Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
LA SOCIETA’
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura?
I Posti maledetti.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO E DI FERRAGOSTO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo.
Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda.
Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo.
Napoleone Bonaparte.
La Grande Carneficina: Verdun.
Era Ceausescu.
I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.
1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.
Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo.
La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York.
1939. L’estate che portò alla II guerra mondiale.
Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16.
Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo).
Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto.
Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra.
Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri.
1979 Lo spartiacque tra due ere storiche.
Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv.
9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino.
Comunisti 1969. Lobby Continua.
Internet compie 50 anni.
Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia.
Willy il Coyote compie 70 anni.
Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.
Felix, che compie proprio oggi 100 anni.
17 novembre 1869: inaugurato ufficiale del Canale di Suez.
La Setta di Manson: Storia e segreti.
Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna.
11 settembre 2001: voci e storie del giorno più lungo.
Il Chewing Gum dal 1869.
Gli “space dogs”.
Il Primo Cosmonauta della storia: Jurij Gagarin.
La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna.
Cinquant'anni fa scoppiava l'autunno caldo. E finiva il Miracolo economico.
1989, Good bye Lenin.
Albert Einstein: il genio.
Carosello, la pubblicità in tv: quando Mina consigliava Barilla.
Le 100 canzoni italiane più belle del ventunesimo secolo (fino ad ora...).
Dai Beatles a Lucio Battisti tutti i dischi mitici del 1969.
Jimi Hendrix: un gigante gentile.
Chi era davvero Jim Morrison?
Jack Kerouac della Beat Generation.
Tutti contro Michael Jackson.
Whitney Houston.
George Michael.
L'Uomo Tigre, un eroe tragico che ci ha insegnato a soffrire.
Il Moulin Rouge.
Dieci anni dopo Mike la tv è ancora un quiz.
Dieci anni senza Mino Reitano, l'artista che si faceva maltrattare dalla tv.
Quel magnifico naso di Giorgio Gaber: oggi il Signor G. avrebbe compiuto 80 anni.
Maledetto Faber, ora ti amano tutti!
Le ultime ore di Freddie Mercury prima di morire.
Martin Luther King, l’uomo che sognava Obama.
4 marzo 1994: venticinque anni fa la tragica notte di Kurt Cobain a Roma.
Luciano Pavarotti.
Bud Spencer.
Lucio Battisti, un genio: oggi avrebbe 76 anni.
Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa.
Andreotti, Donat Cattin, Moro: altro che capitani!
Federico Fellini.
Chi era Gustavo Rol.
Auguri Alda Merini, poetessa simbolo del '900 italiano: oggi avresti compiuto 88 anni.
Domenico Modugno, puro genio della canzone.
Califano, la dolce vita quando la vita non era più dolce.
Zapata, l’anti-eroe che 100 anni fa cambiò il Messico.
Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti.
«Luigi Tenco è morto di noia».
Giuni Russo. Una voce di Libertà.
Alex Baroni, 17 anni fa moriva il cantante dopo un incidente stradale.
Prince: tre anni senza il genio del funk-rock.
Il rapimento da cui nacque "Imagine" di John Lennon.
Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra.
Ricordando Paolo Poli.
Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.
La “Filosofa” Moana Pozzi.
Charlot: Charlie Chaplin.
Frank Sinatra.
Audrey Hepburn: colazione da Hitler.
Marlene Dietrich.
Ava Gardner.
Greta Garbo.
Grace Kelly, la favola triste.
Ricordando Farrah Fawcett.
Marlon Brando. Malato di Sesso.
Un Salvacondotto per Bertolucci.
James Dean.
Dieci anni senza Patrick Swayze.
Robin Williams, 5 anni senza.
Sergio Leone: “…Uno stronzo!”
Henry Fonda.
Florence, che 68 anni fa fermò il tempo nuotando sulla Manica.
Valentino Mazzola.
Il campione Girardengo ed il bandito Sante.
«Mio padre Fausto Coppi è il ciclismo che vive nel mio cuore».
25 anni fa la morte di Ayrton Senna.
Formula 1, 25 anni senza Roland Ratzenberger.
Pietro Mennea, 40 anni dal record del mondo.
Luciano Re Cecconi.
Di Bartolomei, 25 anni dalla morte di «Ago».
Scirea, 30 anni fa la morte.
Superga, settanta anni fa: la tragedia italiana in cui scomparve il Grande Torino.
Cent'anni di Brera.
Carmelo Bene nel Pallone.
Evita e la sua Argentina, una ossessione lunga 100 anni.
Marzotto. Matteo ricorda Marta.
La leggendaria stilista Coco Chanel.
Silvana Mangano.
Lilli Carati, la rinascita dopo i film hard.
«Mistero Buffo» di Dario Fo.
Chi era Augusto Del Noce, il filosofo che odiava la modernità.
Alla riscoperta di Landolfi, scrittore surrealista.
Giorgio Faletti: la matrioska.
Mariele Ventre: maestra storica del coro dell'Antoniano di Bologna.
Nino Nutrizio, storico direttore del quotidiano «La Notte».
Frank Vincent Zappa.
Franco Franchi.
Marcello Mastroianni.
I Clash.
Woodstock compie 50 anni.
Chiedi chi erano gli Who.
50 anni fa moriva Brian Jones, il geniale inventore dei Rolling Stones.
Rudolf Nureyev: uomo di danza e di sostanza.
Aristotele Onassis e Jackie Kennedy.
Frida Kahlo, 65 anni fa moriva la regina del selfie ante litteram.
Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia.
I 70 anni del bigliardino.
La Mini ha compiuto 60 anni.
La Autobianchi A112 ha compiuto 50 anni.
Ei fu la brutta Duna.
110 anni di moto Gilera.
La Vespa "50 Special" compie 50 anni.
Il primo «citofono» d’Italia.
La vecchia- giovane Bicicletta.
I 50 anni del Boeing 747.
I (primi) cento anni del panettone Motta.
I MORTI FAMOSI.
Si festeggia Halloween o si onorano i Santi/ i Morti?
Il sonno eterno di Rosalia.
Non c’è Diritto a morire.
C’è Posto per te. Carissimo estinto.
Piangi che fa bene.
La musica per il funerale.
Si salvi chi può…ma prima la valigia.
Come capire quando una persona sta annegando e cosa fare per aiutarla.
I Resuscitati.
I morti nel 2019.
La Fine del Maggiolino Volkswagen.
È morto Andrew Dunbar, controfigura di Theon Grevjoy de «Il Trono di Spade.
Morta Sue Lyon, la scandalosa «Lolita» del film di Stanley Kubrick.
E’ morto Salvatore Pagano l’ultimo guardiano di Zannone: l’isola a luci rosse.
Suicida Ari Behn, lo scrittore che accusò di molestie Kevin Spacey.
È morta a 72 anni Allee Willis, cantautrice americana.
Morta l’attrice Anna Karina.
È morto l’attore Danny Aiello.
Addio a Marie Fredriksson, indimenticabile voce dei Roxette.
E’ morto Giuseppe Frigo, il maestro dei penalisti.
Morto Davide Vannoni, "padre" del metodo Stamina.
E' morto Pete Frates, l'inventore dell'ice bucket challenge.
Morto Paul Volcker, il presidente della Fed.
Addio allo stilista Emanuel Ungaro.
Morta Florence Griffith, l’ex donna più veloce del mondo.
Morta Claudine Auger, Bond girl.
Morta Azzurra Lorenzini, cantante e conduttrice tv.
Morto Federico Memola, sceneggiatori del fumett: creò Zona X e Jonathan Steele.
Addio a Mario Sossi, il giudice rapito per un mese dalle Br.
Morto Piero Terracina, tra gli ultimi sopravvissuti di Auschwitz.
La Roma piange Giovanni Bertini: morto per la Sla a 68 anni.
Morti gli arrampicatori Daniele Nardi e Brad Godbright.
Morto Vittorio Congia, caratterista del cinema.
Morto Bruno Nicolè, il più giovane marcatore della storia della Nazionale di Calcio.
Morto Elio Locatelli, sportivo d’altri tempi.
E’ Morta. Maria Baxa: bella star della commedia erotica.
Morta Elda Lanza, fu la prima presentatrice Rai.
E' morto Antonello Falqui, il papà del varietà televisivo.
È morta Maria Perego, la «mamma» di Topo Gigio.
È morta Maria Pia Fanfani.
È morto Fred Bongusto.
È morto Omero Antonutti, attore feticcio dei fratelli Taviani.
Marie Laforet rip.
E’ morto il produttore Robert Evans.
È morta l’Itala di Boris, Roberta Fiorentini.
E’ morto a settant' anni lo scrittore Nick Tosches.
E’ morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi.
E’ morto Harold Bloom: il fustigatore delle mode letterarie.
Come è morto Massimo Colonna, in arte Crash Kid?
È morto Manuel Frattini, il divo italiano del musical.
Morto Paco Fabrini. Fu il «figlio» di Tomas Milian.
Morto il poeta John Giorno, voce sperimentale della Beat Generation.
Se ne va Esmeralda Barros: “la mulata più famosa del pianeta”.
È morto Robert Forster, l'attore di Jackie Brown di Tarantino.
Si è spento l’attore Carlo Croccolo da Totò. Ha lavorato accanto Totò ed Eduardo De Filippo.
Morto il cosmonauta russo Alexei Leonov, il primo a "passeggiare" nello spazio.
Morto Ettore Spalletti, pittore e scultore, maestro dell'arte concettuale.
Morto Filippo Penati, dirigente del Pd, fu presidente della provincia di Milano.
Morto Beppe Bigazzi, volto de «La prova del cuoco».
Lionello Massobrio.
Addio a Michael J. Pollard, l'attore di Gangster Story.
Morta la psicoterapeuta Paola Vinciguerra.
Morta Adriana Spazzoli, moglie di Giorgio Squinzi.
Muore a Milano Giorgio Squinzi, ex presidente di Confindustria.
Morto Guido Carandini. Deputato del Pci, chiese di cambiarne il nome.
Addio a Jacques Chirac: l’ex presidente francese morto.
E’ morto Barron Hilton.
Morto Charlie Cole, scattò la foto simbolo di piazza Tienanmen.
Scaramucci, la voce libera che raccontava i mondi nuovi.
È morto il neofascista Stefano Delle Chiaie.
Morta Annalisa Cima, addio all’ultima Musa di Montale.
Morto l'attore Federico Palmieri.
Vaticano, morto a 95 anni il cardinale Achille Silvestrini.
Carlo Delle Piane è morto a 83 anni.
Morto a Roma pm Antonio Marini, magistrato antiterrorismo.
Morto Giovanni Buttarelli, garante europeo della privacy.
Addio a Cosimo Cinieri l’avanguardia della Puglia.
Morta Ida Colucci, ex direttrice del Tg2.
Morto Richard Williams, il papà del coniglio Roger Rabbit.
Muore in bici Marcello Musso, pm del processo alla coppia dell’acido.
È morto Felice Gimondi.
Morto Peter Fonda.
Addio a Nadia Toffa.
Ascesa e caduta di Jeffrey Epstein.
Piero Tosi. È morto il costumista premio Oscar.
E’ morto Fabrizio Saccomanni, ex ministro.
Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione sportiva.
Raffaele Pisu è morto.
E' morto Paolo Giaccio, l'inventore di Mister Fantasy.
Morto Jorge Hill Acosta y Lara, noto da noi come George Hilton.
Morto l’avvocato Carlo Federico Grosso.
È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner».
Addio all'ex presidente del Lecce Giovanni Semeraro.
È morta Ilaria Occhini
Morto Francesco Saverio Borrelli.
È morto lo sceneggiatore e regista Mattia Torre.
È morto Luciano De Crescenzo.
E' morto Andrea Camilleri.
Camilleri e Ceronetti.
Morto Alberto Sironi, regista tv del «Commissario Montalbano».
Addio a Valentina Cortese.
È morto l’attore Rip Torn.
È morto Ugo Gregoretti.
Eduardo Fajardo.
Morto il Mago Gabriel.
Zeffirelli se ne va.
Addio a Niki Lauda, leggenda della Formula 1.
È morta Doris Day.
È morto Gianluigi Gabetti. storico manager Fiat.
E’ morto Roberto Silva. presidente del gruppo di detersivi Italsilva che gestisce tra gli altri i marchi Chanteclair e Quasa.
E’ morto Vittorio Zucconi.
Gianni De Michelis è morto.
Morto Massimo Bordin.
Morto l’ex senatore Giuseppe Ciarrapico.
Morto Cesare Cadeo.
Addio a Giacomo Battaglia.
E’ morto Kenneth To.
Addio a Mario Marenco.
E' morto Pino Caruso.
È morto Keith Flint.
E' morto Luke Perry.
È morto Gabriele La Porta.
È morta Marella Agnelli.
Morto Alberto Rizzoli.
Muore Paolo Brera.
È morto Stewart Adams.
È morto Giuseppe Zamberletti.
Muore Fernando Aiuti.
Addio a Paolo Paoloni.
Gli attori famosi che (forse) non sapevi fossero morti.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
Il mancinismo e i miti da sfatare.
Le parti inutili del corpo. I rifiuti dell’evoluzione.
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
· Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura?
Cadere in un pozzo. Perché ci fa tanta paura? Da Alfredino a Julen. Il caso di Julen ci riporta alla tragedia di Vermicino e al senso di terrore e di angoscia che ci prende in questi casi.
A Malaga, in Spagna, da domenica 13 gennaio si lotta, aggrappati a una flebile speranza, per salvare Julen Rossello: due anni e mezzo, caduto in un pozzo di 110 metri largo 25 centimetri. Forse quando leggerete queste righe già saprete se ce l’ha fatta o no. Ma le possibilità sono davvero poche, se ci riesce è un miracolo. In questi anni, dal famoso caso di Alfredino Rampi, che a Vermicino, vicino Frascati, il 13 giugno 1981 fu protagonista sfortunato di un simile caso, quanti bambini sono caduti in un pozzo con esisti alterni?
Una bambina di 5 anni, il 24 giugno 2012, cade in un pozzo di 25 metri a Manesar, vicino a New Dehli, in India. Dopo 86 ore la estraggono viva ma la corsa all’ospedale si rivela inutile, la bambina muore per le conseguenze della lunga permanenza in fondo al pozzo.
Il 3 luglio dello stesso anno, a Carpanzano (Cosenza), Matteo Bonacci, di 13 anni, cade in un pozzo rincorrendo una palla. Fortunatamente il ragazzo ce la fa e dopo un’ora e mezzo viene estratto con qualche graffio dalla sua prigione. La madre Adelaide Vigliaturo, lancia un appello agli amministratori, rimasto inascoltato come sempre, perché chiudano i pozzi ancora aperti e senza protezione che spesso si trovano in campagna.
Il 13 novembre del 2017 un bambino rumeno di 5 anni muore cadendo nuovamente in un pozzo a Corinaldo (Ancona).
Il 12 luglio dello scorso anno cade in un pozzo una bambina di 6 anni a Taviano, vicino Gallipoli (nel Salento). Fortunatamente giocava con un’amica e la tempestività dei soccorsi, e l’intervento dei Vigili del Fuoco, le salva la vita. Il pozzo questa volta si trova in un cortile e viene utilizzato per la raccolta dell’acqua. Era coperto alla meglio ma si sa, i bambini sono curiosi. La bambina è volata giù per otto metri, in un metro d’acqua, che ha attutito il colpo.
