasse dello straordinario periodo in cui Michelangelo e Leonardo da Vinci lavorarono gomito a gomito per la Signoria, massima espressione del genio dei «Fiorentini» (come avrebbe dovuto essere il titolo di quel progetto rimasto nel limbo). A Firenze Zeffirelli ebbe maestri che svilupparono il suo talento onnivoro, capace in breve di disegnare tutto quanto era necessario per lo spettacolo, fosse la prosa, il cinema o l'opera. Molti sedicenti registi delle varie nouvelles vagues non sanno nemmeno tenere in mano una matita; Zeffirelli al contrario ha disegnato tutto: costumi, attrezzi, scene, inquadrature. Un altro fattore decisivo per il giovane Franco fu l'incontro con Luchino Visconti, per il quale disegnò e realizzò un'intera città medioevale nel Giardino di Boboli, dovendo il famoso regista milanese allestire il Troilo e Cressida di Shakespeare per il Maggio Musicale Fiorentino. Un lavoro che valeva un viatico, perché Shakespeare è sempre stato uno degli autori preferiti non solo a teatro e al cinema, ma anche nel melodramma. Per questa passione shakespeariana gli inglesi lo battezzarono simpaticamente «Shakespearelli». Sempre con la guida di Visconti, Zeffirelli entrò nel mondo dell'opera da protagonista, seguendo il fenomeno Maria Callas, con la quale avrà modo di lavorare non solo nelle ultime importanti produzioni della Diva greca (Norma e Tosca). Approdato a Milano, dopo i successi al Massimo di Palermo e al Carlo Fecice di Genova, Zeffirelli divenne il Re della Piccola Scala, firmando una serie di splendidi spettacoli per opere poco note del '700 italiano, per poi passare alla Grande Scala sotto il segno di Rossini (per il famoso Turco in Italia, che rivelò grandi doti nella Callas alle prese con un ruolo drammatico, ma con una parte comico-giocosa). Un altro Mentore fondamentale fu il maestro Tullio Serafin, patriarca del melodramma, che lo impose e lo sostenne anche nel suo esordio internazionale al Covent Garden di Londra (per Lucia di Lammermoor, dove nasceva una nuova stella, Joan Sutherland). Da Serafin imparò anche i fondamentali della regia d'opera, come, per esempio, l'attenzione sempre rivolta ai protagonisti, che non devono mai essere inglobati nella folla anonima, ma si devono subito vedere all'apertura di sipario. Zeffirelli ha lavorato nei teatri più importanti del mondo, stabilendo però un record personale con le sue produzioni di Falstaff, Otello, Aida, Bohème, Carmen al Metropolitan di New York, dove sono state replicate a centinaia, senza interruzioni, per decenni, e sempre con immutabile successo di pubblico. Poi il suo sodalizio si estese alle nostre case d'opera: al Teatro dell'Opera di Roma, alla Scala e all'Arena di Verona, dove realizzò una meravigliosa edizione di Madama Butterfly e una spettacolare produzione del Trovatore. Quest'ultima fu una delle ultime opere di Verdi che affrontò, forse perché legata alla sua autobiografia. Come il Conte di Luna scopre solo dopo averlo ucciso che Manrico è suo fratello, così Franco Corsi (questo il suo nome vero) fu salvato dalle torture da un repubblichino che scoprì solo dopo che fu ucciso trattarsi di un fratellastro. Come regista d'opera Zeffirelli ha portato il gusto e la cura dei particolari ereditati dalla scuola di Visconti e la grande abilità nel muovere le masse (una delle cose più difficili in teatro). È più facile dire con chi non ha lavorato Zeffirelli, altrimenti è come scorrere l'almanacco di Gotha delle sue collaborazioni. Limitandoci solo ai direttori d'orchestra possono bastare, dopo Serafin, i nomi di Leonard Bernstein (Falstaff e Cavalleria rusticana), Herbert von Karajan (Bohème e Traviata), Gianandrea Gavazzeni (Turco in Italia, Mignon, Aida e Ballo in maschera), James Levine e Carlos Kleiber (Otello, Carmen e Bohème). Speriamo che il suo lavoro e il suo archivio divengano in un futuro prossimo terreno fertile per le nuove generazioni, che prima di far tabula rasa - come ogni avanguardia - dovrebbero avere ameno qualcun, se non tutti, i requisiti tecnici di quello straordinario artista che è stato Zeffirelli.

ZEFFIRELLI O “SCESPIRELLI”? Emilia Costantini per corriere.it il 6 aprile 2019. «Ho paura di morire. Sono credente e prego molto, ma quando in giardino mi guardo intorno, dico ai miei figli: pensate, prima o poi non potrò più godere di questa meraviglia, non vedrò più questa bellezza». Franco Zeffirelli, che firma un nuovo allestimento della Traviata (dal 21 giugno all’Arena di Verona) è sofferente nel corpo, ma sereno nell’animo e accoglie con gioia il premio che la presidente Casellati gli consegna oggi in Senato, nell’ambito del ciclo di eventi Senato&Cultura, «per aver saputo creare e trasporre mirabilmente sui palcoscenici più importanti del mondo e sul grande schermo le atmosfere, lo spirito e le emozioni del teatro e dell’opera lirica, rappresentando l’idea autentica della bellezza, contribuendo a diffondere il genio e l’eccellenza italiana nel mondo». 

Che effetto le fa?

«I premi sono un riconoscimento all’impegno di tutta una vita di lavoro, non possono che far piacere. Nel mio percorso ho avuto la fortuna di incontrare straordinari artisti, che mi hanno sostenuto nella creatività».

Tra i tanti personaggi, il ricordo più divertito? 

«È quello di Anna Magnani e Maria Callas: due Divine con caratteri difficili. Anna aveva voglia di vedermi e sarebbe venuta da me a cena, purché le garantissi che saremmo stati soli, per poter parlare tranquillamente. Glielo promisi, però poco dopo mi telefona Maria, bisognosa di consigli, quindi la invitai a cena. Solo dopo aver riattaccato il telefono mi ricordai di aver fatto la stessa proposta ad Anna. Presagivo una serata d’inferno: io, solo, con due primedonne che non sapevano della presenza l’una dell’altra».

Come andò a finire? 

«Arrivò per prima la Magnani, di pessimo umore, e quando l’avvisai che ci avrebbe raggiunto la Callas, andò su tutte le furie. Suona il campanello, vado a ricevere la cantante che, al contrario, accolse con piacere la notizia di condividere la cena con l’attrice, esclamando entusiasta come una ragazzina: “Grazie! Lei Anna è una grande artista, io solo una poveretta che cerca di fare il suo meglio”».

E l’Anna furiosa? 

«Si placò in un attimo, colta in contropiede dalla dichiarazione entusiastica. Cominciò un amabile minuetto tra le due tigri, facevano a gara per apparire la più modesta. Ma c’era un altro da problema da risolvere, il posto a tavola: chi delle due avrebbe dovuto sedersi alla mia destra? Aspettai che Anna andasse a incipriarsi il naso e dissi a Maria: “Senti cara, l’attrice che ammiri è più anziana di te, dovrò mettere lei alla mia destra”. “Devi!”, replicò convinta».

Figuriamoci se Magnani avesse sospettato questo retroscena.

«Per carità! Sentirsi definire la più anziana, una catastrofe. La serata proseguì benissimo: loro due chiacchieravano fitto, ignorandomi e non permettendomi nemmeno di intervenire. Mi arresi: avevo il privilegio di assistere all’incontro fra due tigri di razza, d’amore e d’accordo».

Zeffirelli o Zeffiretti, come avrebbe dovuto chiamarsi se l’impiegato dell’anagrafe non avesse commesso uno sbaglio di trascrizione? 

«Sarebbe stato più adatto alla mia carriera Zeffiretti, dalla celebre aria mozartiana, cognome scelto da mia madre, preveggente, che amava Mozart. Ma Zeffirelli mi ha portato fortuna».

Ennio Flaiano, stroncando i suoi spettacoli, la ribattezzò Scespirelli. Perché ce l’aveva tanto con lei? 

«Non ricordo le sue stroncature, so solo che poi diventammo molto amici. Tutto ciò che ho fatto, stroncature o no, è il risultato di scelte personali. Io stesso ho criticato liberamente tutto e tutti, manifestando le mie idee e, a volte, pagandone le conseguenze».

Per esempio?

«Mi è mancato l’appoggio della critica italiana, che non mi ha mai sostenuto. Anche oggi non vengo mai nominato, in Italia è come se non fossi esistito».

Gli anni che passano sono un peso che si aggiunge alla fatica di vivere? 

«La vecchiaia è un grosso fardello, ma cerco ancora di sfornare idee da realizzare nel mio, molto imminente, futuro e ciò mi tiene occupato mentalmente. Gli unici rimpianti che ho sono due progetti rimasti nel cassetto: un film sull’Inferno di Dante, difficile da realizzare perché pieno di effetti speciali economicamente insostenibili, e un grande affresco sulla vita e le opere dei Medici: la bellezza, appunto, di cui un giorno non potrò più godere».

L’omaggio della tv a Zeffirelli, «illustratore e narratore». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 su Corriere.it. La tv ha reso omaggio a Franco Zeffirelli, ieri e soprattutto sabato 15 giugno: Rai1 ha trasmesso il film «La traviata», Sky Cinema «Giulietta e Romeo», Rai5 la «Carmen» di Bizet e Classica Hd «La bohème» di Puccini (in scena alla Scala nel 1965). Non c’è alcun dubbio: le regie delle opere liriche sono molto meglio dei suoi film. Per una ragione molto semplice: a teatro vince la convenzione e Zeffirelli era un regista sapientemente convenzionale, legato alla tradizione, baciato da una serie interminabile di successi teatrali cui sapeva regalare lo sfarzo dei costumi, la sapienza delle scenografie, il talento della messa in scena. Ha ragione Vittorio Sgarbi quando sostiene che Zeffirelli era «un artista che ha interpretato il suo compito d’illustratore e narratore al centro e con l’orgoglio della grande tradizione italiana, felice di esserne epigono piuttosto che velleitario innovatore». Il linguaggio del cinema gli era sostanzialmente estraneo. Se penso a film come «Giulietta e Romeo», «Fratello sole sorella luna», «Gesù di Nazareth», «Amore senza fine», «Amleto», «Il giovane Toscanini» rivedo opere patinate, persino mielose, delicate, persino troppo. Zeffirelli ha saputo digrossare nientemeno che la carica eversiva di molte pagine del Vangelo, ha ingentilito Gesù come un testimonial di uno spot contro la violenza. I suoi film non piacevano alla critica, così diceva, perché era colpa dell’egemonia culturale della sinistra. Che molti di quei critici fossero ideologici, sensibili alle direttive di partito, ottusi al punto di credere che Luchino Visconti fosse un compagno, è vero. Tuttavia… L’opera più bella di Zeffirelli resta la sua casa di Positano, «Villa Tre Ville» (ora hotel di charme). Era ritrovo di intellettuali e artisti internazionali, tra cui danzatori, musicisti, pittori e attori, da Liz Taylor a Maria Callas. Sui film si può dibattere, sul fatto che Zeffirelli sapesse vivere non c’è discussione: il suo buen retiro è un capolavoro.

Quando il suo "Gesù" fu escluso dalla "Vatican's list". Nel 1995 gli «Oscar della Chiesa» lo ignorarono. E la sua ira fu terribile... Ecco il racconto di chi c'era. Claudio Siniscalchi, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Nel 1995 il cinema festeggia il centenario. Il Vaticano per l'occasione stila una lista dei 45 film più importanti realizzati da quando i fratelli Lumière hanno presentato a Parigi la loro invenzione. La lista si divide in tre categorie: religione, valori, arte. A scegliere i film è stata l'autorevole Pontificia commissione delle comunicazioni sociali, presieduta da un possente vescovo americano: John Patrick Foley. Ha fornito il contributo anche la Filmoteca vaticana, retta da un monsignore spagnolo piccolo quanto flemmatico: Enrique Planas. La «Vatican's list» suscita grande interesse. Gli americani parlano di Oscar della chiesa. Una trovata geniale. L'entusiasmo cresce di intensità, sin quando non arriva la voce tonante di Franco Zeffirelli. È uno scandalo. Si sono dimenticati del suo Gesù di Nazareth (1977). Nei quindici film di argomento religioso figurano Francesco (1989) di Liliana Cavani, Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini e Francesco giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini. Gli organismi vaticani provano a mettere una pezza che è peggio del buco: il film non è stato inserito essendo un prodotto televisivo. Il Maestro trasecola, attacca a testa bassa, come suo solito. Mi chiese un intervento riparatore sulla cattolica Rivista del cinematografo. Non solo non lo feci non lo potevo fare, trattandosi indirettamente di una testata vaticana ma peggiorai la situazione. Intervenni ad una presentazione della lista al Centro culturale francese di Roma. Zeffirelli era nell'indirizzario degli organizzatori. Le porte del cielo si aprirono su di me: un diluvio di contumelie, che non risparmiarono neppure la mia fede calcistica: «balordo laziale!». Zeffirelli mi intimoriva. Lo stimavo non solo per le opere, ma per il coraggio intellettuale. Aveva letto un mio libro sulla New Age, e volendo realizzare un film sull'argomento ne discutemmo varie volte. Non ne sapeva molto, ma era attratto dalla nuova moda che si era impossessata degli occidentali nel mescolare Cristo e Zoroastro, gli angeli e gli sciamani. Ero convinto e lo sono ancora più oggi di ieri che inserire Il pranzo di Babette (1987) di Gabriel Axel e Nazarin (1958) di Luis Buñuel, dimenticando Gesù di Nazareth, fosse una provocazione e una mancanza di rispetto. Un errore gravissimo. Zeffirelli era convinto che lo avessero fatto apposta, per punirlo della sua superbia. Si sentiva un «artista-principe della Chiesa», discendente diretto di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, più attrezzato e ascoltato di cardinali, vescovi e preti. Su questo non ci piove. Ma era un combattente generoso, impavido nel dichiararsi credente in un mondo il cinema che rifugge la religione cattolica come la peste. Gli dissi che non mi convinceva la tesi del complotto. Più danni dei cattivi li fanno gli sprovveduti. Però aveva ragione: le gerarchie vaticane preposte alla valutazione dell'arte cinematografica gli avevano preferito Pasolini. Lo avevano fatto scientemente. Zeffirelli era troppo popolare. La storia gli ha dato ragione. Se ho tentennato gli chiedo scusa. Avremmo dovuto difenderlo. Lo abbiamo fatto poco e male. Ma ci voleva bene e ci perdonerà. Anzi, ci ha già perdonato.

Marco Giusti per Dagospia il 16 giugno 2019. C’era un tempo che il Gesù di Franco Zeffirelli faceva testo come e più dei Vangeli. C’è perfino un divertente sketch di Signori e signore, buona notte, credo diretto da Mario Monicelli, che di fronte a un discutibile discorso su Gesù di un Vittorio Gassman vescovo fuori dalle righe, un burino zitta tutti con un perentorio. “L’ha detto, l’ha detto, nun hai visto er Gesù de Zeffirelli!”. Ecco. Diciamo che dal Gesù de Zeffirelli in poi, e non a caso salverei Romeo e Giulietta e La bisbetica domata e perfino Fratello sole, sorella luna, che mi erano piaciuti, almeno per i ragazzacci della critica più oltranzista, ma anche per la gran massa di cinematografari romani del tempo e de sinistra, il cinema di Franco Zeffirelli non è che sia stato molto amato. Anzi. Si sprecarono i fischi di fronte a un assurdo Il giovane Toscanini presentato incautamente a Venezia e giustamente celebrato come il mega-cult-trash di Zeffirelli. In una scena Liz Taylor, già matura diciamo, impazzisce d’amore per il giovane Toscanini di C. Thomas Howell, e nel bel mezzo della grande rappresentazione dell’Aida nel Teatro dell’Opera di Rio, interrompe la musica per dichiarare che “libererà sette dei suoi schiavi negri!”. E in sala partivano le risate. Zeffirelli, nelle cronache di qualche anno dopo, il film è del 1988, in una lettera al “Corriere della Sera”, sostenne che fu un attacco premeditato dei comunisti contro di lui, simile a quello che fecero a Berlusconi alla prima della Carmen a Verona, organizzato da “una sorte di comitato di salute pubblica, animato dai vari Nanni loy, Citti Maselli e compagni, che si mise a distribuire (perfino ai critici di tutto il mondo!) centinaia di fischietti”. E dopo i fischi premeditati, ricorda che “Ritornai in albergo quella sera a Venezia, si può capire quanto amareggiato, mi versai un whisky per smaltire la rabbia e squillò il telefono. Era Berlusconi, con cui eravamo amici da tempo. Si disse addoloratissimo e indignato per quello che era successo, Aveva saputo anche dei fischietti. "Che mascalzoni, mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo decidere veramente di metterci tutti insieme, anche per aiutarli a capire quanto il mondo stia cambiando". Cominciai a sperare”. E quindi da allora che a Berlusconi, per salvare l’Italia dal comunismo, venne l’idea di fondare Forza Italia, partito che vide Zeffirelli in prima linea, addirittura come senatore della Repubblica per ben due legislature, e con scenate incredibili in tv. Non solo in Italia. Peccato, perché lo Zeffirelli esaltato e berlusconiano, come lo Zeffirelli registi di capolavori trash, come Callas Forever con Fanny Ardant e Gabriel Garko, o come lo Zeffirelli supertifoso della Fiorentina (anche io tifo Fiorentina), gettavano una pesante ombra anche sullo Zeffirelli migliore. Diciamo lo Zeffirelli regista d’opera lirica, di teatro di prosa, scenografo, costumista, che aveva davvero segnato con le sue celebri messe in scena lo spettacolo internazionale dal dopoguerra a oggi. Capace di collaborare con i pù grandi direttori d’orchestra di ogni tempo, da Von Karajana a Bernstein, da Serafin a Kleiber. Non la macchietta urlante dei tempi berlusconiani. E Zeffirelli ha davvero diretto star del calibro di Maria Callas, Anna Magnani, Elizabeth Taylor, Richard Burton, Alec Guinness, Laurence Olivier, Joan Plowright, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, Mirella Freni, Mel Gibson, Glenn Close, Judi Dench, Maggie Smith, Cher, Faye Dunaway, Charlotte Gainsbourg e decine e decine di altre. Potevamo preferirgli tutta la vita Carmelo Bene o Luca Ronconi, ma di fatto è stato il primo regista non inglese a allestire un testo di Shakespeare a Londra, all’Old Vic, con Romeo e Giulietta nel 1960. Riuscendo una decina d’anni dopo a portare all’Old Vic, in inglese, addirittura il teatro di Eduardo De Filippo con la complicità d Laurence Olivier. E poteva vantare un curriculum pauroso. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, diventa giovanissimo scenografo e aiuto di Luchino Visconti. Non solo all’opera, ma anche al cinema, per capolavori come La terra trema, Senso, Bellissima. Anche attore, nell’Onorevole Angelina di Luigi Zampa. Aveva fatto il suo esordio da regista alla Scala nei primi anni ’50. Ma presto lo troviamo al Royal Opera House con la Manon Lescaut. Poi con la Cavalleria rusticana e I pagliacci. Dirige la sua prima Lucia con Joan Sutherland al Covent Garden di Londra. Del 1958 è la sua prima Traviata con Maria Callas. Ma non meno celebri saranno la sua Norma all’Opera di Paris e la Tosca al Covent Garden, sempre con la Callas. Nel 1960 dirige all’Old Vic, Romeo e Giulietta. E’ anche il suo primo Shakespeare in assoluto. Negli anni ’60 lo troviamo ancora a La Scala per celebri messe in scena di La bohéme, l’Aida, La Traviata. Ma dirige anche Anna Magnani a teatro per La lupa. Durante i giorni dell’alluvione di Firenze nel 1966, gira un bellissimo documentario, Per Firenze, che farà il giro del mondo. La voce che accompagna il film per la tv è di Richard Burton. Allora ci commosse profondamente. Proprio con La bisbetica domata da William Shakespeare interpretato dalla coppia Richard Burton- Elizabeth Taylor, è il suo grande ritorno al cinema dopo un esordio un po’ banale negli anni’50 con Camping. Ma il più riuscito fra i suoi adattamenti shakesperiani per il cinema è il successivo Romeo e Giulietta con Olivia Hussey e Leonard Whiting, che vedemmo nel 1968. E’ il film che cambierà completamente il modo di trattare Shakespeare al cinema. Nei primi anni ’70 mette in scena al Metropolitan di New York la Cavalleria Rusticana.Torna al cinema con Fratello sole, sorella luna, la vita di San Francesco d’Assisi, un nuovo grande successo, che nell’edizione originale aveva le canzoni originali di Donovan e in quella italiana la versione quelle di Claudio Baglioni.

Dirige nel 1974 la cerimonia dell’apertura dell’Anno Santo in mondovisione. Del 1976 è appunto Gesù di Nazareth con Robert Powell e un cast stellare. Da Anthony Quinn a James Mason, da Claudia Cardinale a Rod Steiger, da Renato Rascel a Laurence Olivier. Personalmente non mi piacque e non piacque certo ai critici più attenti del tempo. Era un cinema un po’ vecchio e piacione. E poi avevamo ancora in testa Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Il confronto era schiacciante. E proprio questo confronto continuo con i maestri del cinema, credo, rendeva furioso il lato più vanitoso di Zeffirelli, che avrebbe voluto essere celebrato come un Luchino Visconti, l’unico suo erede possibile. Ma i tempi erano cambiati. Anche se  lo chiamò Hollywood alla fine degli anni ’70 per due film completamente diversi, Il campione con Jon Voight e Faye Dunaway e Amore senza fine con Brooke Shields. Non erano male, ma non aggiungevano niente né al cinema né a Zeffirelli. Meglio, mi sembra, l’ Amleto con Mel Gibson, Glenn Close e Helena Bonham Carter, mentre Il giovane Toscanini con Elizabeth Taylor fu un disastro. Non male Jane Eyre, e ancor di pià l’autobiografico Un tè con Mussolini, che lo rendeva un nostalgico James Ivory fiorentino. E poi arriviamo a Callas Forever dove a Jeremy Irons, che sembra la parodia omo del suo personaggio bertolucciano in Io ballo da sola, viene dato il ruolo di un giovane Zeffirelli che cerca di convincere la divina Maria di Fanny Ardant a interpretare la Carmen per una versione cinematografica. E si ritrova il baldo Gabriel Garko sul suo percorso. Ecco. Magari sbaglio e anche Callas Forever diventerà un cult. Ma date un attimo uno sguardo alle recensioni dei suoi film da parte dei grandi giornali sui siti americani. E’ un disastro. Si salvano solo Romeo e Giulietta, La bisbetica domata, Hamlet e un po’ Un tè con Mussolini. Viene massacrato anche Fratello Sole, Sorella Luna (“sembra un album da colorare dei tempi di scuola”, Time). Non parliamo de Il giovane Toscanini e di Callas Forever. O di Gesù di Nazareth.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 giugno 2019. C'era un silenzio frenetico a quella prima di una nuova Aida diretta da Chailly con la regia di uno Zeffirelli già ultraottantenne e in carrozzella: sul palcoscenico Roberto Bolle, in microtanga di fiori, per il resto nudissimo con le più belle natiche mai viste alla Scala e altrove, aveva praticamente azzerato Verdi, nel senso che tutta l' attenzione si concentrava sul suo corpo atletico che volava di qua e di là. Nell' intervallo una commossa fila di antichi zeffirelliani premette davanti al suo palco, maestro ci salvi dalla Bohème nazista e dalle Walchirie al circo, torni a ridarci per sempre armigeri e schiavi, damine settecentesche e tossicolanti dell' Ottocento! Io fui immediatamente cacciata dagli sguardi del Mito che negli anni talvolta mi aveva concesso la parola e talvolta no. Il giorno dopo i critici altezzosi rimpiansero sconsolati la vecchia Aida che Zeffirelli aveva allestito sempre alla Scala nel 1963, diretta dal meraviglioso Giovanni Gavazzeni, e stordente di flabelliferi, portainsegne, sfingi, piramidi e orde etiopi. Tanto eccelsa che con gran brontolamenti del regista, quella nuova venne venduta a scatola chiusa, Bolle o non Bolle. E quella vecchia, preziosa per sempre, è già stata ridata nel 2018. C' erano stati anni in cui Zeffirelli mi aveva trattato con magnanimità: a Cannes, nel 1986, davano in concorso il suo Otello , film-opera diretta da Lorin Maazel: certo della meraviglia del suo film e di se stesso, sorvegliato dalla cagnetta Bambina, raccontò come Domingo era un Otello perfetto per età, stupidaggine e innocenza, "un negrone stupendo, non semplicemente bronzé ma nero Uganda, la Ricciarelli, la più bianca e burrosa delle donne con quell' incarnato veneto, li faremo restare secchi in Sudafrica e Stati Uniti". Celeberrimo nel mondo, grandi star americane felicissime di lavorare con lui, in Italia non era affatto amato. La nostra critica cinematografica dichiarata di sinistra come tanti registi e cinefili, obbligava anche noi miti spettatori che oggi verremmo sbeffeggiati come radical chic, a non amare le sue lussuose versioni di Romeo e Giulietta e La bisbetica domata trascurando il fatto che quei film, amatissimi dal pubblico, portavano Shakespeare anche a chi non sapeva chi fosse. Ma già allora un grande critico come Tullio Kezich aveva iniziato un ravvedimento per film come Storia di una capinera , Jane Eyre e Un tè con Mussolini . Ma il teatro zeffirelliano lo aveva già conquistato, a cominciare da un Romeo and Juliet diretto all' Old Vic di Londra, "una delle vette emozionali della mia carriera di spettatore". Per non parlare di Dario Fo e Franca Rame che più di sinistra di così, allora, non si poteva essere. Alla mostra di Venezia nel 1988, il valoroso Zeffirelli alla conferenza stampa per il suo film, certo non riuscito, Il giovane Toscanini fu accolto da ululati e pernacchie dei cosiddetti facinorosi in anticipo sul costume dei social. E Franca, indignata: "Mi hanno fischiato tutta la vita, sono tutta un brivido per lui, vado a dargli dei baci". Dario: "Ecco qui la via Crucis, questi selvaggi sembrano formiche che divorano un bacherozzo". Andai a trovarlo a Roma, nella sua villa sull' Appia Antica un po' stile Liberace, affacciata su un bel giardino: dappertutto foto sue di quando era un bel ciuffone biondo nel film L' onorevole Angelina con Anna Magnani, 1947, della regina Elisabetta II con tiara che gli dà la mano, con la Callas che bacia a occhi chiusi, con Tennessee Williams e Leonard Bernstein, a Hollywood con Dino Risi. Su una parete bianca, sola, la foto di Luchino Visconti di Horst. Il maestro, il protettore, l' amante, poi anche l' ostacolo: come quando il giovane Franco si era conquistato una prima regia teatrale, la Lulù di Bertolazzi, e Visconti in platea con molti amici continuò a fischiare. Un' altra volta, racconta nella sua autobiografia, nella casa dove vivevano insieme, scomparvero piatti d' oro e altro: fu fermato, portato in commissariato, interrogato. "Luchino non disse una parola alla fine però non ero che l' amante di un uomo famoso che in realtà non si fidava di me e che non mi aveva mai veramente accolto nello stretto cuore della sua vita". Poi ci fu il grande errore di entrare in politica per amore di Berlusconi, eletto senatore con Forza Italia per due mandati, 1994-1996. Anticomunista va bene, ma eccessivo certo il suo sostegno a una proposta di legge che per tutelare l' embrione pretendeva la condanna a morte per le "assassine" in ricordo della cara mamma, ragazza madre che aveva rifiutato di abortire. La sua bella autobiografia uscì in tutto il mondo nel 1986: da noi vent' anni dopo. Ho riaperto la versione inglese e sorpresa massima: me l' aveva regalata lui, gennaio 1999, con dedica "alla cara Natalia"!

Piera Anna Franini per “il Giornale” il 17 giugno 2019. «Sa, essere fiorentino non è uno scherzo». Allude al temperamentino impegnativo? «Il fiorentino è snob, ha la bocca serrata, il sopracciglio arcuato...» spiegò, Franco Zeffirelli, in uno degli ultimi incontri nella bella casa di Roma. La casa degli artisti, perché da qui passarono tutti: da Maria Callas a Francis Coppola, Al Pacino, Leonard Bernstein, la grande amica Maria Callas fino a Liz Taylor. Già, l' attrice che aveva il vezzo di prender oggetti nei negozi senza passare alla cassa. «Anche in casa mia accadeva questo. Avevo un bel da fare a spiegare ai negozianti che erano capricci da diva. Liz ha dovuto difendersi facendo la capricciosa, io la lasciavo fare». Pronto a proteggere l' artista fragile, non risparmiava staffilate a chi - a suo dire - non onorava a dovere l' Arte. Del resto, alla domanda su cosa riteneva fosse il suo tratto distintivo, veloce come un lampo rispondeva: «Essere un personaggio scomodo. Non ho venduto l' anima al successo». Sollevando lo sguardo dai bozzetti che ritoccava («Guardi: cosa le sembra?» chiedeva con occhi pieni di luce) raccontava della stima per Bernardo Bertolucci, «peccato quel suo destino avverso. Era così diverso da pagliacci come Rossellini o De Sica. Fra i due meglio De Sica, comunque, qualche film l' ha indovinato, ma non era un regista nato». Non considerava Tornatore «uno dei grandi. Semmai mi piace Ozpetek, sì, il suo Bagno turco». Del passato rimpiangeva «la fama che mi impediva di fare la coda davanti ai negozi» chiosando, «ho un passato illustre, ma i giochi non sono più quelli». Fra i giochi cambiati, la cosiddetta nuova regia. L' allestimento di Carmen, opera inaugurale della stagione della Scala del 2009, lo fece arrabbiare in modo particolare. Sul banco degli imputati, la regista Emma Dante. La sera stessa della prima, 7 dicembre, prese il telefono e chiese di poter dire la sua. «È una Carmen orrenda. Questo va scritto, va comunicato. Se conosco Emma Dante? Ho visto cose sue: oscene. Porta il male sulla scena. In questa Carmen, travisa completamente lo charme di Bizet per far emergere il negativo. Sarebbe da arrestare», disse. E guai a sollecitare altri punti di vista. Maestro, forse a modo suo, tenta di dare letture moderne...«Sì, come si sta facendo in Inghilterra, Francia e Germania dove si distruggono, in modo volgare, i capolavori. Mi spiace che i giovani si imbattano questi spettacoli e in persone pericolose. La Scala così crea equivoci nelle giovani menti. Un ragazzo, ignaro di come si faccia il vero teatro, crede che sia legittimo uno spettacolo come questo considerato che lo produce la Scala». Zeffirelli aveva debuttato alla Scala nel 1953 producendo una serie di opere tra cui Otello, «lo spettacolo scaligero che più ho amato. Ah la grande forza della Scala: macchinisti e i tecnici». Come tanti artisti all' apice della carriera, non sopportava i critici, o almeno i sedicenti tali. «Dove sono finiti i critici che ci facevano a pezzi? Mah, ora tutti omologati».  Non stravedeva per le cantanti in carne. Per Violeta Urmana, che fu Aida alla Scala nel 2006, con un mezzo sospiro disse che sì «è un po' abbondante, ma la sistemeremo per la scena. Non è come a Busseto, tutto era così piccolo che abbiamo dovuto scegliere solo ragazze minute». L' ultima persona con cui ha lavorato è stata Cecilia Gasdia, sovrintendete all' Arena di Verona dove il 21 giugno il Maestro avrebbe visto andare in scena la sua Traviata. Ricorda Gasdia: «Fu uno dei primi a chiamarmi. Qualche mese prima delle prove di Traviata a Firenze, andai da lui a Roma. Bussai alla sua porta. Venne lui in persona a ricevermi. Mi guardò: lei chi è? Mi riguardò: ma non vorrà fare Traviata in queste condizioni». Gasdia aveva delle rotondità che subito si impegnò a smussare. Tornata asciutta, lui disse «Guardi che io scherzavo». Chissà...

Ciao Franco. Ciao Maestro! Francesco Sala il 15/06/2019 su Il Giornale Off. Era un anticomunista di ferro. E non solo non gliela perdonarono i critici della cultura di regime ma, evidentemente, nemmeno il portentoso Giampiero Mughini. Zeffirelli fu un outsider della cultura italiana, un “cane sciolto” che, tuttavia, per la sua insuperabile eleganza e cultura, riusciva a incutere anche nei propri potenziali avversari una sorta di timore reverenziale. Ha ottenuto successi internazionali nel cinema, nel teatro e in televisione, rendendolo uno degli artisti italiani riconosciuti all’estero. Ha v into cinque Premi Donatello, due Nastri d’Argento e due candidature all’Oscar. Ha pagato sulla propria pelle il fatto di non stare dalla “parte giusta”, sempre refrattario alle conventicole culturali. Due titoli su tutti: il suo San Francesco (“Fratello sole, sorella luna”, 1972) ottenne tiepidi consensi dalla critica “di regime” perché dipingeva un San Francesco lontano dagli ardori rivoluzionari post sessantottini e il suo capolavoro “Gesù di Nazareth” (1977) venne attaccato per il parterre di star internazionali che, a detta della critica militante, aveva reso Gesù troppo hollywoodiano. . Noi di OFF lo vogliamo ricordare con l’intervista cult – carica di tutta la sua irriverenza – che ci concesse qualche anno fa. 

La nostra testata si chiama Off, che vuol dire essere ai margini, irriverenti. Un episodio Off della sua vita?

«Quando ho scoperto i miei zii che scopavano. Avrò avuto sei o sette anni».

Il sesso?

«Il sesso è un’arma potentissima».

Com’erano i suoi genitori?

«Mio padre era un uomo affascinante. Non molto alto ma piazzato. Era molto stimato nel suo lavoro».

E lei che bambino era?

«Molto curioso. Ero un osservatore. Spiavo dalle porte, osservavo dal buco della serratura, è lì che li ho sorpresi. Avevo una grande curiosità per le persone, per la gente. È da questa curiosità, è da questa libertà, che nasce la creatività di un artista».

È stato ostacolato dalla famiglia?

«No, mai».

Da dove arriva il suo cognome Zeffirelli?

«L’aveva scoperto mia madre da un’aria dell’Idomeneo: gli “zeffiretti gentili”. Per un errore di trascrizione, divenne Zeffirelli. Lo porto solo io al mondo sa?»

Quando ha realizzato di essere Franco Zeffirelli?

«Da sempre. Sono sempre stato Franco Zeffirelli!»

Il suo nome è indissolubilmente legato a Shakespeare...

«Devo molto a mia madre il fatto che mi ha fatto studiare subito l’inglese. E c’era una balia che mi faceva leggere Shakespeare. La sua scena preferita era quella del balcone di Romeo e Giulietta. Lei si chiamava Mary O’Neill. Adorava l’Italia e non perdeva occasione per ricordare a noi fiorentini quanto eravamo indegni di questa città meravigliosa».

Aveva ragione secondo lei?

«E certo! Guardi, le faccio vedere una cosa (Il Maestro prende un quadro raffigurante la cupola del Brunelleschi). S’infervora:” Fiorentini! Svegliatevi! Bisogna ripartire da questa bellezza! Bisogna poter far rinascere il nostro Rinascimento. La politica in questo è criminale. Nessun partito politico e dico “nessuno” ha come priorità la Cultura nel nostro Paese. Sono disgustato! Quando mi prende la tristezza, la malinconia torno a vedere quest’immagine. Penso alla cupola del Brunelleschi. Il genio umano può arrivare a tanto? Allora c’è speranza. Bisognerebbe fondare un partito, un movimento che abbia come simbolo un’immagine come questa”».

Torniamo alla sua carriera. Il mondo dello spettacolo per Franco Zeffirelli si spalanca dall’incontro con Luchino Visconti. Che tipo era?

«Luchino era il più bello, il più ricco, il più elegante, il più colto. Aveva una grande cultura di stampo francese ereditata dalla mamma. Apparteneva a una delle famiglie più gloriose d’Italia: i Visconti di Modrone. Pensi che era addirittura discendente di Carlo Magno. Era il più bello di Milano. Aveva una grande forza e qualche debolezza».

Ad esempio?

«(Gli occhi del maestro a questa domanda si accendono di malizia) Il sesso! Si faceva amare prima dalle mogli e poi dai mariti! (Ride) Aveva il complesso di essere aristocratico e comunista allo stesso tempo. Mi diceva: ” per voi fiorentini è facile. Il Bello ce l’avete nel sangue.” E torniamo a Brunelleschi… (Il Maestro sfoglia con me un ricco catalogo dei suoi lavori. Scorgiamo una foto di gruppo della gloriosa Compagnia Italiana di Prosa: Giancarlo Giannini, Umberto Orsini, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Sarah Ferrati)».

Lo sa che il glorioso Teatro Eliseo rischia lo sfratto e la chiusura?

«Non mi faccia pensare a questa cosa. È il denaro. Gli interessi della finanza che corrompono qualsiasi cosa. Se penso a tutte le cose che ho fatto in quel teatro, da solo e con Luchino...»

Qual è lo spettacolo più brutto che ha visto in vita sua?

«Molti. Troppi. Mi faccia ricordare.. (Pausa) Un Falstaff fatto in Germania. I tedeschi che generalmente sono fedeli alla parte scritta, in Lirica reinventano, stravolgono, tradiscono l’Opera specialmente».

Come bisognerebbe fare?

«Prendere per mano l’autore, camminare con lui e con quello che ha scritto. La musica! La musica è una meravigliosa prigione. Una volta mi sono sbizzarrito con un’opera come questa( sfoglia un enomrme libro e fa riferimento a un’opera di Barber). C’era lo spettacolo, un grande successo, ma musica poca. Andare contro la musica è suicida. Questo fanno certi registi moderni. Io passo per conservatore, per antiquato, ma guardi cos’era questo Amleto del ’63 con Albertazzi!( Il Maestro mi mostra i suoi incantevoli bozzetti dell’Amleto. La scena è nuda, vorticosa, segnata da luci espressioniste con proiettori a vista. Un vero azzardo per l’epoca)».

E la recitazione in Italia? Ne vogliamo parlare?

«È successo che in Italia hanno cominciato a recitare sopra le righe. Molti registi hanno costretto gli attori a recitare male, inventando accenti, enfasi, sillabazioni, e qui mi fermo!»

Il suo Gesù di Nazareth del ’77 è un capolavoro. Mia figlia, che ha sei anni, spesso mi chiede di rivederlo.

«Sono contento. Anche se il successo di quel Gesù è dovuto al fatto che era una favola. Ma ha visto che cast stellare che c’era? Io ho in mente di fare un altro progetto su Gesù. Vorrei insistere sulla Palestina e sul ruolo fondamentale che ha giocato, sull’influenza che ha avuto su Gesù la predicazione di Giovanni Battista. Ho visitato tutti quei paesi. Amavo molto l’Egitto. Andavo sempre a vedere le piramidi. Poi sono stato molto in Tunisia per le riprese del film su Gesù. E mi sono trovato molto bene anche in Israele quando mi hanno chiamato per fare delle lezioni a Tel Aviv».

Della questione palestinese che mi dice?

«Israele ha ragione, ma sono spietati! (Ecco che fanno irruzione dei deliziosi e simpatici cagnolini di razza Jack Russell. Ci annusano e si accoccolano in poltrona)».

Cosa le danno i cani che non danno le persone?

«Amo tanto i cani. Solo loro ti sanno dare l’amore totale senza interessi. Non ti fregano per denaro. Il cane ti difende da chi vuole farti del male. Non leggono Machiavelli insomma…(risata) Certo.. Nessun cane però potrà rifare la cupola del Brunelleschi!»

A proposito di Machiavelli..Lei è stato senatore per due o più legislature. Un artista in Politica! Non è un controsenso?

«Certo che lo è! L’artista deve poter cambiare opinione. La sua mente è creativa, libera. Il politico non può. Io pensavo di poter mettere al primo posto la Cultura! Questo era il mio scopo. Tutti i partiti non parlano di cultura. C’è solo corruzione, anche morale. Se non si mette al primo posto la Cultura si commette un crimine! Si diceva “l’arte della Politica” invece niente!»

Vede la televisione?

«Solo telegiornali e programmi di approfondimento culturale».

Ha visto la Grande Bellezza di Paolo Sorrentino?

«I napoletani un tempo erano capaci di ben altre cose. Scrivevano ad esempio delle bellissime canzoni..(Attacca a cantare O Sole mio..)»

Progetti?

«Si dovrebbe realizzare a Firenze, la sede, l’archivio delle mie opere. L’ubicazione del Centro mi hanno detto sarà Palazzo Carnielo in Piazza Savonarola. Secondo me è troppo piccolo per ospitare tutto quello che ho fatto. Ne ho parlato col Sindaco..Nardella, vediamo che succede...»

(Con il Maestro scorriamo le pagine del catalogo della sua lunga carriera di artista: La Carmen, l’Arena di Verona, i Pagliacci al Metropolitan di New York, Busseto, il Turco in Italia. Una furtiva lacrima scende sull’immagine della Callas:” Che donna! Che donna! Che attrice che era!” Il suo è un universo d’arte di fama mondiale. Mi regala il disegno della cupola di Brunelleschi: ” È la Madre di tutti noi.”)

Paolo Isotta per il “Fatto quotidiano” il 17 giugno 2019. Mi odiava. Ho fatto per quarant'anni il critico musicale, e ho attaccato alcune regie liriche sue risibili e demagogiche. Perché era un retore. Si fingeva cattolico, figuriamoci. Si fingeva un adepto di "Dio-Patria-Famiglia". Figuriamoci. Ha fatto il parlamentare per Berlusconi, disprezzandolo: avevano troppi tratti in comune, e Zeffirelli lo fiutava, essendo più intelligente di lui: con quella antipatica intelligenza dei toscani. Infine, e qui c'è da scompisciarsi: se c era una recchia, ma proprio una recchia, non un omosessuale (termine clinico che peraltro mi spiace), era lui. Ma da quando s' era costruito un' immagine perbenista, raccontava panzane del tipo: avrei un'inclinazione spirituale ma, da cattolico, non l' ho mai praticata. Si è fatto i più bei ragazzi italiani, dagli anni Cinquanta in poi, etero e omosessuali, preferibilmente etero, e sposati. Gli ospiti della sua villa di Positano venivano portati dal cameriere Dorino nei negozî: costui gabellava di procurare sconti favolosi, faceva pagare i pezzi il doppio e pigliava la stecca dai negozianti. Però tutti (non io) in quella villa sono stati: era ospite generosissimo. L'ultima volta che parlò di me, dichiarò al Messaggero: "Isotta è un cretino". Peccato sia stato tanto ipocrita. Inutilmente. In questo, vedo un tratto di schizofrenia. Come vedo un tratto di psicopatia il suo aver affidato la sua Fondazione in mani non degne. Lo considerano un Visconti dei poveri. Visconti era un velleitario, un viziato, che ha fatto qualche buona regia teatrale, pochi films degni di sopravvivere, e quasi solo cose ridicole, ridondanti, frutto di un ricco che si credeva Eisenstein e Stanislavskij. Di lui oggi si può davvero vedere Il gattopardo, per l'altezza del romanzo scelto, per la grandezza degli attori, e perché si era innamorato a tal punto di Alain Delon da andare di là da se stesso, riuscendo a un bellissimo film. Zeffirelli non era un Visconti dei poveri. Era un grandissimo talento. Aveva fatto la gavetta, e conosceva i meccanismi tecnici della regia cinematografica e teatrale molto meglio di quell'enfant gaté, comunista dall'alto del suo patrimonio d'industriale che si faceva ridere dietro da tutti per il suo conato di dichiararsi discendente dai Signori di Milano mentre era solo rampollo di contadini arricchiti. Zeffirelli, almeno, era nato vero monello fiorentino. Alcune sue regie sono fra i capolavori del teatro di tutti i tempi. La Bohème della Scala rese palese tutto quanto, nella sua reticenza, Puccini nasconde nel suo capolavoro. L'Otello mostra il divario fra una meravigliosa tragedia di Shakespeare e un' Opera ove il vecchio Verdi riesce a indagare lo stesso mistero del Male, inventando il personaggio di Jago che il Bardo intuisce senza sviluppare. Le due Aide, trionfo mondiale, piene della perversione psicologica che Verdi ha saputo inventare nell' eros inteso solo quale sacrificio, ove il personaggio di Amneris, per la quale l' eros coincide con la volontà di potenza, torreggia. E dove, come pochi altri registi, riesce a render plausibile senza farla stucchevole la ricerca archeologica di Verdi, tradotta in musica come in psicologia. Non parliamo del suo Shakespeare al cinema. La bisbetica domata, Romeo e Giulietta. Era falso, era cattivo (e anche molto buono), era intelligente: anche se faceva il "cretino". Tutte le parti negative scompaiono con la sua vita. Resta il genio.

Plácido Domingo ricorda Zeffirelli: “Una volta sul set si infuriò e chiese una pausa sigaretta. Tornò dopo due giorni”. Il tenore spagnolo ricorda il maestro scomparso ieri a Roma. Insieme avevano lavorato per le trasposizioni cinematografiche di opere come La traviata e Otello. Anna Bandettini il 16 giugno 2019 su La Repubblica. "Ci eravamo conosciuti alla Scala nel '69: io, ventottenne, debuttavo in quel  teatro con Ernani di Verdi diretta da Antonino Viotto e Franco, già celebre, venne a salutarci. Poi ci ritrovammo sempre alla Scala a lavorare insieme per Il Ballo in maschera qualche anno dopo, nel '72. Ricordo che aveva voluto delle scene sontuose di Renzo Mongiardino e i costumi di Enrico Job fantastici ma pesanti. Io cantavo Riccardo, l'ingenuo eroe protagonista, e faticavo a indossarli. 'Sei un bel ragazzo ma devi dimagrire', mi ripeteva Franco, ma feci prima a convincere Job ad allargarmi il giustacuore in modo da respirar meglio. Però da allora che dovevo dimagrire era diventato un po' lo scherzo fra di noi". Ci voleva Plácido Domingo, ironico, generoso, lucido per far venire il sorriso e un po' di magone mentre parla di Franco Zeffirelli. È in viaggio da Dresda a Lubjana e al telefono la sua bella voce da star dei tenori e baritoni si carica di tenerezza: "Stasera in quella città, da direttore d'orchestra, dirigo un concerto con la Filarmonica Slovena, il Requiem di Mozart. L'avevo pensato per Kleiber tanto legato al paese della moglie, ma ora sarà una doppia dedica a Carlos e a Franco, amico sincero e non solo il regista con cui ho lavorato di più, sempre per spettacoli importanti  e in ben quattro film". Cinquant'anni di storia artistica che Domingo ripercorrerà all'Arena di Verona dal 28 luglio condividendoli proprio con il ricordo di Zeffirelli. Il film più celebre che avete fatto insieme è Traviata del 1982, lei l'aitante Alfredo che faceva innamorare Violetta-Teresa Stratas: un successo planetario. "E pensare che io avevo già 41 anni, un po' in là per Alfredo, di solito più giovane. Glielo dissi, ma Zeffirelli mi replicò: "Quello che deva passare allo spettatore non è l'immagine del giovane belloccio, ma quella dell'uomo del destino, l'uomo che ti cambia la vita". E penso sia stata proprio quella, la forza in più del mio Alfredo, l'immagine dell'amore che ti stravolge per sempre. Qualcosa del genere successe anche con Otello che però avevamo già fatto in teatro, alla Scala nel '76 quando ci fu anche la prima diretta tv con la Rai. Non dovevo solo cantare Otello, ma recitarlo. Dissero che quell'Otello coglieva l'animo inquieto e insieme la forza ossessiva del suo sentimento d'amore".

Come era lavorare con Zeffirelli, meglio il palcoscenico o il set?

"Uguale perché faceva spettacoli grandiosi come fossero film. In fondo il suo linguaggio teatrale era molto cinematografico. Sul set lui era uno tranquillo. Solo una volta mentre registravamo Carmen si infuriò, urlò 'pausa sigaretta' e se ne andò. Tornò due giorni dopo. 'Un po' lunga, Franco, la tua sigaretta' gli dissi, lui si mise a ridere e finì lì. Girare i film con lui era piacevole anche perché Franco voleva che io e la mia famiglia fossimo suoi ospiti nella bella villa sull'Appia, un vero paradiso che si era costruito in 40 anni di lavoro. L'ultima volta è stato tre anni fa, nel 2016. Gli facemmo una sorpresa, mangiammo lì tutti insieme".

Il ricordo più caro?

"Le telefonate ai compleanni, perché siamo tutti e due dell'acquario, io il 21 gennaio e lui il 12 febbraio. Giocavamo sulla fratellanza. E poi gli spettacoli. La Carmen di Vienna, diretta da Carlos Kleiber nel 1978, che registrammo anche per la versione filmata, prima del film vero e proprio che feci con Rosi. E poi alla Scala, Cavalleria Rusticana e Pagliacci nell'81 con Georges Pretre sul podio, anch'essi ripresi in un film, la Tosca del Metropolitan nel 1985, e soprattutto Turandot sempre al Met nell'86 che poi rifacemmo in una produzione dell'Arena di Verona anche per l'inaugurazione dell'Opera di Muscat in Oman nel 2011. Io in quel caso direttore d'orchestra e Franco regista. Fece il viaggio e venne anche lui prendersi gli applausi".

Gli americani dicono di lui che era un regista col gusto dell'eccesso: secondo lei?

"Per me era un regista all'avanguardia, moderno e sa perché? Perché nei suoi lavori c'è la verità del teatro e credo che in tanti si sono ispirati a lui. Mia moglie Marta è diventata regista anche vedendo i lavori di Franco. La sua morte è un momento triste, ma noi dobbiamo celebrare la sua lunga vita, straordinaria soprattutto per noi a cui lascia tante meraviglie".

«Zeffirelli, artista rinascimentale che rivoluzionò le opere liriche». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Valerio Cappelli su Corriere.it. Alle spalle della bara ci sono le foto di Franco Zeffirelli con Kleiber, Pavarotti, Callas e Domingo. Luciano, il figlio adottivo, ne accarezza il volto, ora sembra una scultura rinascimentale, dicono gli amici; l’altro figlio, Pippo, riceve gli ospiti, tra i quali il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Firenze lo accoglie: oggi la camera ardente a Palazzo Vecchio e lutto cittadino, domani i funerali al Duomo. Plácido Domingo era a Dresda per il «Nabucco» di Verdi. «Dopo la recita ho fatto un brindisi per lui».

Quando vi eravate conosciuti?

«Alla Scala, dopo il mio debutto nel 1969 con “Ernani”, lo incontrai per la sua regia di “Un ballo in maschera”».

All’opera Zeffirelli passava per tradizionalista, invece…

«Invece non lo fu affatto. “La bohème” con il secondo atto su due piani: oggi si dà per scontato, ma pensate alla cartapesta con cui si rappresentava la lirica nel 1963, quando nacque quella produzione. Fu una rivoluzione totale. Infatti vive ancora oggi». 

E la vostra «Turandot»?

«La creazione di un sogno. Dopo l’apertura della Scala la portammo al Metropolitan, a Verona, poi all’inaugurazione del teatro in Oman. Lì si vede il genio di Franco: il movimento delle masse. Come spettacolarità c’è anche “Tosca”, che il Met ha cancellato perché costava troppo».

Com’era durante le prove?

«Si fidava di noi cantanti. Era uno straordinario narratore di ciò che c’era intorno a un’opera. E dipingeva in modo unico, bozzetti a olio, acquarelli. Più tardi scoprì nuovi materiali, leghe metalliche, metalli anodizzati, perspex».

Vi sentivate negli ultimi tempi?

«L’ultima volta lo vidi al suo compleanno di due anni fa, a casa sua. Lo chiamai di recente ma Pippo suo figlio, mi disse che stava riposando. Non riusciva più a parlare, eppure fino a pochi mesi fa ha mantenuto la vitalità del suo pensiero. Il corpo non l’ha seguito. Siamo tutti e due del segno dell’Acquario ma in maniera rovesciata, io sono nato il 21 gennaio e lui era del 12 febbraio. Ci ridevamo su».

Lei ha fatto tre film-opera con Zeffirelli.

«”La traviata”, “Otello” e “Pagliacci” abbinato a “Cavalleria rusticana” dove sperimentò una singolare combinazione tra scene alla Scala e scene girate dal vivo in Sicilia». 

Nella «Traviata» il divo era lei, Alfredo, non Violetta.

«Però Teresa Stratas era bravissima. Franco fece di Alfredo non il solito stupidotto ma un ragazzo che aveva portato nella vita di lei l’amore e la morte, l’uomo del destino. Un’idea intelligente perché Alfredo dovrebbe avere 22-23 anni e io ne avevo 41. All’Arena per celebrare i miei 50 anni dal debutto canterò in un gala, per la prima volta a Verona, Germont padre nella “Traviata” di Franco che debutta venerdì. Purtroppo il 21 non potrò essere presente perché quella sera ho un concerto alla Scala con Florez».

E dell’«Otello» per il grande schermo che ricordi ha?

«Dovette fare molti tagli. Filmammo molte più scene. Quei tagli vanno assolutamente rimossi, il pubblico ha diritto di vedere il suo “Otello” originale, sosterrò questa battaglia culturale».

Zeffirelli è stato un gigante del ’900 ma non si sentiva pienamente amato in Italia...

«Come si dice? Nessuno è profeta in patria. Era amato anche in Italia, il problema forse era il cinema, che è un altro mondo. Lui era cresciuto con Visconti, che aveva fatto “Il gattopardo”. Probabilmente ha pensato che poteva diventare anche lui grande al cinema. Prendete “Medea” di Pasolini con Maria Callas. Altri due giganti. Il film non funzionò. Magari con un altro regista sarebbe andata diversamente. Franco era un artista totale, in questo senso rinascimentale. Per fortuna ci ha lasciato la sua Fondazione bellissima a Firenze».

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 giugno 2019. Caro Dago, sono ore e ore che mi rode dentro questa faccenda dell’addio di Franco Zeffirelli al mondo di noi umani, e dunque alla umana nostalgia che ho per questo portentoso personaggio cui sono stato in passato ripetutamente avverso, come del resto milioni e milioni di italiani che gli rimproveravano la colpa suprema di essere stato un “anticomunista di ferro”. E un anticomunista di ferro Zeffirelli lo è ancora nello spettacolare pezzo che gli ha dedicato oggi sul “Corriere” Aldo Cazzullo, lì dove Aldo riferisce che Zeffirelli gli aveva raccontato di che cosa fossero stati capaci i partigiani comunisti con cui lui aveva avuto a che fare nella tregenda del 1943-45, quando Zeffirelli era stato comunque uno dei partigiani liberali. Erano delle bestie assetate di sangue. Ora succede che nel 1976 o forse primissimi mesi del 1977, quando io ero ancora un giornalista iniziante, al “Paese Sera” il mio direttore Aniello Coppola (un personaggio da me adorato) mi incarica di scrivere un corsivo contro Zeffirelli che aveva pronunciato non ricordo più quali acri bestemmie contro l’egemonia politica e culturale della sinistra. Il me stesso del 1977 scattò a scrivere quel corsivo, dove non mi pare ci andassi di mano leggera contro Franco. Aniello lo mise in prima pagina, in basso. Quando ho poi conosciuto Franco, e sperimentato la ricchezza e l’eleganza umana del personaggio, mille e mille volte mi sono augurato che lui non lo avesse letto quel maledetto corsivo del 1977, un corsivo che se lo leggessi oggi non mi ci riconoscerei. E dire che la saga negativa dei miei rapporti con Franco è continuata. Deve essere stato l’inizio degli anni Novanta, e io chiacchieravo di calcio in una trasmissione Mediaset condotta da Maurizio Mosca. Succede che a una puntata c’è Franco, il quale quando si trattava della Juve perdeva il lume della ragione. Stava dicendo cose inenarrabili contro la Juve, tanto che Roberto Bettega - a quel momento uno della Triade dirigente della Juve - si alzò e se ne andò in corso di puntata. Non credo di sbagliare se dico che per aver detto quelle cose, che io ovviamente avevo contrastato, Franco pagò alla Juve un bel fracco di soldi quale penale. Il prezzo più caro lo pagò Maurizio Mosca, che venne sbolognato via dalla trasmissione a causa delle rimostranze della Juve, furibonda di essere stata trattata alla maniera di un’entità nazista. Povero e innocentissimo Maurizio. Solo che quella sera non c’era nulla che potesse opporsi alla fiumana antijuventina di Franco. Ebbene io dietro quella fiumana mi avvidi di un uomo che mi stava molto simpatico, di un personaggio umanamente e culturalmente ricco. Ricchissimo. Odiava la Juve, ebbene si può capire da parte di un fiorentino. L’ho poi visto più e più volte. In quella sua casa romana che era una sorta di cattedrale della storia teatrale, musicale, cinematografica del nostro Paese, una storia che era celebrata negli Usa ma non in Italia. Non ho nessuna competenza per giudicare gli apprestamenti registici e scenografici di Franco in materia di musica e teatro. Solo che mi piaceva la sua persona, la sua ostinazione, la sua coerenza tra estetica e morale, la sua passione, ivi compresa la sua passione per la Fiorentina in maglia viola. Mi piaceva quell’immenso patrimonio di cose fatte, persone conosciute, sontuosi spettacoli firmati, case arredate fino all’ultimo centimetro quadro disponibile, Mi piaceva quella sua solitudine al tempo in cui la sinistra tutta lo aveva in spregio, e io stesso avevo scaraventato sulla bilancia quel corsivo che se lo leggessi oggi mi farebbe forse rabbrividire. Ti ho voluto bene, ti voglio bene, Franco. L’ultima volta lo avevo visto alla Stazione Termini, lui sulla sedia a rotelle. Mi disse due parole. Che hanno un posto sacro nell’album della mia memoria. 

Giuseppe Fantasia per Huffingtonpost il 19 giugno 2019. C’è stato un tempo che non esiste più in quel di Positano, location da sogno della Costiera Amalfitana, la più difficile – per via delle sue continue salite e discese – ma sicuramente la più bella, simbolo di un’eleganza vera e mai sbandierata, luogo di artisti e grandi star sin dagli anni cinquanta e sessanta che lì erano soliti andare a piedi nudi da mattino a sera, indisturbati e lontani da sguardi indiscreti. Un villaggio in cui tutti si conoscevano e dove tutti - ancora oggi - si conoscono, dove la gente del posto si è sempre unita a loro, poco importa se per questioni lavorative, di conoscenza o di amicizia. Si percepiva che c’era una comunità e che era viva. Re del posto erano due: Rudolf Nurejev (1938-1993) e Franco Zeffirelli, scomparso oggi all’età di 96 anni. Da un lato il ballerino e coreografo - “il cigno”, come lo chiamavano in molti, la stella nata sulla Ferrovia Transiberiana a Irkutsk, in Siberia, mentre sua madre si recava a Vladivostok, dove era di stanza il padre, commissario dell’Armata Rossa – dall’altro il regista, sceneggiatore, scenografo nonché politico (per Forza Italia negli anni d’oro berlusconiani) fiorentino. Il bel ragazzo dai capelli lisci e scuri come gli occhi – un uomo dal carattere impetuoso e poco incline alle regole - e il suo “avversario” dai capelli biondi e gli occhi di ghiaccio, sempre elegante e mai fuori le righe, se non quando veniva provocato. Due belli, due ricchi e famosi con le loro vite invidiate dai più, che quando arrivavano in paese erano sempre circondati da un codazzo di persone: super star hollywoodiane o di Cinecittà, teste coronate, soubrette e tanti, tantissimi ragazzi bellissimi e fisicati, quasi sempre loro amanti che duravano come la fioritura di una mimosa in primavera, in alcuni casi anche meno. Se uno si era ritirato nell’isola di fronte Positano, a Li Galli, l’altro si era fatto costruire una villa immensa poco distante dal centro del paesino, Villa Tre Ville, affacciata sulla baia di Arienzo e con una vista che dava proprio sull’isola del suo rivale. Nurejev preferiva la compagnia di Aristotele Onassis e Jacqueline Kennedy, Zeffirelli preferiva invece Maria Callas e Pasolini, oltre a tutta una serie di attori, ballerini, coreografi e maestri d’Opera che con lui avevano lavorato o che, semplicemente, lo stimavano come amico e come persona. Nel corso della loro vita e di quelle estati – per molti indimenticabili– ci fu un tempo in cui si frequentarono anche, poi più nulla. Solo odio e dispetti reciproci, dichiarazioni sempre bellicose ai giornali, persino botte da orbi. In molti ricordano una cena a casa di Zeffirelli - 320 mila metri quadrati con diciannove suite e un eliporto - per il Premio Positano. Tra gli altri, c’erano anche Gregory Peck e Rossella Falck. Il vociare, il rumore dei bicchieri e delle posate sui piatti fu interrotto da una conversazione ad alta voce tra i due che si trasformò subito in lite, passando al contatto fisico. Zeffirelli finì a terra, steso dai pugni e non solo di Nurejev, allontanato subito dalla villa in cui non rimise più piede. Da qui l’inimicizia continuata fino alla morte (per Aids) del ballerino e mai più ricucita. I ristoratori e gli altri esercenti sulla spiaggia principale avvisavano rispettivamente l’entourage dell’uno o dell’altro per non farli incontrare in piazzetta, per evitare altre risse, altri colpi di mano e schiamazzi decisamente non in sintonia con il luogo. Nurejev e Zeffirelli erano come due tifosi avversari, un po’ come un laziale e un romanista, ma con nessuna voglia di giocare regolarmente nessun derby, perché ognuno di loro diceva sin dall’inizio di un possibile match di avere già vinto a prescindere. Dopo Nurejev, anche Zeffirelli diede il suo addio a Positano. Nel 2011 venne condannato per abuso d’ufficio per aver preso la scogliera sotto la sua celebre “Villa Tre Ville” nella vicina baia, solo che era nel demanio. Lui, di fatto, l’aveva comprata e ne usufruiva attraverso una società, l’Ipa immobiliare, trascorrendo lì le sue vacanze e aprendo la villa alle star, ma – purtroppo – come molti dei suoi film, da Il Campione a Romeo e Giulietta, il processo che lo coinvolse non ebbe appunto un lieto fine. Quella villa fu poi venduta ad una famiglia di imprenditori turistici di Sorrento che l’ha poi trasformata in un resort extra lusso. Poi fu acquistata da americani e oggi – si dice – da spagnoli. In ogni caso è lì, che fissa da lontano il paese dalla forma piramidale e con le casine con le facciate color acquerello, ma quell’allure, quel mondo, che c’era, non c’è più. Figuriamoci oggi che Zeffirelli è morto. Ne soffrì molto e il suo addio a Positano e a un’epoca di lustri, divertimento e spensieratezza, fu un doloroso. In molti pensavano che avrebbe voluto riposare per sempre nello splendido cimitero sulla parte più alta di Monte Pertuso, ma in realtà lui ha preferito quello di San Miniato, nella “sua “ Firenze. Chissà dove si troveranno adesso entrambi: chi ci crede li immagina incontrarsi di nuovo, stavolta però senza violenza, ma solo con sorrisi.

IL MONDO DELLO SPETTACOLO DIMENTICA FRANCO ZEFFIRELLI. Omero Cambi per "il Messaggero" il 19 giugno 2019. Il mondo dello spettacolo ha dimenticato Franco Zeffirelli nel giorno del suo funerale. La città di nascita del grande regista si è stretta intorno attorno a lui e ai suoi due figli adottivi, tanto che lunedì la camera ardente è stata visitata da oltre settemila persone, un fiume ininterrotto che per tutto il giorno è sfilato davanti al feretro nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Ma ieri al maestro è mancato proprio l'omaggio dei colleghi di cinema, teatro e musica. Nessuna star c'era ieri nel Duomo di Firenze, la cattedrale di Santa Maria del Fiore, gremita ma non troppo (c'erano circa mille persone), che per la prima volta dalla morte del poeta Mario Luzi ha ospitato un funerale solenne. A rappresentare il cinema solo Giampaolo Letta, ad di Medusa, con il padre Gianni, presidente onorario della Fondazione Zeffirelli. E con loro, le amiche di una vita, le gemelle Alice ed Ellen Kessler, arrivate sabato dalla Germania. A rendergli omaggio anche la soprano Katia Ricciarelli, corsa a Firenze nonostante gli impegni, e l'attore inglese Leonard Whiting, protagonista del Romeo e Giulietta diretto da Zeffirelli nel 1968. Regista celebrato in tutto il mondo, in Italia ha trovato anche indifferenza se non proprio ostilità, come ha ricordato Gianni Letta parlando in Duomo al termine del funerale: «Chi lo conosceva sapeva che si portava dentro un cruccio: non riusciva a capire come in tutto il mondo lui fosse accolto e celebrato come il simbolo del genio italiano, mentre nel suo paese, nella sua città, nella sua Patria, non tutti avessero la forza di proclamarlo e di riconoscerlo. Forse ha aggiunto Letta questo è avvenuto perché in passato aveva avuto qualche atteggiamento che poteva essere divisivo; forse perché aveva un carattere per cui diceva ciò che pensava, come sempre dovrebbero fare i cittadini liberi, e come sempre devono fare gli artisti». Letta ha poi ringraziato il sindaco Dario Nardella e ha ricordato l'impegno per l'apertura a Firenze della Fondazione Zeffirelli, un gesto con cui la città «gli ha regalato l'ultima grande gioia della sua vita», offrendo al maestro «ancora in vita, quell'abbraccio che oggi la città gli ha dato». Il ricordo di Zeffirelli quindi non si spegnerà, come ha sottolineato Nardella: «Oggi il maestro ci lascia uno dei progetti a cui ha lavorato di più negli ultimi anni, il Centro internazionale delle arti e dello spettacolo, che ha sede con la sua Fondazione qui a Firenze. Siamo onorati di ricevere questo testimone». Infine, rivolto ai figli del regista, Pippo e Luciano: «Saremo sempre con voi nel portare avanti i progetti a cui teneva, e mi auguro che lo Stato e le grandi istituzioni culturali ci possano aiutare». Una prima risposta è arrivata da Mogol, presidente Siae: «Zeffirelli era socio Siae dal 1968 e per noi sarà un onore partecipare a un progetto che possa portare avanti la sua figura e la sua lezione». Se lo star system ha disertato l'ultimo saluto al regista, non altrettanto hanno fatto le istituzioni, con il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli; il presidente della Toscana, Enrico Rossi; il Comune di Positano, dove Zeffirelli aveva una villa e a lungo ha vissuto e dove, come a Firenze, ieri è stato decretato il lutto cittadino. «È stato emozionante, meglio di così non si poteva fare», ha detto il figlio Pippo. Il regista sarà tumulato oggi nel cimitero delle Porte Sante, accanto all'abbazia di San Miniato al monte, dove si trovano le tombe di fiorentini illustri come Pietro Annigoni, Enrico Coveri, Carlo Collodi, Vasco Pratolini, Mario Cecchi Gori.

·         Addio a Niki Lauda, leggenda della Formula 1.

Addio a Niki Lauda, leggenda della Formula 1. Aveva 70 anni. Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Giorgio Terruzzi e Flavio Vanetti su Corriere.it. La Formula 1 perde uno dei suoi campioni più grandi: Niki Lauda è morto in una clinica svizzera il 20 maggio. Aveva 70 anni. Lo ha comunicato la famiglia tramite una mail inviata agli organi di stampa: «Con profonda tristezza annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con i suoi cari lunedì scorso. I suoi successi unici come sportivo e imprenditore sono e rimarranno indimenticabili. La sua instancabile spinta, la sua semplicità e il suo coraggio rimangono un modello e un punto di riferimento per tutti noi. Lontano dal pubblico, era un marito, padre e nonno amorevole e premuroso. Ci mancherà molto». L’ex pilota era stato ricoverato per problemi ai reni e si era sottoposto a un trattamento di dialisi, mentre la scorsa estate aveva subito un trapianto di polmoni a Vienna. Nato a Vienna il 22 febbraio 1949, tre volte campione del mondo di Formula 1 — nel 1975 e nel 1977 con la Ferrari, nel 1984 con la McLaren — da imprenditore aveva fondato e diretto due compagnie aeree, la Lauda Air e la Niki; da dirigente sportivo, dopo avere diretto per due stagioni la Jaguar, era dal 2012 presidente non esecutivo della scuderia Mercedes AMG F1 e stava progettando di tornare presto al lavoro. Nella sua carriera Lauda ha disputato 171 Gran Premi: ne ha vinti 25 e ha segnato 24 pole position e altrettanti giri veloci. Nel 1976 ebbe un incidente che lo lasciò sfigurato. Giudicato uno dei migliori piloti della storia, era soprannominato «il computer» perché capace di scovare anche i più piccoli difetti nell’auto che guidava e per la precisione con cui metteva a punto la vettura prima di ogni gara. Freddo, poco emotivo, determinato, anche nello stile di guida: essenziale.

Niki e le sue frasi mitiche «Preferisco avere ancora il piede destro che un bel viso». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Daniele Sparisci su Corriere.it. Niki Lauda aveva il dono della sintesi. Riassumeva tutto in concetti chiari, le sue parole spesso erano taglienti come rasoi. Davanti a un thé nel motorhome della Mercedes, dove fino a poco più di un anno fa, era una presenza fissa ti diceva che il suo segreto era guardare sempre avanti. Non amava raccontare aneddoti sul passato, piuttosto pensava al prossimo obiettivo: poteva essere una corsa, un dossier su una compagnia aerea da salvare, un investimento immobiliare nella sua amata Ibiza dove trascorreva gran parte del tempo fin quando la salute lo ha assistito. Scherzava anche su quello, chiamava «tagliandi» i controlli in ospedale che doveva affrontare dopo i trapianti. Odiava gli appuntamenti fissi ed era molto «cauto» con il denaro, nei paddock di F1 circolavano storie divertentissime al riguardo. Mancherà a tutti e resterà per sempre. Ecco le sue frasi mitiche.

(ANSA il 20 maggio 2019. ) - E' morto all'età di 70 anni l'ex pilota austriaco Niki Lauda, leggenda della Formula 1 tre volte campione del mondo. Lo rende noto la famiglia. "Con profonda tristezza annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con la sua famiglia accanto lunedì", si legge nella nota. Lauda era ricoverato in una clinica privata in Svizzera per problemi ai reni. Otto mesi fa aveva subito un trapianto di polmone. "I suoi risultati unici come atleta e imprenditore sono e rimarranno indimenticabili, come il suo instancabile entusiasmo per l'azione, la sua schiettezza e il suo coraggio. Un modello e un punto di riferimento per tutti noi, era un marito amorevole e premuroso, un padre e nonno lontano dal pubblico, e ci mancherà", scrivono i familiari. Nato a Vienna il 22 febbraio del 1949, Lauda vinse tre titoli mondiali come pilota di F1 nel 1975, nel 1977 e nel 1984 con McLaren e Ferrari. Rimase gravemente ustionato in un incidente nel 1976. E' considerato uno dei migliori piloti della storia.

(ANSA il 20 maggio 2019. ) - "Con profonda tristezza annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con la sua famiglia accanto lunedì", si legge nella nota. Lauda era ricoverato in una clinica privata in Svizzera per problemi ai reni. Otto mesi fa aveva subito un trapianto di polmone. "I suoi risultati unici come atleta e imprenditore sono e rimarranno indimenticabili, come il suo instancabile entusiasmo per l'azione, la sua schiettezza e il suo coraggio. Un modello e un punto di riferimento per tutti noi, era un marito amorevole e premuroso, un padre e nonno lontano dal pubblico, e ci mancherà", scrivono i familiari. Nato a Vienna il 22 febbraio del 1949, Lauda vinse tre titoli mondiali come pilota di F1 nel 1975, nel 1977 e nel 1984 con McLaren e Ferrari. Rimase gravemente ustionato in un incidente quasi fatale nel 1976. E' considerato uno dei migliori piloti della storia.

Barbara Costa per Dagospia il 20 maggio 2019. Mio nonno era un banchiere, mio padre pure, e io a 15 anni volevo solo una cosa: sbancare la Formula Uno. Già lo sapevo, che sarei diventato il migliore, il più forte, un pilota da leggenda. I miei non erano d’accordo: mi dissero che se non finivo la scuola, prendevo una laurea e seguivo le loro orme, non avrei visto un centesimo. Sapete com’è andata a finire? Non m’hanno dato un soldo, ma sono diventato tre volte campione del mondo di Formula Uno. Non è stato facile, ve lo posso assicurare. Se volete un consiglio, trovatevi un lavoro normale, qualunque, tranne quello di pilota. Noi piloti siamo gente strana, nasciamo con questa febbre, questa smania addosso. Pensiamo solo alle corse, alle macchine. I motori non hanno un cervello, il pilota sì, non dimenticatevelo mai. Quando sei al volante, dipende tutto da te, perché sei solo. Tieni le chiappe salde sul sedile, tasta i tuoi limiti, devi sentire la velocità, possedere la macchina, averne il controllo. Per un pilota, la corsa viene prima del sesso, non per tutti, sia chiaro, ma per me è così, testa alle gare e alla macchina, stare ore con lei, a perfezionarla, curarla: sapete che sono pure un meccanico? Io li amo sul serio, questi bolidi, la mia macchina non la lasciavo mai sola, sulla pista e fuori. Ma dicevo, il sesso: un’adrenalina diversa, sono stato con tante donne, nessuna mi ha fatto sbandare davvero. Ho sposato Marlene, bella ragazza, tipa in gamba, vi racconto la cerimonia: ho chiesto un’ora di permesso alla Ferrari, mi sono sposato, sono tornato al circuito. Stop. Io e Marlene siamo stati insieme 20 anni, due figli, un matrimonio tranquillo. Vabbè, mentre stavo con lei ho fatto un figlio con un’altra, ma l’ho riconosciuto, tutto in regola. La macchina, le gare vengono prima. Mi sarebbe piaciuto essere un pilota di oggi: avrei guadagnato di più, soprattutto avrei ancora le mie orecchie. Io per correre ho chiesto soldi a tutti tranne che agli usurai, ho fatto debiti con le banche che non vi dico, assicurazioni sulla vita. Ero io a pagare le scuderie, non il contrario. Quando ho firmato il contratto con la Ferrari, ero contento perché con quei soldi avrei ripianato i debiti. Ve lo confesso, per i debiti ho pensato quasi al suicidio: c’è stato un periodo dove tutto andava storto, guidavo catorci, non finivo le gare, per arrivare in Formula Uno ho fatto la gavetta più dura, un anno ho corso in due categorie diverse contemporaneamente. Conoscete qualcuno più fissato di me? Il mio soprannome è "il computer", perché sono preciso, metodico, freddo, non lascio trasparire emozioni. Non avete visto nemmeno la mia paura, quel giorno, al Nürburgring: io non volevo correre, l’ho detto in pre-gara, troppo pericoloso, qualcuno ci rimette la pelle. È toccato a me andare a sbattere contro quella roccia. Mi è volato il casco, è andato a fuoco tutto, pure io: le immagini parlano da sole. I medici mi davano per spacciato, un prete mi ha dato l’estrema unzione, ma sapete una cosa: mentre ero intubato, attaccato ai macchinari, io "sentivo". Ero cosciente, intorno a me invocavano un miracolo. Il Dio dei motori mi ha protetto. O forse è stata la mia ostinazione, la mia rabbia a farmi risvegliare. Ma guarda te: sono campione del mondo in carica, sono in testa al campionato, e per colpa di una roccia lascio il titolo a quel fighetto sciupafemmine avvinazzato di James Hunt? Nemmeno per sogno. Dopo 42 giorni sono in pista, sono vivo, ho saltato due gare, Hunt in classifica è vicinissimo. Il titolo ce lo giochiamo all’ultima gara, in Giappone. Dio, quanta pioggia. Una tempesta, non vedevo niente ma, per come sono fatto io, non conta che le mie ferite sulla testa erano ancora aperte e mi macchiavano le bende. Mi sono ritirato. E quel che mi ha fatto più male non è stato perdere il titolo per un solo, maledetto punto, ma le parole di chi mi dava per finito. Il titolo l’ho rivinto l’anno dopo, poi un’altra volta ancora. Sono un mastino, che vi credete? Però è vero che quelle fiamme mi hanno cambiato, sono anni che combatto col mio corpo bruciato. Le cicatrici che ho sul viso fanno spavento, lo so. La faccia me l’hanno ricostruita con pelle presa dalle mie gambe, Marlene è svenuta appena l’ha vista. La chirurgia estetica? Dico, stiamo scherzando? È roba da deboli. Io non sono mai stato con una donna rifatta, mi fanno impressione. Adesso mi tocca sfidare un polmone nuovo, ma ho già avuto la meglio su due trapianti di reni: il primo me l’ha donato mio fratello, e l’ho rigettato, il secondo Birgit, una donna che mi ha salvato, e che ho sposato. Per il mio secondo matrimonio ho fatto le cose in grande: la cerimonia in Comune è durata ben quattro minuti.

F1, è morto Niki Lauda, aveva 70 anni. Tra i migliori piloti di sempre. L'articolo del The Sun che dà l'annuncio della morte di Niki Lauda: "Con profonda tristezza, annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con la sua famiglia lunedì scorso", si legge in un comunicato diffuso dalla famiglia e pubblicato da The Sun. E' considerato tra i migliori piloti di sempre. Nel corso della sua carriera ha disputato 171 Gran Premi vincendone 25. La Repubblica il 21 maggio 2019. E' morto, all'età di 70 anni, Niki Lauda, la leggenda della Formula 1. "Con profonda tristezza, annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con la sua famiglia lunedì scorso", si legge in un comunicato diffuso dalla famiglia e pubblicato da The Sun.  "I suoi risultati unici come atleta e imprenditore sono e rimarranno indimenticabili, come il suo instancabile entusiasmo per l'azione, la sua schiettezza e il suo coraggio. Un modello e un punto di riferimento per tutti noi, era un marito amorevole e premuroso, un padre e nonno lontano dal pubblico, e ci mancherà", scrivono i familiari. E' considerato tra i migliori piloti di sempre. Nel corso della sua carriera ha disputato 171 Gran Premi vincendone 25. L'ex pilota era stato ricoverato presso una clinica privata in Svizzera per problemi ai reni, sottoponendosi ad un trattamento di dialisi resosi necessario per migliorare le proprie condizioni. E' stato tre volte campione del mondo di Formula 1 (nel 1975 e 1977 con la Ferrari, nel 1984 con la McLaren), come imprenditore ha fondato e diretto due compagnie aeree, la Lauda Air e la Niki; come dirigente sportivo, dopo avere diretto per due stagioni la Jaguar, è dal 2012 presidente non esecutivo della scuderia Mercedes AMG F1. Ha disputato 171 Gran Premi, vincendone 25, segnando 24 pole position e altrettanti giri veloci. Ha avuto una carriera sportiva di grande livello guidando per March, BRM, Ferrari, Brabham e, infine, McLaren. Considerato uno dei migliori piloti della storia, era soprannominato "il computer" a causa della sua capacità di individuare tutti i difetti, anche i più piccoli, della vettura che guidava e per la meticolosità con cui metteva a punto il proprio mezzo. Anche caratterialmente si mostrava freddo, poco emotivo e molto determinato, specialmente agli occhi di chi non era a stretto contatto con lui. Perfino il suo stile di guida era essenziale e, per gli appassionati, scarsamente divertente ma, visti i risultati, molto efficace. Nel 1976 ebbe un incidente che lo lasciò sfigurato, ma a tal proposito affermò che preferiva il fondoschiena a un bel viso perché era convinto che una vettura si guida soprattutto "con il sedere". A gennaio l'ex pilota austriaco era stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'Akh di Vienna per colpa di un'influenza che lo aveva colpito durante le vacanze di Natale nella sua casa di Ibiza. Il suo sistema immunitario era ancora debole per il trapianto di polmone a cui era stato sottoposto ad agosto dello scorso anno.

Quando Lauda diceva: "Mi chiamate robot, ma io non programmo mai nulla". Le vittorie, i titoli mondiali, l'incidente, il virus e il trapianto polmonare. Le tappe di una vita intensa chiusa stanotte a Vienna. Paolo Rossi il 21 maggio 2019 su La Repubblica. Lo abbiamo considerato tutti come una sorta di pilota computer, un robot. Non potevamo sbagliare di più. Niki Lauda, invece, un giorno rivelò al mondo la sua vera natura: “Non ho mai fatto programmi nella mia vita, ho sempre preso decisioni sul momento. Io sono per l’improvvisazione”. È quello che ha fatto più o meno a Vienna, ha cercato di difendersi dal virus che lo ha costretto addirittura al trapianto polmonare, ha improvvisato ma stavolta non ha potuto fare nulla. Sempre tempo fa disse di aver realizzato che “c’è un mistero nella vita, retto comunque da un’entità superiore. Dio c’è, esiste. Accadono cose che non hanno logica, o spiegazioni”. Anche negative, purtroppo. Niki Lauda ci ha lasciato a 70 anni, si spera in pace: “Ho trovato un equilibrio, con la mia famiglia, con la gente, con le passioni”. La Formula Uno vive un altro lutto, dopo quello di Sergio Marchionne. Il 25 luglio il presidente Ferrari, oggi quello onorario Mercedes. Ma Niki Lauda ha vissuto entrambi i mondi, ha conquistato due mondiali con la Rossa di Maranello, e un terzo poi con la McLaren. Ha vinto 25 gran premi su 171 disputati, con 24 pole position e 54 podi. Nella sua carriera ci sono state anche la March, la Brm e la Brabham. Enzo Ferrari, raccontano, lo squadrò e ne fu diffidente all’inizio. Poi lo vide in azione, alla guida, e gli piacque subito la sua sensibilità, di guida e con la macchina. Ingegneri e meccanici si deliziavano con i loro duetti erano formidabili: «Sei bravo…». «No, ho solo culo...». Ci sapeva fare, Niki: veniva da una famiglia di banchieri austriaci che non vedeva di buon occhio il suo interesse per le automobili e la velocità. Dovette fare tutto da solo, persino sottoscrivere un’assicurazione sulla vita. Con la Ferrari, e il suo patron, non poteva durare a lungo: troppa personalità da entrambi i lati, e il divorzio fu solo una questione di tempo. Il mondo però ricorda Niki Lauda anche per quel 1° agosto del 1976, al Nurburgring: la pioggia che ha reso scivolosa la pista giusto prima della partenza, l’uscita di pista al secondo giro, Brett Lunger che lo prende in pieno e la Ferrari che s’incendia. Lo stesso Lunger, con Arturo Merzario, lo aiutano a uscire dall’auto: le fiamme gli hanno sfigurato il volto, i polmoni hanno inalato fumi. Resta per giorni tra la vita e la morte, ma sopravvive e torna in pista dopo 42 giorni. Ma il Mondiale sarà però di James Hunt, e il loro duello diventa comunque leggenda, ricordato anche recentemente con il film "Rush". Nel 1985 l’addio alle corse, improvviso. Lauda sorprese Ecclestone, che non se l’aspettava. A conferma che era più istintivo di quel che la gente pensasse. Gli hanno sempre chiesto dell’incidente, della paura di tornare alla guida: Lauda non evitò le risposte: “Paura? Sì, ma durò qualche attimo. Sapete, la malattia non la puoi influenzare, ne prendi atto e stop. Invece è la paura della malattia che ti allarma inutilmente”. Giurò di non aver avuto paura neppure quando dovette subire i primi due trapianti della sua vita: «Due trapianti di reni, da mio fratello Florian e da mia moglie Birgit. Credetti ai medici, e sono tornato alla vita”. La Mercedes lo ha voluto accanto, e lui li ha ripagati, portandogli in dote quel Lewis Hamilton che ha riportato in auge la casa tedesca in F1. Ci siamo abituati alle sue intemerate nel paddock, nei suoi giudizi senza paura della polemica. Oggi la Formula Uno è più povera, e non soltanto la Formula Uno.

"Macchina di m...": il genio di Lauda nella strategia dei team di F1. Non è stato solo un grande campione del volante, ma un eccelso stratega: lui dietro la rinascita Ferrari con Schumacher e sempre lui dietro il dominio Mercedes. Parlava in modo brutale, ma aveva sempre ragione. Follie, curiosità e aneddoti della leggenda di F1. Vincenzo Borgomeo il 21 maggio 2019 su La Repubblica. “Che ti ha detto Niki? Anzi no, non lo voglio sapere, ma sappi che qualsiasi cosa dice noi lo smentiamo”. Questo ci disse anni fa il capo delle relazioni esterne della Ferrari nel paddock di Hockenheim. Censura? Assolutamente no: sopravvivenza. Gestire i rapporti con l’incontrollabile Lauda era pura follia. Già perché l’austriaco nel ruolo di “collaboratore sportivo” seminava il panico nel team di Maranello. Una sorta di picconatore che devastava qualsiasi politica aziendale. Motivo? Niki diceva sempre la verità, sempre quello che pensava. E parlare con lui era spiazzante perché era capace di dire le cose più incredibili con una naturalezza inaudita. Ma era questa la sua grande forza: portava trasparenza. E sapeva come far vincere un team di F1. C’è lui dietro il primo ritorno a “riveder le stelle” delle Rosse,  nel ‘75 quando entra a pieno nella squadra e anche nel cuore di Enzo Ferrari, che lo tratta come uno di famiglia. In forte sintonia con il Manager della Scuderia, Luca di Montezemolo, Lauda riporta la furia a Maranello, diventando Campione del Mondo per la prima volta e soprattutto riportando a Maranello il Titolo Costruttori dopo 11 anni di astinenza. E c’è sempre lui nella rinascita – anzi resurrezione – Ferrari dell’epoca Schumacher quando nel 1992 Montezemolo lo riporta alla Ferrari come "collaboratore Sportivo". Non basta. C’è ancora Niki nei trionfi Mercedes: nel settembre 2012 è stato nominato presidente onorario non esecutivo della scuderia motoristica Mercedes AMG F1,  della quale detiene anche una partecipazione azionaria (10%). Ed è incredibilmente sempre lui, nel 2013, a volere Hamilton in squadra e poi a dettare gran parte delle scelte strategiche. Insomma un genio. Ingestibile, ma un genio, anche senza volante in mano. Pochi conoscono le gesta di Lauda “non pilota”, ma è proprio questa la sua grande forza: capire prima degli altri cosa succede in un team. Successe lo stesso quando nella famosa intervista al Pais disse nel 2005 “che la Ferrari non vinceva perché aveva una macchina di merda”: una marea di polemiche, accuse di ingratitudini e poi le scusa in mondovisione di Lauda: “Ho chiamato il presidente Montezemolo, ho sbagliato, gli ho chiesto scusa. Sono arrivato lungo in frenata. Può succedere: non dovevo proprio usare quella parola". In realtà ancora una volta Lauda aveva ragione. E di fatto – ok in un modo un po’ colorito – consigliava il team di Maranello di concentrarsi sullo sviluppo della macchina, non sull’organizzazione del team… Nato a Vienna, Niki Lauda è in ogni caso la prova di come con un grande talento sia possibile sopperire alla cronica mancanza di quattrini. Già perché pur essendo benestante, polverizzò tutto il patrimonio per poter correre e cominciò più volte dal nulla. Racimolando soldi con i premi nella categorie minori. Viveva in un micro appartamento e aveva come ufficio uno sgabuzzino gestito da un suo amico-manager che curava sponsor e premi di gara. Vivevano nel mito della F1 importante, così ogni mattina si salutavano così: “Ha chiamato Montezemolo?” e giù risate. Poi la telefonata arriva davvero. Ma Niki non ci crede. E pensando che l’amico scherzasse, non risponde alla Ferrari per un’intera settimana, per la disperazione del suo team manager”. Dei mondiali con la Ferrari a inizio anni Settanta si è detto tutto. Ma pochi sanno che il lavoro di affinamento sulla 312 B3-74 è stato enorme: Lauda in questo si rivela fondamentale. E’ considerato anche oggi uno dei migliori piloti nella messa a punto dell’auto. Così sotto la sua direzione la macchina ha un passo accorciato per avere più maneggevolezza, radiatori laterali, una nuova distribuzione dei pesi e una meccanica raffinata in ogni dettaglio. Grazie a test di durata infiniti e alla sensibilità di Niki i risultati arrivano. E nel 1975 con la 312T (“T” sta per trasversale perché qui il cambio era appunto montato in questa posizione), la Ferrari dopo 11 anni torna in cattedra e si aggiudica il mondiale piloti e costruttori. Il motore è un tipo 015, 12 cilindri a 180 gradi, di 3000 cc da 495 Cv a 12.200 giri/minuto, mentre grazie al cambio trasversale la macchina è più corta e quindi più maneggevole. Fra le modifiche tecniche introdotte c’è anche l’affinamento dell’aerodinamica con spoiler più grandi e le nuove sospensioni. Ma anche tante piccole migliorie volute da Lauda che oltre ad essere un fulmine in gara ha anche una sensibilità mai vista prima nella difficile messa a punto della monoposto. I ricordi sportivi di Lauda sono però legati anche al tragico incidente in cui incappa il primo agosto del 1976 al Nurburgring. Il pilota austriaco si salva per miracolo, grazie anche all’intervento di un altro pilota: Arturo Merzario che in gara si ferma e lo tira letteralmente fuori dall’auto in fiamme. Un eroe. Ma Lauda deve anche la vita alla scocca rinforzata con tubi di acciaio (nessuna altra F1 allora le usava) che proteggevano un po’ il piccolo abitacolo ricavato da una leggerissima monoscocca di alluminio. Un peso in più che la 312T2 poteva sopportare grazie alla sua superiorità tecnica rispetto alla concorrenza. L’incidente di Lauda però segna il destino: la Ferrari vince sei delle prime nove gare. Poi dopo l’incidente di Lauda il team salta il Gp d'Austria e corre con un solo pilota (Regazzoni) al Gp d'Olanda. Lauda torna a Monza con un gesto eroico viste le cicatrici ancora aperte. Il resto è cronaca dei nostri giorni. Addio campione. Non avremo mai più qualcuno che ci dirà “macchina di merda” per sferzare un team e indicare in un solo colpo la direzione da prendere.

L'INCREDIBILE PALMARES DI NIKI LAUDA 

La sua carriera inizia con le auto Turismo, in cui corre fino al 1970 solo per racimolare quattrini e arrivare alla tanto sospirata F1.

1971 – F1, 1 gara (March), ritirato al Gp d’Austria. F2 (March), decimo nel campionato.

1972 – F1, 12 gare (March), 0 punti. In F2 vince la gara di Oulton Park, quinto in campionato.

1973 – F1, 15 gare (BRM), 2 punti.

1974 – F1, 15 gare (Ferrari), 38 punti, quarto nel mondiale.

1975 – F1, 14 gare (Ferrari), 64.5 punti, campione del mondo.

1976 – F1, 14 gare (Ferrari), 68 punti, secondo nel mondiale.

1977 - F1, 15 gare (Ferrari), 72 punti, campione del mondo.

1978 – F1, 16 gare (Parmalat Brabham), 44 punti, quarto.

1979 – F1, 14 gare (Parmalat Brabham), 4 punti.

1982 – F1, 15 gare (McLaren), 30 punti, quinto.

1983 – F1, 15 gare (McLaren), 12 punti, decimo.

1984 – F1, 16 gare (McLaren), 72 punti, campione del mondo.

1985 – F1, 15 gare (McLaren), 14 punti, decimo.

1992 – Consulente Ferrari F1.

2001 - Chief executive of Ford's Premier Automotive Group e consigliere del team Jaguar F1.

2002 – Lascia il mondo delle corse.

2012 - nominato presidente onorario non esecutivo della scuderia Mercedes AMG F1

Niki Lauda, il dolore di Luca Cordero di Montezemolo: "Ora c'è un enorme vuoto dentro di me". Libero Quotidiano 21 Maggio 2019. "Caro Niki, grande e vero amico da cinquant'anni, ti penso tanto e la tua scomparsa lascia un enorme vuoto dentro di me". È il commosso ricordo di Niki Lauda da parte dell’ex presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo. "Con te ho vissuto alcuni dei momenti più belli della mia vita, abbiamo condiviso tante indimenticabili vittorie della Ferrari e siamo sempre stati uniti da grande affetto, anche quando ci siamo trovati a competere in campi avversi", continua Montezemolo. "Sei stato un grande Campione, un Campione del Mondo in pista e fuori, un amico sincero, un uomo diretto e leale". "Sono vicino con grande affetto ai tuoi figli e a tua moglie e invito tutti i nostri tifosi a rivolgere un ultimo grande applauso a te, indimenticabile Campione", conclude.

È morto a 70 anni Niki Lauda: fu una leggenda della Formula 1. Niki Lauda, tre volte campione di Formula 1, imprenditore e dirigente sportivo, si è spento oggi dopo aver lottato a lungo tra la vita e la morte. Francesco Curridori, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. Tre volte campione di Formula 1, imprenditore e dirigente sportivo. Andreas Nikolaus Lauda, detto Niki, rimarrà nel ricordo degli appassionati come “il computer”, il pilota capace di individuare con rapidità anche i più impercettibili problemi di un’auto da corsa. E' morto nella notte tra il 19 e il 20 maggio dopo che lo scorso agosto era stato sottoposto a un trapianto di polmone.

Campione in pista e manager...L'annuncio è arrivato direttamente dalla famiglia: "Con profonda tristezza, annunciamo che il nostro amato Niki è morto pacificamente con la sua famiglia lunedì scorso", si legge sul The Sun.

Niki Lauda, le difficoltà degli esordi. Niki Lauda nasce nel ’49 da una famiglia di banchieri viennesi che disapprovano la sua passione per l’automobilismo ma, nonostante le difficoltà iniziali, a 15 anni compra la sua prima VW Cabrio. Nel 1968, conseguito il diploma, lascia gli studi e corre la sua prima gara con una Mini Cooper S, a Mühllacken in Austria. Dopo una breve gavetta trascorsa prima in Formula 3 e, poi, in Formula 2, nel 1971 approda in Formula 1 con la scuderia March. È un periodo difficile per Niki che, oberato di debiti, pensa persino al suicidio. "Avevo circa duecento milioni di debiti, la carriera andava male, tutto girava storto, con la March avevo avuto noie. In un gran premio, dopo una giunzione a T, c’era un muro molto solido. Bastava che io premessi l'acceleratore per andare dritto contro il muro a tutta velocità. Tutti avrebbero pensato ad un incidente, invece sarebbe stato un vero e proprio suicidio premeditato. Poi all'ultimo momento riconobbi che ammazzarmi non sarebbe servito a niente, scalai la marcia, alzai il piede e... terminai la corsa decidendo di dedicarmi all'automobilismo sul serio", racconterà nel libro-intervista “All' inferno e ritorno" scritto dal giornalista John Etleridge”.

Il passaggio alla Ferrari e l'incidente di Nürburgring. Nel 1974 arriva la svolta: Lauda viene ingaggiato dalla Ferrari, fortemente voluto da Clay Regazzoni che era stato suo compagno di scuderia l’anno prima con la BRM. Al primo anno in Ferrari vince due gran Premi (Spagna e Olanda) e arriva quarto nella classifica piloti. Nel 1975 riporta il cavallino rampante alla vittoria di un titolo mondiale che mancava dal 1964. “Rispetto agli altri team di F1 la casa di Maranello sembrava la Nasa, con quella pista pazzesca controllata centimetro per centimetro dalla Tv a circuito chiuso che consentiva a Enzo Ferrari (grazie a 10 telecamere fisse) di osservare, registrare e rivedere mille volte il comportamento di pilota e macchina in ogni metro della pista rimanendo comodamente seduto in poltrona”, racconterà. Nel 1976 Lauda si sposa con Marlene Knaus che darà alla luce due figli (Lucas e Mathias) che gli resterà accanto dopo il tragico incidente di Nürburgring. La sua monoposto prende fuoco, viene salvato per miracolo ma il suo volto resta sfigurato per sempre. Si riprende in fretta, grazie anche al sostegno dell’amico Regazzoni: “Il gusto della vita – dirà - l'ho imparato proprio da Clay, e dopo il mio incidente il suo insegnamento è stato ancora più prezioso. Perché se c'era un talento di Clay superiore agli altri questo era il suo pensare positivo”. Dopo appena 42 giorni dall’incidente il campione austriaco torna al volante e arriva quarto al Gran Premio di Monza.

La rivalità con James Hunt e il primo ritiro dalle corse. A vincere la stagione è il rivale di sempre, James Hunt con la McLaren, ma con un solo punto di vantaggio da Lauda che chiude al secondo posto. All’accesa rivalità dei due piloti il regista Ron Howard, nel 2003, ha dedicato il film di successo "Rush". In realtà Hunt e Lauda si sono sempre stimati reciprocamente, nonostante le enormi differenze caratteriali: irruento e anticonformista il primo, freddo, perfezionista e riservato il secondo. "Abbiamo fatto sì che la nostra amicizia non venga mai danneggiata dal nostro rapporto professionale”, dirà Lauda. Nel 1977, a poche gare dalla conquista del secondo titolo piloti, il pilota austriaco annuncia a sorpresa il suo addio alla Ferrari. Correrà per due anni con la Brabham, prima di annunciare il suo ritiro dall’automobilismo per dedicarsi allo sviluppo della sua compagnia aerea, la Lauda Air che venderà soltanto nel 2000 all'Austrian Airlines.

La vittoria del terzo titolo iridato e gli ultimi anni di vita. Ma il suo ritiro è solo temporaneo perché nel 1982 torna in pista a bordo di una McLaren. Dovrà aspettare appena due anni per vincere per la terza e ultima volta un campionato del mondo di Formula 1, grazie a un misero mezzo punto di vantaggio su Alain Prost. L’anno successivo Lauda si ritira definitivamente con un curriculum di tutto rispetto: 171 Gran Premi disputati, 25 vinti, 24 pole position e altrettanti giri veloci. Nel ’91 divorzia dalla prima moglie e tra il ’92 e il ’97 opera come consulente per la Ferrari, mentre in seguito sarà direttore della Jaguar e, poi, presidente non esecutivo della scuderia Mercedes AMG F1. Nel 2008 sposa Birgit Wetzinger, una giovane hostess della seconda compagnia aerea, la Fly Niki. Lei non solo gli dona due figli gemelli, Max e Mia, ma anche un rene che va a sostituire quello donatogli nel ’97 dal fratello. Il 2 agosto 2018, per colpa di una infezione, subisce al General Hospital di Vienna un altro trapianto, stavolta al polmone.

Niki Lauda, campione in pista e manager vincente. All'inferno e ritorno, il terribile incidente di Lauda a Nurburgring. Era il 1 agosto 1976, il giorno del terribile incidente sulla pista di Nurburgring, corsa che cambiò per sempre la vita di Niki Lauda. Antonio Prisco, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. "Avrei preferito di gran lunga correre adesso in Formula Uno: mi sarei tenuto le orecchie e sarei molto più ricco", diceva sempre Niki Lauda quando ripensava a quel 1 agosto 1976 a Nurburgring. Impossibile pensare a Niki Lauda e non ricordare quel giorno tragico scolpito nella mente di tutti gli appassionati di Formula Uno. Correva l'anno 1976 e la stagione era iniziata splendidamente per la Ferrari e alla vigilia del Gp di Germania, sul pauroso tracciato del Nurburgring, Niki Lauda aveva già conquistato 61 punti in campionato, circa il doppio del suo più immediato inseguitore Jody Scheckter allora alla Tyrrell. La Nordschleife è un luogo che incute timore solo a guardarlo dall’esterno, l'inferno verde come l'aveva soprannominata Jackie Stewart, 23 km in cui distrarsi poteva risultare fatale. Il Gp ebbe il via con l’incertezza causata dalla pioggia che cadde poco prima della partenza, che indusse gli organizzatori di ripristinare le protezioni lungo la pista, probabilmente un segno del destino. Alla partenza Lauda si avvia male e si ritrova subito ottavo. Al secondo giro, a causa di alcune chiazze di umido sull’asfalto, insieme alla non ottimale temperatura delle gomme sbanda paurosamente, l’austriaco perde il controllo della macchina e va a sbattere violentemente contro un costone di roccia. La monoposto rimbalza in pista e si incendia perché all'epoca i serbatoi erano ancora pieni di benzina e in un attimo si scatena l'inferno. Pochi istanti dopo arrivano Harald Hertl e Brett Lunger che centrano in pieno la Rossa e la fanno carambolare ulteriormente sulla pista. I due ovviamente incolpevoli, scendono prontamente dalle loro vetture e cercano di estrarre Lauda dalle fiamme. Niki nell’urto ha perso anche il casco e il fuoco sprigionatosi lo sta letteralmente divorando. In quegli attimi drammatici arriva pure Merzario, che si ferma per prestare soccorso. Finalmente i tre riescono a tirarlo fuori dall’inferno e portarlo a bordo pista: l'incidente era avvenuto però nel punto più a nord del tracciato e perciò il più lontano dai box, particolare che fece ritardare ulteriormente l'arrivo dei soccorsi. Lauda venne trasferito presso una struttura specializzata a Mannheim dove arrivò con ustioni sulla maggior parte del corpo. Le parti più lese erano quelle esposte maggiormente al fuoco, soprattutto il viso tremendamente sfigurato con la perdita del casco nonostante il cappuccio ignifugo. Aveva respirato un’enorme quantità di vapori di benzina e si temeva il peggio. Però dopo le prime ore, incredibilmente si riprese e continuò a lottare fino ad uscirne più forte di prima. Spinto dalla voglia di rivincita su James Hunt il quale nel periodo in cui lui fu lontano dalle corse gli aveva recuperato quasi tutto lo svantaggio in campionato, Niki si presentò solo 40 giorni dopo quel terribile incidente per correre a Monza. Aveva un orecchio divorato dal fuoco, piaghe su tutto il volto e una palpebra che non chiudeva perfettamente e l’occhio destro che di conseguenza lacrimava copiosamente, ma fu un incredibile successo: Lauda concluse la corso al quarto posto. Ce l'aveva fatta, era riuscito a tornare alle corse, aveva stupito il mondo ancora una volta perchè come amava sempre dire: ''Preferisco avere un bel piede destro che un bel viso''.

Niki Lauda, le stagioni del trionfo (1975-1977-1984). Il pilota austriaco ha vinto tre Mondiali F1 intervallati dall'incidente del 1976. I primi due su Ferrari e l'ultimo su McLaren: le vittorie e i rivali da Hunt a Prost. Edoardo Frittoli 21 maggio 2019 su Panorama. Ripercorriamo la storia delle tre stagioni vittoriose di Niki Lauda, il leggendario pilota di Formula 1 scomparso all'età di 70 anni.

1975: Ferrari B3-74 e Ferrari 312 T. Erano vent'anni che la Ferrari non vinceva un mondiale costruttori. A rompere il digiuno ci pensò l'allora ventiseienne Niki Lauda al termine di una stagione strepitosa, con le perle indimenticabili come la vittoria di  Montecarlo. Lauda era alla sua seconda stagione con la scuderia di Maranello, dopo una stagione 1974 caratterizzata dallo scontro con Enzo Ferrari sulla competitività della macchina, situazione controbilanciata dall'ottimo rapporto con il compagno di squadra Clay Regazzoni, che fu determinante per l'ingaggio dell'austriaco che veniva dal team BRM. La stagione si concluse con la vittoria di Emerson Fittipaldi, che soffiò il titolo proprio a Regazzoni all'ultima gara. Lauda tuttavia fece intuire le proprie enormi potenzialità eguagliando lo svedese Ronnie Peterson nella conquista di ben 9 pole position. La svolta della stagione 74/75 avvenne alla terza gara quando Niki Lauda fu al volante della nuova e molto più competitiva monoposto di Maranello, la 312 T. Il primo successo arriva nel GP di Monaco l'11 maggio 1975. Sotto la pioggia battente, l'austriaco partì in pole position davanti a Tom Pryce su Shadow Ford. Una serie di piccoli incidenti agli inseguitori favoriscono Lauda che si trova davanti a Fittipaldi, mentre altri concorrenti (Carlos Pace e il compagno Regazzoni) saranno costretti al ritiro. L'ultimo brivido lo regala il circuito dell'olio della 312T che ha un improvviso calo di pressione che costrinse Niki a rallentare e a vedere Fittipaldi negli specchi. Poco dopo tagliava il traguardo del suo quarto podio. Seguiranno altri tre successi in Belgio, Svezia e Francia. L'ultima vittoria della stagione sul circuito statunitense di Watkins Glen, quando già Lauda era campione del mondo. Aveva già festeggiato davanti ai suoi tifosi dopo il terzo posto di Monza, che bastò per non essere più raggiunto dagli inseguitori.

1977- Ferrari 312 T2. Niki Lauda iniziò quella stagione trionfale con il volto sfigurato dal terribile incidente al Nurburgring del 1 agosto 1976, dal quale si riprese in soli 42 giorni tornando in pista con determinazione proporzionale al dolore delle ustioni sotto il casco. L'austriaco ebbe come nuovo compagno di scuderia Carlos Reutemann, che parve eclissare momentaneamente Lauda con i successi delle prime gare. Ma l'astro di Niki riprese a brillare nel Gran Premio del Sud Africa del 5 marzo 1977, purtroppo funestato dall'incidente costato la vita a Tom Pryce. Partito i seconda fila, l'austriaco passava subito secondo. Dopo 7 giri prendeva la testa superando James Hunt al settimo giro e mantenendo la testa della gara sotto la pioggia battente a 187 km/h di media. "Niki era tornato" come aveva pronosticato il grande rivale Hunt. Seguiranno 10 podi(tra cui due vittorie) e la certezza matematica del secondo titolo mondiale al Gp degli Stati Uniti del 2 ottobre 1977. Ancora una volta sotto il diluvio otteneva con il quarto posto dietro a Hunt, Andretti e Scheckter punti necessari senza rischiare nulla. Alla fine della stagione Lauda romperà definitivamente con la Ferrari, che lo sostituirà con la giovane promessa Gilles Villeneuve.

1984 - Mc Laren MP4/2. Dopo una stagione con la Brabham-Alfa Romeo e il ritiro tra il 1979 e il 1981, Niki Lauda approdò alla McLaren. Nella stagione 1984 ebbe come compagno di scuderia il francese Alain Prost. La McLaren MP4/2 con motore Porsche fu avvantaggiata dai consumi contenuti nella stagione in cui la FIA limitò a 220 litri i serbatoi delle monoposto, senza possibilità di rifornimento. Dopo un avvio rocambolesco, Lauda inanellò la bellezza di 5 podi consecutivi(2 vittorie e 3 seconde posizioni). Lauda trionfò per la prima volta davanti ai tifosi austriaci accorsi all'Osterreichring (oggi Red Bull Ring) davanti a Nelson Piquet e alla Ferrari di Michele Alboreto. Quando i giochi parevano ormai fatti, l'austriaco dovette fare i conti con la rimonta dell'astro nascente del compagno di squadra Alain Prost nella seconda metà della stagione. Il Mondiale si decise al primo gran premio della storia disputato in Portogallo il 21 ottobre 1984. Lauda il veterano è tenace e tiene testa a Mansell prima e Senna poi. Vincerà Alain Prost ma il secondo posto basterà a regalare il terzo titolo a Lauda, accolto ai box dall'affetto semplice di un abbraccio della moglie Marlene che dopo il rogo del Nurburgring aveva sofferto ad ogni giro di ogni gran premio. La signora Lauda dovrà resistere per una sola stagione ancora, fino al ritiro definitivo dell'austriaco volante alla fine del deludente mondiale 1985.

Il ricordo di Merzario: «Così salvai la vitaal mio amico-nemico». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019  Daniele Sparisci su Corriere.it. «Niki Lauda sarà ricordato almeno per cento anni. Come Ascari, Nuvolari, Jim Clark o Jochen Rindt. Lui apparteneva a quella generazione di campioni. Eravamo amici-nemici, gli volevo bene anche se era uno stronzo. Sì lo scriva, glielo avevo anche detto di persona. Non guardava in faccia nessuno, se c’erano in mezzo i suoi interessi lui tirava dritto». Parola di Arturo Merzario, il pilota che nel rogo del Nurburgring salvò la vita al campione austriaco tirandolo fuori dall’abitacolo. «Vidi una Ferrari uscire di pista e prendere fuoco, non sapevo se fosse quella di Niki o di Clay Regazzoni — racconta —,in quei momenti non hai tempo per riflettere, pensi solo a comportarti da uomo. Decisi di fermarmi, l’avrei fatto per chiunque». La scena era infernale, le cinture di sicurezza non si riuscivano a slacciare, c’erano le lamiere taglienti a rendere ancora più complesse le operazioni di soccorso. «Durante il militare, per ottenere un permesso di cinque giorni avevo frequentato un corso di pronto intervento. Gli praticai il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale. I medici in seguito dissero che quei due minuti furono fondamentali per la sua sopravvivenza. Io lì per lì non sapevo se ce l’avrebbe fatta oppure no, aveva respirato tutti quei fumi tossici che poi gli hanno complicato l’esistenza». Per un ringraziamento ufficiale da parte di Niki e un riavvicinamento fra i due che erano stati rivali in pista (e hanno giocato un po’ su questi litigi): «Merito di Bernie Ecclestone: in occasione del trentennale del Nurburgring senza spiegarmi il motivo mi portò in Germania su un volo privato. C’erano tutte le telecamere nel luogo dell’incidente. Se lo avessi saputo al 90% avrei detto di no. All’inizio ero un po’ sulle mie ma poi si è rotto il ghiaccio ed ero felice». E con Lauda iniziò un rapporto diverso: «L’ultima volta ci eravamo sentiti un mese fa, era molto provato. Mi mancherà tanto il mio amico-nemico».

Niki Lauda e quei due reni donati in famiglia. Gli amori di una vita: Marlene, Birgit e qualche sbandata. Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Daniele Dallera su Corriere.it. La famiglia ha sempre accompagnato la vita a 300 all’ora di Niki Lauda: ne ha avute due, ma il marito, il padre, negli ultimi anni il nonno Niki, ha sempre creduto nella sua gente. L’amore dei suoi gli ha salvato la vita due volte: due reni donati e trapiantati, il primo del fratello Florian, il secondo della moglie Birgit Wetzinger, sposata in seconde nozze. Malattie serie e gravi, una funzionalità renale ormai compromessa che ritrova la vita grazie alla generosità di chi gli vuole bene. Florian non ci pensa un attimo quando i medici gli presentano il quadro davvero allarmante, che sta consumando il fratello Niki. Poche parole tra i due, tanti invece gli esami clinici, genetici, compatibilità assicurata, intervento eseguito perfettamente, Niki ha il suo rene. Si torna a vivere, a lavorare più di prima, una compagnia aerea da condurre, grazie Florian. Anni dopo tocca alla donna amata, Birgit, donare il rene a Niki. Le condizioni peggiorano, c’è urgenza, Birgit, 30 anni meno di Niki, incontrata la prima volta su un volo della Lauda Air, lui imprenditore e pilota, lei hostess bellissima, si conoscono, si innamorano e si sposano. Due gemelli nel 2009, Mia e Max, e quel rene che la legherà per sempre al grande Niki. Poi arriverà il trapianto di quel polmone danneggiato da una infezione trascurata, ma questa è un’altra storia. Come quella bellissima storia d’amore con Marlene Knaus (discendente della famiglia che studiò e promosse il metodo Ogino Knaus), donna e moglie di Lauda atto primo. Per lei il giovane Niki lascia l’incantevole Mariella Reininghaus. Argomento chiuso: ora c’è la ricca Marlene. Sposata nel ‘76, quella ex modella, fotografa, conquistata dal fascino del campione: due figli, Lucas (1979) e Mathias (1981). Compagna rigorosa, dal carattere forte, personalità da vendere, tradita in una sbandata sentimentale dalla quale è nato Cristoph. Niki non era proprio un playboy, «meglio avere un bel piede che un bel viso» rispondeva a chi lo molestava sulle ferite di quel volto ustionato, mai sorretto dalla chirurgia estetica (lo stretto necessario), ma aveva un certo fascino. Gli piaceva raccontare quando aveva acquistato tutte le riviste e quei giornali che parlavano di quell’amore (chissà se vero) con la pilota Giovanna Amati. Presidiate le edicole dell’Austria, non riesce a coprire quelle spagnole e, maledizione, la moglie Marlene è a Ibiza in vacanza. Leggerà quelle copertine che creano scandalo. Il figlio avverte papà Niki: «...la mamma è molto arrabbiata». Cerca di riparare i danni mandando a Ibiza una squadra di operai e artigiani che nel giro di una giornata di lavoro costruiscono un campo da tennis in sintetico. Proprio quello che voleva Marlene. Vabbè, anche questa è andata. D’altronde era solo una scappatella, 2-3 foto su qualche giornale, niente più. Non passerà, invece quando nel ‘96 Marlene e Niki divorzieranno: titoli di coda su una grande storia d’amore.

ADDIO AL MITO. Claudio Rizza il 22 Maggio 2019 su Il Dubbio. Lauda, il campione nel mito: «Non l’ho mai lasciata da sola, nemmeno per un attimo, la mia Ferrari». Le confessioni di Niki, morto a 70 anni. Ingranaggi, pistoni due mogli, un’amante e cinque figli il campione è morto in svizzera otto mesi dopo in trapianto ai polmoni. Tanti uomini hanno il tarlo del sesso e lo accoppiano alla carriera e al potere, e da quel miscuglio non sai mai cosa ne può uscire. Soldi, notorietà, matrimoni, mogli e amanti, divorzi, figli e figliastri, felicità e tristezze, debiti e pensieri. Vite non normali, che la normalità mica esiste, ma diciamo esistenze comuni. Chi più chi meno, dentro e fuori dagli schemi. Niki Lauda era diverso. E’ quella diversità che spesso fa la differenza tra l’uomo capace di scrivere la sua storia e di renderla unica, e chi non svetta. Certo, essere freddi e calcolatori non sempre ti fa raggiungere vette di empatia, ma la determinazione quella sì può aiutare parecchio a dirigere la tua vita sul sentiero che cocciutamente hai scelto di percorrere. A sentirlo raccontare di sé uno psicologo avrebbe avuto pochi dubbi: «Le corse vengono prima del sesso», ha confessato il pilota che era in lui. «Sono stato con tante donne, nessuna mi ha fatto sbandare davvero. Ho sposato Marlene, bella ragazza, tipa in gamba, vi racconto la cerimonia: ho chiesto un’ora di permesso alla Ferrari, mi sono sposato, sono tornato al circuito. Stop. Io e Marlene siamo stati insieme 20 anni, due figli, un matrimonio tranquillo. Vabbè, mentre stavo con lei ho fatto un figlio con un’altra, ma l’ho riconosciuto, tutto in regola». «Per il mio secondo matrimonio ho fatto le cose in grande: la cerimonia in comune è durata quattro minuti». Pure la nostra, se è per questo, che la laicità è sbrigativa. Alla fine due mogli, un’amante, cinque figli di cui due gemelli. Di tanto scientifico cinismo, però, non c’è traccia nell’addio che ieri la famiglia Lauda ha consegnato ai media per salutare marito, papà e nonno Niki, «atleta e imprenditore indimenticabile», uomo d’azione, pieno di schiettezza e coraggio, «un modello e un punto di riferimento per tutti noi, era un marito amorevole e premuroso, un padre e nonno lontano dal pubblico, e ci mancherà». Morire a 70 anni quando sei già nella leggenda sembra quasi una diminutio, che le leggende per definizione sono oltre la morte. Otto mesi prima il trapianto del polmone aveva dato speranza, dopo quello del rene, donato prima dal fratello (ma rigettato) e poi dalla seconda moglie, nel 2005. Polmone e reni probabilmente compromessi in quel 1° agosto del lontano 1976, al Nurbungring, quando la Ferrari si incendiò e lui respirò fuoco, fumo, esalazioni di benzina e anche l’alito fetido della morte. Un miracolo lo salvò, insieme ad Arturo Merzario, avversario più che amico: lo tirò via dalle fiamme, il volto ustionato, tranne i suoi dentoni da coniglio. Quarantadue giorni dopo l’incidente tornò in pista al Gran Premio d’Italia, mentre sotto al casco le ferite ancora poco rimarginate continuavano a buttare sangue. Perse il mondiale per un solo punto, lasciandolo a quel lussurioso di James Hunt, e per un maxi diluvio. «Noi piloti siamo gente strana, nasciamo con questa febbre, questa smania addosso. Pensiamo solo alle corse, alle macchine. I motori non hanno un cervello, il pilota sì, non dimenticatevelo mai. Quando sei al volante, dipende tutto da te, perché sei solo. Tieni le chiappe salde sul sedile, tasta i tuoi limiti, devi sentire la velocità, possedere la macchina, averne il controllo. Stare ore con lei, a perfezionarla, curarla: sapete che sono pure un meccanico? Io li amo sul serio, questi bolidi, la mia macchina non la lasciavo mai sola, sulla pista e fuori». La sua vera moglie. Non si diventa tre volte campioni del mondo senza questo ardore e senza sfidare la famiglia. Era nato ricco. «Mio nonno era un banchiere, mio padre pure, e io a 15 anni volevo solo una cosa: sbancare la Formula Uno. Già lo sapevo, che sarei diventato il migliore, il più forte. I miei non erano d’accordo: mi dissero che se non finivo la scuola, prendevo una laurea e seguivo le loro orme, non avrei visto un centesimo. Sapete com’è andata a finire? Non m’hanno dato un soldo, ma sono diventato tre volte campione del mondo di Formula Uno». Così si è raccontato, parola più parola meno. Gli sarebbe piaciuto essere un pilota di oggi: avrebbe guadagnato di più, «soprattutto avrei ancora le mie orecchie». Per correre aveva chiesto soldi a tutti tranne che agli usurai, fatto debiti con le banche, assicurazioni sulla vita. «Quando ho firmato il contratto con la Ferrari, ero contento perché con quei soldi avrei ripianato i debiti. Ve lo confesso, per i debiti ho pensato quasi al suicidio: c’è stato un periodo dove tutto andava storto, guidavo catorci, non finivo le gare, per arrivare in Formula Uno ho fatto la gavetta più dura, un anno ho corso in due categorie diverse contemporaneamente. Conoscete qualcuno più fissato di me?». Soprannominato “il computer”, perché preciso, metodico, freddo, apparentemente senza emozioni. «Dopo l’incidente i medici mi davano per spacciato, un prete mi ha dato l’estrema unzione, ma sapete una cosa: mentre ero intubato, attaccato ai macchinari, io  “sentivo”. Ero cosciente, intorno a me invocavano un miracolo. Il Dio dei motori mi ha protetto. O forse è stata la mia ostinazione, la mia rabbia a farmi risvegliare». Lauda tornò in pista fregandosene del look. Usò la chirurgia estetica solo per rifarsi palpebre e sopracciglia per vedere meglio la pista. «Io non sono mai stato con una donna rifatta, mi fanno impressione. Adesso mi tocca sfidare un polmone nuovo, ma ho già avuto la meglio su due trapianti di reni: il primo me l’ha donato mio fratello, e l’ho rigettato, il secondo Birgit, una donna che mi ha salvato, e che ho sposato». Che siano state esattamente le sue parole non si sa. La leggenda sui media ingigantisce sempre aggettivi e frasi, sollecita le fantasie, dilata e celebra. Ma quello che è successo sta scritto nella storia di un pilota- meccanico ineguagliabile, che ha sfidato gli ingranaggi, i pistoni, il destino e ha vinto. 

Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 22 maggio 2019. Niki Lauda è un appuntamento rimandato con il destino, un conto alla rovescia, una clessidra girata dal dio dei motori. Niki è una lunga e tragica e meravigliosa corsa contro il cronometro della vita durata 43 anni. Niki è un traguardo ogni volta spostato più in là nel tempo, è una bandiera a scacchi riavvolta un' infinità di volte, una commovente lezione di attaccamento alla vita. Niki non c' è più. Per i nuovi e vecchi amanti di questo sport caldo come la passione e freddo come la morte, la scomparsa di Niki Lauda rappresenta la fine di un' epoca e l' inizio di un' altra. Perché come fu prima e dopo Enzo Ferrari ora sarà prima e dopo Niki Lauda. Uno è stato il grande visionario e agitatore di uomini che ha indicato la via al motorsport, l' altro il pilota che più di tutti ha sdoganato il Circus fra il grande pubblico. Perché se Nuvolari e Fangio si perdono nella notte dei tempi, Niki Lauda ha invece corso e accelerato dentro le nostre case; e poco importa se nei panni dell' amico o del nemico. Ricordiamo Gilles, morto prima del tempo. Celebriamo ad ogni ricorrenza comandata Ayrton Senna, morto prima del tempo. Oggi onoriamo Niki Lauda che non c' è più, ma al contrario di tutti gli altri campioni, stiamo aggiungendo omaggio ad omaggi già esistenti: Niki è infatti l' unico pilota ad essere stato celebrato in vita, persino da un film, persino da Hollywood. Succede perché Lauda non è solo un tre volte campione del mondo, non è solo il pilota che riportò i titoli mondiali alla Ferrari dopo un lungo digiuno, l' uomo computer che «le monoposto si guidano con il sedere», l' uomo che regalò le ultime vittorie all' Alfa Romeo, l' uomo che se ne andò per fondare un' azienda e poi tornare anni dopo, resuscitando la McLaren decaduta e riuscendo in ciò che nessuno era mai stato capace di fare: rivincere un mondiale dopo aver appeso il casco al chiodo. Tanto meno Lauda è solo il rampollo di una famiglia di ricchi viennesi costretto a indebitarsi dopo il no del nonno capofamiglia che gli aveva dichiarato guerra dicendogli «un Lauda deve diventare famoso con l' economia e la politica non certo con le corse e i motori...». E neppure è il campione ventisettenne rimasto sfigurato sei mesi dopo il matrimonio, o l' imprenditore dei cieli con le sue compagnie aeree o, in ultimo, il presidente onorario della Mercedes che da anni prende a schiaffi la Rossa e tutti gli altri. Niki è molto di più: è un esempio di attaccamento alla vita, al dovere e alla coerenza. Valori che messi insieme sono in grado di spingere ognuno di noi a realizzare cose grandi. Solo che difficilmente si riesce a tenerli ostinatamente uno accanto all' altro, a non tradirli. Lui ci è riuscito. Senza mai fermarsi e pagando sempre il dovuto. Voglia di vivere, dovere, coerenza. Un insegnamento valido per grandi e piccini, da spiegare a scuola, da usare per formare manager e imprenditori, da inculcare nella testa di chi si perde via, dei giovani troppo comodi, degli adulti che si siedono, degli anziani che si abbandonano. Niki lezione per tutti. Per chi nasce povero e per chi, proprio come lui, nasce ricco; di più, straricco, e si trova la via già tracciata dalla famiglia e però sbatte la porta per disegnare la propria di strada, inseguendo un sogno. Niki esempio perché senza attaccamento alla vita ci si spegne, Niki con i polmoni bruciati, Niki con due reni trapiantati, Niki duecento giorni l' anno in giro per il mondo, Niki due matrimoni, cinque figli e nipoti, Niki che in cinquant' anni ha vinto mondiali, regalato imprese, fondato aziende e dato posti di lavoro e che, giunto all' età della pensione, si è ritrovato al comando onorario, ma pur sempre comando, della più vincente squadra della F1 moderna: la Mercedes. Niki che pochi mesi fa, da un letto d' ospedale, dopo aver subito un trapianto di polmoni, come sempre attaccato disperatamente alla vita e come sempre suddito del dovere, ha seguito e orientato la cessione della sua compagnia e di mille posti di lavoro alla RyanAir. Niki appeso alla vita da 43 anni, da quel giorno scuro e bagnato del Nurbürgring, primo agosto 1976, quando perse il controllo della sua Ferrari 312 T2. Appeso alla vita come un disperato al parapetto di un balcone, guardando quella clessidra girata dal destino, quando il mondo e la Ferrari prima lo diedero morto e poi se lo ritrovarono mostro. «Mi ripresentai a Monza e avvertii perplessità» avrebbe rivelato poi, «come se tutti, anche il Commendatore, non sapessero che farsene di me... Forse spaventavo la gente con il mio viso? Forse potevo nuocere perché l' incidente mi era rimasto così impresso in faccia?». Da quel giorno Lauda ha solo lottato, disperatamente e silenziosamente appeso alla vita ridonata da un fisico forte, fu il primo pilota a introdurre gli allenamenti nelle corse, e dal manipolo di eroi, su tutti il nostro Arturo Merzario, che l' avevano estratto dall' abitacolo in fiamme. Il mondo che guardava a lui come il grande campione tornato sfigurato alle corse un mese dopo l' incidente, quel mondo non sapeva che le ferite sul volto erano nulla a confronto di quelle subdole e nascoste lasciate su polmoni e reni dai gas respirati in quei terribili minuti. Niki appeso alla vita cercando di sdrammatizzarla, come se il poveretto avvinghiato al balcone che cerca di non precipitare avesse anche la forza di scherzare. Parlando del primo trapianto di reni, quando ricevette l' organo dal fratello Florian, raccontò della telefonata fra loro, «lo chiamai e gli dissi sì, lo so, è un po' di tempo che non ci sentiamo, senti, volevo dirti, ho bisogno di un tuo rene...». Il secondo gli fu donato una decina d' anni fa dalla seconda moglie, Birgit, giovane hostess impiegata nella sua ultima compagnia aerea, la Fly Niki. Niki e il senso del dovere, esempio di dedizione alle proprie passioni diventate lavoro. Niki maniaco della preparazione, delle prove, dei test, dei dettagli, talmente ossessionato dalla ricerca della perfezione da abituare troppo bene persino la Ferrari, persino Enzo Ferrari in persona. Pochi giorni prima dell' incidente, era fine luglio 1976, il Drake aveva manifestato il proprio malumore, era convinto che Lauda venisse malvolentieri a Maranello per i collaudi, preso com' era dal matrimonio con Marlene, avvenuto in primavera, e dalla passione per il volo. Non era così, l' austriaco vinceva, era in vetta al mondiale, era innamorato, studiava progetti, semplicemente stava respirando e aveva tutto sotto controllo; non era il reset dell' uomo computer, solo uno stand by lungo un battito. Attaccamento alla vita, senso del dovere e poi coerenza. Splendida, coraggiosa, cocciuta coerenza architrave della sua esistenza. Nel '68, per esempio, a neppure vent' anni, quando si indebita pur di non darla vinta al nonno che lo ostacola, quando decide che non c' è sgarbo più grave fatto da un giovane Lauda a un vecchio Lauda di non presenziare più alla solenne festa di Natale; e con quei soldi comincia a correre «tanto, poi, con i primi guadagni, avrei restituito tutto alla banca che mi aveva dato fiducia...». Coerente a fine '73, quando non è ancora nessuno, quando il suo curriculum è fatto solo di 25 magici giri a Monte Carlo al volante della BRM con i quali ha però stregato Enzo Ferrari. Niki arriva all' aeroporto di Linate, ad attenderlo c' è Luca di Montezemolo, direttore sportivo, sono coetanei, fra i due nascerà un' amicizia lunga una vita. Montezemolo ha il contratto in mano, non c' è Ferrari e Drake e mito che tenga, Niki gli dice «voglio questo», lo scrive in scellini, allora guardano insieme il cambio sul Sole 24 Ore, «ed è una grossa cifra, va oltre il previsto» riflette il giovane Montezemolo prima di rischiare e accettarla a nome del Commendatore. Lauda coerente a costo di rinunciare a un mondiale. Perché non fu solo la paura a fargli alzare il piede nel diluvio del Fuji '76, regalando il titolo a James Hunt e avvolgendo per sempre quel finale nel mistero. Così come non fu solo colpa di patti disattesi fra piloti. Fu anche e, forse, non si saprà mai, un calcolo, un regolamento di conti, la certezza proprio come con la cena di Natale del nonno, che c' era solo un modo per rispondere e colpire al cuore la Ferrari e il fondatore che subito dopo il rogo del Nurburgring, mentre era in ospedale, aveva fatto contattare altri piloti per sostituirlo: tornare al più presto, dopo un mese, con le piaghe ancora sanguinanti, difendere la leadership mondiale e poi regalarla ad altri. Tanto avrebbe rivinto il titolo l' anno dopo. Ne era certo. E così fu. Coerente fino all' ultimo.

·         È morta Doris Day.

È morta Doris Day,  la «fidanzata d’America» che stregò Hitchcock. Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Maurizio Porro su Corriere.it. Doris Day, icona Usa del XX secolo , è scomparsa a 97 anni, per una polmonite. Fu la biondina americana a frangetta petulante, piena di bambini scatenati che le danno la manina ed eternamente col sacchetto della spesa in braccio, che passò 40 anni di carriera ad evitare che i suoi partner, da Rock Hudson a James Garner, da Cary Grant a Clark Gable, perfino loro, entrassero nel suo letto a far danni. Era definita la «vergine di professione». Solo James Stewart, dottore in vacanza a Marrakesh, e David Niven, un arcigno critico teatrale, avevano i loro bravi diritti coniugali: Day, intoccabile di professione, perfino oltre il pudico codice Hays, aveva generato diaboliche battute: «Io la conoscevo prima che diventasse vergine» disse il pianista Oscar Levant. Così, ad ogni approccio amoroso lo schermo si divideva in due, secondo lo split screen e Doris e i suoi pretendenti, sia fossero a letto sia in schiumose vasche da bagno, erano confinanti in due diverse inquadrature, come il telefono duplex nel «Letto racconta» di Gordon in cui Hudson si finge gay. Anche se all’anagrafe, per via dell’origine tedesca, faceva Doris Mary Ann von Kappelhoff e cambiò cognome solo dopo il successo della canzone «Day by day”, Doris fu la beniamina e la fidanzatina d’America anni 50, la anti Marilyn, la segretaria che si incontra all’ascensore degli uffici, quella che pur di non “farlo” si faceva venire l’eczema, come nel molto divertente nuovayorkese Il visone sulla pelle” di Mann. A lei, alla sua improntitudine puritana, si deve una carriera improntata al family way of life, all’epoca dei “Mad men” della pubblicità, anche se in realtà la diva ebbe quattro mariti con due pessime esperienze manesche e truffaldine, per finire la carriera matrimoniale col produttore Marty Melcher, alla cui morte si ritirò dal cinema per darsi solo agli animali, e Barry Comden. Per quattro anni, nei primi anni 60, battendo le colleghe, fu al top del successo occupando, caso raro, due categorie: discografica e cinematografica. Attrice, certo, di adorabili commedie sul sesso mancato ma freudianamente desiderato; e cantante, per cui vinse due Oscar con “Secret love” da “Non sparare, baciami” e “Que sera sera” con cui salva, dopo il famoso colpo di piatti, il suo piccino che fischia nel capolavoro di Hitchcock “L’uomo che sapeva troppo”, oltre alla bella interpretazione della vera cantante Ruth Etting in “Amami o lasciami” col gangster James Cagney e alla canzone in cui consiglia “Don’t eat the noises”. Nella categoria di attrice ebbe la nomination per “Il letto racconta”, primo capitolo di una trilogia a schermaglia con Rock Hudson macho impenitente: la statuetta gliela soffiò la sexy francese Simone Signoret, ma il pubblico era tutto con lei, specie le donne, specie le zitelle e le malmaritate. Se non avesse avuto da piccola un incidente d’auto, Doris Day sarebbe diventata grande ballerina come Vera Ellen o Cyd Charisse, mentre la sua carriera si sviluppò con doti di commediante, prototipo di donna pudica, melensa, perennemente in tailleur, mammina cara, americanissima in un finto concetto di femminismo (“Fammi posto tesoro”, giornalista in “Dieci in amore”, “Non mandarmi fiori” di Jewison, “Non disturbare”) prendendosi solo qualche azzeccata vacanza thriller. Dopo il trionfo del film di Hitchcock infatti la vollero in altri due titoli a suspense, “Merletto di mezzanotte” di Miller con Rex Harrison e John Gavin, minacciata dal classico rantolo al telefono; e “La mia spia di mezzanotte”. Qualcuno la fece perfino morire assassinata in uno strano film del ’50 sul Ku Klux Klan. Ma il terreno fertile di miss Day fu la spensieratezza della commedia musicale e almeno due titoli sono indimenticabili: “Non sparare, baciami”, la storia western di Calamity Jane e “Il gioco del pigiama” di Donen e Abbott, su Babe, sindacalista di una fabbrica di pigiama che si mette prima contro e poi col padrone, soggetto inusuale per un musical, coreografie al top di Bob Fosse. Oggi i giovani non la ricordano Doris Day, bisogna fischiettare que sera sera whatever will be will be, the future isn’t allowed tio se….. Il finale di carriera, che precede un crollo nervoso e troppi anni di silenziosa terza età vegetariana e animalista a Carmel Valley, in California, dove fu sindaco Eastwood, la vedono impegnata nelle più sorridenti occasioni autobiografiche, il libro della sua vita by her own e il Doris Day show alla tv col sorriso stampato nel fulgore della vita ad happy end in cinemascope colore de Luxe.

È morta Doris Day, star di Hollywood: era considerata la "fidanzata d'America". L'attrice e cantante americana, uno dei simboli del cinema degli anni d'oro, aveva da poco compiuto 97 anni. La scomparsa è stata annunciata dalla sua fondazione. Nella sua lunga carriera ha vinto un Golden Globe e un Grammy Award per la sua attività musicale. La Repubblica il 13 maggio 2019. Per la cronaca era il suo il viso ideale, perfetto e naturalmente rassicurante. Era lei 'la fidanzata d'America', ambita da tutti, elegante e naturalmente simpatica. Ora quella stessa America che l'ha incoronata come la sua donna-simbolo deve dirle addio. Così è morta Doris Day, 97 anni compiuti lo scorso 3 aprile, con un annuncio della sua fondazione. Con all'attivo 39 film e oltre 75 ore di programmi televisivi, in aggiunta alla registrazione di più di 650 canzoni, la carriera di Doris Mary Anne Kappelhoff, nata a Evanston, un sobborgo di Cincinnati, in Ohio, figlia di Alma Sophia Welz, casalinga, e William Wilhelm Kappelhoff, insegnante di musica e maestro del coro, figli di immigrati tedeschi, profughi dalla Germania del primo dopoguerra, era considerata una delle ultime grandi star di Hollywood, nome imprescindibile tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I genitori, grandi amanti del cinema, le scelsero il nome - Doris - come omaggio all’attrice Doris Kenyon, star dei film muti. C'è un film che l'ha consegnata alla storia, L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock, del 1956, dove Day divide il set con 'il marito' James Stewart per il film di spionaggio - remake a colori dell'omonimo film del 1934 diretto dallo stesso Hitchcock - che incollò il mondo allo schermo. E, poi, la commedia romantica Il tunnel dell’amore, diretto da Gene Kelly nel 1958 seguito, qualche anno dopo, da Il visone sulla pelle di Delbert Mann (1962), con Cary Grant. Il personaggio, invece, che rimase nella storia, fu quello di Calamity Jane, l'avventuriera del Vecchio West realmente esistita che Day interpretò in Non sparare, baciami!, lungometraggio di David Butler del 1953. Già negli anni Quaranta, però, Day era già famosa: come cantante, carriera a cui mirò seguendo la sua passione adolescenziale per la danza classica e, poi, per il tip tap, carriera che fu suo malgrado costretta ad abbandonare dopo un incidente d'auto. Non visse una adolescenza semplice: oltre a vedere spezzato il suo sogno di ballerina, dovette anche affrontare la morte del fratello maggiore e, inseguito, la separazione dei genitori. Sul grande schermo debuttò nel 1947: messa sotto contratto dalla Warner Bros., il suo primo film fu, l'anno successivo, la commedia musicale diretta da Michael Curtiz e Busby Berkeley, Amore sotto coperta. Il suo partner cinematografico, che ricorderà sempre affettuosamente anche dopo la morte, fu Rock Hudson, con il quale formò una delle coppie d'oro di Hollywood. L'Oscar le arrivò come miglior attrice protagonista proprio per un film con il suo sodale Hudson, Il letto racconta di Michael Gordon (1959) mentre in ambito musicale ha ottenuto il Grammy alla carriera nel 2011, in occasione della pubblicazione del 20esimo album in studio, My Heart. La metà degli anni Sessanta coincide con un progressivo allontanamento dal cinema per dedicarsi alla tv, in particolare alla fortunata The Doris Day Show, serie tv (o meglio, sit com) ante litteram in 128 episodi trasmessi dal 1968 al 1973. Sposata per ben quattro volte, repubblicana e vegetariana convinta, in anni recenti Day si era ritirata in un ranch nella paradisiaca cittadina di Carmel-by-the-Sea, vicino a Monterey, in California, circondata dalla natura, dalla storia e affacciata sul mare. Lì viveva in compagnia di numerosi animali da compagnia, adottandone e accudendone numerosi randagi. A 97, la vecchiaia non la spaventava. L'unica sua paura, ben oltre la mezza età, era una soltanto: "Sapere che è da lì che ci si inizia a sviluppare".

·         È morto Gianluigi Gabetti. storico manager Fiat.

È morto Gianluigi Gabetti, addio allo storico manager Fiat: una vita accanto a Gianni Agnelli. Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Si è spento nella notte, a Milano, Gianluigi Gabetti, storico collaboratore dell'avvocato Gianni Agnelli. Aveva 94 anni. Ad annunciarlo è la famiglia. I funerali si svolgeranno in forma privata, mentre a breve sarà resa nota la data della messa di Trigesima pubblica, che si svolgerà presso la chiesa della Consolata di Torino. Con la morte di Gianluigi Gabetti, storico braccio destro dell'Avvocato Gianni Agnelli, si è chiusa un'era del Lingotto di Torino. Gabetti era nato nel capoluogo piemontese il 29 agosto 1924. Laureato in legge presso l'Università torinese, entrò alla sede cittadina della Banca Commerciale Italiana, raggiungendo il grado di vice direttore. Passato successivamente alla Olivetti, nel 1965 fu eletto presidente della Olivetti Corporation of America. Negli Stati Uniti conobbe l'Avvocato Agnelli che, avendolo notato per il suo ruolo in Olivetti, una domenica mattina lo chiamò al telefono per chiedergli di accompagnarlo a visitare il Moma; immediatamente gli propose di diventare direttore generale dell'Ifi (Istituto finanziario industriale). Gabetti ebbe un giorno per pensarci e accettò e nell'ottobre 1971 venne nominato direttore generale dell'Ifi, del quale divenne anche amministratore delegato nel marzo 1972. Gabetti fu, inoltre, vice presidente della Fiat dal novembre 1993 al giugno 1999. Negli anni all'Ifi e all'Ifint fu regista di operazioni di grande rilevanza: insieme con Cuccia, nel dicembre del 1976, concluse l'accordo che portò i libici della Libyan Arab Foreign Investment Co (Lafico) a sottoscrivere un aumento di capitale della Fiat, versando 415 milioni di dollari ed acquisendo il 9,7% delle azioni ordinarie. Ancora Gabetti, dieci anni dopo, nel settembre 1986, riacquistò tramite l'Ifil 90 milioni di azioni Fiat ordinarie dalla Lafico, con un esborso di circa 1 miliardo di dollari, portando a poco meno del 40% la partecipazione di Gruppo al capitale ordinario Fiat. A metà degli anni '90 Gabetti lasciò l'Italia per dedicarsi ad investimenti internazionali del Gruppo attraverso l'Exor (ex Ifint) con sede a Ginevra. Lasciate le cariche per limiti di età e ritiratosi a Ginevra nel 1999, rientrò dopo poco a Torino a causa della malattia dell'Avvocato Agnelli. Alla morte dell'Avvocato, Umberto Agnelli divenne presidente della Fiat e chiese a Gabetti di tornare in servizio affidandogli la presidenza dell'Ifil. Da presidente, Gabetti si occupò del riassetto del Gruppo nel 2003 e dell'aumento di capitale a cascata di Ga, Ifi, Ifil e Fiat che portò 1,8 miliardi di euro. Nel 2004, scomparso Umberto Agnelli, Gabetti divenne presidente della Giovanni Agnelli e C. Sapaz, presidente dell'Ifi e dell'Ifil diventando il punto di riferimento della famiglia. Quando Morchio si propose per diventare presidente di Fiat, fu proprio Gabetti, in un week-end, dopo un consulto con le sorelle dell'Avvocato e la Famiglia Agnelli, a trovare la soluzione per il vertice del Gruppo: Luca Cordero di Montezemolo presidente. Poche ore dopo, John Elkann incontrò a Ginevra Sergio Marchionne (all'epoca amministratore delegato di Sgs), che il 1 giugno divenne amministratore delegato della Fiat. Nel 2005 Gabetti diede mandato all'avvocato Franzo Grande Stevens di studiare una soluzione che permettesse alla Famiglia Agnelli di mantenere il controllo sulla Fiat. Tra le soluzioni verificate da Grande Stevens, fu approfondita quella della conversione in azioni dell'equity swap sottoscritto nella primavera del 2005 da Exor, quanto il valore dei titoli Fiat aveva raggiunto valori particolarmente bassi (sotto il valore nominale, pari a 5euro). Nell'aprile del 2007 John Elkann, l'erede designato dall'Avvocato, gli succedette alla presidenza dell'Ifi. Appassionato di arte e di musica, è stato Life Trustee del Museum of Modern Art of New York, presidente del Lingotto Musica e Socio del Fai.

Gigi Moncalvo per “la Verità”  il 15 maggio 2019. Si è spento senza soffrire. Un arresto polmonare poco dopo mezzanotte. Accanto a lui solo la fedele badante filippina, Espie. Gianluigi Gabetti, il «Gran Ciambellano», il «Richelieu», uno dei «grandi vecchi» della finanza non solo italiana, il custode dei più grandi (e, soprattutto, dei più inconfessabili) segreti prima di Gianni Agnelli e poi di Marella, il detentore delle chiavi delle casseforti con i «tesori» nascosti all' estero prima dal «sovrano» e poi, forse, dalla (ex) royal family, è morto a Milano all' Ospedale San Raffaele, nella camera 604 della divisione D. Ad agosto avrebbe compiuto 95 anni. Era stato trattenuto dai medici mercoledì scorso dopo l' esito di alcuni esami. Qualche giorno prima era tornato a casa dopo un ricovero di una settimana. Soffriva di problemi cardiaci e respiratori. Qualche tempo fa Patrizia Presbitero, moglie dell' ex banchiere socialista Nerio Nesi e stimata cardiologa torinese dell' Humanitas a Milano, gli aveva diagnosticato un' ostruzione all' aorta. Al suo consiglio di intervenire chirurgicamente avevano detto no Alessandro e Cristina, i due figli di Gabetti: nonostante la bravura del medico, forse temevano che il padre non superasse l' operazione o avesse problemi per quel poco che gli restava da vivere. Astuto e furbo, prima che intelligente, soprattutto nel farsi gli affari suoi. Uomo dagli occhi di ghiaccio, abile, manipolatore, geniale nel volgere le situazioni a suo favore, privo di amici (l' unico forse è stato Aimone di Seyssel d' Aix, morto cinque anni fa), capace di penetrare nella mente altrui e di tenere in pugno perfino Gianni Agnelli, facendo credere al suo «principale» che era lui e solo lui a decidere ma in realtà affermando sempre il proprio volere, condizionando e influenzando l' Avvocato in modo incredibile, Gabetti negli ultimi tempi sembrava desideroso di raggiungere un solo obiettivo: attribuire a sé stesso tutti i meriti (la scelta di Sergio Marchionne, la salvezza del gruppo, il ruolo di comando e supremazia nella Famiglia, l'«incoronazione» di John Elkann) attribuendo a Gianni Agnelli un ruolo addirittura «secondario», e perfino dannoso per il business specie negli ultimi anni addossando a lui grandi responsabilità per la crisi Fiat e lo stato prefallimentare del Gruppo. Naturalmente metteva in secondo piano anche John, quasi lo ignorava. L' asprezza di rapporti tra John e Gabetti, ricambiata - anche se mascherata da atteggiamenti formalmente ossequiosi all' esterno - si era concretata in numerose occasioni. Ad esempio, nel far sì che Giordano Bruno Guerri, nella monumentale biografia sul nonno autorizzata e commissionata da John, scrivesse solo le tesi care a Gabetti, quelle che ne esaltavano il ruolo. John venne a sapere della «complicità» tra i due (si incontravano segretamente alle terme di Sirmione dove Gianluigi arrivava con la contessa Maria Perrone di San Martino), e quindi bloccò il libro impedendone l' uscita. Una sera a Murazzano in una cena lontana da orecchi indiscreti, Gabetti disse di John: «Recentemente mi ha regalato un Turner. Forse crede di comprarmi senza sapere che ho già centinaia di Turner alle pareti». Si riferiva al fatto che John gli aveva fatto quel regalo dopo avergli tolto carte di credito aziendali e benefit vari (compresi i 108 euro al giorno per la stanza all' Nh Hotel) con la scusa che bisognava reintestare tutto dopo il trasferimento delle aziende in Olanda. A Torino qualcuno chiamava Gabetti addirittura «il fratello minore di Belzebù». Con lui scompare l' ultimo baluardo di un sistema Torino, che, dopo la scomparsa di Donna Marella e Gabetti, vede l' ultimo caposaldo traballante e male in arnese nel novantunenne Franzo Grande Stevens ormai ridotto su una sedia a rotelle. Pur essendo uno degli uomini più ricchi d' Italia, e fino a qualche anno fa tra i più potenti, Gabetti viveva in una cameretta d' albergo, la 168, a Torino, all' Hotel Nh Lingotto o in un piccolo appartamento in via Carlo Maria Maggi a Milano, sopra l' appartamento dei figli. E pensare che in tal modo rinunciava a godere delle sue bellissime case: un grande rustico ristrutturato a Murazzano, nelle Langhe cuneesi, la prestigiosa residenza al numero 14 di rue Calvin nella città vecchia di Ginevra, un duplex pieno di quadri di inestimabile valore, sorvegliati dalla fedele governante Erminia e dall' autista Fodi. E ancora: due appartamenti a New York, curati dalla governante Anna Loza, e una casa a Parigi al 22 di rue Boissy d' Anglais. Per non parlare della splendida villa della moglie scomparsa nel 2008, Bettina Sichel, agli East Hampton, affacciata sull' oceano Atlantico, a Lily Pond Lane, a due ore da New York. Gabetti lascia due figli: Alessandro (sposato con Diomira Mazzolini, figlia del giornalista Rai Salvo Mazzolini, per 40 anni corrispondente del Tg1 da Bonn e Berlino) e Cristina, una giornalista che si dedica ai problemi ambientali, una signora chic e affascinante molto somigliante al padre, sposata col velista Paolo Martinoni (ex marito della giornalista del Tg5, Barbara «Bambi» Parodi, che gli ha dato un figlio, Briano, e che ha figliato anche con Luca Montezemolo, Panfilo Tarantelli, Paolo Mieli). Gianluigi Gabetti aveva sei nipoti: Gianluigi, Gaddo e Galvano, cioè i figli di Alessandro, e inoltre Pietro, Elena, Gregorio, per parte di Cristina. Il preferito era «Igi», cioè Gianluigi, che portava il nome del nonno, e cui toccherà in eredità la fetta più cospicua del trust appositamente costituito a New York per i sei nipoti. C' è anche un gigantesco trust per i figli, che da anni fruivano di un cospicuo appannaggio mensile, e che hanno avuto in eredità dalla madre la sua villa sull' Atlantico. Un paio di anni fa Gabetti aveva «regalato» al figlio Alessandro la comproprietà di un vecchio salumificio, il Franchi, a Borgosesia. C' è anche una figliastra, Ann Tuteur, ex dipendente dei supermercati Auchan, frutto del primo matrimonio di Bettina Sichel, la signora americana che, con le sue frequentazioni newyorkesi, fu artefice di gran parte delle fortune di Gabetti e delle sue relazioni negli Stati Uniti. Gianluigi l' aveva sposata il 4 marzo 1961, lui aveva 37 anni, lei 32. La bellissima signora (celebrata da Natalia Aspesi in un articolo su Il Giorno del 1972 come «L' italiana più chic» e anche «Bettina l' elegante dell' austera Torino»), è morta il 14 marzo 2008 a Milano a 79 anni. Un matrimonio durato 47 anni. Sua figlia Ann era furibonda per essere stata cancellata dal libro del patrigno, anche perché si sentiva una di famiglia dato che era sempre stata trattata come una Gabetti, non solo da Gianluigi ma anche dai suoi figli, un paio d' anni fa impedì l' uscita dell' autobiografia di Gianluigi dal titolo Never give in, «Non mollare (quando la causa è giusta)», dieci capitoli, due premesse, 209 pagine, stampato da L' Artistica Savigliano. Gianluigi teneva molto a questo libro ma Anna non era degnata nemmeno di una citazione, di una delle cento immagini, né della foto di famiglia con Gianluigi al centro con i dieci componenti Ann esclusa. Ieri a Milano, per volere dello scomparso, nessuno, a parte i figli e «Gianna», ha potuto vedere la sua salma. La camera ardente è stata allestita nella funeral house della San Siro a Milano. I funerali si svolgeranno in forma strettamente privata a Murazzano. È stato reso noto che, oltre alla popolazione locale, sarà ammessa una sola persona «estranea»: la «Dottoressa Gianna». Si tratta di Giovanna «Gianna» Recchi, 75 anni, figlia della mitica Marida Recchi, 102 anni, la «Signora delle Costruzioni», vedova di Giuseppe, e presidente onoraria della holding che porta il nome di famiglia, cinque figli (due maschi, Enrico, morto nel 1989 in un incidente aereo, e Claudio, e tre femmine, Gianna, Emanuela, Evelina). Marida, amica personale di Bettino Craxi che ospitò più volte nella sua villa di Portofino, è colei che ha inventato con anni di anticipo il capitalismo di relazione, la sua dinasty delle costruzioni ha realizzato importanti opere in Italia e all' estero, dall' Autosole al ponte sul Nilo di Kosti, alle Al Jazeera Towers di Abu Dhabi. Suo nipote, Giuseppe Recchi, è stato ceo e presidente di General electric, Eni e Telecom Italia. Gianna Recchi rappresenta uno dei «grandi segreti» che Gianluigi Gabetti si porta nella tomba, insieme alla «Dicembre» e all' unica azione e preziosa che egli possedeva, insieme a quel che accadde nelle ultime 72 ore di vita di Gianni Agnelli e alla procura generale che gli venne fatta firmare, insieme al ruolo di Marella, insieme ai luoghi ove sono custodite le «casse nere» dei tesori sottratti al fisco e depositati all' estero, insieme al nome dei beneficiari veri dell' oro custodito al Freeport dell' aeroporto di Cointrin a Ginevra, insieme alle password di accesso per incassare ciò che è depositato nelle carte dello Studio Fonseca di Panama. Nemmeno John probabilmente è a conoscenza di tutto. Tornando a Gianna Recchi, secondo alcune fonti si erano sposati una decina di anni fa, nel luglio del 2009, un anno e mezzo dopo la morte di Bettina secondo una indiscrezione di Dagospia. La notizia non è mai stata smentita. Lei è sempre stata al suo fianco in ogni occasione ufficiale, e aveva organizzato nella casa romana dei Recchi, sedendo accanto a lui e Cristina, la festa per la presentazione di un libro di quest' ultima. Allo Stato civile di Torino le nozze non risultano. Ma ci sono molte conferme indirette, tra cui quella del filosofo Gianni Vattimo, che era fidanzato con Gianna qualche tempo prima di fare outing. Ci sono testimonianze anche dell' insistenza con cui mamma Marida chiese a Gabetti di «regolarizzare» quella relazione ormai pubblica. Alla fine pare sia stata trovata la soluzione del «matrimonio di coscienza», che dal 1983 è definito dal diritto canonico «matrimonio segreto». Il ritorno in scena di Gianna Recchi per il funerale privato, fa molto scalpore anche perché Gabetti nel suo libro non l' aveva mai nominata. Le madame e madamine torinesi saranno capaci di dissolvere ogni dubbio e di mettere le cose al loro posto, capaci come sono di superare ogni eventuale trabocchetto legato al rispetto del protocollo. Non a caso Marida Recchi, quando invita a casa per un tè, è nota per tenere sempre accanto a sé la sua borsetta di coccodrillo. Al mondo sono rimaste in due a fare così: lei e la Regina Elisabetta.

Dal “Fatto quotidiano” il 16 maggio 2019. Dei morti, si sa, si parla sempre bene. E se il morto è stato un potente, legato a una famiglia di potenti, si arriva anche a glissare su certi peccati commessi in vita. È l' antica consuetudine in voga sulla grande stampa italiana. Solo che ieri, per i coccodrilli su Gianluigi Gabetti, avvocato, storico servitore di Gianni Agnelli e custode per decenni dei segreti e delle fortune della reale casa torinese si è arrivati anche a inventarsi un' assoluzione finale mai arrivata. È quella che riguarda la vicenda dell' equity swap, l' operazione che nel 2005 permise agli Agnelli di riprendersi la Fiat e che portò a un processo per aggiotaggio informativo a carico di Gabetti e Franzo Grande Stevens, altro storico avvocato della famiglia. Ieri Repubblica e La Stampa hanno scritto che la vicenda si chiuse con un' assoluzione, riportando pure la soddisfazione di Gabetti ("Non accettavo che rimanesse una macchia sulla mia carriera professionale"). In realtà, nel giugno 2012, la Cassazione aveva annullato la sentenza di assoluzione. Nel giudizio d' appello era arrivata la condanna. Nel 2013, sempre la Suprema corte ha annullato le condanne per avvenuta prescrizione del reato, che però fu commesso (la Consob emise anche una sanzione). Nessuna assoluzione nel merito quindi. Se non per i giornali.

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 16 maggio 2019. Quando defunge qualcuno importante e non lo fa all' improvviso, magari perché anziano o malato, i giornali tengono pronti gli articoli di "coccodrillo", per evitare che la notizia li colga impreparati. È accaduto anche per Gianluigi Gabetti, custode delle finanze degli Agnelli. Lui però il coccodrillo su La Stampa se l' è scritto praticamente da solo, a parte la firma, affidata a due malcapitati giornalisti. L' ha rivelato tutto giulivo il direttore Maurizio Molinari: "Gli articoli pubblicati in queste pagine su Gabetti sono stati pensati, voluti e realizzati con il suo personale contributo. Se n' è occupato con cura, parola per parola, lavorando con Luigi La Spina e con Nadia Ferrigo, spinto dalla volontà di consegnare alle pagine del nostro giornale un ritratto il più fedele possibile a come lui voleva essere ricordato". In mancanza di comunicati del Cdr, esprimiamo la massima solidarietà ai due colleghi ridotti ad amanuensi del morituro. Forse, conoscendo quegli scavezzacollo di Molinari, La Spina&C., Gabetti non si fidava e anzi si attendeva un assalto all' arma bianca. Magari sui fiumi di miliardi dell' Avvocato nascosti all' estero (e al fisco) e sulla condanna di Gabetti e Grande Stevens (16 mesi in appello prescritti in Cassazione) per l' aggiotaggio dell' equity swap, cioè del magheggio border line che blindò l' indebitatissima Fiat in mano alla Famiglia. Purtroppo, oltre ai testi, Gabetti s' è scordato di controllare i titoli. Altrimenti non avrebbe autorizzato questa frase a lui attribuita: "Sognavo di fare il diplomatico, capii che la vita è scomoda". Manco fosse un senzatetto con una vita di stenti. Grande, poi, dev' essere stata la sua sorpresa appena giunto Lassù, nello scoprire che anche gli altri giornali, quelli che hanno scritto di lui senza il suo permesso preventivo, hanno evitato ogni riferimento ai fondi esteri e alla condanna prescritta: Repubblica l' ha spacciata per "assoluzione", altri hanno sorvolato. Se quei pezzi li avesse scritti lui, non sarebbe stato così benevolo: qualche criticuzza qua e là, per non destare sospetti, l' avrebbe disseminata. Ditemi voi se un uomo di mondo e un tipo spiritoso come lui avrebbe potuto scrivere che "Gabetti finì sotto processo per salvare l' italianità del controllo della Fiat" (in realtà salvò il controllo degli Agnelli su un' azienda poi migrata fra l' Olanda, il Regno Unito e Detroit) ed "era un po' l' ultimo torinese" (con buona pace dei restanti 900mila e rotti che si ostinano a risiedere a Torino, anziché emigrare altrove in segno di lutto). Infatti l' ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere. Quando c' è di mezzo un potente, certe lingue diventano come gli altiforni. Non possono fermarsi mai perché, spente una volta, non si riattivano più. Se poi si tratta della famiglia Agnelli & affini, la salivazione sfugge a ogni controllo. Sono ancora freschi d' inchiostro gli epicedi di vedovi e prefiche inconsolabili per la dipartita di "donna" Marella Agnelli Caracciolo di Castagneto, oggetto di litanie da far invidia alla Vergine: "regina madre" (ora pro nobis), "regina degli elfi" (ora pro nobis), "principessa regale" (ora pro nobis) dai "piedi bellissimi", "ultimo cigno che sorvolava con grandi ali bianche i giardini incantati". L' afflato bucolico, su Libero, era di Renato Farina, detto non a caso Agente Betulla, che concede il bis su Gabetti e il "genio nascosto nella lampada, sfregando la quale ne usciva un signore che risolveva i problemi" e "ha evitato al Paese una catastrofe economica spaventosa", a costo di appuntarsi al petto la medaglia delle "grane tribunalizie", mica come quei pezzenti "che hanno la vocazione innata al reddito di cittadinanza". Il prudente Gabetti non avrebbe mai osato tanto, con le decine di migliaia di operai Fiat mandati a casa. Passando dal regno dei morti a quello dei vivi, ma sempre nell' Olimpo dei santi subito, ecco Beppe Sala, sindaco Pd di Milano. L' altro giorno il Pg ha chiesto di condannarlo a 13 mesi per falso documentale: il 31 maggio 2012 firmò due atti datati 17 maggio 2012, per sanare ex post due membri incompatibili della commissione aggiudicatrice del più grande appalto di Expo e la conseguente gara. La notizia non compare su nessuna prima pagina (a parte il Fatto). La Stampa l' ha nascosta in basso a pag. 7, il Corriere in basso a pag. 7, Repubblica a 21, il Giornale a 6 (ma con un fondo di Sallusti che difende l' imputato Sala e, già che c' è, l' indagato Fontana), il Messaggero a 14. Eppure, quando il pm chiese di condannare Virginia Raggi a 10 mesi, i processi ai sindaci imputati per falso piacevano un sacco: prima notizia in prima pagina su Corriere ("Di Maio, l' avviso a Raggi"), Repubblica ("Il pm: condannate Raggi a 10 mesi. M5S : se colpevole si deve dimettere"), Stampa (Raggi in bilico, un guaio per M5S "), Messaggero ("Sentenza Raggi, bivio per Roma"), Giornale ("Raggi nei guai: il pm chiede 10 mesi"), Foglio ("Si scrive Raggi si legge Di Maio"). La domanda alla sindaca imputata era unanime: te ne vai o no? Ieri Repubblica e Corriere hanno provveduto alla rivergination di Sala, intervistandolo non da imputato, ma da statista e futuro premier. I titoli non erano "Te ne vai o no?", ma "La politica non mi fa più paura. Il Pd non basta" e "Per il Pd servono alleati. Ma no al M5S ". E il processo? Una banale "incognita" per il Corriere, mentre Repubblica azzardava una lacrimevole domandina: "Quanto le pesa la richiesta di condanna a 13 mesi per abuso d' ufficio per quella firma su un verbale Expo?" (il falso diventava abuso e il reato diventa la firma, non la doppia retrodatazione farlocca). Se si fosse intervistato da solo, Sala sarebbe stato più severo, per salvare almeno le apparenze. Dunque, molto meglio il modello Stampa-Gabetti. Gli articoli sui potenti se li scrivano direttamente i potenti: vengono molto meglio.

·         E’ morto Roberto Silva. presidente del gruppo di detersivi Italsilva che gestisce tra gli altri i marchi Chanteclair e Quasa.

È MORTO DURANTE UNA GARA CICLISTICA, ROBERTO SILVA, PRESIDENTE DI “ITALSILVA”, CHE GESTISCE I MARCHI "CHANTECLAIR" E "QUASAR". Martino Spadari per il “Corriere della Sera” il 16 maggio 2019. La sua passione, unica e forte, era la bicicletta. Tanto da avere una delle sue due ruote sempre con sé, in ufficio, a casa, in vacanza. E proprio quella passione l' ha tradito: Roberto Silva, imprenditore milanese di 53 anni, presidente del gruppo di detersivi Italsilva che gestisce tra gli altri i marchi Chanteclair e Quasar, è morto martedì notte per le ferite riportate nell' impatto contro un' auto durante la Gran Fondo della Versilia, gara ciclistica tra le montagne Apuane e Lido di Camaiore. Silva, oltre a guidare con il fratello un' azienda in forte crescita, lascia una moglie, una figlia e un ampio gruppo di ciclisti amatoriali come lui, sempre pronti a salire in sella per pedalare su qualsiasi strada e con qualsiasi tempo. «Una persona generosa, sempre con il sorriso»: gli amici, gli atleti con i quali Silva usciva spesso, lo descrivono così. «Pedalava tutti i giorni: la sua azienda si trova a Seregno, in Brianza, e da lì partiva la mattina, all' ora di pranzo o dopo il lavoro. Dall' inizio dell' anno ha percorso 6mila chilometri: un vero atleta, il più forte di tutti noi». Sul suo gruppo WhatsApp, decine di messaggi: «Ci mancherai», «Pedaleremo sempre con te», «Il tuo sorriso ci accompagnerà». La sua famiglia, come da sue volontà, ha dato l' assenso per donare gli organi: «Il suo ultimo gesto di generosità». L' incidente presenta molte zone d' ombra: spetterà all' inchiesta chiarire dinamica e responsabilità. Domenica mattina, Silva e altri 1.400 atleti sono sulla linea di partenza: dopo pochi chilometri iniziano le salite, impegnative, e poi, nel Comune di Stazzema, la galleria del Cipollaio e la successiva discesa per tornare in Versilia. In quel tratto i ciclisti superano i 50 chilometri orari. Silva arriva in compagnia dell' amico Alessio Lemma, 43 anni, anche lui milanese. Lemma è davanti, Silva subito dietro: affrontano la galleria e subito dopo una curva cieca sulla sinistra. Lemma si vede davanti un' auto, riesce a schivarla ma cade e riporta gravi fratture in tutto il corpo. Silva è ancora più sfortunato: prende in pieno la parte anteriore dell' auto, sfonda il parabrezza e riporta traumi al volto, cranio e torace. Sono le 10 di mattina. Ha due arresti cardiaci, i medici riescono per due volte a far ripartire il suo cuore: trasportato in elisoccorso all' ospedale Cisanello di Pisa, muore dopo 48 ore. «Quell' auto non doveva essere lì - spiega Pier Luigi Del Pistoia, responsabile della Gran Fondo -. Nei giorni precedenti alla gara abbiamo chiesto alla prefettura di emettere un' ordinanza per chiudere le strade al traffico 45 minuti prima e dopo il passaggio dei ciclisti. E così è stato fatto». Ecco, l' auto: alla guida c' era una ragazza di 21 anni che abita a poche centinaia di metri dal luogo dell' incidente. È uscita di casa dalla sua strada privata e ha imboccato la provinciale in senso opposto rispetto all' arrivo dei ciclisti. In quel momento non c' era nessuno e lei ha proseguito a bassa velocità fino all' impatto mortale con Roberto Silva. Non c' erano cartelli che segnalavano la gara in corso? Non c' erano moto dell' organizzazione per fermare le auto? La «macchina-scopa» che chiude tutte le corse su strada era ferma chilometri prima: questo vuol dire che per gli organizzatori lo stop al traffico era attivo. «La ragazza doveva sapere che c' era una gara in corso - afferma Del Pistoia -, anche perché da giorni avevamo messo cartelli lungo tutto il percorso oltre a informazioni su giornali e radio locali». Gli organizzatori, insomma, sostengono di non aver commesso errori. «Spesso nelle granfondo - spiega Davide Cassani, ct della nazionale di ciclismo - passa anche un' ora tra il primo e l' ultimo corridore, ed è difficile poter garantire la massima sicurezza lungo tutto il percorso per così tanto tempo. Chi era alla guida dell' auto, non vedendo nessuno, avrà pensato che tutto era finito. Una coincidenza fatale. Roberto era un amico, abbiamo pedalato molte volte insieme: un grande sportivo, un cicloamatore fortissimo, per me è una perdita infinita». 

·         E’ morto Vittorio Zucconi.

Mondo del giornalismo in lutto: è morto Vittorio Zucconi, aveva 74 anni. Pubblicato domenica, 26 maggio 2019 da Massimo Nava su Corriere.it. E’ morto Vittorio Zucconi, giornalista e scrittore: aveva 74 anni. Lo ha annunciato Repubblica sul suo sito. E’ stato anche corrispondente per il Corriere della Sera da Mosca durante la Guerra Fredda. Modenese di Bastiglia Zucconi, che era nato il 16 agosto del 1944, comincia la professione giornalistica nei primi anni Sessanta come cronista di nera al quotidiano La Notte di Milano, sulle orme del padre Guglielmo. Assunto nel 1969 come redattore a La Stampa, diventa corrispondente, prima da Bruxelles e successivamente da Washington sempre per La Stampa, da Parigi per la Repubblica, da Mosca per il Corriere della Sera durante il periodo della Guerra Fredda e dal Giappone ancora per La Stampa dopo essere tornato a Roma nel 1977 per seguire gli anni del Terrorismo Rosso, e l’omicidio Moro. Nel 1985 Zucconi si trasferisce definitivamente a Washington, dove ricopre l’incarico di editorialista dagli Stati Uniti per la Repubblica e dove vive tuttora. Dall’esperienza nata dal suo lavoro come corrispondente e inviato speciale ha tratto il libro Parola di giornalista. Zucconi è stato direttore dell’edizione web di Repubblica dalla creazione fino al 2015 ed è stato direttore dell’emittente Radio Capital fino al 2018.

Ezio Mauro per repubblica.it il 26 maggio 2019. Anche quella forza della natura giornalistica che era Vittorio si è fermata. La forza della scrittura, l’impeto del narrare, l’energia della raffigurazione, la potenza della costruzione. E insieme, la felicità ogni volta del capire e del raccontare, una sorta di abbandono responsabile e vigile al richiamo della storia, qualcosa di quasi fisico, materiale, dove la vicenda lo dominava possedendolo: finché il suo giornalismo soggiogava la realtà, la penetrava attraversandola, e intanto ricreava un mondo. Questa capacità di evocare ogni volta un quadro, un paesaggio, un ambiente in cui far muovere come in una piece teatrale i personaggi con le corrette proporzioni della vita era la sua cifra, la qualità specifica del suo lavoro, che portava il giornalismo un po’ più in là dei suoi confini normali. Viveva per raccontare. E attraverso il racconto, capiva e aiutava a capire, cioè muoveva il meccanismo dell’interpretazione e dell’analisi, che in lui sembrava nascere dai fatti, in un’informazione che era insieme grande cronaca, narrazione e commento. Viveva il giornalismo, non lo interpretava. E infatti il Vittorio privato, quello dell’amicizia, era uguale al suo ruolo pubblico. A cena, in redazione, nei viaggi, negli incontri ogni vicenda, qualsiasi fatto, tutti gli avvenimenti grandi o piccoli di cui si parlava per lui prendevano automaticamente il format del racconto, come se fossero pronti per essere scritti, o addirittura come se fossero avvenuti per finire nella rete del suo giornalismo. Che li reinterpretava rendendoli simbolici, o almeno emblematici, comunque esemplari. Una domenica, a Mosca, passeggiavamo soli sulla via Arbat durante un meeting tra Reagan e Gorbaciov, senza lavoro perchè allora “Repubblica” non usciva il lunedì, quando vedemmo correre in senso opposto otto uomini in nero con l’auricolare nelle orecchie: nello stupore russo apparve Reagan, stringendo la mano ai passanti, sotto l’occhio della Cnn, senza il codazzo dei cronisti al seguito. Era un’improvvisata, durò un attimo per ragioni di sicurezza, dopo pochi minuti la strada sovietica era tornata quella di sempre. Ma ecco che Vittorio mi stava già raccontando quello che avevamo appena visto. Non potendo scrivere il pezzo, me lo recitava, perfetto. Geloso nel lavoro, come tutti noi, era generoso nell’affabulazione, empatico, capace di entrare in sintonia con qualunque interlocutore, un bambino, un campione sportivo, un politico, un lettore. Divoratore notturno di qualsiasi cosa si potesse leggere, col suo russo, il francese, l’inglese americano e persino un po’ di giapponese poteva parlare di tutto, e su tutto aveva un’opinione, ma soprattutto un ingresso particolare, con un ricordo personale, una storia tangenziale: e infatti era un animale radiofonico perfetto, come testimoniano gli anni alla direzione di “Radio Capital”. Si prendeva in giro canzonando gli altri. Ma invecchiando confessava l’importanza dell’amicizia, con quegli slanci che nascono a sorpresa dal pudore del lavoro: fino a borbottare una sera al telefono un “ti voglio bene” a qualcuno prima di riattaccare, probabilmente vergognandosi. Aveva lavorato con direttori come Scalfari, Ronchey, Fattori, Nutrizio e Di Bella. Aveva visto il mondo con gli occhi del mestiere, che obbliga a indagare, decifrare, capire. Bruxelles, giovanissimo, poi New York, Mosca, Parigi, Tokyo, Roma con il caso Moro, di nuovo e definitivamente Washington, l’America dei suoi figli Guido e Chiara e dei suoi nipoti. Ma l’ancoraggio del suo mondo privato era Alisa, a cui leggeva i pezzi in cucina prima di spedirli, la compagna che lo accompagnava nei viaggi, che gli faceva da sparring partner, quando masticava un avvenimento elaborandolo, prima di cominciare a scrivere. Scrivere era l’inizio e la fine di tutto, l’unica cosa che contava. Non diceva mai no al giornale, aspettava la chiamata con la richiesta di un articolo, lo cominciava subito, poi attendeva la telefonata di controllo, di ringraziamento, di complimenti. Aveva promesso alla famiglia che non avrebbe risposto al giornale solo il giorno in cui suo figlio giurava come ufficiale, e infatti non lo fece per due ore, poi cedette. Era morto Frank Sinatra e scrisse un articolo bellissimo col computer sulle ginocchia tornando a casa in auto, mentre Alisa guidava. Quella scrittura fluida e impetuosa come una necessità, come un trance, come qualcosa di naturale, che sembrava sgorgare da sola, e trovare automaticamente il suo corso. La prima volta in cui abbiamo lavorato insieme, durante un vertice internazionale a Washington, a un certo punto ho fatto il giro del tavolo, gli sono passato alle spalle, per guardare il suo foglio dentro la macchina per scrivere. Quando ho visto le correzioni, quelle “X” grandi una dietro l’altra con cui tutti cancellavamo le imperfezioni, mi sono rassicurato: anche Vittorio fatica, persino quella scrittura ardente ha bisogno di qualche correzione, anche lui e’ umano. Restano nei racconti di redazione le leggende zucconiane, come capita con tutti i grandi del giornalismo. Quando a Cuba con il Papa non rispondeva alle chiamate del giornale (che non sapeva se era arrivato) e infine giunse il pezzo prima della telefonata. Quando prese una stanza sotto la camera della moglie di un condannato alla sedia elettrica e fece un racconto della sua angoscia coi rumori e i movimenti dell’ultima notte, un racconto che mosse il Papa a intervenire con una lettera. Quando ripercorse con una donna a Hiroshima il suo cammino per andare all’appuntamento inconsapevole con l’atomica, poi deviato dal caso mentre l’Enola Gay stava arrivando. Quando entrò nella Cappella Sistina immediatamente prima dello Spirito Santo, pochi attimi prima che le porte si chiudessero sul Conclave e venisse proclamato l’”extra omnes”. Lui negherebbe, correggerebbe, sorriderebbe, come quando gli dicevamo che era il più bravo di tutti. Poi con la solita fame di giornale e con la malinconia della lontananza domanderebbe come sempre: cosa si dice in redazione? Oggi una cosa sola, Vittorio: che anche noi ti vogliamo bene, e il giornale piange senza di te.

Da it.blastingnews.com il 27 maggio 2019. Screzio radiofonico stamane al Tg Zero di Radio Capital. Interviene telefonicamente il senatore leghista Simone Pillon, noto per le posizioni particolarmente conservatrici in materia di famiglia e di aborto, oltre che primo firmatario del Disegno di Legge sulla "bigenitorialità perfetta", attualmente in fase di trattazione presso la Commissione giustizia del Senato della Repubblica. "Perchè lo Stato deve costringere la donna a partorire?" è la domanda di Zucconi. Non appena il senatore viene interrogato dal giornalista, si apre un aspro botta e risposta. "Perché ce l’ha con l’autonomia delle donne?”, esordisce Zucconi. "Io non posso difendermi da una domanda del genere", replica il senatore, evidenziando di avere una moglie, due sorelle, una madre e di non aver mai posto in dubbio l'autonomia ed il proprio rapporto personale con le donne. "Se mi vuol far domande serie....altrimenti abbiamo tutti di meglio da fare", continua il senatore, rivolto verso Zucconi, che replica con un altro interrogativo: "Allora gliene faccio una seria: perché lo Stato deve costringere una donna a partorire?”. Evidentemente, Zucconi faceva riferimento a una intervista rilasciata dal senatore Pillon, nella quale viene dichiarato, come obiettivo primario, quello di raggiungere la soglia "zero" per gli aborti in Italia, per poi arrivare ad un cambiamento della Legge 194, che tutela il diritto all'interruzione di gravidanza da parte della donna. Anche dinanzi a tale domanda, tuttavia, il senatore Pillon ha negato la propria disponibilità a rispondere: "Io sono stato contattato per fare un'intervista sull'affido condiviso, se vi interessa parliamo di quello". Nuova reazione di Zucconi, molto irritato: "Un senatore della Repubblica italiana è pagato da noi, deve rispondere”. “Anche lei è pagato da noi, con la pubblicità che riceve la radio”, replica Pillon. A questo punto Zucconi non resiste: “Manco per il cazzo, tagliatelo"". E ancora: "Fuori dalle balle”. A questo punto, la regia di Radio Capital ha interrotto la telefonata del senatore.

VITTORIO ZUCCONI A ANTONIO GNOLI (9 luglio 2018, "Repubblica"): "Vivo nel terrore di scoprire che non sono così bravo come credo" Il papà giornalista amico di Fo e Mike. La Fallaci con l’elmetto e lo scoop sulla Lockheed. Ha appena pubblicato "Il lato fresco del cuscino". E confessa: "Sono un mix di incoscienza e ansia".

Vittorio Zucconi per "il Venerdì la Repubblica" ripubblicato da Dagospia il 27 maggio 2019. Disperso nelle brume milanesi, a rimorchio di un amico di famiglia che mi trascinava verso un luogo dedicato chissa perche al primo vescovo di Pavia, San Siro, il mio calvario glorioso e doloroso di tifoso milanista comincio negli anni 50. Sarebbe finito solo sessant'anni dopo, in queste ore di liberatoria ridicolaggine, in una grottesca pochade di ereditiere ambiziose, servi padroni, segreti ricatti, gente che sa troppo o troppo poco, calciatori di seconda mano comperati ai mercatini di Porta Cicca e un malcapitato allenatore con l'improbabile nome di Allegri. In sei decenni di fede milanista credevo di averle viste tutte, ma proprio tutte. Dal primo pomeriggio nebbioso di un Milan Atalanta 1950 con il trio Gre-No-Li a mala pena intravisto dal parterre fra le gambe degli adulti nel tempio di San Siro ancora con un solo anello, alla calata della Barbie Berlusconiana e della nuova corte sul «club piu titolato d'Italia». La «fede rossonera» come tutte le fedi aveva ripagato e martirizzato il bambino solitario che ero stato, immigrato dal profondo sud della Valle Padana Modena alla gelida Milano del Dopoguerra. Per il Milan ho rischiato di morire, imbottendomi di pastiglie rubate alla mamma per nasconderle un febbrone equino che mi avrebbe impedito sicuramente di assistere a un derby con l'odiosa Inter. L'automedicazione incosciente mi precipito in uno shock anafilattico dal quale il medico accorso a casa mi strappò, disse lui, «per un pelo». Per il Milan, Marco (Mignani, il grande pubblicitario che inventò, senza immaginare le conseguenze, lo slogan della «Milano da Bere»), Antonio e io entravamo nell'anello superiore dei popolari dopo le nevicate cinque ore prima dell'inizio, per scavarci, come partorienti Eskimo, una conca nella neve. Doveva essere esattamente sulla linea di metà campo, nella quale depositare il sedere per un gelido bagnomaria. Per ascoltare Tutto il Calcio nei primi anni 70 dal Belgio, già adulto e corrispondente estero per autorevoli quotidiani, lasciavo la giovane moglie e l'infanta neonata, per vagare tra le colline attorno a Bruxelles e cercarne una dalla quale, fra scrosci, pernacchie, fruscii, si materializzasse nell'autoradio la voce di Sandro «Catarroarmato» Ciotti da Milano per annunciare che il Milan era finalmente passato in vantaggio. Credevo di averle viste tutte, dalla A alla B, il tragico alfabeto che soltanto la detestabile Inter non ha mai dovuto compitare. Felicino Riva e Giussy Farina, antesignani di presidenti bucanieri. L'ascesa e il tramonto di Gianni Rivera, l'abatino, il «grande mezzo giocatore», come scriveva l'allora odioso per me e grande Gianni Brera che osava criticarlo, anche definito come «quello che ha sempre il culo per terra» da mia madre, che aveva anticipato, pur non sapendo nulla di football, la fine del calcio tecnico e l'avvento del calcio muscolare e violento. Ero allo stadio, finalmente nei «distinti» senza il sedere nella neve, per le imprese dello «Sciagurato Egidio», il centravanti Calloni che aveva un talento prodigioso per sbagliare gol sicuri, e per il suo successore, l'inglese Blisset, acquistato direttamente da Elton John che ne possedeva il cartellino. L'inetto Blisset, che, dopo una raffica di gol sbagliati, si meritò l'etichetta indelebile, e molto politicamente scorretta, urlata da un tifoso esasperato: «L'è un Calloni nègher». Di Berlusconi Silvio, costruttore edile e gran venditore di appartamenti sulla carta nella Milano del cemento a gogò «immerso nel verde a dieci minuti dal centro», non mi fidavo. Lo avevo conosciuto da vicinissimo, quando allenavo le prime squadrette allievi che lui, prima per i gesuiti del Circolo Torrescalla e poi con il proprio marchio Edilnord sponsorizzava. Tra lui, il boss, e me, il patetico «mister»‚ per i trovatelli raccattati con gli annunci sulla Gazzetta della Sport e arrivati sui campi a piedi pagandosi il biglietto del tram, c'era un fondamentale abisso ideologico. Io catenacciaro alla Rocco, sostenitore dello schieramento 1-8-1, un libero, otto difensori e l'unico bravo davanti a pedalare con la lingua fino ai parastinchi sulle palle lunghe. Silvio megalomane, sognatore di calcio spettacolo e di goleade: a dispetto della commovente broccaggine dei nostri allievi e del loro «mister», lui voleva il bel gioco. Ma poiché non si litiga col successo, anche al tifoso ormai scettico e diffidente fu impossibile resistere alla seduzione del Rinascimento milanista, condotto a colpi di miliardi che improvvisamente si riversarsono sulla squadra assetata dopo i decenni della siccità. Finiti gli anni eroici nei quali uno dei predecessori di Galliani, Gipo Viani, concedeva inganni generosi al centravanti Ferrario, detto Ciapìna, con il vizio del poker. Gli riprendeva al tavolo da gioco quello che gli aveva dato al tavolo delle trattative. O venivano assoldati rottami dal passato glorioso pagati a cottimo, se fai gol incassi, sennò, ciccia. Sempre attentissimo alle mode del momento, e con il portafoglio a fisarmonica gonfiato dai miliardi, il Milan del «Presidentissimo» e del suo fedele servo Lothar, cioè Galliani, quello calvo che stava al fianco di Mandrake, strappato al mondo delle antenne tv, fece incetta di olandesi, per onorare il culto allora vigente del «calcio totale all'olandese», e li affidò a un genio fanatico del «calzio», il romagnolo Arrigo Sacchi, il quale vinse tutto. Ancora oggi incazzandosi quando si sente dire che vinse facile, dimenticando che accanto a Gullit, al divino Van Basten, e Rijkaard, il suo Milan contava alcune sostanziose schiappe ben schierate e motivate da lui. Una vocina dentro, forse quella del bambino trascinato nella San Siro preistorica, insinuava che ci fosse qualche cosa di sgradevole e di oscuro, in quella proprietà, qualche odore non proprio limpidissimo di soldi e di operazioni fatte dal padrone e dal suo Lothar per allargare l'impero televisivo fino al Regno dello Due Sicilie a colpi di antenne, stallieri e ripetitori, ma, come già sapeva Virgilio, tifus omnia vincit, il tifo, come l'amore, vince su tutto. La vocina divenne un grido quando l'eterna finzione dello «sport separato dalla politica» una bufala che neppure l'Italia fascista sarebbe riuscita a smentire pur vantando le vittorie di Pozzo come tributi al Duce crollò con la discesa nel campo delle elezioni. Mi illusi, in quel 1994, di poter restare un tifoso «diversamente milanista», di poter accettare di vivere con il disturbo bipolare di godere per le vittorie del Milan come per le sue sconfitte, dedicandole a Silvio. Avrei dovuto sapere che colui che aveva osato trascinare Maldini e Baresi, totem di noi tifosi, nel garbage, nella spazzatura elettorale della Storia Italiana, avrebbe fatto esplodere la contraddizione. Ora che la contraddizione è esplosa, saltata per la mancanza di quel meraviglioso surrogato dell'onestà e della competenza che sono i soldi, resta al bambino di San Siro soltanto un filo per tenerlo legato a quelle strisce verticali rosse e nere. È il filo sottilissimo ma tenace del Dna, dell'eredità genetica, impossibile da tradire. Non quella dei miei genitori o nonni, che del calcio altamente s'impippavano fino al disgusto che mio padre esibiva quando al mattino esploravo in ansia i campi ancora incolti davanti alla finestra della nostra casa di piazza Firenze a Milano, cercando di capire se la nebbia avrebbe reso inutile il viaggio verso lo stadio. Negli spasmi agonici di una dinastia ormai al tramonto in tutte le sue manifestazioni, che soltanto un illuso può sperare o temere si tramandi di padre in figlia, quando anche l'eredità sarà consumata, mi restano un figlio milanista e, peggio, un nipotino di nove anni milanista al punto di avere scelto proprio i colori rossoneri per l'uniforme della squadretta nella quale gioca. In Maryland, Usa, non a Casalpusterlengo. Come posso spiegare a figli e nipoti che il patriarca della famiglia si è ormai disamorato di questa pochade milanista? E che il reality show del fedele Lothar prima offeso e poi recuperato sotto la minaccia di una causa dove troppe verità sarebbero emerse, della frizzante Salomè bionda che chiedeva a Erode la testa del suo Galliani Battista su un vassoio (d'argento), dei «reduci d'Algeria» come Maldini, Albertini e Seedorf, che si vorrebbero riesumare per ridare credibilità alla bandiera, non merita più passione, né tanto meno «fede»? Dovrò continuare a fingere di essere milanista, per loro, in attesa che qualche danaroso sceicco, qualche gasista siberiano, qualche trafficante messicano raccolga i pezzi dell'impero crollato e comperi l'Associazione Calcio Milan a prezzi di fine stagione. Barbie Berlusconi è la bambina viziata, con troppi bambolotti e troppo tempo libero. Galliani Lothar è ormai merce avariata, un dentifricio uscito dal tubetto che nessuno potrà rimettere dentro. Il Mister, con il quale solidarizzo avendo conosciuto da vicino la invadenza del padrone (ma non i suoi milioni, ahimè) è fresco come il giornale di ieri. E quando il nuovo signore entrerà in tribuna a San Siro, potrà sempre chiedere, come Tohir all'Inter con Ventola, di riprendere Calloni. Bei tempi. 

·         Gianni De Michelis è morto.

Da Lettera 43 l'11 maggio 2019. Gianni De Michelis è morto. Dal 1976 al 1993 deputato socialista, più volte ministro e protagonista della Prima Repubblica, si è spento all'età di 78 anni. Nato a Venezia il 26 novembre 1940, laureato in Chimica industriale, De Michelis è stato docente universitario. La sua carriera politica inizia nel 1964 con l'elezione a consigliere comunale del capoluogo veneto e con il successivo incarico di assessore all'Urbanistica. Nel 1969 diviene componente della direzione socialista e poi responsabile nazionale dell'organizzazione del partito. Ricopre più volte l'incarico di ministro: alle Partecipazioni statali nel secondo governo Cossiga e nel governo Forlani, riconfermato alla guida dello stesso dicastero nei governi Spadolini e nel V governo Fanfani. Diventa poi ministro del Lavoro e della previdenza sociale durante i due governi presieduti da Craxi. Nel governo De Mita è vice presidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri nel VI governo Andreotti nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino e della conseguente riunificazione tedesca, che De Michelis considera «la pietra angolare sulla quale costruire il nuovo edificio di un'Europa unita». Da ministro degli Esteri deve affrontare l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq il 2 agosto 1990. L'Onu impone l'embargo economico al Paese invasore e nell'ambito di questa iniziativa l'Italia manda tre navi nel Golfo Persico, cui si aggiungono otto aerei da guerra e una fregata. Nell'aprile 1991 Andreotti, alla guida del suo VII governo, riconferma De Michelis alla Farnesina. Sempre da ministro degli Esteri, De Michelis ha firmato per l'Italia il Trattato di Maastricht. Molti tuttavia lo ricordano per le sue passioni mondane: amava andare in discoteca, corteggiare le donne e portava i capelli lunghi. Dopo il coinvolgimento in Mani Pulite e il ritiro dalla politica attiva, viveva ai Parioli circondato dai libri. Suo il motto più volte citato: «La cultura è il petrolio d'Italia e deve essere sfruttata».

Da cinquantamila, sito a cura di Giorgio Dell’Arti. Venezia 26 novembre 1940. Politico. Dal 1976 al 1993 deputato socialista. «Se Craxi era Garibaldi, io ero il suo Cavour».

Primogenito di Turno e Noemi Borghello, entrambi impiegati alla Montedison di Porto Marghera. Tre fratelli e una sorella. Laureato in Chimica industriale, fu docente universitario fino a quando non venne assorbito dalla carriera politica, che iniziò nel 1964: primo incarico, consigliere comunale di Venezia, poi assessore all’Urbanistica. Nel 1969 entrò nella direzione del Psi, poi fu responsabile nazionale dell’organizzazione del partito. Ministro delle Partecipazioni statali nel Cossiga II, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani V (1980-1983), del Lavoro e della Previdenza sociale nel Craxi I e II (1983-1987), degli Esteri nell’Andreotti VI e VII (1989-1992), vicepresidente del Consiglio nel De Mita (1988-1989). Dal 2001 al 2007 segretario del Nuovo Psi, dal 2003 al 2009 parlamentare europeo, nel 2006 fu eletto deputato (ma lasciò il posto a Lucio Barani). Nel 2007, duramente contestato dalla componente di Stefano Caldoro, abbandonò il Nuovo Psi. Alle elezioni politiche del 2008 si candidò con il Partito socialista di Boselli, che però non è entrato in Parlamento. Nel luglio 2008 entrò a far parte del Partito Socialista di Riccardo Nencini. Nel 2009 divenne consulente di Renato Brunetta, ministro per la Pubblica Amministrazione durante il Governo Berlusconi.

«È stato un potente. Ma veramente potente. Ha fatto parte di quell’arroganza politica e di quella supponenza partitica che è stata spazzata via dal ciclone Mani pulite. Al contrario di molti altri non si è nascosto in una tana. Ma non ha nemmeno sgomitato per restare a galla. Ha scelto il basso profilo» (Claudio Sabelli Fioretti).

«Padre ingegnere, madre chimica. Si conobbero in fabbrica, a Porto Marghera. Eravamo tutti protestanti, mio nonno era pastore metodista. Io a 12 anni mi sentivo monarchico, solo Dio sa perché. Per due anni fui anche della Giovane Italia. Poi diventai radicale. Nel 1960, a 19 anni, mi iscrissi al Psi. La politica attiva la scoprii nell’Ugi, l’Unione goliardica italiana. La mia prima esperienza fu il congresso di Palermo. Io stetti dalla parte che sconfisse Craxi, da sinistra, ed eleggemmo Militello».

«È un uomo che ha una visione. Quasi non importa quale, perché a colpire è il modo in cui la presenta, più che il contenuto. È anche l’uomo intemperante e smodato che ha contribuito non poco a dare del Partito socialista quell’immagine corriva che l’ha accompagnato alla distruzione. È riemerso da una lunga penitenza, dopo essere stato inquisito e isolato, buttato fuori dal ring della politica e costretto a far da spettatore. Lui, che era stato ministro per più di un decennio, aveva frequentato i grandi del mondo, agitato le notti della capitale e riso in faccia ai benpensanti» (Stefania Rossini).

Nota la sua passione per le discoteche, nel 1988 per Mondadori scrive Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane. «Io mi differenziavo dagli altri. Andavo a ballare. Giravo con belle donne. Perché no? Ero single. Avevo un comportamento trasparente. Ritenevo più disdicevole l’ipocrisia. Io vivevo a Roma e conoscevo i comportamenti di quasi tutti i miei colleghi di qualsiasi partito, maggioranza e opposizione. Tutti ipocriti».

«Onestamente, io devo ringraziare Bin Laden. Senza l’11 settembre sarei rimasto una non persona, quella costruita da Mani pulite e scomparsa da ogni radar. Dopo le Torri Gemelle anche il cittadino più distratto ha cominciato a sentire di nuovo il bisogno di competenza, a desiderare di sentir ragionare. Non così il ceto politico. È stato un bel giorno quando ho cominciato a ricomparire nei radar e a essere invitato in televisione». «Ho fatto il ministro dodici anni. Ho ricevuto un migliaio di lettere anonime. L’ottanta per cento erano sui miei capelli».

«Veder Gianni mangiare è come leggere Rabelais: mangia per tre, quattro, cinque uomini della sua età e dei suoi impegni» (un’amica prima che si mettesse a dieta).

Due mogli: da Francesca Barnabò, sposata nel 1965, ha avuto Alvise. «Se n’era già andata nel ’78, in pieno femminismo, facendomi scontare pesantemente il mio carattere farfallone». Nel 1997 sposò la commercialista Stefania Tucci, 25 anni più giovane, matrimonio durato solo due anni: «Aveva scelto una specie di pensionato che divideva il mondo in quadratini. Quando ho ricominciato a far politica, non ha più funzionato. Ma restiamo grandi amici».

«Oggi porta i capelli corti, niente più riccioli sulle spalle, qualche chilo in meno e abita in un piccolo ed elegante appartamento in via Archimede, ai Parioli» (Fabrizio Roncone).