Si cade anche in un tombino lasciato aperto. Ma succede che si cada anche in un tombino di città. A Erba (Como) il 10 aprile dell’anno scorso, un uomo di 71 anni cade a testa in giù in un tombino, di quelli per le fognature, collocato in un tunnel dove si trovano i garage del condominio. La moglie s’è accorta dell’assenza del marito solo alcune ore dopo la tragedia. Troppo tardi per salvarlo.
A Cilavegna (Novara) l’11 dicembre, è un operaio di 53 anni a morire per le conseguenze di una caduta in un tombino, mentre tentava di leggere il contatore dell’acqua, evidentemente posizionato in maniera molto poco sicura.
Il 30 ottobre è successo a una contadina nuorese di 70 anni di cadere in un pozzo in campagna, località Sà Pauledda a Loculli. La improvvisa sparizione dell’anziana aveva messo in sospetto il nipote, che ha chiamato soccorso, purtroppo non c’è stato nulla da fare.
La cronaca è purtroppo un bollettino di guerra: Il 23 novembre a Oschiri (Sassari) muore un uomo di 84 anni. A Cocconato (Asti) un pensionato di 88 anni muore in un pozzo. A Lorenzana (Cascina - Pisa) il 7 gennaio di quest’anno muore un anziano di 91 anni: Antonio De Pietro.
Vermicino fu la prima tragedia mediatica Evidentemente anziani e bambini sono le vittime designate di queste cadute e si capisce anche perché. Quello che non si capisce è perché non si rispettano le norme di sicurezza e non vengono mai puniti i responsabili di simili tragedie. Quella di Alfredino Rampi, nel 1981, tenne inchiodati davanti alla tv 21 milioni di Italiani, nella speranza di veder uscire da quel buco nero il povero bambino. “Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte” disse Giancarlo Santalmassi, che curava uno degli spazi della diretta televisiva. Diciotto ore di televisione senza soluzione di continuità. La Rai allora non disponeva delle tecnologie adatte per dirette esterne così lunghe. In genere si usava la differita, anche per timori politici e per intervenire in tempo a tagliare quello che poteva disturbare l’ “editore di riferimento”, come lo chiamava Bruno Vespa. Una tragedia come quella di Alfredino avrebbe consigliato un maggior rispetto per le vittime e per gli stessi spettatori ma i giornalisti vennero presi in contropiede. Si pensò a un salvataggio rapido e spettacolare, in base alle dichiarazioni incaute del capo dei Vigili del Fuoco Elveno Pastorelli. Furono Emilio Fede (direttore del Tg1) e Antonio Maccanico (segretario generale della Presidenza della Repubblica) a esercitare pressioni per non interrompere le trasmissioni, sapendo che anche Sandro Pertini, il Presidente partigiano, stava per recarsi sul luogo.
La vicenda di Malaga dove si tenta di salvare il piccolo Julen Rossello sembra avere molte cose in comune con la tragedia di Vermicino. Le complicazioni che via via hanno contrassegnato le operazioni di salvataggio, ricordano quanto sia difficile raggiungere un essere vivente bloccato in fondo a un pozzo. L’instabilità del terreno, la difficoltà di aprirsi un varco laterale per le scosse che potrebbero far precipitare il piccolo ancora più giù, il terrore che cresce e la perdita di sensi che può intervenire in chiunque, in particolare in un bambino piccolo, solo, impaurito, forse ferito, dolorante, sofferente e spaventato. Sono stati mobilitati i minatori asturiani e anche l’impresa svedese (Stockholm Precision Tools AB) che localizzò e salvò i 33 minatori cileni nel 2010, per scavare un tunnel parallelo e uno trasversale, ma le speranze sono al lumicino. Trecento persone lavorano giorno e notte in turni da 100 ogni 8 ore, dandosi il cambio. Un esercito di ruspe ha sbancato la collina abbassandone la sommità di 25 metri per posizionare una piattaforma stabile che ospiti le trivelle pesanti tonnellate. Una “talpa”, che lavorava alla metropolitana, è stata mandata da Madrid, in tempi record, fino al villaggio di Totalàn, teatro della impresa di salvataggio. Tutto il villaggio è mobilitato per ospitare i soccorritori. Per gli scavi ora sono in pericolo di crolli anche le case degli abitanti di Totalàn. Tutti si sentono in dovere di dare più del massimo per salvare Julen, “che è come il figlio di tutti”. Come nel caso di Alfredino tutta la Spagna è col fiato sospeso. L’emozione si respira nell’aria, è palpabile. Il pensiero che un bambino di due anni e mezzo stia soffrendo in quel buco sotto terra non fa dormire, getta tutti nell’angoscia più profonda.
La paura del pozzo è in tutti noi. Perché il pozzo fa tanta paura? Perché il terrore di caderci dentro è sempre presente in noi e quando accade una paura acuta ci impedisce di essere razionali, ci blocca, ci atterrisce, presagendo il peggio e facendoci immedesimare in quel bambino in pericolo? Il pozzo, ogni pozzo, se ci pensiamo bene ci fa paura. Ci affacciamo ai bordi e guardiamo giù, spesso senza vederne la ne, per cui ci tiriamo una pietra per assicurarci che ci sia una ne… potrebbe non esserci, come fosse la porta di un antro infernale. Da bambini l’immaginazione corre. Un pozzo fa pensare a cose orribili sul suo fondo. Potrebbero esserci dei cadaveri. Qualcuno che c’è caduto o qualcuno che ci sia stato gettato.
Anche nella tragedia di Avetrana, Sarah Scazzi venne uccisa e gettata nel pozzo, ricordate? Lo confessò mentendo lo zio, poi risultato solo complice dell’omicidio. Nei pozzi che si trovano in campagna, abbandonati, sale dal fondo un odore di umidità misto a marcio… quasi una putrefazione, che lascia pensare a esseri viventi morti, forse animali che ci sono caduti. La tecnica di caccia, scavando un’enorme buca, poi coperta e nascosta, è stata utilizzata in molte culture, da quelle primitive ai giorni nostri. Era anche una tecnica usata dai vietcong contro gli americani. Dei pali di bambù acuminati venivano posti in verticale sul fondo del pozzo e chi vi cadeva ne restava inesorabilmente infilzato a morte. La storia è piena di questi riferimenti. Le foibe altro non erano che grotte carsiche profonde metri e metri e dalle quali era impossibile risalire. A centinaia vennero spinti lì dentro coloro che la malvagità della guerra vedeva come nemici. La stessa cosa è accaduto in tante altre guerre, anche recentemente. I pozzi, le grotte, le buche, possono nascondere cadaveri.
Cos'è un pozzo se non un buco nero? Sono paure ancestrali che albergano in tutti noi. La paura del buio, dell’antro oscuro, della solitudine e del pericolo. Ogni volta che si apre una voragine, come se ne sono aperte anche a Roma negli ultimi anni, oltre alla esecrazione per l’incidente che evidenzia lo stato di incuria, in cui versa il sottosuolo della città, il fatto lascia in noi, nel nostro animo, una sensazione di ribrezzo, di orrore, al pensiero che potevamo esserci caduti dentro. La paura del buio e di restare soli è quella che ogni bambino prova quando deve andare a dormire in camera sua, nel suo lettino. Per questo spesso si lascia una lampadina accesa, lo si fa addormentare raccontando una fiaba, lasciandolo poi col bacio della buona notte e l’assicurazione: “Sono qui vicino!” Ma nella grotta e nel pozzo il bambino è solo per davvero e non abbiamo la certezza di come poterlo salvare e forse anche lui se ne rende conto. In “Poltergeist” di Steven Spielberg, regia Tobe Hooper, la biondissima bambina Carol Anne subisce il richiamo dall’aldilà dell’entità maleca. Tanto più la bambina è bionda, piccola, carina quanto più contrasta con la malvagità di chi vuole sottrarla ai genitori. Un vortice di fumo l’attira e la risucchia, portandola in una dimensione sconosciuta, come un “buco nero”. Cos’è un pozzo se non un buco nero? E qual è il tramite di contatto tra la realtà della bambina e l’al di là? Quel geniaccio di Spielberg sa usare l’ironia come nessuno: il televisore! E lì che si annida il maleficio… Giustamente un “cinematografaro” non poteva che esprimere così il suo profondo odio per la tv vista come il pozzo nero. Nel film la mamma sente la voce ma non può sapere dov’è la glia e che pericolo corra. Proprio come i bambini nel pozzo. Si sente il bambino piangere, chiamare aiuto. Ma questo lacera ancora di più il nostro animo e ci fa sentire più deboli, incapaci di aiutarlo. Forse i pozzi nelle campagne un giorno saranno coperti per via dei provvedimenti di amministratori efficienti. Forse riusciremo a far in modo che i nostri anziani non debbano cadere nei tombini lasciati aperti incautamente, ma non ci libereremo mai della paura del buio e del buco nero, porta degli Inferi e di demoniache presenze. Con queste paure dovremo sempre convivere e ci sarà sempre un Alfredino piangente che ci chiederà aiuto. Un essere indifeso, solo, che chiede aiuto e per il quale sarà sempre più duro voltarsi dall’altra parte. Di queste voci ultimamente se ne sentono parecchie, magari non dal fondo di un pozzo, ma dal mare si… ma sembra che gli Italiani, gli Spagnoli e gli Europei tutti non ci sentano...
· I Posti maledetti.
L’ATLANTE DELLA SFIGA. Giuseppe Marcenaro per “Il Venerdì di La Repubblica” il 18 agosto 2019. D’altra parte non è una novità. L’umano, per sentirsi vivere, anziché farsi coinvolgere dalla serenità vagheggia di sprofondare nella paura. Nel brivido. E così si inventa situazioni e luoghi da costeggiare con terrore. La cosa sorprendente è che angoli del pianeta in apparenza tranquilli, lande di ondulati declivi, coste di fascinoso marezzare, possono mutare in orrorifici paesaggi. Magari a causa di un dettaglio. Per colpa essenzialmente di un’effrazione del pensiero, colpa di una vecchia storia malintesa, raccontata da qualcuno in vena di recare presunti misteri, suscitati dalle insondabili profondità del tempo. Quest’è la bizzarra sensazione, non certo di paura, semmai di curiosità senza tremor panico, che si prova sfogliando un libro, giustissimo per il tempo nostro, in cui l’eccezionale, l’ammirabile, il freak, è di modaiola vocazione, sollecitata più da un diffuso strabismo mentale che dalla realtà. L’andar cercando l’eccentrico per sorprendere. Quando poi ogni cosa e ogni storia sono di banalità disarmante. Esempio di questo gioco a rimpiattino con misteri diffusi e brividi, l’Atlante dei luoghi maledetti, di Olivier Le Carrer (Bompiani). È un calepino che inventaria luoghi spaventagente con un florilegio di situazioni eccentriche sparse per i cinque continenti. Veramente l’imbarazzo della scelta. Intanto per chi volesse visitare, territori, angoli romiti e situazioni insolite. Al contrario, soprattutto a uso dei pavidi, farsi venire la pelle d’oca semplicemente girando le pagine. E scoprire come certi luoghi scomodi, plaghe celebrate per dubbia fama, edificate dal ron ron del passaparola, somiglino in realtà, più che a scenari infernali, a scalcinati teatri stabili di orrori tutti mentali. Insomma niente di vero. Soltanto cervelli sgomentati dall’autosuggestione. L’Atlante dei luoghi maledetti ce la mette proprio tutta e esibire luoghi sotto le più sinistre e tenebrose luci loro. Angoli di mondo deprecati tanto per cattiva fama, quanto perché, per imperscrutabile fatalità, proprio lì vi si è perpetrato qualche efferato delitto. Mutando di fatto un angolo di mondo sereno in scenario emanante iettature tragiche. Perciò celebrato a eterna ignominia. Al di là dello sproloquiare donde s’origini la paura, compagna imperitura del volgere dell’esistenza nostra, con un necessario rosario di scongiuri, viene spontaneo chiedersi se, d’esempio, la notissima valle dei Re, nel profondo Egitto, meta di battaglioni di turisti infoiati, debba veramente considerarsi un luogo maledetto. Soltanto per il fatto che, si torca quanto si voglia, è un cimitero. Che ospita gente d’alto lignaggio. Notoriamente faraoni. Comunque sempre cimitero è. Con le tombe archeologicamente siglate. La sua malandrina fama, l’egizio sito, la deve non soltanto all’essere oggi uno dei luoghi più celebrati dell’antichità ma soltanto perché ospita un sepolcreto individuabile con la sigla KV62. Fosse vivo il Belli starebbe lì a dire: «KV62? E che ha da esse? La tomba de Tutankamme!». È colpa del faraone fanciullo se quel luogo di pace eterna viene additato tra i maledetti. Una leggenda ingrata perseguita il povero Tutankhamon. Per qualche delirio della sorte si tirò addosso tutti gli universali anatemi e scongiuri perché un po’ di quelli che ne rinvennero la tomba ed ebbero a che fare con la sua mummia e i sontuosi arredi funerari – soprattutto la celeberrima maschera d’oro – conclusero l’esistenza loro con morti inspiegabili. D’altra parte tutte le morti, in un modo o nell’altro, sono inspiegabili. La morte medesima lo è. Eppure l’ultima dimora del faraone bambino si è guadagnata l’impronta di sito maledetto. E quale colpa hanno i poveri pipistrelli della specie Eidolon helvum, volgarmente pipistrelli della frutta paglierino, se la loro presenza induce a deprecare il luogo al quale approdano nella loro migrazione? In effetti arrivano a nuvole e oscurano il cielo del parco nazionale di Kasanka in Africa. I pipistrelli sono descritti con un musetto canino e denti affilati. Mica però si avventano alla gola di chi passa per il parco per succhiargli il sangue. Sono pipistrelli vegetariani: «Trecentomila tonnellate di frutta spariscono ogni anno durante la razzia». Da che mondo è mondo, il ciclo naturale. Il volgere delle stagioni, delle migrazioni. Questi vampirini della frutta saranno guardati con occhio torvo, magari temuti. Al fondo però non si può negar loro una certa qual simpatia. Eppure il baedeker stabilisce che il parco nazionale di Kasanka sia maledetto. Come maledettissimi i ruderi di torri e castelli tipo quello di Montségur, conosciuto anche come cittadella della vertigine, con tutto il profluvio della universale palla del Santo Graal; e quello di Tiffauges dove con un balzo di soprassangue la memoria corre a Gilles de Rais, in arte Barbablù, con la notissima solfa delle sette mogli spiaccicate sulle pareti di una stanza segreta. Fatalmente ciò che non si spiega o non si comprende merita l’attributo di maledetto: il villaggio fantasma di Roccasparviera nel Sud della Francia. Anche Norimberga: città maledetta poiché culla del nazismo. Ma non è stata la capitale dei giocattoli? Luogo di vertiginoso incubo spirituale, secondo l’Atlante della sfiga, quale dovrebbe essere se non il Golgota? Con tutto ciò che da quelle parti è successo. Il catalogo delle sventure procede con impietosa costanza. S’effonde verso Kibera, Kenya, dove pare sussista una «cloaca non repertoriata: un luogo di cui i cartografi ne sanno così poco che preferiscono dimenticarlo». Farebbe il paio con Zapadnaya Litsa, definita l’autentica «anticamera dell’inferno», non soltanto a causa delle spaventose condizioni climatiche e dell’interminabile notte polare. Il luogo sta all’estremo nordovest della Russia e sembrerebbe lo scenario più adeguato agli amanti della natura selvaggia. È che negli anfratti di un profondissimo fiordo pare vi sia il deposito di tutti i sommergibili e testate nucleari andate in disuso, ferraglie dismesse dalla disciolta Unione Sovietica. E poiché sul maledettissimo pianeta non ci si può far mancare niente, il rigoglio del terrore sta in certe isole sperdute dove sembra avvenga l’iraddiddio, un incubo tropicale con un nome simbolicamente tranquillizzante: Isola Europa. E poi il golfo di Aden con le moderne marmaglie dei pirati; le lagune avvelenate di Thilafushi nell’arcipelago delle Maldive; l’Houtman Abrolhos, meglio interpretabile come l’arcipelago del massacro: luogo di naufragi plurimi. E come farci mancare le onde maledette al largo di Half Moon Bay, a a sud di San Francisco? E per buon peso i maledettissimi triangoli: quello del Nevada dove pare siano spariti oltre duemila aerei nel corso degli ultimi cinquant’anni. E tutto a mezz’ora di macchina da Las Vegas. Non poteva certo mancare il più classico dei triangoli. Quello delle Bermuda, troppo noto per tentare d’evocare cosa vi succeda. Peccato che, alla fine di una moltitudine di punti geodetici sfigati, a questo salutare Atlante manchi una informazione essenziale. Le coordinate marine dove trovò il suo nefasto destino il Titanic. A proposito di maledetta scalogna.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO E DI FERRAGOSTO.