Testo di Laura Cherubini per artrbune.com il 25 maggio 2019. Ho conosciuto Gianni De Michelis nel 1978 a Venezia (dove era consigliere comunale) a casa dei grandi e raffinati collezionisti Gabriella e Attilio Codognato. Era l’unico che non guardava la partita Italia –Argentina in televisione. Tutti noi eravamo tifosissimi, lui invece leggeva (non ho mai visto nessuno leggere quanto lui). Questo fatto mi sembrò piuttosto strano… Lo rividi a una colazione a La Malcontenta di Barbara e Tonci Foscari dove era notevolmente più a suo agio tra gli amici Attilio e Gabriella, Leo Castelli e Ileana Sonnabend e artisti come Robert Rauschenberg. Divenne amico di Leo e Ileana, ha sempre frequentato il mondo dell’arte. Divenne amico anche mio, un’amicizia durata per lungo tempo. A Venezia avevo conosciuto anche la prima moglie di Gianni (erano già separati, ma in ottimi rapporti), Francesca Barnabò, colta e intelligente che più avanti aprirà una galleria: ricordo mostre di Carla Accardi, Kounellis, Boetti… e mi sembra di ricordare anche un’installazione di Tony Cragg (lo spazio, sul retro del palazzo della famiglia di Francesca, chiamata Checca dagli amici, era stato restaurato da Barbara e Antonio Foscari). Nel frattempo Gianni era diventato Ministro delle Partecipazioni Statali e successivamente del Lavoro. Già da Ministro del Lavoro dimostrava particolare attenzione alla cultura e all’arte con il progetto dei Giacimenti culturali, la vera grande ricchezza per lui dell’Italia, che poteva dare lavoro a molti giovani. Quando diventa Vicepresidente del Consiglio è talmente importante per lui il discorso dell’arte contemporanea che inserisce nel suo staff un responsabile di settore e chiama a ricoprire questo ruolo una giovane critica preparata e in gamba, Manuela Gandini. Nel momento della sua scomparsa Manuela lo ha ricordato così: “Gianni De Michelis ha affrontato la politica internazionale promuovendo l’arte contemporanea, considerandola strumento di dialogo per l’incontro con i capi di stato. Ha sostenuto il movimento femminista. Ha cercato in ogni modo di valorizzare la nostra vera risorsa: i giacimenti culturali. Anche solo per questo, il nostro coltissimo ministro, va onorato. Oggi alla ‘guida’ del paese solo ignoranza e improvvisazione. Non posso dimenticare – negli anni nei quali ho lavorato con lui- la bellissima mostra di Michelangelo Pistoletto al PS1 e quella di Mario Merz al Guggenheim di New York. I due artisti dell’arte povera allora non erano così famosi nel mondo e il loro ingresso ufficiale in America fu possibile grazie a Gianni. Per lui, le forme dell’arte più avanzata dovevano mediare quelle della politica! Avete presente ciò che succede oggi? Oggi i nostri governanti vanno a New York per farsi i selfie con il presidente e postarli immediatamente! Nessuno come De Michelis ha creduto fermamente nella grandezza e nell’importanza dell’arte italiana. Fai buon viaggio Gianni!”. È il 1988 quando le mostre di Merz e Pistoletto si tengono a New York. Ma già da ministro del Lavoro nel 1985 aveva sostenuto la mostra The Knot. Arte Povera at PS1 a cura di Germano Celant (come le due monografiche). Per testimonianza di Camilla Nesbitt, collezionista, amica di molti artisti come Gino De Dominicis e di Gianni De Michelis, diversi artisti americani come Kiki Smith avevano dichiarato che si era trattato di una mostra che aveva avuto una certa influenza negli States. Gianni era nel board del PS1 oltre che del Guggenheim, era legato da amicizia e stima ai due direttori, Alanna Heiss e Thomas Krens. Ho ascoltato diverse volte Gianni parlare con Krens di Punta della Dogana, penso che l’idea partisse da lui, veneziano che conosceva quegli spazi, ricordo che chiese a Nino Castagnoli un primo progetto. Credo fossero stati Leo e Ileana, che sostenevano molto il PS1, a chiedergli di aiutare Alanna che stava trasformando la scuola abbandonata nel Queens in un vero e proprio museo (che Alanna porterà nel 2000 ad affiliarsi al MoMA diventandone l’ala contemporanea). E a proposito della grande gallerista Ileana Sonnabend si deve anche a Gianni la mostra della sua collezione alla GNAM di Roma. Come dice Manuela Gandini: “Gianni voleva affrontare i rapporti politici attraverso l’arte, dare un messaggio attraverso i livelli più alti della cultura italiana, sostenere l’arte italiana fino in fondo, la considerava l’unica possibilità”. In questa ottica rientravano gli scambi culturali, l’attenzione verso realtà italiane all’estero come l’Accademia Italiana di Rosa Maria Letts, ma soprattutto la ristrutturazione degli Istituti Italiani di Cultura che aveva in mente da ministro degli Esteri. Chiamò Paolo Fabbri a Parigi, Furio Colombo a New York, Fiamma Nirenstein a Tel Aviv, Francesco Villari a Londra, Vittorio Strada a Mosca… voleva farne le ambasciate della cultura italiana nel mondo. Nel frattempo lavorava a un progetto che ebbe una prima tappa a Venezia, con la presenza di intellettuali e direttori di musei: il World Art Forum. Diceva sempre che l’arte era il linguaggio del futuro, perché in un mondo globalizzato l’arte era la vera lingua internazionale, senza bisogno di traduzioni, qualcosa che tutti potevano avere in comune. Ricordo come era felice di essere riuscito a far avere a Gianni Kounellis la cittadinanza italiana: Kounellis ci teneva moltissimo e in effetti, sebbene nato in Grecia, è stato artista “italiano”, nel senso profondo del termine, come nessun altro. Ricordo l’amicizia con Gino De Dominicis e le interminabili discussioni al bar. Una sera al Rose Café Gino e Sergio Lombardo tentarono di convincere Gianni a far desistere gli americani dai bombardamenti in Iraq, l’antica Mesopotamia, la terra tra i due fiumi dei Sumeri. Gianni alzava gli occhi al cielo perché il Ministro degli Esteri italiano non aveva quel potere…Molti anni dopo gli presentai Paola Pivi che era ospite da me a Roma e che voleva realizzare una immensa immagine digitale dell’isola di Alicudi a grandezza naturale, Gianni le suggerì di chiedere a Gheddafi il deserto libico per collocarla… Quando Aleksandra Mir, intelligente e originale artista, chiese a Paola una sua foto con un’altra persona per un lavoro che stava progettando, una sorta di catena in cui una persona ne tirava dentro un’altra, Paola decise di darle una foto con me, (cosa di cui mi sentii molto onorata). Dovendo dare a mia volta una foto con un’altra persona ne diedi una con Gianni, poi chiesi a Gianni di darne una sua con qualcun altro e lui, che era anche molto ironico, ne fornì una con Gary Hart: i due giovani e brillanti politici emergenti, poi repentinamente trasformati in perdenti…

L' Italia piange la scomparsa di Gianni De Michelis. Antonello de Gennaro l'11 Maggio 2019 su Il Corriere del Giorno. Si è spento Gianni de Michelis, ex esponente di spicco del Psi di Craxi, di cui è stato a lungo vicesegretario e capogruppo alla Camera. Dal 1989 al 1992 De Michelis è stato ministro degli Esteri, firmando tra l’altro i Trattati di Maastricht. Tra gli altri incarichi di governo anche quello di Ministro del Lavoro. Veneziano, aveva 78 anni. Questa notte a 78 anni si è spento Gianni De Michelis.  Lo abbiamo appreso da fonti vicine alla famiglia.  Deputato socialista dal 1976 al 1993, è stato ministro dal 1980 al 1992 ricoprendo vari incarichi nei governi di Cossiga, Forlani, Spadolini, Fanfani, Craxi, De Mita e Andreotti: la sua firma per l’Italia è sul trattato di Maastricht nel 1992. Ministro delle Partecipazioni statali dal 1980 poi al Lavoro nel Governo Craxi, vice premier con De Mita e infine ministro degli Esteri. Una lunghissima parentesi ministeriale che ne fece uno dei leader del Psi. È stato poi segretario del Nuovo Psi dal 2001 al 2007. L’ultimo incarico elettivo è stato al Parlamento europeo, nella legislatura chiusa nel 2009 nonché Presidente onorario dell’Aspen Institute. Il quotidiano francese “Le Monde” scrisse di Gianni De Michelis: “Le Falstaff venetienne à l’heure du lattier“, cioè va a dormire all’ora del lattaio, mentre in un’altra occasione il quotidiano spagnolo spagnolo “Diario 16” aggiunse che si svegliava “fresco como una rosa y activo come un ciclòn” (cioè fresco come una rosa ed attivo come un ciclone) . Nessun altro politico come Gianni De Michelis ha interpretato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 sbaragliò il vecchio ” sistema politico” italiano gestito dalla Democrazia Cristiana.  Con il suo stile di vita brillante, esuberante lontano anni luce dai vecchi schemi, era la più alta raffigurazione del cambiamento politico portato avanti dal PSI “craxiano”. Bettino Craxi al Quirinale con Gianni De Michelis ed i ministri del suo Governo e l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Una giusta rivendicazione di poter essere sé stessi, contro le ipocrisie e i finti moralismi dei due “partiti” che controllavano l’ Italia: la Dc e il Pci. Insieme a Bettino Craxi ed il resto della “classe dirigente” socialista condivise anche la sfida all’egemonia culturale comunista, in quella stagione un tratto anticonformista che contraddistinse persino la sua operatività di ministro degli Esteri, contrassegnata non soltanto da una profonda conoscenza dei dossier, ma anche da un europeismo e da un atlantismo indiscutibili ed al tempo stesso continuamente contraddistinti da uno spirito critico incessante. Era ricoverato da qualche giorno all’ospedale di Venezia, per il peggioramento delle condizioni generali di salute, a causa delle quali Gianni De Michelis non riusciva più ad alimentarsi, ed era stato necessario il ricovero. De Michelis era uno dei giovani politici italiani che nel 1976 insieme a Bettino Craxi, Rino Formica e molti altri  osò sfidare i vecchi dirigenti e conquistarono il Partito socialista. Diventarono classe dirigente e cominciarono un lungo percorso di potere. “Gianni – ricorda Bobo Craxi – apparteneva alla sinistra poi lasciò Signorile ed entrò in maggioranza. È stato uno dei dirigenti più coerenti di quella lunga stagione”. “Gianni è stato un grande uomo di governo ed un compagno leale di mio padre, nella buona e nella cattiva sorte, a cui non fece mai mancare la sua vicinanza negli anni dell’esilio tunisino“, scrive Stefania Craxi, attuale senatore di Forza Italia, ricordando Gianni De Michelis. “Gianni, genio e sregolatezza, visionario lucido con lo sguardo sempre proteso oltre il confine, è stato innanzitutto un socialista generoso e coraggioso che ha saputo attraversare anche le stagioni più infami e buie della storia socialista e del paese con la schiena dritta, senza abiure, difendendo sempre il ruolo ed il primato della politica“. Con la sua vitalità, curiosità, intelligenza Gianni De Michelis piaceva ai giovani ed io ero uno di loro. Non a caso l’organizzazione giovanile del Psi pendeva dalle sue labbra ed era pressochè tutta schierata con lui. La brutta malattia che lo ha colpito negli ultimi due anni veniva raccontata in un silenzioso tam-tam fra tutti noi che gli volevamo bene. Era craxiano ma con la sua autonomia ed infatti  la corrente dei “demichelisiani” esisteva ma non per i soliti oscuri giochi di potere. Ha cresciuto e lanciato generazioni di supermanager, “tecnici” e consulenti . Con grande dignità dopo la fine della Prima repubblica, non non cercò al contrario di rientrare in gioco. Disse di sé stesso: “Io sono come tutti, con la differenza che non lo nascondo“. Ho conosciuto Gianni De Michelis, lavorando con uno dei suoi “pupilli” e cioè Biagio Marzo, quando ero all’inizio della mia passionale carriera dietro le quinte della politica.  A Gianni, ed a Biagio mi legano dei ricordi meravigliosi, importanti ed indimenticabili che sono quelli che mi hanno sinora tenuto lontano dalla politica di “plastica” della cosiddetta 2a Repubblica, e quella telecomandata da “tastiera” dell’ attuale politica. Non potrò mai dimenticare le sue dimostrazioni di affetto, amicizia, solidarietà che mi aveva espresso e manifestato in un momento difficile della mia vita, cioè di quanto decisi di interrompere la mia collaborazione con Claudio Martelli. Mi chiamò all’ Hotel Plaza e mi disse: “stai tranquillo Antonello, resta con noi, siamo noi i veri amici fedeli e leali di Craxi“. E come sempre aveva ragione lui. Così come non potrò mai dimenticare tutte le serata passate insieme, i suoi consigli, le sue lezioni di vita e politica che ricevetti dalla sua generosità. Ciao caro Gianni, oggi con la tua scomparsa tutti noi, il Paese, perdiamo qualcosa dalla vita. Ma nessuno di noi, della mia, nostra generazione potrà mai dimenticare quanto hai fatto per l’ Italia. Un giorno ci ritroveremo tutti quanti e sono certo che anche lassù saprai farti volere bene. Buon viaggio Gianni.

Dagospia: QUANDO L'ITALIA SAPEVA GODERE – VIDEO: LO STORICO SERVIZIO SU GIANNI DE MICHELIS AL "BANDIERA GIALLA" DI RIMINI – ERA IL 1988 E DE MICHELIS, DA VICEPRESIDENTE DEL CONSIGLIO, STAVA PRESENTANDO NELLA "CAPITALE NOTTURNA D'EUROPA" LA SUA GUIDA ALLE DISCOTECHE ITALIANA "DOVE ANDIAMO A BALLARE STASERA?" – IL SERVIZIO DI TERESA MARCHESI: "LA GENTE HA FATTO A GOMITATE PER ASSICURARSI UNA COPIA CON DEDICA. È MORTO GIANNI DE MICHELIS: AVEVA 78 ANNI – PIÙ VOLTE MINISTRO, È STATO TRA I PRINCIPALI PROTAGONISTI DELL’ERA CRAXIANA -  DOCENTE UNIVERSITARIO, DA MINISTRO DEGLI ESTERI HA FIRMATO IL TRATTATO DI MAASTRICHT – SCRISSE ‘DOVE ANDIAMO A BALLARE STASERA?’ GUIDA A 250 DISCOTECHE ITALIANE. ‘’IO MI DIFFERENZIAVO DAGLI ALTRI. GIRAVO CON BELLE DONNE. ERO SINGLE. AVEVO UN COMPORTAMENTO TRASPARENTE, A DIFFERENZA DEI MIEI COLLEGHI SPOSATI E IPOCRITI’ - ‘ONESTAMENTE, DEVO RINGRAZIARE BIN LADEN. PERCHÉ DOPO IL 2001…’

Dagonota 13 maggio 2019. Da avanzo di balera a statista. Non c’è da stupirsi se al momento del suo silente addio il tempo onesto rovesciasse la clessidra della storia per restituire a Gianni De Michelis l’onore perduto negli anni di Tangentopoli. E la stessa dignità (e intelligenza) dissipate negli anni tragici del post terrorismo. Quando nella kermesse ballerina di Villa Ada a Roma - grazie all’assessore comunista Renato Nicolini, malvisto nel suo stesso partito – una generazione passa di colpo dalla politica totalizzante all’hully gullY, facendo pace con il suo passato e scoprendosi fatta d’individui ciascuno con il proprio look. Ma al giovane ministro socialista, tra i pochi politici a cogliere quel salto sociale e generazionale, non sono perdonati né i suoi capelli lunghi unti (l’onto del signore per i veneziani) né quel suo sbarco in discoteca con tanto di libro-saggio, “Dove andiamo a ballare questa sera?”, edito dalla Mondadori targata dal duo De Benedetti-Scalfari. E non dal Cavalier Berlusconi come qualcuno sui media ha lasciato intendere poi. Con le croniste accorse nel tempio ballerino di Bibi Ballandi (a far numero anche le “Cacao meravigliao” dell’arboriana tv “Indietro tutta”), che sgomitavano per un posto a tavola alla cena di gala al “Paradiso” di Gianni Fabbri (da poco vedovo della figlia di Licio Gelli morta in un incidente automobilistico). Una gara con tanto di colpi bassi per potersi attovagliare tra il finanziere Francesco Micheli e il ministro dello Spettacolo, Franco Carraro. Lì accompagnato dalla moglie Sandra e da Andrea Manzella, capo della segreteria di Ciriaco De Mita, neo presidente del Consiglio. E tutti con gli occhi puntati al insù nell’attesa che da un elicottero sbarcasse pure l’Ingegnere. “Peccato che Carlo abbia mancato l’appuntamento, l’indomani mi avrebbe chiamato l’Avvocato per invitarmi a colazione a Torino”, si lasciò scappare vanesio l’avanzo di balera godendo della rivalità tra Agnelli e De Benedetti. Ciccio ballerino incuriosiva anche Enrico Cuccia, che doveva trattare con il ministro delle Partecipazioni statali in carica la privatizzazione di Mediobanca. Gianni era un interlocutore poco propenso a piegare la schiena di fronte ai voleri dello Gnomo di via Filodrammatici. Insomma, pure di giorno Gianni faceva “ballare” i Poteri Forti (Romiti, Gardini, boiardi di stato, banchieri, intellettuali come Umberto Eco e Furio Colombo, ambasciatori…) che avevano mandato a memoria il numero telefonico del portiere del romano “Plaza”, Gigino Esposito, per poter fissare un appuntamento con De Michelis. Dieci anni dopo, agli albori di Mani pulite, Cronisti&Cortigiani e “leccaculi” che avrebbero barattato la propria reputazione, la carriera e forse la moglie pur di partecipare alle feste in maschera a Palazzo Malipiero Barnabò (o alle riunioni dell’Aspen institute) - entrambe curate e animate dal “Falstaff venetienne” -, il ministro-Doge che andava a letto “a l’heure du lattier” (Le Monde), l’icona popdella politica anni Ottanta viene prima sfregiata e poi rimossa dal tempio della gloria dei media del potere. Più che icona, De Michelis in realtà era soltanto un rappresentante di un “potere fantoccio o di cartapesta” (Ferdinando Adornato). Uno dei tanti “guitti” della Razza Cafona, che aveva governato, nel bene o nel male, il Paese. I nuovi idolidella Rivoluzione italiana (Paolino Mieli) sono adesso il giudice Antonio Di Pietro, che frequentava la peggiore cricca di socialisti milanesi e i giustizieri televisivi, Gianfranco Funari e Michele Santoro. “Miti, protagonisti e soubrette di un’Italia che declina”, metterà nero su bianco Giampiero Mughini nel suo raro e onesto libro su quella tragica stagione (4.525 persone arrestate, 25.400 avvisi di garanzia, oltre mille politici indagati, alcuni suicidi eccellenti) dal titolo “Un disastro chiamato seconda Repubblica” (Mondadori). Già, da Bandiera rossa al “Bandiera Gialla” De Michelis  si è sempre caricato dei pericoli di far convivere Ragione&Fantasia, Pubblico&Privato ben prima dell’arrivo dei social media. A chi gli rimproverava a volte di rischiare il ridicolo per la sua condotta pubblica dirompente Gianni, ministro delle Partecipazioni statali, una volta rispose così: ”Con tutto quello che perde Finsider niente è abbastanza ridicolo”. Del resto anche il filosofo, Hanna Arendt, metteva in guardia sui rischi di essere “coperti di ridicolo” per quei politici che nella loro attività affrontano la complessa storia del conflitto, assai antico, tra verità e politica. E, aggiunge la Arendt, “la semplificazione e la denuncia morale non sarebbero di alcun aiuto” a mettere fine alla disputa (infinita). Ps: Cesare De Michelis, editore della Marsilio e fratello minore di Gianni, prima di morire lo scorso agosto ci ha lasciato uno straordinario libricino dal titolo “Cronache familiari” che meglio di qualsiasi saggio e necrologio forse può aiutarci a capire in quale ambiente culturale possa nascere la scintilla civile della passione politica a dispetto degli stessi genitori. “A loro (Noemi e Turno ndr) – scrive Cesare – toccò poi di assistere al tracollo di Gianni, rimasero proprio senza parole (…) Il papà cercava conforto chiedendo conferma ai fratelli che il suo Gianni non era senza scampo, che aveva agito secondo coscienza, che, insomma, lui non doveva provare vergogna. La mamma – prosegue Cesare – si sfogava diversamente, si rivolgeva a lui, anche assente, continuando una predica ininterrotta (…) imprecando contro la sua leggerezza, mescolando passato e presente, pubblico e privato, in una geremiade sconsolata…”. 

QUANDO DE MICHELIS SI PORTÒ A MOSCA 13 DONNE SUL MIO AEREO PRIVATO. Franco Bechis per “Il Tempo” il 12 maggio 2019. Giancarlo Parretti fu l' italiano che partito da Orvieto riuscì nel 1990 - sia pure per poco - a diventare padrone della Mgm, uno dei simboli di Hollywood, che scalò anche grazie a un prestito di 1.500 miliardi di vecchie lire concesso dal Crédit Lyonnais, la principale banca pubblica francese. Si disse che dietro quel finanziamento ci fosse stato l' appoggio del ministro degli Esteri italiano dell' epoca, Gianni De Michelis. Parretti l'ha sempre negato, e lo fa ancora oggi, ma la notizia sembrò credibile perché i due - diversissimi fra loro - furono sempre legati da amicizia, fin dai primi anni Settanta. Quando ieri si è saputo della scomparsa di De Michelis è stato naturale cercare Parretti, l' unico a poterne fare un ricordo non convenzionale per quanto commosso.

Quando conobbe De Michelis?

«Nel 1971, a Siracusa. Io ero vicesegretario del partito socialista locale, e lui era venuto a fare un incontro lì. Scoccò subito la scintilla, è stato come un amore a prima vista. Era di grandissima cultura, e pazzo di politica. Ma rispettato da tutti. Pensi che il presidente francese Francois Mitterand andava apposta a Venezia per discutere di politica con lui. È sempre stato un riferimento per tutti i leader per la sua intelligenza ed arguzia. Quando era presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo chiamava ogni mattina alle nove per capire le informazioni della giornata».

E con lei dopo quell' incontro cosa accadde?

«Lavorammo subito insieme e cominciammo a pensare i Diari, una catena di giornali locali che parti proprio a Siracusa, si diffuse nel Sud e poi arrivò anche a Napoli e Caserta, e salimmo fino a Padova e Venezia. Furono di fatto i precursori della catena Fine gil, e fummo anche i primi ad usare il formato che poi avrebbe utilizzato Repubblica. E infatti ne era incuriosito anche il principe Carlo Caracciolo, che una sera invitò Gianni e me a casa sua a Trastevere per farsi raccontare come eravamo partiti. Pensi che avevamo Giorgio Forattini che faceva le prime vignette e Alberto Bevilacqua che vi scriveva. Li chiamammo Diario di... perché quella era la testata portoghese su cui scriveva in libertà Pietro Nenni sotto il fascismo».

E da quei Diari è nata l' amicizia?

«Si, che è durata sempre. Ci univa la politica, e io penso anche di avere avuto un peso nella decisione di Gianni di staccarsi da Riccardo Lombardi e appoggiare Bettino Craxi all' epoca del famoso Midas. Per me era un grande privilegio stare con lui come con il fratello Cesare: imparavi sempre. Avevano grande cultura ed intelligenza. Nella famiglia De Michelis tutti erano laureati. Pensi che la mamma fu fra le prime donne a prendere la laurea in Italia...».

Eppure già allora la fama di De Michelis era un' altra: quella di essere un gran viveur, animale notturno di discoteche dove si lanciava anche in balli sfrenati.

«Mah... ho visto che oggi tutti ricordano quello. Ma non era cosi vero. Lui lavorava come un matto tutto il giorno, perché si preparava sempre sui dossier prima di incontrare qualcuno, e studiava a fondo prima di parlare. La sera ogni tanto aveva bisogno di distrarre la mente. Non che facesse un granché: il più delle volte andava con il segretario del Pli, Renato Altissimo, al Tartarughino che più che una discoteca era un piano bar. Anche io ogni tanto ci andavo per rilassarmi dalla tensione di una giornata».

C' era sempre un nugolo di belle donne intorno a lui. Non mi dica che questo gli dispiaceva.

«Ah, questo non posso negarlo. Pensi che un giorno gli prestai il mio aereo privato, che era un Gulfstream. Lui non era più ministro, ma doveva andare a Mosca a un incontro e non aveva trovato posto sugli aerei di linea. Ricordo che mi chiamò il mio comandante preoccupato: "Mr Parretti, lei mi ha detto che dovevo accompagnare a Mosca il ministro De Michelis. Ma lui qui si è presentato con 13 donne, tutte bellissime". Era quasi scandalizzato. Gli risposi: "C' è posto a bordo? Si. E allora a te che te frega? Falle salire".

Una era pure la moglie di un famosissimo giornalista».

Vabbè, non mettiamoci a fare gossip dopo tanti anni proprio oggi. Mi cita il Gulfstream: allora lei all' epoca era presidente della Mgm?

«L' aereo era mio, non della Mgm. Ma si, ero ancora il presidente della major».

All' epoca si disse che proprio l' amicizia con De Michelis fosse stata fondamentale per la sua scalata alla Mgm. Fu lui a racco mandarla con Mitterand per farle avere quel maxi prestito del Crédit Lyonnais?

«Mano, no. Non c' entrava nulla De Michelis. Guardi che io Mitterand lo conoscevo bene, eravamo amici. Non avevo bisogno di raccomandazioni. Primo: ero il segretario del partito socialista italiano in Francia, e mi ricordo di avere firmato di mio pugno 500 mila lettere di appoggio alla candidatura di Mitterand alle presidenziali mandate agli emigrati italiani che si erano stabiliti in Francia. Poi ero a capo di due compagnie cinematografiche francesi: la Pathé e la Canon. No, guardi. Quella scalata alla Mgm era nata tutta da una scommessa».

Una scommessa?

«Ma si, una scommessa con Gianni Agnelli ed Henry Kissinger».

Ah sì? E come nacque?

«Ero a New York, al ristorante Le Cirque di Sirio Maccioni. Pranzavo solo soletto in attesa di un incontro d' affari. Al tavolo di fianco c' era l' Avvocato con Kissinger che stavano discutendo dell' interesse di Fiat per la Chrysler. Agnelli era molto cortese, e quando mi vide mi invitò al loro tavolo: "Parretti che fa? Mangia da solo. Si unisca a noi". Parlando degli affari, si commentò la notizia appena uscita di Kirk Kerko rian che aveva messo in vendita la Mgm. Li guardai è dissi: "Scorn mettete che alla fine me la prendo io?". Kissinger si fece una grande risata, ma non voleva scommettere, perché aveva il braccino corto. All' Avvocato invece piacque la sfida, e sorrise all' amico: "Henry, se vinciamo noi dividiamo. Se perdiamo pago io per tutti e due". La persero. E l' Avvocato onorò la scommessa».

E De Michelis davvero non c' entrava?

«Mano, lui manco sapeva quel che stavo facendo. E quando scalai la Mgm mi disse che ero pazzo. Poi certo, le cose che facevo io poi si ritorcevano contro di lui perché tutti pensavano. Come quella volta del Milan...».

Che c' entra il Milan?

«C' entra, c' entra. Un giorno era il 1987 - mentre ero a Cannes, mi chiamò un amico milanese e mi chiese il favore di ricevere Giuseppe Farina, il presidente del Milan, a Parigi. Il favore lo feci, ma Farina stava scappando dall' Italia perché sapeva che sarebbe stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti per un' inchiesta milanese. Si presentò con una valigia piena di scartoffie: erano le azioni del Milan. Voleva venderlo subito per metterlo al riparo da quel che stava per accadere. Era convinto che volessero fare fallire la squadra».

E lei lo comprò?

«Si. Solo che si seppe subito. Candido Cannavò diede la notizia sulla Gazzetta dello Sport sostenendo che facevo il portage per Silvio Berlusconi. Così quella mattina mi squillò il telefono: era la batteria di palazzo Chigi. Dall' altra parte del filo c' era il presidente del Consiglio Bettino Craxi su tutte le furie: "Tu e Gianni avete fatto questa operazione per creare difficoltà a me". Gli dissi: "Bettino, ma che dici? Gianni non sa nulla di questo. Ho solo fatto il favore a un amico..."».

E Craxi le credette?

«Mi rispose secco: "Se è come dici tu, allora dimostralo vendendo subito il Milan a Berlusconi. Prendi il primo aereo per Milano e vaglielo ad offrire". Risposi che se lo voleva tanto, poteva prendere lui il primo aereo per Parigi. Comunque a me il Milan non interessava, ero pure tifoso dell' Inter. Il mese dopo l' ho venduto a Berlusconi».

A proposito del Cavaliere. Aveva buoni rapporti con De Miche lis?

«No, non si è mai fidato di Gianni. Berlusconi è sempre stato diffidente nei confronti di chi era troppo intelligente. Non voleva sentirsi a disagio durante una discussione. Però anche Gianni ci metteva del suo, voleva fare sentire a disagio il Cavaliere con la sua superiorità intellettuale».

Poi arrivò Tangentopoli, e finì tutto...

«Per Gianni in realtà no. Non fu la fine. Guidò dopo lui il rinato partito socialista verso Berlusconi, e fu perfino eletto al Parlamento europeo nella seconda Repubblica».

Vi siete visti anche in questi ultimi anni?

«Lui aveva una forma di Parkinson, che all' inizio ne frenava i movimenti. Però si muoveva. Poi cominciò a rendergli difficile parlare, cosa che per uno come lui era terribile. Nel 2014 lo invitai a Montalto di Castro alla presentazione di Roma Vetus, una mia iniziativa. Non voleva, perché temeva di bloccarsi nel parlare. Lo convinsi. Appena vide giornalisti e telecamere la parola gli venne naturale e non si fermò più. Diede perfino una intervista ad Enrico Lucci delle Iene. Credo che sia stato l' ultima sua presenza da protagonista in pubblico. Poi andavo a trovarlo, ma non parlava più. L' ultimo anno non ci sono più andato. Finché è stato in vita il povero Cesare mi dava lui notizie, a me faceva troppo male vedere Gianni così. Lui non parlava, ma capiva tutto. E aveva umiliazione nel farsi vedere così. Purtroppo lo rivedrò ai funerali. Spero che li la parola la prenda Massimo Cacciari, che era uno dei suoi "figli" politici. Cacciari l' anno scorso ai funerali di Cesare ha detto delle cose bellissime...». 

SOCIALISMO GAUDENTE. Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”  il 12 maggio 2019. Povero De Michelis, se n' è andato proprio quando lo stile di vita e di potere che egli ha incarnato, e che ai suoi tempi apparve irrimediabilmente eccessivo, si rivela ora non solo accettabile, ma a suo modo improntato anche a dignità politica e progettuale. Aveva 78 anni, ma stava male da tempo, sempre più spento; e rispetto alle smozzicate notizie che filtravano, è di consolazione pensare che in vita si è parecchio divertito, forse addirittura oltre le sue stesse convenienze, come può succedere a figure che hanno dato smalto e sostanza, animo, cervello e corpaccione a un vero passaggio d' epoca. Destino comune di diversi ex giovani che alla metà degli anni 70 del secolo scorso, sotto l' imperiosa guida di Bettino si presero un partito tanto antico quanto sonnacchioso e lo portarono al top del potere per poi schiantarlo nell' abisso, tra furore e vergogna, ma forse sarebbe accaduto lo stesso, anche se i necrologi non si fanno con i forse. E comunque: «Nullatenente ad alto reddito» si definì un giorno; fra i primi ad ammettere «il piacere del comando» e la disponibilità a «lasciarsi affittare in piena coscienza come un frac». Dalla metà di aprile (presso la Fondazione Giuliani, a Testaccio) un artista contemporaneo sensibile e attento alle trasformazioni della società italiana come Francesco Vezzoli ha ingrandito e racchiuso in cornici barocche 28 iconiche foto degli anni 80 battezzando il suo progetto "Party politics", e Gianni De Michelis è naturalmente uno dei protagonisti. Eccolo con un' opalescente Sandra Milo celebrare la resurrezione della carne, oppure con Tinto Brass, eros & craxismo, o colto a tavola, nel più furbo dei sorrisi, accanto a Isabella Rossellini. Grifagno, arruffato, sanguigno, straripante, estroverso. Famiglia protestante, studi di chimica, lotte operaie a Porto Marghera, l' accademia manovriera della politica universitaria, poi il Psi, corrente lombardiana. Nel 1980, con mossa a sorpresa, molla i giovani strateghi della Sinistra per salvare Craxi, allora a rischio. Divenuto responsabile organizzativo del Garofano, senza troppi scrupoli costruisce addosso al leader un' armatura a prova di dissenso e con articolazioni feudali. Per premio diventa ministro: Partecipazioni statali, Lavoro, Esteri. Seguono leggi, progetti, nomine, trame di potere, agguati in Parlamento, coraggiosi tour nelle fabbriche, inaspettati applausi, ma anche grottesche fughe per sfuggire all' ira delle maestranze, di corsa con pancione ballonzolante, come in un cartone animato. Mille e mille altre sequenze si sedimentano nella memoria di quella abbagliante stagione che senza remore va a collocarsi sotto i riflettori del binomio genio-sregolatezza. I capelli lunghi: "E no che non me li taglio!" (in un film Alberto Sordi riprese la battuta); il ballo da orso tarantolato, "fino a quando il sudore non entra negli occhi", con l' attricetta affamata di notorietà; le feste in costume nella casa ormai senza mobili di Venezia, e poi anche in giro per il mondo, da Budapest ad Hanoi. E ancora il gusto di farsi tornare utili le potenze del desiderio e dell' ebbrezza, l' energia ipercinetica e vorace, le visioni, le intuizioni, le suggestioni, le adunanze del morbido, profumato, strabordante staff femminile sugli enormi tappeti del Plaza con la premurosa regia del portiere Gigino Esposito, la copertina pop vintage del libro sulle discoteche ("Dove andiamo a ballare questa sera? ", Mondadori, 1988: venne poi fuori che se l' era fatto scrivere da una segretaria che poi lo denunciò), ma nel frattempo presentato al "Bandiera gialla" di Rimini alla presenza di ministri e ballerine Oba Oba con il pennacchio sul sedere...oh, come tutto è destinato a consumarsi! E infatti quell'esperienza si bruciò nell' arco di una decina d' anni, forse meno. Tangentopoli fu devastante, tutti i suoi arrestati e/o pronti a tradire, lui stesso rincorso per le calli di Venezia al grido di "Onto!", unto, sempre per via dei capelli, col pericolo di essere buttato in un canale. Non si riprese più. Ma prima quel personaggione era apparso così potente, promettente, eccitante e divertente da farsi icona, emblema e metro di misura di un mutamento senza ritorno. Perché giusto in quegli anni, a ripensarci, la politica in Italia cambiò senso e nozione, e proprio a Bettino, a De Michelis e agli altri di quel giro fu concesso l' amaro lusso e il fantastico privilegio di praticarla mostrandosi per quello che erano e finalmente chiamando le cose con il loro vero nome. Più brutalmente: contro gli ipocriti moralismi democristiani, la mesta severità comunista e gli snobismi aristo-tecnocratici dei laici, forse senza saperlo, o magari rifiutando di ammetterlo, il craxismo oscurò per sempre la proiezione "religiosa" delle maggiori culture politiche. Game over, avrebbe potuto dire lui; "dopo", cioè nell' aldilà, vattelapesca che cosa c' era, l' importante è qui e ora, primum vivere, si vive una volta sola - e se così la morte diventa irreparabile, beh, è una faccenda che va ben oltre la politica, e Gianni De Michelis lo sapeva meglio di tanti altri. 

DE MICHELIS LO CONOSCEVO BENE. Marco Ventura per “il Messaggero”  il 12 maggio 2019. «Una cosa va detta subito: sarebbe ingiusto ricordare Gianni De Michelis solo per il suo amore del ballo e delle discoteche, come se la vita di un uomo politico così importante, per 12 anni al governo, potesse ridursi a qualche trasgressione anche molto innocente. Non vedo nulla di male nel fatto che a un politico piacciano le discoteche. Tutte quelle polemiche su di lui capellone che amava ballare, Gianni le prendeva con ironia. C'è addirittura chi lo ha bollato come l'Unto perché aveva i capelli lunghi e sudava, insinuando altre forme di unzione».

Claudio Martelli, anche lui ex vicepremier e nel direttorio del Psi di Craxi, invita piuttosto a ricordare un altro De Michelis...

«Come ministro delle Partecipazioni statali, per esempio, fece un sodalizio con Marisa Bellisario che impose all'Italtel, difendendola dalle aggressioni di Cesare Romiti e rilanciando lo Stato imprenditore sulla frontiera più avanzata, quella delle telecomunicazioni e della quarta rivoluzione industriale».

La storia a volte è ingiusta?

«Passano per eroi quelli che hanno distrutto e venduto la Olivetti, e rischiano di essere ricordati solo per i locali notturni quelli che si sono battuti per non danneggiare questo Paese e spingere lo Stato a innovare e ad ammodernarsi».

De Michelis fu il ministro del Lavoro del taglio della scala mobile.

«Tentò in ogni modo di portarsi dietro tutto il sindacato e solo alla fine dovette arrendersi, quando la Cgil si mise di traverso nonostante i tentativi di Lama che non resisté alla pressione di Berlinguer e del Pci. Quando poi si arrivò al referendum, a vincerlo fu Craxi, non Berlinguer. E si aprì una stagione promettente per l' economia italiana».

Con quali risultati?

«Nei 3 anni dopo il decreto, l'inflazione scese dal 14,5 al 4,5 per cento. E la crescita andò al 4 e mezzo. Fu anche il ministro degli Esteri che tenne a battesimo l' Unione europea, nel bene e nel male comunque un traguardo storico. Gli errori successivi alla firma di Maastricht non si possono certo addebitare ai De Michelis, ma all' allargamento smisurato della Ue. Anzi, lui fu il primo a intuire che o l' Unione riusciva a integrare i Paesi dell' Est o sarebbe partita da lì la disgregazione. Come poi è successo».

De Michelis, però, si ostinò a negare che fosse scoppiata la guerra nella ex Jugoslavia.

«Fu l'ultimo ad arrendersi, a combattere come un giapponese per l' unità della Federazione jugoslava, d' accordo con Craxi. I buoi erano scappati dalla stalla, e De Michelis ancora si illudeva che la Germania e il suo amico Genscher avrebbero tenuto la posizione. Vidi il suo sbalordimento, perché ero presente, quando lesse la dichiarazione con cui la Germania riconosceva l'indipendenza di Slovenia e Croazia. Fu preso alla sprovvista. Questo il limite politico suo e di Craxi, mentre per la verità Cossiga e io comprendemmo subito che il crollo dei Muri avrebbe avuto conseguenze importanti anche per l' Italia. Loro non lo videro, o non vollero vederlo, e rimasero prigionieri di un mondo che non c' era più. Il che non cancella i suoi altri meriti».

Umanamente come lo ricorda?

«Gianni era un uomo con tratti di genialità, che conservò anche a lungo una certa ingenuità fanciullesca. Amava esporsi. Diceva: mi rimproverano di frequentare le discoteche? Allora io scrivo la guida alle discoteche! E infatti, chi dice che il politico dev'essere un sepolcro imbiancato e non può divertirsi? Era rimasto un ragazzone, non voleva negarsi i divertimenti di un ragazzo che va in discoteca, anche se aveva quaranta-cinquant' anni. Ma se lo giudicassimo per questo, o per Tangentopoli, faremmo una grande falsificazione della realtà».

De Michelis, fine amara del Doge: solo dopo Tangentopoli. Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. «Sono come un atleta che ha avuto una frattura. Per un po’ so che devo stare fuori. Ne prendo atto e buonanotte». Così la pensava Gianni De Michelis, dopo Tangentopoli. Mordicchiava la cravatta, roteava gli occhi al cielo e borbottava: «Boh, il reato di finanziamento illegale dei partiti è uno di quelli che vanno e vengono. Dieci anni fa non sarebbe venuto in mente a nessuno». Erano i primi anni Novanta. Non sapeva che, dopo quella frattura, non sarebbe più tornato in campo. Non sui campi che contavano, almeno. Certo, rastrellando un po’ di socialisti rimasti e appoggiandosi al Cavaliere sarebbe riuscito sia pure azzoppato, a tornare in Parlamento. Quello europeo. E poi alla Camera. Mai più, però, nei ruoli che sentiva suoi: «L’Italia sarà pure di serie B ma io sono comunque di serie A». Il momento più umiliante della sua parabola politica, umana ed esistenziale infatti, non fu probabilmente quello della fuga per le calli di Venezia, la sua Venezia, inseguito da giovanotti che volevano spintonarlo in un canale al grido di «Ciapalo! Ciapalo! Onto! Onto». Acchiappalo! Acchiappalo! Unto! Unto! Quello più amaro fu il giorno in cui chiese di tornare in cattedra. A Chimica. La materia nella quale si era laureato e che, raccontano, insegnava da trascinatore. Accolto anche lì da mugugni e contestazioni, dovette prendere atto che era meglio andarsene. In pensione. Ricordarlo ora solo come l’uomo che sfidò l’impopolarità liquidando il bubbone di Tangentopoli, in un’intervista a Gad Lerner, come «un’operazione inventata dai ladri per far fuori gli onesti», è ingiusto. Fu anche quello, si capisce. Ma non solo quello. Basti rileggere una testimonianza, in epoca non sospetta, di Ugo Intini, a lungo vicinissimo a Bettino Craxi, il «Re Sole» dei socialisti: «Gianni ormai era una macchietta. Appena arrivato in consiglio dei ministri iniziava a sbracciarsi e sudare e mostrar tabelle per convincerci che sullo stato sociale andavamo al disastro. Dopo dieci minuti capiva che non era aria e smetteva. Poveraccio, aveva ragione lui, ma in quel contesto, se avessimo proposto dei tagli saremmo andati al suicidio.» Era ministro del lavoro, allora. E aveva capito, a metà degli anni Ottanta, quelli in cui il debito pubblico schizzò verso l’alto, il baratro che avevamo davanti. La risposta può essere riassunta in una battuta di Craxi sui liberali: «Hanno fondato un’associazione per il taglio della spesa che ha per stemma le forbici. Il simbolo degli eunuchi». Ma come, proprio lui, il professore veneziano che dopo essersi mostrato in quei frangenti tra i più attenti ai conti pubblici, arrivò negli anni d’oro a tirarsi addosso da Enzo Biagi il nomignolo di «avanzo di balera» per le notti in discoteca e i capelli sudati? Lui che avrebbe dato una festa per duemila invitati alla Marittima di Venezia allegrissima, incasinatissima, chiassosissima con le luci psichedeliche a frullargli i riccioli? Lui che per spegnere le sue 50 candeline avrebbe programmato una grande festa con duecento invitati in un castello fuori Praga rinunciando solo perché Craxi gli intimò l’annullamento o le dimissioni? Lui. Perché Gianni De Michelis, ha rappresentato uno dei grandi sprechi della politica italiana. Un uomo di scintillante intelligenza, capace di impadronirsi in poco tempo delle lingue che gli servivano, di leggere i dossier a una velocità mai vista, di divorare un libro in una notte con la voracità con cui aggrediva i piatti meno dietetici. Insaziabile di cibo quanto era negli anni spericolati (poi raccontati nei dettagli da passeggere amanti notturne) insaziabile di donne. Questo era: l’uno e l’altro. Uno sbruffone capace di dire «se convoco una riunione per parlare di qualsiasi cosa faccio un fischio e arrivano venti cervelli che Berlusconi se li sogna» e insieme uno che, dopo essersi lamentato di «trentacinque processi finiti in larghissima parte nel nulla o in condanne minori», riconosceva: «Ma certo che ho sbagliato, le pare che con quello che è successo non mi sia pentito di certi errori?». Accettava via via la progressiva emarginazione e di colpo rialzava la testa:«L’autocritica l’ho fatta prima di tutti. Quando dissi: guardate che la fine del comunismo farà sì che la gente non sopporterà di pagare più la tassa implicita che ha pagato in nome della lotta al comunismo. Avevo già tutto chiaro. Gli unici che hanno fatto autocritica siamo noi...» «Politica, mai morale...», gli dissi. E lui: «Politica “e anche” morale». «Il giorno in cui si tireranno le somme finali, come è stato dimostrato dai processi, si vedrà infatti non mi è rimasto un soldino nelle tasche», rivendicò un giorno. Riconosceva però d’aver fatto male a sottovalutare l’errore di presentarsi come un gradasso: «In dodici anni da ministro avrò avuto quattromila lettere anonime e l’80% se la pigliava coi capelli: “Onto!”, “Bisonto!”, “Lavati!”. Me ne fregavo. Sbagliai». Una impresa di acque minerali, donando parte del ricavato alla ricerca sul cancro, si spinse a sfruttare il suo faccione. Lui coi capelli lisci: «Liscia». Con un metro cubo di capelli ricci: «Gasata». Normale: «Ferrarelle». Sui suoi anni alla Farnesina, resta indimenticabile una cronaca scritta di suo pugno da Edward Luttwak, consigliere strategico della Casa Bianca: «Alla conferenza della Nato indetta dal Center for Strategic and International Studies era accompagnato da: 1) una bionda avvenente con compiti non specificati sul libro paga di un’azienda di Stato, l’Eni, o forse del partito socialista italiano; 2) una brunetta con compiti non specificati anche lei sul libro paga di un’azienda di Stato o forse del partito socialista italiano...». Vulcanico propugnatore del Mose (che pensava di realizzare in pochi anni), dell’Expo 2000 a Venezia con le isole galleggianti, dei Giacimenti Culturali come «petrolio dell’Italia», delle «date catenaccio» in grado di costringere il paese a obbedire al «partito del fare» contro il «partito del non fare», visse anni da Doge circondato da folle di amici, arrampicatori, architetti di grido, corteggiatrici, portaborse, faccendieri. Negli ultimi tempi gli erano rimasti pochi amici fedeli, il figlio, i fratelli tra i quali Cesare, l’editore di Marsilio, morto pochi mesi fa... Che la terra gli sia leggera.

GIANNI DE MICHELIS, Il “FALSTAFF VENEZIANO”. Fabio Martini per la Stampa l'11 maggio 2019. Una volta «Le Monde» scrisse di Gianni De Michelis:«Le Falstaff venetienne» va a dormire«à l’heure du lattier», all’ora del lattaio, anche se lo spagnolo «Diario 16» in un’altra occasione aggiunse che si svegliava «fresco como una rosa y activo come un ciclòn». Nessun altro come Michelis ha incarnato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 terremotò l’ordinato sistema politico italiano: con la sua vita esuberante e fresco como una rosa y activo come un ciclòn». Nessun altro come Michelis ha incarnato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 terremotò l’ordinato sistema politico italiano: con la sua vita esuberante e fuori dagli schemi, espresse la rottura antropologica portata dal Psi craxiano, la vitalistica rivendicazione ad essere sé stessi, contro le ipocrisie e i moralismi dei due «partiti-Chiesa», la Dc e il Pci. Con Bettino Craxi e con il resto della classe dirigente socialista condivise anche la sfida all’egemonia culturale comunista, in quella stagione un tratto anticonformista che permeò anche la sua attività da ministro degli Esteri, segnata oltreché da conoscenza dei dossier, da un europeismo e da un atlantismo al tempo stesso indiscutibili, ma continuamente filtrati da un incessante spirito critico. Era nato a Venezia da una famiglia protestante, si era laureato in Chimica industriale ed era fratello di Cesare, scomparso nove mesi fa, uno degli intellettuali più incisivi del Secondo Novecento, patron della Marsilio, «editore umanista e cacciatore di talenti», come ha scritto Mario Baudino su«La Stampa». Si era iscritto da giovane al Partito socialista e in una stagione nella quale si aderiva contestualmente a strutturatissime correnti, entrò a far parte dell’area di sinistra del partito, quella lombardiana. Ma nel Comitato centrale del 1980, quando Craxi rischiò di essere disarcionato, passò le linee e fu decisivo per la prosecuzione del nuovo corso socialista. Vicino politicamente a Craxi, non era mai diventato un suo amico stretto, non partecipava al rito del «Raphael», l’albergo romano dove il leader socialista riuniva i compagni ai quali era maggiormente legato, De Michelis aveva il suo quartier generale al Plaza, dove tra i tanti aveva alloggiato Pietro Mascagni e dove fu arrestato Enzo Tortora. Anche se ebbe un ruolo politico importante, come vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e delle Partecipazioni statali, De Michelis ebbe notorietà soprattutto per la sua «complessione» psico-fisica. Un’estesa pancia mai nascosta, occhiali con una grossa montatura, spesso circondato da belle donne, capelli lunghi, De Michelis era orgoglioso frequentatore di balere, discoteche, feste mondane e tutto questo gli procurò una raffica di soprannomi, da «Avanzo di balera» a «De Maialis». Nomignoli che sembravano non ferirlo e che non provocarono mai rappresaglie vendicative. Disse di sé stesso: «Io sono come tutti, con la differenza che non lo nascondo». Un’auto-definizione che vale come epitaffio.

Addio a De Michelis il socialista poliedrico piegato da Mani pulite. Aderì al Psi nel '64 quasi per caso. Craxi gli diceva: "Tu di politica non capisci un cazzo". Roberto Scafuri, Domenica 12/05/2019 su Il Giornale. Ci sono stati anni in cui il telefono squillava annunciando un tornado. Il tornado si chiamava Gianni De Michelis e di professione aveva fatto per più di trent'anni il politico, pur essendo laureato in Chimica come la mamma (il papà ingegnere, il nonno pastore metodista). Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. Non per dedizione al Paese, come avrebbe declamato un trombone qualsiasi, bensì per semplice, incontrollabile, smodata curiosità. Sete di vita rafforzata dall'implacabile intelligenza. Miscela che spesso gli faceva propendere per la via traversa, la diramazione, piuttosto che per la via maestra. Bettino Craxi, che lo sapeva, mai gli revocò fraterna benevolenza, considerandola «effetto collaterale» di quell'intelligenza che non mancava di stuzzicarlo (e divertirlo). «Tu, di politica - gli diceva - non capisci proprio un caz...». Lui, che di Craxi subiva l'indubbio fascino, lo vedeva come il raggio laser che, individuato un obbiettivo, lo coglie con precisione chirurgica. Così, sopportava. E si divertiva un mondo a scardinare le certezze craxiane, finché quello sbottava: «Sei un pasticcione!». E Gianni aumentava la dose di impegno, lavoro, spunti diversi e diramazioni geniali. «Che vuoi farci, sono un dispersivo...». Già, però una delle migliori dispersive menti che abbia avuto questo disgraziato Paese, capace di strappare le Partecipazioni statali all'interessato dominio democristiano per farne una delle basi dell'ondata socialista. E dunque, assieme a Claudio Martelli, l'anima di un socialismo che sprizzava vitalità da tutti i pori, così come accadeva nelle dissipate notti in discoteca che Gianni rivendicava con orgoglio. Se non era un leader di prima fila, era però il consulente d'eccellenza che qualunque vero capo avrebbe agognato. Simbolo dei ruggenti anni Ottanta, quelli del sorpasso economico all'Inghilterra. Bobo Craxi, che nel 2001 fondò con lui il Nuovo Psi lo piange con dolore, come «uomo di Stato e socialista coerente», nonostante avesse portato metà dei socialisti alla corte di Berlusconi. Ma tornado, e dunque incline al vorticoso girovagare, lo era stato fin dagli esordi. «A 11-12 anni simpatizzavo per la monarchia, l'anno successivo ero vicino al Msi... Da protestante non sarei mai potuto essere dc, né avevo propensioni comuniste. Nel '58 mi dichiaravo vicino ai Radicali di Pacciardi, finché una sera del luglio del '60, dopo il mio primo breve comizio universitario, tornando a casa mi dissi: non puoi restare cane sciolto. Ero dalle parti della sezione Psi di Campo San Barnaba, a Venezia, mi ci iscrissi». Fu l'inizio di una carriera che lo vide nel '64, quando uscirono dal partito i cosiddetti «carristi» della sinistra, prendere il sopravvento nella sezione con la sua idea «innovativa»: fondere i lombardiani, cui si sentiva vicino per temperamento e curiosità, con il saldo autonomismo nenniano. L'azzardo funzionò: tanto che fu replicato al Midas, in grande, da Craxi nel '76. Ma il vero esordio con le dinamiche politiche risaliva ai tempi dell'Ugi, l'Unione goliardica, che lo vide schierato in un congresso palermitano con Jannuzzi e Militello contro il già allora temutissimo Craxi. Doveva parlare il repubblicano Paolo Ungari e gli «anticraxiani» lo temevano perché buon oratore. Saputo che Ungari era in albergo a scrivere il discorso, decisero di inviargli una prostituta in camera per distrarlo. Raccontò Gianni che «dopo un'ora, visto che non uscivano, andammo a vedere e trovammo la prostituta nuda che batteva a macchina il discorso che Ungari, nudo anche lui, gli stava dettando». La formazione politica avveniva sul campo, per salti e piroette di genio, altro che discoteche. Simbolo schietto di quella dissipazione che porterà alla dissoluzione dello stesso Psi, De Michelis sarà colui che con maggiore lungimiranza colse nel segno della politica estera italiana (fu l'apice della sua carriera sul finire degli 80): rispettato all'estero e duttile quanto bastava per non farsi spezzare da nessuno. Neppure da Tangentopoli che lo tormentò dal '92 in avanti: «Io sono quel tipo di politico dispersivo, dunque anche elastico: per questo Bettino si è fatto spezzare e io no». Eppure, come lo rimpiange Bobo, «ha tenuto in mano la bandiera nel momento in cui sembrava non ci fosse più niente da fare ed è stato coraggioso... Mi riempie di tristezza il modo con cui ha finito la sua esistenza, era profondamente segnato dalle vicende degli anni 90 sul piano fisico». Evidentemente, era solo meno «giunco» di quello che lui stesso pensava. E in questo suo sobrio ritrarsi e nascondere le sue pene, sta la vera cifra dell'uomo generoso che amava la vita senza mai vergognarsene.

Se questo si chiama cambiamento, ci sarà chi griderà “Aridatece De Michelis”. Francesco Storace domenica 12 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Gianni De Michelis è morto. Ma questi che ci sono ora, è sicuro che siano vivi? Bastano i sondaggi, sia pure claudicanti, a testimoniare l’esistenza di un governo e di una maggioranza che si ammazzano di botte su tutto? Non si sopportano più tra di loro e non li sopportiamo più noi che amiamo l’Italia. Si sono menati sul caso del sottosegretario Siri per le accuse di corruzione. Parlano di conflittod’interesse, ma manifestano uno straordinario interesse al conflitto. Lega e Cinquestelle si mettono reciprocamente nel mirino per la canapa e da un po’ pure sui migranti. La sicurezza diventa un tema di battaglia tra opposti all’interno del cortile di palazzo Chigi. Tacere sulle autonomie…Non parliamo dell’economia. Tasse su e giù. (Su nei fatti, giù nelle parole). La Tavche si fa e non si fa a seconda di chi parla. Roma capitale da salvare o da assassinare. Sblocca cantieri come arma per la soluzione finale in Parlamento a suon di emendamenti contrapposti.

Arriva la mazzata europea. Nel frattempo prepariamo le tasche, perché fra poco tornerà a svuotarcele la Commissione Europea con la nuova mazzata sui nostri conti pubblici. Di Maio e Salvini litigano su tutto, non si reggono più, una maggioranza come quella che sta al governo dell’Italia si prende ogni giorno a randellate per racimolare decimali alle elezioni del 26 maggio. Il Paese, l’interesse nazionale, i diritti del nostro popolo, vengono dopo i voti. Al confronto, Gianni  De Michelis era un gigante. Non si amavano neppure quei leader di allora, ma gli insulti quotidiani di questo tempo debole fatichiamo a ricordarli. Anche se siamo di memoria lunga. Certo, c’erano i brutti vizi della prima repubblica. Ma siamo sicuri di poter dire che oggi sia tanto meglio? Se questo si chiama cambiamento, ci sarà chi griderà “Aridatece De Michelis”.

Bastano i vitalizi? Dopo un anno di governo, non è semplice giustificare il cambiamento con l’abolizione dei vitalizi. Che esistono ancora e semmai sono stati trasformati in pensione. Perché lo decise il governo Monti…Il reddito di cittadinanza è certo cambiamento. Culturale e devastante, perché al posto del lavoro emerge il diritto all’assistenzialismo persino se stai in un campo nomadi. De Michelis e chi viene bollato spregiativamente come appartenente a “quelli di prima” hanno commesso tanti errori. La differenza tra ieri e oggi sta nell’odio che emerge dai social. Lo Stato è sempre più indebitato. Le famiglie pure. Parlavano di politica e li ascoltavi. Ora l’ambizione è aspettare la fine del comizio per farsi fotografare con loro. I più eroici fanno la fila per fare un dispetto a Salvini. Ve li immaginate a Sigonella, Conte e compagnia? Si vive sempre più alla giornata, non c’è visione del futuro, ecco perché siamo dispiaciuti della triste morte di De Michelis. Certo, non siamo nostalgici di quelle politiche, che conoscemmo e combattemmo. Ma sappiamo distinguere tra il giusto e ciò che era sbagliato. Qui, ora, se ne dicono di tutti i colori tra di loro ed è davvero molto triste, lo spettacolo. Dice il pigro “ma se cascano arriva il Pd”. E quanto durano…

L’eredità “corsara” di De Michelis sopravvissuta alla fucilazione mediatica che sterminò i socialisti. Fabrizio Cicchitto il 21 Maggio 2019 su Il Dubbio.  La commozione provocata dalla morte di Gianni De Michelis ha giustamente concentrato l’attenzione sulla sua straordinaria personalità. Vale la pena, però, collocare l’esperienza politico- culturale di De Michelis nella storia del PSI conclusasi drammaticamente fra il 1992 e il 1994. Alle elezioni del 1976 il PSI ebbe il suo minimo storico, il 9,6%: il rischio della scomparsa era altissimo. Quel risultato provocò la rivolta del Midas che nel 1976 portò alla segreteria di Bettino Craxi eletto da parte di una maggioranza assai eterogenea costituita dagli autonomisti nenniani, dai giovani lombardiani ( Signorile, De Michelis, Cicchitto e altri), da una dissidenza demartiniana ( Enrico Manca, Salvatore Lauricella). Si trattò di una rivolta generazionale e di una rifondazione politico- culturale. Bettino Craxi parlò esplicitamente di riformismo, di liberalsocialismo, dell’Internazionale Socialista, del totalitarismo comunista e sostenne, anche finanziariamente, tutte le dissidenze, dal dissenso in URSS e nei paesi comunisti, a coloro che in Spagna e poi in Cile erano contro le dittature di destra, ai palestinesi. Oltre a Craxi ci fu l’affermazione di alcune forti personalità, da De Michelis, a Martelli, agli esponenti della sinistra lombardiana. Sia Craxi che De Michelis, in polemica con la Thatcher, erano per la costruzione dell’Europa, ma per un’Europa diversa da quella ipotizzata dai tedeschi. Sul terreno più strettamente politico quel PSI condusse una sorta di “guerra corsara” sia nei confronti della DC, sia nei confronti del PCI. Insomma il PSI divenne una specie di crogiuolo di fermenti culturali, politici e sociali spesso innovativi, talora velleitari. Tutto ciò veniva finanziato senza guardare troppo per il sottile, in modo regolare e in modo irregolare. Ma allora tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare: quello che aveva il finanziamento più irregolare di tutti era il PCI che sommava insieme il finanziamento sovietico, quello dell’ENI, quello delle cooperative e quello delle tangenti dei privati. Di conseguenza quando Berlinguer in un’intervista a Scalfari aprì la cosiddetta questione morale rivolta anche contro la corruzione dei partiti ( ovviamente gli “altri partiti”, perché il PCI era un partito diverso, dalle mani pulite) cavalcò un’autentica mistificazione che però nel futuro avrebbe avuto effetti devastanti per la democrazia italiana. Così si arrivò alla fase 1989- 1991, quella segnata dal crollo del comunismo in URSS e nei paesi dell’Est. Per un verso Craxi e quasi tutto il PSI attesero fiduciosi che “ritornasse Godot”: Godot era la presidenza del Consiglio che ovviamente poteva arrivare solo in seguito ad un rinnovato accordo con la DC. Ma Craxi considerò che il crollo del comunismo sovietico e lo stesso cambio del nome del PCI avrebbero portato al riconoscimento della sua leadership anche da parte del PCI, ragion per cui favorì l’adesione del PDS all’Internazionale Socialista e commise il tragico errore di non provocare le elezioni anticipate nel 1991, così come le sollecitava il presidente Cossiga. In quell’occasione Craxi, il leader socialista in un certo senso più anticomunista, fece una valutazione sul PCI- PDS del tutto sbagliata per il suo ottimismo: solo la minoranza migliorista ( Chiaramonte, Macaluso, Napolitano) dava al cambio del nome il senso di approdare all’unità socialista con il PSI. Invece Occhetto puntava ad una fuoriuscita “da sinistra” dal PCI con il recupero delle tematiche ingraiane. Per parte loro D’Alema e i “ragazzi di Berlinguer” fecero la scelta del cambio del nome per ragioni di realismo politico, ma ritenevano che il PDS doveva occupare lo stesso spazio del PSI, ma non unendosi ad esso, bensì in qualche modo sostituendolo. L’occasione fu offerta da Mani Pulite. Mani Pulite nacque al di fuori del PDS ad opera del pool di Milano e di una rete mediatica costituita dai quattro direttori dei principali quotidiani ( Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità), che negli anni ’ 92-’ 94 si consultava alle 19 di ogni sera, dal TG3 e da trasmissioni come Samarcanda. Ora, Tangentopoli era un sistema di finanziamento irregolare che coinvolgeva tutti i grandi gruppi privati e pubblici ( in primis la Fiat, la Cir e l’Eni) e tutti i partiti, PCI compreso. Invece Mani Pulite e il circo mediatico decisero di fare un’operazione selettiva: distrussero il centro- destra della DC, tutto il PSI, i partiti laici, salvando il PDS e la sinistra democristiana. In quel quadro Bettino Craxi e Gianni De Michelis furono i primi di un’autentica lista di proscrizione. A quel punto Craxi fece alla Camera un discorso di verità, ma nessuno lo raccolse. Non lo raccolse ovviamente il PDS che dal pool di Mani Pulite aveva un salvacondotto, ma per cecità non lo raccolse neanche la DC, sicura (“dottrina Gava”) che la consegna di Bettino Craxi “ad bestias” avrebbe soddisfatto e fermato il giustizialismo. Avvenne invece l’opposto e Gava, Forlani, Andreotti, insieme a molte centinaia di altri parlamentari democristiani finirono al mattatoio. Così l’anomalia italiana dopo essere stata caratterizzata dall’esistenza del più forte partito comunista dell’Occidente ha avuto un altro exploit: solo in Italia è avvenuto che ben cinque partiti sono stati azzerati non dal voto degli elettori, ma dall’iniziativa di magistrati che, a parità di reati, salvò invece una parte del sistema politico. Così nei confronti di due uomini di Stato di grande statura come Craxi e De Michelis fu effettuata un’operazione di demonizzazione con meccanismi simili alla logica che ispirò piazzale Loreto: Craxi fu rappresentato come “il cinghialone” da abbattere senza guardare troppo per il sottile e De Michelis come “l’unto” da inseguire per le calli di Venezia. Il partito non ha retto all’urto, ma grazie alla Fondazione per il Socialismo e a Mondo Operaio è riuscita un’operazione quasi impossibile: grazie ai dieci volumi dedicati a Craxi e al PSI degli anni 1976- 1994 è stato possibile elaborare una storia alternativa a quella dei vincitori, che solitamente è l’unica che rimane in campo.

·         Morto Massimo Bordin.

Morto Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale. Da Repubblica.it del 18 aprile 2019. E' morto Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale. L'annuncio in diretta. Bordin che della radio era già stato direttore dal 1991 al 2010, aveva 67 anni. Conduttore di una seguitissima rassegna stampa mattutina, "Stampa e regime", era malato da tempo ai polmoni ma fino all'1 aprile ha condotto la sua trasmissione radiofonica. Eterno alter ego di Marco Pannella, suo amico oltre che editore, era stato tra le altre cose l'interlocutore del leader radicale nella conversazione domenicale. "E' morto poco fa a Roma Massimo Bordin, è davvero con immenso dolore che diamo questa comunicazione che non avremmo mai voluto dare", questo il messaggio con cui Radio Radicale ha dato in diretta la notizia della scomparsa del giornalista, una delle voci più celebri e stimate dell'emittente. "Era malato da tempo - ha detto il conduttore - e aveva chiesto di poter vivere e lottare contro questa malattia nel massimo riserbo, e noi abbiamo rispettato la sua scelta. Ma non ce l'ha fatta, poco fa siamo stati raggiunti dalla notizia. Ricorderemo il nostro Massimo e lo onoriamo con quel Requiem che tante volte ha preceduto la sua unica e splendida rassegna stampa". Poi la trasmissione del Requiem di Mozart al posto del normale palinsesto.

Addio Massimo Bordin, il giornalista libero che creava mondi. Aspro, pignolo, implacabile, da Radio Radicale si è infilato per decenni nelle case raccontando la stampa e il regime. Alter ego giornalistico di Pannella, era la garanzia che il mondo fosse catalogabile, a tratti comprensibile. E che si potesse, per estrema ipotesi, addirittura riderne, scrive Susanna Turco il 17 aprile 2019 su L'Espresso. Non era solo l'anima di Radio Radicale, la sua voce «più bella e più autorevole» come ha detto il direttore Alessio Falconio ormai liberato dal vincolo dell'understatement cui, visto il soggetto, era stato sin qui certamente obbligato. Era la garanzia che davvero fosse giorno, che il mondo là fuori esistesse e che fosse ordinabile per argomenti, a tratti addirittura comprensibile. E che si potesse, per estrema ipotesi, persino riderne. La morte a 67 anni di Massimo Bordin arriva nel momento più delicato e drammatico nella vita di Radio Radicale, e rende fino in fondo chiaro quanto prezioso sia il valore che quel mondo custodisce. Non c'è verso infatti che di lui, giornalista fin nel midollo, si possa restituire una immagine diversa da quella della sua radio e della nostra vita. Perché la sua voce, nella nutrita comunità di ascoltatori che non di rado superava quella di tutte le altre rassegne, si infilava nelle case di ognuno, nelle vite di ognuno, nelle mattine in pigiama, coi figli neonati, in malattia o disoccupati, a letto o verso il lavoro, e con lui in perenne ritardo: in ritardo quando cominciava, in ritardo drammatico quando finiva. E così da decenni, da tempo così immemorabile che nessuno ricorda quando è cominciato esattamente. Della novità introdotta da Stampa e Regime, la prima rassegna stampa che ha affrontato in maniera critica la lettura dei giornali, Bordin era in maniera naturale il più brillante interprete, facendo lui tutt'uno con quel modo di guardare la realtà. E infatti ci si trovava a rispondergli, a correggerlo, a scoppiare a ridere, come se fosse presente. Anche in macchina o per strada. Come i matti. Mentre lui non indulgeva nelle polemiche, né faceva sconti nelle critiche. Il pensiero arrivava elegante, ma senza scampo: lo si vedeva svoltare la via e incedere a larghi passi, fino al colpo finale, che lasciava tramortito l'oggetto dell'attenzione, tramortito per sempre. Mentre leggeva, proponeva visioni, interpretazioni della realtà, offriva idee, componeva per sottrazione un giornale tutto suo, rubando righe e immagini, e aggiungendoci un sospiro, un colpo di tosse, una pausa, uno strascicato. Così, era fatto tutto: la cronaca, il ritratto, l'intervista, il colore, persino l'editoriale di quel giornale immaginario. Non c'era davvero bisogno di altro. Ecco, perché c'è da dire che oltre ad essere una specie di Alter Ego di Marco Pannella, la sua spalla migliore oltreché di gioventù trotzkista, oltre ad essere stato per vent'anni, a partire dal 1991, il direttore di Radio radicale, ruolo poi lasciato sempre in polemica con Pannella, dal quale però non si era separato mai (conservando financo la stanza da direttore), Bordin trasmetteva una libertà in grado di creare mondi. Nel suo universo, ordinato, pignolo, maniacale, arroccato, i cattivi (pochi) erano davvero cattivi, i buoni (pochissimi) erano davvero buoni, e tutti quelli che stavano nel mezzo, cioè la stragrande maggioranza delle persone, veniva trattata con la cura di non spingerla né di qua, né di là – il maggior segno di rispetto che si possa riservare a chiunque. Se necessario, però, era spietato. Si ricorda qui, a solo titolo di esempio, il tormentone «Dove sta oggi Tomaso Montanari?» con il quale affrontò, e riuscì interamente a spiegare, i tormenti della sinistra a sinistra del Pd, nel periodo del renzismo pre e post referendario. Si aggiunge che, anche negli ultimi tempi, rifiutava qualsiasi sentimentalismo, anche nei confronti della radio. «Ha combattuto per la propria sopravvivenza sin da quando è nata, quindi nessuno si illuda, non verremo sopraffatti da crisi di panico. Crisi di noia, semmai». E quasi per l'istintivo amore per la contraddizione, prima di parlare dei Cinque stelle, aveva voluto minuziosamente chiarire, intervistato dall'Espresso, che era stato Romano Prodi, ad aver sferrato l'attacco più serio alla sopravvivenza della radio. La differenza con i Cinque stelle era in questo: «Loro sono più rozzi». Fino all'ultimo aveva vietato a tutti di parlare della sua malattia. Ugualmente, gli ascoltatori si scambiavano nell'ombra bollettini pressoché quotidiani sul suo stato di salute, costruiti per inferenza dal numero di volte in cui avesse tossito, bevuto, fatto errori, perso il filo del discorso. Perchè, come ebbe a dire una volta, le cose in genere sono semplici, e il più delle volte c'è pochissimo da spiegare, preferibilmente il meno possibile.

Addio Massimo Bordin, l’anima roca dei Radicali. La morte del papà di “Stampa e regime”. Era trasandato ed elegante e aveva la battuta pronta e fulminante. Si innamorò del libertario Pannella dopo gli anni universitari passati tra le fila dei trotskisti, scrive il 18 aprile 2019 Panorama. Forse per Massimo Bordin la definizione che più lo descrive è quella di “apota”: così Giuseppe Prezzolini, nel 1022, su “La Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti, qualifica le persone che «non la bevono». Non bevono, s’intende, le versioni ufficiali, le verità del “potere”; ma per Bordin va anche bene – naturalmente non nel senso spregiativo – cinico: come i filosofi greci di questa “corrente” di pensiero, tendeva all’autonomia spirituale. Non al punto di escludere ogni desiderio e ogni esigenza; e si guardava bene dal condannare la civiltà con le sue conquiste. Ma osservava, e “vedeva” con occhio disincantato e partecipe insieme; sapeva dov’è il gusto del sale. Giusto dieci anni fa il riconoscimento che forse più gli ha fatto piacere, il “Premiolino”; con una motivazione felice, che ben “racconta” il personaggio: « Il collega che da anni ci sveglia ogni mattina con le sue puntuali, professionali e graffianti rassegne stampa, cesellando i fatti con opinioni di rara acutezza libertaria» . Da sempre, si può dire, ha abitato le stanze dove si confezionano e vanno in onda le trasmissioni di “Radio Radicale”; non so se dai giorni della fondazione, ma subito dopo, sì. E certamente in una delle stagioni più felici: quella del rapimento del giudice Giovanni D’Urso da parte delle Brigate Rosse; quando “Radio Radicale”, allora diretta da Lino Iannuzzi, ingaggia una durissima battaglia per salvare il magistrato, mentre tutt’intorno è scattata una feroce e assurda “fermezza” decretata da una triade che Pannella definisce: “P2, PScalfari, P38”. Massimo lo ricordo, come tutti coloro che l’hanno conosciuto: eterno sigaro in bocca; tossicchiante; un po’ curvo; una eleganza ricercata e un’apparente, studiata, trasandatezza come certi personaggi dei film in bianco e nero; la parlata lenta e riflessiva; una cultura che ha in uggia il nozionismo, ma è figlia di attente, selezionate, ben assimilate letture; la battuta salace, fulminante; la memoria di ferro che gli consente di raccontare aneddoti remoti su tutti; una rete di conoscenze non comune, coltivata fin dai primi anni di università, quando studia filosofia e milita nella IV Internazionale, convinto trotskista, prima di approdare alle rive del Partito Radicale. A “Radio Radicale” lo ricordo da sempre: le sue ormai leggendarie rassegne stampa mattutine, ma non solo; imperdibili anche gli “speciali giustizia”, e ben lo sanno i tanti magistrati a cui ha fatto le pulci con implacabile acribia. Ma soprattutto per le domenicali, fluviali, conversazioni con Marco Pannella: due ore in diretta, a parlare di tutto, su tutto, passato, presente, futuro; trasmissioni capaci di stroncare un bue, e lo so bene, per averne fatte anch’io. Non era per nulla facile, tenere testa a Pannella. Non so se Marco lo faceva per reale amnesia, o per piccola provocazione, ma s’intestardiva, per esempio, a dare solo il nome di battesimo, delle persone che citava. E allora ecco un logorante slalom: quando citava Bettino o Giulio, il gioco era facile; ma se si arrivava a Vittorio, ce ne voleva per capire che intendeva il vecchio rivoluzionario comunista Vidali. Oppure Umberto ( Terracini), Gianna ( Preda), Fausto ( Gullo), Giano ( Accame). Ha diretto la “Radio Radicale” con rara perizia per nove anni; posso assicurare, non era facile con un editore come Pannella: al tempo stesso libertario e liberale, ma implacabilmente rigoroso ed esigente. Fino a quella domenica del 9 luglio: quando all’improvviso, e in diretta, si dimette, dopo l’ennesimo battibecco con Pannella. Un altro si sarebbe sotterrato. Lui imperterrito, sostiene le sue ragioni. Riassumere i termini della questione, qui importa poco. La registrazione, peraltro è facilmente reperibile nel prezioso archivio di “Radio Radicale”. Si cita l’episodio solo per dire che erano entrambi caratteri forti, nessuno disposto a cedere di un millimetro dalle posizioni assunte. E’ stato molto discreto anche nell’andarsene “altrove”, Massimo. Si sapeva che era tormentato dello stesso male che anni fa ha stroncato Pannella; ma che le sue condizioni si fossero aggravate lo si è intuito solo perché da qualche settimana non compariva più, su Il Foglio, la rubrica quotidiana “Bordin Line”; e non era più al timone della rassegna “Stampa e regime” che curava dal lunedì al venerdì, anche quando, pensate, per qualche ragione i giornali non uscivano; da quei venti giornali che quotidianamente scandagliava, ne sapeva ricavare un ventunesimo, dove presente, passato e possibile futuro si fondevano: amante dei retroscena, senza mai perdere di vista la scena. Ora basta: che a farla più lunga, lo stesso Massimo ne sarebbe infastidito. Già par di sentirlo, con quella sua eterna espressione tra il lusco e il brusco: «Non avete di meglio da fare? Leggetevi allora un libro» ; di sicuro ne indicherebbe qualcuno dell’amatissimo Leonardo Sciascia.

C’era una voce. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. Questo è il primo Caffé che ha la ragionevole probabilità di non cadere tra le grinfie di Massimo Bordin. Il particolare mi procura un certo sollievo e una sconfinata malinconia. Del dispiacere per la perdita preferisco non scrivere, perché il rischio di retorica è altissimo e non si sa mai: dal paradiso laico che lo ospita, dove di sicuro ha ripreso a litigare con Marco Pannella, Bordin sarebbe capacissimo di improvvisare una rassegna stampa per farmi le pulci. Le ha sempre fatte a tutti, anche a sé stesso. Bastava sintonizzarsi su Radio Radicale per trovarli, lui e la sua sigaretta, già accesissimi di prima mattina. In quest’epoca di facce, le voci della nostra vita si spengono una dopo l’altra. Ameri, Ciotti, adesso Bordin. Voce roca, romana, ironica, catarrosa. Sporca e però pulita. Sapeva di fumo e odorava di bucato. Oggi le voci non contano. Contano i volti, che a volte sono maschere. La voce di Bordin era vera. Partigiana, però mai faziosa. Aveva opinioni molto definite su tutto: le droghe, le carceri, il libero mercato. Ma si attardava più volentieri a leggere gli articoli di chi non la pensava come lui. Quello che penso io, diceva parafrasando Oscar Wilde, non ha il fascino della novità. Tutto l’opposto dei tribuni della plebe che parlano per ascoltarsi. Anche i social e le chat ci insegnano a coltivare solo l’orticello dei nostri simili. Bordin era più interessato ai suoi dissimili. Sarebbe una cosa imperdonabile se Radio Radicale dovesse finire con lui.

“MASSIMO È MORTO, MA TANTI VIVI SONO PIÙ ESANGUI DI LUI”. Mattia Feltri per “la Stampa” il 18 aprile 2019. Non c' è mai un tempo buono per morire, soprattutto se si muore in anticipo, come è toccato ieri a Massimo Bordin. Aveva sessantasette anni. Era la voce di Radio Radicale. Non c' è mai un tempo buono per morire, ma qualche volta ci si chiedeva a chi stesse parlando ancora Massimo Bordin, perché lui capiva il linguaggio dei potenti di oggi, nonostante non fosse il suo linguaggio, ma loro non potevano capire lui. E noi, fragile mondo di mezzo, ci eravamo aggrappati alla sua voce, al suo microfono, alla sua rassegna stampa mattutina, alle sue conversazioni con Marco Pannella come a uno sperone sullo strapiombo. Ma quanto potranno capire di tutto questo i potenti di oggi? Come si spiega a un Paese sperduto e digrignante, sentenziante, famelico di un abracadabra qualunque esso sia, che la vita è politica, e la vita e la politica sono una disastrosa complicazione, una ricerca affannata del pertugio giusto, un errore via l' altro, e non c' è soluzione magica, quella è illusione, roba da fattucchieri? Come glielo si spiega, ora che siamo uno di meno, e quell' uno aveva il calibro di Massimo Bordin? Eravamo aggrappati da decenni a lui, alla radio, a Marco Pannella, dagli anni della Prima Repubblica in cui schierarsi in politica era affiliazione fideistica - cioè per un sentimento anteriore e superiore alla ragione - al grande partito della Chiesa, la Dc, e alla grande Chiesa dei partiti, il Pci. Lu i, la radio e Marco Pannella continuavano a frequentare una politica per cui nulla fosse anteriore e superiore alla ragione, e dunque una politica cosciente dei limiti e delle contraddizioni. Come si spiega a un Paese sperduto che cosa significa restare saldi nella precarietà del raziocinio? Massimo Bordin sapeva che l' eterno fascismo italiano è stato la rinuncia a usare la testa, tutti ad ascoltare i battiti del cuore e i sommovimenti della pancia, lasciar salire gli umori non oltre la bocca per un urlo da stadio, il tifo, la soluzione definitiva e salvifica dell' ultimo irrimediabile condottiero, a destra, a sinistra. Massimo Bordin sapeva che la libertà ha un piccolo cagionevole significato soltanto se è decidere per sé, se è l' esercizio della propria fallibilità, e dunque dissentiva, contestava, ironizzava anche davanti a Marco Pannella. Massimo Bordin sapeva, durante gli anni della Seconda repubblica, quando era indispensabile scegliere una parte o l' altra, di volta in volta, che il compromesso è sempre al ribasso e non è mai un cedimento ma un centimetro guadagnato, ed è l' essenza stessa della politica se rifiuta di essere autoritaria. Sapeva che la politica non è mai innamorarsi di un' idea, è semmai distaccarsene per valutarla meglio nel momento stesso in cui la si sposa. Sapeva che una società funziona soltanto se il più profondo dei convincimenti si arresta davanti alle barriere che l' uomo si è dato, ad argine dell' arroganza delle proprie verità, a tutela dunque di sé oltre che degli altri, e cioè le regole istituzionali, il rigore dei ruoli di Stato, l' autolimitazione quando si ha la responsabilità di tutti e non soltanto del proprio recinto politico. Sapeva che il consenso non è il fine unico della politica, perché la politica è la capacità di dire quello che si ritiene giusto e non quello che si ritiene gradito: quando il consenso diventa il fine unico della politica, la politica muore. Sapeva che il diritto, inteso come amministrazione della giustizia, è filosofia, perché ricerca direttamente il cuore dei rapporti umani, arriva a definire l' inviolabile unicità dell' essere umano, anche quando è l' ultimo degli ultimi, cioè il più disprezzabile dei colpevoli, e pertanto il diritto non è mai vendicativo perché, quando produce vendetta, il diritto muore. Sapeva che la purezza è la voce dei folli, solamente la contaminazione è corroborante, incontrare l' avversario, tendergli il microfono, dargli fiato. Sapeva che tutto è così vano, inutile, e quel pochissimo di concreto su cui ci è dato di sostenerci poggia sulla memoria, sugli archivi, sui libri, su quello che è stato scritto e detto, su quanto l' uomo ha concepito nel disperato tentativo di aiutare l' uomo, e che l' uomo senza memoria è un uomo perduto nel suo vacuo delirio che non ha nulla su cui sostenersi. Sapeva, in definitiva, che la vita è politica, e la vita e la politica senza un' ambizione di cultura sono la rinuncia a essere uomini per partecipare alla storia degli uomini. Ma come si spiega tutto questo a chi pensa che tutto questo debba misurarsi con l' analisi costi benefici? Che Radio Radicale o si regge sulle sue gambe o chiude? Che sia una questione di mercato? In che lingua glielo si spiega ai nuovi potenti? Noi siamo rimasti aggrappati a Massimo Bordin, a Radio Radicale, a Marco Pannella per decenni, noi radicali, noi liberali di destra e di sinistra, noi socialisti libertari, noi cattolici liberali, noi atei devoti, noi repubblicani, noi laici, noi anarchici, noi poveri apolidi, noi alla ricerca di un posto dove sapere qualche cosa di più, e non di un riparo dove mettere in sicurezza l' ultima confortante ideuzza dell' occasionale maggioranza. Resteremo aggrappati ancora, finché la radio avrà voce, anche senza la voce di Massimo Bordin, non potremo dimenticare il debito che abbiamo nei confronti di Massimo e della radio, sarà un debito che potremo ripagare soltanto restando lì, ad ascoltare le voci finché ci saranno e ad ascoltare gli echi delle voci che non ci sono più. Non c' è mai un tempo buono per morire, e non è mai un tempo buono quello in cui si sopravvive. Massimo è morto, ma tanti vivi sono più esangui di lui.

Maurizio Crippa per “il Foglio” il 18 aprile 2019. L’equipaggio-macchina, per molti anni fatti di molte mattine e di molte code ai semafori sulla via della scuola, era anche una strategia di sopravvivenza genitoriale, e di accudimento filiale, non privi di affetto, come le favole raccontate al mattino. Si portavano all’asilo e poi alle elementari i figli, e i loro compagni, fino a stipare l’auto di umani e zainetti, e a turno ognuno aveva la sua strategia. Mamme che raccontavano storie, padri che facevano cantare, e dire le preghiere, mamme che mettevano i cd di musica e fiabe. Zero smartphone, allora. Al mio turno accendevo la radio, “Buongiorno agli ascoltatori, eccoci all’appuntamento con Stampa e regime, la rassegna stampa di Radio Radicale”. Necessità mia, e virtù di quella voce di caverna e da fiaba, ma da mago delle parole che s’intuiva buono, che abbassava di colpo i decibel, trasformava le chiacchiere in sussurri e in silenziosi fruscii il traffico delle figurine dei Pokémon. Il dubbio del possibile trauma infantile indotto da quello scaraventare nell’abitacolo quei discorsi lenti, astrusi, lo ricacciavo indietro, anzi non mi ha mai sfiorato. Ogni tanto ridevano, quando citava il Foglio: la prova che quello strano lavoro che facevo esisteva davvero, in un mondo reale ma distante. Così la voce di Massimo Bordin, in quelle antiche mattine, era diventata una cosa familiare, uno di famiglia. Chissà che effetto avrebbe fatto a lui, avesse sospettato di essere “uno di famiglia” per famiglie così lontane dal suo mondo. Mi sono chiesto a volte se sia stata anche una educazione sentimentale, ma di certo no. Lo è stata per noi, altra generazione, una educazione civile, quella narrazione quotidiana. Il mondo decifrato attraverso le parole dei giornali, oggi non c’è più. I miei figli, cresciuti, vivono in un' Italia, anche sotto il profilo di chi la conosca, e la sappia narrare, più vuota. Mi è capitato di pensare, a volte, a quanto sarà meno ricca l' educazione sentimentale e civica, e letteraria, delle generazioni che oggi non hanno più alcuna passione urgente per la politica, tanto meno per la lettura dei giornali, e hanno disintermediato e ridotto a stories il rapporto con le news. Insomma senza la mediazione, la maieutica, di un narratore onnisciente ma a tratti reticente, capace ogni mattina di riannodare e dipanare il filo del mondo. Senza quella voce. Massimo Bordin, la persona, l' ho incontrato un paio o tre di volte, e qualche telefonata. Non c' è bisogno che aggiunga la mia, su un uomo che aveva scelto la precisione e il riserbo come regole naturali. Mi piace ricordarlo come Adriano Sofri: sembrava Donald Sutherland anche a me. Che mi abbia insegnato molto, e incuriosito sempre, è la cosa che importa, che resta. Quando morì Pannella, "Marco" per lui e per molti altri, mi capitò di scrivere, a mo' di nota a margine senza la pretesa dell' ete rodossia una cosa che avevo per la testa. Che quell' angelo sterminatore, quel demone che era stato Pannella per i cattolici fosse invece stato, paradossalmente, un katékon ribaldo, che l' aveva difesa da se stessa, la chiesa, costretta a uscire, messa in guardia dai suoi vicoli ciechi. Non so come la prese, Bordin, non credo che andasse in cerca di sorprese. Ma una parte di quella mia impressione, di quella percezione di Pannella, veniva anche da un lungo ascolto di quei racconti alla radio, di quei contrappunti di giudizio - sempre motivati, non per forza sempre condivisi - che invitavano a capire, prima che a giudicare o a schierarsi. E sottilmente, come un mago nella sua caverna, a seguire i meandri di una cultura diversa, laica e illuminista, e a porsi le stesse domande che rimbalzavano dalle sue pause, nei suoi accenni di battute che lasciava chiudere agli ascoltatori. Quel ronzio di voce in sottofondo, che è stato per tanti della nostra generazione, del nostro mestiere, della nostra passione per la politica, il tarlo di un dubbio, di un pensiero mancherà ai bambini di oggi.

Radio Radicale: lacrime per Bordin, rabbia contro Crimi. La protesta contro la chiusura. Oggi a Roma l’ultimo saluto del giornalista presso la facoltà valdese. Domenica manifestazione a piazza Madonna di Loreto dalle 11 alle 13, scrive il 19 aprile 2019 Valentina Stella su Il Dubbio. «Crimi–nale chiudere Radio Radicale» : un gioco di parole su una locandina del salone del Partito Radicale a condannare sarcasticamente l’insistenza del sottosegretario pentastellato Vito Crimi, che da giorni va ripetendo che la sua posizione e quella del Governo è di non voler rinnovare la convenzione a Radio Radicale. A tale illiberale e antidemocratica decisione, la risposta è «una Pasqua di impegno per la vita di Radio Radicale» : lo ha annunciato ieri Alessio Falconio, direttore della storica emittente, durante una conferenza stampa convocata dal Partito di Marco Pannella. La manifestazione per la vita dell’emittente fondata nel 1976 si terrà domenica a Roma a piazza Madonna di Loreto ( Lato sinistro dell’Altare della Patria) dalle 11 alle 13. Una vera e propria maratona oratoria durante la quale si alterneranno sul palco giornalisti, parlamentari, esponenti del mondo della cultura, militanti radicali e tante altre centinaia di persone per scongiurare la chiusura della Radio, che proprio due giorni fa ha perso la voce di Massimo Bordin. Oggi per lui l’ultimo saluto alle 10: 30 presso la Facoltà Valdese, in via Pietro Cossa 40. Ieri al Partito Radicale i volti erano segnati dalle lacrime e della profonda tristezza per la scomparsa, per molti inattesa, dell’amico e del giornalista. «La perdita di Massimo Bordin lascerà un vuoto incolmabile – ha aggiunto Falconio – Da domani (oggi, ndr) inizierà una staffetta delle migliori firme del giornalismo che andranno a condurre Stampa e Regime». Ha cominciato stamattina l’editorialista di Repubblica Francesco Merlo, che curerà la rassegna per tutta la prossima settimana. Molto provato anche Maurizio Turco, coordinatore della Presidenza del Partito Radicale: «La perdita di Bordin per la Radio è pari a quella di Pannella per il Partito. Massimo era un attivatore di neuroni, che denunciava la realtà del regime in questo Paese. Questo Governo ha deciso di chiudere Radio Radicale, giustificandosi anche con profonde falsità. Per fortuna vi è stata una reazione corale del Parlamento, compresi alcuni esponenti del M5S, a difesa del servizio pubblico che svolge la Radio». Dopo ha preso la parola il radicale storico Maurizio Bolognetti, in sciopero della fame dal 27 febbraio proprio per evitare il bavaglio alla radio: «È in atto un tentativo violento di colpire Radio Radicale, che potremmo pensare come una Treccani audiovisiva, e di colpire ciò che essa ha garantito in questi 43 anni». Le lacrime segnavano il volto di Rita Bernardini, anch’ella in sciopero della fame da una settimana insieme a Maria Antonietta Farina Coscioni e Irene Testa. L’esponente della presidenza del Partito ha stigmatizzato le dichiarazioni del Ministro Bonafede: «Il Guardasigilli ha detto che la convenzione non verrà rinnovata perché a suo dire il servizio pubblico già c’è ed è della Rai. Eppure nel nostro ultimo incontro ci aveva detto che il dossier non lo gestiva lui. Ma quello che mi preoccupa è che questo Ministro non abbia assolutamente consapevolezza del servizio garantito da Radio Radicale e di quello non garantito invece dalla Rai, nonostante il canone che paghiamo. È ignorante della realtà». Bernardini ha poi annunciato che al digiuno di dialogo si sono aggiunte altre 50 persone, tra cui Sabina Guzzanti. Irene Testa ha chiesto invece un intervento del Presidente della Repubblica: «Credo che Mattarella debba intervenire a favore dell’archivio della Radio e di tutto quello che rappresenta oggi per le istituzioni e per il diritto alla conoscenza dei cittadini». Per Paolo Chiarelli, amministratore dell’emittente, le strade da percorrere sono poche: «Ottenere un sostegno da Fondazioni e Associazioni non è facile; gli incontri con la Rai avvengono con lentezza. L’unica possibilità concreta, qualora il Governo non facesse marcia indietro, sarebbe quella di una proroga della convenzione per qualche mese, durante i quali potremmo consolidare la trattativa con la Rai». Se non dovesse cambiare nulla, il 21 maggio i microfoni di Radio Radicale potrebbero spegnersi e mandare a casa oltre cento lavoratori tra giornalisti, collaboratori e tecnici. «Avevamo chiesto per questo un incontro al Ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ma non ci ha mai risposto», ha dichiarato Lorena D’Urso, conduttrice di Osservatorio Giustizia, ieri pomeriggio durante un’altra conferenza stampa convocata dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana per fare il punto sull’emittente ma anche sugli innumerevoli tagli all’editoria voluti dal Governo. Per il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, i tagli altro non sono che «bavagli. Proprio oggi ( ieri, ndr) il rapporto sulla libertà di stampa di Reporters Sans Frontières ci colloca alla 43esima posizione. Se Radio Radicale chiuderà, e con essa altre testate, l’anno prossimo potremmo sprofondare all’ 86esimo posto». E auspica che «gli appelli che si stanno moltiplicando in queste ore, anche da esponenti del mondo politico, si trasformino in atti parlamentari» per far continuare a vivere Radio Radicale. Sempre ieri, alle numerose manifestazioni di solidarietà a favore di Radio Radicale, si è aggiunta quella della Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione nazionale magistrati che, esprimendo «cordoglio per la morte di Massimo Bordin», si augura «che prosegua senza difficoltà la meritoria opera di informazione dell’emittente, veicolo di trasparenza dei lavori del Csm oltre che della Anm, che è un valore da preservare». Il vice premier Matteo Salvini invece ha ripetuto che «io, e lo proporrò anche agli amici Cinquestelle, preferirei che chi di dovere tagliasse i mega stipendi in Rai prima di chiudere voci che informano».

 “I CINQUESTELLE ORA PIANGONO BORDIN, MA LO HANNO UMILIATO”. Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2019. Non si ferma la battaglia intorno alla chiusura di Radio Radicale. Dopo la scomparsa di Massimo Bordin, ex direttore e voce storica dell' emittente, la politica si divide. E, un video che vede come protagonista Vittorio Sgarbi, accende la polemica. Nel suo intervento mercoledì in aula a Montecitorio il parlamentare si scaglia duramente contro Vito Crimi e Luigi Di Maio: «Si vergognino di piangere adesso contro quello che hanno voluto chiudere. C' è un limite alla indecenza», attacca. Il critico d' arte condanna l' atteggiamento dei pentastellati che da un lato hanno deciso di tagliare la convenzione ma dall' altro hanno commemorato il giornalista. «Quelli che oggi piangono Bordin hanno chiuso Radio Radicale. O la riaprono dopo la sua morte e rinnegano tutti insieme quella stupidaggine del dotto Crimi e del dottor Di Maio, anzi dottore mai, oppure non ha senso il loro pianto verso uno che hanno umiliato». Applauso scrosciante dell' Aula. Cui segue un tweet di Maurizio Gasparri (Forza Italia): «Un giornalista libero ed esperto della politica come Bordin certamente si sarebbe aspettato gli ipocriti messaggi di cordoglio da parte di chi vuole cancellare Radio Radicale», scrive in tono irrisorio. Ma non finisce qui. Anche il vicepremier Matteo Salvini si schiera a favore dell' emittente radiofonica e fa una proposta: «Ci sono stipendi milionari in Rai, ci sono decine e centinaia di persone pagate da tempo per fare poco o niente. Quindi, prima di chiudere voci che informano, io andrei a guardare laddove ci sono sprechi di denaro pubblico».

L’ipocrisia grillina su Massimo Bordin. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da L'Opinione della Libertà. Non ha avuto torto Vittorio Sgarbi quando si è infuriato con i parlamentari grillini che avevano espresso cordoglio per la scomparsa di Massimo Bordin accusandoli di essere degli ipocriti che piangono il morto ed uccidono Radio Radicale di cui il giornalista era diventato il simbolo. L’ipocrisia ed il cinismo di quanti hanno espresso cordoglio in maniera formale e strumentale nei confronti del giornalista, però, è aggravata dal fatto di essere stata espressa da chi non aveva neppure la più pallida idea di chi fosse lo scomparso. Per la stragrande maggioranza dei grillini, infatti, Bordin era un perfetto sconosciuto. Per la semplice ragione che in vita loro non avevano mai ascoltato il suo “Stampa e regime” e non avevano mai sintonizzato la propria radio sulle frequenze di Radio Radicale. Prendiamo il caso del grillino più alto in grado nelle istituzioni. Quel Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha giustificato la fine dei finanziamenti pubblici a Radio Radicale sostenendo che d’ora in poi l’emittente avrà la possibilità di sostenersi con la pubblicità raccolta sul mercato. Giustificazione che può venire solo da una persona che oltre a non conoscere nulla del mercato pubblicitario condizionato dalla raccolta pubblicitaria della Rai, ente di Stato, non può aver mai seguito una qualsiasi trasmissione di Radio Radicale. Quale azienda può investire pubblicità sulla registrazione di un processo, di una conferenza stampa di un partito o di un sindacato, sulla presentazione di un libro o su una delle infinite trasmissioni dedicate alla vita pubblica del Paese? Lo stesso vale per il sottosegretario Vito Crimi, l’ex cancelliere di Tribunale definito da Bordin “gerarca minore”, artefice del provvedimento che determina la chiusura della radio creata da Marco Pannella. Quante volte in vita sua il sanculotto Crimi, che da buon grillino era ed è intriso di antipolitica, può aver mai ascoltato Radio Radicale diventata nel corso di alcuni decenni il simbolo stesso della politica italiana? La risposta è mai. E se per caso una qualche occasione ci sia stata, il suo effetto è sicuramente stato l’aumento dell’ostilità nei confronti di una emittente espressione di una politica concepita come il male assoluto dal sanculotto convinto di rappresentare il modo nuovo e virtuoso di fare politica. Gli ipocriti ed i cinici di Sgarbi, dunque, sono in realtà degli inconsapevoli. Che non conoscendo Bordin hanno perso la possibilità di capire che la loro nuova politica è in tutto simile a quella vecchia. Solo più grossolana e pedestre. Bordin era colto e raffinato. Troppo per degli ignoranti.

Aldo Grasso. Crimi e misfatti, l’ipocrisia del coccodrillo. Pubblicato domenica, 21 aprile 2019 su Corriere.it. Com’è noto, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, Vito Crimi, da giorni va ripetendo che il governo non intende rinnovare la convenzione stipulata con Radio Radicale nel 1994, e da allora sempre rinnovata, per trasmettere le sedute del Parlamento in cambio di un finanziamento da 10 milioni di euro l’anno. È una forma di servizio pubblico: nulla di più, nulla di meno. Com’è noto, è morto Massimo Bordin, voce simbolo di Radio Radicale. Ogni mattina conduceva la rassegna stampa, per molti analisti un appuntamento imperdibile, fondamentale per capire la politica. Ha scritto Giuliano Ferrara: «Bordin aveva il dono divino dell’equilibrio, una cosa rarissima ormai, apollinea, un tratto distintivo che ha fatto di lui molto più che un giornalista o un amico delle piccole ore del mattino». E Paolo Mieli: «Come tutte le persone colte e sensibili non faceva esibizioni della sua cultura». Com’è noto, il sottosegretario Crimi, quello che vorrebbe azzoppare l’informazione, ha vergato un tweet di rara ipocrisia e d’imperdonabile stonatura: «Il giornalismo italiano perde uno fra i suoi più importanti protagonisti, un professionista serio e preparato». Voleva esprimere il suo cordoglio e non si è accorto di aver dato un’ultima pugnalata. È meno noto il soprannome con cui Bordin chiamava Vito Crimi: «Il gerarca minore». 

Bordin, l’addio dalle firme che lui leggeva alla radio. Tantissimi giornalisti hanno dato l’ultimo saluto a Massimo Bordin, la voce storica di Radio Radicale, scomparsa qualche giorno fa a 67 anni, scrive Valentina Stella il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. L’aula magna della Facoltà teologica valdese, dove si è celebrato ieri il rito funebre laico per rendere omaggio a Massimo Bordin, era talmente gremita che in molti hanno presenziato alla cerimonia dall’esterno. Gli altoparlanti hanno però permesso loro di ascoltare quello che i numerosi oratori intervenuti sul palco hanno detto per dare l’ultimo saluto alla voce storica di Radio Radicale, scomparsa qualche giorno fa a 67 anni. Occhi lucidi sui volti delle persone, ognuna con una propria rievocazione per l’ex direttore dell’emittente. Accanto alla bara, la compagna Daniela Preziosi, giornalista del manifesto, e il figlio Pierpaolo Bordin. Tra le centinaia di persone giunte per l’ultimo saluto, molti giornalisti e politici, gli stessi che per anni sono stati i protagonisti della sua rubrica “Stampa e Regime”, non una semplice rassegna stampa ma il racconto della realtà politica e sociale italiana. Per decenni Bordin li ha citati, criticati, condivisi, narrati e ieri si sono ritrovati insieme per rendergli omaggio. Oltre alla numerosa famiglia radicale, c’erano Adriano Sofri, Renata Polverini, Ugo Sposetti, Massimo Giachetti, Fausto Bertinotti, Riccardo Magi, Mario Mori, Antonio Polito, Marco Damilano. Commosso il ricordo di Emanuele Macaluso, ex direttore dell’ Unità e storico esponente del Pci: «Mancherà a tutti, non ne sentiranno la mancanza solo gli imbecilli». L’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli ha voluto rendere onore a Bordin ricordando che, «in un momento in cui c’erano forti divergenze tra Massimo e Marco Pannella, gli avevo offerto di passare con noi al Corriere, per occuparsi della nostra web radio. Rifiutò, anche se lo avremmo ricoperto d’oro, per rimanere con la sua tribù. Dimostrò grande superiorità morale». Invece sono proprio il rapporto di Bordin e Pannella e le loro conversazioni domenicali a caratterizzare il ricordo che ne ha dato Rita Bernardini. Per l’attuale direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, Massimo Bordin «è stato un grande maestro, che con grande umiltà impartiva preziosi insegnamenti. Lascia un vuoto umano e professionale enorme, noi ora dobbiamo combattere proprio perché glielo dobbiamo». Più che un funerale, il rito di ieri è stato un omaggio alla storica emittente radiofonica e al servizio pubblico che svolge da 43 anni. Se il governo insiste a non voler rinnovare la convenzione, le opposizioni in Parlamento e la società civile vogliono scongiurare il bavaglio. «Siamo di fronte a un momento che è contemporaneamente tragico e farsesco – ha detto Fabrizio Cicchitto- si vuol chiudere una radio che trasmette le sedute parlamentari, che ha sempre dato spazio alla voce di tutti. Sarebbe testimonianza di un processo di autoritarismo», ha concluso l’ex deputato. Emma Bonino ha sottolineato come «mancherà la voce di Massimo che ogni giorno accompagnava e rendeva chiari, grazie alla rigorosa oggettività da giornalista, i fatti dell’attualità politica».

·         Morto l’ex senatore Giuseppe Ciarrapico.

Morto l’ex senatore Giuseppe Ciarrapico, aveva 85 anni. Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Carmen Plotino, Clarida Salvatori e Antonio Macaluso su Corriere.it. È morto a Roma Giuseppe Ciarrapico, ex senatore della Repubblica, aveva 85 anni. Era ricoverato nella clinica pariolina di Roma Quisisana. Ciarrapico è stato un imprenditore, politico ed editore italiano, ex senatore del Popolo della Libertà, è stato anche gestore delle terme di Fiuggi (carica che gli valse il soprannome di «re delle acque minerali») e, dal 1991 al 1993, presidente della A.S. Roma. Nato il 28 gennaio del 1934 a Roma, in gioventù è stato simpatizzante fascista. Negli però si avvicinò alla corrente andreottiana della Dc, rimanendo comunque in buoni rapporti sia con Giulio Andreotti che col missino Giorgio Almirante. Dal 2008 al 2013 fu senatore per il Popolo della Libertà, candidato nel Lazio su richiesta di Silvio Berlusconi nonostante il parere contrario di Alleanza Nazionale. Implicato in diverse vicende giudiziarie. La più nota fu quella del nodo Mondadori: il suo intervento venne sollecitato da Carlo Caracciolo perché facesse da intermediario nello scontro giudiziario fra gli imprenditori Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per il possesso della casa editrice Arnoldo Mondadori editori. Nel 1993 a seguito dell’arresto per bancarotta fraudolenta, Ciarrapico lasciò la presidenza della A. S. Roma, società che aveva acquistato due anni prima. Nello stesso anno venne indagato per lo scandalo Safim-Italsanità. Nell’ambito dell’indagine Ciarrapico fu incarcerato a Regina Coeli il 21 marzo del 93, ma dopo un mese, gli furono concessi i domiciliari. Del 96, è la condanna per bancarotta fraudolenta nel processo per il crac del Banco Ambrosiano. Nel 2000, dopo 7 anni di processo, diventa definitiva la condanna per finanziamento illecito ai partiti: considerata la sua età Ciarrapico viene affidato ai servizi sociali. Altri guai giudiziari arrivano nel 2010 quando la procura di Cassino chiede per lui il rinvio a giudizio con l’accusa di stalking a mezzo stampa nei confronti della giornalista Manuela Petescia. Sempre in ambito editoriale gli vengono sequestrati immobili, quote societarie e conti correnti (secondo la magistratura, un bottino da circa 45 milioni di euro), accumulati indebitamente per truffe alle società. Nel 2012 l’imprenditore viene rinviato a giudizio insieme con altre 11 persone per truffa aggravata ai danni dello Stato e favoreggiamento. Nel 2015 viene condannato in via definitiva a 3 anni per truffa per aver ottenuto indebitamente 20 milioni di euro di sovvenzioni per la sua catena editoriale dalla Presidenza del Consiglio.

E' morto Giuseppe Ciarrapico. L'imprenditore, ex senatore Pdl ed ex presidente della Roma, si è spento a 85 anni, scrive Gabriele Isman il 14 aprile 2019 su La Repubblica. E' morto alle 7.40 a Roma, nella clinica Quisisana di cui era anche proprietario, Giuseppe Ciarrapico: era gravemente malato da tempo. Classe 1934, dal 2008 al 2013 senatore per il Popolo della Libertà, Ciarrapico è stato imprenditore - nella sanità, nell'editoria, tra gli altri campi - e presidente della As Roma tra il 1991 e il 1993. Dichiaratamente simpatizzante del fascismo - nel 2001 partecipò ai funerali del fondatore di Massimo Morsello, tra i fondatori di Forza Nuova - fu vicino a Giulio Andreotti e la sua mediazione, sollecitata da Carlo Caracciolo, tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti fu determinante per il lodo Mondadori. Proprietario delle terme di Fiuggi, era detto il Re delle acque minerali: nella cittadina laziale inventò anche un premio internazionale dove riuscì a portare persino Michail Gorbaciov, come ha ricordato all'AdnKronos Stefano Andreotti, figlio del sette volte presidente del Consiglio democristiano: "Non lo definirei un amico di famiglia, ma sicuramente ebbe un rapporto cordialissimo con mio padre, che certamente sarebbe molto addolorato per la sua morte. Era una persona vulcanica". Nel ricordo di Stefano Andreotti torna l'attività di Ciarrapico "nel campo della sanità, con la gestione di case di cura molto apprezzate, che mio padre scelse sempre quando dovette sottoporsi ad interventi molto seri". E qui c'è spazio anche per il ricordo di un episodio tragico: "Mio padre era ricoverato a Villa Stuart nello stesso periodo in cui si suicidò Alighiero Noschese e raccontava sempre di aver udito quello sparo nella notte". Poi il calcio: "Da tifoso laziale -dice Stefano Andreotti- non conosco molto quella vicenda, ma penso che mio padre non lo costrinse ma certo lo convinse a prendere la proprietà della società". Il Ciarra, come tanti lo chiamavano a Roma, fu anche editore: la sua azienda di Cassino stampò libri e fascicoli a sfondo revisionista sul fascismo e in particolare della Repubblica Sociale Italiana sotto i tipi, della Ciarrapico Editore, a cui collaboravano tra gli altri Marcello Veneziani, che fu direttore editoriale, e, negli anni Settanta, il giornalista Guido Giannettini. "E' stato uno dei primi e dei pochi - racconta Gianfranco Fini  - che negli anni Settanta e ancor prima ha dato vita ad un'editoria di destra, sempre convinto delle sue idee e senza alcun tentennamento".Sono in tanti dal mondo della destra a piangere Ciarrapico: "amico fraterno di mio padre Romano Mussolini, uomo sempre vicino alla nostra famiglia" scrive per esempio su Twitter Alessandra Mussolini. E se più recentemente ha controllato numerosi quotidiani locali, tra i quali Ciociaria Oggi, Latina Oggi e Nuovo Oggi Molise, che fanno capo a due società editoriali: Nuovo Oggi srl, ed Editoriale Oggi srl, a Roma è stato tra l'altro proprietario della clinica Villa Stuart, del Policlinico Casilino, della Casina Valadier (avventura finita male, con un crac da 70 miliardi di lire e una condanna a tre anni per ricettazione fallimentare), del bar Rosati in piazza del Popolo. Diverse le disavventure giudiziarie, il suo vitalizio da parlamentare era stato anche sospeso dal Senato nel 2015 per le condanne penali. 

È morto l'ex senatore Giuseppe Ciarrapico. Editore, imprenditore, ex presidente della Roma, indistintamente amico di Andreotti, Almirante e Berlusconi. Giuseppe Ciarrapico è stato tutto questo e molto di più. Ecco le luci e le ombre del "Ciarra", scrive Francesco Curridori, Domenica 14/04/2019, su Il Giornale.  Si è spento a Roma all'età di 85 anni Giuseppe Ciarrapico. Secondo quanto riporta l'Adnkronos, Ciarrapico è morto questa mattina intorno alle 7,40 nella clinica Quisiana a Roma dove era ricoverato da qualche tempo.

Ciarrapico editore e imprenditore. Inizia la sua carriera con un’azienda tipografica di Ciampino che, oltre a stampare i manifesti per il Movimento Sociale Italiano, editava anche dei libri sulla storia del fascismo della Repubblica Sociale. Nel corso degli anni mette su un vero e proprio network di giornali locali come Ciociaria Oggi, Latina Oggi e Nuovo Oggi Molise che vendeva oltre 50mila copie. “Con Andreotti negli Usa incontrammo l’editore del Washington Post. Ci disse che i soldi veri li faceva con Bronx News. Lì ho capito tutto”, rivelerà. Negli anni ’80 Ciarrapico, detto ‘Er Ciarra’, compra le Edizioni del Borghese di cui Marcello Veneziani era direttore editoriale ma la sua indole imprenditoriale travalica il mondo del giornalismo. Diventa proprietario delle terme di Fiuggi e viene ribattezzato ‘Re delle acque minerali’, accrescendo pian piano il suo potere e la sua influenza. Sono sue anche alcune cliniche private, tra cui la più nota è Villa Stuart e, in seguito, acquisterà la Casina Valadier al Pincio e il caffè Rosati a piazza del Popolo. Nel 1990 Ciarrapico, su richiesta di Giulio Andreotti, fa da intermediario tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti nella vicenda nota come ‘Lodo Mondadori’. Ma a volere la sua presenza fu soprattutto Carlo Caracciolo, all’epoca presidente dell’Espresso, che racconterà: “Lo incontrai con un pretesto, segnalargli Vissani come chef per la sua Casina Valadier. In realtà volevo chiedergli di spiegare ad Andreotti che la vittoria di Berlusconi su Mondadori si trasformava in una vittoria di Craxi. Si fece di colpo attentissimo. Sentito Andreotti ci convincemmo tutti che Ciarrapico era l’unico mediatore possibile”.

I guai giudiziari ed economici di Ciarrapico. “In pari grado vulcanico e approssimativo, s’era messo fermamente in testa di essere amico di tutti. Del Msi e della famiglia Almirante lo era fin dalla metà degli anni Quaranta; però si mise pure a rifornire di acqua di Fiuggi i festival dell’Unità e tentò di premiare Ingrao; promise a Craxi di acquistargli il glorioso Avanti!; finanziò le più divertenti e azzardate iniziative editoriali para-cielline. Al culmine del trullallà partitico e finanziario diede soldi perfino al Psdi, e per estremo paradosso fu la cosa che sul piano giudiziario gli costò più cara”, scriverà Filippo Ceccarelli di Repubblica in un ritratto del personaggio ‘Ciarra’ la cui parabola discendente arriva con Tangentopoli. Nel 1991 diventa presidente della A.S. Roma ma, trascorsi due anni, deve cedere la squadra ai Sensi dopo che viene arrestato per bancarotta fraudolenta per lo scandalo della Safim-Italsanità che vede coinvolto anche Mauro Leone, figlio di Giovanni, l’ex presidente della Repubblica. Sempre nel ’93 viene arrestato per finanziamento illecito ai partiti e solo sette anni dopo viene condannato in via definitiva e, data l’età avanzata, affidato ai servizi sociali. Nel ’98 arriva la sentenza di condanna a 6 mesi di ‘detenzione domiciliare’ per il processo sul crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi che lo vedeva indagato per bancarotta fraudolenta. Travolto dalle inchieste giudiziarie e dai debiti, Ciarrapico, nel corso degli anni, ha dovuto cedere anzitutto il suo ‘piccolo impero sanitario’ e, poi, una buona parte dei suoi giornali locali. Nel 2010, infine, è stato accusato di "stalking a mezzo stampa" nei confronti della giornalista Manuela Petescia, direttrice dell'emittente Telemolise che avrebbe molestato facendo pubblicare articoli insultanti e vignette a sfondo sessuale che la vedevano protagonista.

Ciarrapico in politica e le polemiche con Fini. Ma negli anni 2000 il nome di Ciarrapico torna in auge come grande sostenitore del centrodestra col quale si candida alle Politiche del 2008, sotto le insegne del Pdl. Una volta divenuto senatore, dirà: “Dopo Berlusconi c’è solo Berlusconi. Io lo chiamo il Padreterno”. I rapporti con Gianfranco Fini sono, invece, sempre stati pessimi. L’allora ex segretario di An, sconcertato per le dichiarazioni di Ciarrapico sul fascismo, dice che candidarlo era stato uno sbaglio. L’editore ciociaro, da parte sua, non ha mai nascosto il suo disprezzo per il delfino del suo amico Almirante: “A Fini – dirà - mi pento di aver fatto rompere solo il naso. Era il ’75. Avevano appena ucciso Mantakas a Roma. Duecento ultras, giovani e missini, arrivarono sotto la sede del Secolo d’Italia chiedendo di parlare con Almirante. Fini si agitò e prese qualche cazzotto. Made in Ciarrapico”. Nel 2010, dopo la rottura tra Berlusconi e Fini, l’allora senatore del Pdl manda su tutte le furie la comunità ebraica affermando:"I finiani hanno già ordinato le kippah? Chi ha tradito una volta tradisce sempre". Frase per la quale Ciarrapico, poi si scuserà e spiegherà: “Io mi onoro di aver indossato a Gerusalemme in tempi molto lontani la kippah al museo dell’Olocausto. In Senato ho parlato di "tradimento"di Fini che prima ostentava il saluto fascista e poi è andato in Israele a definire il fascismo il male assoluto. E per dire tutto questo si è messo la kippah”. Nel 2012, invece, nel corso della trasmissione radiofonica La Zanzara si attirerà le ire del mondo LGBT per aver detto: "Due gay che si baciano mi fanno schifo. Durante il fascismo venivano mandati a Carbonia, scavavano e stavano benissimo. Oggi non vale nemmeno la pena mandarceli". Nel 2013 non viene ricandidato e, due anni dopo, il Senato gli toglie il vitalizio da parlamentare a causa delle sue condanne.

Francesco Persili per Dagospia il 14 aprile 2019. “Io di calcio non so nulla, non so neanche chi sia Zoff”. Si presentò così ai tifosi giallorossi Giuseppe Ciarrapico, presidente della Roma dal ’91 al ’93, scomparso a Roma all’età di 85 anni. Plenipotenziario di Andreotti (si conobbero nel 1953 all’inaugurazione di un centro ittico a Latina) e editore, il ‘re delle acque minerali’ poteva vantare il ruolo di grande mediatore della spartizione della Mondadori fra Berlusconi e De Benedetti quando prese dalle mani di Flora Viola la Coppa Italia appena conquistata a Marassi contro la Sampdoria. Un passaggio simbolico di consegne tra la famiglia che aveva portato la Roma al punto più alto della sua storia e l’imprenditore che, travolto dalle inchieste di Tangentopoli, la lasciò sull’orlo del fallimento nelle mani di Sensi e Mezzaroma. L’operazione che lo portò sul ponte di comando di Trigoria venne raccontata anni dopo da Luciano Gaucci, anche lui interessato al club giallorosso: “Andreotti era un amico ma lo era anche di Ciarrapico, che era appoggiato anche da Craxi e Pomicino. La politica sul filo di lana ha prevalso…” Il presidente della Figc Antonio Matarrese confermò: “La politica ha avuto una presenza pregnante ma tutto è stato fatto nell’interesse della Roma”. All’arrembante ‘Ciarra’ bastarono pochi mesi per innamorarsi del giocattolo Roma al punto da non voler più nessuno a fargli ombra. Silurò il vicepresidente Gianni Petrucci, che poi sarebbe diventato presidente del Coni e numero 1 della Federbasket. Si circondò di una corte di pretoriani-ultrà e varò una Consulta giallorossa con i tifosi vip (Alberto Sordi, Ornella Muti, Lorella Cuccarini). Fiumi di parole e di polemiche (“Se avessi comprato la Fiat o la Rai non avrei avuto tanto riscontro sui media”), assemblee degli azionisti con scontri feroci sulle azioni dell’Elettrocarbonium, bilanci contestati. "C'è chi, attraverso la Roma, sta cercando di farmi male come imprenditore", protestò lui. La sua gestione è legata all’esordio in A, il 28 marzo 1993, di Francesco Totti, che un mese prima aveva deliziato gli infreddoliti spettatori del Flaminio in un’amichevole con l’Austria. Ma quel giorno a Brescia a commentare le gesta del futuro Capitano giallorosso non c’era Ciarrapico ma il suo vice Vincenzo Malagò, legato alla Roma dal 1954 e padre dell’attuale presidente del Coni: “Totti? Un ragazzo molto interessante”. La Roma del "Ciarra" portò in Italia Sinisa Mihajlovic, bocciò Beppe Signori e puntò forte su Caniggia che non fu mai all’altezza della sua fama. Tranne una sera. Semifinale di andata di Coppa Italia, contro il Milan degli Invincibili. Il gol del due a zero su pallonetto, dopo una galoppata in contropiede, portò la squadra di Boskov a ipotecare la finale (poi raggiunta grazie al rigore parato a Papin da Cervone nella gara di ritorno). Ma nella notte quella dell’argentino non fu l’unica fuga leggendaria. Al fischio finale, infatti, Ciarrapico scappò dall’ospedale e arrivò in pigiama e vestaglia all’Olimpico...

Sergio Bocconi per il “Corriere della Sera” il 15 aprile 2019. Lui stesso ha ricordato così le ore all' hotel Palace di Milano, passate alla «storia» come la «sera del Ciarra». «Ah, che sera, quella sera. Le trasmissioni vennero sospese e a reti unificate alle 23 e 20 io lessi il comunicato dell' accordo, con a destra Gianni Letta e Fedele Confalonieri, a sinistra Carlo Caracciolo e l' avvocato Ripa di Meana che rappresentava De Benedetti». È il 29 aprile 1991 quando, sotto la «stella» di Giuseppe Ciarrapico, fedelissimo di Giulio Andreotti, l' Ingegnere e Silvio Berlusconi raggiungono l' accordo che dopo 500 giorni mette fine alla guerra di Segrate, con la spartizione della Mondadori. A De Benedetti restano Repubblica , Espresso e i quotidiani locali della Finegil, a Berlusconi libri e periodici tra cui Panorama . La vicenda, iniziata nel 1989 e arrivata a quella mediazione dopo che la magistratura romana ha annullato il lodo arbitrale che aveva dato ragione a Cir, ha poi vissuto tante altre puntate. In sede penale, per la corruzione di Vittorio Metta, giudice del tribunale che aveva ribaltato l' esito del lodo, e in sede civile, dove la Cassazione nel 2013 ha condannato Fininvest a versare 500 milioni a Cir. Ciarrapico, qualche anno dopo la notte che gli ha dato la maggiore fama dopo quella legata ad acquisto e presidenza della Roma, ha raccontato che «ci avevano provato in tanti a metterli d' accordo. Perfino Enrico Cuccia. Nulla». Nel febbraio-marzo 1991 era andato a colazione «dall' amico Caracciolo»: «Lì trovai alcuni uomini di De Benedetti: Corrado Passera e Ripa di Meana. Dibattevano della Mondadori. Gli dissi: "A me pare che state a fare la guerra della Secchia rapita. Eppure non mi sembra così difficile trovare la quadra"». Poche ore dopo la chiamata di De Benedetti. «Mi chiede: "Perché non ci provi tu?"». Andreotti l'avrebbe sconsigliato: «Mi ricordo le sue parole: "Nun t' impiccià che te fai male"». E Bettino Craxi gli diceva: «Teniamo duro perché ci mollano Repubblica . Io gli rispondevo: questi non mollano». Fatti e personaggi della Prima Repubblica, dove nulla restava fuori dalla porta dei partiti-padroni. E il Ciarra, «re delle acque minerali», editore, patron di cliniche e della Roma, è stato uno degli interpreti più «colorati». E significativi.

“CIARRA” (IN) PACIS. Patrizio J. Macci per Affari italiani il 16 aprile 2019. Giuseppe Ciarrapico ha raccolto per l’ultimo saluto oltre ai familiari presenti al completo, Maurizio Gasparri, Domenico Gramazio, Donna Assunta Almirante vedova del fondatore del fondatore dell’Msi con i figli, lo storico ed ex consigliere comunale Adalberto Baldoni e un Adriano Tilgher pensieroso insieme a Giuseppe Valentino presidente della Fondazione An. Quelli che gli sono stati vicini anche durante tutte le sue vicende giudiziarie. E poi un manipolo di tipografi, giornalisti e maestranze del Secolo d’Italia quelli della stampa quasi clandestina, cominciata con il ciclostile che hanno avuto porte aperte per l’ultimo saluto insieme agli operatori di ciò che rimane del suo impero della sanità. Perché era quello l’unico spazio concesso alla sua corrente di pensiero in un mondo nel quale l’egemonia culturale stava tutta a sinistra: il "revisionismo" e l'innovazione dei giornali locali che aveva mutuato da un viaggio negli Stati Uniti. Se le copie di giornale andavano pesate e non contate come tentava di insegnare ai suoi amministratori, c’è stata una corrispondenza tra il numero di presenti al suo funerale e la rappresentazione della sua esistenza, pochi i politici soprattutto gli appartenenti storici alla Destra, perché anche gli uomini non si contano ma si pesano per la loro fedeltà. E a loro aveva dato parecchio (racconta un vecchio giornalista): “Come la volta che si presentò in tribunale e sollevò da ogni responsabilità tutta la catena di comando del suo giornale, dal direttore all'ultimo degli amministrativi: 'Signor giudice, sono stato io in qualità di editore ad imporre che venisse fatta quella cosa. E l’ho imposta contro la volontà delle persone che avete chiamato a giudizio in quest’aula, che hanno dovuto eseguire in quanto miei dipendenti. Sono io e solo io il responsabile"'" Pagò per tutti in tribunale ed economicamente. Duecento persone del suo popolo, dove si è notato più di un vecchio telefono Nokia 3310 e qualche cappotto rivoltato che abiti di gran sartoria. L’A. S. Roma Calcio della quale si occupò evitandone il fallimento su richiesta di Giulio Andreotti ha inviato un cuscino di rose giallorosso. Il gran cerimoniere nero (onnipresente a ogni commemorazione della Destra romana) Bruno di Luia, un "fascista" sulla settantina, prestante e di un certo piglio, naso da pugile, di professione attore e cadutista come riportano le cronache, ha mantenuto l’ordine in una strada caotica all’inverosimile mentre la bara sfilava via avvolta nel tricolore. I vecchi “camerati” lo ricorderanno a modo loro a un mese dalla morte a piazza Tuscolo, i manifesti sono già pronti: sono quelli che recano la fotografia divenuta iconica del Senatore mentre fa il saluto romano.

Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" - Gennaio 2012 La pistola sul tavolo non c'è più: "Non era una leggenda. La mettevo in vista che ricevessi amici o ospitassi nemici". Con la schiena a pezzi, la lingua feroce e i ricordi da ordinare in un prossimo libro, Giuseppe Ciarrapico non teme per sé: "Ho 77 anni, ma la morte è solo un aspetto della vita. Ho paura della sofferenza fisica, ma intanto vado avanti. Fermo non so stare". Nel giorno in cui le terme di Fiuggi passano agli inglesi, l'uomo che fu anche re delle minerali, apre il rubinetto. Acqua a colori. Acqua in bianco e nero.

Senatore, il presente italiano?

«Monti e Napolitano possono racconta' quello che je pare, ma ogni giorno aumentano benzina, pane e companatico. Il paese non è disperato. È rassegnato, che è peggio. Io il senatore lo faccio seriamente, ogni fine settimana salgo in macchina e batto le province».

Incontra rabbia?

«Una specie di miracolo. L'unico che tiri, interessi o appassioni è Berlusconi. Lo ritroveremo presto al comando.

Per adesso c'è Mario Monti.

«Da un momento all'altro je staccano la spina. Qui stanno tutti a perde voti. Lo stesso Pd è in difficoltà, la Camusso li sta a massacra'. Comunque sa quale è il problema del governo Monti?»

Quale senatore?

«Che so' troppo brutti. I tecnici li conosco. Arrivano per l'emergenza, giocano a fare gli umili e poi non se ne vanno più. Monti si candiderà al Quirinale. Garantito. Bisogna vede' come la prende il compagno che occupa quel posto».

Il presidente Napolitano?

«Siamo in mano a un governo catto-comunista come mai nella storia d'Italia. L'altra notte l'ho rivisto in tv il Presidente, al funerale di Togliatti».

Era il 1964.

«Un giovane Napolitano che teneva lo striscione "comunisti sempre". Vojo ancora capi' chi dalla nostra parte ha favorito la sua ascesa. Mi dicono Letta, ma non ci credo. Gianni è un uomo prudente e il miglior uomo politico che abbia l'Italia. Io sogno un finale diverso».

Quale?

«Che presidente della Repubblica diventi Letta in gara con Monti sostenuto dai compagnucci. Deve vede' come la Finocchiaro e la banda sua si spellano le mani appena il neo premier pronuncia una vocaletta. Poi c'è Nichi Vendola, che je lo dico a fa'?»

Ha problemi con Vendola?

«Ho un forte odio pe' i gay».

Senatore lei è omofobo.

«Mi danno fastidio, che ce posso fa'? So' come Berlusconi io, mi piacciono le donne. C'ho la stessa malattia che Lando Fiorini attribuisce a Silvio nostro».

Quale malattia, senatore?

«La sorchite. Che in Italia è più di una religione . Le racconto una cosa. Nel '76, ai tempi della scissione di Democrazia Nazionale, fummo costretti a comprare una foto compromettente di Almirante. Mario Tedeschi, mio socio, mi chiamò allarmatissimo: ‘Giorgio ha chiuso'».

Cosa c'era nella foto?

«Almirante, in 500, con una giornalista chinata su di lui. Facemmo una colletta, l'acquistammo e gliela consegnammo. Lui fu gelido: ‘Avete sbagliato. Avrei rischiato se mi avessero trovato con un uomo, ma un politico sorpreso a scopare, vince sempre'».

Almirante non c'è più.

«L'idea non muore, anche se mi manca. Mi ricordo il giorno del funerale, con Montanelli che al passaggio del feretro si tolse il cappello e 40 anni di vita insieme . I moti di Reggio, i golpe da operetta, gli scontri. Grande uomo».

I golpe da operetta?

«Una barzelletta. Tutti, nessuno escluso, dal '64 in poi. Almirante mi telefonava: ‘Peppe, mi hanno detto che stasera ci sarà il colpo di Stato'. Io dubitavo: ‘Ma Giorgio ancora credi a queste fregnacce?' Poi prendevamo la macchina e andavamo a Tor di Quinto. Attendevamo una mossa dei lancieri di Montebello, ma regolarmente, rimaneva tutto quieto. Si possono prendere sul serio attrezzi come Giannettini e Stefano Delle Chiaie?»

I politici di oggi?

«Mi annoio. Ho tre tasti davanti, voto quel che c'è da votare, mi diverto solo quando qualcuno mi dà del fascista. Per me è molto più di una medaglia».

Il terzo polo?

«Una tristezza che non je so di'. Fini, Rutelli, come se chiama quell'altro str...?

Di chi parla senatore?

«Di Casini, ma perché non si gode sereno i soldi di Azzurra Caltagirone? Speranze italiane? Ha visto il progetto Della Valle-Montezemolo? Della Valle sembra Fracazzo da Velletri».

Secondo Fini lei non avrebbe dovuto essere eletto.

«E infatti sto qui. I rapporti tra noi, sono come si dice a Roma "a cazzo in faccia". Al Senato je lo dissi ‘Chi tradisce una volta tradisce sempre, hai ordinato le kippah per il nuovo partito?'. Lui si vendicò sostenendo che fossi antisemita».

E lei lo è?

«Non scherziamo. Comunque a Fini mi pento di aver fatto rompere solo il naso. Conosce la storia, no?»

Non proprio Senatore.

«Era il '75. Avevano appena ucciso Mantakas a Roma. Duecento ultras, giovani e missini, arrivarono sotto la sede del Secolo d'Italia chiedendo di parlare con Almirante. Fini si agitò e prese qualche cazzotto. Made in Ciarrapico».

Se ne vanta?

«E certo. Recentemente ha provato a far pace. Andava dagli amici: ‘Perché Peppino fa così con me?'. L'ex sindaco di Latina, Zaccheo, fece da ambasciatore. Ci incontrammo negli uffici di Fini e lui partì male: ‘Peppino, vorrei invitarti a pranzo ma dovremmo passare per il Transatlantico, non è il caso'».

Si vergognava?

«Esattamente. Allora ho ribadito: ‘Tu sei un traditore dalla a alla z'».

Andreotti per lei era "Il principale".

«Per l'odio che pulsava nei confronti di Giulio e Geronzi finii anche in carcere per 40 giorni. L'amico Di Pietro voleva colpirli, pagò Peppino per tutti quanti».

Geronzi è tramontato. Se l'aspettava?

«L'ho creato io. L'ho inventato io, ma Geronzi è uno che non sa né odiare né amare e cadere, era il minimo che gli potesse capitare. In ogni caso Geronzi sta ancora a galla, carico di soldi, ci sono crepuscoli assai peggiori».

Cosa è stata la Dc?

«Un'anestesia durata 30 anni».

Bisignani lo conosce?

«Grande amico mio».

Uomo potente?

«Macché, è una farsa. L'unico potere di Gigi è essere stato con la Santanchè.

Licio Gelli?

«Lui era ed è una cosa seria. Sono in ottimi rapporti con il maestro».

E la Massoneria?

«Ne sento odore da tutte le parti, anche ai piani altissimi del Parlamento. Grembiulini puliti, nuovi di zecca».

·         Morto Cesare Cadeo.

E' morto Cesare Cadeo, lutto nel mondo della tv. Il conduttore e giornalista, volto storico di Mediaset, si è spento a 72 anni dopo una lunga malattia, scrive il 04 aprile 2019 La Repubblica. E’ morto a 72 anni dopo una lunga malattia il giornalista e conduttore televisivo Cesare Cadeo. Volto storico di tante trasmissioni di Mediaset, in particolare sportive, Cadeo è stato anche assessore allo sport della Provincia di Milano. Ha cominciato la sua carriera a Canale 5, lavorando poi al fianco dei grandi personaggi della tv di Silvio Berlusconi, come Mike Bongiorno, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. Lascia tre figli. Tra i primi a esprimere il cordoglio per la scomparsa del collega è stato Gene Gnocchi, con cui Cadeo aveva condotto un'edizione di 'Meteore'. "Se n'è andato un gran signore e un vero amico", è stato l'affettuoso saluto di Gene su Twitter. Il "gentiluomo del piccolo schermo", come Cesare Cadeo veniva definito, è stato un emblema della televisione degli anni '80. Cadeo ha iniziato a lavorare a Canale 5 proprio all'inizio di quel decennio con il programma 'Gol', insieme al ct dell'Italia campione del mondo, Enzo Bearzot. E sulla stessa rete ha poi condotto altri programmi sportivi come Superflash con Mike Bongiorno, Record, Super Record e Super Record Sport oltre a Calciomania con Paola Perego e Maurizio Mosca su Italia 1. Canale di Mediaset, quest'ultimo, dove nel 1995 è stato ospite fisso di Mai dire Gol come indimenticabile e un po' surreale inviato in collegamento con la Gialappa's Band. Cadeo ha presentato popolari programmi di intrattenimento accanto a protagonisti della tv come Sandra Mondaini. E ha condotto anche un quiz di bambini, "Fantasia" e la trasmissione di cucina 'Mezzogiorno di cuoco', pioniera nel genere dei cooking show. Nel suo bagaglio di professionista della tv anche numerose telepromozioni e televendite.

Poi Cadeo era passato a Rai 2, dove ha condotto il reality "La sposa perfetta" e il programma "Furore". Dalla tv alla politica: alla fine degli anni '90 Cadeo è sceso in campo per Forza Italia come assessore allo Sport della Provincia di Milano.

È morto Cesare Cadeo: addio al volto garbato della tv. Il conduttore, tra i conduttori storici di Mediaset, è scomparso a 72 anni dopo una lunga malattia. Era stato anche Assessore allo Sport della provincia di Milano, scrive Francesco Canino il 5 aprile 2019 su Panorama. C'è la tv di quelli che sgomitano ad oltranza per farsi notare e fanno della loro carriera una ragione di vita e poi c'è la tv dei mediani, di chi fa del profilo basso uno stile indelebile. Alla seconda categoria è appartenuto senza dubbi Cesare Cadeo, il popolare volto Mediaset - tra i primi conduttori della Finivest agli inizi degli anni '80 - scomparso a 72 anni, il 4 aprile 2019, dopo una lunga malattia. 

È morto Cesare Cadeo, addio al volto garbato della tv. "Portatore sano di smoking". Così Gene Gnocchi definiva ironicamente l'amico Cesare Cadeo, che volle al suo fianco in Meteore, su Italia 1, e poi nel gustosissimo e surreale La grande notte del lunedì sera, in onda su Rai 2 con Simona Ventura. E mai definizione più azzeccata, perché Cadeo ha fatto del garbo, estetico e sostanziale, la sua cifra stilistica anche quando la tv si è fatta col passare dei decenni sempre più urlata dandogli sempre meno spazio. Milanese, classe 1946, cresciuto in una famiglia della borghesia milanese, si laureò in Giurisprudenza alla Statale   e dopo un Master a Brighton, prese una seconda laurea alla Pro Deo University di New York. Il giornalismo è stata la sua grande passione assieme allo sport, il calcio in particolare. Milanista di ferro, all’inizio degli anni '70 fu responsabile delle relazioni esterne del Milan e dei colori rossoneri fu uno degli ambasciatori più orgogliosi, mentre da politico divenne Assessore allo Sport della provincia di Milano durante la giunta guidata da Ombretta Colli. A lanciarlo in tv fu invece Silvio Berlusconi, che lo notò in alcune tv private milanesi e lo ingaggiò nell'allora TeleMilano 58, embrione di quella che divenne Fininvest prima e Mediaset poi. "A Berlusconi va la mia eterna gratitudine per avermi fatto vivere l'esperienza umana e professionale più esaltante della mia vita", raccontò in diverse interviste. "Ho avuto la fortuna di assistere alla più grande rivoluzione del sistema televisivo e del mondo pubblicitario".

La carriera tra Mediaset e Rai. Cadeo appartiene a una generazione di conduttori che non esistono più, forse semplicemente perché quella tv non esiste più. Partito come redattore, divenne conduttore di telegiornale (con Tiziana Ferrario, che poi sarebbe diventata un volto granitico del Tg1) poi scelse l'intrattenimento, conducendo diversi programmi sportivi (anche con Paola Perego e Alba Parietti) e partecipando come inviato ai mitologici SuperFlash e Pentatlon, creature televisive di Mike Bongiorno, e ancora conducendo i primi contenitori del mattino di Canale 5 e molte prime serate. Ha lavorato con i più grandi del piccolo schermo, anche come ideatore e autore di format, spaziando dalle conduzioni più formali alle incursioni più ironiche nei programmi della Gialappa's Band, dove (auto)ironizzava sul ruolo del "conduttore garbato". In Rai, nel 2008, si cimentò anche con il reality La sposa perfetta - al fianco di un'impeccabile Roberta Lanfranchi e una Maria Giovanna Maglie nei panni di chirurgica opinionista - riuscendo a maneggiare un linguaggio apparentemente distantissimo dal suo mondo, senza però mai tradire il suo stile signorile e regimental anni ‘90. 

Da gazzetta.it il 5 aprile 2019. Cesare Cadeo, giornalista e conduttore tv tra i più popolari, si è spento oggi. Aveva 72 anni. Da sempre tifoso milanista, all’inizio degli Anni 70 è responsabile delle relazioni esterne del Milan di Felice Colombo e Vittorio Duina. Nel 1975 inizia a lavorare a Tvm66, una delle prime emittenti televisive milanesi. Poi passa alla corte di Silvio Berlusconi di cui resterà sempre molto amico, prima a TeleMilano58 poi a Canale 5. Qui partecipa alla realizzazione del Mundialito di calcio e commenta i principali eventi sportivi. Nella stagione 1982/83 conduce Goal con Enzo Bearzot, c.t. della Nazionale campione del mondo in Spagna. Un anno dopo, è lui il presentatore di trasmissioni sportive come Record e Super Record , in onda su Canale 5. Dal 1989 al 1992 eccolo invece su Italia 1 a Calciomania, affiancato da Paola Perego e Maurizio Mosca. Nel 1995 è ospite fisso di Mai dire Gol. Durante la Presidenza del Milan di Berlusconi è consigliere d'amministrazione del club. È Cadeo nel 1986 a condurre la mitica presentazione all'Arena di Milano della prima squadra targata Silvio ed è sempre lui, il 15 maggio 1988, lo speaker della festa di San Siro per il primo scudetto. Padre di Alessandra, Filippo e Caterina, è stato anche assessore allo Sport della Provincia di Milano tra il 1999 e il 2004. 

Da cinquantamila.it, a cura di Giorgio Dell'Arti. Milano 2 luglio 1946. Conduttore tv. Giornalista. Prima del 1978, anno in cui è approdato a Telemilano 58, ha condotto il tg dell’emittente Tvm66. Assunto a Canale 5 nell’81 come inviato e consulente aziendale, suoi primi programmi Goal (con Enzo Bearzot), Superflash (con Mike Bongiorno). Nei primi anni ’80 conduce Record e SuperRecord, trasmissioni di sport, grazie alle quali vince il Telegatto. Nel 1986 è entrato a far parte del cda del Milan, dove è restato per dieci anni. Nel 1999 fu nominato assessore allo Sport della Provincia di Milano (presidente Ombretta Colli). Nel 2007-2008 ha condotto con Roberta Lanfranchi il reality La sposa perfetta.

Nel 2008 è stato l’ideatore, l’autore e il conduttore di Ali di luce, su Telenova e sul canale 892 di Sky, con Aristide Malnati e Tonino Scala.

Nel 2010 e nel 2011, sempre su Telenova e sul canale 892 di Sky, ha condotto Passo in TV con Irene Colombo, Aristide Malnati e Tonino Scala, per la regia di Mimmo Zingaro.

«Continuo a presentare centinaia di Televendite e Telepromozioni su Canale5, Italia1, Rete4».

Della morte dice: «Non me ne frega niente. Nel 2000 l’ho vista da vicino, ho avuto un’ischemia e ora ho due gancetti che mi aiutano a tenere le arterie aperte». (Libero)

Sposato con Lalla, conosciuta all’Università nel 1964. Tre figli: Alessandra (1973), Filippo, (1975) e Caterina, (1983). Un nipote, Matteo e un pastore tedesco Sheva.

«Questo è più o meno quello che ho combinato… avrei potuto fare meglio, ma è andata così e ringrazio Dio di avermelo permesso». [Cesarecadeo.it]

·         Addio a Giacomo Battaglia.

Addio a Giacomo Battaglia, imitava Vespa nel Bagaglino. Addio all'attore calabrese Giacomo Battaglia: fu un indimenticabile Bruno Vespa al Bagaglino, scrive Pietro Bellantoni, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. Addio all'attore ex del Bagaglino Giacomo Battaglia. Il noto comico originario di Reggio Calabria, componente del duo Battaglia&Miseferi, si è spento la scorsa notte in un ospedale di Crotone, dove era ricoverato ormai da quasi un anno a causa di una grave malattia. L’attore, nel giugno scorso, era stato colpito da un ictus e da quel momento non aveva più ripreso coscienza. Aveva 54 anni. È stato, insieme a Miseferi, uno dei principali animatori delle ultime stagioni del teatro Bagaglino di Roma. Famosa la sua imitazione di Bruno Vespa, che lo stimava e che più volte lo ha voluto come ospite a Porta a Porta. Con Miseferi, negli anni 80 aveva mosso i primi passi in radio. La svolta definitiva avvenne quando il duo partecipò alla trasmissione Rai “Stasera mi butto”, dedicata ai comici emergenti. Pier Francesco Pingitore ne apprezzò il talento artistico e da quel momento li scritturò nella compagnia del Teatro Bagaglino, i cui spettacoli per molti anni furono inseriti nella prima serata di Canale 5. Battaglia, prima dell'ictus, si era stato sottoposto a dei cicli di terapia nonostante i quali aveva scritto un romanzo, “Mia madre non lo deve sapere”, e continuato la tournée che lo vedeva impegnato con Miseferi e con Pippo Franco. Al termine dell'ultimo spettacolo, l'ictus devastante. “Da quel momento – aveva raccontato Miseferi – dorme un sonno molto molto profondo dal quale non è stato possibile svegliarlo”. Tantissimi i messaggi di cordoglio per la scomparsa dell'attore, tra cui quello di Nicola Irto, presidente del consiglio regionale della Calabria: “Una notizia che ha fatto a pezzi il cuore dell'intera comunità calabrese e reggina. La morte di Giacomo Battaglia è un dolore enorme per tutti noi, per chi lo ha conosciuto come uomo prima ancora che come artista di successo”. Irto ha definito Battaglia “figlio straordinario di questa terra che ha infinitamente amato e onorato”.

Secondo quanto si è appreso nelle ultime ore, i funerali saranno celebrati a Reggio Calabria in forma privata.

Addio a Giacomo Battaglia: è morto il comico del Bagaglino. L'attore, che ha lavorato a lungo in coppia con Gigi Miseferi, è morto a 54 anni dopo mesi di coma. Giacomo Battaglia era famoso per l'imitazione di Bruno Vespa, scrive Francesco Canino l'1 aprile 2019 su Panorama. È morto a 54 anni Giacomo Battaglia, attore comico e volto tra i più noti degli spettacoli teatrali e televisivi della compagnia del Bagaglino di Pier Francesco Pingitore. Ad annunciare la sua scomparsa è stato Luigi Miseferi, con cui ha formato per molti anni il duo comico Battaglia e Miseferi, un sodalizio artistico cominciato a metà degli anni '80 e proseguito fino al 2018. 

Addio a Giacomo Battaglia, è morto il comico del Bagaglino. "Ciao Giacomo! Fratello, Amico, Collega! La mia vita sarà sempre declinata al plurale!". Con queste poche parole Gigi Misferi ha annunciato la scomparsa dell'amico e collega Giacomo Battaglia, avvenuta lunedì 1° aprile: non è un macabro scherzo ma solo il triste epilogo di una vicenda cominciata a gennaio del 2018 e aggravatasi a giugno, quando Battaglia è stato colpito da un ictus a seguito del quale è poi entrato in coma. "A gennaio dello scorso anno a Giacomo è stata diagnosticata una terribile malattia, per la quale è stato operato e si è sottoposto a diversi cicli di terapia", raccontò Misferi durante una puntata di Italia Sì, il programma di Marco Liorni. "Come un leone ha continuato la tournée con me e con Pippo Franco. Purtroppo a giugno scorso, al termine di uno spettacolo nel quale Giacomo è stato letteralmente perfetto, senza dare nessun segno di nulla, a distanza di qualche ora è stato colpito da un ictus e da quel momento dorme un sonno molto profondo". E da quel sonno non si è più risvegliato.

La carriera di Giacomo Battaglia. Giacomo Battaglia era celebre soprattutto per le imitazioni di Bruno Vespa - che lo volle anche ospite a Porta a Porta - e Sandro Ciotti, che gli regalarono la grande popolarità negli anni '90 quando, in coppia con Gigi Miseferi, approdò in pianta stabile al teatro Bagaglino di Roma. Nati entrambi a Reggio Calabria, furono notati e consacrati proprio dal regista Pier Francesco Pingitore durante la trasmissione culto Stasera mi butto.

Dopo quello show risevato ai comici emergenti, vennero scritturati per lo spettacolo Troppa Trippa e da quel momento non si fermarono più partecipando a tutti i grandi show televisivi e teatrali di Pingitore, da Champagne a Viva l'Italia, passando per Torte in faccia e Bellissima-Cabaret anticrisi. Alternando il registro comico a quello drammatico, Battaglia (super tifoso della Reggina) ha lavorato fino all'ultimo anche con l'amico Pippo Franco, che su Instagram lo ha ricordato così: "Sarai sempre al mio fianco Giacomo. Il tuo Amico Pippo". 

Il saluto degli amici e i colleghi. A colpi di "chi non ride è fuori moda", il suo tormentone, Giacomo Battaglia sapeva farsi volere bene dal suo pubblico e dai colleghi e amici, come dimostrano i tanti messaggi di affetto postati in queste ore sui social. Compresi quello di Rosario Fiorello, che su Twitter ha scritto: "Un pensiero a Giacomo Battaglia e alla sua famiglia. Un abbraccio a Gigi Miseferi suo compagno d’avventura". E ancora quello dell'ex Miss Italia, Manila Nazzaro: "Riposa in pace amico mio... grande uomo e immenso artista. Questa mattina sei volato nel paradiso degli artisti e li ti hanno accolto con uno di quelli applausi cui eri abituato. Ti voglio bene".

·         E’ morto Kenneth To.

Nuoto, è morto Kenneth To: 26 anni, aveva vinto 4 medaglie mondiali. L'atleta nato a Hong Kong ma di passaporto australiano, specializzato nello stile libero e nei misti, era all'Università della Florida per un training camp di 3 mesi: si è sentito male nello spogliatoio e neppure l'immediato ricovero in ospedale gli ha salvato la vita. In carriera 2 argenti e 2 bronzi iridati, scrive il 19 marzo 2019 La Repubblica. Il mondo del nuoto è in lutto. E' morto infatti a 26 anni Kenneth To, atleta nato ad Hong Kong e di passaporto australiano, specializzato nello stile libero e nei misti. La notizia è stata data dall'Istituto dello sport di Hong Kong, spiegando che la tragedia è avvenuta durante un training camp di tre mesi che il nuotatore stava frequentando all'Università della Florida. Secondo i media asiatici, sarebbe stato colpito da un malore nello spogliatoio e neppure l'immediato trasporto in ospedale è servito a salvargli la vita.  "Si è sentito male durante una sessione di allenamento, è stato portato in ospedale ma non ce l'ha fatta - spiega l'Istituto in un comunicato esprimendo tanta tristezza per l'accaduto - Kenneth To era un nuotatore eccezionale con 16 record siglati per la nostra rappresentativa. Era estremamente popolare e amato dai suoi compagni di squadra e rispettato dagli avversari. La sua scomparsa è una perdita enorme per il nostro movimento. L'HKSI rivolge le più sentite condoglianze alla famiglia, ai conoscenti, ai compagni di allenamento e ai preparatori di Kenneth". Nel corso della sua carriera, To ha vinto quattro medaglie ai Mondiali: un argento nei 100 misti e due bronzi in staffetta in vasca corta a Istanbul nel 2012 e un argento, sempre in staffetta, alla rassegna iridata di Barcellona nel 2013 quando ha gareggiato tra le fila della squadra australiana. Nel suo palmares anche un oro e un argento ai Giochi del Commonwealth e altre 6 medaglie (1 oro, 3 argenti e 2 bronzi) ai Giochi olimpici giovanili a Singapore nel 2010.

·         Addio a Mario Marenco.

È MORTO MARIO MARENCO, IL RICCARDINO DI “INDIETRO TUTTA”.  Da www.repubblica.it il 17 marzo 2019. Addio a Mario Marenco, straordinario compagno delle trasmissioni di Arbore e Boncompagni, inventando una serie di strampalati personaggi a partire da Alto gradimento e poi in tv a L'altra domenica fino a Indietro tutta. L'architetto, attore e umorista è morto a Roma all'età di 85 anni. Era ricoverato da qualche tempo al policlinico Gemelli per complicazioni legate al suo stato di salute. Nato a Foggia il 9 settembre del 1933, si è laureato in architettura nel 1957 all'Università di Napoli, ottenendo poi borse di ricerca a Stoccolma e Chicago. Nel 1960 ha aperto un atelier di architettura e design, lo Studio Degw con sede a Roma, collaborando con le più importanti case automobilistiche italiane per la realizzazione dei loro stand espositivi. Prima del debutto in tv nel '72 con Cochi e Renato e Enzo Jannacci nel programma Il buono e il cattivo, raggiunge il successo nel 1970 con Giorgio Bracardi dando il via a una galleria di personaggi demenziali per Alto gradimento con cui è iniziato un lungo sodalizio con Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Nell'Altra domenica è stato Mr. Ramengo, uno strampalato inviato che dopo ogni reportage urla "Carmine", poi protagonista di programmi come Odeon, Sotto le stelle e Indietro tutta dove interpreta il personaggio di Riccardino. Marenco era molto legaro ad Arbore anche perché erano entrambi di Foggia. Ha creato e interpretato personaggi come il colonnello Buttiglione, la Sgarambona, l'astronauta spagnolo Raimundo Navarro, il dottor Anemo Carlone, il professor Aristogitone, Verzo, Ida Lo Nigro, il poeta Marius Marenco e molti altri. Nel 2015 aveva era tornato cast del Programmone di Nino Frassica su  Rai Radio2. È stato anche attore per il cinema (Il colonnello Buttiglione diventa generale, Von Buttiglione Sturmtruppenführer, Il pap'occhio, I carabbinieri, Vigili e vigilesse, Sing - Il sogno di Brooklyn) e autore di libri umoristici editi da Rizzoli tra cui Lo scarafo nella brodazza, Dal nostro inviato speciale, Los putanados, Stupefax e Il cuaderno delle poesie.

Da www.ilpost.it del 9 settembre 2013. Oggi compie 80 anni Mario Marenco, attore e protagonista televisivo e radiofonico che ha associato la sua popolarità e le sue mille invenzioni di personaggi alla carriera di invenzioni di Renzo Arbore, prima con una trasmissione innovativa e di grandissimo successo in radio – “Alto gradimento” – e poi con tutte le sue evoluzioni e discendenze televisive (“L’altra Domenica”, “Indietro tutta”). Prima ancora Marenco – che è architetto professionista – aveva lavorato in tv con il cantautore Enzo Jannacci e i comici Cochi e Renato. I suoi personaggi, oggi molto poco conosciuti e ricordati, furono popolarissimi e familiari nei decenni Settanta e Ottanta, spesso associati a quelli del suo collega Giorgio Bracardi, altro protagonista di “Alto gradimento”.

Da www.corriere.it il 18 marzo 2019. «Con la morte di Mario se ne vanno 60 anni di amicizia, simpatia, di risate di pancia. Risate vere che facevamo tutti insieme, con lui, con Boncompagni, con Bracardi». Così Renzo Arbore ricorda Mario Marenco, scomparso a Roma all’età si 85 anni.

Da cinquantamila - la storia raccontata da Giorgio dell'Arti il 18 marzo 2019.

Foggia 9 settembre 1933. Comico. Architetto. Designer. Debutto in radio con Alto gradimento; poi in televisione L’altra domenica, Indietro tutta, Quelli della notte; al cinema Il pap’occhio (Renzo Arbore 1981), I carabbinieri (Francesco Massaro 1981), Quasi quasi mi sposo (Vittorio Sindoni 1982) ecc. «Ironia tagliente e senza preavviso» (Renzo Arbore). «Troppo intelligente per essere un vero attore» (Federico Fellini).

«Un buontempone che molti considerano un genio, non del tutto espresso, della comicità italiana. In televisione, uno dei suoi primi personaggi, è stato la signora Ida Lonigro, massaia dall’accento barese che su L’altra Domenica, negli anni Settanta, si metteva di profilo per mostrare la sua sesta di reggiseno (...) In seguito, Marenco è stato Marius Marencus, poeta surreale, Sgarrambona, brutta e insopportabile ragazza da maritare, Riccardino, bambino cinico e molesto con grembiule, cartella e un grande fiocco bianco... Il bello è che dal vivo, Marenco non è molto diverso da come si presenta in tv. A chi gli si presenta, dice di chiamarsi come lui. Altre volte, si spaccia per il governatore della Libia. Se qualcuno lo ospita a dormire fuori casa, chiede se c’è una piscina, “altrimenti vi denuncio”. A Bari, durante una convention di Confindustria, ha tentato maldestramente, non riuscendoci, di avvicinare Berlusconi, per proporgli cose incomprensibili e assolutamente incongrue per l’occasione. A Cisternino ha inaugurato una mostra d’arte contemporanea, Kamera 55, ma s’è addormentato in pubblico» (Davide Carlucci).

«Era il figlio di un colonnello della finanza e collega del colonnello Buttiglione, così diede vita al personaggio. In seguito il vero Buttiglione cercò in tutti i modi di dissuaderci dal fare il suo nome. Diceva che lo fermavano per strada e lo trattavano come un cretino. Alla fine fece scrivere perfino dal ministero della Difesa. E noi a quel punto lo promuovemmo a generale Damigiani» (Renzo Arbore).

«Svettava grazie ai versi, le sue poesie, apodittiche, icastiche, era in grado, talvolta, perfino di sfidare i testi dei poeti ”novissimi” del Gruppo 63. Meglio di Sanguineti e Pagliarani, o quasi» (Fulvio Abbate) [Fat 28/1/10].

«Il creatore surreale di tanti memorabili personaggi per radio e tv da Alto Gradimento a Quelli della notte è anche, e soprattutto, un apprezzato designer con una lunghissima esperienza di lavoro con le maggiori aziende del settore. Ha dato vita al colonnello Buttiglione e al professor Aristogitone, così come alla lampada Mera per Artemide, premiata col Compasso d’oro. L’architetto Marenco, quello che i suoi affezionati fan conoscono poco, dopo la laurea a Napoli nel 1957 se n’è andato in giro per il mondo (Stati Uniti, Scandinavia, Germania) con fellowship universitarie e poi ha cominciato a lavorare, soprattutto nel product design, ma anche con allestimenti (molto apprezzato quello Fiat per l’AutoShow del 1993), concorsi (ospedali, uffici ecc.). Nelle interviste, a volte, il comico e l’architetto all’improvviso si scambiano le parti» (Leopoldo Fabiani).

La rivista inglese Wallpaper ha assegnato al “divano Marenco” (Arflex) il premio come miglior prodotto del 2007.

«Ha scritto anche libri, dai titoli eloquenti, Lo scarafo nella brodazza, Los Puttanados, Stupefax. La sua aria stralunata, la sua cultura, il suo disincanto, gli impedirono di continuare a stare in tv» (Alessandra Comazzi) [Sta 28/6/10].

Aldo Grasso per www.corriere.it il 17 marzo 2019. Abbiamo imparato ad amare Mario Marenco seguendo «Alto Gradimento», tanti anni fa. Era il colonnello Buttiglione, era il prof. Aristogitone, era il prof. Anemo Carlone, era la Sgarrambona, asfissiante «ragazza da marito», era lo studente Verzo. «Alto Gradimento» (1970) è stato una piccola rivoluzione nella storia del costume e dei media. La trasmissione aveva riscoperto la «specificità» del linguaggio radiofonico, che non è fatta solo di parole e di musica ma anche di rumori, di silenzi, di montaggi incongrui. Ha rappresentato un modello spettacolare e produttivo per tutte le nascenti «radio libere», regalando loro la possibilità di esprimersi con un linguaggio iterativo e «sgrammaticato». In realtà, Marenco era un architetto e designer affermato, avvicinatosi casualmente al mondo radiofonico e televisivo, su invito nel 1965 di Gianni Boncompagni. All’inizio, leggeva poesie surreali che componeva viaggiando. «Alto gradimento» è stato poi sostituito da un analogo programma, «Radio trionfo», in cui Marenco si esibiva nei panni della dottoressa Benzolato in De Martiris, sessuologa e accanita fumatrice di pipa. Renzo Arbore lo ha voluto con sé all’“Altra domenica” (1976), altro caposaldo della storia dello spettacolo. L’originalità della proposta consisteva nella contaminazione tra cliché forti e improvvisazione, fra generi diversi e una vivida tradizione della rivista. Marenco si trasforma in Mister Ramengo, un ironico e svagato telecronista autore di cronache paradossali e beffarde. Nel 1978, a Milano, debuttano in palcoscenico molte delle sue creature, ma lo scarso successo ottenuto (Fellini lo definì «troppo intelligente per essere un vero attore») dissuase Marenco da altri analoghi tentativi. Nel 1987-88 nel programma «Indietro tutta», sempre con Arbore, impersona il goffo bambino Riccardino, oltre a prestare la voce al Vicepresidente dell’Auditel e a prodursi in alcune sortite nei panni di un mercante spagnolo che voleva comprare il marchio del mitico «Cacao Meravigliao». Autore di alcuni libri umoristici («Dal nostro inviato speciale», «Lo scarafo nella brodazza», «La avventure di San Riccardino»), eclettico, disordinato e per molti versi geniale, ha dichiarato più volte che fare il comico lo aiutava ad affrontare la paura del vivere: «La quotidianità in cui viviamo ci porta a vivere in un paesaggio psicologico negativo: uno si rovina per stupidità, ma alle volte se la cava proprio con l’autoironia».

Marco Molendini per il Messaggero il 18 marzo 2019. Il vizio del paradosso, fino all' ultimo. La settimana scorsa, quando Renzo Arbore è andato a trovarlo al Gemelli, Mario Marenco lo ha accolto con la sua voce arrotata, l' aria incosciente di sempre, il tono spiritoso, come fosse ancora ai tempi di Alto gradimento: «Ho subìto una catastrofe». Impossibile, anche nella tragedia, non sorridere. Ma Mario, da quella catastrofe, non è più uscito: una caduta, la rottura del femore, una crisi polmonare, la rianimazione. Se ne è andato a 85 anni, genio incompiuto dell' umorismo, perché non aveva nessuna intenzione di essere compiuto. Mario era Mario, poeta sbilenco, comico astratto, architetto di talento. Era rimasto Mario anche quando lo chiamò Fellini per La città delle donne: il Maestro aveva pensato a lui come protagonista, prima di ricorrere a Mastroianni. Gli fece un provino ma si arrese quando, alla richiesta di ripetere una battuta, Marenco gli rispose: «Devo fare il pappagallo?». Naturalmente non lo fece. Sul set lo aveva accompagnato Arbore, assieme a Mariangela Melato: «Avevo consigliato a Fellini di usare la nostra tecnica, mia e di Boncompagni a Alto gradimento, cioè chiedergli il contrario di quello che voleva. Ma poi Federico mi chiamò: Non ce la faccio disse disperato». Impossibile domare Marenco. «Ma guidarlo era meraviglioso» ricorda Renzo, andando con la memoria a quella bizzarra galleria di personaggi surreali. «Facevamo una fatica bestiale a rendere razionali le sue invenzioni irrazionali, come quando si inventò la telescrivente umana o Il completo, una sorta di infinita enciclopedia universale. Ma poi ridevamo fino al mal di pancia». Foggiano come l' amico Arbore (foggiano per caso a causa del trasferimento del padre, colonnello della finanza), aveva incrociato Boncompagni in Svezia, dov' era andato dopo aver preso la laurea in architettura. Un giorno si trovarono a fare da guida a Salvatore Quasimodo, arrivato per ritirare il Nobel. Lo scorrazzarono per Stoccolma, nei, musei nelle piazze più belle.Talmente noioso che, a un certo punto, il poeta sbottò: «Ma accà fimmine niente?» Renzo lo frequentò a Roma, nel periodo in cui viveva in un palazzo dove «nel sottoscala c' era Mal dei Primitives, al secondo piano Edwige Fenech e sullo stesso pianerottolo Laura Antonelli, fidanzata con Marenco». Quando partì Alto gradimento, nel 1970, Mario insieme con Giorgio Bracardi rappresentava l' irresistibile lato illogico del programma. Inventore di una folla di personaggi: il colonnello Buttiglione (come un collega del padre ai tempi di Foggia), la Sgarambona, il professor Aristogitone, il barone della medicina specializzato in brufologia Anemo Carloni, Raimundo Navarro improbabile astronauta spagnolo. E ancora autore di fantastiche poesie, esercizio assoluto dell' assurdo. Un Helzappoppin' radiofonico che, in qualche modo, Renzo utilizzò nel trasloco tv: nell' Altra domenica, con Marenco, diventato Mr Ramengo, che si esercitava nelle sue esilaranti cronache dal Palazzo, o corrispondente che «faceva il reportage ricorda Arbore - sul ritrovamento della mano mozza di Muzio Scevola nel Tevere», e a Indietro tutta con Riccardino, lo scolaretto ineffabile corteggiatore delle Coccodè. Non poteva non restare legato a quei personaggi Mario. Se ne va incompiuto, vittima e padrone del proprio talento naturale, impossibile da ingabbiare, per questo incapace di raccogliere in pieno il frutto del suo estro. «Avrebbe potuto diventare anche un grande designer - sostiene Arbore -. Ha inventato un occhiale beat e un divano con un sistema rivoluzionario a cuscini. Non ha avuto il tributo che avrebbe meritato perché troppo indisciplinato». Ma forse, proprio per questo, è stato inimitabile con la sua forsennata collezione di «personaggi e spunti che inventava come diceva per sfregio. Ma non erano parodie, erano surreali creazioni della sua fantasia indomabile. È stato unico nel panorama mondiale, lo dico da tecnico» dice Arbore, che lo ha voluto anche nei suoi due film Il Pap' occhio e FFSS. Negli ultimi anni continuava a fare l' architetto, ma sempre con la sua mentalità. Ogni tanto, però, rispolverava il passato: «Anni fa ricorda Renzo - a un congresso vidi i medici ridere alla lacrime mentre faceva Anemo Carloni». Il professore protagonista dell' angolo scientifico di Alto gradimento che descriveva così il corpo femminile «diverso da quello maschile perché smunito di pungiglione o pennacchiotto».

Silvia Fumarola per ''la Repubblica'' il 18 marzo 2019. Renzo Arbore alterna pianto e grandi risate: «Conoscevo Mario da una vita, sessant' anni di amicizia. Da Foggia a Napoli, il padre era colonnello della Guardia di Finanza, per questo si era inventato il colonnello Buttiglione. Era un umorista geniale. Facevamo scherzi assurdi, aveva fatto diventare pazzo anche Fellini».

Andiamo con ordine.

« Era troppo modesto. Oggi bisogna vendersi e Mario rifuggiva da tutto questo. Era un cavallo pazzo. Per me, Boncompagni e Frassica era il più grande, un vero intellettuale.

All' Altra domenica, quando si congedava con quel saluto, "Waldheim", il nome di un politico austriaco. Poi le corrispondenze matte dal Tevere, quando spiegava che era stato ritrovato il moncherino di Muzio Scevola».

Come nascevano i personaggi?

«Aveva conosciuto una fauna meravigliosa, le segretarie lombarde quando andava a proporre i suoi oggetti di design. Aveva tante fisime, l' idiosincrasia per gli autogrill, perché doveva fare un percorso obbligato per uscire.

"Purtroppo sono dovuto entrare in autogrill", mi raccontava "Ma ho fatto il giro al contrario". Molti personaggi nascevano da scherzi notturni, chiamavamo l' Osservatorio astronomico e cominciava la descrizione di un lampadario che oscillava. Quei poveretti non capivano: ma come?, dove? Poi fece uno storico provino con Fellini».

Racconti.

«Fellini lo chiamava "Marietto", gli dava appuntamento al bar Canova. Mario non si spiegava perché. Lo studiava perché lo voleva ne La città delle donne . Poi lo convocò al provino, Mario lo fece diventare pazzo. Federico mi chiamò: "Ma io che devo fare con questo?". Gli spiegai: "Devi dirgli il contrario di quello che vuoi". Mi richiamò: "Non ce la faccio a domare Marenco"».

Era creativo e svagatissimo.

«Sì, ma sfiorava la genialità. Quando gli chiedevo: "Perché lavori con noi invece di fare l' architetto?", rispondeva: "Per sfregio"».

In effetti non è facile capire come conciliasse la professione con la comicità.

«Pregiudicava i rapporti con le aziende, inventò il famoso divano fatto di soli cuscini, il Marenco, poi imitatissimo. Ma ne faceva di tutti i colori, ogni tanto dovevamo salvarlo. Nei Paesi arabi si portò l' alcol per il gusto dello scherzo. Non beveva nemmeno».

Marco Giusti per Dagospia il 17 marzo 2019. Uto. Ato. Mario Marenco se ne va. Virgola. Fu grande e fine umorista e ottimo architetto e designer. Punto. C’è chi si ricorda un divano-letto in poliuretano realizzato da Molteni, una lampada di alluminio chiamata Cynthia costruita dallo Studio Artemide, molto più recentemente due poltrone della Frau. Con lui se ne va una fitta schiera di folli personaggi che tutti noi cresciuti con “Alto Gradimento”, con la radio e la tv di Arbore e Boncompagni abbiamo molto amato. Il colonnello Buttiglione, che finì subito anche al cinema con successo interpretato da Jacques Dufilho. Il generale Damigiani. L’inviato speciale Ramengo. Aristogitone, professore di liceo con “40 anni di insegnamento, 40 anni di duro lavoro in mezzo a queste 4 mura scolastiche, in mezzo a questo 40 delinquenti”. Il Comandante Raimundo Navarro, che andò perduto nello spazio siderale. Il Professor Anemo Carlone, barone della chirurgia, “dalla diagnosi e dalla mano infelice, ma con grosse protezioni politiche”. Pasquale Zambuto, ladro dalle mani sveltissime. La Sgarambona. Paola la telefonista. La dottoressa Venzolato, di professione femminista. Raoul, il giovin signore. “Dai Mario, facci Roger che puzza e fa le puzze”. “No, no, quello dopo!” E non possiamo dimenticare l’alunno Verzo, militante del “Gruppo eversivo di spersonalizzazione ideologico-pedagogica”, totalmente inabile all’uso del condizionale. Queste le idee del gruppo: “No ai vocabolari pesanti. No alla sveglia fissa. No al permesso di andare al cesso. No ai grembiulini dei bambini dell’Angola”. Questi i fedeli compagni di Verzo nel gruppo politico: Azzone, Bizzozzero, Castrazzo, Romoli, Romani, Romanoni, Romagnoli, Romano, Romanazzi, Masturzo, l’ideologo, Mastracci, Capozzi, Caporali. In realtà Marenco, figlio di ufficiale, collega del vero colonnello Buttiglione, aveva davvero insegnato a scuola, all’Istituto Tecnico Meucci di Via Sant’Alessio. Ma era stato un disastro. Volavano le pernacchie. Dopo il ’68 se ne era andato per sempre. Grazie a Arbore e Boncompagni, insieme al grande Giorgio Bracardi, non dette solo vita alla radio a un divertente teatrino di personaggi presi dalla realtà che tutti vivevamo, raccontò l’Italia esattamente come era. Con tutta la sua carica di follia. Da lì nascono le sue poesie di “umorismo paranoide”, del tipo: “Tu 6 1 sacrafo / tu quando io ti pesto sotto il piede fai “scaraf” / e ti scarafi facendo una pappa di scarafo / se uno non è forte uomo di forte stomaco / dà di stomaco”.  O gli spettacoli come “Spettacolo dis’graziato”, i monologhi radiofonici, le apparizioni televisive a “L’altra domenica” e “Indietro tutta”. A un certo punto, era il gennaio del 1978, al massimo del successo, lo chiama Federico Fellini per fargli fare il protagonista de La città delle donne. “Fellini, affezionato ascoltatore di Alto Gradimento e L’altra domenica, ha pensato di farmi recitare in un film. Forse. Così lui ha detto. Però io una volta arrivato sul set mi sono accorto che non so assolutamente recitare. Ho sofferto molto, no, non molto, solo abbastanza, però mi pizzicava la testa. Sono lusingato ma anche pessimista. In generale. Non sul film”. Ovviamente non lo farà mai. Ma Renzo Arbore fece vedere in tv l’incontro con Fellini. E me la ricordo ancora come un’occasione mancata per entrambi. Con tutto il rispetto per Marcello Mastroianni, che poi fu il protagonista del film. Il solo maschio. Ma anche Marenco poteva vantare le sue conquiste. A cominciare da quella, da giovanissimo, di Laura Antonelli. Che tutto il mondo del cinema, per un periodo, gli invidiò. Negli ultimi anni, più per poca voglia sua, non apparì molto né in radio né in tv. Ma, grazie a Nino Frassica lo abbiamo sentito in forma nel suo “Programmone” su Radio2, sempre Nino me lo portò come opinionista fisso a Stracult qualche anno fa. E grande è l’apparizione da Fazio di un paio d’anni fa assieme a Nicola Vicidomini. Difficile da gestire, ma anche da far parlare, totalmente chiuso nel suo tipo di logica, Marenco si porta dietro un tipo di umorismo assolutamente personale che non si può etichettare in nessun modo, alla fine è più realistico che surreale, ma che solo pochi fedeli amici, come Arbore e Frassica, hanno saputo mettere in scena. Waldheim.

L'amico di sempre ricorda il "Riccardino" di Indietro Tutta, attore e umorista foggiano scomparso a 85 anni, scrive Massimo Levantaci il 18 Marzo 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Mario Marenco non c’è più e il capo-comico di tante maratone televisive e radiofoniche ha la voce incrinata dall’emozione. Renzo Arbore è a Foggia per partecipare al Medimex, la notizia lo coglie nel mezzo di un mini-tour che dovrebbe portarlo oggi anche a Napoli. «Dovrò invece tornare a Roma, devo andare a salutare Mario, certo che ci andrò».

Marenco è l’icona dei personaggi “arboriani”, con lui se ne va l'imprevedibilità e l'immaginazione di tante scorribande televisive e anche nella vita. 

«È stato innanzitutto un genio assoluto, il più grande umorista di tutti i tempi e non temo di esagerare. Vuol sapere una cosa? L'unico conforto che avrò dalla morte di Mario è che d'ora in avanti potrò parlar bene di lui senza esserne più schernito. Lui era fatto così, persino i complimenti lo lasciavano indifferente».

Due foggiani che si sono incontrati lontano da Foggia. Ci spiega come andò?

«Mario era nato a Foggia da un colonnello della Guardia di Finanza che in quel periodo era in servizio in Puglia. Lui poi ha trascorso la sua infanzia e studiato a Napoli, noi ci siamo incontrati a Roma. È stato da subito un personaggio originale, sia come umorista che come architetto e designer. Un tipo così è difficilmente catalogabile».

Secondo lei qual è il personaggio più riuscito della sua lunga galleria?

«Ne ha fatti tanti, come faccio adesso... Voglio ricordare un aneddoto: lui è stato anche a Bari, amava moltissimo questa città. Ricordo che faceva Radio Bari e raccontava di Re Clodoveo: si fermò, guardò e disse Oh.... (risata). Mario era fatto così, aveva una personalità inconsueta. Ma Bari è una delle città che più ha amato e che si è portato dentro».

Il professor Aristogitone in “Alto gradimento” aveva un vago accento pugliese.

«Aveva tanti amici pugliesi, ma era geniale nelle sue invenzioni. Non si poteva imbrigliare un personaggio così, lui era un purosangue assoluto. Doveva fare quello che gli suggeriva l’istinto».

I più giovani ricorderanno Riccardino di «Indietro tutta», come nacque l’idea di fargli interpretare un bambino discolo?

«Lui era un fuorilegge, non aveva maestri, andava per i suoi territori. Riccardino è uno di questi personaggi, ma è tutta la sua carriera costellata di queste scorribande».

Lei, Boncompagni e Marenco: che rapporto c'era oltre le telecamere e i microfoni della radio?

«Con Boncompagni, Mario ha avuto una lunga frequentazione in Svezia. Ma io citerei un’altra persona».

Prego.

«Laura Antonelli, la sua prima fidanzata. Bellissima e straordinaria. Sono stati anni fantastici, Mario aveva sempre quell'aria trasognata e del grande umorista. Ciao amico mio».

Marenco, il suo poetico non-sense. Ma oggi in pochi lo capirebbero. Ritratto di un artista che appartiene a un’altra epoca: dalla poesia alla tv e il suo impegno civile come quando si iscrisse al Partito Radicale, scrive Valter Vecellio il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio.  La casa è un sontuoso palazzo al centro di Roma, lei è ancora dotata di abbagliante bellezza; nessuno immagina quel che poi sarebbe accaduto. Sì: Laura Antonelli è ancora il mito erotico di Malizia di Salvatore Samperi. Il direttore vuole un’intervista ampia, da pubblicare in due paginoni; e lei deve parlare di tutto, non solo dei film fatti, o in progetto. Diligente accetta di parlare per un paio d’ore, confida i suoi pudori a guardarsi allo specchio, divorata dai complessi: la fronte troppo ampia, le gambe, figurarsi!, “corte”, i capelli che se vanno dove pare a loro… E quel Samperi che impone al truccatore di imbruttirla: «Devi essere un piccolo animale, sei solo una serva, non una signora affascinante e di classe…».

C’è poi il capitolo dei suoi amori; racconta di quando, giovanissima, adolescente quasi, venuta a Roma a insegnare ginnastica al liceo artistico di via Ripetta, si invaghisce di Mario Marenco, che studia architettura, conquistata dalle poesie che scrive per lei… Le ha conservate? Scuote la testa. Dice di averne vaghissimo ricordo. Chissà se Marenco era già allora lo strampalato inviato de L’altra domenica: quello che urla a pieni polmoni “Carmine”, dopo ogni servizio; chissà se già scrive testi surreali come quando lavora con Cochi e Renato ed Enzo Jannacci; se già è l’alter ego di quel professor Aristogitone che poi conosciamo in Sotto le stelle, o il bambino Riccardino diIndietro tutta!. Tutti lo ricordiamo, stralunato in quel rivoluzionario programma che a rivederlo ora fa un po’ tenerezza: Quelli della notte, con quella banda di vitelloni capitanati da Renzo Arbore: Nino Frassica, Maurizio Ferrini, Andy Luotto, Riccardo Pazzaglia, Marisa Laurito, Simona Marchini, Roberto D’Agostino, Giorgio Bracardi, Massimo Catalano… Davvero in quegli anni si rideva così, e in quel modo, per quelle battute? Certo: erano altri tempi, più raffinati e insieme meno smaliziati, più sognanti, forse; ingenui. Gli anni che passano, accade sempre così, rendono più dolce il ricordo. Però, per tornare a Marenco, trovarli, ora i suoi libri: Lo scarafo nella brodazza, Los putanados, Stupefax, Il cuaderno delle poesie… Però giova anche ricordare che in quei giorni il surreale viene spesso surclassato da un reale ancor più surreale: per esempio quando Marenco si inventa il personaggio del colonnello Buttiglione; ecco che ne spunta uno vero, zio del più noto Rocco. Non gradisce, fa intervenire il Ministero della Difesa: il colonnello Buttiglione viene promosso generale Damigiani…C’è poi un Marenco meno conosciuto; il Marenco con una “corda” diversa da quella che lo ha reso famoso; più “intima”, ma che può aiutare a capire il personaggio. Il Marenco scanzonatamente impegnato e sensibile a quei diritti che s’usano definire “civili”. È il Marenco che accetta di mettersi in tasca, per un anno, una tessera che non diresti: quella radicale. Lo fa perché Marco Pannella nel 1987 lancia uno slogan: “O lo scegli o lo sciogli”; chiede che almeno diecimila donne e uomini si iscrivano: per dimostrare così, nel concreto, che vogliono che il Partito Radicale continui a vivere. Marenco, come tanti decide di far parte di quei diecimila. Per il settimanale “Il Mondo” dell’ 8 gennaio 1981 scrive un articolo surreale come il suo autore: «Nel villaggio di Roma il Vaticano fa intendere di sanzionare duramente gli avalli all’aborto. Marco Pannella finge di raccogliere la sfida e di difendere col petto nudo ma glabro quanto finora è riuscito a rosicchiare…». Il suo amico Renzo Arbore dice che Marenco è «il numero uno dell’umorismo italiano di tutti i tempi, un fuoriclasse. Con le sue parodie ha fatto delle invenzioni straordinarie». Probabilmente ha ragione. Però è pur vero che per capire Marenco bisogna aver vissuto una certa stagione, essere figlio di un certo periodo e ambiente. «Stagioni – le definisce Arbore – di risate impagabili. Quando c’era lui uscivano fuori cose stupende».

Chissà. Forse quelle risate impagabili di cui Arbore parla, hanno fatto il loro tempo; altre sono ora le stagioni che tocca vivere, implacabili nella loro durezza, spietate perfino. Lo si ricorderà e rimpiangerà, Marenco; ma dubito che a rivederne vecchi spezzoni, i Millenians lo comprendano come si dovrebbe. Forse, con un ultimo non sense, Marenco è uscito al momento giusto; e combinato l’ennesimo, e definitivo, “scherzo”.

«Il colonnello Buttiglione, cioè mio zio: allora i comici facevano i comici…», scrive Giulia Merlo il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio.

Intervista a Rocco Buttiglione: «allora la satira era satira e si sapeva che non andava presa troppo sul serio. Poi si sono mescolati giornalismo, satira e politica e allora i buffoni hanno iniziato a fare i politici e viceversa».

«Pronto, è il colonnello Buttiglione?». La tentazione di esordire così l’intervista telefonica c’era tutta. Invece, il professor Rocco Buttiglione – nipote di quello che, si dice, fu il modello per il personaggio radiofonico di Mario Marenco in Alto gradimento– anticipa lo scherzo, chiamando lui, prima dell’orario di appuntamento per l’intervista.

Come arrivò il personaggio di Marenco a venire battezzato col suo cognome?

«Le racconto l’aneddoto per come lo hanno raccontato a me. Il padre di Marenco era un ufficiale della Guardia di Finanza e, a quei tempi, mio zio Giovanni era generale. Marenco, probabilmente, aveva sentito dal padre qualche barzelletta o battuta sul superiore, come si usa in tutti gli ambienti e soprattutto in quelli militari. Così è nato il personaggio».

Quante volte avrà subito battute sul colonnello Buttiglione…

«Parecchie. Per questo ricordo che andai da mio zio, per chiedergli come reagire. Gli dissi: «Mi devo arrabbiare secondo te?», lui mi rispose di no, che anzi dovevo ridere. E da allora ne ho sempre riso volentieri».

Nessun suo collega o avversario politico l’ha mai usata, in Parlamento?

«No, in politica non è mai successo. Però in un’occasione Renzo Arbore o forse proprio lo stesso Mario Marenco mi chiamarono, per chiedermi se ero offeso e se volevo che la smettessero col personaggio, perché mi stava creando qualche danno. Dissi loro che per carità, non smettessero certo per me. “Se non ci fosse libertà di satira, chissà dove finiremmo”, risposi».

Nemmeno suo zio, davvero, non se la prese mai?

«No davvero. Un po’ perché mio zio aveva un grande rispetto del diritto di satira, un po’ perché era amico del padre di Marenco. Mi pare lo abbiano chiesto anche a lui e lui assicurò che non se l’era certo presa a male».

Il personaggio somigliava davvero a suo zio?

«No, come carattere non gli somigliava molto, ma come figura fisica forse un poco sì».

Il colonnello Buttiglione rappresentava la caricatura del mondo militare…

«Per come lo ricordo io, il personaggio voleva essere una critica satirica al non senso del sistema burocratico, della sua pignoleria che finisce per contraddire le esigenze. Le racconto una battuta che si sentiva spesso quando feci io il militare: cosa ci stanno a fare le sentinelle davanti all’ingresso della caserma? Per impedire che possa entrare il buonsenso. Ecco, secondo me questo era il carattere del personaggio, e le confermo molti aspetti presi di mira della mentalità militare erano veri».

Come mai la satira sullo stile di Marenco è andata scomparendo dai palinsesti radiofonici e televisivi?

«La satira di allora era una specie di racconto sociale ma, soprattutto, all’epoca esisteva una chiara distinzione tra i generi. Insomma, si sapeva che la satira era satira e non andava presa troppo sul serio».

Oggi invece?

«Poi, piano piano, la satira ha iniziato ad avere la pretesa di sostituire il giornalismo. Si sono mescolati giornalismo, satira e politica, e allora i buffoni hanno iniziato a fare i politici e i politici a fare i buffoni.

O forse è cambiato anche l’umorismo?

«A me sembra che la commistione dei generi che le dicevo prima abbia fatto sì che l’insulto abbia sostituito la presa in giro. Vede, la presa in giro contiene sempre un elemento di benevolenza: si prende in giro un aspetto della persona che è oggetto di satira ma se ne rispetta l’umanità. Proprio questo rispetto, poi, è venuto meno».

Oggi, però, complici anche i programmi televisivi che riaprono le vecchie teche Rai, la comicità come quella di Marenco sta un po’ tornando, o quantomeno viene scoperta da chi non era ancora nato quando i programmi andavano in onda.

«Guardi, io spero proprio che accada. Anche perché mi pare che il pubblico sia un poco saturo di questa volgarità dominante e abbia il desiderio di un ritorno a un intrattenimento più leggero e umano».

I politici di oggi la accetterebbero di buon grado, se diventassero loro i nuovi “colonnelli Buttiglione?”

«Chi lo sa, è difficile dirlo… Dipende, ci sono tanti tipi di politici».

·         E' morto Pino Caruso.

E' morto Pino Caruso, maschera siciliana e volto tv degli anni Settanta. Pioniere della comicità palermitana assieme a Franchi e Ingrassia e Lando Buzzanca, recitò al Bagaglino e fu protagonista di programmi Rai, scrivono Mario Di Caro e Marta Occhipinti l'8 marzo 2019 su La Repubblica. Pino Caruso è morto ieri pomeriggio a 84 anni nella sua casa nei pressi Roma. Stava male da un po' di tempo, dice la moglie, "ma se ne è andato sereno". I funerali si svolgeranno domani. Maschera siciliana di una comicità mai volgare, Pino Caruso fu un alfiere della palermitanità in televisione e al cinema assieme a Franchi e Ingrassia e Lando Buzzanca. Negli anni Sessanta approdò in quella fucina di comicità che era il Bagaglino di Roma e negli anni Settanta diventa un volto della televisione, Rai ovviamente: nel 1979 al fianco di Ornella Vanoni con "Due di noi" poi nell'81 con Milva in "Palcoscenico", regia di Antonello Falqui e l'anno dopo, 1982, fu il mattatore di "Che si beve stasera?", su RaiDue. Alla sua Palermo ci teneva eccome: fu direttore del Festino della svolta, quello del 1995 che diede il via alle edizioni kolossal della festa di Santa Rosalia, e delle prime due edizioni di Palermo di scena, autentico festival dell'estate che rilanciò la città dopo la stagione del piombo mafioso portando negli spazi più belli personaggi del calibro di Sakamoto, Carmelo Bene, Dario Fo e molti altri. E proprio a Palermo, al teatro Biondo, è legata la sua ultima apparizione teatrale, "Non si sa come" di Pirandello, di cui curò anche la regia. Negli ultimi anni si era dedicato alla scrittura, pubblicando una miniera di aforismi e, tra gli altri, la raccolta "Il venditore di racconti". Lando Buzzanca, che con lui lavorò tra cinema e teatro, ricorda così Pino Caruso. “Stavamo bene insieme ma era da un anno che non lo vedevo – dice Buzzanca – avevo capito che stava poco bene dal suo rientro a Palermo.  Era un attore straordinario e amato da tutti. Sono addolorato da questa notizia, eravamo coetanei e mi sento molto vicino alla famiglia”.  "E' stato un attore autodidatta, come ricordava sempre – dice l’attore Lollo Franco – ricordo quando ci ritrovammo in camerino insieme dopo un suo spettacolo: c’era un clima gioioso. Forse avrebbe meritato ancora più notorietà rispetto a tutto quello che ha fatto”. C’è anche chi lo stimava come collega, pur non avendo mai avuto occasione di lavorare con lui. “Lo vidi per caso tanti anni fa e mi complimentai con affetto per il suo lavoro – ricorda Neri Marcoré – mi piaceva molto perché era garbato e con uno stile personale che aveva soltanto lui. In questo ultimo periodo mi è dispiaciuto non vederlo più in televisione. A ricordare l’attore anche il sindaco Leoluca Orlando. "Palermo perde un concittadino straordinario, un uomo, un artista che ha contribuito alla rinascita della città, con la sua cultura, la sua ironia, la sua sagacia. Proprio negli anni della rinascita, dopo le terribili stragi del '92, contribuì con la sua forza e le sue idee a dare speranza ai palermitani e alla città: sue furono grandi intuizioni che sono rimaste nella tradizione culturale della città, come quella di un Festino che divenisse anche momento di spettacolo e gioia, oltre che di riflessione e fede. Lascia in tutti noi un grande dolore, ma certamente anche l'orgoglio di averlo conosciuto e di aver condiviso un pezzo importante della nostra strada". Anche sui social, il pubblico dei fan ricorda l'attore. Tra i primi tweet, Stefania Petyx, “Mi mancheranno le nostre chiacchierate e la tua ironia. Mi mancheranno i tuoi consigli e il tuo affetto. Riposa in pace Pino”. "La scomparsa di Pino Caruso rappresenta un grave lutto per la Sicilia e per il mondo della cultura italiano. La sua comicità è stata al tempo stesso denuncia sociale implacabile, senza cortigianeria e senza sconti a nessuno". Lo dichiara, in una nota, il presidente della Regione Nello Musumeci, per la morte dell’artista siciliano. "Caruso - continua - ha saputo interpretare il sentimento a volte ambiguo e contraddittorio che ispira la quotidianità del siciliano. A nome personale, del governo regionale e dell’intera comunità siciliana esprimo il più sincero cordoglio".

Morto Pino Caruso, il ricordo di Pippo Baudo: "Un talento che avrebbe meritato di più". Suo amico da sempre, il conduttore ricorda il comico: "Era un uomo elegante, con la sua ironia non calcava mai la mano", scrive Silvia Fumarola l'8 marzo 2019 su La Repubblica. Amico di Pino Caruso da una vita, Pippo Baudo lo dice subito: "Pino non ha avuto quello che meritava. Ma era una persona discreta, mai volgare. In questo ambiente non paga".

Baudo, come ricorda Caruso?

"Come un artista che ha fatto un bellissimo percorso. È partito con la comicità dialettale a Che domenica amici, c’erano tutti quelli che sarebbero diventati i grandi comici. Lui proponeva storielle siciliane che gli raccontava un amico accadute a Palermo. Aveva portato la nostra lingua in televisione".

Aveva debuttato a Roma al Bagalino.

"Sì e poi è stato protagonista dei grandi varietà, ha fatto one man show, è stato diverse volte mio ospite, ha lavorato con Michele Guardì. Poi ci fu la trasformazione".

In che senso?

"Pino non aveva titolo di studio. Se non ricordo male credo che fosse arrivato al massimo alla terza media. Ma era curioso, intelligente. E si mise a studiare da autodidatta. Si è formato da solo, aveva una grande voglia di sapere. Leggeva tanto, s’informava. Ha scritto anche libri e commedie, e scriveva benissimo. Negli anni si era trasformato in un intellettuale".

Ha portato in televisione una comicità senza schiamazzi.

"Era partito dal teatro dialettale, ma la sua comicità non è mai stata volgare, non scadeva mai. Usava un’ironia intelligente, era un uomo elegante. Mai uno scandalo, quindi poco di moda, visti i tempi". 

Lo avrebbe visto in altri ruoli?

"Ma certo. Avrebbe potuto fare tante altre cose, era un artista sensibile. Era anche scrittore di gialli: me ne aveva mandato uno. E mi aveva stupito, la trama era perfetta: era un autore sorprendente".

Marco Giusti per Dagospia il 9 marzo 2019. Comico di punta della tv, del cabaret e del teatro degli anni ’70, Pino Caruso, che se ne è andato a 85 anni, avrebbe potuto ottenere maggiore fortuna e anche maggiore considerazione sia dal cinema che dalla tv. Soprattutto dal cinema, che iniziò a frequentare sin da giovane attore al doppiaggio, iniziando addirittura con Salvatore Giuliano e Il gattopardo, e dando poi voce, lui palermitano, perfino a corregionali siciliani come il catanese Aldo Puglisi, La ragazza con la pistola, e il messinese Tano Cimarosa, Per grazia ricevuta. Ma, da virtuoso della parola, poteva dare voce davvero a chiunque. Arrivato al successo a Roma grazie a Castellacci e Pingitore e ai suoi monologhi al Bagaglino, Pino Caruso si ritrova presto a dover scegliere fra tv e cinema. Ma se in tv bastava riproporre i suoi monologhi, al cinema la cosa si faceva più complessa. Dopo qualche piccolo ruolo alla fine degli anni ’60, da La coppia più bella del mondo di Camillo Mastrocinque a Gli infermieri della mutua di Giuseppe Orlandini, o in coproduzioni italo-francesi come La mano di Henri Gleaser e Un elmetto pieno di… fifa, arriva finalmente al primo film da protagonista nel 1970, Quella piccola differenza, diretto da un maestro del cinema di genere come Duccio Tessari. Ma film e esperienza saranno un disastro. “E’ il film più brutto che sia mai stato girato”, dichiarerà a più riprese Pino Caruso, “Mi vergogno di averlo fatto e la responsabilità è soltanto mia. Se potessi acquisterei la matrice della pellicola e la brucerei”. La storia di questo disastro annunciato è complessa. Il film era stato pensato, col titolo Può capitare anche a te, da Sergio Corbucci per Enrico Montesano, allora star del Bagaglino assieme a Caruso, come protagonista. Quando Dino De Laurentiis opziona Montesano, allora noto in tv come N’apocalisse, per fargli fare una serie di film in coppia con Alighiero Noschese, Corbucci pensa a Pino Caruso. Ma presto esce dal film e entra Duccio Tessari come regista. Ma il problema non è il regista. E neanche il protagonista. E’ la storia del film. Addirittura un cambio di sesso. Non voluto, inoltre. Quindi un personaggio di maschio italiano medio, neanche gay, che diventa misteriosamente una donna. Poteva funzionare nel 1970? Mah… Diciamo che era troppo avanti… “Ho deciso di realizzare un film anti sexy,” disse allora Tessari, “contro, cioè, un certo tipo di gallismo e di prevaricazione maschile nei confronti del sesso opposto”. E Caruso: “E’ assurdo, disumano, cretino che un uomo viva tutta la sua vita pensando solo ed esclusivamente al sesso”. Nel pieno del gallismo italiano cinematografico buzzanchiano, ci si lancia quindi in una commedia controcorrente. Commedia, inoltre. Leggi: da ridere. Per la prima del film il celebre ufficio stampa Mario Natale organizza una gran festa al Bagaglino di Roma dove si esibiscono, assieme a Caruso anche Lino Banfi e Pippo Franco. Il film è visto come esordio del cabaret nel cinema. E Pino Caruso è davvero lanciato. Al punto che si parla di lui come protagonista di Paolo il caldo, da girare subito dopo questo Quella piccola differenza. Ma non solo il film è un disastro come incassi, imbarazza pure fortemente il pubblico. Nel ricordo di allora, ricordo una prima assolutamente defilata dalle prime visioni, con pochissimi spettatori perplessi in sala. Non si rideva mai e non si capiva neanche il senso del film con questo assurdo e non voluto cambio di sesso. Pino Caruso ne usciva a pezzi. Per questo, credo, volesse bruciare il negativo. Si riprese un po’, ma da caratterista siciliano, cosa che forse avrebbe voluto evitare, grazie al successo di Malizia di Salvatore Samperi a fianco di Turi Ferro e Laura Antonelli, dove aveva il ruolo del prete, Don Cirillo. E così lo ritroviamo subito dopo nel simile La seduzione di Fernando Di Leo con Lisa Gastoni e, ancora con Turi Ferro lo troviamo ne La governante di Gianni Grimaldi, versione cinematografica, molto manomessa di un testo di Vitialiano Brancati che era decisamente drammatico. Cambiando il finale e altre cose, Grimaldi ne aveva fatto una commedia erotica secondo i modelli del tempo. Forte del successo televisivo e della nascita dei nuovi filoni legati alla Sicilia, si presenta all’inizio del 1975 con un nuovo film da protagonista che gli hanno scritto proprio Castellacci e Pingitore. E’ L’ammazzattina, mafia-movie comico diretto da Ignazio Dolce. «Sì, è il mio primo film da protagonista”, dirà presentando il film alla stampa. “In realtà ne ho girati altri due che preferisco dimenticare. L'ammazzatina invece me lo sento addosso. Il film, che è un giallo grottesco, diventa una specie di giostra di omicidi, specchio dei nostri tempi in cui c'è una vera inflazione di morti ammazzati. Questa carneficina spiega il titolo: in palermitano "ammazzatina" significa strage, è un vezzeggiativo che non si usa per meno di dieci morti”. In realtà, non funzionerà nemmeno L’ammazzatina, e Pino Caruso tornerà a interpretare ruoli da caratterista nelle commedie del tempo. Ovviamente da caratterista siciliano. Si va da Il belpaese con Paolo Villaggio, Il marito in collegio con Enrico Montesano, Il ficcanaso con Pippo Franco. Alla fine degli anni ’70 è protagonista e addirittura regista di un episodio di Ride bene… chi ride ultimo. Nell’episodio, dal titolo “Sedotto e violentato”, Pino Caruso è violentato da ben tre ragazze. Lo troviamo poi in Gegé Bellavita di Pasquale Festa Campanile con Flavio Bucci, dove interpreta un duca sposato con la provocante e non fedelissima Marina Frajese. Nel 1985 ritorna alla regia per un film televisivo che non ha lascia, purtroppo, lasciato grande traccia di sé, Lei è colpevole, si fidi, dove recitano molti amici, da Enrico Montesano a Renzo Arbore, da Gigi Proietti a Luciano Salce, da Tuccio Musumeci a Nanni Loy. Negli anni si è perso un po’ nella fiction, ha fatto molto teatro, prima di essere recuperato con vero amore da Ficarra e Picone in La matassa. Sono i due palermitani a indicarlo come grande maestro di comicità e come illustre palermitano fuori dalle regole.

Cinema: morto attore palermitano, Pino Caruso. E' scomparso a Roma, aveva 84 anni, domani i funerali, scrive Venerdì, 8 marzo 2019 Affari italiani. L'attore siciliano Pino Caruso è' morto oggi a Roma a 84 anni. La notizia della scomparsa dell'attore è stata data dal sito del 'Giornale di Sicilia'. Malato da tempo, Caruso era uno degli attori siciliani più noti in televisione e al cinema assieme a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e Lando Buzzanca e uno dei simboli di Palermo. I funerali si svolgeranno domani a Roma. "Ciao Pino. Lasci in tutti noi un grande dolore, ma certamente anche l'orgoglio di averti conosciuto e di aver condiviso un pezzo importante della nostra strada. Palermo perde un concittadino straordinario, un uomo, un artista che ha contribuito alla rinascita della città, con la sua cultura, la sua ironia, la sua sagacia". Così su Facebook il sindaco Leoluca Orlando ha reso omaggio a Pino Caruso, morto a Roma a 84 anni.

Pino Caruso, con lui la lingua siciliana entrò in tv. Palermitano doc, rappresentante di una comicità mai volgare e trascinante, Pino Caruso portò al cinema e in tv la sua sicilianità che caratterizzò un'epoca insieme a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e a Lando Buzzanca. A metà degli anni Sessanta approdò al Bagaglino di Roma, diventando poi, negli anni Settanta, un volto della televisione: nel 1979 al fianco di Ornella Vanoni con 'Due di noi' poi nell'81 con Milva in 'Palcoscenico', storica trasmissione di Antonello Falqui e nel 1982 dopo il mattatore di "Che si beve stasera?" su Rai 2. Nato a Palermo il 12 ottobre 1934, ha debuttato nel mondo dello spettacolo al Piccolo Teatro di Palermo il 16 marzo 1957 con un breve ruolo in “Il giuoco delle parti” di Luigi Pirandello. Un anno dopo, per il Teatro Massimo di Palermo, interpreta un ruolo recitante ne “Il flauto magico” di Wolfgang Amadeus Mozart. Nel 1963 è scritturato dal Teatro Stabile di Catania. Nel 1965 si trasferisce a Roma e passa al cabaret, al Bagaglino. Il debutto in Rai avviene nel 1968 quando viene scritturato per la trasmissione di varietà “Che domenica amici”. Poi una slunga serie di partecipazioni in trasmissioni di culto in cui Pino Caruso recita in siciliano ed è tra i primi a legittimare la lingua isolana nella televisione italiana. Negli anni '70 e '80 tante partecipazioni a trasmissioni Rai di culto e ancora impegno in teatro. Dal 1995 al 1997, su nomina del sindaco Leoluca Orlando, Caruso progetta e dirige Palermo di scena, manifestazione d'arte e spettacoli. In tale occasione rinnova il tradizionale Festino, che dà il via alle edizioni kolossal della festa di Santa Rosalia, e delle prime due edizioni di Palermo di scena, autentico festival dell'estate che rilancia la città dopo la stagione del piombo mafioso portando negli spazi più belli personaggi del calibro di Sakamoto, Carmelo Bene, Dario Fo e molti altri. Nel 2001, il commissario straordinario Ettore Serio richiama Caruso a ripeterne l'esperienza. A partire dal 2002 è tra i protagonisti della fiction 'Carabinieri' Canale 5 per due stagioni, interpretando il maresciallo Giuseppe Capello, uscendo di scena andando poi in pensione. Nel 2003 è protagonista del 'Tutto per bene' di Luigi Pirandello e nel 2004 de Le Vespe di Aristofane, al Teatro Greco di Siracusa. Interpreta inoltre il mafioso nel film tv “L'onore e il rispetto”' di Salvatore Samperi; il prete nel film “La matassa” di Ficarra e Picone e Giambattista Avellino. Nel 2009 interpreta il monologo “La voce dei vinti” e, per il Teatro Stabile di Palermo, con la coproduzione del Teatro Stabile di Catania, interpreta, curandone anche la regia, il monologo spettacolo “Mi chiamo Antonio Calderone”, di Dacia Maraini, tratto dal libro di Pino Arlacchi “Gli uomini del disonore”. Nel 2010 Pino Caruso è il protagonista de “Il berretto a sonagli” (regia G. Dipasquale) ottenendo grande successo di pubblico e di critica. Grande uomo di teatro, popolarissimo per le sue incursioni televisive, Caruso ha lavorato molto anche nel cinema dove, oltre ad aver diretto un film nel 1976 (“Sedotto e violentato, episodio di Ride bene... chi ride ultimo”), ha recitato in film importanti come “Malizia” di Salvatore Samperi (1973), “La donna della domenica” di Luigi Comencini (1975), “Dimmi che fai tutto per me” di Pasquale Festa Campanile (1976), “Il... Belpaese” di Luciano Salce (1977), “Il ficcanaso” di Bruno Corbucci (1981), “Scugnizzi” di Nanni Loy (1989), “Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio” di Ciprì' e Maresco (2004), “La matassa” di Ficarra e Picone e Giambattista Avellino (2009) e “Abbraccialo per me” di Vittorio Sindoni (2016).