Storia (e inutilità) dei botti nella tradizione di Capodanno. In una sola notte, i botti esplosi tra Posillipo e Capo di Sorrento rilasciano una quantità di diossina pari a quella prodotta in un anno da 120 inceneritori. Stesso scenario a Londra. Dal 2013 in Italia non ci sono più morti ma sono in aumento in feriti, scrive Marco Demarco il 29 dicembre 2018 su Il Corriere della Sera. È il 31 dicembre 1958 e Lenù e Lila, le protagoniste dell’Amica Geniale di Elena Ferrante (nella foto nella fiction Rai) stanno assistendo ai botti dal terrazzo, mentre i Carracci e i Solara si affrontano a colpi di razzi e tric trac. I Solara poi passano dalle botte a muro alle pistole. I botti di Capodanno sono, per dirla con Elena Ferrante, una rovinosa «smarginatura». Un fenomeno da riportare nei margini. Materia per una spending review degli usi e dei costumi. Guardiamo i fatti. Dovrebbero segnare il passaggio da un «prima» opaco a un «dopo» luminoso. Invece, proprio perché spostano tutto sulle aspettative piuttosto che sull’agire, il più delle volte accompagnano un trapasso illusorio, se non addirittura tragico. È ciò che avviene nei capitoli centrali de L’amica geniale o nella fiction di Saverio Costanzo (andate a rivedere quelle scene su Rai play, sono di assoluta attualità simbolica). Il 31 dicembre del 1958, dunque, mentre i Carracci e i Solara si affrontavano a colpi di razzi e tric trac, «in mezzo ad esplosioni violentissime, nel gelo, tra fiumi che bruciavano le narici e l’odore violento dello zolfo», Lila avvertì che ogni margine di umanità stava cedendo, e che anche i suoi «diventavano sempre più molli e cedevoli». I Solara erano passati dalle botte a muro alle pistole. Da espressione di gioia, e poi di potere, cioè di sfida, i petardi erano diventati preludio di violenza. Una metafora neanche tanto esagerata, se su Facebook, nella stessa Napoli, ma sessant’anni dopo, finisce una foto con una lei in minigonna di latex e pistola in pugno, stile Gomorra, e un lui sul balcone a brindare. Ambientalisti, animalisti, buonsensisti. Tutti dovremmo lasciare i botti illegali sulle bancarelle fuorilegge e moderare l’uso di quelli consentiti. Invece, dicono gli esperti, in una sola notte, i botti esplosi tra Posillipo e Capo di Sorrento rilasciano una quantità di diossina pari a quella prodotta in un anno da 120 inceneritori. Ma anche a Londra, nel 2000, i fuochi per le celebrazioni del millennio immisero nell’aria più veleni di quanti, in un secolo, ne avrebbe potuto produrre un ipotetico inceneritore europeo. Ogni anno, poi, spaventati dal rumore che avvertono più degli umani, muoiono almeno 5.000 animali, e di questi, specifica il Wwf, circa l’80% sono selvatici, soprattutto uccelli. Il che vuol dire che per il resto nel conto ci sono anche i nostri Trilli e Briciola. Tra gli umani, le cose vanno meglio. Ma non bene. Dal 2013 non si contano più morti, ma aumentano i feriti, e cresce il numero dei bambini coinvolti. A Milano, Brescia, Torino, Bolzano: gli ospedali vanno in tilt ovunque. E cioè avviene nonostante divieti e ordinanze. Del resto, può la sola legge frenare chi usa i petardi proprio per «smarginarla»? Ovunque chi ricorre ai fuochi di fine anno lo fa per esorcizzare le proprie paure. Gli antichi li usavano per contrastare demoni e spiriti maligni. E i Romani legarono i rituali d’inizio del nuovo anno al dio Giano, in latino Ianus, da cui deriva il nome di gennaio, il primo dei mesi. Ma a Napoli c’è forse un di più. Quell’attaccamento all’ispirazione panica della natura che qui Ungaretti nota durante un suo viaggio nel Mezzogiorno sembra una costante nel tempo. Resta anche quando lo stesso popolo diventa prima democristiano e poi «di sinistra». E nulla si è fatto per modificare le cose. Lo notò per primo Edmondo Berselli. Com’è — si chiese al tempo di Bassolino — che dal considerare le lacrime delle Madonne episodi di bigotteria a favore della Dc, nella campagna elettorale del 1948, si passò al San Gennaro «santo sociale», simulacro del Sud caldo, profondo e progressista? Non aveva letto Fabrizia Ramondino. Può succedere, spiegò, perché a Napoli le bombe alleate o nazifasciste venivano dal cielo e contro di esse ci si rifugiava sotto terra; mentre le scosse del terremoto venivano da sottoterra e ci si rifugiava all’aria aperta. Tradita dal cielo e dalla terra, la città ha continuato a invocare i miracoli contro la sorte, e a praticare i suoi esorcismi. In fondo, la città tradita non ha fatto altro che ispirarsi a uno dei personaggi di Voci di dentro di Eduardo. Nonostante non sia muto, infatti, zi’ Nicola decide di non parlare più, perché ritiene che l’umanità abbia perduto ogni ritegno. Solo ogni tanto «parla» sparando tric trac. Ma perché i napoletani continuano a sparare? Per «fare i napoletani», direbbe La Capria. Per compiacersi e compiacere. O, forse, per rimuovere con la potenza dei fuochi quel senso di impotenza che viene quanto guardi la città. Ancora così bella, ma ancora così imperfetta.
Buon Ferragosto! (Ma perché si festeggia? Ve lo spieghiamo noi). Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Corriere.it. Anche quest’anno, eccoci arrivati a Ferragosto (nota importante: domani i giornali non saranno in edicola, li ritroverete sabato; oggi invece il Corriere ha un numero speciale, con «Corriere Salute» e «7»). Ma perché si festeggia questa giornata, con cene in spiaggia o gite fuori porta? Cosa significava in origine questa ricorrenza? La giornata ha origini risalenti al periodo romano e al calendario pagano: il termine deriva dal latino feriae Augusti, periodo durante il quale i romani si astenevano dai raccolti. Il nome significa «riposo di Augusto», in onore di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano, da cui prende il nome il mese di agosto. E’ stato proprio lui a istituire una giornata di festa nel 18 a.C. che andava ad aggiungersi ai Vinalia rustica e ai Nemoralia, feste che nel mese di agosto celebravano i raccolti e la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, che nella religione romana era il dio della terra e della fertilità. In questo modo, si concedeva al popolo un meritato periodo di riposo dopo le grandi fatiche delle settimane precedenti. Anticamente, il Ferragosto veniva celebrato l’1 agosto con corse di cavalli, feste, decorazioni floreali, ma i giorni di pausa erano molti di più, tanto che si arrivava fino al 15 di agosto. È stata la Chiesa cattolica a spostare i festeggiamenti a questa data, assimilando la festa pagana intorno al VII secolo, quando è stata fissata al 15 agosto, giorno in cui si celebra la festività dell’Assunzione di Maria. Sarebbe questo il giorno in cui la Vergine venne accolta in cielo sia con l’anima che con il corpo, simboleggiando la morte e la rinascita. Molte delle tradizioni diffuse ancora oggi nella giornata di Ferragosto derivano proprio da questi antichi significati.
Nelle Marche c’è la tradizionale (dal 1182) Cavalcata dell’Assunta di Fermo: tra cortei in costume, celebrazioni religiose e tornei sportivi.
In Sardegna merita attenzione la Faradda de li candareri, nel cuore di Sassari: una processione religiosa che deriva da un voto fatto alla Madonna nel 1652, che avrebbe successivamente salvato la città dall’arrivo della peste, al tempo la principale causa di morte del territorio europeo. Nel 2013, l’Unesco ha inserito la celebrazione nel Patrimonio orale e immateriale dell’umanità.
Non mancano poi i festeggiamenti in giro per il mondo. Da Madrid, con la festa della Paloma, al Canada con l’Acadian day, fino all’Irlanda con la «Féile Mhuire ‘sa bhFomhar». E non bisogna dimenticare che il 15 agosto in India si festeggia l’indipendenza del Paese, ottenuta nel 1947. Paese venne allora diviso in due stati: l’attuale India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana. L’India divenne formalmente una repubblica soltanto il 26 gennaio 1950, quando entrò in vigore la nuova Costituzione: tra il 1947 ed il 1950 il capo di stato del Paese rimase il sovrano britannico.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
· Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo.
Donne e uomini che hanno cambiato il Mondo, senza far pagare il conto ad altri. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Da Gandhi a Rosa Parks, da Jan Palach a Bobby Sands, fino al ragazzo che fermò i carri armati a Pechino. Nell’Alabama, cambiò la storia la sartina Rosa Parks, a Danzica l’elettricista Lech Walesa, a Praga lo studente Jan Palach. E tanti altri, in altri Paesi. Non piegarono la schiena, scelsero di non tollerare l’ingiustizia. «Scelsero»: cioè praticarono l’unico vero diritto che un essere umano abbia su questa terra, il libero arbitrio. Conobbero certo la paura, come tutti, ma non le permisero di umiliarli. Furono la smentita vivente del detto manzoniano: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Se furono condizionati dalle circostanze storiche in cui vissero, come tutti lo siamo, non ne furono però prigionieri. Non avevano eserciti né ricchezze dietro di loro. Non predicavano la salvezza del mondo. Ma la dignità dell’individuo, di ogni individuo. Alcuni di loro furono dimenticati per dieci, venti, trent’anni. Ma non scomparvero mai del tutto, sono diventati simboli più forti della macina del tempo. Il loro esempio scorre, come certi rivoli carsici che non perdono mai la loro energia nascosta. Basta saperli trovare, e ascoltare il loro scrosciare. Sophie Scholl aveva 22 anni quando fu decapitata il 22 febbraio 1943, dalla lama d’acciaio pesante 15 chili della ghigliottina della prigione di Monaco di Baviera. Scarabocchiò dietro il foglio della sentenza una parola: «Freiheit», «Libertà». Motivazione della condanna: aver seminato nelle strade migliaia di volantini anti-nazisti, aver vergato sui muri «Hitler assassino del popolo». E aver scritto: «Niente è più indegno di una nazione civilizzata, che lasciarsi governare senza alcuna opposizione da una cricca che fa leva sugli istinti più elementari… Il danno reale è fatto da quei milioni di cittadini onesti che vogliono solo essere lasciati in pace... Copiate e diffondete». Sophie era una studentessa di filosofia dal volto anonimo. Lei, il fratello Hans e altri avevano fondato un piccolo gruppo, «La rosa bianca», dal titolo di un racconto di Clemens Brentano, scrittore del Romanticismo tedesco autore di poesie e canzoni contro Napoleone. I loro volantini, 7 in tutto, usciti da un vecchio ciclostile rivelarono già nella prima fase della guerra: «Da quando la Polonia è stata conquistata, 300.000 ebrei sono stati massacrati in quel Paese, nella maniera più bestiale». Questo, secondo alcuni storici, fu la prima denuncia all’Olocausto in terra ed epoca nazista da fonti tedesche. Nessuno, fra coloro che trovarono quei volantini, poteva più giustificarsi affermando: «Non sapevo». E quei fogli dicevano anche altro: «Il tedesco non deve sentire semplicemente pietà: egli deve sentire la colpa. Ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole! (sottolineato tre volte, ndr)».Sophie e i suoi compagni furono arrestati quando il bidello che li conosceva da tanti anni li denunciò alla Gestapo. Ma Traudl Junge, l’ultima segretaria personale di Hitler, la fedelissima che raccolse il suo testamento e scrisse «ero troppo giovane per capire», alla fine della vita annotò nei suoi diari: «Un giorno ho notato la targa alla memoria Sophie Scholl in Franz Joseph Strasse a Monaco, e quando mi sono resa conto che quella ragazza è stata giustiziata nel 1943, ne sono stata profondamente scioccata. Anche Sophie Scholl all’inizio era stata una ragazza del Bdm (Lega delle giovani tedesche, ndr), di un anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale. La mia scusa perdeva ogni consistenza». Un uomo può sconfiggere un impero, e nello stesso tempo essere tormentato dalle paure. Gandhi temeva il buio, i serpenti, i fantasmi. Ed era anche pieno di contraddizioni. Churchill lo aveva definito «un fachiro seminudo, nauseante». Da adulto, con il voto del «brahmacharya», rinunciò al sesso, ma da ragazzo era stato divorato da una vera ossessione sessuale per la moglie quattordicenne Kasturbai. Un giorno che aveva il padre morente fra le braccia, quando questi si assopì, corse subito dalla moglie-bambina, la svegliò per fare l’amore. E nel frattempo, il padre morì: «La vergogna era la vergogna del mio desiderio carnale perfino nel momento tragico della morte di mio padre». Ma non sono i dettagli biografici a fare la storia. Molto più conta l’ammirazione da lontano di Churchill — proprio quel Churchill che di Gandhi si era fatto beffe — per il Mahatma che abbracciava anche gli «intoccabili». Alla fine, il «fachiro semi-nudo, nauseante» vinse nel 1947 l’impero britannico, che dominava su 412 milioni di persone, con le sue marce pacifiche e digiuni a oltranza. Sempre in prima fila, non mandò altri al suo posto. Gli estremisti indù lo chiamavano codardo e traditore. Ma le loro bombe non scalfirono l’impero di Londra. E furono loro nel 1948, ad uccidere Gandhi. Lui si era detto pronto a dare l’unica cosa che poteva dare: la sua vita. E così fece.Rosa Parks era una sartina di 42 anni, e il primo dicembre del 1955 aveva preso l’autobus per tornare a casa dal lavoro. La Corte dell’Alabama aveva appena stabilito che la segregazione razziale violava la Costituzione. Quel giorno l’autobus era affollato, e Rosa si era seduta come sempre nella prima fila riservata ai neri, ma l’autista James Blake le aveva ordinato di cedere il suo posto a un bianco, rimasto in piedi. E lei rispose: «No». Fu arrestata, licenziata. La comunità nera di Montogomery indisse il boicottaggio degli autobus, una cosa mai prima accaduta. Durò per mesi. Nel frattempo, la comunità elesse come capo un giovane di nome Martin Luther King. Nel 1956 la Suprema Corte confermò l’incostituzionalità della segregazione razziale