·         È morto Keith Flint.

È morto Keith Flint, il cantante dei Prodigy. Volto punk dell'elettronica. Aveva 49 anni. Il produttore e leader della band Liam Howlett: "Scioccato e arrabbiato che si sia ucciso". Con stile provocatorio è stato il volto dell'elettronica anni Novanta, scrive Ernesto Assante il 4 marzo 2019 su La Repubblica. Se c'è un volto, un'immagine che incarna alla perfezione gli anni Novanta in Inghilterra, quel misto di punk, psichedelia, techno, dance e i resti della ribellione giovanile della rave generation, è certamente quello di Keith Flint, cantante e ballerino dei Prodigy, trovato morto questa mattina nella sua abitazione nell'Essex. Sul profilo Instagram del gruppo Liam Howlett scrive: "La notizia è vera. Non ci credo ma devo dirvi che nostro fratello Keith si è ucciso nel weekend. Sono scioccato, arrabbiato, confuso e col cuore spezzato". La sua scomparsa, a soli 49 anni, sembra essere il sigillo su un’epoca musicalmente rivoluzionaria e travolgente, quella che ha portato una generazione di nuovi "non musicisti" a dominare le scene inglesi e internazionali, con una musica che era carica di elettronica e tensione. I Prodigy, come i Chemical Brothers, hanno contribuito, alla trasformazione della dance elettronica in un suono da grandi arene, hanno fatto del loro “big beat” un genere (con la complicità non indifferente di Fat Boy Slim), e per poco meno di un decennio hanno suonato musica esplosiva e innovativa, il “rock” di una nuova generazione. Flint era di Braintree, Essex, come gli altri fondatori della band, in particolare Liam Howlett e Leroy Thornhill con i quali mette in piedi la ditta alla fine degli anni Ottanta. È alla metà degli anni Novanta che Flint, dopo aver fatto da “ballerino” per la band, prende il ruolo di frontman, quando canta Firestarter, quello che accende il fuoco, con un look a metà tra il punk e l’horror, totalmente in controtendenza con l’avvento e il dominio delle classifiche da parte delle boy band di bei ragazzi educati, e delle formazioni del britpop. I Prodigy sono una band diversa dalle altre, così come i Chemical Brothers, non hanno una struttura classica e nemmeno dei ruoli assolutamente definiti, Flint è il "poster boy", l’immagine più forte e pubblica, ma non è il leader o l'unico frontman, è un divo di specie diversa, quindi, più adatto alla nuova era dei dj che non a quella delle rockstar. Il suo impatto in scena era, comunque, devastante, potente, molto personale, e la sua presenza, oltre che la sua voce, contribuisce moltissimo al successo della formazione inglese nei tre dischi più famosi, Experience del 1992 e soprattutto i due capolavori del gruppo, Music for the jilted generation del 1994 e The fat of the land del 1996.

È morto Keith Flint, volto e voce dei Prodigy, scrive Gabriele Antonucci il 4 marzo 2019 su Panorama. La band ha continuato per tutti gli anni duemila a produrre musica interessante e soprattutto grandi show, sostenuti dalla notevole presenza scenica di Keith Flint, dal suo modo di cantare adatto a coniugare punk, dance e elettronica, dalla sua travolgente energia. L’ultimo album del gruppo, No tourist, che vedeva anche un brano scritto da Flint, Champions of London, era uscito nello scorso novembre e la formazione si apprestava a iniziare un nuovo tour a maggio, tour che è facile immaginare verrà per il momento sospeso. Il mondo della musica è sotto choc per l'improvvisa scomparsa di Keith Flint, frontman dei Prodigy, che si è suicidato a 49 anni nella sua casa di Dunmow, nell’Essex (Inghilterra). Il profilo Instagram della band britannica, gestito da Liam Howlett, ha confermato la notizia del suicidio: "La notizia è vera, non posso credere che lo sto dicendo ma nostro fratello Keith si è tolto la vita nel weekend. Sono scioccato, incazzato, confuso e con il cuore spezzato". La polizia ha diffuso un comunicato in cui dice di aver risposto a una segnalazione per «le condizioni di salute» di Flint alle 8.10 di lunedì mattina, spiegando che al momento la morte «non è trattata come sospetta». Sul profilo Twitter il gruppo ha lasciato un messaggio di cordoglio: "È con profondo shock e tristezza che confermiamo la morte del nostro fratello e migliore amico Keith Flint. Un vero pioniere, un innovatore e una leggenda. Ci mancherà per sempre. Vi ringraziamo per il rispetto della privacy di tutti gli interessati in questo momento". Il gruppo inglese ha lasciato un’impronta indelebile nella musica degli anni Novanta, trovando una sorprendente sintesi tra punk ed elettronica, due generi solo apparentemente agli antipodi, che ha dato vita al cosiddetto big beat. I Prodigy hanno sdoganato e reso commercialmente appetibile la musica dei rave, quegli enormi capannoni dove si ritrovano illegalmente a ballare migliaia di giovani, fino a portarla ai piani alti delle classifiche internazionali senza perdere un briciolo della sua potenza di fuoco. Il frontman Keith Flint, con la sua cresta bionda asimmetrica, lo sguardo spiritato, il trucco pesante, tatuaggi e piercing su tutto il corpo, ha incarnato perfettamente l’immagine inquietante e trasgressiva dei Prodigy. Mentre Filnt e il rapper Maxim rappresentavano il corpo, la testa del trio, artefice delle sinistre alchimie elettroniche, è il dj Liam Howleet, dispensatore di beat implacabili. Se oggi i gruppi si formano spesso a tavolino per mano di scaltri produttori o sotto le luci dei talent show televisivi, i tre artisti si sono conosciuti proprio durante un rave. Nonostante le atmosfere lisergiche della serata, si è fatta strada l’idea di formare un gruppo di dj, musicisti e ballerini per animare questo tipo di feste. Il nome della band deriva da un sintetizzatore della famiglia Moog, chiamato per l'appunto Prodigy, che Howlett utilizzava per comporre i suoi brani. Nel 1991, in piena epoca acid house, viene pubblicato l’album di esordio What evil lurks, trascinato dall’accattivante singolo Charly, un travolgente drum & bass in cui viene campionato un annuncio del servizio di informazione pubblica inglese per bambini. Il disco successivo The Prodigy experience sottolinea ancora più le influenze giamaicane della loro musica, con un uso massiccio di basi drum & bass, ottenute da campionamenti reggae velocizzati, e dall’uso della voce di Lee «Scratch» Perry, storico produttore di Bob Marley. Nel terzo lp Music for the Jilted generation, da cui viene estratto il trascinante singolo No good (Start the dance), si intravedono i segni di una nuova direzione musicale, più aperta al rock. Il 1996 è l’anno della consacrazione mondiale con The fat of the Land, anticipato dal successo di Firestarter, brano al centro di numerose polemiche per l’esplicito riferimento alla piromania. Stesso destino tocca al secondo singolo Smack my bitch up, il cui video fu censurato in Inghilterra perché istigava alla violenza verso le donne, accusa respinta con decisione dai Prodigy. E’ il momento di massima popolarità dei Prodigy, che sono al primo posto in classifica in 22 paesi. Seguono, poi, alcuni anni di lontananza dalle scene, e due album, Always outnumbered, never outgunned del 2004 e Invaders must die del 2009, non particolarmente ispirati. Nel 2017 il grande ritorno con un album prodotto con Skrillex e nello stesso anno le loro vendite discografiche totali hanno raggiunto i 23 milioni di copie. Dopo essere stati headliner in festival come Lollapalooza, Air + Style, Download Festival e Pinkpop, i Prodigy si sono esibiti la scorsa estate sul palco dell’Home Festival di Treviso. Nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata la loro ultima esibizione in Italia. 

Keith Flint, il cantante dei Prodigy, si è impiccato. Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Corriere.it. Il suo socio di sempre, Liam Howlett, l’aveva detto a chiare lettere, ma la polizia britannica non aveva confermato. Ora sì. Keith Flint, cantante dei Prodigy, andatosene una settimana fa, si è suicidato per «impiccagione»: è questa la conclusione degli investigatore sulla base degli accertamenti preliminari di medicina legale rispetto alle cause della morte di Flint. Il medico legale incaricato del caso, Caroline Beasley-Murray, si è riservata comunque di presentare un rapporto aggiornato il 23 luglio prossimo. Al momento non sono ancora noti del resto gli esiti dell’esame tossicologico disposto sul corpo della vittima per identificare eventuali tracce di droga o di abuso di farmaci e alcol. Flint aveva avuto problemi di tossicopendenza in gioventù, per le droghe artificiali e poi negli anni 2000 con gli psicofarmaci, quando la sua carriera artistica era andata scemando. Ma da 13 anni aveva giurato di aver smesso con tutto. Cosa è successo allora?

Keith Flint dei Prodigy, parla il medico legale: "Si è impiccato". Il musicista, 49 anni, è stato trovato morto nella sua casa nella frazione di North End, nell'Essex, il 4 marzo, scrive l'11 marzo 2019 La Repubblica. La morte di Keith Flint, voce dei Prodigy, avvenuta lo scorso 4 marzo, è stata archiviata come "non sospetta" dalla polizia. La causa medica provvisoria è stata registrata come impiccagione. Il medico legale incaricato del caso, Caroline Beasley-Murray, si è infatti riservata di presentare un rapporto aggiornato il 23 luglio prossimo, sulla base delle risultanze degli esami tossicologici, non ancora disponibili. Flint aveva infatti avuto problemi di tossicodipendenza in passato. La notizia che si fosse trattato di un probabile suicidio si era diffusa già qualche giorno fa quando il compagno di band di Flint, Liam Howlett, aveva scritto su Instagram che "la notizia è vera. Non ci credo ma devo dirvi che nostro fratello Keith si è ucciso nel weekend. Sono scioccato, arrabbiato, confuso e col cuore spezzato". Anche un altro collega del musicista, John Lydon dei Sex Pistols, aveva commentato l'accaduto: "Il mio cuore è spezzato per lui, era un mio caro amico, non fraintendetemi ma nessuno lo amava ed è stato lasciato solo, era a pezzi. Perché così tante persone sono lasciate sole in questo settore?".

I Prodigy, la censura, la lite con i Beastie Boys: il caso Smack my bitch up. Un brano cult, uno dei pezzi simbolo degli anni Novanta e della scena dance. Ecco come venne accolto..., scrive Gianni Poglio il 5 marzo 2019 su Panorama. Fu uno shock sonoro e non solo Smack my bitch up, l'oltraggioso singolo dei Prodigy pubblicato nel 1997 e contenuto nell'album The Fat Of The Land (il primo in cui compare Keith Flint come vocalist). Un brano duro nelle sonorità, diventato di culto nel giro di poche settimane. Un pezzo di musica elettronica dall'attitudine punk e nichilista passato alla storia come uno dei brani simbolo degli anni 90. "Change my pitch up / Smack my bitch up" fece scandalo e la band venne accusata di misoginia e sessismo. L'approccio della canzone non piacque nemmeno ai Beastie Boys che arrivarono a chiedere ai Prodigy di non suonare il brano al Reading Festival del 1998. La risposta dei Prodigy dal palco fu esplicita: Noi suoniamo quel c.... che vogliamo".  Il ritornello incriminato è in realtà un campionamento tratto da Give the drummer some degli Utramagnetic MCs. Non meno controverso il videoclip tra scene di sesso, violenza, guida in stato di ebbrezza, risse e cocaina. In un primo momento Mtv lo confinò nelle ore notturne, poi decise di eliminarlo dalla rotazione. Idem per la BBC che decise di censurarlo senza riserve. Liam Howlett, cofondatore dei Prodigy, a questo proposito dichiarò: "Il video racconta la realtà, c'è molta gente che trascorre notti come quelle raccontate in quelle immagini".  Nonostante il contenuto delle sequenze, il video si aggiudicò due Mtv Video Awards nelle categorie Best Dance Vodeo e Brakthrough Video...

Da Il Fatto Quotidiano del 4 marzo 2019. “La notizia è vera, non credo a quello che sto dicendo ma il nostro fratello Keith si è tolto la vita. Sono sconvolto, arrabbiato, confuso e col cuore a pezzi”. Così su Instagram Liam Howlett ha confermato quello che era già uscito su tutti i giornali: Keith Flint, che insieme a lui e Maxim aveva fondato i Prodigy, è stato trovato morto nella sua casa a Dunmow, nell’Essex. Iconico frontman del gruppo elettronico anni ’90 autore di Breathe e Firestarter, aveva 49 anni. La polizia è stata chiamata subito dopo le 8 ora locale (le 9 in Italia), e non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. “La morte non viene considerata sospetta e verrà preparato un dossier per il medico legale”, hanno detto gli agenti, mentre al Daily Mail un portavoce della East of England Ambulance ha dichiarato: “Alle 8.08 abbiamo ricevuto la segnalazione di un uomo in stato di incoscienza”. Ma al loro arrivo a Brook Hill, North End, Flint era già morto. Sembra che la moglie, la Dj Mayumi Kai, fosse in Giappone al momento della morte. Flint era da poco tornato nel Regno Unito dopo le date del tour in Australia, e doveva riprendere i live a maggio negli Stati Uniti. Anche su Twitter è stato postato il messaggio di cordoglio della band: “È con profondo shock e tristezza che confermiamo la morte del nostro fratello e migliore amico Keith Flint. Un vero pioniere, un innovatore e una leggenda. Ci mancherà per sempre. Vi ringraziamo per il rispetto della privacy di tutti gli interessati in questo momento”. I Prodigy sono nati nel 1990 dall’incontro tra Howlett e Flint. Partiti dalla scena underground, sono arrivati al pubblico mainstream e a oggi hanno venduto 30 milioni di dischi. Nel corso della carriera hanno vinto due Brit Awards, tre Mtv Video Music Awards, cinque Mtv Europe Music Awards e hanno avuto anche due nomination per i Grammy. Il video di Firestarterera stato bandito dalla Bbc dopo essere stato trasmesso a Top of the Pops: molti genitori si erano lamentati perché le immagini spaventavano i figli.

È morto Luke Perry, l'attore di Beverly Hills.  Aveva 52 anni. È stato il belle e tenebroso della serie tv cult, scrive Simona Santoni il 4 marzo 2019 su Panorama. Bello e ombroso, Luke Perry ha infiammato il cuore delle ragazzine degli anni Novanta come ricco e problematico Dylan della serie tv cult Beverly Hills 90210. Se ne va a 52 anni. È morto questo pomeriggio al St. Joseph's Hospital di Burbank. Giovedì scorso, il 28 febbraio, l'attore statunitense era stato colpito da un ictus da cui non si è mai ripreso. Era circondato dai suoi figli Jack e Sophie, dalla fidanzata Wendy Madison Bauer, dall'ex moglie, dalla madre, dal padre e dai fratelli, oltre che dagli amici più stretti. Dopo aver recitato in soap opera come Destini e Quando si ama, il successo per Luke Perry è sbocciato all'inizio degli anni nNvanta: era lui il sex symbolo della serie televisiva Beverly Hills 90210, a cui ha partecipato a quasi tutte le stagioni, dal 1990 al 1995, dal 1998 al 2000. Si è dedicato anche al cinema: è apparso in Buffy - L'Ammazza Vampiri (1992) di Fran Rubel Kuzui, nella commedia italiana Vacanze di Natale '95 (1995) di Neri Parenti con Massimo Boldi e Christian De Sica, ne Il quinto elemento (1997) di Luc Besson. Recentemente era tra i protagonisti della serie tv teen dramaRiverdale, la cui terza stagione arriverà in Italia il 29 marzo su Premium Stories.

Da Rockol.it  l'8 maggio 2019. Si concluderà con un "verdetto aperto" l'inchiesta sulla morte di Keith Flint, il frontman dei Prodigy trovato senza vita nella sua abitazione di Dunmow, nell'Essex britannico, lo scorso 4 marzo all'età di 49 anni: come riferisce la testata locale Halstead Gazette, Caroline Beasley-Murray, il medico legale chiamato a condurre le indagini sulla morte dell'artista, ha spiegato come - nonostante la causa del decesso sia da individuare senza dubbio nell'asfissia procuratasi dallo stesso Flint - le tracce di stupefacenti (in particolare, cocaina e codeina) e alcol trovate nel suo sangue nel corso degli esami autoptici potrebbero far pensare a un gesto commesso in uno stato alterato e non lucido. "Ho preso in considerazione l'ipotesi del suicidio", ha spiegato la Beasley-Murray: "Per confermarla, avrei dovuto constatare che - nel bilancio delle probabilità - il signor Flint avesse maturato l'idea [del suicidio] e agito deliberatamente con la coscienza di provocare la propria morte. Avendo esaminato tutte le circostanze del caso, non credo che ci siano sufficienti prove per farlo". "Si stava forse svagando e qualcosa è andato terribilmente storto?", ha concluso il coroner: "Nel calcolo delle probabilità, lascerò il verdetto dell'indagine aperto". Solo ieri - martedì 7 maggio - i Prodigy hanno postato sui propri canali social ufficiali un appello per sensibilizzare l'opinione pubblica su depressioni e problemi mentali: "E' stato un periodo duro per tutti nelle ultime settimane dalla morte di Keef", si legge nel messaggio del gruppo di "The Fat of the Land": "Se state combattendo con la depressione, la dipendenza o con tendenze suicide, vi prego, non soffrite in silenzio”.

·         E' morto Luke Perry.

E' morto Luke Perry, addio a Dylan di "Beverly Hills 90210". L'attore aveva 52 anni. Mercoledì scorso era stato colpito da un ictus, dal quale non si era più ripreso. Celebre per il ruolo interpretato nella serie cult degli anni Novanta, aveva già girato alcune scene del prossimo film di Quentin Tarantino, scrive Alessandro Vitali il 4 marzo 2019 su La Repubblica. Luke Perry non ce l'ha fatta. E' morto a 52 anni l'attore celebre per il ruolo di Dylan McKay nella serie tv anni Novanta Beverly Hills 90210, colpito da un ictus mercoledì scorso. Perry era ricoverato al St. Joseph's Hospital di Burbank, in California, dopo il malore che lo aveva colpito mentre si trovava nella sua abitazione di Sherman Oaks. Lascia la compagna Wendy Madison Bauer, i due figli Jack di 22 anni e Sophie di 19, nati dal matrimonio con l'attrice Rachel Sharp, sposata nel 1993 e dalla quale aveva divorziato nel 2003. "Accanto a lui - riferisce il suo agente in un comunicato - c'erano tutti i familiari e gli amici più cari. La famiglia ringrazia per il sostegno e le preghiere di questi giorni, e chiede il rispetto della privacy in questo momento di grande dolore". Luther Perry III, questo il suo vero nome, era nato a Mansfield l’11 ottobre del 1966, figlio di un operaio e di una casalinga. Deciso a fare l'attore si era trasferito a Los Angeles e aveva ottenuto i primi ruoli nelle soap opera Destini e Quando si ama, alla fine degli anni Ottanta. Prima, c'era stato un passaggio a New York dove, come raccontò nel 1990 in un'intervista a Whoopi Goldberg, aveva fatto 215 provini prima di riuscire a essere scritturato per uno spot. Ma è in California, nel 1990, che arriva il vero colpo di fortuna: quando viene ingaggiato per interpretare Dylan McKay nella serie tv Fox Beverly Hills 90210, il ruolo di un bad boy ispirato, nelle intenzioni degli autori, a James Dean. Nella finzione è il rampollo di una famiglia miliardaria, ha problemi con l'alcol e con la famiglia stessa e un atteggiamento da duro dietro al quale si nasconde un'anima fragile e gentile. Bel tenebroso, ama la poesia, la musica, i film d'epoca, è sensibile al fascino femminile. Il personaggio piace al pubblico, Perry diventa una star. Recita in quasi tutte le stagioni, dal 1990 al 1995. Dopo un periodo d'assenza torna nel cast dal 1998 al 2000. La pausa gli serve per tentare anche la strada del grande schermo. Lavora pure in Vacanze di Natale 95, di Neri Parenti, in cui interpreta se stesso. E' nel cast di Il quinto elemento di Luc Besson (1997) e in quello di Crocevia per l'inferno di John McNaughton (1997). Ma nulla è più forte di Beverly Hills 90210. Perry è un idolo dei teenager, la serie viene considerata ancora oggi un cult degli anni Novanta. Le sue love story con Kelly Taylor, la biondina spocchiosa, e la bruna Brenda Walsh vengono vissute come uno scontro epocale che divise il pubblico femminile in tifoserie da stadio. Tanto più perché fiction e realtà si sovrapposero quando cominciò a circolare la voce che Perry avesse davvero una liason con Jenny Garth, l'attrice che interpretava Kelly. Nonostante il grande successo, Perry deciderà di non partecipare allo spinoff della serie, realizzato nel 2008, al quale presero invece parte Shannen Doherty, Jennie Garth e Tori Spelling. "Sarò legato a lui per il resto della mia vita - disse, parlando del personaggio - ma va bene così. Dylan McKay l'ho creato io, è mio". Spiegò che "quando diventi un professionista devi tener conto di tutte le offerte e non penso che questa sia una cattiva occasione, ma dal punto di vista creativo è qualcosa che ho fatto in passato, non so quanto mi gioverebbe se lo rifacessi oggi". Nel 2000 smette di essere Dylan. Recita nella serie Oz, della Hbo, poi in Jeremiah, in onda dal 2002 al 2004 ma sono tantissime le serie tv alle quali partecipa, il teen drama Riverdale fra le più recenti, così come è lunga la lista dei film ai quali ha preso parte. Ha lavorato tanto come doppiatore, ha partecipato a un'edizione, nel 2001, di The Rocky Horror Show. Tutti ruoli con i quali ha cercato di sfuggire, invano, all'identificazione con il personaggio di Beverly Hills 90210. Che continua a perseguitarlo sotto varie forme, fra cui una versione cartoon in alcuni episodi di I Simpsons (che ha anche doppiato) e in un episodio di I Griffin. La sua ultima, bella occasione era stata con Quentin Tarantino: il regista lo aveva ingaggiato per un piccolo ruolo in Once upon a time in Hollywood, il suo nuovo film con un cast stellare e sterminato. E alcune scene con lui sarebbero state già girate. Chissà se Tarantino deciderà di lasciarle nel film. Mai titolo sarebbe più appropriato, C'era una volta a Hollywood, per celebrare la storia di un attore imprigionato in un unico personaggio.

Luke "Dylan" Perry, il bello e dannato icona di "Beverly Hills". Colpito da ictus, non ce l'ha fatta. Reso celebre dalla serie tv, non uscì mai da quel ruolo, scrive Matteo Sacchi, Martedì 05/03/2019, su Il Giornale. Ci sono attori che restano inchiodati a un ruolo, per quanti sforzi facciano. A Luke Perry, morto ieri a 52 anni per le conseguenze di un ictus devastante, è capitato. Per tutti sarà sempre il Dylan McKay di Beverly Hills 90210. La serie è stato davvero un programma di culto degli anni Novanta. Il vero prototipo del Teen Drama. E Perry, che quando iniziarono le riprese aveva 23 anni ha interpretato il personaggio che più ha catalizzato l'attenzione delle giovani Fans. Il suo personaggio era quello del bello e dannato per antonomasia, modellato senza nemmeno porsi il problema dell'eccesso di somiglianza, sull'icona di James Dean, a partire dalla Porsche nera su cui rombava in tutte le puntate della serie. Luke Perry diede così, dopo essere stato scartato ai casting per altri personaggi della serie, viso, ieratico e malizioso, e voce, calda e avvolgente, a un ragazzo tenebroso figlio di un miliardario di Beverly Hills. Non fu certo una interpretazione da Oscar. In effetti quei anni Novanta erano prodotti ad anni luce di distanza da quelli di oggi, visto che ormai le serie hanno mezzi e cast superiori ad Hollywood. Però Perry nel suo essere iconico funzionava perfettamente sul pubblico giovane dell'epoca. Poi gli sceneggiatori azzeccarono la dinamica emotiva perfetta: nelle prime stagioni il giovane McKay fa coppia con la morettina Brenda (Shannen Doherty), la tempestosa e irrequieta sorella di Brandon. Poi con la sua migliore amica, la biondissima, Kelly. Anche qui un giochino emotivo non proprio nuovo e che funzionava sin dalla commedia dell'arte, ma bastevole ad inchiodare di fronte a televisori, con molti meno canali di ora, milioni di persone. Il mito di Luke Perry era nato e non si sarebbe spento più. Però ogni mito è anche una gabbia. Perry ha faticato a fare altro. Anche se come attore ci ha provato. Già nel 1992 era in Buffy-l'ammazza Vampiri film non così fortunato seguito poi da una serie fortunatissima (ma senza di lui). Finì anche in vacanze di Natale '95, riuscendo nella non facile impresa di far sembrare molto bravi gli attori italiani al suo confronto. Gli andò meglio con una parte non centrale ne Il quinto elemento di Luc Besson. Più interessante la serie di fantascienza Jeremiah tratta dal fumetto di Hermann Huppen. Però capitava di sentir dire: «Ehi guarda c'è quello di Beverly Hills che sta in uno strano futuro dove sono tutti morti per una malattia...». C'è voluto del tempo e dell'impegno per riuscire ad essere convincente in ruoli diversi. Intanto Perry si è dedicato con costanza alle opere benefiche e alla lotta all'Aids. Alla fine ci è riuscito, dopo una serie di parti dimenticate e dimenticabili, aiutato anche dall'avere un aspetto molto più adulto, partecipando da settembre 2016 alla serie Riverdale. Proprio per questo probabilmente, anche se nei giorni scorsi Fox ha annunciato l'arrivo di un revival di Beverly Hills 90210, con il ritorno del cast originale, Perry aveva deciso di non firmare alcun contratto per apparire nella nuova serie. Purtroppo la malattia non gli ha dato il tempo di cementare questa sua nuova carriera adulta.

·         È morto Gabriele La Porta.

È morto il conduttore Gabriele La Porta, volto storico di Rai Notte. Aveva 73 anni. Giornalista e conduttore, ha lavorato per 42 anni a viale Mazzini. Il ricordo del figlio, scrive il 21 febbraio 2019 La Repubblica. È morto Gabriele La Porta, giornalista e storico conduttore Rai. A dare la notizia il figlio Michele, precisando che il padre si è spento il 19 febbraio scorso. Aveva 73 anni. Intellettuale, docente di filosofia, scrittore, giornalista, ha lavorato per 42 anni in Rai, è stato direttore di Rai Notte, il palinsesto notturno dell'azienda di viale Mazzini, e per un biennio direttore di Rai2. Nato a Roma il 5 maggio 1945, ha iniziato la sua lunga carriera nel servizio pubblico a 23 anni, prima come programmista, poi come giornalista e conduttore. È stato editorialista del settimanale Radiocorriere Tv, vice caporedattore del Tgr Lazio, caporedattore del Dipartimento Scuola Educazione della Rai. Nel 1994 è stato nominato direttore di Rai2, prima di diventare nel 1996 direttore del palinsesto di RaiNotte, che ha diretto per 14 anni, divenendo noto al pubblico come conduttore di trasmissioni culturali. Nel 2010 è andato in pensione e ha lasciato la Rai. "In molti, forse, lo ricorderanno come il volto di RaiNotte. Io lo ricordo perché era mio padre. Il mio dolcissimo papà. Il cuore del mio cuore - scrive Michele La Porta sul sito Radio Colonna - Nella logica, inevitabile, della vita e la morte, accetto il suo viaggio. L'ultimo. Eppure, il mondo, si è dissolto inesorabilmente. Come un abisso". "Sei stato il mio maestro. Il mio eroe. Il mio re - prosegue - Sono onorato d'esser stato tuo figlio. Sangue del tuo sangue. Mi auguro che tu sia stato fiero di me. Dei miei baci. Delle mie carezze. Dei miei pensieri, per te. Un giorno verrò a trovarti. Tu aspettami e lascia libero un posto accanto a te". E conclude: "Ciao papà, riposa la tua anima. Tuo figlio Michele".

Morto Gabriele La Porta, storico volto televisivo di Rai Notte: il tragico annuncio del figlio, scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "In molti, forse, lo ricorderanno come il volto di Rainotte. Io lo ricordo perché era mio padre. Il mio dolcissimo papà. Il cuore del mio cuore". Lo scrive il figlio di Gabriele La porta, Michele. "Nella logica, inevitabile, della vita e la morte, accetto il suo viaggio. L'ultimo. Eppure, il mondo, si è dissolto inesorabilmente. Come un abisso". La Porta ha lavorato in Rai per 42 anni. La Porta, che aveva 73 anni, iniziò la sua lunga carriera nel servizio pubblico a 23 anni, prima come programmista, poi come giornalista e editorialista. Nel 1994 è stato nominato direttore di Rai 2, prima di diventare nel 1996 direttore del palinsesto di Rai Notte, divenendo noto al pubblico come conduttore di trasmissioni culturali. Nel 2010 è andato in pensione e ha lasciato la Rai. Filosofo, pubblicò anche diversi libri tra cui: La Magia, Coincidenze miracolose, Storia della magia, e la trilogia di A come anima, A come amore e C come cuore. "Sei stato il mio maestro. Il mio eroe. Il mio Re. Sono onorato d'esser stato tuo figlio. Sangue del tuo sangue.  Mi auguro che tu sia stato fiero di me. Dei miei baci. Delle mie carezze. Dei miei pensieri, per te. Un giorno verrò a trovarti. Tu aspettami e lascia libero un posto accanto a te".  

Da Il Messaggero il 21 Febbraio 2019. «In molti, forse, lo ricorderanno come il volto di Rainotte. Io lo ricordo perché era mio padre. Il mio dolcissimo papà. Il cuore del mio cuore - scrive Michele La Porta - Nella logica, inevitabile, della vita e la morte, accetto il suo viaggio. L'ultimo. Eppure, il mondo, si è dissolto inesorabilmente. Come un abisso». «Sei stato il mio maestro. Il mio eroe. Il mio Re - prosegue - Sono onorato d'esser stato tuo figlio. Sangue del tuo sangue. Mi auguro che tu sia stato fiero di me. Dei miei baci. Delle mie carezze. Dei miei pensieri, per te. Un giorno verrò a trovarti. Tu aspettami e lascia libero un posto accanto a te». E conclude: «Ciao papà, riposa la tua anima. Tuo figlio Michele».

Gabriele La Porta, "sparita la sua salma": lo strazio del figlio, dramma famigliare, scrive il 23 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Alcuni giorni fa, il 19 febbraio, è venuto a mancare lo storico volto di Rai NotteGabriele La Porta, ex direttore di Raidue, filosofo e intellettuale. Ne aveva dato notizia il figlio Michele, che adesso denuncia sulle pagine del Tempo: "Dov’è mio padre? È morto da tre giorni e io non so dove si trovi il suo corpo. Non ho avuto ancora la possibilità di salutarlo, né di piangerlo". Il motivo? "Oggi nessuno sa dove sia la salma, ad eccezione della sua seconda moglie, la quale ce lo sta nascondendo. A causa sua mio padre è morto solo: una cosa indegna, disumana". Michele era stato il primo a riferire, con uno struggente post sui social, della morte del padre specificando che era accaduta alcuni giorni prima. Evidentemente era stato informato tardi. Una storia che va oltre l'incredibile. L’unica persona che può sapere dove si trovi il corpo senza vita di La Porta è Donatella Scatena, seconda ed ultima moglie del conduttore e sua convivente, la quale però risulta irreperibile da diversi giorni. Un doloroso mistero che ancora non ha trovato risposta, e per risolvere il quale Michele ha intenzione di andare fino in fondo, perché, come dice lui, "non si può negare ad un figlio la possibilità di piangere il proprio padre". Secondo quanto riferisce Michele al Tempo, la donna tace sul luogo della sepoltura ma non è l'unica omissione. Avrebbe nascosto alla famiglia molte altre cose, a partire dal ricovero in ospedale fino al momento del decesso. Sarebbero stati i vicini di casa, gli infermieri, gli amici a dare notizie a Michele e ai parenti. Un giallo. 

Alessandra Menzani per Libero Quotidiano il 23 febbraio 2019. "Erano nove anni che non vedevano il padre. Avevano anche fatto una causa d'interdizione. Non capisco perché oggi vogliano la ribalta. E' una mostruosità". La vedova di Gabriele La Porta, il volto storico e amatissimo di Rai Notte, scomparso a 73 anni a Roma nei giorni scorsi, non ci sta. Replica al figlio di La Porta, Michele, che sulle pagine del Tempo l'accusa di averle taciuto la malattia del padre e avergli nascosto la sua salma. "Io ho eseguito la volontà di mio marito", dichiara in esclusiva a Libero Donatella Scatena, da 30 anni moglie del conduttore. "Loro sono spariti da un anno e mezzo, hanno intentato una causa di interdizione, il 26 marzo ci sarebbe stata un'udienza. Ad ogni mia richiesta, e di Gabriele, che stava male, non si sono mai presentati. Da 9 anni, da quando è andato in pensione dalla Rai, soffriva di depressione. Nemmeno gli auguri di Natale gli hanno fatto". Donatella chiarisce che la salma è a disposizione: "La possono portare dove vogliono. Ho depositato formalmente gli atti, non è stato ancora sepolto", dice con la voce tremante. La donna, architetto, spiega che Michele e Antonella, i figli di La Porta, vivono a qualche isolato da loro dunque avevano la possibilità di venirlo a trovare. Eppure "sono spariti, mai una telefonata, un tentativo d'approccio". Michele si lamenta di non essere stato avvisato che il padre stava per morire. "E' successo tutto velocemente", ribatte la signora, "si è ammalato di broncopolmonite fulminante. Siamo corsi in ospedale, la febbre non si abbassava. Dalle 22 di sera sono stata con lui fino alle 4 di mattina. Poi è morto". Era lo scorso 18 febbraio. Due giorni dopo, il funerale. Donatella sostiene che la depressione del marito, unita a una patologia della memoria, peggiorava anche per questo mancato rapporto coi figli: "Era molto triste, loro si facevano vivi solo per questioni economiche". L'anno visto per l'ultima volta nel 2018 al Tribunale Civile, in un'udienza della causa. "Era molto fragile, provato da stress emotivo. Chiedere l'interdizione è una cosa molto grave, soprattutto per un intellettuale come lui, un filosofo. Mi sono fortemente opposta". La moglie di La Porta chiarisce che il marito ha iniziato a soffrire dopo l'addio alla Rai: "Era un aziendalista, nel bene o nel male, succede che un uomo possa andare in depressione dopo la pensione". Era il 2010. "Ho lasciato il mio studio, sono architetto, e mi sono messa a lavorare in casa per stargli vicino". Nonostante la salute cagionevole, l'ex direttore di Rai Notte scriveva, leggeva, aveva desideri, era reattivo. "Simpatico, socievole", dice Donatella. Poi le condizioni si sono aggravate. Fino alla notizia più tragica.  

·         È morta Marella Agnelli.

È morta Marella Agnelli, vedova di Giovanni. Aveva 92 anni. Malata da tempo, negli ultimi giorni le sue condizioni di salute si erano aggravate. I funerali si svolgeranno in forma privata a Villar Perosa, scrive il 23 febbraio 2019 La Repubblica. È morta a Torino Marella Agnelli, la vedova di Gianni Agnelli, l'Avvocato. Aveva 92 anni. Malata da tempo, negli ultimi giorni le sue condizioni di salute si erano aggravate. I funerali si svolgeranno in forma privata a Villar Perosa. Marella Caracciolo era nata a Firenze il 4 maggio 1927. Figlia di Filippo Caracciolo Principe di Castagneto e di Margharet Clarke. Dopo aver seguito gli studi superiori e conseguito il diploma in Svizzera, Marella Agnelli ha frequentato “l’Académie des Beaux-Arts” e quindi “l’Académie Julian” di Parigi. Ha iniziato in seguito la sua attività di fotografa a New York quale assistente di Erwin Blumenfeld. Rientrata in Italia, ha collaborato come redattrice e fotografa per la Condé Nast. L’anno seguente, nel 1953, a Strasburgo ha sposato Giovanni Agnelli da cui avrà due figli: Edoardo e Margherita. Nel 1973, su richiesta della fabbrica di tessuti in Svizzera Abraham Zumsteg, ha realizzato una serie di disegni per tessuti d’arredamento. Ad essa sono seguite le collezioni in Italia per la Ditta Ratti di Como, in Francia per gli Stabilimenti Steiner, negli Stati Uniti per la Martex e numerose collezioni per la Marshall Field’s. Nel 1977 ha ottenuto negli Stati Uniti l’Oscar del disegno con il premio “Product Design Award of the Resources Council Inc.”. Ha comunque sempre continuato a fotografare, collaborando con la Condé Nast ed altre riviste. Presidente Onorario della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. E’ stata membro dell’International Board of Trustees del Salk Institute di San Diego (California) e dell’International Council of the Museum of Modern Art di New York. E’ stata inoltre vicepresidente del Consiglio di Palazzo Grassi a Venezia, nonché presidente de “I 200 del FAI” di Milano e dell’Associazione degli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea di Torino. E’ stata vicepresidente della Commissione Nazionale dei Collegi del Mondo Unito. Nell’ottobre 2000 è stata insignita del titolo di “Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”.

Addio a Marella Agnelli, il cigno…, scrive il 23 febbraio 2019 Il Dubbio. Si sposò con l’Avvocato nel ’53, dopo la morte del figlio Edoardo si ritirò a Marrakech a occuparsi delle sue piante. Richard Avedon, uno dei più grandi fotografi del ‘900, la battezzò il cigno per quel collo sottile e allungato e le sue movenze regali. Marella Agnelli, il cigno, è morta venerdì notte a 92 anni. Per decenni è stata al fianco di Gianni Agnelli, suo marito, sposato nel novembre del 53. Ma prima di entrare nella famiglia “reale” di Torino, Marella visse da principessa tra i Caracciolo, un’antica famiglia dell’aristocrazia napoletana. Suo padre Filippo, un diplomatico, le fece girare il mondo insieme al fratello Carlo che in seguito, e insieme a Eugenio Scalfari, fonderà L’Espresso. Poi arrivò l’incontro con l’avvocato, con Gianni Agnelli, e la sua vita cambiò per sempre. Il sì lo pronunciò nel castello di Osthoffen, a Strasburgo, in Francia, dove il padre era il rappresentante diplomatico italiano presso il Consiglio d’Europa. Subì anche il dolore della morte di un figlio: Edoardo Agnelli, morto suicida nel 2000. Gli ultimi anni di vita li ha passati nella sua villa di Marrakech a occuparsi delle sua amate piante. Di lei rimane anche una rosa, la rosa Marella, creata in suo onore da Rose Barni.

È morta Marella Caracciolo, vedova di Gianni Agnelli. Aveva 91 anni. Malata da tempo, negli ultimi giorni le sue condizioni di salute si erano aggravate. I funerali si svolgeranno in forma privata a Villar Perosa, scrive il 23 febbraio 2019 La Repubblica. È morta a Torino Marella Agnelli, la vedova di Gianni Agnelli, l'Avvocato. Aveva 92 anni. Malata da tempo, negli ultimi giorni le sue condizioni di salute si erano aggravate. I funerali si svolgeranno in forma privata a Villar Perosa. Marella Caracciolo era nata a Firenze il 4 maggio 1927. Figlia di Filippo Caracciolo Principe di Castagneto e di Margharet Clarke. Dopo aver seguito gli studi superiori e conseguito il diploma in Svizzera, Marella Agnelli ha frequentato “l’Académie des Beaux-Arts” e quindi “l’Académie Julian” di Parigi. Ha iniziato in seguito la sua attività di fotografa a New York quale assistente di Erwin Blumenfeld. Rientrata in Italia, ha collaborato come redattrice e fotografa per la Condé Nast. L’anno seguente, nel 1953, a Strasburgo ha sposato Giovanni Agnelli da cui avrà due figli: Edoardo e Margherita.

Addio a Marella, protagonista di un'epoca che non c'è più, scrive il 23 febbraio 2019 La Repubblica. Nel 1973, su richiesta della fabbrica di tessuti in Svizzera Abraham Zumsteg, ha realizzato una serie di disegni per tessuti d’arredamento. Ad essa sono seguite le collezioni in Italia per la Ditta Ratti di Como, in Francia per gli Stabilimenti Steiner, negli Stati Uniti per la Martex e numerose collezioni per la Marshall Field’s. Nel 1977 ha ottenuto negli Stati Uniti l’Oscar del disegno con il premio “Product Design Award of the Resources Council Inc.”. Ha comunque sempre continuato a fotografare, collaborando con la Condé Nast ed altre riviste. Presidente Onorario della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. E’ stata membro dell’International Board of Trustees del Salk Institute di San Diego (California) e dell’International Council of the Museum of Modern Art di New York. E’ stata inoltre vicepresidente del Consiglio di Palazzo Grassi a Venezia, nonché presidente de “I 200 del FAI” di Milano e dell’Associazione degli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea di Torino. E’ stata vicepresidente della Commissione Nazionale dei Collegi del Mondo Unito. Nell’ottobre 2000 è stata insignita del titolo di “Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”.

Marella Agnelli Caracciolo, da Parigi alla Fiat ritratto di Signora. La vedova dell'Avvocato si è spenta a 92 anni, era una grande appassionata d'arte, di fotografia e di giardinaggio, scrive Salvatore Tropea il 23 febbraio 2019 su La Repubblica. E' morta Marella Agnelli Caracciolo di Castagneto, aveva 92 anni, vedova dell’Avvocato. Nata a Firenze nel 1927 da una famiglia di antica aristocrazia napoletana, figlia di Filippo Caracciolo principe di Castagneto e di Margaret Clarke, signora americana dell’Illinois, un fratello, Carlo, tra i fondatori del Gruppo l’Espresso-Repubblica e un altro, Nicola, giornalista e studioso di storia, autore televisivo, cugina di Allegra seconda moglie di Umberto, Marella Agnelli frequenta da ragazza l’Accademia di Belle Arti di Parigi per poi dedicarsi alla fotografia sotto la guida di Erwin Blumenfeld,  celebre firma di Vogue e Harper Bazaar. Nel 1953 conosce Gianni Agnelli a Roma. Si sposano l’anno dopo con rito religioso in una chiesetta nel castello di Osthofen nei pressi di Strasburgo dove il padre di lei è segretario del Consiglio generale d’Europa. Cerimonia ristretta, per modo di dire dato il numero dei parenti, e poi festa al Trianon Palace di Versailles e partenza per gli Stati Uniti a bordo della Queen Elizabeth. A giugno del 1954 nasce Edoardo e due anni dopo la sorella Margherita. Con l’Avvocato, personaggio ingombrante e di non facile gestione, condivide la passione per l’arte moderna. Di lei si ricordano le celebri rassegne, realizzate a Torino con il critico Luigi Carluccio, “Il cavaliere azzurro” e “Le muse inquietanti”. L’altra sua passione sono i giardini ai quali si dedica, non solo pubblicando libri, ma occupandosi direttamente e con un certo orgoglio, collaborando spesso con il paesaggista Paolo Pejrone. La residenza di Villar Perosa, la villa della Corsica e poi il progetto di un giardino in Marocco, nel ritiro invernale di Marrakech dove si rifugia anche per poter curare una lunga malattia, sono la testimonianza di questa passione. Personaggio internazionale, non soltanto per effetto riflesso del celebre marito, Marella Agnelli conduce una vita che non offre tanti spunti alle cronache mondane se non in qualche occasione particolare ed esclusiva. E’ di casa a New York e a Sankt Moritz, ma ama molto passare la maggior parte del tempo a Torino dove, assieme al marito, frequenta Romilda Bollati di Saint Pierre, Maria Cattaneo, Mariella e Antonio Marocco e pochissime altre persone. Ma l’amica che vede di più e verso la quale ha un rapporto quasi materno è Evelina Christillin, moglie di Gabriele Galateri di Genola, alla quale confessa sovente nelle passeggiate in collina le pene per lo stato di salute che nel novembre del 2000 condurrà al suicidio il figlio Edoardo. Oltre la soglia dei settant’anni a tenerle spesso compagnia sono i nipoti, John futuro presidente della Fiat, Lapo e Ginevra nati dal primo matrimonio della figlia Margherita con Alain Elkann. E ancora Pietro, Sofia, Maria, Anna e Tatiana nati dal secondo matrimonio con Serge de Phalen. La morte di Edoardo e la malattia del marito che seguirà nel 2003 diradano la sue comparse in pubblico con le tristi eccezioni dei lutti e di quella contesa con la figlia Margherita per una di quelle questioni ereditarie che fanno quasi sempre da contrappunto alla scomparsa dei titolari di grandi patrimoni. Un rimestare di carta bollata che si è andato esaurendo col procedere della malattia accompagnato mano a mano dal silenzio. Il sindaco di Villar Perosa ha proclamato il lutto cittadino lunedì prossimo in occasione del funerale. La funzione sarà celebrata, in forma strettamente privata, alle 11 nella chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli, accanto alla residenza della famiglia Agnelli, nel paese della valle Chisone.

La regina riservata al fianco di Gianni, conobbe il dolore ma imparò ad amare la vita. Origini nobili e carattere schivo. "Ho capito che l'esistenza non è espiazione". La morte del figlio Edoardo e le liti con Margherita, scrive Giordano Bruno Guerri, Domenica 24/02/2019 su Il Giornale. Se Gianni Agnelli era «il re d'Italia», Marella era la regina. E nel 2003, dopo la morte dell'Avvocato, come una regina madre si ritirò dalla scena pubblica, che peraltro aveva sempre frequentato poco. Rarissime le interviste, quel che sappiamo di lei è nei suoi libri, che parlano di giardini e di arte, le sue passioni; due hanno un taglio autobiografico: Ho coltivato il mio giardino, scritto con la nipote Marella Caracciolo Chia (Adelphi 2014) e La signora Gocà, che parla della sua famiglia d'origine (Adelphi 2015).

Quando sgridò Gianni Agnelli. Suo padre, Filippo Caracciolo, principe di Castagneto, era un diplomatico antifascista, e nel 1944 fu sottosegretario all'Interno nel secondo governo Badoglio, dove si adoperò per l'ingresso dei comunisti al governo. Fu poi segretario del Partito d'Azione e segretario generale aggiunto del Consiglio d'Europa. La madre Margaret Clarke era un'americana, come quella di Gianni, discendente da un'antica famiglia che aveva fatto fortuna producendo whisky. Era nata a Firenze il 4 maggio 1927, mediana fra due fratelli che amava (Carlo, del 1925, sarà editore dell'Espresso e di Repubblica; Nicola, del 1931, giornalista e storico). A 22 anni andò a Parigi per studiare disegno e scenografia teatrale, poi a New York, dove fece la modella e l'assistente per il grande fotografo Erwin Blumenfeld. Tornò in Italia nel 1952, proprio quando Gianni, che aveva sei anni più di lei, ebbe il grave incidente d'auto che lo costringerà a zoppicare per tutta la vita. Amica delle sorelle, andò a trovarlo in ospedale e si innamorarono subito, anche se Marella dichiarerà: «Per Gianni la donna va conquistata. Non si innamora», ma parlava delle altre. Gianni aveva «i difetti caratteristici dell'italiano: di mio padre, di mio fratello Carlo», in compenso «mi ha insegnato a godermi la vita» (Enzo Biagi, Il signor Fiat). E a Vogue, nel 1997: «Un motivo per cui adoro la famiglia di mio marito è che sono convinti che la vita sia fatta per essere goduta, non sia solo dovere ed espiazione». Si sposarono il 19 novembre del 1952, perché lei aspettava un bambino, Edoardo, che morirà suicida nel 2000. Seguì Margherita, nel 1955, che porterà tanti nipoti insieme ad altri dolori recenti - nella vita di Marella. Il dolore sembrava inesistente per la giovane coppia Agnelli-Caracciolo, che presto si affermò anche a New York, dove divennero il simbolo dell'eleganza italiana e dove Richard Avedon le scattò una foto oggi celebre: fu lui a soprannominarla «Il Cigno», per il suo magnifico collo. Così la chiamava anche Truman Capote, che corresse le bozze di A Sangue Freddo sullo yacht degli Agnelli, in crociera al largo della Turchia. Divennero poi amici di John Fitzgerald Kennedy, all'epoca presidente, e di sua moglie Jacqueline: la first lady era considerata la donna più affascinante del mondo, eppure aveva un'aria provinciale accanto a Marella che, sempre perfetta, fu determinante nella nascita del mito Agnelli. L'Avvocato, in compenso, non era celebre per la sua fedeltà, e in un'intervista a Gianni Minoli, per Mixer, spiegò: «Ho conosciuto mariti fedeli che erano pessimi mariti. E ho conosciuto mariti infedeli che erano ottimi mariti. Le due cose non vanno necessariamente insieme». Sul «Cigno» invece non si poteva dire niente, e lei sapeva di essere la sola di cui Gianni potesse affermare: «Viviamo insieme da una vita. A quel punto l'altra persona diventa una parte di sé: come si fa a dirsi amici? È di più, molto di più, è un pezzo di te stesso» (Gianni Agnelli, Rizzoli 2007). Sempre rimanendo dietro le quinte, lo consigliava sulle questioni più importanti, come la decisione di assumere la presidenza della Fiat nel 1966. A metà degli anni Sessanta cominciarono a trascorrere più tempo a St. Moritz, amata da Marella, e meno nel sud della Francia e a New York. Frequentarono di più una cerchia ristrettissima di torinesi, tutti ambivano a un invito a casa loro. Gli esclusi fingevano disinteresse e lamentavano che dagli Agnelli non si mangiava abbastanza, per fare intendere che avevano ricevuto un invito a pranzo. Più che di mondanità, Marella si occupava di iniziative benefiche. Combatté una battaglia per bandire gli zoo in Italia e ottenne la chiusura di quello torinese. Diede vita al gruppo Amici Torinesi dell'Arte Contemporanea, che organizzava mostre. Nel 1967 «Le Muse inquietanti. Maestri del Surrealismo», e nel 1971 un'altra sull'espressionismo tedesco, «Il Cavaliere Azzurro». Richiamò intorno a sé un circolo di intellettuali, artisti e scrittori, e nel 1975, fu tra i fondatori del Fai (Fondo Ambiente Italiano), che restaurò subito il Castello di Masino e il Castello della Manta, e rilanciò Area, un'associazione per aiutare i portatori di handicap.

Le arti visive - perfette per il suo temperamento di esteta impaziente - erano la passione intellettuale dell'Avvocato, e Marella aveva un gusto innato e coltivato con gli studi. Misero insieme una straordinaria collezione e nel 2002 lasciarono alla città di Torino la Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli, al Lingotto, con una parte delle opere raccolte per una vita: sei Canaletto e sette Matisse, La baigneuse blonde di Renoir e Velocità astratta di Giacomo Balla, Lanciers italiens au galop, dipinto nel 1915 da Gino Severini, due Picasso, uno del periodo cubista, l'Homme appuyé sur une table, e uno del periodo blu, L'Hétaire, La Négresse di Manet, un nudo di Modigliani, due vedute di Dresda del Bellotto, il dipinto di un alabardiere di Tiepolo e due sculture di Antonio Canova. L'Avvocato incoraggiò il talento di Marella per la decorazione di interni e i giardini spettacolari. A Villa Frescot, sulle colline torinesi, ne creò uno con alberi da frutto, un orto di piante aromatiche, una zona di fiori da taglio, bordature fiorite e siepi di bosso sagomato, nello stile tradizionale dei giardini piemontesi; nella casa, stuoie di vimini, tappezzerie ricercatamente semplici; realizzò una linea di stoffe con foglie, bacche e motivi floreali dai colori caldi su uno sfondo neutro, registrandola con il nome Italian Design, Inc. Poi cominciò a creare decori per la ceramica da tavola, mobili, asciugamani e carta da lettere. Nel 1977 le venne assegnato il «Product Design Award of the Resources Council inc.», una specie di Oscar del settore. Se gli oggetti potevano essere acquistati, pochi potevano vedere i suoi lavori nel verde, e pubblicò diversi libri sui giardini. Nella primavera del 1970 venne inaugurata, con una serie di cene, la nuova residenza romana, proprio di fronte al palazzo del Quirinale, che l'aristocratico stilista Hubert de Givenchy definì «l'unica casa contemporanea che possiede una vera grandezza». Lo chalet Chesa Alcyon, vicino a St. Moritz, comperato all'inizio degli anni Settanta, divenne il luogo preferito di Marella, specialmente quando Gianni partiva per i viaggi più lunghi. Nei pressi del monte Suvretta, con una vista a volo d'uccello sul lago Maloja, era la casa dove passava più tempo, dedicandosi al suo lavoro, agli amati cani husky e a «quello che è uno dei grandi lussi della vita: leggere». Si deve alla sensibilità artistica di Marella anche la nascita di una delle più curiose e affascinanti installazioni di arte contemporanea oggi presenti in Italia: l'immensa serie di opere costruita a Niki de Saint Phalle nel parco di Garavicchio, la casa di campagna dei Caracciolo in Maremma. Soprattutto, regalò al marito una perfetta organizzazione della vita quotidiana, indispensabile a un'esistenza bella e scattante come voleva lui. Finché, intorno al 2000, iniziarono le malattie, le disgrazie, i lutti, la crisi della Fiat, le liti giudiziarie con la figlia Margherita. «Anche i ricchi piangono», si diceva parlando di lei. Ma Donna Marella, così la chiamavano, ha avuto il bene di vedere tutto risolversi. Il gruppo è saldamente nelle mani di un discendente di Gianni e suo, John Elkann, e si è realizzato il sogno dell'Avvocato su una Fiat sempre più internazionale. A quasi ottanta anni decise che la sua vita sarebbe andata avanti, attiva, e l'attività preferita da Marella era rendere belle le case e i giardini. Comprò e rese magnifica una proprietà vicino a Marrakech, 26 ettari in una zona chiamata Aïn Kassimou, «l'occhio della fonte», che a volte aveva affittato insieme a Gianni. Ci passava l'inverno, coltivando il suo giardino.

"Moderna e trasgressiva. Il suo erede? È Lapo". Il critico: "Come la Venere del Botticelli, ha dato alla bellezza italiana un rilievo universale", scrive Paolo Giordano, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale.  «Era come la Venere di Botticelli, l'espressione di un nuovo Rinascimento italiano». Vittorio Sgarbi parla di Marella Agnelli a modo proprio, contestualizzandola e inserendola nel quadro piccolo e fascinoso delle nostre icone: «Dopo aver perso i Savoia, lei e Gianni erano diventati i veri re d'Italia».

In che senso?

«Non erano ricchi e potenti e basta. Rappresentavano, soprattutto lei, un modello di eleganza che ha ispirato anche la moda, da Roberta di Camerino ed Emilio Pucci in avanti».

Non a caso l'ha fotografata anche Richard Avedon.

«Le foto del cigno, hanno dato alla bellezza italiana una dimensione universale».

E poi Andy Warhol.

«Sceglieva immagini di potere oggettivo. La Coca Cola. Mao Zedong. Marilyn Monroe. E Marella Agnelli, una figura dall'enorme potere d'immagine».

Se dovesse definirla con una sola frase?

«Quella di Tamara de Lempicka: Io non seguo la moda, la faccio!».

C'è un erede di Donna Marella?

«Franca Sozzani lo è stata: ha rappresentato un portamento e un rilievo profondamente culturale della moda».

E adesso?

«Adesso la continuazione più naturale dello spirito pubblico di Marella Agnelli è Lapo Elkann, che è il più trasgressivo della famiglia ma anche quello capace di intuizioni che spiazzano».

Ecco, la famiglia. La morte violenta del figlio Edoardo ha quasi annientato la signora.

«Non sono certo Massimo Recalcati, ma forse il ruolo pubblico da immagine emblematica di Marella Agnelli può aver comportato minore attenzione all'ambito familiare. Ma non si può fare un processo. Di certo, quel trauma spaventoso l'ha fatta praticamente ritirare dalle scene».

Com'erano i vostri rapporti?

«La conoscevo molto bene. Una volta sono andato a trovarla a Roma in un palazzo bellissimo, dove c'era addirittura un capolavoro di Bellini».

Oltre a fotografa, designer e appassionata di giardinaggio, era anche una collezionista d'arte.

«Non molte opere ma molto ben selezionate. Avevo chiesto in prestito un Nudo davanti al camino di Balthus ma non era stato possibile concludere».

Il suo penultimo libro è stato Ho coltivato il mio giardino.

«E, come dicono i saggi cinesi, un essere umano raggiunge la perfezione quando riesce a fare il proprio giardino...».

Cesare Lanza per ''La Verità'' l'1 dicembre 2019. L'ho incontrato molte volte: forse gli ero simpatico, forse riceveva tutti. Chissà. Ogni volta ero affascinato dalla sua personalità. Era brillante, Gianni Agnelli, e rapido, curiosissimo. Una raffica di domande, una dietro l' altra, come se fosse lui a intervistarmi: voleva sapere ogni cosa, particolari e retroscena, ma con leggerezza, inarrivabile, elegante snobismo. Poi, di colpo - forse per la noia improvvisa, il suo vero problema esistenziale - si fermava e diceva: «Caro Lanza, non voglio approfittare ulteriormente del suo tempo», e mi congedava. Così fece sempre con me e così faceva con tutti, anche nelle riunioni di lavoro, quando sopraggiungeva, per lui non resistibile, la noia. Lo fece anche con Eugenio Scalfari, in un colloquio importante, e Scalfari si vendicò definendolo, in un memorabile articolo, «l' Avvocato di panna montata». Vi racconterò. A quel che se ne sa, Agnelli se ne infischiò, sicuro di sé, considerandosi superiore (o senza neanche prendersi la fatica di pensarlo, come succede a chi è davvero superiore). Solo una volta, quando mi congedò, borbottai che non avevo avuto il tempo di dirgli alcune cose. Sorrise, mi strinse la mano, senza una parola; e chi s' è visto, s' è visto. Unico! Era appagato, le curiosità si erano esaurite. Una volta mi interrogò sul terrorismo e le Brigate rosse. Un' altra, quando lavoravo in televisione, volle sapere com' erano, viste da vicino, le più belle donne dello spettacolo (in realtà si diceva che ne aveva sedotte molte, anche per una sola notte). Un' altra volta mi convocò per valutarmi per un eventuale incarico: bocciato senza appello. Devo dire che la mia simpatia per lui restò sempre intatta e anzi crebbe senza limiti. La stima, l' ammirazione invece no: esattamente al contrario. Sperperò il suo indiscutibile talento. Avrebbe potuto fare molto, per il benessere degli italiani. Si crogiolò nel compiacimento di sé, del rispetto che per lui avevano i più importanti personaggi del suo tempo, e anche per l' azienda fu un leader controverso (senza l' avvento di Sergio Marchionne la Fiat sarebbe fallita). L'oscuro Umberto, il fratello minore, non aveva il suo fascino, ma era infinitamente più intelligente come stratega di lui, e operativamente più coraggioso. Certo anche Cesare Romiti e Carlo De Benedetti (che fu a guida dell' azienda per pochi mesi e - si è detto - fu sul punto di portar via la Fiat agli Agnelli da sotto il sedere) erano dirigenti più capaci di lui. Giovanni Agnelli detto Gianni, meglio conosciuto come «l' Avvocato», per molti anni fu il vero simbolo del capitalismo italiano. Era nato a Torino il 12 marzo 1921. I genitori lo chiamarono con il nome del mitico nonno, il fondatore della Fiat. Gianni ne diventò leader dopo anni di apprendistato, nel ruolo di vicepresidente, all' ombra di Vittorio Valletta, altro grande manager che riuscì a portare l' azienda a eccellenti risultati, dopo la scomparsa del fondatore nel 1945. L'ingresso di Gianni Agnelli nella stanza dei bottoni, presidente con poteri assoluti, risale al 1966. Diventa subito una sorta di monarca italiano. La conduzione non è facile: contestazione studentesca, lotte operaie, terrorismo, stragi, crisi economica, scioperi continui. Il carisma comunque gli consente di affermarsi dal 1974 al 1976 come presidente di Confindustria. Era una garanzia di equilibrio e di conciliazione. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta, la Fiat si trova in mezzo a una tempesta. Agnelli si consolida nell' immagine, vezzi e tic diventano modelli di stile e raffinatezza: l'orologio sopra il polsino, la celebre erre moscia, le scarpe scamosciate, la cravatta sopra il maglione. Nelle interviste si permette battute taglienti, con sarcasmo e ironia su tutto. Nel 1991 è nominato senatore a vita da Francesco Cossiga. Nel 1996 passa la mano a Romiti (in carica fino al 1999). Il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli, dopo una lunga malattia, si spegne. I funerali si svolgono nel Duomo di Torino in forma ufficiale e trasmessi in diretta da Rai 1. Vi assiste una folla enorme, curiosa e commossa. Per ricordarlo, importanti alcune cose che ha detto: «Mi piace il vento perché non si può comprare», «Una cosa fatta bene può essere fatta meglio», «Ho conosciuto mariti fedeli che erano pessimi mariti. E ho conosciuto mariti infedeli che erano ottimi mariti. Le due cose non vanno necessariamente assieme», «Mi sono simpatici gli ecologisti. Ma hanno programmi costosi. Non si può essere più verdi delle proprie tasche», «L' autista non guida mai. Guido sempre io, è un' abitudine. Una volta, quando si andava a cavallo, si diceva 'c' è chi preferisce stare a cassetta e chi preferisce stare in carrozza'. Io preferisco stare a cassetta», «Non amo molto i consuntivi, soprattutto non mi piace il passato, amo il futuro e mi piacciono i giovani. La mia vita è stata tutta una scommessa sul futuro», «Ci si innamora a vent' anni; dopo si innamorano solo le cameriere». Di lui hanno detto Lapo Elkann: «È stato un nonno meraviglioso, ma non avrei voluto essere suo figlio». Il cuoco Giulietto: «Doveva venire a pranzo il presidente della Repubblica e mi dice: "Gli diamo i coglioni di toro. Pensa com' è bello dare due coglioni a un coglione"». Susanna Agnelli: «Criticava i nostri innamoramenti. Lui non era mai innamorato, considerava l' amore una sciocchezza, una noia. Più tardi cambiò idea È la persona più coraggiosa che io abbia conosciuto. [...] Ricordo quando durante la guerra, in un incidente d' auto, rimase ferito gravemente a una gamba. Adagiato su un lettino di fortuna mi guardò e mi vide in lacrime, allora portò un dito alla bocca e mi disse: zitta, non è niente». E ancora: «Lui è il capo famiglia nel senso più antico e più classico del termine. Un vero patriarca. Per noi è naturale rivolgerci a lui per dirgli: Gianni dovresti occupartene tu, dovresti parlare tu». Ed eccomi ai miei incontri. I giornalisti sanno bene che, quando desiderano avvicinarsi a un personaggio importante a tu per tu, almeno per la prima volta, debbono superare il muro degli addetti stampa, delle relazioni esterne, di assistenti, portavoce All' epoca, metà anni Settanta, Agnelli era tutelato da Luca di Montezemolo, il suo beniamino, e da Marco Benedetto: il primo, estroverso e affabile, bravo nel darti un' inattesa, apparente confidenza; il secondo, all' epoca un grande amico. Non ci provai neanche, ad affrontare o eludere il muro. Incontrare faccia a faccia l' Avvocato - tutti lo chiamano così, anche se avvocato non era, ma semplicemente laureato in giurisprudenza - era più o meno come provare a incontrare il Papa. Ma fui fortunato. Mi telefonò Piero Ottone e mi disse che Agnelli aveva curiosità di conoscermi. Mi accennò che probabilmente l' Avvocato cercava un direttore giovane per Stampa Sera (l' edizione del pomeriggio della Stampa). Ottone aveva rapporti privati frequenti con Agnelli, naturale che l' Avvocato si fosse rivolto a lui: Piero mi aveva assunto, giovanissimo, e lanciato senza esitazioni. «Ho parlato benino di te», mi disse sobriamente.

«Io leggo solo "L' Équipe"». Il colloquio, di mezz' ora o poco più, fu però un fiasco per me. Nella prima parte Agnelli mi tempestò di domande sulla mia direzione al Corriere d' Informazione e mi disse che gli era piaciuto un titolone, audace: «I metalmeccanici hanno ragione». Gli dissi che non era mio, ma del mio predecessore, Gino Palumbo. E lui: «Peccato, davvero un bel pugno nella pancia», con un sorriso affabile. Poi, domande senza tregua su diffusione, bilanci, redazione, firme, ambienti che frequentavo Il disastro avvenne quando mi chiese, di colpo, se avessi idee su Stampa Sera. Gli dissi ciò che pensavo. Bisognava, dissi, renderlo amato e popolare tra i dipendenti della Fiat, con attenzione minuziosa alle loro esigenze, familiari e private, e anche, ovviamente, di lavoro. Grande spazio alla Juventus, certo, ma anche di più al Torino, che dagli operai era largamente preferito («Ah, sì?», mormorò lui, dubbioso). Spazio ampio alle polemiche di ragionevole livello con Roma, per sottolineare la diversità di Torino. Infine la cronaca, molta cronaca! Con un linguaggio che rendesse popolare ciò che meravigliosamente aveva fatto Giulio De Benedetti, qualche lustro prima, alla guida della Stampa. Capii che l' Avvocato non mi seguiva affatto e stava precipitando nella trappola della sua vita: la noia. Di colpo mi disse la fatidica frase: «Caro Lanza, non voglio farle perdere altro tempo. La ringrazio, lei è molto simpatico». E non seppi più niente. Solo Ottone mi riferì una battuta educata di Agnelli, qualcosa come «un giovane interessante, ma grezzo, deve crescere». Dedussi che preferiva altri argomenti, la politica internazionale, la finanza e l' economia più di tutto. Forse - è un' ipotesi - le cronache locali lo urtavano, erano per lui volgari quanto i racconti degli amori che gli facevano la sorella e le conoscenti. Quanto fosse difficile entrare in sintonia con lo snobismo di Gianni Agnelli me lo aveva confidato Antonio Ghirelli tanti anni prima. Quando Totò dirigeva Tuttosport, fu consultato dall' Avvocato, che gli offrì la guida della redazione sportiva della Stampa. Ghirelli, disponibile, parlò con il capo del personale e si senti offrire la metà del compenso che percepiva al timone del quotidiano sportivo. Tornò da Agnelli per comunicargli il suo rifiuto. «Capisco il problema economico», commentò l' Avvocato. «Ma lei qui verrebbe alla Stampa!». E Ghirelli: «Ma io lascerei una direzione. Se mi ha chiamato, vuol dire che apprezza Tuttosport». E l' Avvocato, sempre affabile: «No, no. Io leggo solo L' Équipe». Quanto a me, che gli fossi simpatico, posso scriverlo sinceramente. Dopo la prima volta, senza problemi ottenni altri appuntamenti. Anche Scalfari ebbe una volta qualcosa da chiedergli: non gli garbavano le ingerenze di Eugenio Cefis nei giornali e voleva chiedere ad Agnelli perché non intervenisse, anzi perché avesse ceduto la sua quota del Corriere ad Andrea Rizzoli. L' Avvocato ascoltò, fece molte domande, poi d' improvviso si avvicinò in silenzio alla finestra del suo studio. Scalfari capì che Agnelli si era stufato, la noia aveva prevalso: si congedò, tornò a Roma e scrisse l' editoriale intitolato «L' Avvocato di panna montata».

Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 15 novembre 2019. Sono le 13:24 del 15 novembre 2000 quando l'Ansa batte la notizia: "Edoardo Agnelli, 46 anni, figlio del senatore a vita Giovanni Agnelli, è stato ritrovato cadavere sul greto del torrente Stura lungo l'autostrada Torino-Savona", sotto il viadotto "generale Franco Romano". Giunto sul luogo, Riccardo Bausone, procuratore capo di Mondovì, dichiara al Corriere della Sera: "Non ho le prove inoppugnabili per affermare che si tratti di suicidio. È una delle possibilità che stiamo vagliando. Le altre due sono: malore e omicidio". Eppure Bausone non ordina di fare l'autopsia, accontentandosi d'una ricognizione sommaria del cadavere. Ai quotidiani, però, viene detto che l'esame autoptico è stato effettuato. Solo nel settembre 2010, dopo una trasmissione tv di Giovanni Minoli, lo stesso magistrato ammetterà: "L'autopsia non fu eseguita, anche se allora fu detto fosse stata fatta". A 19 anni dal presunto suicidio del figlio dell'Avvocato il giornalista Antonio Parisi riapre il caso con Gli Agnelli. Segreti, misteri e retroscena della dinastia che ha dominato il Novecento italiano, presentato oggi alle 18 a Torino alla Feltrinelli di piazza Cln. L'inchiesta di Parisi fa seguito alle denunce, senza esito, presentate a diverse procure da Marco Bava, amico e collaboratore di Edoardo. E raccoglie il testimone del volume Ottanta metri di mistero di Giuseppe Puppo, del 2009, che nessun giornale importante volle recensire per autocensura e Fiat-dipendenza. Oltre all'autopsia mancata "c'è almeno una ventina di dati che contrastano contro quest'ipotesi. Tra cui lo stato del corpo, ritrovato dopo esser precipitato da 80 metri di altezza, sostanzialmente intatto e con i mocassini ai piedi. Gli esperti mi hanno spiegato che dopo una caduta da quella altezza persino gli scarponcini ben allacciati degli alpinisti, volano via". C'è di più. Un pastore ha confermato a Parisi d'aver visto il cadavere del figlio dell'Avvocato sotto il viadotto già alle 8, mentre le risultanze ufficiali fissano l'orario intorno alle 10. Nessuno, tra Procura e investigatori ha mai preso in considerazione il racconto di quell' uomo. L'indagine fu chiusa prima ancora d'esser aperta.

Gigi Moncalvo (gigimoncalvo.com il 17 novembre 2014) Il 15 novembre di quattordici anni fa, Edoardo Agnelli – l’unico figlio maschio di Gianni e Marella – moriva tragicamente. Il suo corpo venne rinvenuto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, nei pressi di Fossano. Settantasei metri più in alto era parcheggiata la Croma di Edoardo, l’unico bene materiale che egli possedeva e che aveva faticato non poco a farsi intestare convincendo il padre a cedergliela. L’unica cosa certa di quella vicenda è che Edoardo è morto. Non sarebbe corretto dire né che si sia suicidato, né che sia stato suicidato, né che sia volato, né che si sia lanciato, né che sia stato ucciso e il suo corpo sia stato buttato giù dal viadotto. Nel mio libro “Agnelli Segreti” sono pubblicati otto capitoli con gli atti della mancata “inchiesta” e delle misteriose e assurde dimenticanze del Procuratore della Repubblica di Mondovì, degli inquirenti, della Digos di Torino. Tanto per fare alcuni esempi non è stata fatta l’autopsia, né prelevato un campione di sangue o di tessuto organico, né un capello, il medico legale ha sbagliato l’altezza e il peso (20 cm e 40 kg. In meno), non sono state sequestrate le registrazioni delle telecamere di sorveglianza della sua villa a Torino, gli uomini della scorta non hanno saputo spiegare perché per quattro giorni non lo hanno protetto, seguito, controllato come avevano avuto l’ordine di fare dalla madre di Edoardo. Nessuno si è nemmeno insospettito di un particolare inquietante rivelato dalla Scientifica: all’interno dell’auto di Edoardo (equipaggiata con un motore Peugeot!) non sono state trovate impronte digitali né all’interno né all’esterno. Ecco perché oggi si può parlare con certezza solo di “morte” e non di suicidio o omicidio o altro. Dopo 14 anni l’inchiesta è ancora secretata – anche se io l’ho pubblicata lo stesso, anzi l’ho voluto fare proprio per questo -, e nessun necrologio ha ricordato la morte del figlio di Gianni Agnelli. Nella cosiddetta “Royal Family” i personaggi scomodi o “contro” vengono emarginati, dimenticati, cancellati. Basta guardare che cosa è successo alla figlia Margherita, “colpevole” di aver portato in tribunale i consiglieri e gli amministratori del patrimonio del padre: Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Siegfried Maron (il capo del “family office” di Zurigo che amministrava il patrimonio personale di Gianni Agnelli nascosto all’estero). Margherita, quando ci sono dei lutti in famiglia, viene persino umiliata mettendo il suo necrologio in fondo a una lunga lista, anziché al secondo posto in alto, subito dopo sua madre, come imporrebbe la buona creanza. Per l’anniversario della morte di Edoardo nessun necrologio su “la Stampa” né sul “Corriere” – i due giornali di proprietà di Jaky -, né poche righe di ricordo, nemmeno la notizia di una Messa celebrativa. Edoardo, dunque, cancellato, come sua madre, come Giorgio Agnelli, uno dei fratelli di Gianni, rimosso dalla memoria per il fatto di essere morto tragicamente in un ospedale svizzero. E cancellato perfino come Virginia Bourbon del Monte, la mamma di Gianni e dei suoi fratelli: Umberto, Clara, Cristiana, Maria Sole, Susanna, Giorgio. Gianni non andò nemmeno ai funerali di sua madre nel novembre 1945. Tornando a oggi Edoardo è stato ricordato da un paio di mazzi di fiori fatti arrivare all’esterno della tomba di famiglia di Villar Perosa (qualcuno ha forse negato l’autorizzazione che venissero collocati all’interno?) da Allaman, in Svizzera, da sua sorella Margherita e dai cinque nipoti nati dal secondo matrimonio della signora con il conte Serge de Pahlen (si chiamano Pietro, Sofia, Maria, Anna, Tatiana). Margherita ha fatto celebrare una Messa privata a Villar Perosa, così come a Torino ha fatto l’amico di sempre, Marco Bava. Tutto qui. I due nipoti di Edoardo, Jaky e Lapo, hanno dimenticato l’anniversario. Lapo ha trascorso la giornata a inondare agenzie e social network di stupidaggini puerili su Diego Della Valle. Invece di contestare in modo convincente e solido i rilievi del creatore di Hogan, Fay e Tod’s (“L’Italia cambierà quando capirà quanto male ha fatto questa famiglia al Paese”), il fratello minore di Jaky, a corto di argomentazioni, ha detto tra l’altro: “Una macchina può far sognare più di un paio di scarpe”. Evidentemente Sergio Marchionne non gli ha ancora comunicato che la sua più strepitosa invenzione è stata quella della “fabbrica di auto che non fa le auto”. E al tempo stesso, evidentemente il fratello di Lapo non gli ha ancora spiegato che la FIAT (anzi la FCA) ha smesso da tempo di produrre auto in Italia, eccezion fatta per pochi modelli di “Ducato” in Val di Sangro o qualche “Punto” a Pomigliano d’Arco con un terzo di occupati in meno, o poche “Maserati Ghibli” e “Maserati 4 porte” a Grugliasco (negli ex-stabilimenti Bertone ottenuti in regalo, anziché creare linee di montaggio per questi modelli negli stabilimenti Fiat chiusi da tempo: a Mirafiori lavorano un paio di giorni al mese 500 operai in cassa integrazione a rotazione su 2.770). Oggi FCA produce la Panda e piccoli SUV in Serbia, altri modelli in Messico, Brasile, Polonia (Tichy), Spagna (Valladolid e Madrid), Francia. Eppure Lapo una volta davanti alle telecamere disse di suo zio Edoardo: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto, un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi: due cose che non collimano l’una con l’altra, ma in realtà era così». A Villar Perosa “ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori”. Dice Lapo: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile… Quel che si aspetta da un padre, dei gesti di tenerezza, non parlo di potere… i gesti normali di una famiglia normale, probabilmente mancavano». E poi riconosce quanto abbia pesato su Edoardo l’indicazione di far entrare Jaky nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, Jaky è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui». Questo è vero solo in parte. Certo, Edoardo annoverava tra gli episodi che probabilmente vennero utilizzati per stopparlo e rintuzzare eventuali sue ambizioni, pretese dinastiche o velleità successori, anche la virtuale “investitura” – attraverso un settimanale francese – con cui venne mediaticamente, ma solo mediaticamente e senza alcun fondamento reale, concreto, sincero, candidato suo cugino Giovanni Alberto alla successione in Fiat. In realtà non c’era nessuna intenzione seria dell’Avvocato di addivenire a questa scelta, nessuno ci aveva nemmeno mai pensato davvero, se non Cesare Romiti per spostare l’attenzione dai guai giudiziari e dalle buie prospettive che lo riguardavano ai tempi dell’inchiesta “Mani Pulite”. Il nome del povero Giovannino venne strumentalizzato e dato in pasto ai giornali, una beffa atroce, mentre le vere intenzioni erano ben altre e quel nome così pulito e presentabile veniva strumentalizzato con la tacita approvazione di suo zio Gianni (lo rivela documentalmente in un suo libro l’ex direttore generale Fiat, Giorgio Garuzzo). Edoardo non conosceva in profondità questi retroscena, aveva anch’egli creduto davvero che la scelta del delfino fosse stata fatta alle sue spalle, si era un poco indispettito, non per la cooptazione del cugino, o perché ambisse essere al posto suo, ma perché riteneva che non ci fosse alcun bisogno di anticipare i tempi in quel modo, tanto più che a quell’epoca Giovannino era un ragazzo non ancora trentenne. C’era un altro punto che lo infastidiva: il fatto che Giovannino non lo avesse informato direttamente, i rapporti tra loro erano tali per cui Edoardo si aspettava che fosse proprio lui a dirglielo, prima che la notizia uscisse sui giornali. L’equivoco venne risolto in fretta. Giovannino non appena venne a conoscere l’irritazione di Edoardo per questo aspetto formale della vicenda, volle subito vederlo, si incontrarono, chiarirono tutto, il figlio di Umberto gli spiegò come stavano davvero le cose, e come stessero usando il suo nome senza che potesse farci nulla. Edoardo si indispettì ancora di più contro l’establishment della Fiat e si meravigliò che il padre di Giovannino non avessi reagito con maggiore durezza. Ma Umberto, francamente, che cosa avrebbe potuto fare? Stavano, per finta, designando suo figlio per il posto di comando e lui poteva permettersi di piantare grane? Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena ventidue e nemmeno era laureato. Edoardo, nella sua ultima illuminante intervista a Paolo Griseri de “il Manifesto” (15 gennaio 1998), dà una risposta netta sul suo, e di suo padre, “nipotino” Jaky: “Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto. Se quel posto fosse rimasto vacante per qualche mese, almeno il tempo del lutto, non sarebbe successo niente. Invece si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino”. Edoardo, e questo è un passaggio fondamentale, afferma che suo padre nutriva perplessità per quella scelta su Jaky. Sostiene che l’Avvocato “in un primo tempo non voleva dare il suo assenso”. Forse era davvero questa la realtà. Forse Gabetti e Grande Stevens già stavano tramando per mettere sul trono, dopo la morte dell’Avvocato, una persona debole, giovane, inesperta, fragile e quindi facilmente manovrabile e condizionabile. Le trame si erano concretizzate tra la fine dell’inverno e la primavera del 1996 e la vittoria di Gabetti e Grande Stevens era stata sancita nello studio del notaio Morone di Torino il 10 aprile. Fu quello il momento in cui Edoardo venne, formalmente, messo alla porta, escludendo il suo nome dall’elenco dei soci della “Dicembre”. Anche se, in base al diritto successorio italiano, al momento della morte di suo padre Edoardo sarebbe entrato di diritto, come erede legittimo, nella “Dicembre”. La società-cassaforte che ancor oggi controlla FCA, EXOR, Accomandita Giovanni Agnelli e tutto l’impero. Una società in cui Gabetti e Grande Stevens (insieme a sua figlia Cristina) e al commercialista Cesare Ferrero posseggono una azione da un euro ciascuno che conferisce poteri enormi e decisivi. Al di là di questo, c’era un’immagine che dava un enorme fastidio a Edoardo: che suo padre si circondasse in molte occasioni pubbliche, e private, di Luca di Montezemolo. In quanti hanno detto, almeno una volta: “Ma Montezemolo, per caso, è figlio di Gianni Agnelli?”. Comunque sia, un figlio, un vero figlio, che cosa può provare nel vedere suo padre che passa più tempo con un estraneo (perché è certo: Luca non è figlio dell’Avvocato, anche se ha giocato a farlo credere) piuttosto che con lui, ad esempio in occasioni pubbliche come lo stadio, i box della formula 1 durante i Gran Premi, per le regate di Coppa America, in barca, sugli sci, in altre mille occasioni. Un giorno di novembre del 2000 un signore di Roma era nell’ufficio di Gianni Agnelli a Torino per parlare d’affari. All’improvviso si aprì la porta, entrò Edoardo come una furia ed esclamò: “Sei stato capace di farmi anche questo! Hai fatto una cosa per Luca che per me non hai mai fatto in tutta la mia vita. E non saresti nemmeno mai stato capace di fare”. Sbattè la porta e se ne andò. Una settimana dopo è morto. Comunque sia, ecco perché Jaky non ha voluto ricordare nemmeno quest’anno suo zio Edoardo. Ma Lapo, che ha vissuto una vicenda per qualche aspetto analoga a quella dello zio e che per fortuna si è conclusa senza tragiche conseguenze (l’overdose a casa di Donato Brocco in arte “Patrizia”, la scorta che anche in questo caso “dimentica” di seguirlo, proteggerlo, soccorrerlo, e infine dopo l’uscita dal coma Lapo “costretto” a vendere le sue azioni per 168 milioni di euro), non avrebbe dovuto, non deve e non può dimenticarsi di zio Edoardo. E’ proprio vero: questi giovanotti, autonominatisi “rappresentanti” della Famiglia Agnelli” mentre invece sono solo degli “Usurpateurs”, non sanno nemmeno in certi casi che cosa voglia dire rispetto, rimembranza, memoria, dolore, culto dei propri parenti scomparsi.

PS: Discorso analogo per la Juventus. Sul suo sito ufficiale ha “dimenticato” di ricordare sia Edoardo, che fu consigliere d’amministrazione, che l’indimenticato Vittorio Chiusano, ex presidente e vero avvocato dell’Avvocato (lo tolse dai guai ai tempi di “Mani Pulite”), scomparso nel luglio 2003, sei mesi dopo la morte di Gianni Agnelli (e da lì, aspettando che morisse anche Umberto, cosa che avvenne nel maggio 2004, qualcuno trovò il “coraggio”, anche all’interno della Royal Family, per attivare i meccanismi di “Calciopoli”).   Non una riga, per nessuno dei due. Quando si dice lo “stile Juventus”.

Estratto dal libro "Casa Agnelli" di Marco Ferrante (Mondadori 2007) pubblicato da Dagospia il 24 febbraio 2019. Dal matrimonio con Marella Caracciolo di Castagneto, Gianni ebbe due figli, Margherita e Edoardo. Quando si sposarono lei era una ragazza che veniva da una famiglia principesca con pochi quattrini – suo nonno aveva dilapidato l’immensa fortuna di origine feudale che aveva ereditato –, era elegantissima e aveva una vocazione spiccata per la rappresentazione sociale del sé. Da ragazza aveva lavorato a New York come assistente del fotografo Erwin Blumenfeld. È sempre stata molto amata dai fotografi. Clifford Coffin la ritrasse nel 1949 e Richard Avedon negli anni Cinquanta. Il suo ruolo nel jet set internazionale ha il punto di massima celebrazione nel rapporto con Truman Capote. A Katharine Graham – amica degli Agnelli, proprietaria del «Washington Post» – Capote un giorno disse che, in un’ideale classifica della bellezza, Marella Agnelli sarebbe stata la più cara nella vetrina di Tiffany. In Infamous, il film sulla vita di Capote nel periodo in cui sta scrivendo A sangue freddo, Marella è presente nel ristretto numero delle amiche dello scrittore, insieme a Babe Paley (moglie del fondatore della Cbs) e Diana Vreeland. È interpretata da Isabella Rossellini. Nonostante il tratto icastico, Marella non ha lasciato nell’immaginario collettivo una traccia paragonabile a quella del marito. Molti pensano che ciò potrebbe essere dipeso dal rapporto sbilanciato a favore di lui. Ci sono fotografie bellissime che la ritraggono, ma tutte sostanzialmente fredde (comprese quelle di Richard Avedon, il quale l’adorava – dice la leggenda – per via del suo lungo collo). In un filmato di una recita di beneficenza alla fine degli anni Quaranta a Roma, Marella esegue un numero di danza con Gea Pallavicini (meno brava di lei). In una delle sue foto più belle – che non è in posa, né mondana, ma ritrae una scena di vita quotidiana – attraversa la pista di un aeroporto con suo marito. Marella ha figurato stabilmente nelle classifiche delle donne più eleganti del mondo, ed è una celebrità nel ramo giardini. Ha scritto tre libri sul tema, uno con la nipote Marella Caracciolo e con Giuppi Pietromarchi, un altro con il fratello Nicola. Ha collaborato con «Vogue» e ha disegnato stoffe d’arredamento. È molto riservata, poco propensa a parlare di sé o in pubblico. Chi non fa parte della cerchia ristretta delle sue amicizie la giudica una persona vaga, distante, sospesa sulla realtà. Chi la conosce, invece, invita a non sottovalutarne la discrezione e l’effetto che essa ebbe sulla coesione matrimoniale. Gianni Agnelli si considerava un buon marito, ancorché infedele, e non fece mai nulla per nascondere le sue infedeltà. Lei, invece, avrebbe preferito una storia diversa e pativa l’infedeltà. Era una donna all’inseguimento di suo marito. Tentava di controllare la situazione. Secondo alcuni testimoni e amici intimi questo atteggiamento pesò sull’educazione dei figli: per lei la coppia veniva prima della famiglia. Per lui, lei era sua moglie. Fu visto piangere quando fu sottoposta a un intervento chirurgico. Stava bene con lei ed era – e soprattutto sembrava – protettivo. Per esempio, quando lei esprimeva giudizi che avrebbero potuto essere rettificati, lui lasciava correre. E tutto questo era percepibile dagli altri. Ciò non significa che i loro rapporti fossero idilliaci. Avevano le loro turbolenze. Dopo la morte del figlio Edoardo e del marito, Marella trascorre molto tempo nella casa a Marrakech e in quella di Calvi. Il contributo Caracciolo alla formazione di Gianni fu superiore a quello che si pensa. Gianni acquisì dai Caracciolo una parte del suo personale birignao – modificò un poco il rotacismo, per esempio – e fu il suocero a trasmettergli alcune relazioni e la curiosità per la politica. Filippo Caracciolo fu sottosegretario agli Interni nel secondo governo Badoglio e segretario del Partito d’Azione. In generale, c’era nei Caracciolo un elemento di modernità e di anticonformismo rispetto alla società del dopoguerra. Gianni subì un misto di influenza e contaminazione molto visibile nel rapporto con il fratello maggiore di Marella, Carlo, fondatore del gruppo editoriale L’Espresso; secondo alcuni Agnelli, l’unica persona che gli tenne davvero testa. Come ricorda l’altro fratello, Nicola Caracciolo, i rapporti tra Carlo e Gianni attraversarono due fasi. Fino alla metà degli anni Settanta furono molto vicini. Gianni non entrò mai nel capitale dell’Espresso, ma la sua presenza protesse Carlo. Le cose si raffreddarono quando la Dc, soprattutto Amintore Fanfani, fece pressione su Agnelli perché esercitasse un ruolo di persuasione su Caracciolo e sulla linea editoriale del suo gruppo. All’inizio degli anni Settanta Caracciolo e l’Ifil avevano costituito una società editoriale – cui il gruppo L’Espresso non partecipava – che proprio in seguito a queste pressioni venne sciolta. Agnelli offrì al cognato, tramite Gianluigi Gabetti, la guida di una società editoriale americana, la Bantam Books. Carlo disse di no. Gianni si meravigliò del rifiuto e da quel momento – osserva Nicola Caracciolo – scese un’ombra tra i due. Inoltre Carlo si trovò diviso tra Agnelli ed Eugenio Scalfari, che attaccava il capo della Fiat considerandolo succube della Dc. La questione psicologica fra i due rimase intatta. Erano divisi, ma anche inestricabilmente legati, si influenzarono l’uno con l’altro. Erano amici, ma anche in competizione. Agli occhi di Agnelli, Caracciolo aveva una caratteristica di vitalità che lo affascinava. In un’intervista a Gianni Minoli, Agnelli confessò che se non fosse nato così ricco non lo sarebbe mai diventato. Caracciolo aveva l’energia, invece, di chi vuole riprendersi il suo posto nel mondo.

Quelle ultime ore nella sua Torino, la famiglia e i rischi di una nuova faida. Moncalvo: "La figlia vorrà la rivincita". Domani i funerali a Villar Perosa, scrive Andrea Cuomo, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. Nata principessa, vissuta da regina e morta da icona, Marella Agnelli, donna Marella come era chiamata da tutti si è spenta ieri mattina nella sua casa di Torino. I suoi ultimi giorni sono stati di silenzio e agonia, fine ineluttabile di una vita passata senza clamori, ancor più negli ultimi anni, dopo che l'Avvocato era morto e lei era rimasta sola ad amministrare l'impolverarsi gentile della sua inarrivabile eleganza. I pochi che potevano dire di conoscerla saranno ai funerali celebrati domani in forma privata a Villar Perosa dal vescovo di Pinerolo Derio Olivero. Gli altri sembrano accorgersi solo ora di quanto sia stata importante questa donna sottile, di una bellezza così poco italiana. La ricorda così suor Giuliana Galli, che di Marella fu grande pur se tardiva amica: «Ho conosciuto Marella Agnelli una ventina di anni fa in occasione di due mostre che facemmo insieme, un po' contrastate per l'epoca, una che ritraeva gli ospiti del Cottolengo, un’altra con volti di persone che venivano da lontano». Due esposizioni che dimostravano il coraggio di una donna «che sapeva prendere posizione anche su temi che non andavano di moda». La conosceva bene anche il conte Gelasio Gaetani Lovatelli dell'Aquila d'Aragona, amico del figlio Edoardo: «Marella faceva parte della mia famiglia. Era un'amica d'infanzia di mia madre, Lorian Franchetti. Donna colta, bellissima, di grande eleganza ed educazione. Oggi non esistono più donne come lei». Piange Marella la squadra della Juventus, che agli Agnelli ha legato un pezzo importante della sua storia e che oggi a Bologna giocherà con il lutto al braccio. Il tecnico Massimiliano Allegri, nel corso della conferenza stampa prepartita, dedica un pensiero per Donna Marella. Alessandro Del Piero, che della Juve è stato un simbolo, se la immagina «già a passeggio con l'Avvocato, in uno di quei magnifici giardini in cui amava rifugiarsi e di cui si prendeva cura». E Luciano Moggi, ex direttore generale della società bianconera, si dice addolorato perché «nutro un grande rispetto nei confronti dell'Avvocato e della sua famiglia». Tante le voci. «Era una donna molto riservata, vivevamo in mondi separati», il rispettoso ricordo del novantacinquenne Cesare Romiti, dal 1976 al 1998 prima amministratore delegato e poi presidente del gruppo Fiat. E il successore di Romiti Paolo Fresco: «Ho molto ammirato Marella Agnelli. Non posso dire di averla conosciuta bene perché era una persona riservata. Eppure la sua presenza si sentiva, si imponeva, perché aveva un carisma, una personalità forte». «Bellissima, eterea, sembrava una farfalla multicolore», dice aulica l'amica Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, che Marella contribuì a creare. «La ricordo come una donna di rara gentilezza e di grande discrezione. Non una condizione imposta ma una scelta voluta e custodita», dichiara Piero Fassino, ex sindaco di Torino e parlamentare del Pd. E l'attuale sindaco Chiara Appendino: «È stata una figura che negli anni, per il nostro Paese e non solo, ha rivestito un ruolo importante nel mondo dell'arte e della cultura». Ci offre un altro sguardo Gigi Moncalvo, giornalista e «biografo» non ufficiale degli Agnelli-Caracciolo, a cui ha dedicato tre libri: «La fase che si apre da oggi potrebbe essere quella della rivincita di Margherita Agnelli. Lei che finora è stata esclusa da ogni ruolo, è probabile che andrà ad una sorta di regolamento dei conti famigliare». Secondo Moncalvo la seconda filia di Marella potrebbe rivendicare tutto quello su cui la madre aveva l'usufrutto su disposizione di Gianni Agnelli. Non certo bazzecole.

Gigi Moncalvo per la Verità il 24 febbraio 2019. La royal family, o il poco che ne resta, perde la sua regina. Marella dei principi Caracciolo di Castagneto e di Melito, vedova di Gianni Agnelli, è morta per una crisi respiratoria la notte scorsa a Torino, a villa Frescot, la residenza dove ha vissuto accanto al marito fino alla morte di lui, nel gennaio 2003. A maggio avrebbe compiuto 92 anni. I funerali si svolgeranno domani, a Torino. Non si sa se donna Marella verrà sepolta a Villar Perosa, nella cappella privata degli Agnelli, oppure a Garavicchio, in Toscana. Ma questa ipotesi è da escludere: la salma verrebbe cremata, dopo quel che accadde a suo fratello Carlo, editore di Espresso e Repubblica, incenerito dalla figlia Giacaranda senza informare figli e parenti. Alle tre di notte, quando è spirata, Marella aveva accanto un paio di infermiere: nessun parente, neanche suo nipote Jaky, che abita nella stessa casa. Stavano dormendo: chi poco lontano da lei, chi in albergo. Quando si erano diffuse le voci sull' aggravarsi della sue condizioni, erano arrivati dalla Svizzera la figlia Margherita e i cinque nipoti de Pahlen (Pietro partito dalla Russia, Maria - informata in ritardo - è in viaggio da Tbilisi, in Georgia), Lapo e Ginevra. E poi Nicola, il fratello di Marella e attuale principe Caracciolo, con la moglie, principessa Rossella Sleiter, Marellina Chia (figlia di Nicola), insieme a Carlo jr. e Margherita, figli ed eredi di Carlo Caracciolo. Clamoroso l'ingresso di Margherita, dopo 15 anni che il figlio non le aveva più consentito di varcare la soglia di quella casa, che era ed è sua. La donna è rimasta 20 minuti con sua madre. Marella in estate era stata colpita da una broncopolmonite a Samaden, località svizzera scelta dopo aver lasciato St. Moritz per l'eccessiva altitudine. In quella circostanza, suo nipote John aveva creato un muro invalicabile intorno al capezzale della nonna, per impedirle contatti esterni. Compresi quelli con Margherita, che aveva lasciato il suo castello di Rougemont per correre dalla madre. Tutto aveva fatto pensare che fossero già in corso le «grandi manovre» dei due schieramenti (John da una parte, sua madre dall' altra) per preparare il terreno per l'eredità. C' è da prevedere che questa morte aprirà una nuova grande «guerra di successione» per l'enorme patrimonio della scomparsa, in gran parte all' estero.

Ci sono già alcune conseguenze immediate: prima fra tutte il passaggio automatico nella disponibilità completa di Margherita di molti beni: quelli su cui Marella aveva l'usufrutto, come indicato nel testamento di Gianni. Margherita avrà piena proprietà di ciò di cui ora aveva la nuda proprietà. Prima di tutto Villar Perosa, il simbolo della ex dinastia. Poi Villa Frescot, in collina a Torino - la residenza di Gianni Agnelli e in cui abita John Elkann con la sua famiglia (senza avere mai chiesto il permesso a sua madre). Quindi Villa Sole, poco lontano da Frescot, dove il padre aveva concesso di vivere al figlio Edoardo, pur senza intestargliela. Nello stesso perimetro c'è la lussuosa Villa Bona, una seconda residenza a poco a poco divenuta un elegantissimo pied-à-terre dell'Avvocato, progettato dall' architetto Amedeo Albertini e realizzato con immense pareti di vetro. Il quinto immobile è a Roma, all' ultimo piano di Palazzo Carandini in via XXIV maggio, di fronte al Quirinale. Margherita da ieri notte è divenuta proprietaria anche della preziosa collezione di 115 quadri, il cui elenco dettagliato fa parte dell'Accordo transattivo stipulato tra madre e figlia a Ginevra nel febbraio 2004 e che comprende tre Picasso, sei Paul Klee, un Goya, quattro Klimt, cinque Schiele. A Margherita erano già stati consegnati altri 114 quadri (più 41 in deposito a Villa Frescot). Bisognerà vedere a chi andranno altri 37 quadri di cui era piena proprietaria Marella. Il valore totale della collezione nel 2004 venne stimato, al ribasso, quasi 213 milioni da David Somerset, undicesimo Duca di Beaufort, allora titolare della Marlborough Gallery di Londra.

Un altro vantaggio immediato di Margherita è quello di non dover più pagare alla madre un assegno mensile di circa 700.000 euro, chiesto 15 anni fa da Marella quale parziale compensazione del «minore introito» che riteneva di aver subìto. In questi anni la figlia ha versato alla madre 126 milioni. Quanto a John, Margherita potrebbe sfrattarlo da Villa Frescot (lui si è preparato, facendosi costruire una villa poco lontano con tre piani sotterranei, vicino a quella di Cristiano Ronaldo). Margherita è ancora irritata perché John, dopo le nozze con Lavinia Borromeo nel settembre 2004, prese possesso della villa del nonno senza chiedere il permesso a sua madre, nuda proprietaria.

Sia che Marella abbia lasciato o meno un testamento, la sua unica erede in linea diretta è la figlia. Ma gran parte dei beni si trova sicuramente all' estero, e quindi è difficile stabilirne l'ubicazione e risalire ai beneficiari. Marella è morta in Italia, è cittadina italiana (iscritta all' Aire come residente all' estero), e quindi vale la giurisdizione italiana in materia successoria. Soprattutto per quanto riguarda l'accordo tombale firmato nel 2004 tra madre e figlia, in cui quest' ultima si riteneva «soddisfatta» e rinunciava ai diritti ereditari. L' accordo però fu firmato a Ginevra, e quindi per la legge italiana è nullo poiché in contrasto col nostro diritto successorio. Nel frattempo, Marella potrebbe aver mutato la situazione con donazioni, specie ai primi tre nipoti. Potrà Margherita far valere la sua «legittima»? Se non vi fosse questo patto, Marella sarebbe libera di dare a terzi solamente il 25% del proprio patrimonio, dato che la «legittima» svizzera per i discendenti, in assenza di coniuge, è del 75%. Ciò che avrà rilievo sarà la «residenza abituale» di Marella, oppure l'ultimo domicilio. Muovere la «cara nonnina» nel luogo e nel tempo più opportuno potrebbe essere stata la strategia da adottare, qualora un suo nipote avesse voluto neutralizzare e spuntare qualsiasi arma nelle mani di Margherita. La questione è molto complessa e affonda nel tema di diverse norme applicabili, della giurisdizione sul caso e del cosiddetto «rinvio» di una legge a un'altra. Vanno incrociati il Regolamento Ue, il vecchio trattato consolare del 1868, e la legge svizzera. Ecco i vari scenari. Marella è morta in Italia ed è residente in Svizzera. In questo caso si applica la legge italiana, legge che altro non è che il Regolamento Ue: ma siccome esso rinvia alla legge svizzera come luogo di residenza abituale, nei fatti la legge applicabile alla successione di Marella sarà quella svizzera. In tal caso, Margherita «perde» e il patto successorio resta valido. Se invece Margherita dimostra che Marella non aveva come residenza abituale la Svizzera ma l'Italia, la legge applicabile alla successione è quella italiana. In tal caso, Margherita «vince»: sarebbe nullo il patto successorio tra lei e sua madre.

C' è un altro aspetto da non dimenticare: quello fiscale. Prima di tutto si applica la legge sulla base della residenza fiscale del defunto al momento della morte. Essendo Marella venuta a mancare come residente in Italia, si applica su tutti i beni l'imposta di successione italiana (4% con franchigia di un milione di euro). In più, ma solo in teoria, c' è l'imposta di successione svizzera sui beni presenti in territorio elvetico. Oltre ad eventuali altre imposte estere su beni situati in altri Paesi. Secondo alcune fonti, il patrimonio di cui disponeva Marella era immenso: 5,8 miliardi di euro (secondo i «Panama Papers») più 9,2 miliardi di euro in oro. Si tratterebbe dell'«oro del Senatore», quello che Gianni Agnelli avrebbe ricevuto nel 1945 alla morte di suo nonno, e che riguardava i profitti derivanti dalle forniture Fiat per la prima e la seconda guerra mondiale. Questo presunto deposito in lingotti ammonterebbe 138 tonnellate con un volume di 71.254 litri. Tale oro, dopo essere spostato da Basilea, sarebbe nel Free Port dell'aeroporto di Cointrin a Ginevra.

Il punto è: come faranno gli eredi a entrarne in possesso? Sarà necessario presentarsi con il documento di legittimazione. Se fosse vero che c'è l'oro, FreePort avrà certo identificato un «legittimario» dell'oro che probabilmente nel frattempo sarà a mancare. In tal caso, sono i suoi «aventi causa» ad avere la possibilità di entrare. A meno che l'oro non sia stato conferito in qualche trust o donato a qualcuno con passaggi vari in modo, che il controllo effettivo sia oggi nelle mani di colui o coloro che l'Avvocato voleva. È chiaro che se Margherita diventasse unica erede di Marella e quell' oro fosse intestato a lei, ragionevolmente Margherita potrebbe entrarne in possesso. Bisogna dire, però, che tutta la vicenda dei trust, nonché l'apparente leggerezza con cui Gianni Agnelli ha conferito enormi poteri ad alcuni «furbacchioni», lascerebbero pensare all' eventualità di possibili appropriazioni o altre clausole che forse hanno del tutto privato la famiglia del controllo su questi asset.

AGNELLI, UNA FAMIGLIA IN TRIBUNALE. Gigi Moncalvo per “la Verità” il 21 marzo 2019. Un infarto e altri due mesi di sofferenza e lontananza per la madre e per i suoi due bambini. Rinvio e prossima udienza fissata al 29 maggio. Il giudice di pace del distretto svizzero di Morges, Vèronique Loichat Mira, ha accettato la richiesta dell' avvocato Matthieu Genillod di Losanna, che rappresenta Maria de Pahlen, la prima dei cinque figli di Margherita Agnelli e del suo secondo marito, Serge de Pahlen nella causa in cui i genitori chiedono che venga ritirata la patria potestà alla figlia sui suoi due bambini, Anastasja e Serghiey, che i nonni hanno in custodia da sette anni. Il legale ha parlato di gravi difficoltà di salute della sua cliente a causa di un infarto sopravvenuto nei giorni scorsi. Un dettagliato rapporto medico stilato a Tbilisi, e tradotto in inglese, attesta «l'impossibilità di viaggiare a causa del grave stato di salute». L'avvocato aggiunge che, data la situazione, i medici gli hanno perfino impedito di comunicare con Maria per non aggravare le sue condizioni. Infine, Genillod sottolinea che la sua cliente attribuisce un' importanza fondamentale alla procedura in corso e all'autorità del Tribunale, e non intende assolutamente accettare che le venga revocata l'autorità materna sui suoi due figli. Pertanto desidera far valere appieno i suoi diritti di madre davanti all' autorità dei giudici, che ringrazia per la comprensione. Durante l'udienza è emerso che Maria qualche giorno fa ha inviato una lettera personale al giudice di pace, presidente della corte. Si tratta di un documento riservato che non è stato letto in aula. Un aspetto positivo è emerso: per la prima volta Maria ha difeso le sue ragioni, non si è fatta schiacciare e mettere nell' angolo, ha cominciato a reagire smettendo di subire. A questo certo ha contribuito l'articolo della Verità che ha portato alla luce la segretissima vicenda e anche un ignoto finanziatore che le ha consentito di trovare, e pagare, un buon avvocato svizzero che per la prima volta la difendesse con decisione e saggezza. Sul fronte di Margherita Agnelli, i suoi due rappresentanti in Italia, il procuratore speciale Roberto Cattro di Torino e l'avvocato Dario Trevisan di Milano, non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione sulla delicata vicenda. Il legale - che tra l'altro batté l'Ifi, la cassaforte del gruppo Fiat, in una vicenda legata alla vendita della Toro assicurazioni - è colui che si occupa sul fronte italiano dell'azione attivata in Svizzera da Margherita Agnelli nei primi mesi del 2018 per chiedere che vengano dichiarati nulli gli accordi stipulati con sua madre Marella nel febbraio 2004. Sulla base di due pareri dei più importanti giuristi di Zurigo e Basilea, sembra siano stati trovati alcuni «errori sostanziali» contenuti negli accordi che farebbero propendere per le tesi di Margherita. Il che significherebbe che John Elkann, in caso il Tribunale di Ginevra decidesse in tale direzione, dovrebbe restituire alla madre le azioni di controllo di «Dicembre», «Accomandita Giovanni Agnelli», e di converso anche quelle di società che allora si chiamavano Ifi e Ifil (cioè l'attuale Exor) e Fiat (e quindi Fca). Un autentico terremoto, dunque, anche perché John dovrebbe restituire le azioni al valore elevato di oggi e non a quello irrisorio (si fa per dire) di 15 anni fa. Si tratta di una causa destinata ad avere grosse ripercussioni, basti pensare a quel che accadrebbe in borsa, specie dopo la morte di Marella Agnelli che ha nominato i tre nipoti Elkann eredi universali dei suoi beni (all'estero, poiché in Italia la defunta aveva solo usufrutti che sono venuti meno con la sua morte e sono andati a favore della figlia, come indicato nel testamento di Gianni). A John è andata la villa di St. Moritz appartenuta all'ex Shah di Persia (John aveva già provveduto ad ampliare la proprietà nel corso degli anni acquistando terreni e chalet), a Lapo è toccato un piccolo ed elegante chalet all'inizio della salita che porta al villone del fratello, a Ginevra la nonna ha lasciato la villa di Lauenen nell'Oberland bernese. Per il riad di Marrakesh - che appartiene alla società Yuki, in omaggio al nome dell'adorato cane giapponese di Marella di razza akita, simile al famoso Hachiko - la questione è nelle mani del re del Marocco, Muhammad VI, che è proprietario di ogni bene nazionale, specie se si tratta di una grande riserva d'acqua come quella di Ain Kassimou. Sembra che Ginevra Elkann, presidente di Yuki con sede in Lussemburgo, sia riuscita a ottenere dal sovrano la proroga della concessione sul riad per altri cinque anni. Per quanto riguarda il punto più scabroso, e cioè la causa pendente in Svizzera sulla nullità degli accordi, Margherita avrebbe attivato l'avvocato Trevisan per vedere se esiste una possibilità di mediazione con suo figlio John, il quale avrebbe tutto l'interesse a far ritirare la causa. Ma da Torino sarebbe arrivato un secco rifiuto. John, che è assistito dall'avvocato «storico» di sua nonna, Carlo Lombardini di Ginevra, facendo questa mossa ha chiuso ogni spazio alle trattative: infatti sa bene che Lombardini, che fu uno dei fautori ed estensori di quegli accordi del 2004, non accetterebbe mai di ammettere che quei documenti presentavano, secondo gli odierni legali di Margherita, presunti errori formali. Tutto in alto mare, dunque.

Gigi Moncalvo per “la Verità” il 19 marzo 2019. Quanti problemi. E che problemi, in casa Agnelli-De Pahlen-Elkann. No, non si tratta dell'eredità e del testamento di donna Marella, scomparsa il 23 febbraio scorso a 92 anni, ma di una vicenda ben più grave e dai contorni molto sgradevoli. Domani, mercoledì, appena tre giorni prima della messa di trigesima della defunta che vedrà i resti della ex royal family riunirsi (verosimilmente commossi) a Torino al Santuario della Consolata, accadrà qualcosa di grave che va in direzione contraria, a dimostrazione che la famiglia è sgretolata e che all' apparenza non corrisponde la sostanza. In Svizzera, nel Tribunale di Morges, cantone di Vaud, poco lontano da Allaman, sul lago Lemano, si terrà l'udienza finale dell'incredibile processo rimasto segreto che sette anni fa Margherita Agnelli e suo marito Serge De Pahlen hanno intentato contro la primogenita Maria per portarle via i due figli. Al termine di una lunga vicenda giudiziaria attivata da Margherita e Serge nel 2012 contro la loro figlia, il giudice di pace del distretto di Morges, Véronique Loichat Mira, dovrà decidere se Anastasja Marella e Sergey (che portano il cognome del loro padre, Maevskiy) vanno tolti definitivamente alla loro madre (come chiedono i nonni) e possono continuare a vivere in Svizzera a casa di Margherita e Serge oppure deve essere nominato un tutore fino a che diventeranno maggiorenni (pur continuando ovviamente a restare di fatto sotto il «controllo» dei nonni nella loro casa). La bambina ha poco meno di tredici anni e il bambino non ne ha ancora compiuti dieci. Da sette anni vivono in Svizzera con i nonni, lontani dalla loro madre che può contattarli a giorni e ore stabilite ma solo attraverso lo schermo di Skype e con telefonate sempre più brevi, poiché spesso la nurse rumena, Rodica Gurau, non glieli passa al telefono accampando scuse diverse. Maria De Pahlen, la madre dei due bambini (ne ha un terzo, Roman, di tre anni che vive con lei a Tbilisi in Georgia), ha 36 anni ed è la quarta nipote di Gianni e Marella Agnelli, essendo la prima dei cinque figli di Margherita e Serge De Pahlen: Pietro (33 anni), le gemelle Anna e Sofia (31 anni) e Tatiana (29 anni). Maria, dunque, è anche la sorellastra dei figli di primo letto di sua madre, gli Elkann: John (43 anni, sposato con Lavinia Borromeo, tre figli), Lapo (42) e Ginevra (40 anni, sposata con Giovanni dell' Aquila Gaetani d' Aragona, tre figli). Maria, che è nata a Rio de Janeiro, ha vissuto per lunghi anni ed è cresciuta insieme a John, Lapo e Ginevra, abitando con loro nelle diverse «peregrinazioni» familiari tra Brasile, Londra, Neuilly sur Seine vicino a Parigi e infine Allaman, vicino a Ginevra. In questa vicenda i tre fratellastri, anziché stare vicini a Maria ed aiutarla, le hanno in pratica voltato le spalle. John non le rivolge la parola da dieci anni, poiché la considera responsabile di aver complottato alle sue spalle con la madre. Come si è arrivati a questo processo? Come hanno potuto i genitori di Maria portarle via i suoi due figli? Tutto comincia nel 2006, quando Maria (a 23 anni) sposa a Mosca Georgy Maevskiy, un ragazzo georgiano conosciuto all'università Lomonosov della capitale russa, dove studia legge e scienze politiche. Le frizioni con i suoi genitori cominciano in quel momento: Margherita e Serge sono contrari a quel matrimonio e cambiano la serratura della casa di Mosca di Maria (che viveva in un appartamento di suo padre). Maria viene convinta dai genitori a stipulare una sorta di contratto prematrimoniale con Georgy. Lo fa perché non vuole rinunciare alla sua bambina e, prima che nasca, torna in Svizzera con il giovane marito. Il quale però viene trattato malissimo dai suoceri, non parla altra lingua che il russo e nel lavoro che gli viene affidato a Ginevra nella casa editrice di Serge De Pahlen si trova a subire molte umiliazioni. Il 30 giugno Maria mette al mondo la sua prima bambina, Anastasja Marella, e la fa nascere in Svizzera, a Samaden, la località dove vive donna Marella. I genitori e la bambina tornano in Russia, questa volta in Siberia dove Georgy ha trovato lavoro come vicepresidente della Camera di commercio. Intanto Maria va in Altaj, nella città di Gorno Altaisk, a quasi quattromila km da Mosca: qui, il 15 settembre 2009, nasce Sergey Maevskiy. I problemi familiari diventano assillanti, il matrimonio finisce nel 2010. La separazione è molto burrascosa, il padre dei bambini dà battaglia e, li usa come «ostaggi» minacciando di tenerli con sé. Maria si spaventa. Dalla Svizzera partono i suoi genitori. Convincono la figlia a lasciar partire con loro i nipotini e portarli in Svizzera per le feste di Natale. «Dopo due settimane li riprenderai con te», dicono i nonni alla figlia. Lei li raggiungerà appena possibile. Ma il genero non firma il permesso sui passaporti dei suoi figli, e presenta in Tribunale una dettagliata memoria in cui accusa la sua ex-moglie. Serge De Pahlen riesce a ottenere in poche ore attraverso l' amico Guran Mokia che ha agganci al Mid (il ministero degli Esteri) due nuovi passaporti per i nipotini. Ma il genero riesce a impedire lo stesso la loro partenza con un blitz all' aeroporto di Sheremetjevo.

In sole 24 ore viene però ridotto a più miti consigli con una montagna di denaro, e finge di togliersi dai piedi. L' ultima pugnalata a Maria la dà consegnando a Margherita e Serge il documento contenente le inverosimili accuse («des horreurs», degli «orrori») contro Maria. Anastasja e Sergey lasciano così la Russia e non vi faranno mai più ritorno, entrano ad Allaman e cominciano la loro vita con i nonni. Maria li raggiunge per le feste di fine anno, poi deve ripartire per la Russia per completare le procedure del divorzio. Da quel momento, in pratica, i suoi figli non saranno più suoi. La promessa di tenerli solo due settimane non viene mantenuta. Per vicissitudini inenarrabili, Maria - tormentata e vessata dall' ex marito, lasciata senza denaro dai genitori, senza casa e in precarie condizioni di salute - riesce a rientrare in Svizzera solo nel 2013 quando finalmente ottiene il divorzio. Quando vedono la mamma dopo due anni i bambini reagiscono così: Anastasja le dice di trovarla cambiata, Sergey la saluta con un «Buongiorno madame», come fosse un' estranea. Ricostruire il rapporto è molto problematico. Margherita e Serge nel frattempo, il 15 maggio 2013, hanno mandato a processo la figlia attivando giudiziariamente contro di lei una procedura di «limitazione dell' autorità genitoriale» e di «ritiro del diritto di custodia». Il 7 giugno si tiene la prima udienza e nei verbali ci sono dichiarazioni incredibili e di rara crudeltà. Il 13 giugno i tre giudici (Véronique Loichat Mira, Loika Lorenzini, Jacques Gisclon) ammettono le richieste dei genitori di Maria, affidano la custodia dei bambini e ordinano un rapporto periodico sulla situazione al Servizio di protezione dei minori (Spj) che ovviamente individua villa Agnelli ad Allaman come «luogo adatto ai loro interessi», decidono di proseguire l' inchiesta contro la madre, ritirano i passaporti dei due bambini e li consegnano a un' assistente sociale. La botta per Maria è terribile: in sostanza le hanno portato via i figli. È disperata. Accetta di vivere in Svizzera accanto alla villa dei genitori, che però non le lasciano i bambini. Li può vedere solo con sporadici permessi. I servizi sociali non intervengono. Maria si sente sempre più sola, i genitori l' hanno trascinata senza alcun riguardo in questa situazione, fratelli e sorelle le hanno girato le spalle: preferiscono parteggiare per Margherita, che passa loro 15.000 euro al mese, piuttosto che per Maria che viene ulteriormente «punita» e messa in disparte con un' elemosina: 1.200 euro al mese, 13 volte meno che agli altri (primi fra tutti Pietro che si occupa di edilizia e supermercati in Russia e in Cina, e Tatiana, che a 29 anni è fidanzata con uno degli uomini più ricchi del mondo, il settantenne magnate svizzero Maurice Amon, il quale con la sua azienda Sicpa produce carta e inchiostri per le migliori e più sicure banconote del mondo). Maria scrive a fratelli e sorelle, denuncia i presunti soprusi della madre, non ottiene solidarietà: nessuno osa mettersi contro Margherita. John non si fa trovare, Lapo cazzeggia, Ginevra ascolta e basta. Maria parte, va in Georgia, sopraffatta dalla solitudine e dalla disperazione desidera un altro figlio. Il 5 ottobre 2016 a Mosca nasce Roman. Ma il padre, spaventato dal potere e dagli «avvertimenti» che gli arrivano dalla Svizzera, parte per il nord della Russia e sparisce. Il bimbo quindi porta il cognome della madre. Maria ora abita a Tbilisi, recentemente ha dovuto lasciare il piccolo appartamento in affitto perché la caldaia si era rotta, lei non aveva i soldi per ripararla e la padrona di casa non voleva. In Georgia questo inverno molte persone sono state intossicate di notte dall' ossido di carbonio perché gli uccelli cercano riparo nei camini e li intasano. Maria non ha i soldi per andare all' udienza decisiva di mercoledì in Svizzera. Ha letto le ultime carte e ha capito che la sentenza è già scritta: nuove accuse false di sua madre e suo padre, una inveritiera perizia di tale dr. M. Chanez, esperto di psicoterapia infantile, il quale stila giudizi medici su di lei senza averla mai incontrata né visitata, addirittura l' entrata in scena di un altro medico, il dr. Mayor, psichiatra personale di Margherita Agnelli (il che dunque implica che lei sia da tempo in cura) che sostiene che la danneggiata sia lei e non Maria. Quest' ultima non sa ancora come uscirà, psicologicamente, da questa «sconfitta» che lei ritiene prevedibile, ingiusta, già scritta. Qualcuno le ha messo a disposizione un avvocato di Ginevra, ma lei è pronta a combattere: vuole chiedere il disconoscimento di paternità verso i suoi genitori, e che sia la giurisdizione italiana a occuparsi del caso, dato che i suoi figli hanno passaporto italiano e russo. E dunque come può la magistratura svizzera occuparsi dei minori cittadini di un altro Paese?

CHI ERA GIOVANNI AGNELLI: CURIOSITÀ SULL’IMPRENDITORE. Donnemagazine.it il 16 dicembre 2019. Chi era Giovanni Agnelli, imprenditore che fondò la FIAT e senatore del Regno d'Italia: i dettagli sulla carriera e la famiglia.

Giovanni Agnelli, nonno del più famoso Gianni, fu il fondatore della storica casa automobilistica italiana FIAT e capostipite della famiglia Agnelli. Fu anche un politico e senatore del Regno d’Italia ai tempi della monarchia e vicino al Partito fascista durante il regime di Mussolini.

Giovanni Agnelli. Giovanni Agnelli nasce nel comune piemontese di Villar Perosa il 13 agosto 1866 da una famiglia già molto facoltosa di proprietari terrieri. Finisce gli studi a Torino per poi arruolarsi nell’Accademia militare di Modena. In quel periodo però si facevano strada in Europa le nuove invenzioni tecnologiche che rendevano la vita più comoda e le idee positiviste. Agnelli iniziò quindi ad interessarsi a questo campo e alla meccanica: fa alcuni tentativi che però non vanno a buon fine. Decide così di tornare a Villar Perosa dove cura le proprietà terriere e ricopre la carica di sindaco. Nel 1899 tenta di nuovo la carriera imprenditoriale: fonda poi la Fabbrica Italiana Automobili Torino cioè la FIAT. L’azienda ottiene subito un grande sviluppo anche grazie all’amicizia con il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Anche la produzione della “Tipo 1 Fiacre”, prima automobile pensata come taxi, ottiene un grande successo internazionale. Il boom della FIAT avviene però durante la Prima Guerra Mondiale, durante la quale fornisce armi e materiale all’Esercito. L’azienda si diversifica, iniziando a produrre costruzioni navali e motori d’aviazione. Negli anni ’20 del Novecento, Agnelli fonda lo stabilimento del Lingotto a Torino dove impianta la prima catena di montaggio italiana. Sempre in quegli anni Giovanni Agnelli diventa senatore del Regno d’Italia. Durante la Seconda Guerra Mondiale viene prodotta la prima Cinquecento che ottiene un enorme successo mondiale. Viene poi accusato dal CLN di compromissione con il regime fascista. Alla fine dei suoi giorni, il senatore scelse suo nipote Gianni come successore a capo della FIAT.

Vita privata. Nel 1889 Giovanni Agnelli sposa Clara Boselli. Da lei avrà due figli: Aniceta Caterina, nata nel 1889 ed Edoardo nel 1892. Quest’ultimo sposerà poi la nobildonna Virginia Bourbon del Monte e dalla loro unione nasceranno 7 figli tra cui Gianni, Susanna e Umberto Agnelli. Edoardo morirà giovane a causa di un incidente aereo: la tragica scomparsa del figlio scatenerà degli aspri scontri tra Giovanni Agnelli e la vedova del Monte per la tutela dei loro figli.

Gli eredi Agnelli come nessuno ve li ha mai raccontati. Con l'operazione Fca-Renault avrebbero incassato un assegno miliardario (sfumato). Perché in famiglia c'è chi vorrebbe uscire dal ramo auto. Panorama 12 giugno 2019. Alla fine di ogni riunione annuale della Giovanni Agnelli Sapaz, l’accomandita che riuniva tutti i rami della famiglia (oggi si chiama Giovanni Agnelli BV ed è una società di diritto olandese), l’Avvocato, più annoiato e infastidito del solito per quel rituale così scontato e ripetitivo, chiudeva la sua breve relazione al microfono con questa frase: «È tutto. Non ci sono domande, vero?». Nessuno osava alzare la mano, nemmeno Lupo Rattazzi che solo dopo la morte dello zio Giovanni sembra aver ritrovato una certa baldanza specie contro il ricordo e il nome della buonanima. Agnelli, da autentico Manitou (il Grande spirito, come lo chiamavano) si guardava in giro e aggiungeva beffardo: «E allora dichiaro chiusa l’assemblea. Potete passare alla cassa a ritirare il vostro assegno. È la vera e unica ragione per cui oggi siete qui. Arrivederci al prossimo anno». L’esercizio dello stacco della cedola è sempre stato la specialità in cui tutti i rami della ex royal family (tra cui persone perbene intelligenti e geniali, vedove e figlie, sorelle e fratelli, zie e nipoti, nati di primi e secondi letti, cugini e parenti acquisiti, casalinghe pseudo esperte di finanza, ma, per la gran parte emeriti fancazzisti soprattutto nell’ultima generazione) hanno dato il meglio, dimostrando nel corso degli anni profondo interesse e indiscussa passione per la materia. Per fortuna ci sono anche alcune lodevoli eccezioni, ma la gran parte non ha dimenticato la volta in cui - la prima in tanti anni, subito dopo la morte dell’Avvocato e poi di Umberto - furono costretti a mettere mano al portafoglio, non per incassare ma per ricapitalizzare. Poi, grazie a Sergio Marchionne, quel «prelievo» è terminato anche se, da anni, non c’erano più cedole. Il «numero 1» fin dall’inizio aveva capito che c’era un solo modo per tenere lontano quel numeroso parentado assetato di denaro: garantirgli il pagamento delle cedole. Marchionne giustamente riteneva che non dovessero interessarsi di altro, tantomeno disturbare il suo lavoro o chiedergli inutili appuntamenti. A questo era delegato John, e forse questa era la vera e unica delega che Marchionne gli aveva magnanimamente conferito... Il giovanotto aveva fatto tanti sforzi per essere considerato e comportarsi da «capo-famiglia», come si era auto-nominato con la complicità di Gianluigi Gabetti e Franzo Grande? Ebbene, lo facesse. Tenesse a bada quell’orda famelica, talvolta firmasse pure quegli assegni per la ex royal family, ma non si allagasse troppo e non li lasciasse avvicinare agli «affari di famiglia», a quel «tutto in famiglia» cui si è tornati dopo la morte di Marchionne. A meno di un anno dalla morte del vero cervello di Fca Group-Exor-Ferrari, John si è sentito come liberato dalle «catene» in cui era stato avvolto. Poteva inebriarsi del potere assoluto, finalmente poteva fare di testa sua senza rendere conto a nessuno. John da allora sembra pervaso da una incontenibile frenesia: diventare sempre più ricco, monetizzare quanto più è possibile, liquidare le «vecchie» attività, fottersene delle raccomandazioni del nonno. John si sente ancora più libero dopo che anche Gabetti se n’è andato. Lo aveva già privato di deleghe, incarichi, persino ufficio, autista e carte di credito aziendali (facendogli pagare di persona i 120 euro giornalieri della piccola stanza 108 dell’NH Lingotto in cui viveva da tempo). Cercava di fare il vuoto intorno al novantaquattrenne Richelieu, lo osteggiava in silenzio ma implacabilmente anche se non riusciva a «combatterlo» specie sul terreno dei media.

Lo scrittore Giordano Bruno Guerri non è riuscito a veder pubblicata la monumentale biografia del nonno che John gli aveva commissionato solo perché si era scoperto che Gabetti aveva rivisto, emendato, tagliato, rivoltato quel manoscritto togliendo tutto ciò che in qualche modo era positivo per John e per nonno Giovanni. L’ultima beffa, Gabetti l’ha giocata a John proprio sulla Stampa, l’ex giornale di famiglia: il giorno dopo la morte, il direttore Maurizio Molinari ha perfino scritto che le due pagine del suo coccodrillo Gabetti le aveva vergate di persona prima di morire con la benevola assistenza di due poveri giornalisti. John nel giro di pochi mesi è diventato tre volte più ricco di quanto già fosse e ha provato molto gusto a questo invidiabile status. Dal 23 febbraio, con la morte di sua nonna Marella ha avuto la conferma dall’avvocato Carlo Lombardini di Ginevra di essere stato nominato erede universale dell’immensa fortuna intestata alla defunta (15 miliardi di euro, tra depositi nei paradisi fiscali, Panama in primis, e il famoso «oro del nonno di Gianni», cioè il senatore che fondò la Fiat, custodito nei caveau del Freeport vicino all’aeroporto di Cointrin a Ginevra: se anche sua madre dovesse pretendere una parte di questo tesoro, John, male che vada, terrebbe per sé la metà, di ciò che venisse portato alla luce…). John si era già portato avanti in tal senso assumendo come sua assistente Paola Montaldi, moglie del suo autista, ma soprattutto negli ultimi anni vera factotum di Donna Marella (con tanto di deleghe, procura generale e potere di firma). Quindi John era sempre informato con grande anticipo di ogni movimento della nonna…

Ai primi di maggio ecco arrivare la seconda grandinata di denaro: la vendita della Magneti Marelli ai giapponesi della Calsonic ha fruttato 5,8 miliardi di euro in contanti, ma soprattutto – buona notizia per l’orda famelica del parentado – una cedola straordinaria di 1,30 euro per azione con 2 miliardi distribuiti agli azionisti. Ora c’era in vista l’affare con Renault. Perché di affare si trattava, nel senso che Fca si sarebbe tolta finalmente il cruccio di dover produrre, e vendere, automobili lasciando ad altri tale incombenza. E, soprattutto, per tutti i famelici Lupo Rattazzi della situazione, il matrimonio coi francesi avrebbe garantito agli azionisti un’altra scorpacciata di dividendi dopo l’affare-Magneti Marelli. Ma, soprattutto, una volta distribuiti i dividendi ventilati nella lettera al Groupe Renault, si sarebbe potuto finalmente prendere le distanze dall’auto. Con il plauso dei clan che si raccolgono sotto Exor che da decenni tifa per l’abbandono delle quattro ruote. Non importa ciò che avevano detto il bisnonno e il nonno, e cioè «Mai lasciare il mercato dell’auto». In fondo John è molto abile quando si tratta di vendere, e incassare, anche se si tratta di beni che racchiudevano un rilevante valore affettivo e simbolico per il nonno. A cominciare da La Stampa. John non è più l’azionista di riferimento, ma ha passato il controllo addirittura a colui che il nonno considerava il peggior nemico, l’ingegner Carlo De Benedetti.

Per non parlare della Juventus: piuttosto che lasciarne la guida ad Andrea Agnelli, ha accettato di mandarla in serie B (privandola di una difesa legale adeguata e subendo tutte le decisioni del presidente della Juve di allora, Franzo Grande) nel timore che il cugino diventasse troppo popolare e facesse ombra alla sua leadership. Andrea è riuscito ad avere quell’incarico solo con quattro anni di ritardo dopo che milioni di tifosi juventini hanno assistito impotenti allo scempio sportivo e finanziario compiuto dalla coppia Jean-Claude Blanc (scelto personalmente da John) e Giovanni Cobolli-Gigli (imposto da Gabetti e ignaro perfino di quanti scudetti avesse vinto il club bianconero).

Insomma John sa benissimo che «tiene famiglia» e che i super prolifici discendenti del fondatore della Fiat sono, in massima parte, cedole-Exor-dipendenti. Mentre gli azionisti di molte case automobilistiche avvertono diete se non digiuni perché vengono privilegiati investimenti in nuovi prodotti e tecnologie, John continua a elargire euro generati da un «costruttore» che vanta un lungo elenco di marchi con la gamma di prodotti più vetusta. Ed è costretto a pagare centinaia di milioni di euro alla casa automobilistica americana Tesla per evitare di ricevere multe a sei zeri per la violazione delle nuove norme sulle emissioni nell’Unione europea. Per spegnere i malumori, non a caso, dal quartier generale bonsai di Londra, Fca aveva diffuso un comunicato che recitava: «Prima che l’operazione sia completata, per attenuare la disparità dei valori sul mercato azionario, gli azionisti di Fca riceverebbero anche un dividendo di 2,5 miliardi di euro. Inoltre, prima del completamento dell’operazione, sarebbero distribuite agli azionisti di Fca le azioni Comau oppure un dividendo aggiuntivo di 250 milioni di euro se lo spin-off di Comau non dovesse avere corso». E, sempre non a caso, la sorte degli stabilimenti italiani e del posto di lavoro degli addetti, era indicata solo al punto cinque su otto. Chissà come avrebbe fatto John, che non ha mai gestito da solo un’azienda, a occuparsi di Fca-Renault visto che uno dei due incarichi di vertice sarebbe stato a suo appannaggio nella nuova creatura post fusione. Non bisogna dimenticare il più importante e costoso investimento nel quale John ha trascinato Exor, cioè l’acquisto del riassicuratore PartnerRe, è avaro di soddisfazioni. Dunque, poteva funzionare una fusione 50-50? Solo se uno dei due partner avesse riconosciuto la guida all’altro non accettando deroghe. Fca e Renault hanno avuto amministratori delegati accentratori e con poteri sconfinati, ma che si sono circondati di collaboratori in gran parte mediocri. Lo prova il fatto che difficilmente le aziende concorrenti o leader in altri campi hanno assunto alti dirigenti di Fca e Renault. Marchionne è morto, Carlos Ghosn è da mesi in carcere in Giappone, e questo fatto, con Renault che si è «dimenticata» di lui e di quel che ha combinato a danno dei soci dell’Impero del Sol Levante, ha ovviamente un peso enorme per i partner nipponici di Nissan e Mitsubishi.

Gigi Moncalvo per La Verità il 15 giugno 2019. Per John Elkann la trattativa con Renault e Nissan sta risultando meno ostica e complicata di quella con sua madre per la spartizione della gigantesca eredità di Donna Marella Agnelli. Notevoli turbolenze - per disaccordi finanziari, specie sul testamento miliardario di Marella, cause in sospeso (quella di Margherita contro la madre e ora destinata contro suo figlio John), contrasti famigliari e accuse incrociate di vario tipo - tornano ad addensarsi sugli Agnelli-Elkann-De Pahlen. L'epicentro del sisma si trova ad Allaman, sulle rive del lago Lemano, nella Pecherie, la residenza di Margherita Agnelli, di suo marito Serge de Pahlen, di quattro dei suoi cinque figli, dei due nipoti (Anastasja Marella Maevskiy, 13 anni, e Sergey Maevskiy, 10) che la madre ha «portato via» sette anni fa alla primogenita Maria, che vive a Tbilisi in Georgia insieme al suo bambino più piccolo, Roman, che ha poco più di 3 anni. Alla tribù (o al kinderheim?) di Allaman si è aggiunta da poche settimane una nuova creatura, Theodora, figlia di Pietro de Pahlen, titolare di alcune imprese di costruzioni in Russia, l' unico maschio tra i cinque figli delle seconde nozze di Margherita. La bimba è nata dalla relazione di Pietro con una ragazza che vive a Mosca, Cristina Sukachvili, la cui madre - di origine georgiana e di religione ebrea - vive a Goa in India. Si tratta della decima nipote di Margherita. Gli altri sono i tre figli di John Elkann e Lavinia Borromeo (Leone Mosè, Oceano Noah e Vita Talita), i tre di Ginevra Elkann e del patrizio romano Giovanni Gaetani dell' Aquila d' Aragona (Giacomo, Pietro e Marella) e i tre di Maria de Pahlen (Anastasja Marella, Serghiej e Roman). Mentre è in arrivo l' undicesimo nipote, poiché Maria è incinta al quarto mese. La notizia più importante, e grave, riguarda proprio Maria e i suoi due primi figli. Il Tribunale dei minori di Morges, nel cantone svizzero di Vaud, il 3 giugno, ha privato della patria potestà su Anastasja e Sergey la loro madre, Maria de Pahlen, e il loro padre, Georgi Maevskiy, ex marito di Maria da cui lei ha divorziato nel 2010, dopo quattro anni di unione e dopo che lui era stato liquidato sontuosamente, nonostante il contratto pre matrimoniale che aveva sottoscritto dicesse il contrario. Il giudice, che sta per nominare un tutore, ha stabilito che i due bambini continueranno a vivere, come avviene dal 2013, a casa della nonna Margherita. La quale, ovviamente, avrà un peso decisivo nella scelta di un tutore a lei gradito. La decisione della giudice Véronique Loichat Mira (assistita dai colleghi Ansermet Gaudry ed Egger), è sorprendente: è avvenuta nel giro di mezzora in assenza sia dei genitori che dei loro avvocati, non ha tenuto conto della documentazione medica inviata da Maria (che non può viaggiare poiché è alla quattordicesima settimana di gravidanza) e si è basata solo su una precaria testimonianza: quella di una nuova assistente sociale, Sarah Faini, la quale è informata sommariamente dei fatti, poiché solo da pochi giorni ha ricevuto il voluminoso dossier dalla collega Maria Poujol, che a lungo aveva istruito la complessa vicenda. La giovane assistente sociale ha messo a verbale una sorprendente dichiarazione in cui, evitando di specificare se ha mai avuto qualche contatto diretto coi due bambini e se è riuscita a leggere il dossier, si limita a usare la laconica formula «secondo le informazioni trasmesse dalla mia collega Maria Poujol». Addirittura, secondo la Faini, Marella Anastasia Maevskiy «è consapevole dei limiti di sua madre». Un' affermazione così grave, e su cui si regge la sentenza finale, non viene suffragata da nessuna prova sul fatto se la bambina abbia pronunciato effettivamente (dove, quando, a chi, In quale forma?) una valutazione del genere contro la propria madre. E la giudice si è ben guardata dal chiedere: quali sono da considerarsi tali «limiti» secondo una bambina di 13 anni? Avete approfondito con lei la questione? Margherita Agnelli, contrariamente a tutte le altre udienze, era assente e non ha mandato nemmeno il suo avvocato. Non c' era nemmeno Serge de Pahlen, che in altre occasioni aveva invece testimoniato contro sua figlia. Evidentemente avevano «previsto» ciò che sarebbe accaduto e, in vista del loro obiettivo finale di tenere con sé i bambini, non potevano sperare di meglio. Il copione sembrava già scritto. Non a caso, l' assistente sociale ha detto che Anastasja capisce «quanto sia grande il privilegio di vivere con i suoi nonni». «I bambini», prosegue il verbale, «evolvono bene con i nonni. Hanno un punto di riferimento con loro. Non vogliono cambiare questa situazione. L'Spj (Servizio di protezione della gioventù) ritiene che i bambini abbiano diritto a un tutore che li possa rappresentare». E poi ecco un' altra accusa a Maria: «La madre non chiede notizie dei suoi figli all' Spj o lo fa molto raramente. La madre ha contatti telefonici con i suoi bambini e non li ha più visti dopo il suo ultimo soggiorno in Svizzera. Sarah Faini, conclude il verbale dell' udienza, «indica che l' Spj desidera vivamente la fine della presente procedura». Ma tutti sembrano dimenticare due aspetti: Maria ha contatti continui coi suoi figli e deve sottostare alla limitazione di poterli vedere, in ore stabilite, solo attraverso Skype, sapendo che, di fronte ai suoi figli, c' è un' arcigna badante moldava che riferisce tutto alla padrona di casa. Il secondo aspetto, ben più grave, è che la situazione che si è creata dall' ultimo soggiorno di Maria in Svizzera, è tale per cui a ottobre ha dovuto lasciare Rougemont, dove la madre non la ospitava nemmeno nel suo castello, ma la teneva a distanza in un piccolo appartamento con il bimbo più piccolo, Roman. Maria lasciò la Svizzera soprattutto perché la madre la minacciò di portarle via anche il terzo figlio. La sentenza di questi giorni apre proprio le porte a una simile eventualità, qualora Maria dovesse andare in Svizzera a trovare i suoi figli. La situazione è paradossale: se Maria entra in Svizzera (e deve portare con sé il bambino poiché è piccolo e non vuole mai stare lontano da lei) per vedere come stanno Anastasja e Sergei, rischia di vedersi portar via anche Roman poiché, se i giudici le hanno revocato la patria potestà sugli altri due, per la legge ciò significa che non può essere una buona madre nemmeno per il terzo. Ma se Maria, per timore di questo, non va in Svizzera a trovare i figli ecco la conferma, per i giudici, che non è una buona madre ed evita perfino di andarli a trovare. Intorno a Maria è stato fatto ancora di più il vuoto dalla famiglia. Perfino da John, nonostante nonna Marella si fosse raccomandata con lei - nell' agosto scorso in Svizzera a Samaden, quando si ammalò di broncopolmonite - di rivolgersi al suo adorato Jaki in caso di bisogno. Maria lo aveva fatto per chiedergli se il fratellastro la poteva aiutare a trovare un avvocato in Svizzera, dato che, ai primi di aprile, si era misteriosamente ritirato lo «sponsor» del legale precedente, Matthieu Genillod di Losanna. Sembra che tale sponsor avesse fornito il suo aiuto soprattutto allo scopo di ottenere di «infiltrarsi» nei più recenti e cospicui affari di famiglia che, per quanto riguarda la successione di sua madre Marella, Margherita Agnelli aveva affidato a suo tempo all' avvocato Guy Mustaki, professore all' università di Losanna e socio dello studio legale Cbwm. Ma Margherita, all' improvviso, ha cambiato idea e affidato i pieni poteri ad Achille Deodato, 32 anni, laurea alla Luiss di Roma, figlio di Giuseppe Mario Benedetto Deodato, siciliano di Villarosa (Enna), dal 2006 e per qualche anno ambasciatore a Berna (nominato dal governo Prodi e quindi dal ministro Massimo D' Alema), dal 2003 direttore generale della Farnesina per la cooperazione allo sviluppo, nel 2012 sfiorato dalle voci (secondo il quotidiano La Notizia) sulla discutibile gestione di fondi destinati agli ospedali in Africa. Margherita ha, per inesplicabili ragioni, affidato a Deodato jr. una delega generale e un potere assoluto, arrivando a licenziare il suo procuratore speciale in Italia, l' avvocato Roberto Cattro, un professionista che ha svolto incarichi molto delicati nei suoi tre anni di lavoro, compresi i contatti con la magistratura e gli avvocati, e soprattutto nel controllo degli immobili, dei rapporti col personale e nella valutazione aggiornata dei beni. Pare che Cattro stia intentando una causa assistito dallo Studio Bin di Torino. In un primo tempo Maria aveva anche l' intenzione di trasferirsi in Italia per essere più vicina ai due figli «trattenuti» dai nonni. Aveva trovato una piccola casa in affitto a Villar Perosa. Ma, a suo dire, la madre le ha impedito questo progetto. Forse temeva uno scandalo per il fatto che, pur avendo gli Agnelli una villa enorme e completamente vuota, la primogenita di Margherita fosse costretta ad andare a vivere in affitto in una modesta casetta. Villar Perosa è chiusa e i preziosi quadri sono accatastati nelle decine di stanze (compreso l'Arlequin di Picasso. valutato 60 milioni di euro), così come avviene per Villa Frescot e per l' appartamento di Roma. Nei giorni successivi alla morte di Donna Marella c' era stato un tentativo di Margherita e John di indire una riunione di famiglia, dopo 15 anni che i nove non si incontravano insieme e madre e figlio primogenito non si parlavano, se non tramite avvocati. Si era sparsa la voce che domenica 17 giugno fosse stata convocata una «assemblea» plenaria ad Allaman. Ma alla fine tutto è saltato. Pare che ad annullare il meeting sia stata proprio colei che più lo desiderava: Margherita. Che cosa è accaduto? La guerra è ricominciata? Margherita voleva che, dopo l' incontro con i figli, ci fosse un colloquio tra lei, il proprio avvocato e John. Lui avrebbe detto: «Allora io porto i miei legali». Tutto è nato dal fatto che recentemente l' avvocato italiano di Margherita ha chiesto all' avvocato Carlo Lombardini di Ginevra, che rappresentava donna Marella e ora John, notizie sul testamento della defunta, informandolo che la figlia non intende rinunciare alla quota cui ha diritto. Lombardini avrebbe risposto: «L' erede universale della nonna è il nipote John Elkann. La contessa De Pahlen nel 2004 ha firmato un accordo "tombale" con sua madre, mai impugnato nei termini di legge, in cui la figlia rinunciava a ogni pretesa futura sul patrimonio della madre al momento della morte di quest' ultima».

LEONI PER AGNELLI. Massimo Novelli per “il Fatto Quotidiano” il 24 giugno 2019. A ricordarlo con convegni, spettacoli e mostre, a 150 anni dalla nascita, è soltanto il comune di Fubine Monferrato, in provincia di Alessandria, dove è sepolto nella cappella di famiglia. Nessun altro, a cominciare da Torino, lo rammenta. Eppure il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, nato a Torino il 25 agosto del 1869 e morto in circostanze oscure (forse un suicidio, oppure, come pure si ipotizza, addirittura un omicidio) ad Agliè (Torino) il 10 ottobre del 1904, dovrebbe essere celebrato come uno dei grandi pionieri dell' automobile. E fu soprattutto il vero fondatore della Fiat. Nel 1899 "era stato Bricherasio", scrive Valerio Castronovo nella biografia di Giovanni Agnelli, "ad avanzare l' idea in febbraio di un moderno complesso industriale in grado di integrare le lavorazioni meccaniche a quelle di carrozzeria. Il futuro senatore Agnelli, il nonno dell' Avvocato, si era associato alla combinazione due mesi dopo". Nel luglio del 1899, in ogni caso, proprio nel torinese Palazzo Bricherasio il conte Emanuele e altri otto soci, tra i quali Agnelli, fondarono la Fiat. Conscio dell' importanza del momento, come racconta Donatella Biffignandi, del Centro di documentazione del Museo Nazionale dell' Automobile di Torino, in un suo bello scritto sul nobiluomo, Bricherasio "commissiona al pittore Lorenzo Delleani il compito di rappresentare quell' istante, eternando i volti dei nove padri fondatori". Gli "otto si stringono intorno alla figura centrale del Bricherasio, l' unico in posizione dominante sugli altri, l' unico ad essere vestito di bianco, mentre tutti gli altri sono in grigio o in scuro, l' unico ad essere ripreso proprio all' atto della firma. C' è chi guarda Bricherasio, come Biscaretti, c' è chi fissa lo spettatore; il più impassibile di tutti è Agnelli, che non guarda in faccia nessuno e che, seppure messo da Delleani in seconda fila e seduto, spicca per avere lo stesso atteggiamento eretto e il volto alla stessa altezza del conte Emanuele". D' altronde, narra Castronovo, fin dall' inizio Agnelli "si era posto in luce per un certo impaziente dinamismo e per la rapidità con la quale affermava la sostanza delle questioni". Il conte Cacherano, rampollo di un antico casato sabaudo e amministratore di un cospicuo patrimonio fondiario, e il borghese Agnelli, figlio di un possidente agricolo di Villar Perosa, sono agli antipodi. Appassionato non solo di automobili, ma di sociologia e di scienze politiche, Bricherasio crede in altre cose: nel progresso sociale, per esempio, nell' amicizia, nei valori rappresentati dall' Arma di Cavalleria. Non nasconde nemmeno la sua simpatia per le idee socialiste, tanto che verrà chiamato il "conte rosso". Agnelli obbedisce solamente al dio del profitto; e la posta in palio agli inizi del nuovo secolo, ossia il controllo dell' azienda, se la prende tutta, quasi subito, lui, destinato a diventare il capostipite della famiglia regnante dell' auto. Il nobiluomo sognatore incassa, intanto, la prima delusione. Si tratta, poco dopo la costituzione della Fiat, di nominare i membri del consiglio d’amministrazione e di procedere all' assegnazione delle cariche sociali. Per queste ultime, su proposta di Roberto Biscaretti di Ruffia, la presidenza è data a Lodovico Scarfiotti, e non al conte. La "delusione di Bricherasio", osserva la Biffignandi, "deve essere enorme. Scarfiotti non è un ingegnere, non è un tecnico, nè si è messo in una luce particolare per qualcosa. È un avvocato, e questo la dice lunga sull' impostazione che la società appena costituita intende darsi: appare prioritaria la volontà di muoversi con sicurezza in campo legale, finanziario, borsistico". Il contrasto si acuisce quando Agnelli decide di sbarazzarsi dell' ingegnere Aristide Faccioli. Un "genio della progettazione e della sperimentazione", che tuttavia, per Agnelli, non è in grado di guidare la produzione industriale. Bricherasio, rievoca Donatella Biffignandi, "si oppone ('ritiene che non si possa fare a meno dell' ing. Faccioli') ma ormai è in minoranza". La crescita di potere di Agnelli "non può non riflettersi in un progressivo indebolimento dei restanti consiglieri. In particolare Bricherasio, che conserva la carica di vice presidente, si limita ad interventi sporadici e poco significativi, in genere in linea con le opinioni della maggioranza; non mantiene nemmeno la stessa continuità di presenza alle riunioni. D' altra parte Agnelli fa tutto e pensa a tutto". Siamo al tragico epilogo. Nell' ottobre del 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione della Fiat in cui Cacherano di Bricherasio aveva annunciato di voler "vedere tutte le carte", nel castello di Agliè, ospite del duca Tommaso di Savoia-Genova, cugino del re, secondo la versione ufficiale il conte si uccide con un colpo di pistola in testa. Giorgio Caponetti ricostruirà nel romanzo Quando l' automobile uccise la cavalleria, uscito qualche anno fa, lo scenario di quella morte: una breve notizia sui giornali; e nessuna autopsia, nessuna inchiesta. Il campione di equitazione Federigo Caprilli, il solo a vedere il corpo dell' amico prima del funerale, dirà che il viso e le tempie sono intatti. Però Caprilli, agli inizi del dicembre 1907, muore a sua volta senza testimoni per una caduta da cavallo, di notte, in una via di Torino. Nell' ottobre 1904, conclude la Biffignandi, Scarfiotti "commemora con nobili ed elevate parole il vice presidente conte Bricherasio, così improvvisamente rapito alla stima della Società, all' affetto della famiglia e degli amici. La Fabbrica e l' Automobile Club perdono un amministratore zelante e un Presidente modello". Ma quello "zelante" è "un aggettivo forse attribuibile più ad un onesto e diligente impiegato che non a qualcuno che ha lasciato traccia significativa della sua opera".

DAGONEWS il 25 giugno 2019. Quando John Elkann annuncia il progetto di fusione 50/50 tra FCA e Renault, un gruppo di furenti parenti corre dall'avvocato Franzo Grande Stevens a chiedere lumi: possibile che possa aver deciso di prendere una decisione così importante senza convocare l'Accomandita di famiglia che detiene quote ancora rilevanti di Exor e dunque di Fiat? Grande Stevens non rivolge più la parola all'erede degli Agnelli da circa un anno, ovvero da quando, il 22 luglio 2018, l'avvocato dell'Avvocato scrisse per il ''Corriere della Sera'' un'elegia funebre sull'amico Marchionne, ''tradito dalle sigarette''. Peccato che il manager della Fiat sarebbe morto ''ufficialmente'' solo tre giorni dopo, il 25 luglio. Cosa era successo? Pare che in realtà l'ad del gruppo FCA, apparso in pubblico l'ultima volta il 26 giugno, e ricoverato due giorni dopo a Zurigo, fosse morto da una settimana quando l'azienda ha dato la notizia, e che il suo corpo fosse già stato cremato. Le ragioni? Forse erano relative ai mercati azionari, alla SEC e alla Consob, insomma alle comunicazioni che l'azienda avrebbe dovuto fornire sulle condizioni di salute di un manager che controllava ogni dettaglio di un gruppo multinazionale così grande. Grande Stevens, con la sua lettera in morte dell'amico, aveva di fatto svelato che i giochi erano già chiusi, mentre in Italia si parlava ancora di ''coma irreversibile''. A quel punto un John Elkann molto irritato avrebbe fatto chiamare Grande Stevens da una segretaria. Ma come? Lo conosce da quando è un bambino, ha seguito il nonno per tutta la vita, e lo contatta attraverso una terza persona? A quel punto tra i due scende il gelo, che Elkann ha provato a sciogliere con una telefonata per gli auguri di Natale. Niente da fare, all'avvocato non piace sentirsi dire cosa fare…Un altro con cui non corre più buon sangue è Mike Manley, che il giorno in cui si annuncia la fusione FCA/Renault vende tutte le sue azioni. Il gesto di qualcuno che non crede nel futuro dell'azienda, e preferisce far cassa nel momento in cui il titolo è ''drogato'' dalle notizie di un'operazione straordinaria. Quello che è chiaro, in ogni caso, è che Elkann vuole vendere la Fiat a tutti i costi, senza la guida di Marchionne non sa dove mettere le mani e nelle ultime settimane ha riallacciato la trattativa per un accordo con Renault. Il governo francese ha chiesto a Senard una fusione non paritaria, ma con i francesi a farla da padroni? Ebbene Elkann è pronto a cedere anche a questo. Purché si venda e lui ottenga un posto da presidente del nuovo gruppo.

Stefano Carrer per Il Sole 24ore il 25 giugno 2019. Un'occasione perduta ma ancora desiderabile: il presidente di Renault, Jean-Dominique Senard, ha preso la parola nel corso dell'assemblea degli azionisti di Nissan per sottolineare che l'accordo del gruppo francese con FiatChrysler sarebbe stato – e quindi sarebbe – nell'interesse dell'intera alleanza e porterebbe vantaggi anche alla Casa giapponese. «La riprova è che alla notizia dell'interruzione dei colloqui, chi ha brindato? Tutti i nostri concorrenti, perché sapevano che l'alleanza ne sarebbe uscita rafforzata. Si tratta di una opportunità perduta». Senard in realtà ha replicato a un piccolo azionista che lo accusava di voler sfruttare l'ampia partecipazione nell'azionariato Nissan (43,4%) a esclusivo vantaggio francese. «Mi scuso se qualcuno l'ha pensato – ha detto – Io ho due valori: rispetto per le persone e rispetto per i fatti. E i fatti sono che da quando sono arrivato ho fatto di tutto per rilanciare una alleanza che ho trovato in gravi difficoltà. Ho rinunciato, anche se ne avevo il diritto, a chiedere il posto di Chairman in Nissan, tenendo conto dell'orgoglio dell’azienda. Cerco di guardare al futuro. Mai ho pensato di basare il mio atteggiamento sulle differenze nelle partecipazioni (incrociate). Confermo di essere in favore di una fusione tra Renault e Nissan, ma nessuno cerca di imporla. Chissà, forse il board Nissan tra 10 anni o 20 potrà considerarla. Sulla governance, abbiamo solo chiesto equità e pari trattamento con quanto accade in Renault con i rappresentanti di Nissan. Non possiamo votare in assemblea contro le decisioni del board, che agisce per consenso». La nuova governance basata su tre comitati distinti era stata oggetto di una schermaglia pubblica tra Renault, che lamentava una sottorappresentazione, e Nissan. Il compromesso è stato raggiunto con l'inclusione di Senard nel comitato nomine e del Ceo di Renault Thierry Bolloré nel comitato audit. Nessun uomo Renault siederà nel comitato che deciderà le remunerazioni dei top manager. Il Ceo Hiroto Saikawa ha anche indicato che, su questioni che potrebbero configurare un conflitto di interessi, Senard e Bolloré non parteciperanno alle discussioni del board, anche se membri. Saikawa ha sottolineato che con Renault è stato concordato di posporre i colloqui sul futuro dell'alleanza (nata nel 1999) in quanto la priorità per Nissan è il rilancio del business nel quadro di una più solida governance aziendale. A chi gli chiedeva conto di una corresponsabilità nelle presunte malefatte di Ghosn, ha risposto di sentire una grande responsabilità per il futuro dell'azienda: per i problemi emersi, di suo ha accettato un taglio ai compensi. Per il passato, tutto il board ha fatto un profondo inchino di scuse alla platea dei soci accorsi per la 120esima assemblea alla National Convention Hall di Yokohama del complesso alberghiero Pacifico, a Minato Mirai, il quartiere che si affaccia sul porto. Sono arrivati 2.814 azionisti: alcuni di loro hanno criticato aspramente l'azienda per essere incappata nei gravi problemi di governance (scandalo e arresto dell'ex presidente Carlos Ghosn) e aver subito una perdita di valore in Borsa in relazione a un chiaro declino della performance. Comunque tutto è andato sostanzialmente liscio. Il nuovo board di Nissan approvato oggi è composto da 11 persone, di cui sette indicate come “indipendenti”, sotto la presidenza di un membro esterno, Yasushi Kimura, un petroliere. Alcuni analisti ritengono che un board con molti consiglieri indipendenti potrebbe in futuro essere disposto a guardare con più attenzione a forme di collaborazione e partnership allargate, senza ostacolare un esito positivo di nuovi colloqui di fusione tra Renault e Fca. Domani il presidente francese Emmanuel Macron sarà a Tokyo – in anticipazione del G20 di Osaka – per un vertice bilaterale con il premier Shinzo Abe, con cui discuterà il futuro dell'alleanza franco-giapponese nell'auto, che anche dopo l'appuntamento di oggi appare sotto stress e aperta a sviluppi in direzioni potenzialmente differenti. L'interferenza del governo francese aveva indotto FiatChrysler a ritirare la proposta di fusione su base paritaria con Renault: d'altra parte, Parigi temeva che una decisione affrettata e non supportata da Nissan ( i cui rappresentanti nel cda Renault si sarebbero astenuti) avrebbe potuto suscitare aspre reazioni da parte giapponese fino a mettere a rischio la ventennale alleanza.

La fusione Fca- Peugeot, Torino, Detroit e Parigi: la lunga marcia della Fiat. Lanfranco Caminiti il 31 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Con l’ipotesi di fusione tra Fca e Peugeot, peraltro sempre più vicina e probabile, l’Italia è sempre più lontana, dal cuore di Fca. «Non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche perché una simile fusione proceda con successo» – questo diceva Fca nel comunicato con cui quest’estate dichiarava di ritirare la proposta di accordo con Renault. John Elkann sbatteva la porta e se ne andava. «Non ci sono in Francia le condizioni politiche». E le “condizioni politiche” avevano un nome e un cognome e si chiamavano Bruno Le Maire, ministro dell’Economia, che mentre il board di Renault era riunito per sigillare l’intesa con Fca chiedeva di non avere fretta a chiudere e che c’erano ancora condizioni da rispettare, nell’interesse di Renault e della Francia: «Prendetevi il tempo per fare le cose bene». E invitava a un ulteriore rinvio, forse anche per capire esattamente le scelte di Nissan, partner strategico di Renault, che era passata da un’iniziale apertura a una sempre maggiore ostilità, fino a paventare la riscrittura degli accordi di Alleanza con Renault. Beh, sembra che adesso le condizioni politiche per l’accordo con Psa ci siano. I numeri sono quelli: se il progetto con Renault fosse andato in porto si sarebbe creato il terzo gruppo nel mondo, con un fatturato di circa 170 miliardi di euro, capace di immettere sul mercato circa 9 milioni di autoveicoli; con Psa si parla di 9 milioni di autoveicoli e 180 miliardi di euro di fatturato. Cambiano i marchi: prima ci sarebbero stati Dacia, Lada, Renault Samsung Motors, Alpine; ora arrivano Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall Motors. Cambiano anche le sinergie: Psa è debole negli Stati uniti e ben posizionata in Cina e Asia; per Fca è viceversa. Funzionerà in autunno quel che non ha funzionato d’estate? A leggere certe analisi di consulenza strategica – che so, McKinsey o Alix Partners – sembra di leggere pagine del Capitale di Karl Marx. Prima, il «deserto dei profitti» evocato da Alix Partners, poi McKinsey, che parla di «tempesta perfetta» che si prospetta per l’industria automobilistica, a causa della montagna di investimenti che sta prosciugando i profitti. Il grande vecchio parlava di «caduta tendenziale del saggio di profitto», ossia quella legge economica per cui la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione – diminuisca. E aggiungeva: «nella misura in cui il saggio di profitto è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico». Amen. Dove vanno tutti questi investimenti? Verso lo sviluppo di un’auto nuova, in grado di restare connessa con l’ambiente e di muoversi da sola. Il grosso dei soldi però va nello sviluppo di macchine a batteria: 275 miliardi di dollari investiti dai costruttori finora e si andrà avanti così. Per lanciare, secondo stime, oltre 300 nuovi veicoli elettrici da qui al 2025, concentrati più sull’alto di gamma ( dove sono i margini e i clienti sensibili alle mode) e meno sulle utilitarie, dove però avrebbe più senso: abbassare le emissioni nelle città. E la reale finalità è evitare le multe – con le norme sulle emissioni previste per il 2020 o si emette poca anidride carbonica oppure si è fatti fuori; la soluzione si chiama elettrificazione – diminuendo le emissioni di CO2 del mix delle vendite. A quanto pare il conto del riscaldamento globale rischia di pagarlo in gran parte l’auto. Sul fronte dei costi di produzione, il coro è quasi unanime nel sostenere che ormai hanno già grattato il fondo. I costruttori si sono resi progressivamente conto che forse unendo le forze possono farcela. Si contano 254 partnership dal 2014 a oggi, di cui due terzi orientate a sostenere il peso degli investimenti sui motori tradizionali e su quelli elettrici e il resto invece dedicato alla connettività e alla mobilità, le aree dei futuri auspicati profitti. La fusione Fca- Psa rientra in questi tentativi. A Marchionne sarebbe piaciuto l’accordo con Opel. Quello che aveva provato lui era stato bloccato dai sindacati e dal governo tedesco, che non si fidavano della sue promesse di investimento. Marchionne aveva la fissa delle fusioni. D’altronde quando il primo giugno del 2004 venne nominato amministratore delegato – era da poco diventato consigliere d’amministrazione – sapeva benissimo che quella era la strada per salvare Fiat. Nel 2002, FIAT perdeva circa 5 milioni di euro al giorno. Da anni non produceva modelli di successo. La situazione era così grave che la famiglia Agnelli aveva trovato un accordo per vendere entro pochi anni le sue quote alla rivale americana General Motors. Per tutto il Dopoguerra, FIAT aveva prosperato in Italia praticamente al riparo dalla concorrenza, grazie alla protezione che le era stata accordata dai vari governi. Era considerata come un bene di Stato: non poteva fallire. Ma con l’integrazione europea e l’apertura ai mercati internazionali e la concorrenza, non riusciva a far fronte al nuovo scenario. Per FIAT non si vedeva un futuro possibile. Marchionne sapeva che il mercato delle automobili era diventato molto più piccolo rispetto al passato, e che la crisi avrebbe comportato trasformazioni enormi – tecnologiche, aziendali, di consumi – e niente sarebbe stato più come prima. C’era spazio solo per pochi produttori molto forti, capaci di fare economia di scala e di investire enormi somme di denaro nella ricerca e nelle nuove tecnologie, che nel caso delle auto sono particolarmente costose e complesse. FIAT da sola era perduta. Poi, arrivò Barack Obama e l’offerta di salvare la Chrysler. Nel 2014, FIAT e Chrysler si fusero in un’unica entità: Fiat Chrysler Automobiles, FCA. Oggi, Jeep e Ram sono marchi fortemente posizionati nel mercato statunitensi. L’Italia è sempre più lontana, dal cuore di Fca. Restano stabilimenti e lavoratori sostanzialmente stabili, ma l’Italia è un paese dove il costo medio di un’auto venduta è sui quindicimila euro, cifra lontana, lontanissima da ogni margine di profitti: è nella gamma alta, nei Suv, nella tecnologia che sta la ciccia. Forse, senza Marchionne, la Fiat sarebbe già scomparsa. Però, a pensarci, sta scomparendo lo stesso.

Fusione FCA-Peugeot: tutto quello che c'è da sapere. Insieme i due gruppi avrebbero un giro d'affari da oltre tre milioni di auto l'anno. Barbara Massaro il 31 ottobre 2019 su Panorama. Piazza Affari a +9% per i titoli FCA mentre la borsa di Parigi accusa un tonfo iniziale di - 11% (per poi assestarsi a - 7,4%) per le azioni PSA. Questa è stata la reazione a caldo dei mercati alla conferma congiunta delle trattative in corso per arrivare alla fusione dei gruppi Fiat Chrysler Automobiles e Peugeot.

I numeri della fusione. Un matrimonio d'interesse che vale 50 miliardi di dollari e che andrebbe a creare il quarto costruttore automobilistico al mondo in termini di unità vendute (8,7 milioni di veicoli), con ricavi congiunti di quasi 170 miliardi di euro e un utile operativo corrente di oltre 11 miliardi di euro, sulla base dell’aggregazione dei risultati del 2018. La parola d'ordine del nuovo gruppo (compartecipato al 50%) sarà "sostenibilità" e questa dovrebbe essere la chiave di volta del colosso europeo della mobilità del futuro. Undici i membri del consiglio di amministrazione: 5 saranno nominati da FCA (incluso John Elkann in qualità di presidente) e altri 5 da PSA. Nel board è incluso anche il ceo Carlos Tavares che avrà un mandato iniziale di 5 anni in qualità di Chief Executive Officer. L’operazione verrebbe effettuata in forma di fusione sotto una capogruppo olandese – quotata a Parigi, Milano e New York – e la struttura di governance della nuova società sarebbe bilanciata tra gli azionisti, con una maggioranza di consiglieri indipendenti. La sede legale sarebbe in Olanda anche se il nuovo colosso continuerebbe a mantenere una importante presenza nelle attuali sedi operative centrali in Francia, Italia e negli Stati Uniti.

In attesa del memorandum of understanding. Nelle prossime settimane verrà stilato un memorandum of understanding vincolante. In prima battuta dal perfezionamento dell'operazione Fca distribuirebbe ai propri azionisti un dividendo speciale di 5,5 miliardi di euro e la propria partecipazione in Coma. Peugeot, invece, distribuirebbe ai propri azionisti la partecipazione del 46% in Faurecia. Nella nota congiunta distribuita al termine del primo colloquio tra i team delle case automobilistiche si parla di obiettivi: "Sinergie annuali a breve termine stimate in circa 3,7 miliardi di euro, senza chiusure di stabilimenti".

Il nodo degli stabilimenti. Proprio la chiusura degli stabimenti è una delle note dolenti dell'operazione e una grande preoccupazione paventata dai sindacati italiani. "In Italia c'è una capacità produttiva installata di 1,5 mln di auto - ha dichiarato così Francesca Re David, segretario generale Fiom Cgil - ma ne vengono prodotte meno della metà. I nostri stabilimenti sono pieni di cassintegrati, la fusione è molto rischiosa".

Chi ci guadagna dalla fusione. L'operazione porterà alla nascita del quarto costruttore al mondo con 8,7 milioni di auto vendute alle spalle di Gm, Volkswagen e l'alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi. Oltre 400.000 i dipendenti. Il fatturato sfiorerà i 200 miliardi di euro. Vantaggi ce ne sono: tanti e per entrambe le parti. Intanto sarebbe un ottimo modo per restare competitivi su un mercato sempre più difficile. Dal detto "l'unione fa la forza" deriva l'intero senso dell'operazione. PSA (che significa Peugeot, Citroën, Ds e Opel) da tempo punta a scalfire il gelo del mercato americano dove, fino a oggi, non ha mai fatto presa. FCA, invece, dopo il fallimento della trattativa con Renault, ha urgente bisogno di piattaforme modulari (per costruire modelli diversi per taglia, brand e tipologia) e predisposte per l'elettrificazione, cioè per le auto elettriche ed ibride, tecnologia che è fiore all'occhiello per PSA. Non è la prima volta che i francesi di Peugeot flirtano con la casa automobilistica italo americana, ma fino a ora se di flirt si può parlare è stato ben nascosto dietro le cortine dell'ufficialità.

FCA e PSA a confronto. In termini di vendita al momento i numeri danno ragione a PSA che, lo scorso anno ha consegnato 1.903.370 auto contro un totale di 1.157.000 per FCA e anche il fatturato vede in vantaggio i cugini francesi con 38,3 miliardi di euro contro i 26,7 miliardi di euro di FCA però FCA ha più stabilimenti e marchi sparsi in giro per il mondo e questo è esattamente quello che manca a PSA. Secondo il Waal Street Journal la fusione creerebbe un gigante da 50 miliardi di dollari di capilazzazione in Borsa con l'obiettivo di aggiungere altri 8/9 milioni di veicoli sul mercato ogni anno. Sempre secondo il Wall Street Journal si tratterebbe di una fusione alla pari con il ceo di Peugeot, Carlos Tavares, che assumerebbe il ruolo di amministratore delegato della nuova società, mentre a John Elkann spetterebbe la presidenza. Inoltre l'ipotetica alleanza aprirebbe il mercato cinese a FCA visto che PSA mette sul banco anche la partnership con Dongfeng Motor Group. In pratica si andrebbe a creare un colosso automobilistico mondiale in grado di penetrare tutti i mercati a differenti latitudini e garantire una varietà di soluzioni di mobilità planetaria in un'unica realtà e questa prospettiva promette di modificare gli asset di produzione/vendita a livello globale. "Si conferma una propensione europea a un grande gigante potenzialmente europeo che è nella linea di ciò che sosteniamo - ha detto il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia - Occorre considerare la concorrenza in Europa non solo in chiave nazionale. Abbiamo bisogno di giganti europei per affrontare le sfide con Cina e Usa".

Pierluigi Bonora per “il Giornale” il 31 ottobre 2019. Sarà Carlos Tavares, se tutto andrà per il verso giusto, a guidare operativamente il nuovo gruppo Fca-Psa. Portoghese, 61 anni, sposato, di formazione francese (si è diplomato alla Grandes Ecoles) e una grande passione per le corse in auto (ogni fine settimana lo passa in autodromo e un mese fa è stato avvistato sfrecciare a Monza insierme a Richard Mille, il fondatore della maison svizzera di orologi), Tavares in 6 anni ha portato il gruppo Psa dall' orlo del fallimento a generare profitti record nella prima metà di quest' anno. E acquisita Opel nel 2017 da Gm, è riuscito nella missione, considerata fino a prima quasi impossibile, di far rivedere alla Casa tedesca i conti in attivo, traguardo raggiunto con due anni d' anticipo. Per certi aspetti, Tavares assomiglia all' ex ad di Fca, Sergio Marchionne, scomparso lo scorso anno: entrambi, infatti, hanno evitato il baratro ai rispettivi gruppi, portandoli negli anni a una nuova dimensione. Come il collega italo-canadese, il presidente e ad di Groupe Psa è ritenuto un manager abile e duro, un grande spronatore pronto a tutto pur di raggiungere l' obiettivo («non si discutono gli obiettivi, ma si discute su come raggiungerli», è solito dire a chi lo circonda). E come Marchionne (in pullover e pantaloni neri sempre e comunque), anche Tavares non è molto curato nel vestire nonostante indossi la giacca. E se l' ex ad di Fca era un indubbio re della finanza che per scaricare la tensione si lanciava con la sua Ferrari sul circuito di Balocco, il collega-pilota nato a Lisbona è sicuramente più uno stratega dell' auto e, per centi aspetti, più lungimirante (sul fronte della elettrificazione, Groupe Psa si è presentato puntuale all' appuntamento). In passato, come racconta nel libro «Sergio Marchionne» il giornalista Tommaso Ebhardt, i due top manager si sono annusati parecchio, arrivando vicino a unire le rispettive società (Tavares, riconoscendo la bravura del collega, era disposto ad assumere il ruolo di numero due), ma non se ne fece nulla. Del resto, la convivenza di due galli nello stesso pollaio non sarebbe stata facile, anche perché Tavares arrivava dalla scuola di Carlos Ghosn, in Renault, nemico giurato di Marchionne. Il capo di Psa, spiegano i bene informati, conduce una vita monastica, dedicata per lo più al lavoro. In azienda, secondo la sua visione, le regole valgono per tutti. E così lo si può incontrare sul Tgv seduto in seconda classe oppure su un volo Easyjet come un turista qualunque. «Profitti, profitti, profitti!» (il chiodo fisso) aveva esclamato anni fa al termine di una visita alla filiale italiana del gruppo, a Milano. Due i piani grazie ai quali Psa ha ripreso gradualmente quota: «Back in the race», il primo, «Push to pass», il secondo. Tra efficienza, tagli dei costi, gamme semplificate, investimenti in ricerca e sviluppo, e condivisione delle piattaforme, il gruppo è via via cresciuto consolidando il suo secondo posto in Europa. Ma resta ancora il mercato cinese la spina nel fianco di Tavares, nonostante la presenza (ancora per poco viste le intenzioni manifestate) di Dongfeng nell' azionariato (12%, come le quote della famiglia Peugeot e del governo francese). Uno degli assi nella manica del numero uno di Groupe Psa riguarda la creazione delle due piattaforme multienergy che, a questo punto, potrebbe condividrere con Fca. La prima, Cmp, riguarda i segmenti B e C (auto compatte e medie), la seconda, Emp2, i modelli di segmenti superiori e i Suv di tutte le taglie. L' architettura Cmp consente di produrre veicoli con alimentazioni diverse: benzina, diesel, elettrica. Con Fca, insomma, impegnata a realizzare la Fiat 500 elettrica e i primi modelli ibridi, l' integrazione calzerebbe a pannello. Le nozze tra Torino e Parigi, inoltre, permetterebbero a marchi come Alfa Romeo (soprattutto) e Maserati, di cui è stato appena varato il piano strategico, di accelerare i progetti di crescita. 

Fca-Psa, tutte le incognite di un'alleanza già testata sui furgoni. Per gli italiani c'è il rischio di chiusura stabilimenti e di perdere potere. In compenso recupererebbero il terreno perduto nell'auto elettrica. Guido Fontanelli il 30 ottobre 2019 su Panorama. Ha senso una fusione tra Fca e Psa? Probabilmente non è la soluzione migliore per Fca, sarebbe meglio un’alleanza con un gruppo asiatico visto che la casa italo-americana è già molto presente in Europa e America ma poco in Estremo oriente. Però unirsi ai francesi di Psa presenta comunque una serie di vantaggi: entrambi otterrebbero economie di scala con piattaforme comuni; Psa in più conquisterebbe una presenza sul mercato americano con i marchi Jeep e Ram e sul mercato premium con due brand di alto livello ma poco sfruttati come Alfa Romeo e Maserati; infine Fca potrebbe giovarsi del lavoro già fatto dai francesi nel campo delle auto elettriche, dove gli italiani e gli americani sono decisamente indietro. Il tema dell’auto elettrica è centrale: in Europa dal 2015 il target di emissioni che una casa deve raggiungere come media tra le sue auto vendute è di 130 grammi di CO2 per chilometro, tra meno di due anni dovrà scendere a 95 grammi e addirittura a 59 nel 2030, con una riduzione del 5,1 per cento all’anno. Oggi le emissioni medie delle auto sul mercato sono ferme a 118 grammi: un buon risultato ma ancora lontano del 20 per cento dai limiti previsti per il 2021. L’unica via per raggiungere questi obiettivi è inserire nella propria gamma dei veicoli a batteria. Come sta facendo con sforzi giganteschi la Volkswagen. Ma costruire nuove auto costa e per questo il settore si consolida. Per progettare e produrre veicoli elettrici (una batteria da 500 chilometri di autonomia costa circa 20 mila dollari, un motore a benzina ne costa circa cinquemila) le case automobilistiche dovranno investire 225 miliardi di dollari entro il 2023 stima la società di consulenza Alixpartners. Una cifra enorme, in pratica dovranno tirar fuori il 20 per cento in più rispetto a quanto spendono ora. E gli investimenti peseranno sugli utili: sempre, da qui al 2023 i profitti lordi dei produttori di auto potrebbero ridursi di 60 miliardi di dollari. Ammesso che abbia senso, potrebbe funzionare il matrimonio tra Fca e Psa? C’è da dire che a livello industriale i due gruppi lavorano da tempo con soddisfazione reciproca: di recente hanno siglato un accordo che prevede il prolungamento fino al 2023 della loro collaborazione nella produzione di veicoli commerciali leggeri che dura ormai da 40 anni, che prevede, tra le altre cose, la continuazione della produzione dei modelli Fiat Ducato, Peugeot Boxer e Citroen Jumper. I problemi riguardano chi comanda (e conoscendoli, i francesi saranno un osso duro) e la tenuta degli stabilimenti del gruppo Fca. Oggi il gruppo di Torino ha 9 impianti in Europa dove si producono autoveicoli, mentre Psa (che di recente ha acquisito la tedesca Opel) ne conta 14. Difficile dire ora se sarà necessario chiudere qualche stabilimento. È comunque interessante ricordare che Psa vuole portare il tasso di utilizzo delle sue fabbriche entro il 2022 all’85 percento, attraverso il rimpatrio di modelli costruiti altrove o da altre case automobilistiche partner. Poi c’è il capitolo politico: come rileva il Centro Studi della Fondazione Ergo di Varese, nel nostro Paese l’automotive rappresenta il 5,6 per cento del Pil, il fatturato delle attività produttive (dirette e indirette) del settore vale 93 miliardi, pari al 10,5 per cento del fatturato dell’industria manifatturiera, gli occupati diretti ed indiretti superano le 250 mila unità. Se lo scettro del comando finirà a Parigi, c’è il rischio che il nostro automotive dipenda completamente da decisione prese fuori dall’Italia. 

Simca-Fiat. Quando gli Italiani erano padroni in Francia (1926-1962). La casa francese era nata come licenza Fiat per aggirare le tariffe doganali. Fino agli anni '60 il Lingotto rimase nel capitale, ceduto poi a Chrysler e infine a Peugeot. Edoardo Frittoli il 31 ottobre 2019 su Panorama. Oggi la fusione tra FCA (Fiat Chrysler) e i francesi di Peugeot (Gruppo PSA) riporta alla memoria la storia di SIMCA, il marchio automobilistico francese creato nel 1926 dalla casa del Lingotto, per decenni rimasta azionista di maggioranza dell'azienda guidata da un manager italiano. Nel 1978, dopo essere passata da Fiat a Chrysler Europe, sarà assorbita proprio dalla Peugeot.

Un'Italiana a Parigi: SIMCA Licence FIAT. La storia di SIMCA, l'italiana di Francia, partì da una piccola officina parigina al 9 di Rue de la Paix. Qui l'ex ciclista professionista Ernest Loste aveva aperto la propria attività di rappresentanza di automobili di marca Fiat. Siamo nel 1907, agli albori dell'automobilismo. La crescita del mercato negli anni seguenti la Grande Guerra mise in evidenza la necessità per la casa del Lingotto di strutturare una rete di vendita meglio strutturata per il mercato d'oltralpe. Nel 1926 viene fondata su iniziativa Fiat la SAFAF (Societé Anonyme Française des Automobiles Fiat) rappresentante ufficiale dei modelli della casa italiana. Ad affiancare Loste fu inviato un giovane torinese, Enrico Teodoro Pigozzi. L'esperienza di semplice distributore durò pochissimo, perché la crisi del 1929 generò l'innalzamento in Francia delle tariffe doganali, rendendo le Fiat prodotte a Torino non concorrenziali con i marchi francesi. Per poter aggirare il problema e rimanere sul mercato, l'unica soluzione era quella di produrre i modelli italiani in Francia, bypassando gli oneri doganali. Nel 1932 a Suresnes (periferia ovest di Parigi) iniziò l'assemblaggio dei pezzi prodotti da una rete di terzisti che realizzavano le parti della Fiat 508 "Balilla", commercializzata in Francia con il nome di SAFAF "6 CV", una replica perfetta della vettura nata nel decennale dell'Italia fascista. Il successo immediato della "Balilla" francese rese sempre più pressante la necessità di una vera e propria catena di montaggio, eliminando così la dispersione nella produzione separata delle varie componenti. Nel 1934 i vertici SAFAF individuano a Nanterre un'area messa in vendita dopo il fallimento di una piccola marca di automobili, la Donnet. Con l'acquisizione dei nuovi stabilimenti nasce anche il marchio SIMCA (Société Industrielle de Méchanique et de Carrosserie Automobiles), proprietà di una nuova società nata dalla SAFAF ma con capitale al 100% francese, dove l'effettiva proprietà del Lingotto non compariva nell'assetto dirigenziale e confermando Pigozzi presidente e amministratore delegato. Alla produzione della "6 CV" fu presto affiancata quella dell'ammiraglia "11 CV", versione francese della Fiat 528 "Ardita". Nel 1936 la gamma sarà completata dalla piccola "Cinq" o "5 CV", che altro non era che la Fiat 500 "Topolino". Nel 1938 SIMCA è ormai diventata il quarto produttore francese di automobili, ma il mutato clima politico internazionale suggerisce ai vertici dell'azienda di eliminare dal logo il nome Fiat, per la crescente avversione dei francesi nei confronti dell'Italia fascista.

La guerra e la ripresa (1940-1946). Dopo l'occupazione tedesca nel 1940, SIMCA è l'unica casa automobilistica a non essere assoggettata allo sforzo bellico del Terzo Reich in quanto proprietà di una nazione facente parte dell'Asse, evitando così il commissariamento a dirigenti tedeschi come avvenuto per Renault e Citroen. Molte delle SIMCA prodotte durante la guerra saranno destinate all'amministrazione di Vichy o inviate verso il fronte orientale a servizio della Wehrmacht. Dopo l'ingresso degli alleati a Parigi nell'agosto 1944, SIMCA si occupò della manutenzione e riparazione delle Jeep Willys. Grazie alla collaborazione con l'esercito degli Stati Uniti l'azienda di Nanterre a maggioranza italiana si salvò dal commissariamento e dalla nazionalizzazione proposti nel 1945. Pigozzi, che si era messo da parte per il precedente rapporto con il governo di Vichy, fu rimesso al vertice dell'azienda per volontà del Generale americano Harry Benton Sayler, a capo della produzione bellica americana durante la guerra. La produzione SIMCA riprese nel 1946 con i modelli d'anteguerra, ormai sorpassati e minacciati dalle novità di casa Renault come la 4CV, nuova e più economica della vecchia "Topolino". Grazie all'apporto di Fiat e ai benefici del Piano Marshall l'azienda guidata da Pigozzi riuscì a resistere, presentando nel 1950 una vettura media nata dalla base a scocca portante della coeva Fiat 1400 ma con carrozzeria per la prima volta diversa ed interamente disegnata in Francia. Battezzata Simca 9 "Aronde", fu uno dei maggiori successi del mercato francese del secondo dopoguerra. Nello stesso periodo Fiat e SIMCA allargano la presenza sul mercato francese attraverso la neonata SIMCA Industries, la divisione dei veicoli commerciali UNIC (poi assorbita da Iveco) e dei trattori SOMECA.

Gli anni dell'espansione (1955-1960). Alla metà degli anni '50 l'azienda guidata da Pigozzi si espanse ulteriormente approfittando della volontà di Henry Ford di disfarsi della produzione europea di modelli americani, poco concorrenziali a causa della elevata tassazione e per gli alti consumi dei motori 8 cilindri. Negli stabilimenti di Poissy verrà inizialmente prodotta la Vedette, che dopo la crisi petrolifera seguita alla questione di Suez del 1956 verrà equipaggiata con il motore francese della Aronde. Nel 1958 nell'azionariato Simca, ancora a maggioranza italiana, fece il suo ingresso in cerca di una fetta di mercato nell'Europa del boom economico un altro dei colossi dell'auto a stelle e strisce, la Chrysler, che rilevò quello che era l'azionariato della ex Ford francese. Per la presenza Fiat nel cda SIMCA iniziò il conto alla rovescia, anche se per il momento Pigozzi rimase alla guida del marchio. Nel 1961 da un progetto Fiat nascerà uno dei più grandi successi degli anni '60, la SIMCA 1000, un'utilitaria tre volumi con motore e trazione posteriori direttamente derivata dalla Fiat 850. Appena due anni più tardi la Chrysler darà l'assalto finale all'azionariato della casa francese, giungendo a controllare il 63% del capitale. Poco più tardi il "padre" della SIMCA Pigozzi (che morirà nel 1964) sarà rimosso e sostituito per volere della nuova proprietà dall'ex Ad di Sud-Aviation Georges Héreil. L'eredità del ragazzo di Torino giunto a Parigi nel lontano 1926 non sarà abbandonata, ma seguirà postuma la progettazione e il lancio nel 1967 della SIMCA 1100, una due volumi con trazione anteriore e motore trasversale nata in Fiat secondo la medesima concezione della Autobianchi "Primula". Nel 1970 Chrysler divenne proprietaria unica del marchio, che fu sostituito per tutto il decennio da quello del "pentastar". Il logo SIMCA sparirà definitivamente nel 1978 con l'uscita degli americani sostituiti da Peugeot PSA che procedette ad un'operazione di re-badging dei modelli in listino utilizzando unicamente il marchio Talbot conosciuto sia in Francia che in Inghilterra, i due i principali mercati dell'ex gruppo Chrysler Europe. Sono gli ultimi anni della storia di SIMCA, che cesserà definitivamente di esistere all'inizio del 1990.

Fca-Psa, ecco perché è Parigi a comprare Agnelli, maxi-dividendo da 5,5 miliardi. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Massaro e Alice Scaglioni. «È Peugeot-Psa che compra Fiat-Chrysler» dicono gli analisti. I francesi pagano un premio del 30% sul valore di Borsa per avere 6 consiglieri su 11. Exor avrà il 14,2% mentre la famiglia Peugeot, lo Stato francese e Dongfeng il 5,9%. Per arrivare a un accordo paritetico, Psa (con Mediobanca advisor) ha riconosciuto a Fca (assistita da Goldman Sachs) un premio di 6,7 miliardi, secondo i calcoli di Kepler Chevreux. Inoltre ai propri soci Fca assegna un maxi-dividendo straordinario di 5,5 miliardi e la Comau (la società di robotica per la catena di montaggio), che viene scissa dal gruppo. Solo a Exor, la holding della famiglia Agnelli che ha il 28,7% di Fiat Chrysler, andranno 1,6 miliardi di euro. Non a caso giovedì il suo titolo in Borsa è salito del 5,69%. Dalla vecchia Fiat, Exor ha ottenuto quote già dai precedenti spin-off come Cnh, Ferrari, Rcs, Iveco, che hanno liberato miliardi di valore. Psa invece distribuisce ai propri soci il 46% che possiede nel gioiellino della componentistica di Faurecia, pari a circa 2,7 miliardi di euro. Anche Equita parla esplicitamente di «vendita»: i francesi pagano un premio del 30% per avere il controllo del consiglio, 6 su 11 compreso il ceo, che sarà l’attuale ceo del gruppo francese Carlos Tavares, mentre presidente sarà il numero uno di Fca, John Elkann. Della nuova società — con sede in Olanda e quotazione a Parigi, Milano e New York — Exor avrà il 14,2% mentre i tre attuali azionisti di Psa, la famiglia Peugeot, lo Stato francese e i cinesi di Dongfeng deterranno ciascuno il 5,9%. Si tratterà di vedere in futuro come si svilupperanno gli equilibri tra i soci. Per tre anni in ogni caso non potranno vendere (lock up). «Abbiamo lavorato molto per garantire un reale equilibrio nella governance e nella gestione del gruppo che stiamo progettando», ha detto Elkann. Uno dei primi vantaggi, a livello finanziario, sarà il minor rischio di credito. Secondo Equita i bond di Fca potrebbero essere promossi a «investment grade». Una boccata d’ossigeno per il gruppo, i cui conti trimestrali mostrano le difficoltà del mercato: perdita netta di 179 milioni dopo ricavi per 27,3 miliardi di euro e 1,059 milioni di vetture consegnate, -9%. Il ceo Mike Manley ha comunque confermato i target del 2019.

Gianluca Baldini per “la Verità” l'1 novembre 2019. Con il matrimonio tra Fca e Psa alle porte, ora il tema che più preoccupa i lavoratori è quello occupazionale. Ieri il premier Giuseppe Conte ha detto che si tratta di una «un' operazione di mercato, non posso giudicare l' accordo ma quello che preme al governo è che sia assicurato il livello di produzione e quello di occupazione in Italia e quindi la continuità aziendale». Dal canto suo, il ministro francese dell' Economia, Bruno Le Maire, ha fatto sapere di accogliere «favorevolmente» il progetto di fusione tra Psa e Fca, ma lo Stato francese, azionista di Psa al 12%, resterà «particolarmente vigile» sulla tutela dell' apparato industriale in Francia, ha spiegato in una nota diffusa dal ministero francese. Tra gli obiettivi del nuovo colosso automobilistico, spiegano da Fca e Psa, ci sarebbe l' intenzione di dare il via a «sinergie annuali a breve termine stimate in circa 3,7 miliardi di euro, senza chiusure di stabilimenti». Non chiudere gli stabilimenti, però, non è per forza garanzia di occupazione. Il timore dei lavoratori è infatti che il numero di stabilimenti resti inalterato, ma non il numero di posti di lavoro. La paura maggiore, poi, è che i tagli a livello occupazionale finiscano per essere attuati più in Italia che non in Francia, Paese dove storicamente il governo, che è anche socio di Psa, è sempre attento a non perdere posti di lavoro. Al momento il Lingotto ha nove impianti sparsi sul territorio europeo che si occupano di produrre automobili (a questi si devono aggiungere molti altri stabilimenti che producono componentistica). Psa, che ha di recente comprato la tedesca Opel, conta invece su 14 siti produttivi da cui escono macchine. Le due aziende coinvolte nel sodalizio hanno fabbriche gestite in maniera diametralmente opposta. Fca è un gruppo che semmai soffre di sovracapacità produttiva cronica, soprattutto negli stabilimenti italiani, dove il ricorso alla cassa integrazione non è più un provvedimento straordinario ma, con il tempo, sempre più abituale. Lo stabilimento di Mirafiori, per fare un esempio, lavora a metà della sua capacità. Per intendersi, un buon impianto lavora ad almeno l' 80%. Gli ingredienti, dunque, perché la Francia si tenga i suoi posti di lavoro a scapito dell' Italia, ci sono tutti. Inoltre, l' ad del gruppo Psa, Carlos Tavares - l' uomo che guiderà il nuovo colosso italofrancese - ha rimesso in sesto Psa nel 2014 e Opel nel 2017 tagliando i costi (e le teste), semplificando le linee produttive e facendo salire i prezzi in listino. Perciò la sua «ricetta» per risanare le aziende è ben nota. A questo si aggiunga che Psa ha già annunciato l' intenzione di portare il tasso di utilizzo delle sue fabbriche entro il 2022 all' 85%, attraverso il rimpatrio di modelli costruiti altrove o da altre case automobilistiche partner. Anche in questo caso, più produzione in Francia e meno all' estero Il problema, dunque, è tutto di natura politica. La Francia, come azionista di Psa, avrà tutto l' interesse a spingere perché venga garantita il più possibile l' occupazione entro i confini transalpini e tutto questo potrebbe avere importanti ripercussioni sull' occupazione degli stabilimenti italiani e non solo di Fca. «È ancora presto per capire cosa succederà sul piano occupazionale. Il nostro vantaggio», spiega alla Verità un portavoce della Federazione italiana metalmeccanici Fim Cisl, «è che le fabbriche Fca sono state rinnovate tutte più di recente rispetto a quelle Psa». Un'arma a doppio taglio, spesso gli stabilimenti più moderni sono anche quelli che vanno avanti con il minor numero possibile di dipendenti. «È probabile però che ci saranno problemi sul piano occupazionale per le aziende del gruppo Fca che non si occupano strettamente di automotive come ad esempio Comau», che produce impianti di automazione industriale. «In quel caso bisogna capire come intendano muoversi i due gruppi in questione. La soluzione al problema può essere solo di natura politica. Il punto è che mentre il governo francese è già al lavoro per evitare che ci siano ripercussioni sul piano occupazione, in Italia le istituzioni non si sono ancora mosse davvero». Un altro esperto contattato dalla Verità, Gian Primo Quagliano, presidente del Centro studi Promotor, istituto di ricerca indipendente sull' economia del settore automotive e professore all' Università di Bologna, spiega che «l'unico modo per evitare problemi sul piano occupazionale è quello di lavorare a modelli che non siano sovrapponibili». Alla base del sodalizio tra Fca e Psa c'è «l'utilizzo di piattaforme comuni. Quello è il segreto: utilizzare la stessa piattaforma per produrre modelli il più possibile diversi e che non si facciano concorrenza tra loro». La verità è che, per salvare il posto dei dipendenti Fca, serve che il governo faccia «muro contro muro» con l' esecutivo francese. Se non si fa nulla e Parigi avrà la meglio, per il mercato del lavoro italiano saranno guai.

Alberto Gentili per “il Messaggero” l'1 novembre 2019. Il governo italiano, al contrario di quello francese che possiede quasi il 13% di Peugeot, non ha quote azionarie in Fiat-Chrysler (Fca). E tuttavia a avrebbe molti titoli per intervenire con determinazione nella partita: basti pensare alle agevolazioni che nei decenni sono state accordate a Torino. Eppure, sorprendentemente, non ha assolutamente toccato palla nella fusione tra il Lingotto e Peugeot. Ad ammetterlo candidamente, senza celare un leggero fastidio, è il premier Giuseppe Conte. E a confermarlo è il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli. Ecco l'ammissione di Conte: «Non posso giudicare l'accordo tra Fca e Peugeot visto che non conosco i dettagli e i contenuti». Ma possibile che John Elkann non l'abbia avvertito, chiedono i cronisti a margine dell'assemblea di Confitarma? E il premier: «Non siamo riusciti a parlarci, c'è stato un contatto telefonico mancato, ci aggiorneremo presto con Elkann, con i vertici Fiat e conoscerò i dettagli». Patuanelli, invece, fa sapere di avere incontrato Elkann «qualche giorno fa». Prima, però, che diventasse operativo il progetto della fusione. Insomma, il ministro dello Sviluppo sarebbe stato informato solo dell'ipotesi di fusione con il gruppo francese. Ma non è stato avvertito quando il piano è scattato. Conte, criticato dalla Fiom per il suo ruolo di «semplice osservatore», ora vorrebbe recuperare: «Fermo restando che è un'operazione di mercato, il governo non può restare indifferente rispetto a un progetto industriale così importante». E ai vertici di Fca il presidente del Consiglio è determinato a chiedere che «sia assicurata la produttività e la continuità aziendale in Italia. Se ci sono economie di scala, ben vengano, ne beneficeranno entrambi i gruppi, ma l'importante è che garantiamo il livello di occupazione e gli investimenti in Italia». Patuanelli, nel ruolo di ministro competente sul dossier, dà maggiori dettagli dell'allert lanciato dal governo: «Chiederemo ovviamente a questo nuovo gruppo di garantire la continuità del piano industriale che Fca aveva previsto nel nostro Paese con tutti gli investimenti previsti negli stabilimenti». Circa 5 miliardi. Ancora: «È ovvio che l'unione di questi due grandi gruppi costituirà il quarto colosso mondiale di produzione delle automobili, ci potranno essere delle economie di scala rispetto ai costi. Ebbene, noi richiederemo che queste economie e questa riduzione di costi non si ripercuota poi sulle previsioni industriali negli stabilimenti italiani e quindi che non vadano a incidere sui lavoratori del nostro Paese». Patuanelli fa anche sapere che di non avere «ancora incontrato» i vertici di Fca. Ciò fa pensare che a breve il ministro dello Sviluppo possa convocare Elkann. Ma al Mise fanno filtrare che al momento non è previsto alcun incontro con lo stato maggiore di Fca. E c'è un altro aspetto che irrita il governo. Ed è la scelta di Fca, legata a ragioni fiscali, di confermare la sede del nuovo gruppo in Olanda. «L'ho già scritto in una lettera ufficiale ai rappresentanti delle istituzioni europee e ai miei omologhi dopo le elezioni europee, dobbiamo lavorare affinché all'interno dello spazio comune europeo non ci siano agevolazioni fiscali tali da rappresentare forme indirette di concorrenza sleale». Ancora: «Se in alcuni Paesi c'è un tale dislivello di costo di manodopera o agevolazioni fiscali si creano disarmonie e scorrettezze concorrenziali».