sugli autobus. Rosa morì a 92 anni, prima donna americana della storia a ricevere onoranze funebri nel Campidoglio. Nel 1963, il Sud Vietnam buddista era governato da un aristocratico della minoranza cattolica, Ngô Đình Diem, finanziato dagli americani. La guerra civile era già iniziata. E i monaci buddhisti, che guidavano la cultura del Paese ma erano seguaci della non violenza, pregavano e stavano a guardare passivamente. Finché uno di loro, l’abate Thich Quang Duc, capo della principale pagoda di Saigon, non si immolò per protesta contro la repressione anti-buddhista, la corruzione e l’asservimento del Paese agli Usa. Aveva 66 anni, apparteneva alla corrente buddhista Mahayana che vieta il suicidio. Ma si sedette ugualmente su un cuscino nel centro di Saigon, lasciò che due confratelli gli versassero sul corpo un bidone di benzina, e poi accese da solo il fiammifero. Impiegò 10 minuti a morire, immobile, senza un lamento. L’immagine del suo saio arancione in fiamme fece il giro del mondo, e milioni di persone divennero consapevoli di una guerra e una repressione fino a quel momento pressoché ignorate. Era l’11 giugno 1963. La guerra del Vietnam sarebbe finita solo nel 1975, ma la sua fine simbolica era cominciata con il suicidio del bonzo. «Come un solo fiammifero può accendere una rivoluzione», titolò anni dopo il New York Times.Sei anni dopo, da questa parte del mondo, qualcun altro scelse il fuoco per rivendicare la libertà del suo popolo. «Io sono la torcia numero uno», scrisse a 19 anni Jan Palach, nella lettera che lasciò agli amici. Fino ad allora era stato uno studente universitario timido, appartato. Il 19 gennaio 1969, in piazza san Venceslao nel centro di Praga, si versò addosso un bidone di benzina per protestare contro la censura filo-sovietica sulla stampa. Sembrò un sacrificio inutile, il suo, il regime ne occultò persino la tomba. Ma vent’anni dopo, il 17 novembre 1989, mezzo milione di persone riempì la piazza san Venceslao, là dove la torcia si era accesa. Gridavano «Svoboda», «libertà». E «Palach, Palach!». Non avevano dimenticato quel nome. Lo stesso che, nell’estate precedente, l’astronomo Lubos Kohoutek — poi andato in esilio — aveva attribuito a un asteroide che aveva appena scoperto: «Palach 1834». Poche settimane dopo la manifestazione di piazza San Venceslao, lo scrittore dissidente Vaclav Havel — appena reduce dal carcere — fu eletto presidente dell’Assemblea Federale. Ad Est il mondo stava cambiando, e la Cecoslovacchia era tornata nell’Europa libera. Anche nel nome di Jan.Non voleva indossare l’uniforme del detenuto, Bobby Sands. Voleva che il Regno Unito britannico lo rispettasse come prigioniero politico, patriota della «sua» Irlanda repubblicana. Aveva 27 anni, era un militante del gruppo armato dell’Ira. «Armato», appunto, e infatti Sands fu imprigionato per detenzione illegale di 4 pistole. Ma nel 1981, lui (ed altri 9 compagni detenuti) divenne veramente pericoloso per Londra quando scelse un’ arma più potente, la stessa di Gandhi: lo sciopero della fame. E proprio com’era avvenuto a Gandhi, molti altri militanti non li capirono, li criticarono. Sands morì dopo 66 giorni di digiuno. Margareth Thatcher rifiutò sempre di negoziare con lui. Però, nel 1998, Londra e Dublino firmarono l’«accordo del Venerdì Santo». E le due Irlande ebbero vent’anni di pace. Forse, la morte di Bobby non era stata inutile. Anche se ora, con l’ombra della Brexit che incombe, tutto potrebbe tornare tragicamente in ballo. Secondo molti storici, l’uomo che diede il primo scossone al blocco comunista sovietico è stato Lech Walesa. Un giorno sarebbe diventato premio Nobel per la Pace, e capo dello Stato. Ma all’inizio era solo un elettricista nato in un villaggio minuscolo della Polonia. Da ragazzo Walesa aveva visto la gente schiacciata dai carri armati a Poznan, nel 1956. Nel 1980, con pochi amici fondò «Solidarnosc», primo sindacato libero del mondo comunista. Fu licenziato, e arrestato. Guidò gli altri allo sciopero generale, contro l’aumento dei prezzi alimentari, a mani alzate, fermando chi cercava la violenza. Diceva: «Temo solo Dio. E mia moglie…qualche volta». Avevano 8 figli, ma lui non aveva mai detto «tengo famiglia». Rischiò tutto. E convinse milioni di altri — non eroi, né santi — a rischiare con lui. Certo, c’era il papa polacco e il vento stava cambiando, ma senza il suo coraggio la storia europea avrebbe avuto un altro corso e altri tempi. Oggi è un pensionato qualsiasi. Ha scritto una volta: «Chiunque cerca di fermare con le mani le ruote della storia avrà le dita spezzate». Vissute in epoche diverse, queste persone hanno avuto in comune tre cose: il coraggio, uno sguardo visionario oltre il quotidiano, la volontà di assumersi una responsabilità personale incondizionata. La stessa che ha spinto quel ragazzo cinese a fermare il carro armato in Piazza Tienanmen a giugno del 1989. Nessuno sa che fine abbia fatto, e nemmeno dove sia finito il soldato che alla guida del blindato si rifiutò di «tirare dritto”. Ma l’esercito cinese non è riuscito a seppellirne la portata simbolica, che oggi potrebbe materializzarsi fra i milioni di manifestanti di Honk Kong. E l’esito stavolta potrebbe essere ben diverso.
La lezione di Gandhi, simbolo della lotta pacifista. Valter Vecellio il 12 ottobre 2019 su Il Dubbio. 150 anni fa nasceva il padre dell’India moderna. L’iconografia che ci hanno consegnato è in alcune immagini: lo si vede scheletrico, sommariamente avvolto in un lenzuolo: lavora all’arcolaio, oppure e’ disteso su un lettino di fortuna, impegnato in uno sciopero della fame; piccolo di statura, cranio rasato, occhialini tondi, scuro di pelle… cosa conosciamo esattamente di Mohandas Karamchand Gandhi? Poco, tutto sommato. Perfino la causa di cui è stato maestro e apostolo: quante volte si legge “non violenza” staccato, mentre lui raccomandava di parlare e scrivere “nonviolenza” come un’unica parola, perche’ non la intendeva come negazione, ma come termine a sé? Perfino il nome, spesso, si storpia; fateci caso: Ghandi, invece di Gandhi. Nasce a Portandar, città costiera nella penisola del Kathiawar 150 anni fa ( 1869). Viene ucciso il 30 gennaio del 1948: è appena trascorso un anno dalla proclamazione d’indipendenza dell’India; dell’India moderna è il padre, o meglio il suo Mahatma: la “Grande anima”. Fulminato con tre colpi di pistola esplosi da un giovane fanatico nazionalista indiano, Nathuram Godse. Sono le cinque del pomeriggio; Gandhi è assorto in preghiera. Godse riesce a fuggire. Lo catturano un anno dopo; processo e condanna a morte, eseguita. A pensarci, uno sfregio alla memoria di Gandhi, che aveva dedicato tutta la sua vita, il suo “fare” e la sua dottrina alla nonviolenza, all’imperativo del non uccidere. Cercare di concentrare la sua vita, intensa e ricca, le sue esperienze formative in Sud Africa e in Regno Unito, in poche righe, sarebbe ingiusto oltraggio. E’ stato uno dei pionieri e dei teorici attivi del “satyagraha”, letteralmente dal sanscrito: “insistenza per la verita’”; “satya”, ovvero: verita’; “ahimsa”, “nonviolen- za”. La sua arma: la disobbedienza civile, pronto a pagarne le estreme conseguenze: processi, condanne, carcere; e la resistenza passiva all’oppressione e alla ingiustizia. Così ha ispirato movimenti di difesa dei diritti civili, e personalità come Martin Luther King, Nelson Mandela, Cesar Chavez, Adolfo Maria Perez Esquivel, Aldo Capitini. In India, Gandhi è riconosciuto come ‘ Padre della nazione’; il giorno della sua nascita è festa. L’ONU ha dichiarato quel giorno “Giornata Internazionale della nonviolenza”. Al regista Richard Attemborough si deve essere grati per aver realizzato, nel 1982, un meritatamente celebre film su Gandhi interpretato in modo superbo da Ben Kingsley. Grazie ad Attemborough milioni di persone hanno conosciuto la summa del pensiero gandhiano: «Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere. Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto a uccidere. La paura può servire, ma mai la codardia». In Gandhi si condensa teoria e prassi; in sostanza la sua “filosofia” prescrive che si debba partire da se stessi per compiere la “rivoluzione” che si auspica e per la quale si lotta. C’e’ poi il metodo: la nonviolenza, che si può spingere all’estremo: essere disposti a essere uccisi piuttosto che farlo. C’è poi la comprensione della natura umana: è insensato non aver paura; è normale. Ma si ha il dovere di cercare di vincerla, quando si è profondamente convinti della giustezza di una causa. Un nome si trasforma in simbolo quando lo si può usare come aggettivo. È il caso di Gandhi. Dici gandhiano, e c’è necessità di spiegazione. Gandhiano sta a nonviolenza come un assioma; da intendere in positive: affermazione di “proposta” e non “protesta”, come spesso amava sottolineare Marco Pannella, che pure era animato da una nonviolenza di matrice più anglosassone e pragmatico: quel filone che si snoda da Henry David Thoureau ( autore del celebre Disobbedienza civile), a Martin Luther King, fino a Bertrand Russell. Per quel che riguarda Gandhi, e comprendere l’essenza del suo pensiero, oltre ai libri che ci ha lasciato, importante è scandagliare i profondi rapporti che ebbe con Leone Tolstoi; per questo aspetto, giungono in prezioso soccorso Piero Cesare Bori e Gianni Sofri, autori di numerosi studi e curatori dei carteggi tra i due. Per quello che ci è dato di sapere, c’è un solo partito che ha assunto quale suo simbolo il volto di Gandhi: il piccolo ( numericamente parlando) Partito Radicale, che nella sua dizione estesa, aggiunge: “Nonviolento, transpartito, transnazionale”. Marco Pannella decise di adottare come simbolo l’effigie di Gandhi, perché in quell modo intendeva condensare una serie di obiettivi politici: diritto umano e civile alla conoscenza, presupposto fondamentale per essere cittadini e non sudditi; diritto al diritto e a una giustizia certa, presupposto fondamentale per non essere servi, ma parte consapevole di una collettività. Per tornare a Gandhi e la nonviolenza: è vero che quest’ultima appare mortificata e sfregiata tutti i giorni dai comportamenti di chi detiene il Potere, e da parte di chi il Potere vuole conquistarlo; ma è anche vero che la nonviolenza ci sta sempre più permeando; e assume visive manifestazioni, che a volte possono sembrare ingenue o pittoresche, ma che sono comunque la prova di come certi semi riescano a germogliare. Si pensi alle manifestazioni di lavoratori, che di volta in volta letteralmente si inventano iniziative che appaiono fuori dagli schemi tradizionali, appunto per colpire, fare notizia, e ci si pone il problema di “comunicare”, far sapere, veicolare quello che si cerca di fare. Si tratta spesso di manifestazioni liquidate in poche righe; e andrebbero invece valorizzate, non foss’altro per “premiare” l’opzione nonviolenta. Scioperi e sit in, cartellonate e marce, digiuni singoli e collettivi: sono tutti “strumenti” di lotta pacifica che stentano a fare “notizia”, mentre immancabilmente la fa un esto violento, una vetrina rotta, un’automobile incendiata… Cosa deve pensare chi vuole pubblicizzare una sua causa? Cos’e’ spinto a fare, per farla conoscere? La questione ci riguarda direttamente…
· Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda.
Magellano, a 500 anni dal viaggio che dimostrò che la terra è rotonda. Fu il navigatore portoghese a concepire la prima circumnavigazione del globo. Non riuscì a portarla a termine ma ha dato il nome a uno stretto, due galassie e un pinguino. Paolo Fallai il 13 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. Tra le imprese che hanno cambiato la storia dell’uomo, quelle dei grandi esploratori sono le più emozionanti: da Cristoforo Colombo a Vasco de Gama, da Amerigo Vespucci a Ferdinando Magellano che proprio 500 anni fa intraprese il fprimo viaggio capace di circumnavigare il globo (e dimostrarne la forma sferica, cinque secoli prima dei terrapiattisti). Ma sull’epopea di Magellano, nato a Sobrosa nella provincia del Tra-Os-Montes, situata nel nord del Portogallo, il 17 ottobre del 1480, circolano ancora molte imprecisioni che vale la pena approfondire.
Non gli fu affatto facile far passare le sue idee. Orfano di entrambi i genitori a soli 10 anni, venne accolto nella corte reale portoghese di Giovanni II e successivamente avviato alla carriera militare, combattendo in India e nell’odierna Malaysia. Nel 1513 durante una spedizione in Marocco, venne gravemente ferito a una gamba. Accusato di aver organizzato commerci con i musulmani nel 1514 venne licenziato con disonore dal servizio per la Corona portoghese.
Non voleva andare dove andò (come Colombo). Tornato in Portogallo proseguì da privato gli studi nautici e si convinse che esisteva la possibilità di raggiungere l’oriente navigando verso occidente. Esattamente lo stesso presupposto (sbagliato) di Cristoforo Colombo. Ma il re portoghese Manuel, a cui Magellano si rivolse in un primo momento per effettuare il viaggio, non stimava quell’aristocratico decaduto, che era stato allontanato dalla Marina e rifiutò la proposta. Come Colombo, il navigatore lasciò quindi Lisbona facendo la stessa proposta al re di Spagna Carlo V, che aveva solo 19 anni e che la accettò in funzione anti-portoghese. La convinzione di Magellano avrebbe permesso di rompere il monopolio di Lisbona sulle preziosi merci asiatiche.
Non sarebbe partito il 10 agosto. Ottenuta dal re di Spagna una flotta di cinque navi, la Trinidad, la San Antonio, la Victoria, la Concepciòn e la Santiago, con a bordo 265 uomini tra cui 24 italiani partì da Siviglia. Seguirono il corso del fiume Gúadalquivir fino alla foce (Siviglia si trova a circa cento chilometri dal mare) e quindi la partenza effettiva della spedizione avvenne il 20 settembre 1519 quando le navi si mossero dal porto spagnolo di Sanlùcar de Barrameda.