Carlo Di Foggia per “il Fatto Quotidiano” l'1 novembre 2019. Lo schema è complesso, ma l' obiettivo chiaro: matrimonio "alla pari", con due effetti diversi e a suo modo perversi. Ai soci di Fiat Chrysler, in testa gli Agnelli, una pioggia di dividendi. Ai francesi di Psa Peugeot, il sostanziale controllo del futuro quarto colosso mondiale dell' auto. Svelati i dettagli dell' accordo tra le due società e le due rispettive famiglie azioniste, il quadro è ormai nitido. L' Italia perderà quel poco che rimane dell' italianità di Fca Chrysler, già con sede legale in Olanda e fiscale a Londra. Ieri, i due gruppi hanno annunciato l' intesa con una nota congiunta. Si impegnano a un accordo vincolante per creare un' azienda da 50 miliardi di dollari nelle prossime settimane. Il nuovo gruppo avrà sede in Olanda e sarà quotato a Parigi, Milano e New York. Nascerà un colosso da 8,7 milioni di veicoli, ricavi dai 170 miliardi di euro e un utile operativo stimato in 11 miliardi. Il comando sarà in mano francese, con John Elkann presidente e il gran capo di Psa, Carlos Tavares, come Ceo. I consiglieri saranno undici: 5 nominati da Fca (incluso Elkann) e 5 da Psa, ma in più ci sarà Tavares che avrà un mandato iniziale di 5 anni. Exor, la holding degli Agnelli, avrà il 14,2% della nuova società (dal 30% oggi in Fca), mentre i tre attuali azionisti di Psa, la famiglia Peugeot, lo Stato francese e i cinesi di Dongfeng avranno ciascuno il 5,9%. La fusione, una volta completata, garantirà sinergie annuali per circa 3,7 miliardi, dato considerato "credibile" dagli analisti di Equita. "Non ci saranno chiusure di stabilimenti", la promessa dei due gruppi. Ma in Italia i dubbi sono molti. Per convincere Fca, dopo il flop con Renault del maggio scorso, Tavares ha formulato un' offerta aggressiva e irrinunciabile, sostanzialmente comprando dai soci il controllo di Fiat Chrysler. I due gruppi, infatti, hanno quotazioni differenti: martedì, prima che trapelasse la notizia, Psa valeva in Borsa 22 miliardi, contro i 18 di Fca. La prima sottrarrà la quota del 46% che ha nel gruppo di componenti Faurecia, che distribuirà agli azionisti, scendendo a 20 miliardi. Il valore di Fca scenderà invece a 13 dopo aver staccato un dividendo straordinario ai soci da 5,5 miliardi, di cui 1,7 a Exor, e la partecipazione in Comau. Con questi numeri Psa avrebbe dovuto avere il 60% del nuovo gruppo, invece il matrimonio sarà 50 e 50. Per questo, di fatto, i francesi pagheranno un premio di quasi 7 miliardi ai soci Fca sui valori di Borsa che il mercato sta già parzialmente scontando facendo volare ieri in Borsa i titoli del gruppo italo-americano (+8,2%) e affossando quelli di Psa (-12,8%). La famiglia Agnelli incassa così i frutti della cura Marchionne a un anno e tre mesi dalla sua scomparsa. Al netto dei corifei sindacali e giornalistici che hanno cercato di venderlo come il campione dalla grande visione industriale non capito dall' Italietta, il manager ha dispiegato la sua vera abilità nel curare gli interessi dei suoi azionisti, salvando l' azienda con l' operazione Chrysler e risanandola. Considerando i dividendi del 2017 e quelli straordinari della sciagurata cessione di Magneti Marelli a Calsonic Kansei Corporation, agli azionisti Fca vanno quasi 8 miliardi in poco meno di due anni dopo i quasi dieci di digiuno sul fronte auto. Exor di fatto riduce la sua esposizione nel comparto auto, e forse continuerà a farlo (ma non prima di 3 anni), alla ricerca di partecipazioni più redditizie e in settori meno affamati di investimenti. Con un po' di ritardo, il governo italiano, non informato in anticipo, ieri si è fatto sentire. "Non posso giudicare l' accordo, è un' operazione di mercato, ma va salvaguardata l' occupazione in Italia", ha detto ieri il premier Giuseppe Conte, che incontrerà Elkann. Molto più netta Parigi: "Vigileremo affinché vengano salvaguardati posti di lavoro e stabilimenti". Gli operai di quelli italiani già tremano.

Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 2 novembre 2019. Quel salto in avanti era nelle cose. Difficile sopravvivere in un mercato competitivo e in un business ad altà intensità di capitale come quello dell’auto se non hai le dimensioni per stare tra i primi 3-4 gruppi a livello gloabale. La fusione di Fca con Peugeot è un’operazione perfetta sotto questo punto di vista. Ma nel giubilo collettivo che avvolge le nozze, ci si dimentica che ogni grande matrimonio tra industrie globali avrà ripercussioni su costi, occupazione e dislocazione degli impianti. I doppioni verranno tagliati, gli stabilimenti improduttivi saranno chiusi o riconvertiti. Ecco perché sorprende la dichiarazione a caldo del nuovo dominus del gruppo quel Carlos Tavares ex Ceo di Psa e da domani nuovo ad di Peugeot-Fca, considerato da tutti come uno dei migliori manager dell’auto. Tavares spiega che la fusione svilupperà sinergie di costo per 3,5 miliardi, “senza chiusure di stabilimenti”. Una dichiarazione ardita fatta probabilmente per rassicurare il Governo italiano e i sindacati. Ma reggerà alla prova dei fatti? E soprattutto come fai a realizzare risparmi per oltre 3,5 miliardi senza toccare gli impianti? Difficile a farsi. In realtà Tavares sa benissimo quali sono le aree dove Fca guadagna e quelle dove la vecchia Fiat arranca in modo strutturale. E difficile che l’uomo non metta mano alle situazioni di crisi. Per Psa il colpo grosso è l’accesso al mercato Usa. L’area Nafta (Usa, Canada) è la vera punta di diamante di Fca. I successi vengono dalle Jeep e dai pick up venduti in terra d’America. Lo dicono i numeri del bilancio. Oltre metà dei 110 miliardi di fatturato di Fca vengono da Oltre Atlantico. L’Europa allargata (Emea) fa solo un terzo del fatturato del Continente Nordamericano. Non solo ma la redditività operativa è ben diversa. Usa e Canada hanno un margine sul fatturato al 10%, mentre l’area Emea stenta da sempre superata anche dall’area asiatica che ha marginalità operativa oltre il 6%. I gioiellini di casa FiatChrysler quanto a valore sono i marchi Jeep e Ram. Le aree di debolezza sono antiche e ben note.  Neppure lo scomparso Marchionne, il risanatore per eccellenza non è mai riuscito a produrre utili in quella che una volta era la vecchia Fiat auto. La Fca Italy che ne ha preso l’eredità resta un’incompiuta nel curriculum di Marchionne. La società di fatto raggruppa le attività industriali in Italia, Europa, Turchia e Sudamerica ed è un pozzo senza fondo di perdite. Da sempre. Nel 2018 ha chiuso i conti con ben 1,25 miliardi di perdite nette. Doppiate le perdite dell’anno prima quando il rosso a fine bilancio si fermò a 670 milioni di euro. Ma la striscia negativa è lunga. Fca Italy ha perso 1,1 miliardi nel 2016 e altri 1,6 miliardi nel 2015. La vecchia Fiat auto che vuol dire gli impianti in Italia, ma anche in Serbia, Polonia, Germania e le partecipazioni in Brasile lavora costantemente in perdita. I costi superano inevitabilmente i ricavi almeno dal 2014 in poi. E neanche i pur forti incrementi di fatturato, passato da 19 miliardi a oltre 27 miliardi dal 2014 al 2018, riescono a colmare il gap con i costi. A livello di margine industriale netto, Fca Italy ha cumulato perdite per 5,7 miliardi negli ultimi 5 anni. Il problema come si vede non è congiunturale, ma strutturale e il nuovo colosso dell’auto che nasce dalla fusione dovrà trovare qualche soluzione. Ed è proprio in generale la vecchia Europa a zavorrare da sempre Fca. La marginalità nel Vecchio Continente è in rosso. Nel terzo trimestre del 2019 l’Ebit margin ha approfondito la caduta. Oggi la marginalità è negativa per l’1,2% sui ricavi. Così come l’ex marchio profittevole, la Maserati ha vissuto una stagione orribile. Il marchio del lusso è andato in perdita per 50 milioni di euro con un risultato negativo di oltre il 10% sulle vendite. Si confermano invece le aree di profittabilità crescente. Il Nord America vanta una marginalità operativa salita oltre il 10%, mentre ha corso anche l’area del Sudamerica con un margine sui ricavi passato dal 4,2% del 2018 al 6,9% dei primi nove mesi del 2019. Sono le due aree dove Fca vince e consente al gruppo di limitare il peso delle aree in difficoltà portando l’utile operativo totale del gruppo a oltre il 7% dei ricavi complessivi. Di fatto grazie ai mercati Usa e latino americano Fca può oggi contare su una redditività operativa vicina a Peugeot che sfiora l’8%. Ma Peugeot è da sempre più apprezzata dal mercato. Ha multipli più elevati di Fca e la sua profittabilità ha carattere più strutturale, mentre Fca ha raggiunto livelli di redditività in linea con la casa francese solo negli ultimi anni e grazie al contributo determinante del mercato Usa. Ecco perché è difficile che nel nuovo gruppo che nasce sotto influenza transalpina non si vadano a toccare i nervi scoperti della gestione della vecchia Fiat. L’Italia, le sue fabbriche che lavorano in perdita e i suoi marchi come Alfa Romeo, Lancia e Fiat che non brillano quanto a performance economiche-finanziarie. Con gli Agnelli, pur con il baricentro spostato con forza sul mercato americano e con la sede legale da tempo trasmigrata in Olanda, l’attenzione politica-simbolica all’Italia e alla sua industria dell’auto era iscritta nel Dna della vecchia Fiat. Ora con i francesi a condividere le sorti del nuovo gruppo mondiale, l’Italia e le sue fabbriche in perdita non saranno più un tabù insormontabile. Con buona pace delle rassicurazioni lanciate ieri dal nuovo deus ex machina del neonato colosso globale dell’auto.

Mario Giordano per “la Verità” il 2 novembre 2019. «Sfida globale». «Sinergia totale». «Qualcosa di speciale». «Grande Alleanza» (con la maiuscola). «Colpo grosso» (minuscolo senza Smaila). «Scelta strategica». «Nuovo colosso». «Sfida all' innovazione». «Nuovi modelli in vista». «Auto del futuro». «Sviluppo per il Paese». Grondano champagne i giornali italiani all' indomani dell' annuncio ufficiale della fusione fra la Peugeot e la Fca, l' ex Fiat. Naturalmente «I mercati festeggiano», «Piazza Affari brinda», «Il titolo vola». E gli eredi degli Agnelli, con le saccocce piene di denari sonanti, vengono immediatamente trasformati nei «Re Mida della Borsa». «John Elkann è un fenomeno», s' entusiasma la stampa di casa nostra. Manca poco alla beatificazione, ma il miracolo c' è già: la moltiplicazione dei dividendi e dei pesci. I quali pesci, come è noto, abboccano che è un piacere. In mezzo a tale ondata di entusiasmo, infatti, rischiano di passare sotto silenzio alcuni dati non insignificanti della sedicente «fusione alla pari». Il primo dei quali è che non si tratta affatto di una «fusione alla pari», ma, in pratica, di un' acquisizione di Fca da parte di Peugeot. L' accordo last minute, siglato dopo il fallimento del precedente tentativo di Fca con Renault, consegna infatti tutte le leve del comando nelle mani dei francesi, a cominciare dal consiglio d' amministrazione che sarà controllato da loro: su undici componenti, infatti, ne avranno cinque (come cinque ne avrà l'ex Fiat), ma l'undicesimo (e dunque ago della bilancia) sapete chi sarà? Ovvio: Carlos Tavares, attuale amministratore delegato di Peugeot. Sei a cinque et voilà, la Tour Eiffel trionferà. Come vendita, sia chiaro, è stata un'ottima vendita. Da questo punto di vista è vero che John Elkann è stato bravo: si è fatto letteralmente coprire d' oro. Le azioni Fca sono state pagate quasi il 30 per cento in più del valore di mercato, ai soci sarà distribuito un extra dividendo da 5,5 miliardi di euro. Le tasche si riempiono, gli azionisti esultano, gli eredi degli Agnelli si gonfiano di soldini come non era mai successo prima, e tutto questo naturalmente è bellissimo. Per loro, ovvio. Ma per noi? Cioè: per l' Italia? Davvero quest' operazione è così entusiasmante? Davvero ci apre un radioso futuro? Il sol dell' avvenire economico? Davvero merita tanto spreco di bollicine effervescenti innaturali, lo stappar degli spumanti, l'eccesso di entusiasmi, le colonne di giornale tutta panna e zucchero? Ho qualche dubbio. Anche perché lo Stato francese, già azionista al 12,2 per cento in Peugeot, sarà azionista con una quota del 6 per cento circa anche nella nuova società. Dunque la situazione è questa: si fondono un' azienda francese, con dentro lo Stato francese, è un' azienda apolide (un po' olandese, un po' inglese, un po' americana) che però di fatto è ancora il primo produttore di automobili in Italia. La maggioranza del Consiglio di amministrazione è dei francesi. Secondo voi, quando si dovranno prendere decisioni importanti (tipo: dove collocare la centrale degli acquisti, da cui dipende tutto l' indotto) che città si sceglierà? Parigi o altro? E quando si dovrà scegliere quali impianti chiudere e quali lavoratori licenziare, chi sarà a piangere? Metz (Francia) o Pomigliano (Italia)? Le dichiarazioni ufficiali garantiscono che nessuno stabilimento sarà chiuso. Ma le dichiarazioni ufficiali nel momento dell' entusiasmo sono sempre state smentite nel giro di qualche anno. E, in ogni caso, nessuna dichiarazione ufficiale garantisce la stabilità dell' occupazione: dei 400.000 lavoratori che attualmente fanno parte dei due gruppi, qualcuno ci rimetterà le penne. Altrimenti com' è che si fanno le famose «sinergie»? Com'è che si fanno i (previsti) risparmi? Da qualche parte bisognerà pure tagliare. Ed è evidente che non taglieranno in Francia. L'ipotesi di un accordo fra Peugeot e ex Fiat, per altro, non è nuova. Era saltata fuori a più riprese negli anni passati. Anche Sergio Marchionne aveva accarezzato l'idea. Ma poi l'aveva accantonata, preferendo altre soluzioni proprio per gli eccessi di sovrapposizioni, per i troppi «stabilimenti fotocopia». Ricorderete inoltre che il precedente accordo di Fca oltralpe, quello con Renault, era stato fatto saltare dal governo francese proprio perché temeva che con la fusione ci fossero posti di lavoro a rischio in Francia. In questo caso, invece, nessun timore. Lo Stato francese, che sta dentro l'azionariato, festeggia. Dunque non vede posti di lavoro a rischio in Francia. Ma, tirando le somme, se fra Fca e Peugeot ci sono stabilimenti fotocopia da chiudere, o da ridurre pesantemente, e questo non accadrà in Francia, secondo voi, dove accadrà? La risposta non è difficile. In Italia, mettendo tutto insieme, sono rimasti i brandelli di una dozzina di stabilimenti ex Fiat. Chi ci lavora, ovviamente, chiede protezione. Ma la differenza è che lo Stato francese è nell' azionariato del nuovo colosso. Quello italiano, invece, non c' è. Non c' è nell' azionariato del nuovo colosso. Ma non solo lì. Lo Stato italiano non c' è proprio. In queste occasioni non c' è mai. Quando si tratta di difendere le nostre aziende, il nostro patrimonio, i nostri lavoratori, noi siamo campioni della latitanza. E così, dopo aver dato, per anni, soldi alla Fiat, la nostra politica guarda l'ultimo passaggio della resa industriale del Paese con lo stesso sguardo catatonico con cui ha accompagnato i passaggi precedenti. Non pervenuta. L'unico commento del premier Conte, avvertito a giochi fatti, è che questa nuova società «porterà economia di scala con risparmio dei progettati investimenti con particolare riguardo allo sviluppo delle auto elettriche». Ma certo: evviva evviva. Evviva le auto elettriche. Evviva le economie di scala. Ed evviva gli eredi Agnelli con le tasche piene di soldi.Siamo tutti felici: le Borse festeggiano, gli azionisti pure. Gli operai un po' meno. Ma a chi importa?

Fusione Fca-Psa, qual è il destino dei marchi italiani? Perché Alfa Romeo e Lancia rischiano. Il Corriere della Sera Redazione Economia il 18 dicembre 2019. La fusione e le complessità. La fusione Psa-Fca dà vita al quarto colosso mondiale dell’auto con quasi 10 milioni di veicoli prodotti, dopo Volkswagen, Renault-Nissan e Toyota. Un’operazione transnazionale e transcontinentale (Fca controlla l’almericana Chrysler, per esempio) che vale 50 miliardi di euro e che si porta dietro, com’è naturale che sia, una serie di complessità da rompicapo. A cominciare dai numerosi marchi - ben quattordici - da aggregare nella fusione. Quattordici marchi automobilistici, tanto per chiarire, sono più di quelli gestisce l’intero gruppo Volkswagen, il primo della classe per dimensione.

Come in ogni fusione bisognerà evitare i rischi di sovrapposizione per i prodotti e quelli legati all’identità e posizionamento dei marchi, allo scopo di azzeccare la giusta strategia di mercato.

I marchi «generalisti». Cinque sono i marchi principali, che potremmo definire «generalisti», tanto per intenderci: Citroën, Peugeot, Fiat, Lancia, Opel. Nel progetto di aggregazione dovrebbero condividere le medesime piattaforme, con sinergie industriali per 3,7 miliardi all’anno (leggi qui: tutti i dettagli della fusione). Se industrialmente l’aggregazione ha un senso (per economie di scala, acquisti e impianti), lo ha meno, almeno in linea di principio, sul mercato. Con i modelli dei vari marchi che rischiano di cannibalizzarsi a vicenda nella battaglia delle immatricolazioni. L’intenzione potrebbe essere quella di mettere in concorrenza modelli e marchi (così come i manager), preservando solo chi è in grado di generare utili. Chi resta in piedi sopravviverà. Chi è in difficoltà, malgrado la forza della storia e della tradizione, sarà sacrificato. Ma sarà davvero così?

La competizione tra i manager. Il lavoro di rimodulazione si presenta complesso e articolato. Per plasmare il nuovo super gruppo, Tavares e Manley hanno avviato nove comitati di lavoro composti dai manager di entrambe le società per lo sviluppo del business, del prodotto, dell’organizzazione industriale, degli aspetti legali e finanziari, per la comunicazione istituzionale, risorse umane, relazioni industriali, responsabili degli acquisti. Come ha spigato Bianca Carretto sul Corriere della Sera, ogni comitato è composto almeno da 2-3 persone per ciascuna azienda, in tutto quindi poco più di 50 top manager. «Avremo bisogno di tutti per arrivare a un’entità così grande - ribadisce Tavares - le scelte avverranno seguendo le regole della meritocrazia, per ogni posizione chiave verrà privilegiato il miglior dirigente per assicurare i risultati migliori». Succederà anche per i marchi? E quali saranno quelli destinati a sopravvivere?

Fiat. Tornando ai marchi, Peugeot, Citroen e Fiat rappresentano l’asse portante della fusione. Uno dei due marchi francese, forse Citroen, a sentire gli addetti ai lavori, potrebbe portarsi su modelli più evoluti, ai margine del segmento «premium», mentre Fiat potrebbe rimanere più «pop». Con 1,38 milioni di veicoli venduti lo scorso anno, Fiat all’interno del nuovo gruppo è secondo soltanto a Peugeot. La presenza è rilevante in Europa e Sud America. Negli Usa è diffusa solo la 500. L’altro prodotto principale del gruppo è un’altra utilitaria, Panda.  Al prossimo salone di Ginevra, Fiat presenterà in anteprima la 500 elettrica, prima auto a zero emissioni del marchio.

Lancia. Tra i marchi minori, la posizione di Lancia e quella di Alfa Romeo potrebbero essere ridiscusse. Oggi il marchio Lancia è identificato con Ypsilon, praticamente un mono-prodotto, che vende bene in particolare in Italia. Nel confronto interno Fca-Psa, ha come rivale la linea Ds di modelli semi-lusso e ad alta tecnologia. La scommessa in stile Audi di inventare da zero un brand di prestigio è ancora incerta, anche se dal lato dei costi la linea Ds ha il vantaggio di condividere le piattaforme con Peugeot. In un ottica di selezione, il rischio concreto è che il marchio storico dell’automobilismo italiano (fondata nel 1906 a Torino da Vincenzo Lancia e un tempo protagonista assoluto del mondo dei rally) possa scomparire dalle strade.

Il destino di Alfa Romeo. Alfa Romeo, l’altro marchio storico di Fca, non ha mai trovato un vero rilancio, malgrado le intenzioni più volte manifestate da Sergio Marchionne negli anni del rilancio del gruppo. Ora si trova in una situazione di incertezza, anche se il nuovo numero uno di Fca-Psa, Oscar Tavares, fa del rilancio dei marchi sportivi Alfa e Maserati un punto d’onore. Alfa Romeo e Maserati non hanno contraltari nel gruppo francese, anche se Alfa propone in gamma soltanto tre veicoli: Giulietta, Giulia e Stelvio.

Nel 2018 le vendite sono aumentate del 10% raggiungendo le 119.269 unità anno: di queste, il 69% in Europa e il 21% negli Stati Uniti. Tuttavia, nel 2019 le stime sono deludenti: il marchio di Arese chiuderà l’anno sotto le centomila immatricolazioni. Incertezza anche sui modelli: si aspetta il Suv medio Tonale, presentato al salone di Ginevra.

Jeep. Sul segmento «premium», Jeep sembra in posizione di forza. Nel 2018 Jeep ha aumentato le vendite dell’11%, arrivando a 1,55 milioni di auto. Anche se a fine 2019 le vendite sono scese parecchio e il 2019 potrebbe finire al di sotto delle aspettative. Il veicolo di maggior successo è la nuova Compass (413 mila immatricolazione globali); molto diffusa anche Renegade, Suv di fascia B che conta come rivali alcuni modelli Peugeot, come 2008 e 3008.

Maserati. Chi si sente al sicuro è il marchio del Tridente, malgrado i numeri in calo nelle ultime stagioni (nel 2018 vendite in calo del 28% a 35.238 unità). La casa di Modena è di fatto l’unico marchio premium-sportivo-lusso del nuovo gruppo e gode di prestigio internazionale. Maserati ha prodotti che vanno dalla media Ghibli alla super berlina Quattroporte fino a Levante, il primo Suv della casa. Fca ha già promesso il rinnovo dei prodotti (anche in chiave ibrido-elettrica) con sette nuovi modelli tra il 2020 e il 2023.

Abarth. Abarth ha vissuto nell’ultimo anno il periodo migliore della sua storia: vendite aumentate del 7,4% a 26.736 unità. L’azienda è controllata al 100% da Fca, elaboratore ufficiale in chiave sportiva delle auto del gruppo. I rischi qui arrivano soprattutto dall’assenza nella gamma di un modello elettrico o ibrido che metterebbe Abarth in difficoltà di fronte alle regole e alle sanzioni Ue relative alle emissioni inquinanti. 

Ecco perché Fca è finita in buone mani. A capo del nuovo gruppo ci sarà Carlos Tavares, il manager che ha rilanciato Psa ed è riuscito a rimettere in sesto Opel. I vantaggi per l'Alfa. Guido Fontanelli il 18 dicembre 2019 su Panorama. È fatta: dopo il via libera dei rispettivi consigli di amministrazione martedì 17 dicembre, nasce un nuovo gruppo automobilistico formato dalla fusione tra l’italo-americana Fca e la francese Psa. L’annuncio è stato dato mercoledì 18 dicembre. Fca-Psa sarà al quarto posto della classifica dei dieci maggiori produttori mondiali di auto dopo Volkswagen, Toyota e Renault-Nissan-Mitsubishi con 8,7 milioni di vetture vendute. Alla guida di questo nuovo colosso, come amministratore delegato, ci sarà Carlos Tavares. E a questo punto val la pena fare la conoscenza dell’uomo che avrà nelle sue mani i destini dei 199 mila dipendenti del gruppo Fca e in particolare di quelli che lavorano nei 16 stabilimenti italiani. Dice un dirigente che ha lavorato per anni in Fiat a stretto contatto con l’ex amministratore Sergio Marchionne: «Tavares è attualmente il miglior manager dell’auto in circolazione, conosce benissimo il settore e sa usare le leve giuste per rimettere in sesto un’azienda, come ha dimostrato in Psa e con l’acquisizione dell’Opel». Un parere confermato dallo storico Giuseppe Berta in una recente intervista: «È una figura accostabile a Marchionne come carattere e visione con in più una specializzazione e una passione per l’auto che il manager canadese non aveva».

Manager appassionato . Nato a Lisbona nel 1958, diplomato alla Ecole Centrale de Paris, Tavares ha iniziato la sua carriera in Renault nel 1981. Ha poi lavorato per la  Nissan, società legata alla Renault da un intreccio azionario. Per diventare nel 2011 Chief operating officer di Renault e braccio destro del brasiliano Carlos Ghosn, manager straordinario (ora decaduto) e fautore dell’alleanza Renault-Nissan. Tavares ha rassegnato le dimissioni dalla Renault il 29 agosto 2013, due settimane dopo aver pubblicamente dichiarato di voler diventare Ceo di un’altra casa automobilistica. Il rapporto di lavoro tra i due Carlos era ormai logorato e Tavares dichiarò in un'intervista che stava cercando di trasferirsi alla Ford o alla General Motors perché le sue ambizioni non potevano essere soddisfatte alla Renault. L’intervista ha fatto infuriare Ghosn ed avendo rifiutato il suo suggerimento di scusarsi con il personale della Renault per la gaffe, Tavares è stato costretto a dimettersi. Ma un anno dopo, nel 2014 Tavares ha raggiunto il suo ambizioso obiettivo, viene nominato amministratore delegato e presidente del consiglio di amministrazione di Psa, casa che poggia sui marchi Peugeot, Citroen e il più recente Ds. Il rilancio firmato Tavares è straordinario, tenendo conto che il gruppo Psa non solo era in perdita, ma è anche radicato in Europa, mercato difficile, e si è pure permesso il lusso di acquisire la tedesca Opel dalla General Motors: una società che avrebbe fatto perdere a Gm, secondo alcune stime, circa 20 miliardi di dollari dal 2000 al 2016. Durante il suo mandato, Tavares ha riportato Psa in attivo: nel 2018 il gruppo ha annunciato vendite e profitti record, sfoggiando un margine operativo dell'8,4% per i marchi Peugeot, Citroen e Ds e un margine del 4,7% per Opel a soli 18 mesi dall’acquisto. «La trasformazione di Psa sotto Tavares è stata straordinaria» ha scritto Max Warburton di Bernstein in una nota agli investitori in giugno. Secondo Automotive News, la formula di Tavares, ammesso che ce ne sia una, poggia sul miglioramento dei prezzi anche a costo di ridurre i volumi; il mantenimento di un forte brand; e un'efficiente allocazione del capitale. E poi le qualità di Tavares come leader, capace di essere rapido e di esplorare fonti di entrare meno consuete, come le vetture usate. E pur avendo messo in dubbio la portata della rivoluzione elettrica dell’auto, il manager portoghese ha adeguato rapidamente l’azienda al nuovo scenario. Ora ogni nuovo modello Psa ha la versione elettrica o ibrida. A fronte di tanti successi resta qualche ombra: vendite in Cina ancora scarse, eccessiva concentrazione in Europa dove Psa ha una quota di mercato di quasi il 15% contro il 5,6% di Fca, e il mezzo flop del marchio Ds nell’alto di gamma.

L'impatto in Italia. I vantaggi dell’unione con Fca sono evidenti: mentre quest’ultima potrà modernizzare la sua gamma e sfruttare le piattaforme dei francesi, Tavares ottiene un marchio globale come Jeep, una forte presenza negli Usa con Ram, due marchi di prestigio come Alfa Romeo e Maserati. «Sicuramente il marchio che avrà un ruolo significativo nel nuovo gruppo è Alfa Romeo» dice Marco Santino, partner della società di consulenza Oliver Wyman, «che potrà contare su più piattaforme grazie all'unione con Psa. Su Maserati potrebbe essere invece necessaria una riflessione per verificare se sia il caso di puntare più in alto, con meno volumi e più valore». Per quanto riguarda il rischio di sovrapposizioni, Santino è fiducioso: «Ormai la gamma Fiat è ridotta all'osso e ritengo che i marchi della casa alla fine beneficeranno della fusione. Complessivamente Psa è un buon partner per Fca, ha una cultura industriale simile a quella del gruppo italiano ed è guidata da un ottimo manager. Alla fine è meglio dell'alternativa Renault-Nissan, nonostante quet'ultima avrebbe portato una forte presenza in Asia che invece a Fca-Psa manca». Guardata dal punto di vista dei sindacati, la fusione potrebbe risultare positiva per gli stabilimenti dove vengono prodotte le Alfa. Anche Melfi, dove vengono costruite le Jeep, starà tranquillo. Più incerto il destino di Pomigliano e del polo elettrico piemontese. Ma va anche tenuto presente che la Opel su una forza lavoro globale di 38 mila persone ne ha visto tagliare oltre 8 mila.

Diodato Pirone per “il Messaggero” il 19 dicembre 2019. Nella fusione Fca-Peugeot una cosa sola è certa: non è l'unione delle due società e nemmeno la presenza fra gli azionisti del tetragono Stato francese a minacciare il posto di lavoro dei 55.000 dipendenti italiani del Lingotto. Per capirlo dobbiamo partire da alcuni dati di fatto. L'attuale Fca guadagna un sacco di soldi in America (margine del 10% nello scorso trimestre) e in Brasile (margine del 6%) ma in Europa è sostanzialmente in pareggio e in Italia è in passivo. La fotografia del bilancio 2018 di Fca è chiarissima: i quasi 90.000 dipendenti Usa hanno prodotto oltre 4 miliardi di utile lordo mentre gli altri 100.000 (55.000 dei quali italiani) hanno generato solo un miliardo di profitti. Il quadro è variegato: alcuni stabilimenti italiani di assemblaggio (in particolare quelli di Mirafiori, Grugliasco e Cassino) lavorano solo al 50% delle loro capacità produttiva, mentre altri (quello dei furgoni Ducato in Abruzzo) lavorano anche di sabato e per i cambi a Termoli sono stati chiesti turni straordinari per la vigilia di Natale e per quella di Capodanno. Dunque non la fusione ma la debolezza attuale di alcune fabbriche è il vero nemico da battere, ricordandosi sempre che i plant Fiat hanno visto situazioni ben peggiori perché nel 2004, quando arrivò Sergio Marchionne a Torino, riuscivano a perdere 3 milioni al giorno. In questo contesto la fusione con i francesi comporta, come vedremo, grandi rischi ma anche opportunità enormi. Queste ultime sono chiarissime: un gruppo che fattura 170 miliardi e prevede 11 miliardi di utili ha le spalle sufficientemente larghe per tornare ad investire massicciamente nei marchi premium e del lusso come Maserati e Alfa Romeo che sono l'asso nella manica delle fabbriche italiane. Sul piano dei rischi il comparto che corre i pericoli maggiori è quello dei motori. Fca e Peugeot producono molti propulsori simili, specialmente quelli per le vetture di piccola dimensione come le Panda e la 208. Fiat in Europa ha quattro stabilimenti di motori, uno in Polonia a Bielsko Biala che è considerato efficientissimo avendo conquistato il livello oro nella classifica del World Class Manufacturing, il sistema produttivo che misura la qualità (a partire dall'assenza di infortuni) di tutti gli oltre 100 stabilimenti mondiali del Lingotto. In Italia si fabbricano motori a benzina nella grande fabbrica molisana di Termoli, e diesel a Pratola Serra, in Campania, e a Cento in Emilia. Peugeot concentra la sua produzione motoristica a Tremery e Douvrin in Francia. Fca e Psa assieme vendono in Europa circa 4 milioni di vetture e dunque sei fabbriche di motori non sono di per sé eccessive. Il problema è che l'intero settore sta abbandonando il gioiello diesel per abbracciare propulsori elettrici che hanno 200 componenti contro i 7/800 dei primi. Costruire un motore elettrico è un gioco da ragazzi rispetto all'assemblaggio di un propulsore endotermico e dunque il settore motoristico fusione o non fusione - è destinato a bruciare moltissimi posti di lavoro nei prossimi 10 anni. Un altro comparto da tenere d'occhio è quello della ricerca. Uno dei grandi meriti dell'amministratore delegato di Peugeot, Carlos Tavares, è stato quello di risanare con ferocia la casa francese e poi la Opel per poi investire molto sia in nuovi telai flessibili adatti a vetture normali e elettriche sia nell'elettrificazione della gamma. Gli investimenti in ricerca della Fca europea (che vale un terzo di Peugeot) sono stati molto più modesti negli anni scorsi e si sono concentrati soprattutto sull'ottimo telaio Giorgio che ha reso le Alfa Romeo competitive con la migliore concorrenza tedesca. Insomma, il Centro di Ricerca Fca di Orbassano, vicino Torino, un tempo fra i più importanti d'Europa ha assoluto bisogno di ritrovare una missione d'alto profilo che bisognerà concordare con i francesi se l'Italia vuole svolgere un ruolo nella filiera dell'elettrico. Terzo punto critico è il destino di un gioiello come Comau, l'azienda torinese dei robot. Si tratta di una delle rare eccellenze tecnologiche italiane. Per ora Fca e Psa hanno deciso di tenersela, nel senso che se in futuro dovesse essere venduta il ricavato sarebbe suddiviso fra entrambi i soci. Un classico caso nel quale un governo attento allo sviluppo industriale del Paese dovrebbe accendere un faro.

Fca-Psa: ecco l'accordo per il quarto gruppo al mondo di auto. Elkann alla presidenza, Tavares ceo. Operazione chiusa in 12-15 mesi, la sede sarà in Olanda e la quotazione tripla. Risparmi annui per 3,7 miliardi condividendo le tecnologie "senza chiusure di stabilimenti". Prima delle nozze, Fca distribuirà un dividendo speciale da 5,5 miliardi ai suoi soci, più altri 1,1 miliardi di cedola ordinaria. Entrano i lavoratori in cda. La Repubblica il 18 Dicembre 2019. Fca-Psa: ecco l'annuncio ufficiale della fusione. Le nozze tra i due gruppi dell'auto, per creare un campione europeo secondo solo alla tedesca Volkswagen e quarto nella classifica mondiale dei produttori (ma terzo se si guarda al fatturato, come rimarcano le società), sarà chiuso nel giro di dodici quindici-mesi. La nuova sede del gruppo che terrà insieme Fiat e Chrysler, Peugeot e Citroën - solo per citare alcuni dei marchi in portafoglio - sarà in Olanda. Confermata la tripla quotazione: le azioni scambieranno sul circuito Euronext di Parigi, sulla Borsa Italiana di Milano e al New York Stock Exchange, ovvero Wall Street. Così come messo nero su bianco l'impegno a non chiudere stabilimenti, pur ricercando risparmi e sinergie importanti. Positiva (i titoli in diretta: Fca e Psa) la reazione del mercato all'ufficializzazione.

Il nuovo gruppo da 170 miliardi. I dettagli sono arrivati con una comunicazione prima dell'apertura dei mercati, nella giornata di mercoledì, confermando quel che era via via emerso in queste settimane di trattative. Per Fiat Chrysler si tratta del coronamento di un percorso avviato da Sergio Marchionne, che giudicava ineluttabili le fusioni nel mondo automobilistico (sognava la General Motors) per affrontare le sfide della concorrenza e delle nuove tecnologie. Fin dall'incipit della nota congiunta si fa riferimento alla sfida della "mobilità sostenibile" come primo obiettivo del nuovo gruppo. Sarà una realtà da quasi 9 milioni di veicoli, con ricavi di quasi 170 miliardi di euro, un utile operativo corrente di oltre 11 miliardi e un margine operativo del 6,6%. "Il nuovo gruppo avrà una presenza geografica molto più bilanciata", spiegano le società, "con il 46% dei ricavi generati in Europa e il 43% in Nord America".

Risparmi per 3,7 miliardi "senza chiudere stabilimenti". Unire le forze significa condividere le piattaforme dei veicoli, generare "sinergie" - come si suol dire nel mondo aziendale - e in sintesi risparmiare. Le società quantificano questi risparmi. Quelli "associati alle tecnologie, ai prodotti e alle piattaforme" rappresenteranno "il 40% circa dei 3,7 miliardi di euro di sinergie annuali a regime, mentre i risparmi relativi agli acquisti - che beneficeranno principalmente delle economie di scala e degli allineamenti al miglior prezzo - rappresenteranno un ulteriore 40% di tali sinergie", spiegano le società. La parte restante di tagli alle spese verrà da marketing, amministrazione, spese generali. Generarle comporterà un costo, ma solo per una volta, di 2,8 miliardi. Chiaro il disegno di impiego delle risorse recuperate grazie all'unione delle forze: "Tali sinergie consentiranno al nuovo gruppo di investire fortemente nelle tecnologie e nei servizi che definiranno la mobilità in futuro, contribuendo al raggiungimento degli stringenti requisiti normativi globali sulle emissioni di CO2". "Queste stime di sinergie non prevedono alcuna chiusura di stabilimenti in conseguenza dell'operazione", mette nero su bianco il comunicato rispondendo alle preoccupazioni di molti, dai sindacati alla politica. Concetto ribadito da Mike Minley e Carlos Tavares, guide dei due gruppi: l'ad di Fca ha insistito sul fatto che la grande maggioranza delle sinergie realizzate con le nozze tra i due gruppi "non riguarda il personale". Da parte sua, Tavares ha insistito su un punto "molto importante": questa operazione "viene realizzata da due gruppi che sono in ottima forma. Non facciamo una fusione in un contesto di crisi o in una situazione difficile per le due compagnie", ma perché "sappiamo" che servirà ad essere più forti rispetto alle sfide del futuro.

Nuovo cda a 11 membri, entrano i lavoratori. Al governo del nuovo gruppo ci sarà un consiglio di amministrazione da undici membri, "la maggioranza dei quali indipendenti". Cinque saranno in quota Fca-Exor (con il presidente John Elkann che prenderà la carica di presidente anche del nuovo gruppo) e cinque in quota francese (con il vice presidente e il "senior non-executive director"). Spiega la nota: "Al perfezionamento dell'operazione il Consiglio includerà due membri in rappresentanza dei lavoratori di Fca e di Groupe Psa", con una mossa alla tedesca ufficializzata a pochi giorni dal raggiungimento dell'accordo negli Usa con il sindacato Uaw. "Carlos Tavares sarà Chief Executive Officer, oltre che membro del Consiglio di Amministrazione, per un mandato iniziale di cinque anni", aggiunge la nota blindando di fatto la guida dell'azienda per il prossimo futuro.

La nuova struttura azionaria, scendono i cinesi. Come da attese, nella sistemazione finale del nuovo gruppo si prevede che il gruppo cinese Dongfeng scenda nel capitale: dal 12,2% attuale, a fine operazione sarà al 4,5% del nuovo gruppo con l'autorizzazione per la famiglia Peugeot di rilevarne una parte. Psa acquisterà poi 30,7 milioni delle azioni in mano a Dongfeng, prima della chiusura dell'operazione, per cancellarle. In questo modo, la quota della famiglia francese e dello Stato sarebbero in linea (sommate attorno al 14%) con quella di Exor nel nuovo gruppo. Un equilibrio che si crea laddove era fallito nel disegno naufragato di matrimonio tra Fca e Renault, risalente soltanto a pochi mesi or sono. Nella nota si spiega poi che lo statuto non permetterà a nessun azionista di avere "diritto di voto in misura eccedente il 30% dei voti espressi in assemblea. Si prevede inoltre che non ci sarà alcun trasferimento dei diritti di doppio voto esistenti, ma che i nuovi diritti di doppio voto speciale matureranno dopo un periodo di detenzione delle azioni di tre anni dal perfezionamento della fusione". Prima del closing, Fca distribuirà ai propri azionisti un dividendo speciale di 5,5 miliardi di euro mentre Psa retrocederà ai soci la quota del 46% detenuta nella società di componentistica Faurecia. Ma non è la sola remunerazione dei soci prevista: Fca e Psa distribuiranno ciascuna un dividendo ordinario di 1,1 miliardi di euro nel 2020, relativo all'esercizio 2019. Al closing, gli azionisti di Psa riceveranno 1,742 azioni della società risultante dalla fusione per ogni azione Psa detenuta, mentre gli azionisti di Fca avranno una azione della società risultante dalla fusione per ogni azione detenuta in Fca. Nessuna menzione, nella nota ufficiale, a quelle che per Les Echoes sono delle "spade di Damocle" sul futuro del gruppo, ovvero la causa intentata da Gm a Fca (con l'accusa di aver 'oliato' i rapporti coi sindacati, rispedita al mittente come "sconcertante") e la richiesta del Fisco italiano da 1,4 miliardi.

Nome ancora da studiare, le parole dei manager. Ancora velo calato sul nome del nuovo gruppo. "E' un processo che comincia ora e che speriamo di concludere nei prossimi mesi", ha detto l'ad di Fca, Mike Manley, aggiungendo che non si tratta in alcun caso di una questione "delicata", ma "soltanto interessante". Parole a cui ha fatto eco Carlos Tavares. Il nome? "Abbiamo tempo per lavorarci sopra, valutare le opzioni, non c'è fretta. Sarà un lavoro stimolante". Nella nota ufficiale, Tavares ha sottolineato che l'operazione "rappresenta una grande opportunità per raggiungere una posizione ancora più forte nel settore attraverso il nostro impegno a guidare la trasformazione verso un mondo con una mobilità ecologica, sicura e sostenibile e a offrire ai nostri clienti prodotti, tecnologie e servizi d'eccellenza". Manley ha parlato dell'unione di "marchi incredibili e persone appassionate e competenti". Ricordando che "entrambe hanno affrontato momenti di estrema difficoltà", il manager ha rimarcato che "ne sono uscite ancora più agili, intelligenti e formidabili. Le nostre persone hanno un tratto in comune, quello di guardare alle sfide come opportunità da cogliere perché rappresentano la strada per renderci ancora migliori nel fare quello che facciamo".

Dagospia. Da tgcom24.mediaset.it il 13 dicembre 2019. Con la sua vita piena di eccessi, fatta di party sfrenati, amori appassionati e vacanze di lusso, ha tenuto banco sulle pagine di cronaca rosa. Ora, a 42 anni, Lapo Elkann ha deciso di cambiare totalmente vita. Il suo impegno va adesso alla lotta contro le dipendenze, di cui lui stesso è stato vittima, come racconta in un'intervista al settimanale Grazia. La prima tappa del suo viaggio di rinascita è la messa in vendita di alcuni pezzi del suo guardaroba: il ricavato andrà alla LAPS (Libera Accademia Progetti Sperimentali) di cui lo stesso Elkann è il fondatore: "Avevo voglia di mettere insieme tre anime che mi appartengono: il mio impegno sociale, la creatività e la sostenibilità". E' un Lapo tutto diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi anni, che lotta in prima linea contro le dipendenze da internet, smartphone, videogame e social network. "So di che cosa si tratta, avendole vissute sulla mia pelle". Ma adesso, per lui, è acqua passata: "Non bevo più, non uso sostanze e da due mesi ho anche smesso di fumare". "Da bambino - racconta nell'intervista - mi sono trovato ad affrontare situazioni difficili, dagli abusi sessuali alla dislessia fino ai problemi legati all'apprendimento di cui ho sofferto e soffro tutt'ora... Mi sono messo a disposizione degli altri per dare aiuto, amore e appoggio ai bambini e adolescenti alle prese con le stesse situazioni". Aiutare gli altri, dare l'esempio e restituire quello che ha avuto sono gli obiettivi che il rampollo di casa Agnelli si è prefissato in questa sua "nuova vita". "Mi occupo delle mie aziende e contemporaneamente faccio solidarietà - ha spiegato - Sento che è venuto il momento di dare di più al prossimo. Sia perché questo fa stare bene me, sia per essere più utile agli altri".

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 14 dicembre 2019. Lapo ci è, da sempre, simpatico. Già nascere con accanto un fratello mostruosamente competitivo come John Elkann dev'essere stato un calvario. Quindi tutte le sue storie di eccessi, droghe, transessuali, le abbiamo sempre viste sotto il profilo strettamente umano, per non dire umanitario. Che non sappia fare assolutamente nulla (cosa che è evidente nonostante il suo parlare di aziende delle quali sarebbe alla guida) è, dal nostro punto di vista, una nota di merito e non di demerito. Lapo è un artista della vita: è giusto che, a parte vivere da Lapo, non faccia altro. Ma vivere da Lapo vuol dire anche avere l'intelligenza e il talento di cambiare spesso ruoli. Ora, per esempio, in un'intervista a "Grazia", Lapo si è scoperto asceta. Forse non chiederà il sacerdozio, ma ci siamo vicini. Ha dichiarato che non beve più, non si fa più, e ha smesso perfino, da due mesi, di fumare. Vuole combattere le dipendenze, tutte, anche quelle (in effetti davvero devastanti) da social network, e quindi ha cancellato i suoi account Facebook e Instagram, perché «focalizzati sull' apparenza, sul mettere in mostra una vita che non è sempre quella che realmente si vive». E aggiungiamo noi, una vita da Lapo, nella sua reale consistenza, effettivamente nessun social la può rappresentare. Lapo si è, non si comunica. Lapo ha però tenuto Twitter, perché «è diverso: è utile per poter comunicare ciò che uno pensa o vede e per smentire eventuali informazioni non corrette, quindi anche per potersi difendere». Difendersi da che? Finora Lapo ha dovuto perlopiù difendersi da se stesso, dalle sue impulsività, e sarebbe bello, in effetti, un giorno vedere Lapo che, su Twitter, si difende da Lapo. Comunque, a 42 anni, pare proprio che Lapo abbia scoperto un altro se stesso, più profondo, più legato ai valori veri. Continua sempre, infatti, a parlare di misteriosi progetti «ideati da giovani e dedicati ai giovani», chimere legate a brand dai nomi suggestivi che raramente escono dalla fase di temeraria ideazione per farsi valore economico (quello è un dono riservato al fratello maggiore) però parla anche, apparentemente con cognizione di causa, di "sostenibilità" e "impegno sociale". In particolare, Lapo sembra intenzionato a mettere a disposizione degli altri la sua lunga esperienza con le dipendenze, per aiutare chi ne fosse vittima, e questo è senz' altro lodevole. E sono impeccabili queste sue parole: «Dobbiamo guardare alle nostre vulnerabilità con amore e gentilezza, non con cattiveria e durezza, perché essere vulnerabili, buoni, gentili ed educati sono valori, non difetti. Sono una persona buona, ma non penso di essere né stupido né fesso: nel nostro Paese troppo spesso la bontà è considerata, purtroppo, un segnale di debolezza». Non gli si può dare torto. Di certo Lapo sa che, se fosse nato povero, sarebbe stato semplicemente tritato dalla competizione della vita, e che solo la sua famiglia e le sue sostanze lo hanno posto in una condizione di riparo. Non possiamo esimerci però dal vestire i tetri panni dei consiglieri spirituali, in vista di questa conversione di Lapo. E domandarci: è sincero? Ce la farà? Non è la prima volta, infatti, che Lapo annuncia resipiscenza. Naturalmente ci auguriamo che il "programma dei 12 passi" che Lapo sta intraprendendo per liberarsi dalle dipendenze da alcol, droghe e tutto il resto abbia pieno successo. Anzi, fossero anche 13 o 14 i passi, o 164, ci starebbe bene. Temiamo però che le dipendenze, in Lapo, non siano la causa dei suoi problemi, ma l' effetto. Le cause sono altre (di alcune, Lapo stesso ha parlato con il candore che gli è riconosciuto, e riguardano alcune molestie subite da piccolo) e con quelle averci a che fare può essere diabolicamente difficile. Ma Lapo, nonostante le apparenze, è uomo resistente e tenace. Dai suoi guai ha sempre avuto il carattere di rialzarsi. Se l' annunciata sobrietà sarà reale, tanto meglio per lui, purché non diventi noioso come, ci perdonerà, il fratello. Se invece si tratta di un divertissement, l' ennesimo, in una vita d' artista che non ha nulla da invidiare a Andy Warhol, attenderemo con ansia il nuovo camuffamento. In ogni caso, sentiremo ancora parlare, a lungo, di Lapo.

Lapo Elkann cambia vita: "Ora lotto contro le dipendenze". Lapo Elkann è cambiato, ha messo un punto alla sua vita precedente e ha deciso di dedicarsi maggiormente agli altri con progetti benefici, mettendo il suo impegno nella lotta alle dipendenze. Francesca Galici, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Lapo Elkann è cresciuto, forse. Ha messo da parte gli eccessi e ha deciso di cambiare vita, dedicandosi maggiormente agli altri. Dopo aver condotto una vita sregolata, a 42 anni il nipote di Gianni Agnelli ha deciso di dare una svolta e ha iniziato a dedicarsi con maggiore impegno alla beneficenza. Di lui nel corso degli anni si è parlato tanto, ma solo in parte per la sua spiccata vena imprenditoriale. Il suo genio l'ha portato a realizzare tantissimi progetti e a collaborare attivamente con le aziende di famiglia, spesso con risultati di successo. Tuttavia, le sue imprese in campo lavorativo sono sempre state offuscate da comportamenti borderline, dovuti all'assunzione di sostanze e di alcol. Le dipendenze, di ogni tipo, sono state una costante della vita di Lapo Elkann fino a ora, ma adesso il rampollo di casa Agnelli ha deciso di cambiare vita. "Non bevo più, non uso sostanze e da due mesi ho anche smesso di fumare", ha detto Lapo nel corso di un'intervista con il settimanale Grazia. Il figlio di Alain Elkann e di Margherita Agnelli ha deciso di spendersi in prima persona nella lotta contro le dipendenze, che non sono solo quelle da alcol e da sostanze stupefacenti. Pare, infatti, che per un periodo della sua vita l'uomo sia stato anche dipendente da internet, dai video videogame e dai social network. Ora che ne è uscito, vuole dare il suo contributo per aiutare il prossimo: "So di che cosa si tratta, avendole vissute sulla mia pelle." Il primo passo di questa nuova vita del nipote dell'Avvocato è stato la vendita di una parte del suo guardaroba, il cui ricavato servirà a sostenere la LAPS (Libera Accademia Progetti Sperimentali), fondata dallo stesso Lapo Elkann. "Avevo voglia di mettere insieme tre anime che mi appartengono: il mio impegno sociale, la creatività e la sostenibilità", ha dichiarato nel presentare il progetto. Nell'intervista rilasciata al settimanale Grazia, il rampollo Agnelli si è raccontato in maniera intima e introspettiva e ha spiegato da dove nasce il suo modo di essere: "Da bambino mi sono trovato ad affrontare situazioni difficili, dagli abusi sessuali alla dislessia fino ai problemi legati all'apprendimento di cui ho sofferto e soffro tutt'ora." Questo trascorso è stato la molla che l'ha spinto ad aprirsi agli altri per offrire il suo supporto: "Mi sono messo a disposizione degli altri per dare aiuto, amore e appoggio ai bambini e adolescenti alle prese con le stesse situazioni." In questa nuova vita che si appresta a iniziare, Lapo Elkann vuole restituire quello che la vita gli ha regalato. Continuerà a occuparsi delle sue aziende ma lo farà con maggiore consapevolezza, con un occhio sempre attento ai progetti benefici: "Sento che è venuto il momento di dare di più al prossimo. Sia perché questo fa stare bene me, sia per essere più utile agli altri."

Lapo Elkann, grave incidente d’auto a Tel Aviv: «Ora voglio solo fare del bene». Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Massaro. Il nipote dell’Avvocato in coma dopo l’impatto, ora è fuori pericolo». E al Corriere dice: «Adesso voglio cambiare». Lapo stava tornando a Tel Aviv da una visita a Gerusalemme, dove aveva visitato il Muro del Pianto. L’incidente - di cui non sono chiare le dinamiche, avendo Lapo perso conoscenza - è avvenuto di sera, attorno alle 19 ora locale. Lapo era da solo e nell’incidente sarebbero rimaste coinvolte altre persone. In questo momento il nipote di Gianni Agnelli non è più ricoverato in Israele ma in convalescenza in un altro ospedale in Svizzera ed è sulla via del recupero. Lo ha confermato lo stesso Lapo in una videochiamata giovedì 19 mattina con il Corriere della Sera: «Voglio innanzitutto ringraziare Dio, e poi i medici israeliani e quelli europei. Voglio pregare per i ragazzi giovani che ho visto morire in Israele accanto a me nei letti delle emergenze dell’ospedale, gli amici che mi sono stati vicini, la mia famiglia. Voglio ringraziare Dio di avermi dato la possibilità di ridarmi la vita. Voglio dedicare il mio tempo, il mio cuore e risorse economiche a fare del bene - continua Lapo - occupandomi della mia Onlus, che non è un capriccio da bambino viziato. Umanamente Lapo Elkann - continua il nipote dell’Avvocato - non è come lo descrivono gli altri ma un uomo con il cuore aperto e che ha voglia di fare del bene. Con l’incidente ho capito che è questo il mio nuovo motto di vita».

Lapo Elkann, grave incidente stradale in Israele: "Ora sto meglio, ringrazio Dio". Il fratello di John Elkann è stato ricoverato a Tel Aviv dieci giorni fa ed è stato anche in coma. Ora è in una clinica Svizzera per completare il recupero. La Repubblica il 19 dicembre 2019. Lapo Elkann è stato vittima di un grave incidente d'auto in Israele, a Tel Aviv. L'incidente è avvenuto una decina di giorni fa e gli ha causato diverse fratture. E' stato lui stesso a rivelare l'accaduto: "Voglio ringraziare Dio, e poi i medici israeliani e quelli europei", ha fatto sapere al Corriere della Sera il nipote di Gianni Agnelli, che è stato ricoverato in codice rosso, in coma, all'Assuta Hospital di Tel Aviv, dove è rimasto diversi giorni. Ora si trova in una clinica svizzera, da dove racconta di essere sulla via del recupero. Elkann stava tornando a Tel Aviv da una visita a Gerusalemme. L'incidente è avvenuto attorno alle 19. Le dinamiche non sono chiare, ma sembra che non siano state coinvolte altre persone. "Voglio pregare per i ragazzi giovani che ho visto morire in Israele accanto a me nei letti delle emergenze dell’ospedale, gli amici che mi sono stati vicini, la mia famiglia. Voglio ringraziare Dio di avermi dato la possibilità di ridarmi la vita. Voglio dedicare il mio tempo, il mio cuore e risorse economiche a fare del bene occupandomi della mia Onlus", ha detto Lapo. Che le sue condizioni di salute siano in miglioramento lo dimostra anche il fatto che ieri Lapo Elkann è tornato a comunicare sui social network, commentando la fusione tra Fca e Psa: "Caro fratello, ho sempre creduto in te e sempre lo farò. Sono orgoglioso di te, grande lavoro di squadra. Batman & Robin = Elkann & Tavares. Bravo".

Lapo Elkann: «Io da piccolo dislessico, iperattivo e abusato». Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. «Come ho avuto modo di raccontare più volte pubblicamente da bambino ho sofferto sia di dislessia sia di sindrome di iperattività. E sono stato anche abusato sessualmente». Maglione lilla, jeans, uno sfondo domestico che ricorda la cameretta di un bambino, con tanto di due Playmobil giganti, un cavaliere dall’armatura scintillante e un vecchio re con baffi e favoriti alla Cecco Beppe, Lapo Elkann, 42 anni il prossimo 7 ottobre, ha scelto la giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, per tornare a parlare della sua dolorosa giovinezza dorata. Il suo racconto degli abusi subiti in collegio aveva già fatto scalpore alcuni anni fa, ma oggi - dice Elkann - «non è un giorno in cui voglio parlare né di me né di quello che è successo a me. Voglio parlare dei bambini, dell’infanzia e di questi giovani. E vorrei parlare di LAPS, Libera Accademia per progetti sperimentali», una fondazione che ha lanciato nelle scorse settimane a Palermo d’intesa con la Croce Rossa comitato regionale siciliano. «LAPS - spiega Elkann nel video - si occupa proprio di questo. Lavora sulla dislessia, lavora sull’iperattività, lavora sui problemi legati alla dislessia, sui problemi legati all’iperattività, su problemi legati agli abusi e si occupa proprio di riportare, di ridare e di ridonare il sorriso e la felicità a bambini e ad adolescenti che non hanno le stesse possibilità e opportunità e privilegi che ho avuto io nella mia vita».

Lapo Elkann ha bisogno di soldi. Nel giorno del trionfo del fratello, l'annuncio: non tutto fila liscio...A.B. su Libero Quotidiano il 2 Novembre 2019. Nuovo aumento di capitale necessario a Italia Independent, la società fondata da Lapo Elkann che ha approvato il nuovo piano di sviluppo 2019-2023 con l' obiettivo di razionalizzare la struttura aziendale anche attraverso la realizzazione di un nuovo modello di business, per aumentare la competitività e ridurre i costi. Il piano, che stima nel periodo considerato una crescita dei ricavi fino a 42 milioni di euro, prevede una riduzione dei costi di struttura e risparmi operativi per circa 1,7 milioni di euro a partire dal secondo anno, con un ritorno all' Ebitda positivo (+3,2 milioni di euro) e all' utile (+1 milione di euro) a partire dall' esercizio 2021. L' assemblea di Italia Independent Spa convocata ai sensi dell' articolo 2446 del Codice civile ha deliberato di chiedere al socio unico Iig che fa capo a Lapo Elkann per il 53,93% di dotare la società controllata delle risorse finanziarie necessarie a ripianare le perdite e supportare le iniziative previste dal piano. «Stiamo lavorando con il massimo impegno per costruire il futuro di Italia Independent e siamo convinti che la società saprà rispondere alle aspettative dei nostri azionisti e dei nostri clienti» ha dichiarato il presidente e fondatore di Italia Independent Lapo Elkann. A.B.

John Elkann, l'Agnello diventato il lupo di Piazza Affari: soldi, cosa non sapete. Nino Sunseri su Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. In pochi avrebbero scommesso qualcosa su John Elkann in quei drammatici giorni di fine maggio del 2004. Con il cadavere di Umberto ancora caldo, Giuseppe Morchio, amministratore delegato Fiat da un anno, aveva accarezzato il sogno di diventare il capo assoluto e forse un giorno, il riferimento azionario del gruppo. Della dinastia Agnelli erano rimasti solo orfani e vedove. Un tumore aveva portato via Giovannino, il figlio di Umberto, l'erede designato. Era rimasto John cui nonno Gianni aveva ceduto il controllo della cassaforte di famiglia e quindi lo scettro. Aveva solo 28 anni, come avrebbe potuto reggere il peso di un' azienda al fallimento? In lui non credeva nemmeno la madre Margherita che, di fronte a quello che sembrava un disastro ormai inevitabile aveva chiesto di essere liquidata. Salvava se stessa e i cinque figli nati dal matrimonio con Serge de Palhen. I tre ragazzi frutto delle nozze con Alain Elkann (Ginevra, Lapo e John) si arrangiassero e non importa se avevano smesso, anche pubblicamente, di chiamarla mamma. In poche ore Gianluigi Gabetti (gran ciambellano di casa scomparso di recente a 94 anni) Franzo Grande Stevens (l' avvocato dell' Avvocato) con la sponda di Susanna allestiscono una soluzione. Morchio viene licenziato e il primo giugno viene presentata la nuova squadra: Montezemolo presidente, John vice presidente, Sergio Marchionne (un perfetto sconosciuto nel mondo dell' auto) amministratore delegato. Il titolo Fiat vale circa 1,6 euro e potrebbe scendere ancora. Di John in quei mesi si parla poco. La star, ovviamente è Montezemolo mentre Marchionne comincia a far parlare di sé. Il ragazzo si occupa di finanza e di giornali con alterne fortune. Soprattutto la carta stampata non si dimostra un successo. Tenta di prendere il comando del Corriere della Sera, di cui è maggior azionista ma viene respinto. Non riesce nemmeno a ottenere la nomina di un direttore di suo gradimento dopo essere riuscito, con moltissima fatica, a liberarsi di Ferruccio de Bortoli di cui non apprezza l' autonomia. Non va bene nemmeno con La Stampa, il giornale di famiglia. Sono in tanti a sorridere di questo ragazzo che dove non c' è la mano di Marchionne non riesce a combinare proprio niente di buono. E invece il ragazzo sta crescendo. Decide di abbandonare il mondo dei giornali italiani: vende il quotidiano torinese al gruppo De Benedetti e regala le azioni del Corriere della Sera ai soci Fiat. Diventa il primo azionista dell' Economist che ha gran blasone e, soprattutto, guadagna. Cambia il perimetro e il nome della Ifi, la vecchia cassaforte di famiglia quotata in Borsa. La fa diventare Exor con un tocco di piccola civetteria. È il nome della holding cui faceva capo la cantina francese che produce i vini più famosi (e cari) del mondo. Chateau Margeaux. Vende il vino e si tiene il nome. Accompagna Marchionne in tutta l' operazione di creazione di valore. Il risultato è che oggi John è almeno di dieci volte più ricco. Quando prende la vicepresidenza di Fiat il valore di Borsa era di 5,5 miliardi. Oggi è pari a 60 miliardi mettendo insieme i vari pezzi che nel frattempo sono stati quotati: Fca, Ferrari e Cnh (che sta per fare un altro spezzatino separando Iveco). Il cammino inverso rispetto a nonno Gianni: aveva ereditato un gioiello dalla mani di Vittorio Valletta e quando l' ha lasciato è quasi al fallimento. Ma è nell' ultimo anno che comincia il gran valzer con la Borsa. Senza più Marchionne che comunque teneva fermo il profilo industriale John lascia danzare la finanza. In dodici mesi sugli azionisti piovono dividendi per 8,5 miliardi. Una pioggia d' oro dopo dieci anni di astinenza. Due miliardi arrivano come cedola straordinaria legata alla cessione per 5,8 miliardi della Magneti Marelli. Un altro miliardo è rappresentato dalla cedola ordinaria. Infine i 5,5 miliardi che saranno distribuiti come corollario della vendita a Peugeot. Di questa pioggia d' oro il maggior beneficiario è Exor che quando tutto sarà finito avrà portato a casa più di 2,4 miliardi. Ma gli azionisti di minoranza non hanno certo da lamentarsi. Da quando c' è John il titolo è salito del mille%. Vuol dire che 1000 euro investiti nel 2004 sono diventati 10mila. Senza contare il regalo aggiuntivo per le prossime nozze con i francesi. Nino Sunseri

Marco Palombi per ''il Fatto Quotidiano'' l'1 dicembre 2019. Domani sarà probabilmente il giorno in cui i fratelli Rodolfo e Marco De Benedetti annunceranno il passaggio della quota di controllo del gruppo editoriale Gedi (Repubblica, La Stampa, giornali locali e radio) dalla Cir - di cui è convocato il consiglio d' amministrazione - alla Exor NV , la finanziaria olandese che fa da cassaforte alla famiglia Agnelli: l' obiettivo, una volta acquisito il controllo del gruppo, è effettuare il delisting dell' azienda, cioè l' uscita dalla Borsa. Una piccola rivoluzione nel piccolo mondo dei giornali che è una grande rivoluzione in quello del potere. E anche una piccola sorpresa: finora le operazioni degli Agnelli sotto il regno di John Elkann sono sempre andate dall' Italia verso l' estero, stavolta avviene il contrario. La famiglia piemontese ieri ha fatto sapere, attraverso l' agenzia Ansa, che vuole gestire il gruppo (e rilanciarlo grazie "ai vantaggi della rivoluzione digitale"), che non ha intenzione di fare spezzatini o vendite separate (Repubblica), che assicura la "garanzia dell' autonomia redazionale" che tutti ricordano nelle precedenti avventure editoriali degli ex industriali dell' auto. Si vedrà se i prati sono davvero in fiore, ma resta la domanda sul senso economico dell' operazione. L' ultima trimestrale di Gedi, quella al 30 settembre, parla di una situazione non piacevole: -18,3 milioni di risultato netto e fatturato in discesa in tutte le voci (vendite, pubblicità, etc.), ma il bilancio senza la vendita del gestore delle reti Persidera sarebbe in sostanziale equilibrio. Il valore della società, secondo l' ultimo report Mediobanca, è di circa 240 milioni (al lordo di un passivo ingente) per il 75% grazie alle radio: il problema più grosso, nel medio periodo, sono Repubblica e i suoi 400 dipendenti. I soldi per comprare, in ogni caso, ad Exor non mancano certo. Non bastassero quelli che ci sono già, infatti, nella cassaforte olandese pioverà circa un miliardo e mezzo di euro del premio che gli azionisti Fca riceveranno dalla fusione con Psa (in cambio del sostanziale controllo francese sull' azienda). Attualmente gli Agnelli sono al 6% di Gedi, la Cir al 43,7: i fratelli De Benedetti probabilmente conserveranno una piccola quota, ma Exor dovrà fare un' offerta più generosa ai soci di quella da 0,25 euro circa ad azione avanzata in ottobre da Carlo De Benedetti per il 29,9% del gruppo, questo anche per evitare sgradite perdite alla Cir (che ha Gedi a bilancio per il doppio). Domani si capiranno le cifre, che dovrebbero però essere già definite, mentre resta il mistero sul piano industriale: le tre radio sono un piccolo gioiello, discorso diverso per i giornali, che però - dal punto di vista del "peso" politico - sono il pezzo pregiato dell' operazione: Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX e i 13 giornali locali ex Finegil (Il Tirreno, Il Piccolo, eccetera). Secondo indiscrezioni, nel 2018 la prima era in perdita, gli altri due in leggero rosso, gli ultimi in utile. Se l' acquisto di Gedi non è "sentimentale" ma economico, come fa sapere Exor, allora si intravvede una linea d' azione, che ha le sue radici in quel che già è accaduto nel gruppo dalla fusione tra l' ex gruppo Espresso e Itedi (Stampa e Secolo). Certo gli Agnelli vorranno un loro amministratore delegato al posto di Laura Cioli, forse proprio Mario Scanavino, buon rapporto con Elkann, allontanato dal centro delle operazioni proprio da Cioli. Nel frattempo, però, il gruppo editoriale ha già portato a Torino - e sotto la direzione di Maurizio Molinari della Stampa - tutta Gedi News Network, cioè i quotidiani esclusa Repubblica: non solo il management da Marco Moroni in giù, ma anche tutta la produzione delle pagine nazionali e internazionali (compresi spettacoli e sport) che La Stampa produce per tutti i locali. Lo stesso Molinari, che guida "il giornale di famiglia", avrebbe ricevuto nelle ultime settimane da John Elkann in persona il "consiglio" di fare un quotidiano più attento al Piemonte: indicazione che sembra essere stata seguita. Insomma, la direzione industriale sembra essere quella di costruire una rete di quotidiani locali e la prima cosa che balza all' occhio è la duplicazione delle redazioni in almeno due città (Torino e Genova), senza contare - parlando di Repubblica - il costo non compensato dai ricavi di alcuni dorsi locali (ad esempio Palermo e Bari). Insomma, se Elkann vuole gestire probabilmente dovrà tagliare, ma la realtà è che il giornale fondato da Eugenio Scalfari, a forte vocazione nazionale e politica, pare il meno sensato in un progetto del genere: venderlo potrebbe essere quasi naturale. A meno che non siano vere le voci malevole che già circolano: la fusione con Peugeot & C. alla fine sarà un bagno di sangue per le fabbriche italiane in termini di occupazione. Quando si licenzia, avere qualche giornale a disposizione certo non fa male.

 Editoria, tornano gli Agnelli per riprendersi la borghesia liberale. Marco Demarco il 5 Dicembre 2019 su Il Riformista. Meglio sporcarsi le mani col grasso dei motori che con l’inchiostro delle tipografie. Sia il vecchio Cuccia al tempo dell’Avvocato sia il più giovane Marchionne al tempo di Elkann hanno sempre invitato gli Agnelli, che sapevano attratti dal potere seduttivo della stampa, a tenersi a debita distanza da testate e redazioni. E in effetti, nonostante quel richiamo quasi istintivo, il disimpegno editoriale della famiglia reale del capitalismo italiano è stato, negli anni, lineare e costante. Ma ora quel tempo è passato, e passate sono anche le convergenti diffidenze per l’editoria da parte del potente banchiere che preferiva l’essere all’apparire e del manager che amava i pullover più delle convenzioni sociali. Finita quella stagione, ecco che gli Agnelli ritornano. Prima, muovendosi a distanza sullo scacchiere europeo, acquisendo buona parte delle azioni dell’Economist e ora rimpatriando per rovesciare a proprio vantaggio i rapporti di forza con i De Benedetti all’interno del gruppo Gedi, vale a dire del primo gruppo editoriale italiano, che oltre a Repubblica e L’Espresso possiede anche La Stampa, quattordici testate locali come il Secolo XIX di Genova, il Piccolo di Trieste e il Tirreno in Toscana, tre radio tra cui la molto politicizzata Radio Capital, e riviste influenti come Limes e militanti come Micromega. In molti ora si chiedono cosa ne sarà di Repubblica. Del giornale simbolo di questa galassia editoriale. Del giornale cioè, che fatta l’Italia del boom economico, finita la fase aurea del riformismo nazionale, surclassando le esperienze estremiste di Lotta continua e del Manifesto, a partire dal 1976 ha formato gli italiani del tempo successivo, quello del determinismo progressista, di una Storia che doveva solo essere portata al capolinea e che invece si è improvvisamente riaperta. Per riuscire in questa impresa, che aspirava appunto a cavalcare la Storia resistendo ai diktat dei terroristi al tempo di Moro, alle pretese presidenzialiste di un Craxi-Ghino di Tacco e poi di un Berlusconi visto come un pericoloso Caimano, il giornale di Scalfari si è prima graficamente spalancato alla politica e poi si è costituito ufficialmente come il giornale-partito della borghesia riflessiva. La riforma grafica non è stata una pura trovata formale. Scalfari ha abolito la mitica terza pagina che fino a quel momento, a mo’ di diga, avviando subito la sezione culturale dei giornali, li costringeva a sintetizzare la politica in brevi note e noiosi pastoni. Fatto questo, la politica ha cominciato invece a raccontarla e indagarla (di fatto a trasformarla) senza limiti di pagine e attraverso mille espedienti narrativi, dai dettagli dei Comitati centrali del Pci colti al cannocchiale da Giampaolo Pansa ai monologhi teatralizzati di Saviano, passando per le domande inquisitorie suggerite dalle procure e rivolte al Palazzo da Giuseppe D’Avanzo. Questo quotidiano che a partire dal formato, il tabloid, ha cambiato la storia del giornalismo italiano e che col tempo è diventato un marcatore antropologico di stili di vita e di mode culturali, oggi tutti si chiedono che fine farà. Riuscirà, una volta targato Fiat, e con tutto il rispetto per la redazione, a preservare autonomia e identità? (Giovanni Valentini su Il Fatto). Proverà a dare battaglia al Corsera, visto che a via Solferino hanno sdoganato i nazional-populisti anche se non li hanno sposati? (Stefano Cingolani su Il Foglio). Resterà progressista e di sinistra? (anonimi numerosi). Ma la domanda giusta non è tra queste, tutte dipendenti dal fatto che qualcosa di certo potremmo saperlo solo vivendo. La domanda giusta è un’altra: perché proprio ora gli Agnelli, sedotti e abbandonati, tornano a frequentare le redazioni? E qui, prima ancora di una risposta, colpisce subito una coincidenza. Gli Agnelli entrano in scena proprio quando Berlusconi finisce nel cono d’ombra creato da Salvini e Meloni. Dopo avergli lasciato libero il campo, quando il Cavaliere scendeva in politica e in quattro e quattr’otto tirava su il suo partito, gli Agnelli quasi tornano fisicamente a riprenderselo. Una simbolica staffetta, ma anche uno scherzo del destino. La promessa mancata di una rivoluzione liberale ha lasciato in sospeso, come davanti a uno schermo quando si impalla l’immagine, l’altra metà della borghesia che aveva creduto in quella svolta. E se dopo trent’anni, con una stagnazione economica alle porte, nel vivo di una società signorile di massa, come la chiama Luca Ricolfi, la rivoluzione non offre più una prospettiva credibile e addirittura lascia ampi margini a suggestioni antieuropee, populismi e sovranisti vari, gli spazi che a catena si aprono non sono più solo quelli del mercato editoriale. Dopo anni di radicalismo variamente declinato, titolato e impaginato dalla Repubblica di Scalfari, probabilmente a quella borghesia si vuole ora offrire altro. Qualcosa di più “istituzionale”, di più “composto”. Qualcosa che non si esaurisca nello spontaneismo delle piazze o nel guizzo creativo di moltitudini strette come sardine. 

 (ANSA il 3 dicembre 2019. ) - Vola Gedi a Piazza Affari dopo l'annuncio dell'accordo per la vendita della partecipazione di Cir a Exor al prezzo di 0,46 euro per azione, con un premio di oltre il 60% rispetto alla chiusura di ieri. Il titolo, dopo essere rimasto per alcuni minuti in asta di volatilità, è entrato agli scambi dove segna non dove segna un rialzo del 60,49% a 0,455 euro, allineandosi al prezzo dell'Opa che verrà lanciata sul flottante. Scivola Cir (-4,76% a 1,12 euro) dopo il rally di ieri mentre Exor avanza dell'1,32% a 68,96 euro. - Il Comitato di redazione de La Stampa "accoglie positivamente le notizie sui nuovi assetti azionari di Gedi che fanno finalmente chiarezza sul nostro gruppo dopo mesi di voci e indiscrezioni e confida che la nuova proprietà metta a disposizione il prima possibile tutte le risorse necessarie per affrontare e vincere le nuove sfide dell'editoria 5.0". La redazione, "dopo anni di duri sacrifici, ritiene non siano più possibili ulteriori decurtazioni a stipendi e organici, tagli che potrebbero compromettere definitivamente la qualità del giornale, valore fino ad ora salvato grazie all'impegno e al senso di responsabilità di tutti i suoi giornalisti. Guardiamo ai nuovi assetti societari non come a "una operazione nostalgica" - concordando con quanto peraltro dichiarato dalla nuova proprietà - ma non dimentichiamo le nostre radici e anzi rivendichiamo orgogliosamente il nostro passato, elementi fondamentali per guardare al futuro". La redazione, infine, "concorda con John Elkann: non servono "suggestioni filantropiche", ma risorse certe, piani di sviluppo credibili e un gruppo più coeso e determinato nel perseguire i nuovi obiettivi che verranno individuati. E per quanto riguarda nello specifico la Stampa occorre riprendere la via del confronto e del dialogo all'insegna di corrette e serene relazioni sindacali - conclude il cdr del quotidiano torinese - nel rispetto della nostra storia e della nostra autonomia, unica vera garanzia per un'informazione autorevole e di qualità". - L'Assemblea dei giornalisti de L'Espresso che si è riunita all'indomani dell'annuncio della vendita a Exor della quota di controllo del Gruppo Gedi, "sollecita l'azienda a formalizzare da subito gli impegni presi nell'ultimo incontro avuto con il Comitato di Redazione". "La redazione, nonostante i molteplici sacrifici imposti - prosegue la nota -, è riuscita a rafforzare l'immagine della testata confermandone la storica centralità nel panorama editoriale. Forti del sostegno in tal senso del direttore Marco Damilano, i giornalisti de L'Espresso continueranno a garantire ai lettori autonomia, qualità e indipendenza".

Fabio Pavesi per affaritaliani.it del 1 dicembre 2019. Ora che il dado è tratto e che domani verrà annunciato il passaggio di consegne del pianeta Repubblica/Espresso sotto il marchio Gedi dalla famiglia De Benedetti all’Exor di John Elkann tutti si chiedono a quale prezzo avverrà lo storico cambio di proprietà. Stuoli di avvocati e advisor sono al lavoro anche in queste ore. Il prezzo è la variabile chiave. Quanto è disposto John Elkann a offrire senza strapagare un gruppo in crisi? Quante perdite i de Benedetti possono accettare pur di liberarsi della zavorra Gedi? 

LA DISTANZA ABISSALE TRA PREZZI DI BORSA E VALORE. Proviamo a caldo a fare qualche ipotesi. Il primo problema è garantire un’uscita ai due fratelli De Benedetti che non sia penalizzante oltremodo per la controllante Cir. E qui il nodo è difficile. Gedi è infatti in carico a Cir per quel 43% del capitale a 1,2 euro per azione. Equivale a un valore di bilancio in Cir di 273 milioni. Sotto quella cifra i De Benedetti venderebbero segnando una perdita. Accontentarli però da parte di Elkann presente nel capitale di Gedi con il 5,99% non sarà facile. La quota di Elkann è a bilancio di Exor per 10,5 milioni di euro che valorizza il gruppo poco più di 200 milioni di euro. In più Exor acquistò sul mercato nel 2017 un altro pacchettino di azioni Gedi pari all’1,7% per 6,8 milioni. 

LA CRISI DI GEDI NEI NUMERI. Quell’ultima transazione avvenne ai prezzi di Borsa di due anni fa quando Gedi quotava 80 centesimi. In due anni il mondo di Gedi si è capovolto. Oggi in Borsa il titolo vale solo 28 centesimi per un valore di mercato di meno di 150 milioni di euro. Quei due anni coincidono con la lenta caduta di fatturato e soprattutto di redditività del gruppo editoriale. Che ha segnato la prima perdita della sua storia proprio nel 2017 con una perdita netta per 120 milioni. Certo figlia di eventi straordinari (la pendenza persa con il fisco in una querelle durata 20 anni), ma che non cambia molto il quadro del declino. Anche il 2018 per oneri straordinari si è chiuso in perdita per 32 milioni. Si depuri pure dagli oneri non ricorrenti, ma il dato chiave che conoscono sia i De Benedetti che Elkann è nella continua erosione del fatturato e nel forte ridimensionamento della marginalità industriale. Il margine operativo lordo (Mol) del gruppo si è quasi dimezzato nel passaggio dal 2017 al 2018 e l’utile operativo è andato in rosso per 11 milioni a fine dello scorso anno. Trend di caduta in negativo dei margini che è proseguito. Nel primo semestre del 2019 a fronte di ricavi per 302 milioni il Mol si è attestato a soli 20 milioni, l’utile operativo segna 7 milioni e la perdita è stata di 19 milioni. Mentre nei primi nove mesi di quest’anno con il fatturato in calo di un altro 6% secco sui 12 mesi precedenti, i margini continuano a essere compressi con l’utile operativo che non va oltre il 3% e la perdita che si conferma per 18 milioni di euro. Anche qui pesano oneri straordinari. Tolti quelli l’utile sarebbe stato di appena 2,2 milioni su ricavi per 441 milioni. Tanta fatica per vedere profitti risicati anche escludendo le partite non ricorrenti. In queste condizioni difficile che si possano replicare le condizioni del 2017. Il quadro è radicalmente cambiato e ben si capisce perché i due fratelli De Benedetti vogliano sbarazzarsi dell’editoria. 

GEDI IL LUMICINO DEL GRUPPO CIR. Ormai è il lumicino del gruppo Cir. Basti  pensare che mentre Kos e Sogefi, le due altre attività della holding, producono utili operativi per 50 milioni la prima e per 37 milioni la seconda, l’editoria di Gedi raccoglie solo 7 milioni. Già nel 2018 era evidente la marginalizzazione di Gedi rispetto alle altre attività. L’editoria faceva ricavi per 648 milioni con utile operativo negativo per 11 milioni; mentre Kos con ricavi per 544 milioni produceva utili operativi positivi per 66 milioni e Sogefi con 1,6 miliardi di fatturato ha un utile operativo di 62 milioni. Come si vede Gedi è ormai la palla al piede del gruppo quanto a profittabilità. E il declino è difficilmente arrestabile. Uscire finchè si è in tempo è da mesi il mantra di Rodolfo e Marco De Benedetti limitando le perdite il più possibile ed evitare di accollarsene in futuro. Di fronte c’è l’unico compratore che può permettersi di tenere il prezzo più alto possibile per evitare che l’uscita di Gedi crei un buco nel bilancio di Cir. 

I NUMERI DEL COLOSSO EXOR. Ma anche se Exor è un gigante con ricavi per 143 miliardi; asset netti per 17 miliardi e utili nel 2018 per 5,4 miliardi a tutto c’è un limite. Per Elkann la partita Gedi è un pulviscolo nell’universo delle sue attività. Sarà anche disposto a spendere più del dovuto ma ovviamente senza eccedere. Alla fine si troverà quasi sicuramente un compromesso accettabile per entrambi. 

OK, MA IL PREZZO E’ GIUSTO? Un premio molto generoso del 100% sugli attuali valori di Borsa porterebbe a un’offerta per il 43% della quota dei De Benedetti di poco più di 130 milioni. Con il prezzo pagato nel lontano 2017 per l’1,7% del capitale si arriverebbe a poco meno di 180 milioni che valorizzerebbe l’intera Cir la bellezza di 400 milioni. Di più difficile davvero pensare che Elkann possa spingersi. Sarebbe quasi grottesco. Per i De Benedetti vorrà comunque dire anche di fronte a un’offerta più che generosa farsi carico di una perdita secca per Cir sui valori di carico di Gedi di quasi 100 milioni. Una perdita secca una tantum che però chiuderebbe per sempre l’avventura editoriale pluridecennale che rischia di zavorrare pesantemente la holding di famiglia. Certo Exor può permettersi di strapagare i giornali dato che al di là dei valori economici il loro beneficio immateriale spesso non ha prezzo. Soprattutto nel momento in cui Fca va a nozze con i francesi di Peugeot. Un matrimonio che rischia di avere pesanti effetti collaterali in termini di sacrificio occupazionale e produttivo che potrebbero essere chiesti al sistema Italia. La carta stampata e l’industria editoriale in genere sono ormai un lusso per mecenati, disposti a perdere quattrini pur di avere l’illusione di controllare la pubblica opinione. Nel caso di Gedi fonti vicine a John Elkann hanno fatto trapelare che non ci sarà “né uno spacchettamento del gruppo nè che si tratti di un'operazione nostalgica: quello che prenderà avvio la prossima settimana è un progetto imprenditoriale coraggioso, tutto proiettato al futuro. Obiettivo: assicurare a Gedi condizioni di stabilità che consentano alla società di evolvere velocemente, compiendo scelte che non possono più essere rimandate”. Un progetto che guarda al futuro è stato definito. Vedremo. 

LA ZAVORRA DI REPUBBLICA, IL GIOIELLO DELLE RADIO. Certo è che in Gedi non tutti i business si equivalgono. Da un lato il vero gioiello del gruppo quello che limita in parte il calo di profittabilità. Sono le radio del gruppo. Fatturano solo il 10% del totale ma hanno margini lordi del 30%. Lì c’è del valore vero. Anche le testate locali, più la Stampa e Il Secolo riescono a produrre guadagni. I ricavi nel primo semestre del 2019 sono un terzo del gruppo con il Mol in positivo per 9 milioni e 5,8 milioni di utile operativo. Il grande malato ormai da quasi 2 anni è proprio Repubblica/L’Espresso. La gestione industriale è in perdita dal 2018 con il Mol in rosso per 7 milioni su un fatturato annuo di 253 milioni. Anche l’utile operativo ha accusato quell’anno perdite per 13 milioni. E anche il primo semestre del 2019 segna un trend analogo. Il fatturato sui 12 mesi della  ex corazzata del gruppo è sceso di un altro 6% e a livello di utile operativo le perdite nei primi sei mesi del 2019 sono state di oltre 7 milioni. John Elkann dice che non pensa a uno scorporo. Logica vuole che lo spezzatino valorizzando radio e stampa locale e isolando il bubbone Repubblica sia la soluzione più razionale per ridare valore al titolo e coprire così una parte del prezzo, si pensa generoso, che verrà pagato ai De Benedetti.

Pietro Saccò per “Avvenire” il 3 dicembre 2019. Per capire quello che sta succedendo tra i De Benedetti e gli Agnelli occorre partire dai numeri più che dai nomi. Altrimenti sentire parlare della vendita del gruppo che controlla testate prestigiose come la Repubblica, La Stampa o l'Espresso ed emittenti seguitissime come Radio Deejay può confondere un po'. Venerdì scorso, cioè nel giorno in cui è venuta fuori l'indiscrezione sulla cessione delle azioni di Gedi dalla Cir alla Exor, l'intero gruppo editoriale in Borsa valeva 135 milioni di euro. Meno dell'1% del totale degli investimenti finanziari della holding degli Agnelli, che ammontava a 23,3 miliardi nell' ultima semestrale. Le cose che contano, nel bilancio di Exor, sono altre: la compagnia di riassicurazione PartnerRe, valutata 6,7 miliardi, le azioni della Ferrari (6,3 miliardi), quelle di Fca (5,5), di Cnh (3,3) e della Juventus (940 milioni). Parlare della Juventus può aiutare a inquadrare meglio l' aspetto finanziario dell' affare Gedi. Per Exor l' acquisto dell' intero gruppo editoriale è un' operazione finanziaria meno impegnativa di quella che ha portato Cristiano Ronaldo a Torino. E proprio nelle ore in cui trattava con i De Benedetti per la quota di controllo di Gedi, Elkann stava sborsando 191,2 milioni per fare la sua parte nell' aumento di capitale della squadra campione d' Italia, il cui patrimonio netto si stava pericolosamente avvicinando allo zero. Non è Gedi che vale poco, è il giornalismo come attività economica che rende pochissimo. Soprattutto quello stampato. Nell' ultima semestrale di Gedi, la divisione "Stampa Nazionale" (che include Repubblica, l' Espresso e i periodici) si è confermata uno dei grandi punti deboli del Gruppo: rispetto a un anno fa il fatturato è sceso del 5,8%, a 116,5 milioni di euro, con un rosso operativo di 7,7 milioni. A settembre le ultime stime del rapporto di Pwc sule mercato dei media in Italia mostravano come quest' anno, per la prima volta nella storia, la spesa degli italiani per comprare musica supererà quella per acquistare quotidiani. Fra quattro anni il giro d' affari dei videogiochi sarà tre volte quello della stampa. Nell'epoca dell'intrattenimento il giornalismo fatica a conquistarsi la sua fetta di attenzione (e di spesa) del pubblico e le aziende che fanno informazione vedono il loro giro d' affari restringersi anno dopo anno. Non tutte però. L'industria del settore guarda con attenzione l'incredibile svolta impressa da Jeff Bezos sul 'Washington Post'. Il fondatore di Amazon nel 2013 ha comprato il quotidiano americano dalla famiglia Graham e ne ha fatto una società di informazione e tecnologia, capace di raccogliere 1,5 milioni di abbonati paganti, assumere altri 250 giornalisti e rendere redditizia anche la sua piattaforma editoriale, concessa in licenza al gruppo dell' energia Bp che la userà per dare informazioni ai suoi 70mila dipendenti. John Elkann sa già che nell' editoria si può ancora creare valore. Sotto la sua presidenza, nel 2015 Exor è diventata il primo azionista dell' Economist, con una quota del 43,4%. L'Economist Group ha il famoso settimanale finanziario britannico, ma ha creato anche un'unità di "intelligence" che lavora sui dati, fa marketing, organizza eventi. Negli ultimi quattro anni i ricavi sono saliti da 278 a 333 milioni di sterline, l'ultimo bilancio si è chiuso addirittura con 25 milioni di utile. Il modello 'Economist' non è ovviamente del tutto replicabile con Gedi. Ma se c' è un 'padrone' che ha le risorse economiche e il 'know-how' necessari per portare in Italia le migliori esperienze viste all' estero quello è Exor.

Giovanni Valentini per ''Il Fatto Quotidiano'' il 4 dicembre 2019. Fu Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato sull’Espresso il 28 luglio 1974, a ribattezzarlo fin dal titolo “l’Avvocato di panna montata”. Gianni Agnelli aveva deciso di vendere alla Rizzoli – dietro la quale s’intravvedeva l’ombra di Eugenio Cefis, il potente presidente della Montedison – la quota del Corriere della Sera detenuta dalla Fiat. E allora Scalfari sferrò un attacco ad Agnelli, sospettando che fosse uscito dalla compagine azionaria di via Solferino per fare una cortesia ad Amintore Fanfani e alla Democrazia cristiana. «Quell’articolo era una reprimenda personale ancor prima che politico-finanziaria», avrebbe poi spiegato Carlo Caracciolo, editore del gruppo L’Espresso e cognato di Agnelli, nel libro-intervista intitolato L’editore fortunato a cura di Nello Ajello. E lui stesso aggiunse: «Dopo aver avanzato varie ipotesi sul comportamento del capo della Fiat in quella vicenda, Scalfari concludeva che essa assumeva per Agnelli l’aspetto drammatico e senza ritorno che la battaglia di Waterloo ebbe a suo tempo per Napoleone. Faceva da corollario a questa constatazione un esame quasi psicoanalitico del personaggio Gianni, i cui comportamenti venivano influenzati dal tedio di cui soffriva, dalla sua volagerie, dal suo essere fatto, appunto di panna montata». A mezzo secolo di distanza, arrivato alla veneranda età di 95 anni, oggi il fondatore di Repubblica si ritroverà John Elkann, il nipotino dell’Avvocato di panna montata, come proprietario del suo giornale – confluito intanto nel gruppo Gedi – in seguito al compimento della cessione della quota di controllo dalla Cir (la finanziaria della famiglia De Benedetti) alla Exor (la finanziaria della famiglia Agnelli). Si completerà così la maxi-fusione denominata “Stampubblica” che nel 2016 aveva avviato la trasformazione dell’ex gruppo L’Espresso in un gruppo di potere. Per via della parentela tra Agnelli e Caracciolo non erano mai stati facili i rapporti tra la Fiat e L’Espresso. Più volte l’Avvocato aveva manifestato al cognato il «disagio politico» che derivava alla sua azienda e alla sua famiglia dai presunti legami con il battagliero settimanale di via Po, «trovandosi Gianni a capo di un’azienda che da sempre era governativa per definizione», come spiega l’editore fortunato nell’intervista ad Ajello. Se ne ricava indirettamente una conferma anche dalla testimonianza di Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera e successivamente azionista del gruppo L’Espresso, che nel memoir intitolato Il mio filo rosso riferisce una conversazione con Gianni Agnelli: «La Fiat – le dice l’Avvocato – ha filiali in gran parte del mondo. Il Corriere parla della Russia, della Spagna, dell’Argentina, del Brasile con troppa spregiudicatezza, senza peli sulla lingua. Per noi questo è un problema. In politica interna poi, certi argomenti, certi tempi vengono trattati senza sfumature. La questione dell’aborto, del divorzio: noi proprio non potremmo permettere prese di posizione così dirette». Basterebbe già questo per smentire la tesi secondo cui la Repubblica e La Stampa avrebbero «radici comuni di due mondi del giornalismo e della cultura», sostenuta dall’ex direttore di entrambe le testate, Ezio Mauro. In realtà la sua nomina, voluta nel 1996 da De Benedetti, segnò la prima discontinuità, il primo strappo nella storia del giornale di Scalfari. Fino a quando la presenza del fondatore è stata pressoché quotidiana, e fino alla scomparsa di Caracciolo, si può dire che la Repubblica abbia mantenuto la rotta. Poi, nel secondo decennio di Mauro, ha cominciato a perdere copie per arrivare al tracollo con la direzione di Mario Calabresi, imposta dall’Ingegnere all’insaputa di Scalfari. E oggi, sotto la guida più esperta di Carlo Verdelli, naviga su una linea di galleggiamento nell’incertezza esistenziale fra il giornale d’opinione e quello più popolare d’ispirazione sportiva. Sarà pur vero, dunque, che John Elkann è meglio di Carlo De Benedetti, come afferma qualche autorevole esegeta di casa Fiat. Sta di fatto che oggi, mentre la prima industria privata italiana passa sotto l’egida francese della Peugeot, la Repubblica e L’Espresso cambiano padrone per affrontare un futuro incerto e pieno di incognite. Sarà messo in vendita “a spezzatino” l’ex gruppo Caracciolo? Quali conseguenze potrà avere l’eventuale uscita del titolo dal listino di Borsa, secondo le intenzioni attribuite al giovane Elkann? E soprattutto, che fine faranno le gloriose testate guidate da Scalfari? Una previsione è lecita: la Repubblica e L’Espresso targati Fiat, con tutto il rispetto per le rispettive direzioni e redazioni, avranno molte difficoltà a preservare la propria autonomia e indipendenza rispetto a una proprietà che ha poco o nulla a che fare con l’editoria. Dovranno tentare di conciliare l’anima progressista e l’identità di sinistra con gli animal spirits del capitalismo familiare italiano. E rischieranno così di diventare due giornali di panna montata.

Andrea Biondi per il “Sole 24 Ore” il 4 dicembre 2019. Un esborso totale per Exor di 198,2 milioni. Per Cir ci sarà invece da far fronte a una minusvalenza di 171 milioni, considerando il valore di carico della partecipazione in Gedi (43,78%), con impatto del 19,5% sul patrimonio netto calcolato sul bilancio d' esercizio. L' ex Gruppo Espresso della famiglia De Benedetti che va dritto nelle braccia della Exor degli Agnelli-Elkann ha iniziato il suo percorso. E lo ha fatto innanzitutto con una seduta da record per il titolo Gedi balzato del 60,21% allineandosi agli 0,46 euro messi sul piatto dalla holding della famiglia Agnelli come prezzo per l' Opa che seguirà. Al contrario hanno perso terreno sia Cir (-7,82%) sia Cofide (-1,26%) che l' altroieri tuttavia - con Gedi sospesa - avevano chiuso in forte rialzo. Chiaro che hanno pesato le prese di beneficio, ma è evidente che per Cir i 102,4 milioni che arriveranno dalla vendita del 43,78% di Gedi a Exor sono ben altra cosa rispetto ai 273,6 milioni di valore della partecipazione Gedi in bilancio. Il contraltare alla perdita contabile sono quei 46 centesimi per azione offerti con premio del 64% sugli 0,28 euro del titolo venerdì. A questo punto è iniziato il conto alla rovescia. Che non sarà breve: il closing del passaggio di quote da Cir a Exor, dopo tutte le autorizzazioni, è atteso entro aprile 2020 e poi scatterà l' Opa. Cir ha già detto che reinvestirà acquisendo il 5% della nuova società. In questo modo la famiglia De Benedetti non uscirà quindi dal business dell' editoria e da questa società che oltre a Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX, L' Espresso e altri periodici, ha un polo radio (Deejay, Capital, m20) e 13 quotidiani locali. Ma il pallino andrà a una Exor il cui presidente e ad John Elkann ha commentato l' operazione dichiarando l' impegno della holding «in un progetto imprenditoriale rigoroso, per accompagnare Gedi ad affrontare le sfide del futuro». Fra le quali c'è innanzitutto un'integrazione industriale rimasta per buona parte sulla carta. La differenza dei toni nei comunicati dei Cdr del gruppo ne è testimonianza. Da tutti c' è un secco no a tagli e sacrifici, ma mentre il Cdr de La Stampa scrive di accogliere «positivamente le notizie sui nuovi assetti azionari», quello di Repubblica ha sottolineato l' impegno «a difendere i valori, la storia e l' identità del giornale». L' attenzione ora sta nel capire i progetti di Exor. Niente vendite e spezzatini è stato fatto trapelare nei giorni scorsi. E neanche cambi ai vertici delle testate. In questo quadro sabato John Elkann avrebbe avuto anche un contatto con il direttore di Repubblica Carlo Verdelli, con tanto di riconferma di fiducia. La bussola, si indica da ambienti vicini alla holding, va invece individuata nelle parole usate dallo stesso John Elkann durante l'Investor Day a novembre di Exor - già presente nell' editoria come primo azionista de L' Economist - quando ha detto che «i prossimi 10 anni ci vedranno sempre coinvolti a costruire grandi società e ad acquisirne altre». Certo, quello dell' editoria è un settore calante. Le logiche sottese all' operazione però sarebbero solo economiche, con nessun addentellato politico. In questo quadro, non va trascurato che per Exor si parla di un' operazione che non raggiunge i 200 milioni: 90,7 milioni per il 43,78% di Gedi (sottraendo ai 102,4 milioni per la quota il reinvestimento di Cir nella società veicolo per 11,7 milioni) e Opa lanciata sul flottante di Gedi per 107,5 milioni, escludendo quanto già detenuto da Exor (pari a 14 milioni) e le azioni proprie. I 198,2 milioni di investimento totale sono una parte minima dei 3,6 miliardi di euro di liquidità da investire che la cassaforte degli Agnelli si troverà nel 2022. E per quanto piccolo, l' investimento è considerato in casa Exor a buon mercato: con un multipli ev/ebitda di 6,4 volte a fronte di un 6,8 di media del mercato, come risultante della media delle 5 volte per l' editoria e delle 8,1 volte per il mondo radio.

(ANSA il 10 dicembre 2019) - Cedere Gedi "non è stata una decisione semplice, ne presa alla leggera" ma una scelta "lungamente maturata", che arriva dopo decenni "in cui la nostra azienda ha contribuito alla nascita di questo gruppo, l'ha fatto diventare leader in Italia e l'ha gestito con molta efficacia durante la grande crisi dell'editoria". A dirlo, in una intervista al Sole 24 Ore, è Rodolfo De Benedetti, presidente di Cir. "Cir - spiega De Benedetti - è quotata e abbiamo la responsabilità nei confronti di tutti gli azionisti di allocare il capitale in maniera ottimale". Pochi giorni dopo l'accordo raggiunto con Exor per la vendita del 43,78% di Gedi, De Benedetti, oltre a tracciare il percorso futuro della holding - "concentreremo le nostre risorse per sviluppare Kos e Sogefi, anche in vista di opportunità di consolidamento" - ripercorre i motivi che lo hanno spinto, in accordo con l'ad di Cir Monica Mondardini e con i fratelli Marco ed Edoardo, a muovere questo passo "a testa alta", anche perché, aggiunge, "lo vedevamo come una grande opportunità che sarebbe stato sbagliato non cogliere". Ovvero: "Mettere in sicurezza un'azienda di 2.200 persone e consentirle di competere con successo nei prossimi 10 anni". Sullo sfondo, ci sono anche i rapporti con il padre Carlo, "fatti privati che non devono incidere su queste scelte": in ogni caso, l'auspicio è che girata la pagina di Gedi, "che ci ha portato a una situazione tesa e complicata", si possa arrivare a una "armonizzazione dei rapporti familiari".

Fca e l'eredità scomoda di Marchionne. Negli Usa il gruppo ha accumulato accuse di corruzione, di violazione delle leggi sull'inquinamento, di manipolazione del mercato. Il manager era all'oscuro? Guido Fontanelli il 2 dicembre 2019 su Panorama. Non è bello parlar male di chi non c’è più. Ma nei corridoi torinesi e americani di Fiat Chrysler Automobiles iniziano a circolare dubbi sul mito di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato scomparso il 25 luglio 2018 dopo 14 folgoranti anni alla guida della casa automobilistica. L’ultimo colpo al manager che ha salvato la Fiat è arrivato dalla General Motors: la società americana ha denunciato Fiat-Chrysler accusandola di aver corrotto il sindacato Uaw (United Auto Workers) per ottenere un illecito vantaggio competitivo. E il responsabile del servizio legale della Gm, Craig Glidden, ha detto ai giornalisti: «Il signor Marchionne è stato una figura centrale nel complotto». La causa presso la corte di Detroit è legata a un’altra inchiesta che ha coinvolto Fca negli Stati Uniti: il 27 agosto 2018 l’ex capo delle relazioni sindacali di Chrysler, Alphons Iacobelli, è stato condannato a 5 anni e mezzo di prigione per il suo ruolo nella corruzione di sindacalisti dell’Uaw, un sistema di tangenti che avrebbe fatto finire nelle tasche dei rappresentanti dei lavoratori ben 4,5 milioni di dollari. Non a caso Iacobelli viene citato 66 volte nelle 95 pagine della denuncia targata Gm. Se le accuse del gruppo americano verranno provate, Fca rischia di pagare una multa miliardaria: si parla di 6 miliardi di dollari. Il presidente della società John Elkann ha respinto le accuse, ma intanto lo scandalo delle tangenti è una brutta botta per l’immagine della casa italo-americana. E non è l’unica. Il 23 settembre scorso un altro manager di Fca, Emanuele Palma, è stato arrestato a Detroit dall’Fbi nel quadro delle indagini sulle emissioni truccate dei motori a gasolio. Palma, dirigente nel settore diesel ed emissioni, è accusato di avere violato il Clean Air Act, legge sulla protezione dell’ambiente negli Usa: come nel caso del Dieselgate della Volkswagen, i tecnici del gruppo avrebbero escogitato un sistema per superare i controlli sulle emissioni nella fase di test dei motori, i quali però, in condizioni di uso normale, inquinano molto di più. E non è finita: Fca sta pagando una multa da 40 milioni di dollari per chiudere l’indagine sui dati di vendita comunicati tra il 2012 e il 2016 negli Stati Uniti: la Sec, la Consob americana, ha accusato la casa automobilistica di aver pagato i concessionari affinché comunicassero numeri gonfiati sulle immatricolazioni. A complicare il caso ci si è messo Reid Bigland, responsabile commerciale della Fca negli Usa, che accusa il suo datore di lavoro di averlo discriminato e di averlo trasformato nel capro espiatorio mentre la Sec indagava sulle vendite taroccate. È possibile che Marchionne non sapesse niente di questi sporchi affari? Che un manager super accentratore come lui non fosse a conoscenza delle tangenti pagate ai sindacalisti con i quali condusse una lunga e difficile trattativa per favorire la fusione tra Fiat e Chrysler? O che nessuno lo avesse informato dei trucchetti adottati per superare i controlli sulle emissioni dei motori? Se non ne era informato, vuol dire che non controllava bene i suoi manager. E almeno in due occasioni, nei casi delle tangenti e dei dati di vendita gonfiati, il suo nome è stato tirato in ballo. Del resto Marchionne si è costruito l’immagine del giocatore di poker che azzarda mosse rischiose pur di portare a casa il risultato. Come ha fatto con l’acquisizione della Chrysler, promettendo all’ex presidente Barack Obama una serie di traguardi ecologici mai raggiunti. C’è da dire che il manager di Chieti non sarebbe il primo a sporcarsi le mani in un settore segnato da innumerevoli scandali: Martin Winterkorn, ex numero uno della Volkswagen, rischia in Germania 10 anni di prigione in seguito all’inchiesta sul Dieselgate, accusato di frode aggravata e violazione delle norme sulla concorrenza. Anche Rupert Stadler, ex amministratore delegato dell’Audi (gruppo Volkswagen) è stato incriminato per frode. Poi c’è il caso di Carlos Ghosn, fautore dell’alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi e considerato uno dei migliori dirigenti nel mondo dell’auto: si è fatto 108 giorni di galera in Giappone con l’accusa di aver sottostimato i propri compensi dal 2010 al 2017 e di aver commesso una serie di illeciti finanziari, tra cui abuso di fiducia aggravata. Ed è stato arrestato nuovamente il 4 aprile 2019 appena atterrato a Tokyo con l’accusa di appropriazione indebita dei fondi della società. Mal comune mezzo gaudio, si dirà. Ma alle scomode eredità lasciate da Marchionne nei tribunali americani se ne aggiungono altre che riguardano invece la sua strategia industriale. È vero, il top manager ha salvato la Fiat dal fallimento, ha acquisito a costo zero la Chrysler con al suo interno il tesoro della Jeep, ha rilanciato alcuni stabilimenti italiani come Melfi e Pomigliano. E ha riportato il gruppo in utile. Però ha adottato in campo industriale un approccio opportunistico, adattandosi di volta in volta alle condizioni e alle richieste del mercato e investendo poco sul futuro. Con il risultato che il gruppo è andato avanti guardando il mercato con lo specchietto retrovisore: se per esempio investire nell’auto elettrica o ibrida non conveniva, Fca non lo faceva. Così la gamma del gruppo si è impoverita ed è rimasta indietro rispetto alla concorrenza, dove impazza l’elettrificazione. Il ritardo si paga: la casa italo-americana si è vista costretta ad acquistare dal produttore di auto elettriche Tesla crediti verdi per 1,8 miliardi di euro per rispettare i limiti di emissioni in Europa. Un rapporto pubblicato in settembre da Greenpeace rivela che in media le auto Fca, per colpa soprattutto dei pick-up Ram e dei fuoristrada Jeep venduti negli Usa, hanno le emissioni di gas serra tra le più alte al mondo, superando perfino Ford e General Motors: 63,1 tonnellate di gas serra per veicolo contro i 61,4 della Ford o i 49,2 della Psa, con cui Fca dovrebbe convolare a nozze. Una situazione paradossale, se si pensa agli impegni per l’ambiente presi da Marchionne davanti a Obama. In un’intervista congiunta rilasciata al periodico americano Bloomberg Businessweek, Marchionne di autodefinì un «fixer», uno che sistema le cose. Elkann con entusiasmo aggiunse che era anche un «builder», un costruttore. Ma forse non è proprio così. Come mostra un interessante grafico pubblicato da Quattroruote, nel decennio 2009-2018 in Europa la Renault ha aumentato le sue vendite del 16 per cento, la Volkswagen del 18, la Psa del 28, il gruppo Hyundai addirittura del 74 per cento. E la Fiat, con i marchi Alfa Romeo, Jeep e Maserati? È scesa del 22,3 per cento. Solo Ford e Honda hanno fatto peggio di così. Anche questa non è una bella eredità. 

COME CI HA FREGATO MARCHIONNE. Da “la Verità” il 26 giugno 2019. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un estratto di “Fca remain o exit?”, il nuovo libro di Riccardo Ruggeri (20 euro, 194 pagine). Il saggio è in tiratura limitata e non andrà nelle librerie. La crisi del 2008 aveva cominciato a colpire anche gli Stati Uniti, le tre Big dell' Auto (Gm, Ford, Chrysler) sono in ginocchio, Ford decide di salvarsi da sola, le altre chiedono aiuto allo Stato. Il presidente Barack Obama decide di «salvare» Gm (la parola autentica «nazionalizzazione mascherata» non si può usare, siamo nel Paese del liberismo più sfrenato, o no?) e di «vendere» Chrysler (peccato che sia di proprietà di Daimler, ma il presidente tutto può). La tedesca Daimler ha rischiato di fallire per l' avventura Chrysler, si sussurra che il giochino le sia costato 60 miliardi di dollari. [...] Chrysler viene offerta a tutti i costruttori di auto del mondo, tutti la rifiutano. Perché? Arriva Sergio Marchionne, e in tempi rapidi l' operazione si chiude. Trovo subito curiosa questa operazione, sembra un gioco delle tre carte, eppure al tavolo verde c' è Barack Obama, appena eletto presidente, c' è la Fiat con Marchionne. Come può un' azienda giudicata «junk» da una primaria società di rating americana appena due mesi prima, acquistare, in America, la fallita Chrysler senza metterci del cash ma solo «carta», disegni e know how (presunto)? Riflettendo con il Wall Street Journal è corretta la sintesi «Una nazionalizzazione mascherata seguita da una privatizzazione facilitata». Di norma chi compra, se ci mette quattrini veri, pretende il potere, il management, la sede del quartier generale, lo sviluppo prodotto, la cassa, gli investimenti, la difesa dei suoi stabilimenti nazionali. Altrimenti non avrebbe senso, chiosa il Wsj. Sacrosanto. Infatti è finita così, all' Italia sono rimasti tanti piani industriali ben infiocchettati e quattro stabilimenti non strategici (i cattivi dicono «cacciavite»), legati all' andamento del mercato italiano ed europeo. In America le small car di tecnologia verde italiana non si sono viste, perché al cliente americano non interessavano. Quello specchietto fu solo un modo per tranquillizzare un Obama a quel tempo in versione Greta. L' America, grazie al genio del deal maker Marchionne, ha «salvato» anche Fiat, lasciando la proprietà formale a noi investitori, dando agli americani la governance effettiva (un' operazione Cuccia rovesciata). Così è finita, come doveva finire: Detroit è rimasta una delle capitali dell' auto mondiale, Torino è diventata una città della cultura. Quel che è certo, l' Italia non ha più un' industria dell' auto, è come la Spagna. Marchionne nel frattempo, procede con passo da bersagliere all' integrazione fra Fiat e Chrysler, negozia con durezza il «costo del lavoro» sia con l' amministrazione Usa che con i sindacati americani Uaw. Ottiene grandi benefici sui costi, è evidente che la contropartita (sottesa) sarà: investimenti di prodotto su Jeep e Ram, investimenti sugli stabilimenti ma solo in quelli americani. Niente trippa per l' Italia. Non si può dire, ma sarà così, lo scopriremo presto. [...] Il mercato americano si è ripreso, la crescita parte proprio dai modelli Suv e pick up penalizzati pesantemente durante la crisi e grazie alla loro elevata redditività, Chrysler comincia a cambiare segno. Di conseguenza, l' indebitamento entra in una fase di progressiva forte riduzione. C' è il problema dell' Europa, intesa come investimenti industriali e come sviluppo prodotti di nuova generazione: auto elettriche ibride e veicoli a guida autonoma. Che fare? Marchionne ha un problema ancora più grande: l' Italia. [...] Deve come ovvio confermare che il cervello e il cuore di Fca sarà l' Italia. Quindi, gli investimenti prioritari qua devono avvenire. Lui sa che non finirà così, perché è già tutto deciso, Fca sarà un' azienda americana. Allora ha un' idea, l' ennesima, al solito geniale. Si muove su due piani, diversi ma complementari, necessari a realizzare il suo «disimpegno italico» (tagliare la corda e non pagare pegno). Si inventa una strategia prodotto-mercato suggestiva: uscire dalle auto medio-piccole per clienti poveri ed entrare nel ricco segmento premium per clienti di fascia alta. Il futuro ha i nomi di Alfa Romeo e di Maserati, due marchi prestigiosi. I «competenti» nostrani hanno orgasmi multipli nell' assistere in diretta al miracolo. Nei miei Camei di allora battezzai questa strategia «ballon d' essai colorati», applicati a finti piani Industriali. Si apre un dibattito surreale sul costo del lavoro, sulle regole, sulle pause (sic!). C' è pure un consulente giapponese. Tutti si scatenano, le ideologie liberal-liberistiche e quella marxista si scontrano, tutti prendono posizione. In realtà è tutto finto, perché Fca non ha né i prodotti da produrre e né i quattrini per fare gli investimenti industriali relativi. Si crea così un milieu socio culturale ove la «meglio gioventù» dei salotti, dell' accademia, del sindacato, delle redazioni giornalistiche si scontreranno per lungo tempo sul nulla, perché in realtà si trattava di una gigantesca bolla di fake truth. Quello di cui si dibatteva sarebbe stato fatto in America, era già tutto scritto nei patti parasociali ufficiali o segreti poco importa. I «competenti» che facevano dotte discussioni sul segmento premium (suonava bene) non sapevano che era tecnicamente infattibile. Fca non era attrezzata per riprendere un percorso premium dal quale era uscita 30 anni prima. La mitica Audi ci aveva messo 20 anni (sic!) per entrare in tale segmento, pur essendo tedeschi e pur spendendo una montagna di quattrini, e avendo al vertice Ferdinand Piech. [...] Che fare? Ovvio, affrontare il problema dal punto di vista comunicazionale, la sempreverde politica degli «annunci» torna pimpante e pagante in casi come questi. L' ispirazione? Il parallelo con gli «aerei di Mussolini» con cui il Duce gabbò persino Hitler. Così, ogni anno un nuovo piano industriale, più aggressivo del precedente (uno degli obiettivi qualificanti erano le solite nuove 400.000 Alfa Romeo prodotte all' anno che avrebbero lanciato l' azienda al successo planetario). Marco Cobianchi sui piani di Marchionne ci scrive un libro imperdibile, American Dream. Il più divertente di questi piani fu «Fabbrica Italia». Prevedeva un investimento di 20 miliardi di euro senza che ci fossero né i prodotti, né i clienti, né i 20 miliardi. Questa fake truth era talmente stravagante, al limite del ridicolo, che lo stesso Marchionne, due anni dopo, fece autocritica e chiese scusa. [...] Tutti pendevano dalle labbra del prestigiatore Marchionne. I suoi adepti persero ogni capacità di separare il grano (la realtà) dal loglio (la fuffa, la bugia). Però sembravano felici, convinti di vivere e condizionare la storia. Un bel giorno del 2014, nell' auditorium Chrysler di Auburn Hill, il secondo edificio più grande d' America dopo il Pentagono, fu presentato il primo piano industriale di Fca. Riassumeva tutti i finti piani precedenti, ma questo doveva apparire quantomeno «veritiero», perché sarebbe stato presentato alla Borsa. Per 11 ore e 18 minuti i manager di Fca si alternarono sul palco sotto la sapiente guida del «domatore» Marchionne, bombardando i presenti con parole, numeri, grafici, slide. Una grande rappresentazione teatrale. Chapeau! In questo piano un obiettivo era chiaro: azzerare il debito con ogni mezzo. E azzeramento fu. [...] Sono intellettualmente soddisfatto di aver previsto in tempi lontani come sarebbe finita, ma in fondo per uno del mestiere non era poi così difficile. Come investitore storico (2009) sono stato trattato con i guanti, mai investimento (seppur risibile) fu meglio ricompensato. Certo, come torinese e italiano sono invece profondamente depresso, anche se conosco la battuta che si fa in questi casi: «è il Ceo capitalism, bello mio!». Tutto chiaro, tutto bene, ma come investitore che fare? Remain o exit? [...] Ora sappiamo che Exor decise di puntare a un' alleanza Fca-Renault-Nissan per diventare il primo gruppo al mondo. Lo scenario strategico di riferimento ipotizzato da Marchionne veniva stravolto.

Famiglia Agnelli, muore Clemente Ferrero de Gubernatis: stava giocando a calcio con i familiari. Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 su Corriere.it. La tradizionale partita a calcio all’Allianz Stadium doveva essere un momento di festa per celebrare il ritrovo annuale dei tanti i rami della famiglia Agnelli, arrivati a Torino da tutto il mondo. Sugli spalti molti bambini con le loro mamme, in campo i rappresentanti, più o meno giovani, delle più importanti dinastie industriali torinesi: Nasi, Ferrero de Gubernatis e Camerana. L’incontro amichevole è stato giocato con le divise ufficiali della Juventus, forse per rinsaldare lo spirito di gruppo, e tutto stava andando per il meglio. Improvvisamente, però, Clemente Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia, si è accasciato sul terreno di gioco privo di sensi. I suoi compagni hanno subito capito che non si trattava di un banale infortunio e hanno richiamato l’attenzione dello staff medico presente a bordo campo. L’imprenditore, 52 anni ancora da compire, è stato soccorso nel giro di pochi istanti e in un attimo il clima festoso dello Stadium ha lasciato posto al silenzio di tutti parenti preoccupati. Il nipote di Clara Nasi, cugina dell’Avvocato Giovanni Agnelli, è stato poi trasportato da un’ambulanza del 118 al Maria Vittoria. Una disperata corsa contro il tempo terminata poco dopo le 13, quando i medici hanno provato ancora una volta a rianimarlo. Subito dopo al pronto soccorso sono arrivate decine di parenti e amici per sostenere Clemente Ferrero nell’ultima battaglia, si sono abbracciati di fronte alla sala d’attesa, ma è stato tutto inutile. Il cuore del figlio del marchese Edoardo Ferrero Ventimiglia, discendente di un’antica stirpe nobiliare piemontese, ha smesso di battere poco dopo l’arrivo in ospedale. La sua generosità, però, permetterà di salvare vite umane e aiutare altri pazienti nella loro guarigione. L’imprenditore era infatti un donatore di organi e la sua famiglia ha dato l’assenso all’immediato espianto dei polmoni. L’intervento a cuore fermo — eseguito per la seconda volta in Piemonte — ha avuto esito positivo e, successivamente, sono stati prelevati anche cute e cornee: «Si è trattato di un grande gesto di generosità — hanno sottolineato i medici del Maria Vittoria —. Molto raro anche perché la procedura va compiuta entro le sei ore». Clemente Ferrero viveva da tempo a Milano ed era una figura molto amata all’interno della famiglia e stimata in ambito professionale. Giovedì mattina aveva partecipato alla messa di trigesima per la scomparsa di Gianluigi Gabetti alla Consolata. Lascia la moglie Giovanna e i tre figli Edoardo, Viola e Giovanni. In ospedale è arrivato anche il presidente del museo dell’Automobile Benedetto Camerana: «Clemente era davvero un bravo ragazzo, una persona splendida. Quello che è successo è una tragedia che casualmente si è verificata in un momento in cui tutta la famiglia era riunita».

I funerali di Clemente Ferrero in Duomo a Torino. In chiesa anche John e Lapo Elkann. Pubblicato lunedì, 17 giugno 2019 da Corriere.it. Tutti rami della grande famiglia Agnelli si sono riuniti questa mattina nel Duomo di Torino per partecipare ai funerali di Clemente Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia, 51 anni, stroncato venerdì scorso da un malore durante una partita di calcio all’Allianz Stadium. Oltre duecento persone, fra parenti e amici arrivati da tutto il mondo, hanno riempito la cattedrale di San Giovanni Battista per stare accanto alla moglie Giovanna e ai tre figli del nipote di Clara Nasi, cugina dell’Avvocato Giovanni Agnelli. Erano presenti, fra gli altri, anche John e Lapo Elkann assieme a molti esponenti delle famiglie Nasi e Camerana. Clemente Ferrero, discendente di un’antica stirpe nobiliare piemontese e figlio del marchese Edoardo Ferrero Ventimiglia, viveva da tempo a Milano. Giovedì scorso aveva partecipato alla messa di trigesima di Gianluigi Gabetti nel santuario della Consolata e venerdì ha accusato un arresto cardiaco durante la partita che fa da corollario al raduno annuale della famiglia Agnelli. L’imprenditore era un donatore di organi e la sua famiglia ha dato l’assenso all’espianto di polmoni cute e cornee eseguito all’ospedale Maria Vittoria.

Malcom Pagani per ''Vanity Fair'' il 30 luglio 2019. Dove, fin dal titolo –Magari-convivono nostalgia e promessa di futuro. Nella terra di mezzo in cui non si sa ancora dare nome a ciò che si è stati, ma non si è pronti a definire quel che si sarà. Sabaudia, 1990. Biciclette e motorini, orizzonti e solitudini, partite di calcio e film dei Vanzina in tv, corriere e tramonti, linee d’ombra da attraversare e lampi che illuminano il percorso. Il primo sorprendente lungometraggio di Ginevra Elkann – producono Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, distribuirà Bim tra pochi mesi – si svolge durante un inverno che sembra un’estate. In un posto di mare che restituisce conchiglie e abissi, a seconda dell’angolazione dalla quale si osservi il disordine creativo di una famiglia in cui un padre inadeguato per la prima volta alle prese con la responsabilità e i suoi tre figli, che quasi non lo conoscono, dividono lo stesso tetto in un periodo circoscritto che somiglia a una vacanza e nasconde invece il passo duraturo dei confronti che rimangono, della verità, della vita. Il Festival di Locarno ha visto Magari, se ne è innamorato e ha deciso di dedicargli l’onore dell’apertura: «Sarà una sorta di ritorno, ma anche un inedito», dice la regista. «Il primo film che avevo prodotto, ambientato in Iran e girato da Babak Jalali, fu invitato proprio lì, ma io non lo seguii perché stavo per partorire. Locarno è un Festival meraviglioso dove il pubblico assiste alle proiezioni in una piazza bellissima, e in cui ogni cosa e ogni dettaglio parlano del profondo amore per il cinema».

È un amore corrisposto?

«Totalmente. Sono cresciuta negli anni ’80 anche io, un tempo molto più libero, fatto di poco e di tutto, in cui al riparo dal bombardamento contemporaneo di impulsi e rumori, senza telefonini, potevi innamorarti dei ragazzi a bordo di un Ciao e inventarti qualsiasi cosa lavorando di fantasia. Ero una ragazzina silenziosa, di una timidezza quasi parossistica, e quando sei così timida l’adolescenza può essere un periodo molto complicato».

Descrizione della sua timidezza?

«Se mi piaceva un ragazzo mi struggevo per due anni prima di rivelarmi. Non era poi così male struggersi per amore, c’era un compiacimento in quella sofferenza».

Il cinema che ruolo ha avuto nella sua formazione?

«Un ruolo fondamentale. In disparte, con pudore, osservi gli altri e vedi tanti film. L’ho fatto fin da quando ero piccola».

Si ricorda il primo?

«Come non potrei? The Elephant Man di David Lynch. Me lo fece vedere mia madre in tv».

Frequentava la sala?

«Era un privilegio riservato a mio padre e mio nonno».

Suo nonno, Gianni Agnelli.

«Mi portava al cinema, a vedere i film della sua epoca, da Beau Geste a The Lady from Shanghai. Era rapito dai modi, affascinato dai movimenti impercettibili delle attrici: “Hai visto cosa gli ha fatto con la mano Rita Hayworth?”. Poi forse per il dolore alla gamba, forse per la noia, mollava spesso la proiezione a metà».

Era contento che lei facesse cinema?

«Contento non direi. Quando andai a fare l’assistente per Bertolucci su L’assedio, dubitò: “Ma perché la mandate a Roma a contatto con quell’orrendo mondo del cinema? Ce la rovineranno”».

Aveva ragione?

«Aveva torto. Io però ero felicissima. Seppi che Bertolucci cercava un assistente quando, dopo aver studiato regia a Londra e aver girato dei corti, stavo vagheggiando di partire per l’America per seguire la mia passione. Mi venne dato un numero di telefono e l’indicazione di chiamarlo a una data ora: per l’ansia mi scrissi il discorso su un foglietto per seguirlo passo dopo passo».

Telefonata con Bertolucci.

«Partì una segreteria e recitai la mia parte. Poi mi richiamò e mi diede appuntamento in via della Lungara, a Trastevere, a casa sua, in un giorno di caldo e zanzare. Era bello e severissimo, Bernardo. Incuteva timore. Mi diede due magnifici film da vedere, tra cui Happy Together di Wong Kar-Wai, e poche settimane dopo mi ritrovai sul set nelle mani di Serena Canevari, il suo primo aiuto. Non sapevo urlare e con una piccola perfidia, “silenzio!”, prima della consueta liturgia ciak-motore-azione, lo facevano gridare sempre a me».

Come ha deciso di diventare regista?

«Era l’idea originaria, poi dopo aver fatto la video assistant per Anthony Minghella nel Talento di Mr. Ripleye aver accumulato un altro po’ di esperienze e gavetta, morì mio nonno. In quel periodo nella mia vita accaddero molte altre cose non sempre felici che, forse per paura di affrontare il mio sogno, mi fecero recedere dal proposito. Mi gettai nella produzione raccontando storie di Paesi lontani, di gente ai margini, vicende poco esplorate. Un’avventura bella, formativa ed emozionante».

Magari racconta anche dello stretto rapporto fra tre fratelli. Con John e Lapo, siete in tre anche voi. Quanto c’è di autobiografico nel suo film?

«Non più di quanto non sia lecito e non meno di quanto sarebbe inutile negare. Io, John e Lapo siamo molto diversi, ma anche molto legati. Ci vediamo, ci incontriamo, viaggiamo insieme. Proprio come i fratelli del film, tra noi tre c’è un rapporto fortissimo».

Dove si nasconde allora l’autobiografia in Magari?

«Nella rappresentazione di un lessico familiare e di un disordine che sono stati miei. Ho disegnato un racconto sull’idea della famiglia, su quello che immagini sia e che ti porti dietro dall’infanzia. Alma, la bambina del film, sogna che i genitori tornino l’uno accanto all’altro perché vicini non li ha mai visti. È un ricordo molto personale: i miei si separarono quando avevo un anno e io non li ho mai visti insieme, né nella stessa stanza, né nell’ambito di un periodo in comune, fino all’età di 14 anni. Quindi ho immaginato la vita che c’era stata prima di me, i periodi felici tra loro, l’idillio».

Ha sofferto?

«Ho avuto un’infanzia itinerante tra l’Inghilterra, dove sono nata, e il Brasile, dove mi trasferii tra i 3 e gli 8 anni perché mia madre si era innamorata di un signore che viveva lì e che è tuttora suo marito. Del resto e sul resto, non chiedevo niente. Ero una bambina che sognava e il film racconta anche questo sogno: un sogno di riconciliazione a cui la cruda concretezza opporrebbe il realismo dell’impossibilità, ma che nella visione infantile si trasforma rendendo l’impossibile possibile. Ovviamente nel film non c’è solo la mia famiglia: io e Chiara Barzini, la sceneggiatrice, abbiamo pescato nelle storie di tantissime persone. Anche perché in Magari pulsano le dinamiche che esistono in tutte le famiglie del mondo».

Magari emoziona e porta in superficie la memoria di quel che siamo stati da bambini e da adolescenti.

«Sono contenta che me lo dica perché era esattamente quel che io e Chiara, che è una scrittrice irriverente e baciata dal senso dell’umorismo, desideravamo accadesse. Che si entrasse in sala e poi, nel momento dell’accensione delle luci, si uscisse all’aria aperta con qualcosa che ti resta dentro e che ti smuove intimamente».

È stato difficile lavorare con bambini e adolescenti?

«Ho lasciato loro molta libertà incastonata in confini molto precisi: ciò che mi interessa in un attore è l’intenzione. Il sentimento che porta in dote. Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, i due protagonisti, sono stati molto generosi verso la storia e verso i bambini».

Magari è un titolo aperto. Una parola che apre alla possibilità e alla speranza, ma non offre certezze.

«Magari è una parola che mi piace molto. È doppia. È nostalgica e malinconica, ma ha dentro una porzione di felicità». 

E la malinconia le piace?

«È un sentimento che vive dentro di me, e se ci vive significa che non mi dispiace».

Cosa le dispiace allora?

«Il conformismo generalizzato: siamo entrati testa e piedi in un format molto preciso alle cui regole dobbiamo sottostare. Sono regole sciocche, legate alla libertà di parola, alla censura e all’autocensura, alle cose che si possono o non si possono dire. Mi pare, ma forse sbaglio, che il cinema conservi tempi e modi per declinare la realtà alla propria maniera, una maniera più libera».

È stato difficile far dimenticare di essere una Agnelli, ammesso e non concesso che uno debba farlo dimenticare?

«La chiave è proprio questa: da piccola pensavo che per esistere fosse necessario farlo dimenticare, poi ho capito che la mia famiglia è parte della mia vita, che vengo da lì e che non c’era ragione di allontanarsi da quel sentiero. Non sento più il peso del giudizio altrui e so che non c’è chiave più giusta per la serenità di accettare quel che sei. Adesso lo so, ieri lo sapevo meno».

Quando ha capito queste cose?

«Dopo essermi sposata e aver avuto dei figli. Cosa tramandi loro? Chi sei e da dove vieni. Senza rimozioni».

Tra poco compirà 40 anni. Sono come se li immaginava?

«Meglio. Ho molti amici, una vita piena, consapevolezze maggiori di ieri. Non ho più la sensazione di non aver combinato niente».

·         Morto Alberto Rizzoli.

Morto Alberto Rizzoli, nipote del fondatore della casa editrice. L'imprenditore si è sparato un colpo di pistola in una tenuta di cui era stato proprietario in provincia di Pavia, scrive il 22 febbraio 2019 La Repubblica. Alberto Rizzoli, 74 anni, nipote di Angelo, fondatore della casa editrice di famiglia si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola alla Garzaia di Villarasca, l'oasi naturale di cui era stato proprietario a Rognano, nel Pavese. Il suo corpo è stato scoperto dal guardiacaccia della tenuta che ha tentato di soccorrerlo e che ha chiamato il 118. L'imprenditore è morto poco dopo il ricovero al Policlinico San Matteo di Pavia. Secondo le prime informazioni sembra che il suicidio sia legato a problemi di salute. Nipote di Angelo Rizzoli, Alberto nel 1974 divenne amministratore delegato della società e anche presidente della cartiera di Marzabotto. Cinque anni dopo, in contrasto con Angelo, si dimise dalle cariche e fondò il gruppo editoriale Quadratum che pubblica fra l'altro "La cucina italiana". Nel 1983 viene arrestato insieme al fratello con l'accusa di bancarotta, ma viene rilasciato dopo venti giorni e prosciolto definitivamente in fase di istruttoria. A questo punto Alberto abbandona l'editoria e si dedica alla gestione dell'azienda agricola di Rognano, nel Pavese. Nel 2015 pubblica però con il cugino Nicola Carraro il volume "Rizzoli, la vera storia di una grande famiglia italiana", in cui racconta la storia della sua famiglia dal lato privato e in particolare del nonno Angelo, cresciuto orfano dai 'Martinitt' a Milano, e morto miliardario, dopo aver fondato la casa editrice che porta il suo nome. "Nascere Rizzoli alla metà degli anni Quaranta - aveva detto Alberto in un'intervista al Corriere della Sera nel 2013 dopo la morte del fratello - rappresentava un grande privilegio di cui sia Angelo che io ci siamo sempre resi conto". "In generale - aveva aggiunto - penso che sull'intera storia di noi Rizzoli andrebbe fatta una chiarezza che non c'è ancora mai stata".

Editoria, morto Alberto Rizzoli. Si è tolto la vita nel Pavese. Alberto Rizzoli, 74 anni, uno degli eredi della famiglia, si è tolto la vita oggi pomeriggio in una tenuta di cui era stato proprietario del Pavese, scrive Luisa De Montis, Venerdì 22/02/2019, su Il Giornale. Se ne è andato senza lasciare nessun biglietto. Così Alberto Rizzoli, 74 anni, uno degli eredi della famiglia, si è tolto la vita oggi pomeriggio in una tenuta di cui era stato proprietario del Pavese. A scoprire il dramma è stato un guardiacaccia alla Garzaia di Villarasca nel comune di Rognano (Pavia). Secondo le prime indiscrezioni Alberto Rizzoli si sarebbe sparato e neppure la folle corsa al Pronto soccorso del Policlinico San Matteo di Pavia gli ha salvato la vita. Figlio secondogenito di Andrea Rizzoli e Lucia Solmi, è stato amministratore delegato dell'omonima casa editrice, che negli anni Settanta era il primo gruppo editoriale italiano. Inizia a diciannove anni la sua attività nella casa editrice Rizzoli nella quale, dopo avere svolto compiti di crescente responsabilità, diviene nel 1974 amministratore delegato; nello stesso periodo è anche presidente della cartiera di Marzabotto. Nel 1979 abbandona la società, in disaccordo con la gestione del fratello Angelo. Nel 1980 fonda la casa editrice Quadratum, che rilancia riviste come La Cucina Italiana, Successo e Weekend. Nel 1983, entrata in amministrazione controllata la RCS, viene arrestato ma, rilasciato dopo 21 giorni, viene successivamente prosciolto in istruttoria. Lasciata l'attività editoriale, gestiva attualmente un'azienda agricola alle porte di Milano.

·         Muore Paolo Brera.

Muore in metropolitana a Milano il giornalista Paolo Brera, terzo figlio di Gianni. Aveva 70 anni. Forse un infarto. Stava tornando dalla presentazione del suo ultimo libro, scrive il 22 febbraio 2019 La Repubblica. E' morto per un infarto, mentre viaggiava in metropolitana a Milano, Paolo Brera, terzo figlio di Gianni e, a sua volta, giornalista. Aveva quasi 70 anni, era anche uno scrittore, economista - è stato assistente universitario alla Bocconi - e traduttore di opere dal russo. Ieri pomeriggio aveva presentato il suo ultimo libro, un giallo dal titolo 'Il futuro degli altri', prima di essere colpito dal malore verso le 20: è stato inutile l'intervento dei paramedici di un'ambulanza. Martedì prossimo avrebbe dovuto partecipare a Milano a un convegno dedicato ai cento anni dalla nascita del padre.

·         È morto Stewart Adams.

È morto Stewart Adams, il papà dell'ibuprofene alla base di antidolorifici. Adams scoprì l'efficacia del farmaco grazie a una sbornia: lo assunse per curarne i postumi, scrive Francesca Bernasconi, Venerdì 01/02/2019, su "Il Giornale". È morto, all'età di 95 anni, Stewart Adams, l'uomo che scoprì l'ibuprofene, il principio attivo alla base degli antidolorifici più diffusi ed efficasi al mondo, da 50 anni. Si è spento ieri nella sua casa di Nottingham, in Inghilterra. Adams aveva iniziato a interessarsi all'ambito farmaceuto all'età di 16 anni, quando aveva lasciato gli studi, per un apprendistato in una farmacia al dettaglio, gestita dall'azienda Boots. Poi, però, aveva iniziato a studiare farmacologia e si era laureato. Dopo la laurea aveva iniziato la carriera di chimico al dipartimento di ricerca di Boots, di cui divenne anche il capo. Fu in questi anni che Adams scoprì l'ibuprofene, mentre era alla ricerca di un antinfiammatorio per l'artrite reumatoide, che veniva generalmente alleviata con l'aspirina, i cui effetti collaterali, però, erano esagerati. A convincerlo dell'efficacia della sua scoperta fu una sbornia. Per alleviarne i postumi, Adams decise di assumere 600 mg del farmaco, fino a quel momento mai usato su un paziente. Quando lo prese, il mal di testa passò: capì quel giorno che l'antidolorifico era efficace. Perché entrasse in commercio, nel 1969 in Gran Bretagna e poi in tutto il mondo, però, dovettero passare 17 anni, di cui 10 di sperimentazione. Stewart Adams, con la sua scoperta, ha contribuito ad alleviare i dolori e le sofferenze di milioni di persone.

·         È morto Giuseppe Zamberletti.

È morto Giuseppe Zamberletti, padre della protezione civile. Aveva 85 anni ed era da tempo malato. Borrelli: "Perdiamo uno straordinario conoscitore della fragilità del nostro Paese". Mattarella: "Straordinario uomo di realizzazioni concrete, la Repubblica gli è grata", scrive il 26 gennaio 2019 La Repubblica. È morto a Varese Giuseppe Zamberletti. Il padre della protezione civile, 85 anni, da tempo malato, era ricoverato in ospedale. Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, lo ricorda come "un amico, un maestro, una guida". "Oggi perdiamo uno straordinario conoscitore della fragilità del nostro paese - ha aggiunto - un uomo che per primo intuì la necessità di distinguere la fase del soccorso in emergenza da quella fondamentale della previsione e della prevenzione dei rischi naturali". "La scomparsa di Giuseppe Zamberletti mi addolora profondamente - dice il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - Il tratto cordiale, qualità riconosciuta della personalità di Zamberletti, ha rafforzato la sua capacità di dialogo e la naturale disposizione al servizio delle istituzioni e della comunità. Chiamato spesso in campo come l'uomo delle situazioni difficili, Zamberletti, nella sua lunga attività parlamentare e di governo è stato uomo di realizzazioni concrete, proiettato alla costruzione di servizi più moderni ed efficienti, capace di coinvolgere le autonomie territoriali e le formazioni intermedie nell'opera del bene comune". "La Repubblica gli è grata per ciò che ha saputo dare alla comunità", conclude Mattarella. Zamberletti è stato parlamentare della Democrazia Cristiana fin dal 1968 e si è sempre occupato di temi riguardanti la sicurezza dei cittadini. Nel 1972 ha ricoperto l'incarico di Sottosegretario all'Interno nei governi presieduti da Aldo Moro e da Giulio Andreotti, con la delega per la Pubblica sicurezza, l'antincendio e protezione civile. In occasione del terremoto del 1976 in Friuli, Zamberletti fu nominato Commissario straordinario per assicurare il coordinamento dei soccorsi. Nel 1980, a seguito del terremoto abbattutosi sulla Campania e la Basilicata, la sua esperienza di Commissario straordinario si ripete. L'esperienza maturata lo porta al convincimento che le calamità, sia naturali che legate all'attività dell'uomo, non possono essere fronteggiate soltanto con una attività di mero soccorso, ma possono essere previste, prevenute e mitigate nei loro effetti mediante l'operatività stabile di una struttura creata ad hoc. Così nel 1981 verrà incaricato dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini, di predisporre, quale alto commissario, gli strumenti organizzativi della nuova protezione civile, e nel 1982, nominato Ministro per il coordinamento della protezione civile, diventa Capo del dipartimento appena creato. "È il giorno - ricorda la Protezione civile - in cui, in Italia, si volta pagina nella gestione delle calamità sul territorio nazionale. Un percorso che terminerà con la legge 225 del 1992 che rappresenterà il traguardo di un progetto iniziato dieci anni prima". Zamberletti sarà Ministro organizzatore e coordinatore del nascente sistema nazionale di protezione civile per il 1982 e poi ancora dal 1984 al 1987 in gran parte sotto la Presidenza di Bettino Craxi. Dopo la fine dell'esperienza ministeriale, Zamberletti non si è più allontanato da quel mondo che lui stesso aveva creato: la passione, l'impegno per la protezione civile non lo faranno mai desistere dall'interessarsi della materia, tanto che nel 2007 viene nominato presidente della Commissione grandi rischi, incarico alla cui scadenza, proseguirà ancora, nella carica di presidente emerito, che ha mantenuto sino alla fine. La camera ardente per l'Onorevole Giuseppe Zamberletti sarà allestita nella Sala Consiliare di Palazzo Estense a Varese. La sala sarà aperta domenica dalle 15 alle 19 e lunedì dalle 9 alle 13. I funerali si svolgeranno sempre lunedì 28 gennaio alle 15, nella Basilica di San Vittore.

Addio a Giuseppe Zamberletti, il padre della Protezione civile in Italia. E’ morto a Varese, malato da tempo, aveva 85 anni, scrive Valentina Dardari, Domenica 27/01/2019 su Il Giornale. Addio a Giuseppe Zamberletti, padre e creatore della Protezione civile nel nostro paese. E’ morto a 85 anni all’Ospedale di Varese, era malato da tempo. Zamberletti si è sempre interessato di temi riguardanti la sicurezza degli italiani. Fu parlamentare della Democrazia Cristiana dal 1968, e dal 1972, sotto i governi di Aldo Moro e Giulio Andreotti, venne nominato Sottosegretario all’Interno con delega per la Pubblica sicurezza, l’antincendio e la protezione civile. E’ stato figura di rilievo e coordinatore in occasione di due terremoti che hanno colpito l’Italia, quello del 1976 in Friuli e quello del 1980 in Campania e Basilicata, dove, grazie all’esperienza maturata, ricoprì il ruolo di Commissario straordinario. A lui si deve l’intuizione che le calamità naturali possano e debbano essere previste, non solo affrontate una volta accadute. L’impreparazione della allora protezione civile divenne palese nella tragedia che scosse l’Italia intera, quella del piccolo Alfredino Rampi, per tutti Alfredino. Il bambino morì nel pozzo del Vermicino, dopo aver tenuto con il fiato sospeso gli italiani. Anche per questo motivo Zamberletti venne poi incaricato nel 1981 da Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, di costituire la nuova protezione civile, e nel 1982 viene nominato Ministro per il coordinamento della Protezione civile, nonché Capo del Dipartimento appena nato. Zamberletti guidò il Dipartimento anche sotto gran parte della Presidenza di Bettino Craxi, dal 1984 al 1987. Angelo Borrelli, Capo della Protezione civile, ha voluto esprimere il suo cordoglio per la scomparsa nel ricordare Zamberletti “Oggi la Protezione civile non perde solo il suo fondatore ma anche un amico, un maestro, una guida. Questo è stato in questi anni per tutti noi e per i tanti volontari italiani”. Ha poi continuato “Oggi perdiamo uno straordinario conoscitore della fragilità del nostro paese. Un uomo che per primo intuì la necessità di distinguere la fase del soccorso in emergenza da quella fondamentale della previsione e della prevenzione dei rischi naturali”. Borrelli ha poi concluso il suo intervento sottolineando l’opera di Zamberletti “Ci ha insegnato a riconoscere la cultura della protezione civile come sapiente tutela della salvaguardia della vita e dei beni comuni, ma ha svolto anche l’importante funzione di guida morale e costante riferimento per lo svolgimento del nostro servizio”. Anche quando non ricoprì più il ruolo di ministro, rimase continuamente legato alla sua creatura. E nel 2007 venne nominato Presidente della Commissione Grandi Rischi e in seguito Presidente Emerito, che mantenne fino al giorno della sua scomparsa. E’ morto nella sua città, Varese, colpito da un male incurabile.

·         Muore Fernando Aiuti.

Roma, muore al Gemelli Fernando Aiuti, l'immunologo della lotta all'Aids: ipotesi suicidio. Malato da tempo per problemi cardiaci, si indaga sulla caduta dal quarto piano dell'ospedale romano. Sulla dinamica in corso accertamenti della Procura. Disposta l'autopsia. Rosaria Iardino, la donna sieropositiva che il professore baciò in bocca: "Addio Fernando, il mio uomo del bacio. Per alcuni di noi sarai eterno", scrivono Simona Casalini e Giuseppe Scarpa il 09 gennaio 2019 su "La Repubblica". È morto questa mattina al policlinico Gemelli il professor Fernando Aiuti, immunologo, 83 anni, fondatore dell'Anlaids (Associazione Nazionale per la lotta contro l'Aids). Si indaga sull'ipotesi del suicidio. Secondo una nota ufficiale del Gemelli la morte è derivata da "complicanze immediate di un trauma da caduta dalla rampa delle scale adiacente il reparto di degenza". Aiuti era ricoverato nel reparto di Medicina Generale del Gemelli "per il trattamento di una grave cardiopatia ischemica da cui era da tempo affetto e che lo aveva già costretto ad altri ricoveri e a trattamenti anche invasivi. "Più recentemente", continua la nota del nosocomio romano, "il quadro cardiologico si era aggravato evolvendo verso un franco scompenso cardiaco, in trattamento polifarmacologico". Fernando Aiuti, pioniere della lotta all'Aids e soprattutto della sua prevenzione, per quasi trent'anni è stato professore ordinario di Medicina Interna, direttore e docente della Scuola di Specializzazione in Allergologia e Immunologia Clinica, coordinatore del Dottorato di Ricerche in Scienze delle Terapie Immunologiche presso l'Università "La Sapienza" di Roma, ed era ancora in attività come specialista in Malattie Infettive e Immunologia Clinica. Infettivologo tra i massimi esperti italiani, il professor Aiuti è rimasto celebre anche per il suo bacio in bocca davanti alle telecamere nel '91 con Rosaria Iardino, una ragazza sieropositiva, per dimostrare all'opinione pubblica che il bacio profondo non trasmette l'Aids. Ed è proprio la Iardino tra le prime voci a commentare la scomparsa di Aiuti: "Ci sono uomini che per il valore che sanno apportare alla comunità scientifica e culturale dovrebbero godere dell'immortalità. Di lui porterò con me per sempre il suo coraggio. Il nostro bacio altro non era che un grido e un richiamo al coraggio di parlare di Aids, di andare avanti con lo studio e con la ricerca, di informare e di curarsi. Grazie Fernando, per alcuni di noi sarai eterno", scrive in un tweet la donna che è presidente dell'associazione The Bridge. Ricordano l'immunologo anche le due ultime ministre della Salute: "La scienza oggi piange un grande uomo: la scomparsa di Fernando Aiuti, punto di riferimento mondiale per la lotta all'Aids, mi rattrista molto. Sono certa che il suo grande impegno vivrà attraverso il lavoro di @anlaids". Così la ministra Giulia Grillo sui social. E Beatrice Lorenzin, ora leader di Civica Popolare: "Una vita dedicata alla ricerca, alla lotta all'Aids, alla medicina. Se ne va un pezzo importante del mondo scientifico". L'immunologo è precipitato nella tromba delle scale dal quarto piano del reparto di medicina generale, un volo di una decina di metri risultato fatale. Il corpo è stato trovato senza vita intorno alle 11. La procura di Roma, in attesa di una relazione da parte della Polizia Scientifica, aprirà nelle prossime ore un'inchiesta per omicidio colposo o per istigazione al suicidio. Il pm Laura Condemi, che ha effettuato un sopralluogo coordinando i primi accertamenti urgenti e raccogliendo le testimonianze dei responsabili del reparto, ha disposto l'autopsia. Domani, giovedì, sarà il professor Costantino Ciallella dell'Università La Sapienza a verificare, oltre alla causa del decesso, se Aiuti avesse assunto un farmaco prima di cadere giù o se sia stato colpito da un infarto. Gli investigatori non hanno individuato tracce ematiche nè sulla balaustra nè sulle rampe delle scale ma sul pianerottolo, da dove è precipitato l'immunologo, hanno trovato le sue pantofole. 

·         Addio a Paolo Paoloni.

''Addio megadirettore, vegli su noi inferiori'': sui social l'affetto per Paolo Paoloni, scrive il 9 gennaio 2019 Repubblica Tv. Paolo Paoloni è morto all'età di 89 anni. L'attore, nato in Svizzera ma originario di Ancona, è diventato famoso per l'interpretazione del magadirettore galattico nella saga di Fantozzi. Tanti sui social lo hanno commemorato condividendo messaggi di affetto e ricordando le battute più celebri dei suoi film con Paolo Villaggio.

Addio al "megadirettore" Paolo Paoloni, con Fantozzi fu il simbolo dei "padroni". Con il ruolo nel film creò un personaggio decisivo per capire gli anni '70, scrive Paolo Giordano, Giovedì 10/01/2019, su "Il Giornale".  «Voci, caro Fantozzi, messe in giro dalla propaganda sovversiva». A volte bastano poche inquadrature e qualche battuta a consacrare un mito cinematografico, uno di quei simboli che entrano nel passaparola generazionale. Se ne è andato ieri il megadirettore galattico di Fantozzi, il «Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam» che nel primo, gigantesco film della saga ricopre il ruolo spietato di «padrone». Si chiamava Paolo Paoloni, aveva quasi novant'anni ed era originario di Ancona. Un attore di buon livello che l'intuitivo Luciano Salce scoprì nel 1968 e poi volle anche nel memorabile film che fotografa un'epoca, i suoi totem e le sue angosce. In Fantozzi il megadirettore si vede soltanto alla fine ma incombe sempre, in ogni scena, rappresentando l'ossessione del potere e l'obbligo di subalternità incondizionata del dipendente. «Che differenza c'è tra me e lei, è solo questione di intendersi» dice il Duca Conte al ragionier Ugo matricola milleuno barra bis, riassumendo quel modo democristiano di frammentare i concetti, ammorbidirli, annebbiarli di retorica. E con quell'andatura soffice, i capelli bianco-celesti, i modi felpati, Paoloni era perfetto e quel ruolo contribuì a consacrarlo (poi recitò in altre commedie, molto a teatro, anche in tv con Cochi & Renato e in Don Matteo. «Vabbè ma le cento piante di ficus? Le poltrone di pelle umana e il grande acquario nel quale nuotano i dipendenti sorteggiati?» gli chiede il dipendente ribelle che sta ritornando nei ranghi sottomessi: «Voci, caro Fantozzi». In realtà sono vere e poco dopo il ragioniere finirà nell'acquario dei dipendenti. È la scena surreale che fotografa una percezione diffusa a metà degli anni Settanta, quando è uscito il film. Gli anni di piombo. Le lotte. Pochi mesi dopo l'uscita di Fantozzi nel 1975, le Brigate Rosse rapirono l'industriale Vallarino Gancia e, nel conflitto a fuoco a Cascina Spiotta nell'Acquese, furono uccisi un carabiniere e Mara Cagol, la compagna di Renato Curcio. Un periodo sanguinoso, nel quale anche le risate erano spesso politicamente orientate e comunque cupe. Come quelle del cardinalizio megadirettore e dell'inerme dipendente che a un certo punto gli dice: «Vedo, Santità, che nell'acquario le manca la triglia. Posso avere l'onore, io?».

·         Gli attori famosi che (forse) non sapevi fossero morti.

Gli attori famosi che (forse) non sapevi fossero morti. Francesca Robetti su Momentodonna.it il 9 aprile 2019.

Riccardo Garrone. Impossibile non ricordarlo come un gioviale San Pietroamante del caffè e della buona compagnia in un famoso spot televisivo della Lavazza, affiancato prima da Paolo Bonolis poi da Enrico Brignano. Ma forse non sapevate che in gioventù ha lavorato con i più grandi registi italiani, fra cui Federico Fellini e Dino Risi. E’ morto il 14 marzo 2016 all’Ospedale Niguarda di Milano a 89 anni.

John Ritter. John Ritter, oltre che attore comico, è stato anche un doppiatore. L’attore è morto pochi giorni prima del suo cinquantacinquesimo compleanno. Il decesso per dissecazione aortica è sopraggiunto improvvisamente l’11 settembre del 2003 a 54 anni. John Ritter è ricordato ancora oggi grazie alle serie televisive divertenti come Tre cuori in affitto, la sitcom statunitense andata in onda per ben 8 stagioni.

Giuliana Calandra. Era la scrittrice assassinata nel bagno di casa nel capolavoro di Dario Argento del 1975 “Profondo rosso”. La sua scena è ricordata come una delle più inquietanti in quello che è uno dei migliori film horror di sempre. È scomparsa il 25 novembre 2018 ad Aprilia all’età di 82 anni.

Michelle Thomas. Michelle Thomas è stata un’attrice statunitense nota soprattutto per le serie televisive Otto sotto un tetto e i Robinson. Michelle, nata a Boston nel 1968, è deceduta a soli 30 anni per un terribile cancro allo stomaco, il 22 dicembre del 1998. Infatti, nell’agosto del 1997, le venne diagnosticato una rara forma di tumore.

Antonio Pennarella. Antonio Pennarella raggiunge la fama del grande pubblico per il ruolo del boss Nunzio Vintariello (nonno del giovane Nunzio Cammarota) nella soap opera storica di Rai 3 “Un posto al sole”. Purtroppo una grave malattia lo costringe a interrompere la sua partecipazione al programma. Muore a Napoli il 24 agosto 2018, a soli 58 anni.

Cory Monteith. Una morte sconvolgente quella di Cory Monteith a soli 31 anni, il cui corpo è stato ritrovato senza vita in una stanza d’albergo il 13 luglio del 2013. Una fine ancora inspiegabile per i fan di Glee, serie in cui interpretava il romantico Finn Hudson, causata da un mix letale di alcool ed eroina.

Bud Spencer. Non ci sono dubbi che Carlo Pedersoli, meglio noto con il nome d’arte di Bud Spencer, insieme al suo compagno di sempre Terence Hill, ha segnato un’epoca. I suoi modi rudi, il suo personaggio “manesco” ma in fondo sempre generosoed altruista, è riuscito a ritagliarsi addosso un’immagine capace di far innamorare un intero Paese. Bud Spencer è morto il 27 giugno 2016 all’età di 86 anni a causa di complicazioni derivate da una caduta in casa.

Bernie Mac. L’attore afro-americano Barnie Mac, all’anagrafe Bernard Jeffrey McCullough è deceduto il 9 agosto 2008 a Chicago all’età di 50 anni. La morte è sopraggiunta in seguito alle complicanze di una polmonite. Tra le sue recenti pellicole si ricorda la parte nel cast di Ocean’s Eleven e una nomination al Grammy per il documentario The Original Kings of Comedy realizzato nel 2000 da Spike Lee.

Paolo Paoloni. E’ stato l’indimenticabile Mega Direttore Galattico nella saga di Fantozzi. Signore assoluto della Megaditta, era particolarmente crudele con il povero ragioniere Ugo Fantozzi. Muore il 9 gennaio 2019 a Roma all’età di 89 anni: negli ultimi mesi era diventato afono a causa di una malattia alle corde vocali.

Pat Morita. Noriyuki Morita, meglio conosciuto come Pat Morita, è stato un attore statunitense di origini giapponesi. Morita diventò famoso per aver interpretato il Maestro di Karate Kid. L’attore si è spento il 24 novembre del 2005 a Las Vegas a 73 anni. Anche se la figlia ha dichiarato che la morte è sopraggiunta per cause naturali, ci sono state notizie contrastanti. Si sarebbe parlato di un decesso a seguito di insufficienza renale aggravata da alcolismo cronico.

Salvatore Cantalupo. Adorato dal pubblico nel ruolo di Pasquale il sarto nel film “Gomorra” di Matteo Garrone, Cantalupo ha recitato anche con Antonio Albanese nel film “Qualunqumente”. Muore il 13 agosto 2018 a seguito di un coma. Aveva solo 59 anni.

Ann Morgan Guilbert. Chi potrebbe mai dimenticarsi di lei, la celebre zia Yetta della serie televisiva “La Tata“? Un classicone della tv anni Novanta (la prima puntata fu girata nel 1993, l’ultima nel 1999) sempre simpatico e per tutta la famiglia. Peccato che Ann Morgan Guibert, nonostante continui a vivere nella serie, sia mancata il 14 giugno del 2016 per un cancro. La “nipote televisiva” Fran Drescher, su Twitter, l’aveva salutata così: “Che grande attrice! Grazie Annie, grazie per tutte le risate“.

David Graf. Anche il poliziotto amante e maniaco delle armi della serie Scuola di Polizia è deceduto. David Graf, attore statunitense, era nato nel 1950 nello stato dell’Ohio ed è morto a causa di un attacco cardiaco il 7 aprile del 2001 in Arizona. La crisi respiratoria è avvenuta durante un matrimonio a cui l’attore era stato invitato.

Pino Caruso. Era uno degli attori siciliani più noti in televisione (fra le serie interpretate Ultimo, Non lasciamoci più, Carabinieri) e al cinema assieme a Franchi e Ingrassia e Lando Buzzanca, è uno dei simboli di Palermo. E’ morto a Roma il 7 marzo 2019.

Riccardo Zinna. Il vigile urbano nel film Benvenuti al Sud di Luca Miniero con Alessandro Siani e Claudio Bisio. Malato da tempo di un tumore al pancreas, è morto il 20 settembre 2018 all’età di 60 anni.

Taylor Negron. Famoso per aver recitato in film come Stuart Little e The last boy scout, Taylor Negron era nato in California e aveva ottenuto il primo ingaggio televisivo nel 1982, partecipando ad una soap opera. È mancato all’età di cinquantasette anni dopo una lunga battaglia contro il cancro, il 10 Gennaio 2015.

Jimmy il Fenomeno. Figura indimenticabile della commedia italiana, il suo viso dall’espressione inconfondibile è apparso in oltre 150 film, a fianco di Totò, della Fenech, di Alvaro Vitali e nei film di Fantozzi. E’ morto il 6 agosto 2018 presso una residenza per anziani di Milano. aveva 86 anni.

Brittany Murphy. Brittany Murphy al momento della sua scomparsa era all’apice della sua carriera con 34 pellicole all’attivo. La possiamo ricordare in film come Ragazze Interrotte, Don’t Say A Word, 8 Mile e Sin City. L’attrice è stata trovata esanime dalla madre il 20 dicembre del 2009 e ad oggi l’ipotesi più accreditata sul suo decesso è quella di una polmonite, complicata da anemia ed intossicazione da farmaci. Ma il caso resta ancora avvolto nel mistero, in quanto anche il marito Simon Monjak la seguì solo alcuni mesi dopo.

Raúl Juliá. Raúl Juliá è stato l’attore che interpretò Gomez, il padre della Famiglia Addams. Raúl Juliá, nato nel 1940 in Portorico, studiò legge arrivando solo dopo negli Sati Uniti. Purtroppo, si è spento a 54 anni il 24 ottobre del 1994 a causa di un ictus che lo aveva colpito alcuni giorni prima.

Gigi Burruano. È lo zio dell’attore Luigi Lo Cascio, con cui ha girato il film I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, in cui i due interpretano rispettivamente Luigi Impastato e il figlio Peppino. Burruano è morto nel sonno il 10 settembre 2017 a causa di un arresto cardiaco: aveva 69 anni.

Michael Clarke Duncan. Michael Clarke Duncan, è stato il gigante buono John Coffey del film Il miglio verde. L’attore, nato nel 1957, è scomparso il 3 settembre del 2012 a Los Angeles, due mesi dopo essere stato colpito da un grave attacco cardiaco.

Tomas Milian. Il protagonista indiscusso dei grandi polizieschi italiani. I fan lo ricordano in particolare come Nico Giraldi, maresciallo romano che conosce bene gli ambienti malavitosi avendone fatto parte in gioventù col soprannome di “er Pirata” e come Sergio Marazzi alias “er Monnezza”, è un ladruncolo romano. il 22 marzo 2017, all’età di 84 anni, è stato trovato morto nella sua casa di Miami in seguito a un ictus. Il suo corpo, dopo essere stato cremato, riposa a New York accanto alla moglie.

Gilberto Idonea. Grande attore siciliano di origini catanesi, nella serie TV “L’onore e il rispetto” interpreta un corrotto procuratore trapanese. Memorabile la sua interpretazione dell’avvocato caricaturale in “Malèna”, bellissimo film di Giuseppe Tornatore. Muore il 5 ottobre 2018 all’età di 72 anni, stroncato da un arresto cardiaco mentre si trovava nella sua casa a Catania.

Edward Hermann. Conosciuto da tutti come Richard Gilmore, il nonno di Rory in “Una mamma per amica”, Edward Hermann ha avuto in realtà una carriera molto lunga, costellata di grandi collaborazioni come quelle con Woody Allen e Martin Scorsese. All’età di 71 anni però Hermann è stato colpito da un tumore al cervello fulminante.

James Rebhorn. Conosciuto soprattutto per essere stato il Segretario della Difesa nel film Indipendence Day e per apparizioni in White Collar e Homeland, è scomparso il 21 Marzo 2014, all’età di 65 anni, dopo aver combattuto a lungo contro un tumore alla pelle.

Zelda Rubinstein. L’attrice Zelda Rubistein, famosa soprattutto per il ruolo dell’eccentrica medium nella trilogia di Poltergeist, si è spenta il 27 gennaio 2010 a Los Angeles a 76 anni.

Paolo Ferrari. Forse l’attore più famoso della pubblicità italiana. Il suo spot del detersivo Dash (“Signora vuole cambiare il suo fustino di Dash con due di altra marca?”) fece la storia del Carosello. Nel 2008 torna a esserne testimonial insieme con l’attore Fabio De Luigi nel ruolo di “suo angelo custode”. E’ morto a Roma il 6 maggio 2018 dopo una lunga malattia.

Jeff Conaway. Jeff Conaway, noto per la sua interpretazione del personaggio di Kenickie nel musical Grease del 1978 e in Beautiful, è morto il 27 maggio del 2011 dopo una presunta overdose.

Heather O’Rourke. La giovane star del film”Poltergeist” di Stevan Spielberg è scomparsa tragicamente nel 1988 a soli 12 anni durante un intervento chirurgico.

Chriss Penn. Il fratello minore di Sean Penn, Chris, ha recitato in film come “Footloose” e “Le Iene” (è stato Nice Guy Eddie), ma è morto nel 2006 a soli 40 anni di cardiomiopatia.

Andy Hallett. Andy Hallet ha interpretato uno dei personaggi preferiti dal pubblico dello spin-off di “Buffy l’ammazzavampiri” “Angel“. È morto a causa di insufficienza cardiaca nel 2009 a soli 33 anni.

Harold Ramis. La star di “Ghostbusters” è morta nel 2014 a 70 anni dopo una lunga battaglia contro una malattia infiammatoria autoimmune.

Thuy Trang. L’attrice vietnamita Thuy Trang ha interpretato il primo Ranger Giallo nello show “Power Ranger” e ha continuato a fare film in seguito, incluso “Spy Hard“. Tuttavia, tristemente Trang è morta in un incidente stradale nel settembre 2001 a 27 anni.

Brad Renfro. Debuttò come attore bambino nel film “The Client” insieme a Susan Sarandon e in “Sleepers“, dove ha interpretato un giovane Brad Pitt. Purtroppo però, è morto nel 2008 a soli 25 anni a causa di un mix di eroina e morfina.

Andy Whitfield. L’indimenticato attore della serie televisiva Spartacus, in cui interpreta il ruolo di un gladiatore, è morto l’11 settembre 2011, per un linfoma non Hodgkin.

Dana Plato. Divenne famosa nella popolare sitcom degli anni ’70 e ’80 Il mio amico Arnold, ma in seguito è tristemente caduta nella povertà e nella dipendenza da droghe. Si suicidò a 34 anni, l’8 maggio del 1999.

Judith Barsi. Bambina prodigio, apparve giovanissima in numerosi spot televisivi e film, fra cui Lo squalo 4 – La vendetta. Il 25 luglio 1988, fu tragicamente uccisa, dopo una lunga serie di abusi, dal padre.

Nicole DeHuff. Esordì nel film di successo del 2000 Ti presento i miei, con Robert De Niro e Ben Stiller. Morì il 16 febbraio 2005, a causa di una polmonite.

Skye McCole Bartusiak. Skye McCole Bartusiak ha affascinato il pubblico di tutto il mondo a soli 7 anni come la giovane figlia del personaggio di Mel Gibson nel film Il Patriota del 2000. Quattordici anni dopo il suo ruolo più famoso, morì, a 21 anni, a causa di un’overdose di droga.

Christopher Pettiet. Divenne una star negli anni ’90 grazie alla commedia cult Non dite a mamma che la babysitter è morta. L’attore è morto nel 2000, a 24 anni, a causa di un’overdose. 

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

·         Il mancinismo e i miti da sfatare.

I mancini non sono più creativi (ma forse dormono peggio): 5 miti a cui non credere. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 Simona Marchetti su Corriere.it. Sebbene appena il 10% della popolazione mondiale usi la mano sinistra, circolano numerose leggende sulle presunte differenze con i destrimani: per la maggior parte si tratta di pura aneddotica. Simona Marchetti 13 agosto 2019 su Corriere.it.

Mito 1: i mancini sono più creativi. Le persone molto creative hanno tante caratteristiche in comune: l'essere mancini non è una di queste. La convinzione contraria è solo un mito di lunga data, probabilmente avallato da uno studio risalente al 1995, che aveva evidenziato un maggior pensiero creativo nella risoluzione dei problemi da parte degli uomini che usano di preferenza la mano sinistra, sebbene nelle donne mancine tale differenza non fosse risultata altrettanto evidente.

Mito 2: i mancini sono leader nati. Anche se ben 6 degli ultimi 12 presidenti Usa erano o sono mancini, ciò non significa che tale caratteristica sia un requisito per ottenere l'incarico, poiché non esiste alcuna prova scientifica che leghi la capacità manuale con la leadership. «Alla base di queste considerazioni fra leadership e manualità c'è l'analisi di alcune carismatiche figure storiche - spiega Elizabeth Ochoa, capo del dipartimento di Psicologia del Mount Sinai-Beth Israel, al Reader's Digest - e la deduzione a cui si è arrivati è che questi personaggi dovevano avere qualcosa in comune fra loro per essere così autorevoli e di successo, come appunto l'essere mancini».

Mito 3: i mancini sono più intelligenti. Tutti possono essere più o meno intelligenti, indipendentemente dalla mano di riferimento. «Uno studio degli anni Settanta ha esaminato oltre 7mila studenti delle elementari e non ha riscontrato alcuna differenza nelle abilità intellettive dei mancini rispetto ai destrimani», conferma Ochoa. Casomai, i mancini possono pensare in maniera diversa: questo perché la maggior parte degli oggetti di uso quotidiano è ideata e realizzata per persone che usano la mano destra, quindi i mancini hanno dovuto imparare a essere più flessibili nel pensiero, trovando il modo migliore per utilizzare questi attrezzi nella vita di tutti i giorni.

Mito 4: i mancini sono introversi. Un altro luogo comune è che i mancini tendano ad essere più introversi dei destrimani, ma a sfatare questo stereotipo ci ha pensato uno studio neozelandese del 2013, che non ha rilevato alcuna differenza fra i due gruppi con diversa manualità in nessuno dei cinque tratti della personalità analizzati.

Mito 5: i mancini usano l'emisfero destro del cervello. Poiché la maggior parte dei destrimani utilizza l'emisfero sinistro del cervello per elaborare il linguaggio, si potrebbe facilmente pensare che i mancini facciano il contrario. In realtà, non è necessariamente così: infatti, sempre nello studio neozelandese di cui si parlava nella precedente scheda, Gina Grimshaw, direttore del Cognitive and Affective Neuroscience Laboratory dell'Università di Wellington, ha scoperto che il 98% dei destrimani e il 70% dei mancini usa l'emisfero sinistro del cervello, confutando così la teoria che i due gruppi abbiano i cervelli “invertiti”.

Mito 6: I mancini hanno più problemi a dormire (forse). Un piccolo studio pubblicato sulla rivista Chest ha monitorato il movimento periodico degli arti inferiori (un fattore che può disturbare gravemente il sonno) di mancini e destrimani durante il riposo, scoprendo così che ne soffre il 94% dei primi rispetto ad appena il 69% dei secondi.

Mito 7: I mancini hanno più probabilità di soffrire di schizofrenia? Stando a uno studio dell'Università di Yale condotto su un piccolo gruppo di soggetti provenienti da una clinica psichiatrica, coloro che presentano disturbi psicotici come la schizofrenia avrebbero il 40% di probabilità in più di essere mancini rispetto invece a chi soffre di disturbi dell'umore quali depressione o disturbo bipolare. L'obiettivo dei ricercatori era quello di analizzare il legame fra manualità e caratteristiche della psicosi (come allucinazioni o visioni), al fine di identificare biomarcatori che consentano di arrivare a una più rapida individuazione della malattia, così che un giorno si possa trovare un trattamento su misura più efficace per il tipo di disturbo mentale diagnosticato.

Giornata mondiale dei mancini: le 13 situazioni da «incubo» per chi usa la sinistra. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Simona Marchetti su Corriere.it. Il mondo ragiona con l’emisfero sinistro e usa preferibilmente il lato destro del corpo. O almeno, la maggior parte del mondo. Perché i mancini esistono e non sono neanche pochi. La destra non viene preferita per niente da almeno un decimo della popolazione e di questa fetta, la maggioranza è al 100% mancina. Non importa: ci sono piccoli oggetti che usiamo nella nostra vita quotidiana che dimostrano quanto i destrimano si siano imposti sulle abitudini di chi preferisce la mano sinistra. Niente di tragico, ma per loro comporta delle difficoltà quotidiane con conseguente nervosismo. Sin dal 1973 si festeggia allora la Giornata mondiale dei mancini per «sensibilizzare» su questa lateralizzazione del mondo. La festa cade il 13 agosto ed è inizialmente nata come una ricorrenza più che altro popolare. Ufficiale lo diventa nel 1992, grazie al Left-Handers Club — istituzione nata due anni prima per essere un punto di riferimento della «categoria» — e oggi viene celebrata in tutto il mondo. Il Club produce e vende oggetti pensati e prodotti proprio per essere usati con la sinistra. E dunque per provare ad ovviare alle loro difficoltà nella vita di tutti i giorni. Le più diffuse? Eccole nelle prossime schede. Giornata mondiale dei mancini: le 13 situazioni da «incubo» per chi usa la sinistra. Il 13 agosto si festeggiano i mancini dal 1973 per «sensibilizzare» sulle abitudini quotidiane (e le piccole difficoltà) di una parte di popolazione che proprio con la mano destra non si trova:

Il banco che non piace ai mancini. Si parte sui banchi di scuola. Nessun problema quando questi sono piccole scrivanie a cui avvicinarsi seduti su una sedia. Ma al liceo — e soprattutto all’università — è comune trovare sedie con tavolette ribaltabili. A cui appoggiarsi per prendere appunto. Ecco, la tavoletta scende sempre a destra. Comodo per molti, molto scomodo per alcuni.

Le forbici ergonomiche (ma non per mancini). Quando le forbici sono state costruite apposta per essere più comode da usare, i mancini sbuffano. Perché saranno anche più comode per chi usa la destra — con quell’impugnatura ergonomica — ma non certo per loro.

Le carte da gioco con i numeri solo su due angoli. Un altro problema è con le carte da gioco. Nessun impedimento se queste hanno i numeri e i segni stampati su tutti e quattro gli angoli. Ma nel caso in cui siano scritti solo su due, per un mancino sarà davvero difficile tenerle in mano. E soprattutto capire al volo cosa sta scartando.

Il metro al contrario. Provate a impugnare un metro con la sinistra, voi che usate la destra. Vedere tutti i numeri al contrario non sarà certo piacevole.

La discriminazione delle parole crociate. Anche le parole crociate discriminano velatamente i mancini. Che se seguono l’ordine dei numeri si ritroveranno ben presto con il dorso della mano sinistra ricoperto d’inchiostro.

La lotta dei gomiti. Il problema nasce anche dalla convivenza con un destrimano. Per esempio a colazione: seduti fianco a fianco, è inevitabile scatenare una lotta all’ultimo gomito e magari finire per versare i cereali sul tavolo.

I quaderni con gli anelli. I quaderni con gli anelli non piacciono neanche a chi usa la destra, ma almeno il problema di scrivere bene nasce solo nell’ultima parte della riga. O quando si gira pagina. Mentre per i mancini, le difficoltà ci sono subito.

Il diabolico apriscatole. Impossibile per un mancino usare un apriscatole. La manovella è a destra. Serve usare la mano destra. Non ci sono scorciatoie.

Il galateo nemico. In una tavolata è comune usanza posizionare il bicchiere leggermente a destra del piatto. Così da afferrarlo, appunto, con la mano destra. A meno che a fianco a te non sia seduto un mancino distratto che istintivamente te lo ruba.

Suonare la chitarra: difficoltà al quadrato. Alcuni strumenti musicali sono decisamente difficili da suonare per un mancino. Per esempio la chitarra: chi preferisce la sinistra dovrebbe ribaltare tutte le corde, nonché le note scritte sulle tablature.

Il Pos della carta di credito. Anche un’innocente operazione come pagare la spesa può rivelarsi discriminatoria. Chi l’ha detto che devo strisciare la carta di credito con la mano destra? Il Pos, qualunque Pos, che ha lo spazio dedicato posizionato proprio a destra.

La zip dei pantaloni. La zip, di per sé, è neutra. Ma nei pantaloni e nei jeans viene «nascosta» da un pezzo di stoffa che rende molto difficile chiuderla con la sinistra.

I numeri sulla tastiera del Pc. La soluzione per un mancino che vuole usare la tastiera dei numeri di un Pc? Raggiungerla con la mano destra, non ci sono alternative.

·         Le parti inutili del corpo. I rifiuti dell’evoluzione.

Dall'appendice al dente del giudizio, le parti del corpo inutili, "rifiuti dell'evoluzione". Sono rimasti come eredità dei nostri progenitori ma ora non ci servono più. In tutto sono almeno nove, scrive Diana Tartaglia il 22 gennaio 2019 su "La Repubblica". Se ci guardiamo allo specchio, non vediamo solo se la giacca è abbinata bene ai pantaloni. Sul nostro corpo vediamo anche ancora segni di quello che abbiamo ereditato dai nostri antenati, non solo dei nonni e degli zii, ma anche da quello che arriva dai tempi più remoti della nostra evoluzione. Sono molte infatti le strutture vestigiali, parti del corpo che oggi hanno perso di utilità ma fondamentali per i nostri progenitori. Un'antropologa del Boston College, Dorsa Amir, ha pubblicato su Twitter una serie di messaggi elencando tutte le caratteristiche ancora presenti sull'uomo ma che oggi non servono più. Il caso più celebre è il coccige, il resto di una coda, ma esistono altri elementi che sono rimasti in alcuni di noi, a ricordarci da dove e da chi veniamo.

• PARTIAMO DALLA TESTA: OCCHI E ORECCHIE. Guardando fissi negli occhi qualcuno possiamo ancora scorgere una piccola parte di pelle rosa che ricopre l'angolo interno dell'occhio. È la plica semilunare, quello che resta di una palpebra interna, utile per proteggere l'occhio dalla polvere. Resiste ancora nei gorilla, mentre è scomparsa anche negli scimpanzè, primati evolutivamente molto più vicini a noi. In alcune specie animali è anche trasparente e, chiudendosi, gli permette di avere visibilità anche sott'acqua e persino sotto terra. Sembra che le orecchie siano un organo molto nostalgico della nostra vita da primati, e forse ancor prima. Molti di noi hanno perso completamente la mobilità di questa parte del corpo. Qualche gradino evolutivo più in dietro, i muscoli che ci permettevano di muoverlo in tutte le direzioni erano molto utili per individuare la provenienza dei suoni. Ormai non ne abbiamo più bisogno e i quei muscoli si sono atrofizzati, sostituiti da una maggiore mobilità del collo che ci permette di girare la testa molto meglio. Solo poche persone, in casi molto rari, riescono ancora a muoverli. Ma non abbiamo ancora finito tutto quello che c'interessa sapere. Guardate il vostro orecchio da vicino se sul padiglione, quasi all'apice, avete una protuberanza, o se addirittura gli amici vi prendono in giro perché avete un orecchio a punta "da elfo", non c'è niente di cui preoccuparsi. È il tubercolo di Darwin, un'altra caratteristica vestigiale, presente in numerosi primati e in circa il 10% della popolazione umana. 

• ANCHE LA BOCCA. La dieta degli esseri umani civilizzati, che mangiano cibi cotti e processati, ha contribuito a ridurre inoltre le dimensioni delle nostre fauci. Non servono più mandibole grandi e potenti, ne bastano anche di più piccole. La riduzione delle dimensioni della bocca non è stata seguita con la stessa rapidità, dalla diminuzione del numero dei denti, in particolare dei molari. Gli ultimi, i denti del giudizio, spesso non trovano spazio per inserirsi e devono essere rimossi. In molti individui hanno anche smesso del tutto di comparire.

• GLI ARTI. Scendendo giù ecco un'altra parte del corpo che è cambiata. Stendete il braccio, con il palmo rivolto verso l'alto, su una superficie piana e fate toccare tra loro mignolo e pollice. In circa il 90% delle persone si può vedere la presenza del palmaris longus, un muscolo sottile che collega gomito e polso. Si pensa che servisse per muoversi tra gli alberi, ormai evidentemente non ci serve più e non sembra che la sua presenza o la sua assenza abbiano alcun effetto sulla forza con cui afferriamo gli oggetti. 

• I RIFLESSI. Non sono solo gli organi ad aver cambiato caratteristiche. Anche alcune reazioni istintive hanno una spiegazione ancestrale. Come accade per i neonati sotto i 3 mesi di vita che afferrano immediatamente tutto quello che gli viene appoggiato sul palmo delle mani (e dei piedi). È un riflesso involontario che però permette ai bambini di reggere il proprio peso per almeno 10 secondi. Anche i primati appena nati hanno questa capacità, ma la loro forza gli permette di restare aggrappati per più di mezz'ora. Per loro è fondamentale per restare attaccati alla pelliccia della madre quando questa si muove. Una reazione d'istinto che resta anche negli adulti è la pelle d'oca. Se abbiamo freddo o molta paura, i peli delle braccia si sollevano. Al giorno d'oggi, avendo perso la maggior parte dei peli del corpo non serve a molto, come in passato. Ma negli animali ricoperti da pelliccia o da piume questa reazione al freddo è molto utile per intrappolare uno strato di aria tra pelle e peli. In questo modo si viene a formare un livello protettivo che isola il corpo e impedisce al freddo di raggiungere la pelle. Una sorta di piumino naturale. Ma non è utile solo per proteggersi dal gelo. Per gli uomini delle caverne poteva, infatti, servire anche a proteggersi dai nemici. Gonfiando il petto e i peli i nostri antenati potevano dare l'impressione ai nemici di essere più imponenti e incutere maggiore timore. Oggi tutto questo ha perso la sua utilità ma è rimasto ancora qualche individuo in grado di drizzare i peli a comando.

• L'APPENDICE NON È POI COSÌ INUTILE. Tra tutti questi elementi che l'evoluzione ha decretato come inutili, ce ne sono alcuni che abbiamo considerato "inutili" e che invece adesso sembrano essere stati rivalutati. Come l'appendice. Il tratto attaccato all'estremità dell'intestino crasso che per anni è stato considerato una parte inutile del corpo umano. Le uniche attenzioni che ha mai ricevuto erano nel momento in cui minacciava di infiammarsi. Gli esperti hanno cambiato idea da qualche anno. È stato mess in evidenza infatti che gioca un ruolo importante nella selezione del bioma intestinale che può aiutare nella difesa contro le infezioni. 

Denti del giudizio, peli, coccige: ma sono davvero tutti organi inutili? Noi uomini non siamo sempre stati come adesso. C’è stato un tempo remoto, milioni di anni fa, in cui avevamo una pelliccia per riscaldarci e la coda per aggrapparci agli alberi, in cui avevamo un senso dell’olfatto potentissimo e riuscivamo perfino a muovere le orecchie. L’evoluzione ci ha portato a come siamo oggi ma qualche «ricordo» del lungo cammino percorso dai nostri antenati primati (e non solo) rimane: sono gli organi vestigiali, «pezzetti» del nostro corpo che oggi ci appaiono del tutto inutili o quasi. Ma siamo proprio certi che non servano veramente più a niente? Scrive Elena Meli il 20 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".

L’appendice: aiuta a difenderci dalle infezioni. Ce ne ricordiamo soltanto quando si infiamma e provoca dolori lancinanti che spesso portano dritti in sala operatoria per rimuoverla: l’appendice è uno degli organi che più spesso sono stati definiti inutili perché non contribuisce ad assorbire il cibo e quindi non pare avere un ruolo nella digestione. Questo tubicino che sporge dall’intestino crasso, lungo fino a una decina di centimetri, secondo alcuni sarebbe il ricordo di quando mangiavamo molte foglie (in alcuni erbivori c’è e contiene batteri utili a digerire i vegetali); oggi però si sta scoprendo che ha un ruolo probabilmente non secondario nella risposta immunitaria e che potrebbe proteggere la flora batterica buona che vive nell’intestino. Lo sostiene Heather Smith, ricercatrice della Midwestern University in Arizona, che ha analizzato l’appendice in 533 mammiferi diversi scoprendo che le specie con l’appendice hanno una quantità maggiore di tessuto linfoide nel tratto dell’intestino all’imbocco con l’appendice stessa. Di certo rimuoverla se è infiammata non porta a rischi specifici. Alcuni dati sembrano indicare che esserne privi comporti un recupero un po’ più lento da situazioni in cui la flora batterica intestinale sia diminuita (come dopo una terapia antibiotica) e un tasso un po’ più alto di infezioni; secondo Heather Smith, inoltre, le appendiciti sarebbero una diretta conseguenza dell’eccesso di igiene in cui oggi viviamo: «L’appendice è un organo immune, un’immunità non correttamente sviluppata perché non si è stati esposti a sufficienza a virus e batteri da piccoli potrebbe comprometterne un corretto funzionamento e favorire la comparsa dell’infiammazione». Ipotesi da verificare, ma di certo non si può più dire che si tratti di un organo del tutto superfluo.

Il coccige: la coda ossificata. Il nostro scheletro è cambiato molto da quando i nostri antenati erano primati che vivevano sugli alberi, ma qualcosa ancora ci ricorda quei tempi in cui, per esempio, avevamo una coda per aggrapparci e «parlare» coi nostri simili: il coccige, la parte terminale della colonna vertebrale, è ciò che ne rimane. Quando abbiamo assunto la posizione eretta, che ha modificato completamente lo scheletro, la pressione evolutiva ha smesso di premere sulla coda che ha così assunto un’altra forma: oggi resta sotto forma di quattro-cinque vertebre sacrali fuse in una sorta di triangolo che però non è proprio irrilevante, perché oltre a proteggere la parte terminale del midollo spinale è anche la sede di inserzione di muscoli come il grande gluteo o gli elevatori dell’ano.

I capezzoli nell’uomo: sono una zona erogena. I capezzoli nell’uomo sono per molti l’emblema dell’inutilità: restano anche nel maschio perché la differenziazione sessuale degli embrioni, dopo tre mesi dal concepimento, è successiva al momento della loro formazione, ma essendo parecchio innervati secondo alcuni sarebbero una zona erogena importante per la sessualità maschile.

Il mignolo dei piedi: dagli alberi al terreno. Non è inutile neppure il mignolo dei piedi: i nostri antenati lo usavano per aggrapparsi agli alberi, ma è rimasto perché aumenta la larghezza della pianta del piede scaricando meglio il peso e favorendo l’equilibrio. Non potremmo farne a meno, quindi, anche se non è indispensabile per la postura eretta.

Le unghie: artigli rivistati. Altrettanto utili le unghie, che restano a protezione delle dita di mani e piedi e in passato, secondo gli antropologi, erano invece artigli per difendersi e offendere che si sono ritratti per consentirci una miglior manipolazione degli oggetti.

Il muscolo palmare gracile: serve a flettere la mano. Anche certi muscoli sembrano rimasti senza che ve ne sia molta necessità: il muscolo palmare gracile fra mano e avambraccio, per esempio, sviluppatissimo nei nostri antenati arrampicatori e oggi utile come fascio muscolare di supporto per flettere la mano, oppure il plantare gracile nel piede che contribuisce poco al movimento ma serve per migliorare la consapevolezza della posizione nello spazio.

Tonsille: una barriera contro i germi. Toglierle è stata quasi una moda, fino a qualche anno fa: difficile trovare un ragazzino che arrivasse al liceo avendo ancora le tonsille. Si trovano sul retro della bocca e, come le adenoidi localizzate fra naso e bocca, sono state spesso ritenute superflue e addirittura solo fonte di fastidi, perché sottoposte a infezioni ricorrenti; risultato, spesso e volentieri dopo due o tre tonsilliti si propone di eliminarle. Non è pericoloso farlo ma l’immunologo Angelo Vacca, presidente SIICA, sottolinea: «Le tonsille sono preziose perché sono un organo immune: contrastano l’ingresso dei germi e sono importanti per una buona difesa dell’organismo. Quando si tolgono non sempre il problema delle infezioni ricorrenti viene risolto, ma solo spostato nelle vie respiratorie più basse. In caso di tonsilliti frequenti è bene chiedersi se vi siano altre cause a provocarle: quelle comuni sono per esempio allergie subcliniche non ancora identificate, che inducono gonfiore delle tonsille e fanno sì che i batteri locali siano più aggressivi, oppure un reflusso gastroesofageo anch’esso responsabile di edema generalizzato dei tessuti e infezioni tonsillari ripetute — spiega Vacca —. Inutile se non dannoso, quindi, privarsi di un organo importante per il sistema immunitario nei casi in cui il motivo delle infezioni è in realtà altrove».

Adenoidi: controversa la loro utilità. Come le tonsille, pure le adenoidi bloccano germi e virus prima che possano scendere nelle vie aeree; anch’esse sono piccole masse di tessuto linfatico, quindi con un significato immunitario. «Hanno però meno “peso” rispetto alle tonsille e si possono eliminare più a cuor leggero, se si ingrossano e si infiammano», sottolinea l’immunologo Angelo Vacca. Succede soprattutto nei bambini, dove le adenoidi sono mediamente più grandi: con l’età la massa linfatica man mano si riduce e i problemi di infiammazione e gonfiore, che impediscono di respirare bene col naso soprattutto di notte, diminuiscono. Fastidi possono arrivare anche dai seni paranasali, quattro cavità collegate al naso che possono infiammarsi a seguito di raffreddori non ben curati dando luogo alla sinusite. È sicuro che possano dar problemi, controversa la loro utilità: secondo alcuni aiutano a sostenere il peso del cranio, altri ritengono che servano a riscaldare e umidificare l’aria in ingresso nel naso o a dare il timbro alla voce.

I peli: per nulla superflui. Un tempo il freddo non era un problema, perché avevamo una folta pelliccia. Oggi ci sono rimasti i peli superflui, inutili (a nostro parere) fin dal nome. La loro presenza è però un po’ meno vana di quanto si potrebbe pensare: intorno al bulbo pilifero infatti sta il muscolo orripilatore, altro residuo del passato che tuttora ha un piccolo ruolo. Quando eravamo coperti di pelliccia serviva a drizzare i peli per farci sembrare più aggressivi e isolarci meglio dal freddo; oggi la pelle d’oca che deriva dalla contrazione degli orripilatori è una risposta emotiva a sensazioni di piacere o di paura e contribuisce, seppure di poco, a mantenere più alta la temperatura corporea interna quando sentiamo freddo.

Peli pubici, capelli ciglia e sopracciglia. E se questo tutto sommato è un piccolo aiuto, non lo è la funzione dei peli rimasti più folti e abbondanti sotto le ascelle e attorno ai genitali: in queste zone i peli si associano alle ghiandole apocrine che producono odori particolari, assimilabili ai feromoni degli animali e quindi con una valenza sessuale tuttora presente, pure se non più dirimente per l’accoppiamento come in passato (anche perché abbiamo un olfatto sempre meno sviluppato). I peli pubici inoltre sono una sorta di cuscino protettivo per la pelle sensibile della zona, mantengono adeguate condizioni di umidità impedendo il proliferare di lieviti e funghi e “intrappolano” i germi esterni, evitandone l’ingresso. Probabilmente quindi non resteremo completamente glabri e continueremo anche ad avere capelli, ciglia e sopracciglia: la capigliatura ci evita scottature in testa e migliora la termoregolazione in un’area delicata, le ciglia e le sopracciglia trattengono sudore, detriti e impurità impedendo che finiscano negli occhi.

l tubercolo di Darwin (un tempo muovevamo le orecchie). Gli animali spesso hanno la possibilità di muovere le orecchie: lo potevamo fare anche noi, in passato, e il ricordo resta nel tubercolo di Darwin, un ispessimento sul bordo del padiglione dell’orecchio esterno che non tutti possiedono e che potrebbe essere un residuo dell’articolazione per orientare le orecchie.

Denti del giudizio: possono servire per «agganciare» le protesi. Si può dire che stiano sparendo proprio perché non servono: i quattro denti del giudizio, i molari che emergono fra i 18 e i 25 anni, erano utili quando mangiavamo cibi molto duri o il rischio di perdere denti era concreto a causa delle pessime condizioni igieniche. Oggi lo sono assai di meno, tanto che il 35 per cento della popolazione non li ha più e si pensa che nel corso delle prossime generazioni siano destinati a sparire. Meglio toglierli sempre, allora? «Se non ci sono disturbi specifici, come ascessi o carie, e sono emersi allineati senza creare problemi di spazio non si devono eliminare, potrebbero rivelarsi utili per esempio da anziani come “aggancio” per un apparecchio dentale — risponde Angelo Itro, direttore del Dipartimento di Scienze Odontoiatriche della Seconda Università di Napoli —. È opportuno toglierli se non escono bene, come quando per mancanza di spazio restano fermi, non ruotano per emergere correttamente e quindi puntano verso il dente davanti, provocando infiammazione». Oggi gli alimenti sono diventati più facili da masticare e mandibola e mascella sono più piccole: ecco perché i denti del giudizio non servono granché e trovano maggiori difficoltà a emergere. La buona notizia è che già in adolescenza, con una radiografia, si può capire se e come questi molari usciranno, così da decidere molto presto se sia il caso di toglierli.

La terza palpebra: probabilmente serve a lubrificare l’occhio. Si chiama piega semilunare ed è la nostra terza palpebra: si trova all’angolo dell’occhio, vicino alla ghiandola lacrimale, ed è ben diversa dalle due palpebre dotate di ciglia che sono una caratteristica speciale dell’essere umano (tutti gli altri animali infatti ne hanno in genere una soltanto). La piega semilunare secondo gli scienziati sarebbe quanto ci resta della membrana nittitante degli uccelli, di alcuni pesci e dei rettili, un tessuto trasparente che consente di proteggere e idratare l’occhio senza tuttavia impedirgli di vedere. Secondo alcuni è del tutto inutile, ma pare che contribuisca almeno in parte a detergere e lubrificare l’occhio, proteggendolo per esempio da eventuali particelle di polvere che potrebbero graffiarlo e facilitando l’azione “pulente” delle lacrime; senza, stando a chi non lo ritiene un organo inutile, mero ricordo del nostro passato più lontano, potremmo essere più predisposti a infezioni e traumi.

Salute. Cosa non fare...Cristina Marrone per Il Corriere.it il 23 luglio 2019.

SANGUE DEL NASO. Piegare la testa all’indietro se esce sangue dal naso. Questo è uno degli errori più tipici, probabilmente tramandato dalle nostre nonne: piegare la testa all’indietro quando esce sangue dal naso. Ma è una manovra inutile che espone al rischio di inalare sangue e ostruire la via aerea con conseguente soffocamento.

Cosa fare: piegatevi in avanti sopra un lavandino e stringete il ponte del naso: la maggior parte delle epistassi si risolverà nel giro di dieci minuti. Utile nei soggetti con pressione alta controllare la pressione arteriosa.

METTERE GHIACCIO SU UN'USTIONE. Mettere ghiaccio su un’ustione. In caso di ustione in molti pensano, sbagliando, di dover subito raffreddare la zona applicando ghiaccio. Ma questo, come l’uso dei rimedi casalinghi più svariati (olio, dentifricio, burro) è un errore. Gli indumenti vanno rimossi solo se il processo di combustione continua sugli stessi.

Che cosa fare:l’obiettivo è mantenere la temperatura corporea normale e il ghiaccio potrebbe rendere la pelle troppo fredda. E’ consigliato raffreddare la parte colpita con acqua corrente fresca per alcuni minuti o, se non si ha a disposizione acqua corrente, fare impacchi di acqua fresca. Questo aiuta a limitare i danni e, almeno parzialmente, il dolore. Vanno subito rimossi gioielli come bracciali o anelli prima che la zona ustionata si gonfi ostacolando la medicazione. La zona ustionata va coperta con una garza sterile, senza comprimere.

SPOSTARE LE PERSONE FERITE. Spostare persone gravemente ferite. Quando ci si trova per primi sulla scena di un brutto incidente d’auto si può cadere nella tentazione di far muovere la persona ferita per assicurarsi che stia bene. Non bisogna farlo: potrebbe avere una grave lesione al midollo spinale e qualunque movimento può provocare danni neurologici permanenti o paralisi. Gli unici casi in cui è opportuno spostare un ferito è quando scoppia un incendio o se sussistono pericoli di crolli o scoppi.

Che cosa fare: in questi casi, se si ha a che fare con potenziali lesioni al midollo spinale, è fondamentale chiamare il 118. Medici e paramedici sono addestrati per trasportare il ferito in sicurezza.

MAI SPUTARE IN UN TAGLIO PER RIPULIRLO. Sputare su un taglio per ripulirlo. L’avrete sentito dire o visto in qualche film: sputare su una ferita pensando che la saliva lavi via i germi. Ma in verità è vero l’opposto perché la bocca è colonizzata da batteri potenzialmente dannosi che possono provocare un’infezione alla ferita. Altro errore è lavare la ferita in un fiume o torrente: anche in questo caso batteri e parassiti possono aumentare il rischio di infezione.

Che cosa fare: pulire la ferita con acqua del rubinetto o acqua salina sterile. Quando si viaggia conviene portare sempre con sè il kit di pronto soccorso con la soluzione salina, in caso di lesioni improvvise. Infine è bene coprire la ferita possibilmente con garze sterili.

ANTISTAMINICO E CHOC ANAFILATTICO. Dare antistaminico in caso di choc anafilattico. Un antistaminico impiega tra i 30 e i 60 minuti per fare effetto: troppo tempo in caso di grave reazione allergica. Una ritardo sulla terapia dopo uno choc anafilattico può avere conseguenze mortali.

Che cosa fare: in caso di respiro sibilante, mancanza di respiro, gonfiore alle labbra o intorno agli occhi non bisogna perdere tempo e va utilizzato l’autoiniettore con adrenalina che può salvare la vita. Questo vale soprattutto per chi sa di essere un soggetto a rischio di gravi allergia che, su indicazione del proprio allergologo, dovrebbe avere con sé il kit contenente due autoiniettori di adreanalina, cortisone e antistaminici. In ogni caso è fondamentale chiamare i soccorsi (118).

NON CONSERVARE LA ZECCA. Conservare la zecca da mostrare al medico. Contrariamente a quanto si possa credere, non è consigliato conservare la zecca che ha punto da mostrare al medico del pronto soccorso. Molte persone pensano che tutte le zecche portino la malattia di Lyme e che tutti i morsi di zecca richiedano antibiotici.

Che cosa fare: nel caso che la zecca si sia attaccata al corpo va rimossa con una pinzetta, tirando verso l’alto. Consultare il medico per valutare se sia necessaria la profilassi antibiotica. 

IMPACCHI SU UNA FRATTURA. Fare impacchi caldi su una distorsione o frattura. Mettere qualcosa di caldo su una distorsione o una frattura è un errore perché il calore aumenta il flusso sanguigno, che può peggiorare il gonfiore.

Che cosa fare: è sempre meglio, in questi casi, applicare il ghiaccio.

CORPI ESTRANEI NELL'OCCHIO. Cercare di rimuovere corpi estranei dall’occhio. Strofinare gli occhi irritati nel tentativo di far uscire corpuscoli che sono penetrati all’interno può peggiorare la situazione e creare danni permanenti. L’unica eccezione ammessa è quando negli occhi entra una sostanza chimica: in tal caso è bene sciacquare per 15 minuti.

Che cosa fare: in caso di ferite l’occhio va protetto in modo che niente altro possa entrare. Va chiesta subito assistenza.

GARZA SULLA FERITA. Rimuovere la garza da una ferita sanguinante. Se la garza posta su una ferita si impregna di sangue, può sembrare una buona idea rimuoverla e cambiarla con una nuova, ma in questo modo vengono eliminati anche i fattori di coagulazione che stanno aiutando a fermare il sanguinamento e così la ferita rischia di ricominciare a sanguinare.

Che cosa fare: meglio aggiungere una nuova garza sulla parte superiore e se la l’emorragia non si arresta è bene fare pressione sulla ferita fino a quando si blocca la fuoriuscita di sangue.

NON RICHIEDERE ASSISTENZA DOPO UN INCIDENTE. Non richiedere assistenza dopo un incidente. Dopo un incidente l’adrenalina che entra in circolo per lo spavento e la tensione può mascherare il dolore. Possono passare anche ore prima di sentirsi a pezzi: il classico colpo di frusta ma anche qualcosa di più grave.

Che cosa fare: se la macchina ha subito danni abbastanza seri è meglio andare al pronto soccorso anche se ci si sente bene. Il consiglio vale ancora di più per gli incidenti in moto.

NON CHIEDERE AIUTO E ISOLARSI. Non chiedere aiuto e isolarsi. Se sei punto da un insetto e ti rendi conto che stai subendo una reazione allergica non sederti in un luogo isolato in attesa di aiuto. Se al ristorante ti va di traverso un boccone non correre in bagno: purtroppo succede che alcune persone muoiano soffocate in bagno perché non vogliono disturbare gli altri commensali: collassano a terra e nessuno capisce perché.

Che cosa fare: in caso di emergenza bisogna rimanere dove ci sono altre persone che possono soccorrerci o chiamare un’ambulanza.

LACCIO EMOSTATICO. Usare il laccio emostatico. Quando una ferita sanguina copiosamente un errore comune è utilizzare il laccio emostatico per rallentare il dissanguamento in caso di ferite molto profonde o che coinvolgano le arterie. Non è un errore per la verità utilizzare il laccio emostatico, ma è necessario sapere quanto stringerlo e ogni quanto tempo slacciarlo, o si rischia di mandare l’arto in ischemia con conseguenti danni permanenti.

Che cosa fare: premere forte sulla ferita con un pezzo di stoffa, una maglietta o qualunque cosa si abbia a disposizione.