Non sarebbe diventato così famoso senza un italiano. Faceva parte del suo equipaggio un giovane originario di Vicenza, Antonio Pigafetta, che riuscì a completare la spedizione e ne scrisse un dettagliato resoconto, la Relazione del primo viaggio intorno al mondo, in una lingua che confonde parole italiane, spagnole e molte del dialetto veneto. Pigafetta dedica il manoscritto a Carlo V. Sarà pubblicata per la prima volta nel 1525. Creduto perduto per molto tempo, il manoscritto è stato ritrovato nel 1797 nella biblioteca Ambrosiana di Milano da Carlo Amoretti, scienziato e scrittore, che ne era diventato bibliotecario. Oggi la “Relazione” di Pigafetta è considerato uno dei più preziosi documenti sulle grandi scoperte geografiche del Cinquecento.
Non ha fatto la prima circumnavigazione del globo. Ferdinando Magellano non riuscì a completare il suo viaggio. Pigafetta racconta come nelle isole Filippine Magellano fosse riuscito a convertire il re dell’isola di Cebu, al Cristianesimo e a far riconoscere Carlo V di Spagna come nuova autorità; a quella notizia scoppiò una rivolta sulla vicina isola di Mactan, e Magellano decise di usare la forza per sedarla. Il 27 aprile 1521 sbarcò a Mactan, ma venne ucciso insieme con alcuni dei suoi uomini dagli abitanti dell’isola. Il suo corpo non fu mai restituito.
Non ha dato il suo nome solo ad uno stretto braccio di mare. Lo stretto di Magellano è un percorso navigabile a sud del Cile ed è il più importante passaggio naturale tra l’oceano Atlantico e l’oceano Pacifico (e a proposito di nomi, fu proprio il navigatore a dare questo nome all’oceano chiamato fino ad allora Mare del Sud, per segnalare l’assenza di tempeste). Magellano ci mise un mese ad attraversare quello stretto inospitale e battuto dal venti, nel novembre 1520. Ma durante il suo viaggio il navigatore portoghese osservò anche due piccole galassie irregolari che orbitano intorno alla via Lattea e sono visibili a occhio nudo dall’emisfero sud. Ancora oggi portano il suo nome: la Grande Nube di Magellano e la Piccola Nube di Magellano. Ha infine dato il suo nome a un pinguino diffuso sulle coste meridionali dell’America del Sud e osservato durante il suo viaggio.
Non andò benissimo. Nella primavera del 1520 perse la nave Santiago mentre si inoltrava nello stretto che oggi porta il suo nome. Qui si ammutina l’equipaggio e la San Antonio abbandona la flotta e fa rotta verso la Spagna. Il viaggio continuò anche dopo la morte di Magellano nel 1521: il comando della spedizione passò a Juan Sebastiàn Elcano che ordinò di distruggere la Concepciòn perché priva di equipaggio, mentre La Trinidad sbagliò rotta ed arriva quasi in Alaska per poi ritornare indietro ed essere distrutta dai Portoghesi. Il viaggio si concluse il 6 settembre 1522 quando la sola nave superstite la Vittoria con 18 marinai, rientrò nel porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo.
· Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo.
Anniversario della dichiarazione dei diritti dell’Uomo. Principi scolpiti 230 anni fa. Il Dubbio il 27 Agosto 2019. Ad approvare uno dei documenti sui quali si regge l’intera civiltà fu l’Assemblea nazionale costituente in piena Rivoluzione francese. Conoscere la legge è un obbligo. Ma è forse ancora più importante conoscerne la storia. Essere consapevoli del percorso compiuto per arrivare all’affermazione dei principi che regolano la civile convivenza. E qui che risiede il senso di una ricorrenza come quella caduta ieri: i 230 anni dal giorno, il 26 agosto 1789, in cui fu emanata la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Carta solenne da cui discendono tutte le Costituzioni democratiche oggi in vigore, e la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni unite nel 1948. Ad approvare uno dei documenti sui quali si regge l’intera civiltà fu l’Assemblea nazionale costituente in piena Rivoluzione francese, poche settimane dopo la presa della Bastiglia e l’abolizione del feudalesimo. I 17 articoli della Dichiarazione del 1789 discendono, a loro volta, dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, ma è la forma trovata in Francia ad essere riconosciuta come pietra angolare delle moderne democrazie, tanto da essere esplicitamente richiamata nella Costituzione francese ancora oggi in vigore. Ieri il Consiglio nazionale forense ha citato la ricorrenza sui social network ( a fianco è riportato il tweet pubblicato sul profi lo del Cnf), evidentemente per richiamare alla conoscenza della Storia come base per la diffusione di una vera cultura dei diritti, di cui gli avvocati si sentono giustamente ( e. n.)
· Napoleone Bonaparte.
Napoleone, un mito salvato dal suo genio: sconfitto ma profeta di un’ Europa unificata. Sergio Valzania il 23 Agosto 2019 su Il Dubbio. A lui si devono realizzazioni come il Codice Napoleone che hanno spinto in avanti l’evoluzione del diritto europeo di parecchi decenni. I 250 anni dalla nascita di Napoleone, 15 agosto 1769, sollecitano alcune riflessioni, in un’epoca di destra risorgente. Che l’imperatore dei Francesi vada collocato su di uno scranno piuttosto sulla destra in un’immaginaria aula che raccolga i protagonisti della storia ci sono infatti pochi dubbi. Certo fu un figlio della Rivoluzione, senza la quale avrebbe fatto una discreta carriera nell’esercito di Luigi XVI e poi di Luigi XVII, ma non molto di più. A lui si devono realizzazioni come il Codice Napoleone che hanno spinto in avanti l’evoluzione del diritto europeo di parecchi decenni e le sue riforme scolastiche sono ancora alla base del sistema francese e non solo, il sistema stradale europeo deve molto alle sue decisioni e si potrebbe procedere parecchio a indicare i contributi da lui offerti sulla via della modernizzazione, meno su quelle della democrazia rappresentativa e della pace. Non si scappa: Napoleone era un dittatore militare, che fondava il suo potere sul consenso dell’esercito e sulle vittorie in guerra. Esaurito questo carburante per l’accordo raggiunto tra i più reazionari monarchi del continente, il suo destino era segnato. La questione sta su come mai esista tutt’ora un mito napoleonico diffuso e accettato, a differenza di quanto è capitato ai dittatori del Novecento. Ne mancò chi scatenò contro di lui la “macchina del fango”, con un qualche successo iniziale. Il sistema propagandistico inglese era efficiente e collaudato. Qualche secolo prima aveva stravinto il confronto con l’impero asburgico madrileno, fornendo un’immagine diffamatoria della sua politica e della corte che la elaborava. Anche contro Napoleone gli inglesi si impegnarono nella denigrazione. Sul piano politico l’accusa era quella di essere il tiranno guerrafondaio, l’Orco che divorava i suoi sudditi mandandone a morire decine di migliaia ogni anno, e questo ci potrebbe stare, su quello personale si diceva di amori di ogni tipo, compreso quello consumato con la figliastra, Ortensia figlia di Giuseppina e regina d’Olanda, rapporto dal quale sarebbe nato Luigi Carlo, che l’imperatore aveva indicato come proprio erede al trono. Dopo Waterloo il governo inglese e quello monarchico francese fecero a gara a stampare pubblicazioni di ogni genere per presentare nel modo peggiore la figura a le imprese di Napoleone. Nonostante questo impegno, del quale l’imperatore deposto era perfettamente a conoscenza a Sant’Elena, Napoleone non ebbe mai dubbi sul fatto che il suo ricordo storico sarebbe stato positivo. Aveva passato l’infanzia leggendo le Vite Parallele di Plutarco e gli anni successivi a creare il proprio personaggio perché gli venisse assegnato un posto accanto a loro. Era sicuro di esserci riuscito; alcuni sostengono che la inspiegabile sconfitta di Waterloo sia almeno in parte dovuta a una sua pulsione verso un finale coerente con una vita da eroe romantico. Nel 1821 fu Alessandro Manzoni con il 5 maggio, ode scritta in morte dell’imperatore, a dare inizio alla rilettura, alla lettura revisionista diremmo oggi, dell’epopea napoleonica che subito prese piede, si consolidò con il rientro della salma da Sant’Elena e con la salita al trono di Napoleone III divenne inarrestabile. La rivalutazione così repentina dell’eredità napoleonica non fu l’esito di una campagna mediatica, né di un’affermazione politica. Precedette la stagione imperiale di Napoleone III e sopravvisse alla sua caduta. Ancora oggi si discute sul segno da attribuire alla sua esperienza di governante. Sono in pochi a credere in una possibile riabilitazione di Benito Mussolini o Adolf Hitler, forse considerazioni diverse valgono per Lenin e Stalin, ma anche il loro futuro mediatico non si presenta come roseo. Domandarsi il perché di questi diversi destini per figure storiche che conquistarono e soprattutto gestirono un potere tendenzialmente assoluto non è ozioso. Mussolini tentò addirittura un esplicito auto riferimento con l’esperienza napoleonica, scrivendo Campo di Maggio, titolo che fa riferimento a un episodio sfortunato dei cento giorni, nel quale il dittatore italiano sostiene che la seconda caduta di Napoleone fu causata dai suoi cedimenti nei confronti di chi auspicava una democratizzazione del sistema politico francese. Napoleone seppe cogliere elementi di progettualità proiettati nel futuro anche, forse soprattutto, nei tratti del suo agire che si ritorsero con violenza contro di lui. L’esperienza dell’impero francese, collegata con la guerra di Spagna e la campagna di Russia, la penalizzazione della Prussia a favore della Germania renana, tutti passaggi che portarono alla sua definitiva sconfitta militare, presentano oggi dei tratti quasi profetici nei confronti di un’Europa unificata. O da unificare meglio. Nella costruzione dell’impero, che al momento del suo massimo sviluppo nel 1812 comprendeva Amburgo, Roma, Bruxelles, Barcellona, Torino, Amsterdam e Firenze, Napoleone non tentò mai di comprimere le istanze culturali dei paesi annessi. Niente imposizione della lingua francese, erano le leggi e la burocrazia centralizzata ed efficiente che dovevano costituire lo scheletro di uno Stato unificato. Riguardo alla Spagna l’imperatore non capì mai perché la popolazione dimostrava di preferire, come in breve avrebbero fatto anche i tedeschi, un governo peggiore, ma nazionale, a quello che lui cercava di imporre. Tutto l’amore per la Francia che provava non fece mai di lui un nazionalista di stampo lepenista. La campagna di Russia, l’errore decisivo, coincise con un sogno, con l’ambizione di aver davvero unificato il continente in vista di un’impresa grandiosa. Ma soprattutto Napoleone fu l’uomo dell’égalité, dell’esportazione dell’uguaglianza rivoluzionaria, di questo valore individuato da San Paolo, cresciuto dal cristianesimo medievale e affermato dall’illuminismo, che le armate rivoluzionarie, ma soprattutto imperiali, diffusero in Europa. Fu allora che vennero cancellate in tutto il continente le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, quelle olandesi che riducevano i diritti civili dei cattolici, quelle svizzere che consideravano il Canton Ticino terra di conquista degli altri cantoni. Sempre in nome di un principio semplice e assoluto “nello zaino di ogni soldato c’è un bastone da maresciallo”, come la variegata e variopinta corte parigina stava a dimostrare. La contemporaneità di Napoleone con gli abitanti dell’Europa del Duemila derivò dal genio, non dall’educazione o dall’ideologia. Hilter e Mussolini, che geni non erano, portavano con sé un pensiero più antico del suo. L’imperatore si rivelava uomo del suo tempo, e della sua isola, nel mettere sui troni di tutto il continente i suoi familiari più stretti, nella superstizione e negli scatti di collera furibonda, più spesso sapeva scorgere i tratti di un futuro a volte così lontano da apparire incomprensibile ai contemporanei. Forse persino a lui stesso. Un tratto ne confermava con certezza le capacità visionarie: l’abbigliamento. In mezzo a una corte di parvenu, che vestivano chiassose divise gallonate d’oro, calcando cappelli piumati, Napoleone avanzava con indosso uno spolverino grigio e un cappello nero fuori moda. Una mise geniale che solo il più ispirato degli stilisti avrebbe potuto disegnare per lui. La memoria storica ce lo consegna come un grande, anche nel quadro di Paul Delaroche che lo ritrae a Fontainebleau il 31 marzo 1914, alla viglia della prima abdicazione. Stanco, scarmigliato, vinto, ma prossimo a prendere il suo posto fra i grandi interpreti della storia.
Napoleone Bonaparte 250 anni dopo Erdogan e Putin gli emuli attuali. Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Se gli indipendentisti corsi, di cui suo padre era stato un capo, avessero sconfitto gli invasori francesi, probabilmente Napoleone Bonaparte non sarebbe diventato un protagonista della storia. Ma proprio nel 1769, l’anno in cui il futuro imperatore venne al mondo il 15 agosto, 250 anni fa, la Corsica fu annessa al regno di Luigi XV. E anche il papà del piccolo Napoleone, Carlo Maria Buonaparte, scelse di collaborare con le autorità di Parigi. Così Napoleone si avviò alla carriera militare nell’esercito non di una media isola, ma di una grande potenza, che per giunta, quando lui era ancora ventenne, fu scossa da un rivolgimento epocale come la Rivoluzione, che portò alla caduta della monarchia, all’esodo massiccio dei nobili e alla nascita della Repubblica. Per le persone ambiziose e di talento si aprivano opportunità straordinarie e il giovane corso, che francesizzò il suo cognome in Bonaparte proprio in quegli anni, ne approfittò fino in fondo. Nel 1793 si distinse contro i monarchici e gli inglesi arroccati a Tolone. Poi schiacciò una sommossa controrivoluzionaria come comandante della piazza di Parigi. La Francia repubblicana in guerra contro le monarchie europee gli affidò nel 1796 il comando dell’armata d’Italia e le sue vittorie fulminanti gli procurarono grande popolarità. Nonostante il fallimento della spedizione in Egitto, nel 1799 tornò in Francia e prese il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio, 9 novembre per il calendario tradizionale. Seguirono anni di clamorosi successi militari su austriaci, prussiani, russi: Marengo (1800), Austerlitz (1805), Jena (1806), Wagram (1809). Napoleone nel 1804 si fece incoronare imperatore e per alcuni anni fece e disfece a suo piacimento la carta geografica d’Europa, piazzando i suoi parenti sui troni di vari Paesi. Gli resisteva solo la Gran Bretagna, che gli aveva inflitto nel 1805 la pesante disfatta navale di Trafalgar, mentre con la Russia c’era una sorta di pace armata. Importante fu anche la sua opera modernizzatrice, con un grande programma di lavori pubblici e di riforme, a partire dal fondamentale codice civile del 1804. Per quanto sia stato un despota bellicoso, gli va riconosciuto il merito di aver incanalato le energie scatenate dalla Rivoluzione. Com’è noto, gli fu fatale l’iniziativa di attaccare la Russia nel 1812. Napoleone vinse la battaglia di Borodino, giunse fino a Mosca, ma non poté far altro che ritirarsi in condizioni ambientali proibitive, con perdite spaventose. A quel punto tutta l’Europa gli si rivoltò contro. Sconfitto e confinato all’isola d’Elba nel 1814, l’anno dopo tornò in Francia e riprese il potere per cento giorni: a Waterloo, il 18 giugno 1815, la sconfitta definitiva. Nonostante il fallimento finale, Napoleone ha lasciato il segno. Ancora oggi si parla di «bonapartismo» per definire un potere personale autoritario, conquistato ed esercitato senza freni in virtù di un forte carisma. Personaggi come Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan, Jair Bolsonaro, Rodrigo Duterte, nel suo piccolo anche Viktor Orbán, presentano tratti del genere. Ma nessuno di essi ha ottenuto successi militari simili, né ha alle spalle un rivolgimento paragonabile alla Rivoluzione francese. Evidente invece il tentativo di legittimarsi richiamandosi al passato: l’Impero romano per Bonaparte, quello zarista e quello ottomano per il presidente russo e quello turco.
· La Grande Carneficina: Verdun.
La Grande Carneficina: Verdun. Ivo Saglietti il 19 Dicembre 1916 su Il Giornale. VERDUN 49°10’00.12”N 5°22’59.88”E 262 m m.s.l. Verdun: Prima Guerra Mondiale. Il 19 dicembre 1916 terminò la battaglia tra le armate tedesche e francesi, era iniziata il 21 febbraio 1916, fu la più terribile e sanguinosa battaglia sul fronte occidentale: I morti furono più di 400.000, non ci furono né vincitori né vinti. Non fu la sola grande carneficina: le Ardenne, la Marna, la Somme, ma anche Caporetto e il Piave, fu la Prima Guerra Mondiale, morirono tra militari e civili, includendo la Rivoluzione Russa e il Genocidio Armeno: circa 30/40 milioni di persone. Poi nel 1918 arrivò dagli Stati Uniti una terribile influenza: La Spagnola, altri 50/100 milioni di decessi in tutto il mondo un vero Olocausto medico. L’inizio del secolo fu un disastro per l’Umanità. L’uso intensivo di gas tossici: l’iprite usato per la prima volta nei dintorni di Ypre, Belgio, da cui prese il nome, produsse 800.000 tra intossicati e feriti: la prima guerra mondiale fu il primo conflitto con impiego di armi moderne e sofisticate: mitragliatrici, cannoni potenti, i primi carri armati l’aviazione e i terribili gas. Più che battaglie furono vere e proprie carneficine, sulla Marna tra il 5 e il 12 settembre 1914 i caduti/dispersi francesi furono 90.000 I tedeschi 68.000 e 1700 I soldati inglesi, già i soldati inglesi che avanzarono con le baionette innestate e furono falciati dalle mitragliatrici tedesche. Ogni villaggio, paese o città dalla Manica alla Russia, dalla Francia alla Turchia all’Italia è cosparso di cimiteri e lapidi: l’Italia contribuì con 650.000 soldati morti e 1.300.00 invalidi: il totale tra militari e civili fu di 1.400.000 vite. L’ultimo soldato inglese a morire fu George Edwin Ellison, un minatore di Leeds, ma non fu l’ultimo, Henry Gunther, americano cadde in azione alle 10:59 un minuto prima della fine di quella che venne chiamata la Grande Guerra. Un piccione: Cher Ami è stato considerato il vero eroe della battaglie di Verdun, salvo’ la vita di 200 soldati portando messaggi, benché ferita, per 30 Km sotto il fuoco tedesco: insignita della Croix de Guerre riposa imbalsamata nel Museo della storia americana. Cifre, numeri che riletti a più di cento anni di distanza lasciano sgomenti, increduli non fosse, che già gli stati “sovrani” progettavano una carneficina ancora peggiore: la II Guerra Mondiale. Non ci furono né vincitori né vinti, solamente cadaveri. Probabilmente le uniche vincitrici furono le grandi imprese industriali dell’acciaio, del ferro, I grandi fabbricanti di armi: le acciaierie Krupp e I suoi grandi cannoni, gli aerei Fokker e la Fiat, la Caproni, l’Ilva con la ghisa ecc. La Storia si chiude così, con la fine dei Grandi Imperi Centrali: Ottomano, Tedesco, AustroUngarico e la Russia dello Zar Nicola II. Finisce la supremazia inglese e gli Stati Uniti entrano sulla scena mondiale. La pace finalmente, ma durò poco, poco più di 20 anni… fino al 1939.
· Era Ceausescu.
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 28 dicembre 2019. Era Ceausescu. Fra tutti i muri e perfino le staccionate del socialismo reale visti crollare in diretta televisiva, quella di Bucarest, trent’anni esatti fa, nel pieno della festività natalizia, è forse la caduta, il precipizio politico che più assomiglia a uno spettacolo granguignolesco, tra sangue, spari, urla, e ancora colpi di fucile che spazzano le strade della Romania al suo risveglio. Merito e insieme colpa del signore e padrone locale, Nicolae Ceausescu, il Presidente, pretendente al trono comunista di “Conducator”. Quel dicembre si racconta tra Timisoara e Bucarest. Negli occhi, ancora adesso la memoria dell’abbigliamento dei rivoltosi, simili a torme di sfollati che provano a fuggire da un esodo in tempo di pace apparente, anteriore perfino all’azzurro capitalistico “Adidas”, un’orda assiepata nelle piazze, in attesa del culmine della storia post-bellica della Romania socialista: la fucilazione del Tiranno e di sua moglie, la “Strega”, Elena, mostrata, nell’incubo comune, come complice d’ogni arbitrio, trasfigurata nell’astio popolare, appunto, in fattucchiera, la Lady Macbeth del regime. A fronteggiarsi, spettrali e insieme struggenti, i cappotti di panno ruvido dell’esercito regolare infine sollevato, in un tripudio fantasmatico di bandiere nazionali svuotate al centro dal simbolo dell’oppressione, unico esempio di araldica di Stato che mostri un traliccio tra corona di spighe e stella rossa; non dimentichiamo che Stalin, cui Nicolae, a suo modo, deve essersi ispirato per vocazione paternalistica, pretendeva sinfonie che rendessero onore all’elettrificazione dell’Urss. Non meno vero che Ceausescu, per decenni, ebbe modo d’essere ritenuto un irregolare. Nominato presidente del Consiglio di Stato nel 1967, rifiutando la teoria della “sovranità limitata”, sfida la supremazia sovietica non prendendo parte all’invasione della Cecoslovacchia. Un “riformatore” nell’improprio sentire comune, Nicolae; perfino le nostre feste de l’Unità offrivano le sue opere, accanto agli scialli e alle matrioske del “Paese guida”. Dettagli, minuzie, posto che il Natale del 1989 lo trova ormai sotto finale, la rovina è infatti imminente, lontana l’ascesa, il regime è pronto ad accartocciarsi su se stesso, per precipitare presto a capofitto. E Nicolae? Eccolo al balcone del palazzo presidenziale, reggia di marmi dei Carpazi, il colbacco di astrakan, come Don Camillo e Peppone insieme in viaggio oltrecortina, con la folla dei grandi raduni ufficiali che, sebbene convocata per l’ennesimo bagno di regime, prende a inveire proprio contro il Capo, segnale plastico della rivolta. Gli rimarranno a fianco, ricordiamo, i suoi “orfanelli”, e la polizia segreta, i cecchini della “Securitate”. Un cupo carosello di singoli colpi e poi raffiche che l’altro ieri Raitre, con “Blob”, ha riproposto a memoria del calendario terminale dell’illusione comunista nella terra dell’ “Impalatore”, Vlad Tepes, Dracula. Le bandiere senza più simboli del socialismo reale? Detto. In cima alle aste nel baratro di una diretta televisiva infinita, informale, i protagonisti della “colpo di Stato” a darsi il cambio negli appelli del “tribunale volante” militare, per Nicolae l’accusa di “genocidio” per la strage di Timisoara (la notizia si rivelerà tuttavia falsa) con l’aggravante di “aver condotto la popolazione rumena alla povertà e di aver accumulato illegalmente ricchezze”. Un processo fuori da ogni protocollo, come accade in tempo di terrore e comitati di salute pubblica, la fascia dai colori nazionali al braccio degli ufficiali-giudici, mentre in strada i soldati insistono nel fare fuoco, distesi per terra, verso ogni anfratto che mostri sacche di resistenza, gli “orfanelli di Ceausescu” non ancora ridotti al silenzio, o piuttosto si trattava di mercenari libici e siriani disposti cedere solo dopo avere preso coscienza dell’atto finale, l’esecuzione di Nicolae e Elena, sempre televisivamente mostrati. L’Orco e la Strega, dietro a un banco di scuola, rintuzzano ora le accuse, mostrano tracotanza e insieme arrendevolezza, batte il berretto d’astrakan sul tavolo, un Nicolae che sembra infine dire sia fatta la rovina nostra e altrui, la storia abbia il suo corso. Il crepitio dei kalashnikov sui loro corpi da lì a poco. Eppure, pensandoci bene, l’immagine più significativa, ancora di più della fucilazione dei titolari del potere, è nell’attesa di Zoia, la figlia prediletta, tra i soldati che l’hanno in custodia, così durante la ricognizione del tesoro privato dei Ceausescu, tazze e suppellettili dorati, Zoia regge il guinzaglio del suo cocker spaniel, sprazzo di innocenza dorata nel carnaio di stracci, fucili, elmetti, un sacchetto da duty-free shop colmo di una stecca di Marlboro nell’altra sua mano. Cosa ha trattenuto la memoria comune di quel dicembre di gelo, trent’anni fa, a Bucarest? I cappotti di panno, i simboli spettrali della “democrazia popolare” infine strappati, le misere giacche a vento, i maglioni di celeste stinto, i berretti di lana da fantocci mortuari tra neve e segatura sporca di sangue, i dispacci del nuovo potere che assicurano tutto essere ormai finito, la situazione sotto controllo, e il despota e signora, Elena che aveva il privilegio di donare a se stessa lauree “honoris causa” di scienze mai sfiorate, ormai simili a un mucchio di cenci sotto il muretto scrostato di una scuola di periferia, la sciarpa scozzese del “Conducator” infine nel fango. Tra le accuse: “Cercando di fuggire dal paese sulla base dei fondi per oltre un miliardo di dollari, depositati in banche straniere”. Ironia di un sogno quasi imperiale, ambizioni da Caligola di Transilvania, il plico che custodisce lo scettro che Nicolae aveva commissionato a una gioielleria parigina di Place-Vendôme, giungerà a Bucarest con Nicolae già cadavere. La sua tomba, poco più di un cumulo di terra, a definitiva cancellazione del suo transito nel governo della nazione…Negli anni, su quel mucchietto, quasi a rimpiangerlo, sorgerà, se non un mausoleo, un cenotafio di granito rosso da padre della Patria perduta, colmo di fiori, ad accogliere insieme marito e moglie. Avverrà dopo che il racconto retorico della sopraggiunta liberazione dalle miserie del socialismo avrà incontrato la percezione e i dubbi di una continuità, la convinzione che i nuovi signori di Romania avevano condiviso perfino l’ultima cena con Nicolae, storie di trasformismo, più prosaicamente, di gattopardismo; resta però su tutto il ricordo di una diretta televisiva segnata dall’assenza di un possibile montaggio, un unico filo, i suoi fuori campo, l’epilogo mosso e fuori fuoco della doppia fucilazione. Il mattino del giorno dopo, ricordo di aver proposto a Giulio Einaudi un breve romanzo intitolato “Casa Ceausescu”, una sit-com sugli orrori del socialismo nel paese dei vampiri, protagonista un padre satrapo accompagnato da una compagna proterva, senza dimenticare il resto dei familiari, come no, Nicu, l’altro figlio, aspirante erede presidente, Nicu di cui si narrava ogni infame magnificenza; sullo sfondo Nadia Comaneci, sua vittima eccellente, a volteggiare nell’ossessione agonistica olimpionica propria dei paesi di un comunismo mai davvero sfiorato. Peccato, non averlo mai scritto. Negli anni, in Romania, il giudizio su Ceausescu è tuttavia mutato. Un sondaggio del 2014, durante uno show televisivo, ha evidenziato che addirittura il 66% dei cittadini ha un’opinione positiva del suo operato. Resta che elogiarlo sui media è proibito dalla legge.
· I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.
I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo. Gli hanno dedicato 120 statue negli ultimi 10 anni e il 70% degli abitanti lo considera un leader positivo. Angelo Allegri, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. L'ultimo monumento in suo onore è stato inaugurato a Novosibirsk nel mese di maggio. Del 2017 è invece il busto sistemato nel viale dei Governanti, in una zona centralissima di Mosca. A Jalta, nel 2015, subito dopo l'annessione della Crimea, è stato immortalato con Roosevelt e Churchill in un grande complesso scultoreo nei luoghi della famosa conferenza. Iosif Vissarionovic Dugavili, detto Stalin, è considerato uno dei grandi criminali della storia. Ma i russi la pensano diversamente, o almeno così pare: negli ultimi dieci anni in tutto il Paese gli sono state dedicate oltre 120 statue. È la dimostrazione concreta del fatto che l'attaccamento al massacratore dei kulaki non solo non viene meno, ma che anzi continua a crescere. Nell'aprile di quest'anno la società demoscopica Levada ha rilevato la sua popolarità tra gli abitanti dell'ex Unione Sovietica: il 51% degli interpellati ha detto di averne un buona opinione «come persona», il 70% ha dichiarato che il suo ruolo di governo è stato «positivo» per la Russia. Risultati record, visto che nel 2016 ad avere una buona opinione politica del «piccolo padre» era solo (si fa per dire) il 54%. Il gradimento è in aumento costante da almeno una ventina d'anni e la riscoperta del dittatore è da attribuire in toto al periodo post-comunista. A differenza di Lenin, la cui figura è sempre rimasta più o meno centrale nel Pantheon sovietico, con la «destalinizzazione» il dittatore georgiano sparì dai radar della propaganda; dopo il congresso del 1956 in cui Krusciov ne denunciò i crimini, la sua persona rimase per decenni uno dei più radicati tabù della vita pubblica. Le cose cambiarono dopo la caduta dell'Unione Sovietica negli anni Novanta del secolo scorso; nel 2005 in occasione del sessantesimo anniversario dalla fine della «grande guerra patriottica», si tornò per la prima volta a sottolineare con forza il suo ruolo di guida nella battaglia per la sopravvivenza del Paese. Negli anni successivi le linee guida governative per l'insegnamento della storia avanzarono un passo dopo l'altro in questa direzione. Dal punto di vista simbolico le cronache segnalano alcuni passaggi chiave di questa rivalutazione: nel 2009, per esempio, in una stazione centrale del metrò moscovita vennero restaurate alcune strofe del vecchio inno sovietico in modo che fossero ben leggibili: «Stalin ci ha cresciuto insegnandoci la lealtà verso il popolo. È lui ad averci spinto al lavoro e all'eroismo». Più in generale l'immagine del dittatore, immortalata da innumerevoli quadri in puro realismo socialista, i baffoni e il sorriso bonario da vecchio zio, sono diventati un elemento immancabile dell'iconografia della nuova Russia. Già qualche anno fa, in un libro di qualche successo, Koba il terribile, lo scrittore inglese Martin Amis si interrogò sulla presentabilità pubblica di Stalin: lui e Hitler sono autori di crimini mostruosi, del tutto paragonabili tra loro, diceva Amis. Eppure nessuno si sognerebbe di trattare l'icona del dittatore tedesco come si fa per quella del georgiano, utilizzata per manifesti, etichette, rievocazioni nostalgiche e diventata in qualche misura un simbolo culturale pop. L'osservazione era indirizzata a una certa opinione pubblica occidentale, liberal e benpensante. In Russia, però, c'è qualche cosa di più e di diverso. I concittadini del dittatore non rimpiangono, come ovvio, gulag e sanguinaria politica di violenza, ma, secondo la sociologa Ella Panejach, vedono in Stalin un esempio di leadership efficace, di lotta alla corruzione e di uno Stato sociale che si prendeva cura dei più deboli. A dare una mano alla (ri)costruzione del mito è senza dubbio Vladimir Putin. Il presidente non manca di rendere periodico omaggio alle vittime delle repressioni e delle purghe. Ma quando si tratta di parlare alla pancia del Paese i toni (e i fatti) sono diversi. Il già citato busto sistemato nel centro di Mosca (e di cui il governo ha detto di non essersi interessato) è stato sistemato di fronte al Museo delle uniformi a cura dell'Associazione di storia militare, fondata da Putin e il cui presidente è il ministro della Cultura. L'ultimo film dedicato al leader georgiano (in Italia è uscito con il titolo: Morto Stalin se ne fa un altro) era una grottesca presa in giro della paranoia del dittatore e della pusillanimità della sua cricca. Girato in Inghilterra nel 2017, ha avuto successo in tutto il mondo. Non in Russia, però, visto che il governo gli ha negato la licenza di distribuzione. L'unico cinema che appellandosi alla libertà di manifestazione del pensiero, ha sfidato la censura, è stato preso d'assalto dalla polizia il primo giorno di programmazione. Per Putin la nostalgia staliniana (è stato lui a ripristinare il vecchio inno voluto dal dittatore, sia pure con altre parole) ha un valore in termini di tecnica del potere: gli serve per recuperare il senso di continuità della potenza russa e per sottolineare la presenza (ancora oggi) di potenti nemici esterni come quelli che il Paese sconfisse nella seconda guerra mondiale. «L'inutile demonizzazione di Stalin» ha detto al regista Oliver Stone che lo intervistava, «serve solo ad attaccare la Russia».
Da Mussolini a Stalin. Quando la dittatura è un "bellissimo" film...Uno studio sul rapporto tra controllo delle masse e storia del cinema nei regimi del Novecento. Claudio Siniscalchi, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche. Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.
Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.
Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».
Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani. Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.
· 1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.
1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo. In una Germania prostrata dalla sconfitta nella prima Guerra Mondiale nasceva il partito che predicava la riscossa nazionalista. Lorenzo Del Boca il 25 luglio 2019. Nel marasma provocato dalla fine del Primo confitto mondiale che aveva lasciato sul campo decine di milioni di morti e almeno cento di milioni di affamati, in una Monaco di Baviera devastata dalla miseria nacque il «partito tedesco dei lavoratori» (Deutsche Arbeiterpartei). Era il gennaio 1919 anche se quella è la data di registrazione burocratica. Per presentare il nuovo raggruppamento furono necessari altri sei mesi: 12 luglio. I soci fondatori fecero leva sul sentimento nazionalista: se la Germania era accerchiata da politiche che miravano a strangolarla, occorreva reagire, facendo leva sull’orgoglio dei cittadini per costruire le occasioni di rivincita. Progetto ambizioso e, a quel momento, velleitario. A distanze di un secolo, il Partito dei lavoratori sarebbe inghiottito in una piega della storia se, fra gli aderenti, non fosse spuntato Adolf Hitler che, di quelle istanze, s’impadronì, le trasformò e, con le opportune modifiche, le catapultò nel Secondo conflitto mondiale. Ad avviare quel movimento provvide Anton Drexler, metalmeccanico, a Berlino, in una fabbrica di locomotive e poi fabbro, a Monaco, nell’azienda statale delle ferrovie tedesche. Alla vigilia della Prima guerra mondiale fu esonerato dal servizio militare ma partecipò alla «costruzione della coscienza bellica» sostenendo i movimenti interventisti. Gli orrori della guerra non gli fecero cambiare idea. Continuò a ritenere che la Germania dovesse riprendersi il posto perduto. E, poiché le sconfitte vanno sempre attribuite a qualcun altro, individuò nei banchieri, negli ebrei e nei comunisti i responsabili del complotto che aveva fatto sprofondare il suo Paese. Con lui il giornalista Karl Harren e gli attivisti di ispirazione socialista Gottfried Feder e Dietrich Eckart. Le forze armate tedesche, alle prese con la difficile transizione dopo la sconfitta nella recente guerra, temettero che quel piccolo partito potesse diventare un pericolo. Le tesi oltranziste sollecitavano i sentimenti più autentici della gente e li spingevano a desiderare la rivincita. Pericoloso per uno Stato ancora troppo traballante cui serviva un periodo di tranquillità per rimettersi in piedi. Gli ufficiali incaricarono un loro caporale - Adolf Hitler - di infiltrarsi fra gli iscritti, indagare segretamente e riferire. Esito scoraggiante (per lo Stato maggiore). Perché Hitler, altro che sorvegliare, rimase affascinato dalle idee di quel nuovo partito, intervenne nel corso dell’assemblea e gli iscritti rimasero, a loro volta, sedotti dalla capacità oratorie di quel piccolo uomo. Il feeling portò Hitler a iscriversi con tessera «numero 55». Drexler lo inserì subito nel comitato direttivo del partito assegnandogli le deleghe per la propaganda. Gli bastarono pochi mesi per impadronirsi dell’intero movimento diventandone il punto di riferimento. Modificò il nome in «Nationalsozialische Deutsche Areitpartei», partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori. E, quando si accorse che era troppo lungo, abbreviò in «nazionalsocialismo». Drexler fu emarginato e finì per accontentarsi della carica di presidente «onorario», senza poteri reali e nessun incarico di rappresentanza. Periodicamente lo esibirono, ma solo come strumento di propaganda. Nel 1934 gli conferirono una medaglia d’oro, ma già nel 1937 era del tutto dimenticato (fino al 1942, anno della morte, quando il nazionalsocialismo sembrava ancora padrone del mondo). Per Hitler, invece, quel partito (al momento minuscolo) rappresentò un trampolino di lancio per dare l’assalto alla Cancelleria della Germania. Le idee originarie del partito e le sue si trovavano sulla stessa lunghezza d’onda. Occorreva boicottare il trattato di pace firmato a Versailles che rappresentava un autentico accanimento contro la Germania. I redditi andavano redistribuiti e gli operai avrebbero dovuto partecipare agli utili delle grandi aziende. Bisognava nazionalizzare quelle strategiche, aumentare le pensioni, assicurare dei privilegi ai tedeschi e negarli agli altri. Agli ebrei doveva essere negata la cittadinanza. Stupisce che questo programma si scontrasse con la stessa biografia del suo leader. Questo campione della leadership tedesca era, in realtà, austriaco. Nacque il sabato di Pasqua del 1889, a Braunau, in un palazzotto di tre piani che ospitava la Locanda del Pomerano, gli uffici della dogana e qualche stanzetta per abitazioni civili. A dispetto del suo antisemitismo esasperato e del culto della razza pura, qualcuno sostenne che le sue origini furono ebraiche o, nella migliore delle ipotesi, slave. Per questo, Hitler vivente, vennero accuratamente nascosti i dettagli della sua infanzia. Che non dovette essere facile. Il padre si chiamava Alois ed era un impiegato dello Stato, anche se le sue preferenze, più che al lavoro, andarono al vino e alle ragazze della città. Si sposò tre volte. Ebbe un figlio e una figlia dal secondo matrimonio. Adolf gli nacque dalla terza moglie. In casa, effetto di troppi bicchieri tracannati all’osteria, furono calci nel sedere, a ripetizione, per un minimo ritardo nell’ubbidire ai suoi ordini. Il giovane Hitler studiò a Linz dove la famiglia si trasferì. Tentò di entrare nell’Accademia delle belle arti di Vienna, ma la sua prova di ammissione fu considerata insufficiente. Campò di espedienti. I suoi coetanei raccontarono che dormì negli ostelli pubblici, ottenne qualche spicciolo disegnando cartelloni pubblicitari e si adattò a eseguire consegne da fattorino. Anche qui, corsi e ricorsi storici, per contrappasso, gli unici che lo aiutarono a non morire di fame furono due famiglie di ebrei e Reinhold Hanisch che era ceco d’origine. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, lui, austriaco, chiese di essere arruolato volontario nell’esercito tedesco dove la guerra la fece per davvero e con un’abnegazione non abituale. Non ritirò le sigarette e la razione di vino, non chiese licenze, non si lamentò dei pidocchi e accettò le sofferenze della prima linea, affondato nel fango della trincea. Proprio la sconfitta della Germania e le condizioni di pace vessatorie che vennero imposte provocarono una crisi economica di proporzioni bibliche e, per conseguenza, montò un’incontrollabile voglia di rivincita. All’orgoglio ferito della sua gente, Hitler offrì una cornice ideologica, capace di rispondere alle esigenze nazionaliste. Non semplicissima la sua scalata al potere. Con un manipolo di congiurati, tentò un putsch nel 1923 che fallì e lui finì in carcere a scontare una condanna di otto mesi. Ma poi, nel 1933, conquistò la cancelleria e lo fece rispettando le regole della democrazia, prendendo più voti degli avversari. Già i contemporanei si meravigliarono del successo politico di Adolf Hitler e, per la verità, nemmeno gli studi successivi riuscirono a spiegare il suo fascino trascinante. Piccolo, minuto, nervoso, vittima di potenti mal di testa e di proverbiali arrabbiature. Non esibiva il fisico del dittatore e, a guardarlo con qualche attenzione, non lo si sarebbe detto in grado di dirigere alcunché. Solo il timbro della voce e la sua capacità di arringare la folla apparvero fuori dall’ordinario. Le sue parole risultarono, contemporaneamente, suadenti e risolute, affascinanti e ultimative. Davanti a una piazza gremita, non incontrò rivali. Riusciva ad assecondare i desideri della folla, la agitava, trascinandola per costruzioni retoriche fantastiche. Talora si mostrò accondiscendente ma, a seconda delle condizioni, fu in grado di provocare indignazione, eccitare, convincere, entusiasmare. Come nemmeno un incantatore di serpenti. Ma, alla fine, si trovò da solo, nel bunker della Cancelleria: lui, Eva Braun e il cane pastore tedesco Blondie che gli rimase fedele. Gli altri si limitarono ad assecondare le sue ultime volontà cioè bruciarne il cadavere perché, al nemico, non volle concedere nemmeno le spoglie.
Quando Keynes "corresse" il Trattato di Versailles. E vide il futuro dell'Europa. Francesco Perfetti, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Nel 1919 John Maynard Keynes - il cui nome sarebbe diventato celebre come «padre» della macroeconomia e come sostenitore di una politica fondata sull'intervento pubblico in particolare nelle fasi di gravi crisi dei cicli economici - venne inviato a Parigi alla Conferenza della Pace come rappresentante del ministero del Tesoro inglese. A quell'epoca Keynes era ancora un giovanotto, a detta di chi lo conobbe, non particolarmente affascinante né di buon carattere, ma di belle speranze. Aveva da poco superato i trent'anni, essendo nato nel 1883, ma si era fatto apprezzare e conoscere come promettente economista tanto che nel 1912 gli era stata affidata la direzione di una rivista prestigiosa, l'Economic Journal. La sua formazione culturale - come ha osservato l'economista danese Jesper Jespersen in un rapido saggio introduttivo al suo pensiero dal titolo John Maynard Keynes. Un manifesto per la «buona vita» e la «buona società» (Castelvecchi) - era vasta ed eclettica, collocandosi «all'incrocio tra la filosofia (in particolare l'epistemologia), la politica e l'economia». Aveva fatto parte degli «apostoli» che ruotavano attorno al filosofo George Edward Moore e a Bertrand Russell e che costituivano il nucleo di quel gruppo informale di intellettuali noto come Circolo di Bloomsbury che, in spirito di contestazione dei principi ispiratori dell'epoca vittoriana, vivevano una esistenza quasi bohémienne, provocatoria, sessualmente trasversale, guardata con orrore e ripugnanza dalla borghesia benestante del tempo. Di questo sodalizio esclusivo fecero parte personalità destinate a lasciare il segno, da Virginia Woolf a Edward M. Forster, da Giles Lytton Strachey a Clive Bell, da Roger Fry ad Adrian Stephen e via dicendo. La frequentazione di questo ambiente da parte di Keynes ne spiega sia, durante il conflitto, i tormenti di pacifista costretto a lavorare per lo sforzo bellico, sia, nell'immediato dopoguerra, lo spirito con cui prese parte alla Conferenza per la pace di Parigi. È sintomatico quanto scrisse a uno dei suoi amici del Circolo di Bloomsbury, il pittore Duncan Grant: «Lavoro per un governo che disprezzo e il cui obiettivo è criminale». Ed è sintomatico, ancora, il fatto che egli decidesse, sia pure in preda a un profondo travaglio interiore, di rassegnare le dimissioni dal Tesoro e di abbandonare i lavori nel giugno 1919 prima ancora della firma del Trattato con queste motivazioni espresse in una lettera a Lloyd George: «Qui non posso più fare nulla di buono. Anche in queste angosciose ultime settimane, ho continuato a sperare che trovaste il modo di fare del trattato un documento giusto e conveniente. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta». Per Lloyd George non nutriva nessuna simpatia, anche se in seguito sarebbe stato chiamato a collaborare con lui e avrebbe attenuato il suo giudizio negativo: lo considerava quasi una creatura mostruosa, per metà umana e per metà caprina, uscita dalle nebbiose montagne gallesi, attorno alla quale si avvertiva un «profumo di assoluta amoralità, di irresponsabilità interiore, di esistenza estranea o distaccata dal bene e dal male, un misto di astuzia, mancanza di rimorsi, sete di potere». Pochi mesi dopo le dimissioni, Keynes, sempre nel 1919, pubblicò il saggio Le conseguenze economiche della pace, che fece registrare un clamoroso successo di vendite e che, soprattutto - lo si riconosca o meno poco importa - ebbe parte notevole nella progressiva delegittimazione del Trattato di Versailles. La tesi centrale del saggio era che la pace imposta dal Trattato avrebbe completato la distruzione economica dell'Europa già operata dalla guerra. Il Trattato non conteneva disposizioni utili per risollevare economicamente l'Europa: non c'era nulla in esso che giovasse a «mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti; né a recuperare la Russia» e neppure a «promuovere in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati». Esso era deprecabile anche dal punto di vista morale, essendo «odiosa e ripugnante» la politica volta a «ridurre la Germania in servitù per una generazione» e a «degradare la vita di milioni di esseri umani privando un'intera nazione della felicità». La critica di Keynes non si esaurì con il volume Le conseguenze economiche della pace - che, per inciso, provocò in Francia una immediata «risposta» da parte dello storico ufficiale dell'Action Française, Jacques Bainville, con il libro intitolato Les conséquences politiques de la paix (1920) - ma proseguì con una analisi serrata. Alla fine del 1921, infatti, egli dette alle stampe un nuovo saggio dal titolo La revisione del Trattato che riprendeva e sviluppava i temi del libro precedente e le proposte di revisione del Trattato che vi aveva anticipato. Questo nuovo volume, subito tradotto in Italia con una prefazione di Claudio Treves, è stato ora riproposto dall'editore Aragno (pagg. XVI-228, euro 20) sulla base di quella edizione con l'aggiunta di una nota di Vittorio Lancieri. Per quanto sia meno conosciuto di Le conseguenze economiche della pace, questo saggio è altrettanto importante perché, tenendo presenti i successivi incontri diplomatici e analizzando in maniera critica le soluzioni adottate o prospettate in tema di riparazioni economiche e debiti interalleati, svela gli errori progettuali di un trattato che, nato sulla base di una ideologia soltanto punitiva, era «pazzesco, ineseguibile e pericoloso per la vita europea». Pur riconoscendo che il Trattato, il quale «oltraggiava la Giustizia, la Pietà e la Saggezza», rappresentava comunque «la volontà del momento dei paesi vittoriosi», Keynes avanzava previsioni fosche per il futuro dell'Europa in mancanza di una revisione sostanziale dei termini del Trattato stesso in tema di abolizione o riduzione delle riparazioni economiche e dei debiti interalleati. Egli faceva notare come, in fondo, nel biennio precedente la pubblicazione del volume, «nessun punto dei Trattati di Parigi» era «stato realmente eseguito, tranne quelli relativi alle frontiere e al disarmo» e aggiungeva che proprio questa situazione aveva consentito che non si fossero materializzati «molti dei mali» da lui previsti «quali conseguenze dell'esecuzione del capitolo delle Riparazioni». In altre parole, lasciava intendere che, insistendo su quella che i francesi definivano «politica di esecuzione», non sarebbe stata possibile una ripresa economica, e non solo economica, della Germania e della stessa Europa. L'impossibilità di pagare ai vincitori le riparazioni avrebbe, anzi, potuto innescare reazioni imprevedibili. L'analisi di Keynes si è rivelata profetica. Ma la sua critica non era l'unica. Un altro economista, questa volta italiano, Francesco Saverio Nitti, nel 1921 pubblicò il libro L'Europa senza pace che definiva il Trattato come «modo di continuare la guerra» e ne denunciò lo spirito volto a «soffocare la Germania» e a «smembrarla», minandone l'unità economica e l'unità politica. E val la pena di rammentarlo, Keynes, proprio insieme a Nitti, nell'anno del centenario della Conferenza della pace.
· Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo.
Il Barone Rosso, la guerra vista dal cielo. Gustavo Ottolenghi il 14 Settembre 2019 su Il Dubbio. Von Richthofen fu il più famoso pilota della Grande Guerra. Sulla sua tomba gli inglesi scrissero: “Al nostro valoroso e degno avversario”. Fra le numerose innovazioni che la Prima Guerra Mondiale portò in campo bellico, le più importanti furono le bombe a mano, i lanciafiamme, i carri armati, i gas asfissianti e gli aeroplani. Ben presto vennero individuate le grandi possibilità che il mezzo aereo avrebbe potuto esprimere anche nelle guerre, come mezzo di osservazione tattica e di ricognizione dall’alto per scoprire e seguire le mosse terrestri degli eserciti ( aerei “ricognitori”). Da questa attività di spionaggio l’aereo passò in breve ad una di tipo offensivo, sperimentate per la prima volta al mondo dall’Italia nel corso della guerra italo- turca ( 1911/ 12) allorché venne effettuato un attacco dall’aria contro truppe a terra ( fu il S. tenente Giulio Gavotti a lanciare, il 1.11.1911, alcune bombe a mano dal suo aereo "Erich Taube” su un accampamento turco a Ain Zara e poi sulle oasi di Tripoli e Tagiura). Da allora incominciarono a formarsi scuole per l’addestramento di piloti per i bombardamenti aerei e industrie per la costruzione di velivoli atti al trasporto e allo sgancio di sempre maggiori quantità di esplosivo ( aerei bombardieri). Contemporaneamente si rese evidente la necessità di poter disporre di uno strumento aereo che consentisse di proteggere ( o di colpire) i bombardieri durante le loro missioni e vennero quindi progettati e costruiti velivoli più piccoli, più maneggevoli, più agili e veloci, i ‘ caccia’, i cui più famosi furono gli inglesi Vickers Fb5, impiegati del corso della Prima guerra mondiale. Di gran lunga il più famoso e il più coraggioso fra i piloti di aerei da caccia, e non solo della Prima guerra mondiale, ma di tutta la storia dell’aviazione militare, fu il barone tedesco Manfred Albrecht von Richtofen, il “Barone rosso”. Nato a Breslavia, capitale della Slesia, il 2.5.1892, dal Freiherr Albert Philips e da Kunegunde von Schickfuss und Neudorff, primo di due fratelli ( Lothar e Bolko) e una sorella ( Ilse), fu giovane esuberante, sportivo, amante della caccia e dei cavalli. Nel 1903 venne inviato alla Reale Accademia militare dei cadetti di Wahlstatt e, nel 1909, passò all’Accademia dei cadetti maggiori di Gross- Lichterfelde vicino a Berlino, ove si diplomò nel 1912 conseguendo il grado di Leutnant ( Sottotenente) di cavalleria e fu assegnato al I Reggimento Ulani. Allo scoppio della guerra ( agosto 1914) partecipò come ‘ esploratore’ ad alcuni scontri con truppe belghe e francesi nel corso dei quali meritò la Croce di ferro di II classe e la promozione a ‘ Oberleutnant’ ( tenente), ma, insofferente per la mancata partecipazione della sua unità sul campo di battaglia principale, nel maggio 1915 chiese e ottenne il trasferimento alla “Fliegertruppen des deutschen Kaiserreiches’ ( Corpo aereo dell’Esercito tedesco) con la qualifica di ‘ osservatore’. Nel settembre dello stesso anno frequentò a Ostenda il Corso per piloti e ne conseguì il diploma nel gennaio 1916, venendo assegnato alla “Jagdstaffel 11” dello “Jagdesschwader 1” ( 1° stormo) della “Luftstreitkraefte” ( aeronautica da combattimento). Quivi, nel mese di ottobre, incontrò l’asso Oswald Boelcke ( N. B. ‘ Asso’ era il titolo che spettava al pilota che avesse abbattuto 20 aerei nemici) che gli fu maestro e che lo seguì in tutta la sua successiva carriera sino alla morte ( 1916). Il primo aereo assegnato a Manfred a gennaio 1916 fu un Albatros DII, subito dopo gli fu affidato un Albatros D III col quale avrebbe poi compiuto la maggior parte dei suoi voli e conseguito la maggior parte delle sue vittorie ( 59). Il D III era un aereo biplano monoposto, innovativo nella costruzione in quanto la fusoliera, affusolata, aveva un telaio in legno compensato che la rendeva più leggera e resistente rispetto ai precedenti rivestimenti in tela cerata. Era dotato di un motore Mercedes D III a 6 cilindri raffreddato ad acqua; la sua velocità massima era di 175 km/ h; la sua autonomia 2 ore e il suo armamento consisteva in 2 nuove mitragliatrici Spandau LMG O8/ 15 calibro 7,92 mm a fuoco anteriore sincronizzato. Queste mitragliatrici erano estremamente innovatrici rispetto alle precedenti in uso, in quanto potevano essere installare sul muso della carlinga, davanti al pilota, che poteva manovrarle lui stesso poiché il loro fuoco veniva interrotto quando le pale dell’elica passavano davanti alla canna: era iniziata l’era degli aerei da caccia monoposto col solo pilota a bordo che fungeva contemporaneamente da mitragliere. L’Albatros venne in seguito soppiantato dal Fokker Dr I, che venne consegnato a Manfred nell’agosto 1917 e che era caratterizzato da un triplice ordine di ali ( triplano) mentre sino ad allora la “Fliegertruppen” aveva in linea solo aerei a due ordini di ali ( biplani). Caratteristica peculiare ed esclusiva di tutti gli aerei pilotati da Manfred era la colorazione in rosso dell’ala superiore, della cappottatura, della coda e della copertura delle ruote da lui adottata sin dal marzo 1916, che lo fece definire come der Rote Freiherr, il Barone Rosso. Il suo mito aveva avuto inizio il 26.4.1916, quando aveva abbattuto il suo primo aereo nemico, un Nieuport francese, ma la vittoria non gli era stata riconosciuta in quanto non confermata da altri piloti o da terra. Il primo aereo che gli venne accreditato fu un Farman F. E. Shorthorn francese abbattuto nei cieli di Villers Plouich nel nord della Francia il 17.9.1916, cui seguirono altre 79 vittorie che dimostrarono tutte le eccezionali qualità ( lucidità, freddezza, abilità, intuizione, spericolatezza, prontezza di spirito, capacità di manovra e di riflessi, assoluta padronanza del mezzo e micidiale precisione nel tiro) dell’uomo e ne fecero l’asso assoluto della aviazione tedesca nella Prima guerra mondiale.
Nel novembre 1916, a seguito della sua decima vittoria, fu insignito della massima onorificenza militare, la Croce azzurra “Pour la mérite” e subito dopo, nel dicembre la onorò abbattendo l’asso inglese Lanoe Hawker. Nel solo mese di aprile 1917, nel corso della battaglia di Arras, abbatte 21 aerei nemici. Importantissimo e determinante per la sua carriera fu il giugno dello stesso anno allorché fu nominato Rittmeister e, per la sua riconosciuta perizia e bravura nei combattimenti, gli venne anche concessa l’autorizzazione eccezionale ad operare autonomamente rispetto alle altre squadriglie. Fu allora che anche gli altri piloti della Jasta 11 dipinsero i loro aerei con colori sgargianti, cosi che la squadriglia venne identificata come “Circo volante”. Dopo aver conseguito, in un solo anno, lo strepitoso risultato di ben 57 vittorie, il 6 luglio 1917, nel cielo tra Ypres e Armentières, venne colpito e ferito alla testa nel corso di un duello aereo con l’Aircraft Factory FE del capitano Donald Cunnell, ma riuscì ad atterrare in terra tedesca e venne ricoverato nell’ospedale S. Nicola a Courtrai ( Fiandre). Riprese a volare il 16 agosto nonostante il parere contrario dello Stato maggiore e abbatte altri 23 aerei nemici sino al 21 aprile 1918, allorché cadde nei cieli della Piccardia, a Vaux sur Somme, ucciso da un proiettile calibro 303 che lo aveva colpito al cuore. Sulle cause di tale evento sorsero infiniti e lunghi dibattiti: di sicuro si sa che, mentre era alla guida del suo triplano rosso Fokker Dr I e stava inseguendo un aereo Soptwith Camel del 209 squadrone inglese pilotato dal capitano Wilfrid May, era stato a sua volta seguito da un altro Soptwith Camel dello stesso squadrone, pilotato dal capitano Arthur Roy Brown che lo centrò con alcuni proiettili della sua mitragliatrice Maxim 303, uno dei quali attraversò il petto del pilota, uccidendolo, e facendo precipitare il velivolo in terreno nemico. Questa fu la versione ufficiale sempre sostenuta dal Comando supremo aereo inglese. Un’altra versione fu quella fornita da un testimone oculare, il Leutenant australiano Donald Fraser, secondo cui il Barone rosso, mentre volava a volo radente nel tentativo di sfuggire all’attacco del capitan Brown era stato centrato da un proiettile sparato da terra da una mitragliatrice contraerea. In ogni caso l’aereo di von Richtofen si schiantò in una zona presidiata dagli Alleati e il suo cadavere, subito ricuperato e quindi venne sepolto con onori militari: sulla sua tomba gli inglesi posero una targa con la scritta “To our gallant and worthy Foe” ( Al nostro valoroso e degno avversario). Nel novembre 1925, a guerra finita, il corpo venne riesumato e trasferito, con grandi onori, alla presenza del Presidente von Hindenburg nell’Invalidenfriedhof di Berlino e infine, nel 1976, nella tomba di famiglia nel cimitero di Wiesbaden. Il mito del Barone rosso rimane vivo sino ai giorni nostri, soprattutto in Germania, ove uno stormo da caccia porta il suo nome (‘ Von Richtofen Geschwader’) e alcuni piloti della Seconda Guerra mondiale decorati con la Croce di ferro I classe avevano dipinto strisce rosse sotto le ali dei loro aerei durante il conflitto. In oggi, sempre in omaggio al Barone, due modernissimi aerei F 18 Hornet della Luftwaffe presentano due rombi rossi dipinti sulla superficie inferiore delle loro ali. Manfred non si sposò mai né ebbe figli, ma il nome dei von Richtofen tornò alla ribalta della cronaca nel 2002 per una drammatica vicenda legata alla nobile famiglia, quando Suzane Louise von Richtofen, nipote di Bolko, fratello di Manfred, uccise a San Paulo ( Brasile), alla età di 119 anni il padre Manfred e la madre Marisia Abdalla per impossessarsi dell’eredità famigliare, soffocandoli con l’aiuto dei fratelli Daniel ( suo fidanzato) e Christian Cravinhos. Il successivo processo, che ebbe grande risonanza anche per la notorietà del cognome dell’imputata, si concluse nel 2006, con la condanna a 39 anni di reclusione per tutti gli imputati.
· La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York.
La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Daniele Manca. Il 29 ottobre del 1929, nel «martedì nero», il sogno di facili e veloci ricchezze grazie alla finanza si trasforma in un incubo. Il 29 ottobre del 1929 è un martedì. Raramente per eventi che rimangono scolpiti nella storia dell’umanità si fa riferimento al giorno della settimana. Ma quella che rimarrà per sempre la mattina nella quale la florida America si risveglia impaurita e impoverita, il 29 ottobre del 1929, sarà, per gli storici e per le persone comuni, il martedì nero. La Borsa crolla dell’ 11,73%. Dal 1929 al 1931 chiuderanno 4.300 istituti di credito, diventeranno 9 mila due anni dopo. I prezzi agricoli crolleranno del 40%. I disoccupati saliranno a 12 milioni negli Stati Uniti, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna. Quel crollo darà il via alla più grave crisi economica del secolo scorso nel mondo dei Paesi industrializzati. L’ombra della Grande depressione si allungherà per buona parte del decennio successivo. Ma cosa abbiamo imparato da quella crisi che ha segnato profondamente il mondo? Di sicuro il risveglio da quel sonno della ragione che prende le folle quando credono di aver trovato una strada semplice per facili guadagni, sarà molto duro. E non avverrà in quel 29 ottobre di 90 anni fa che è rimasto nella mente di tutti noi. Qualche giorno prima, alla Borsa di New York c’era stata ben più di un’avvisaglia. La più forte il giovedì precedente, in quel 24 ottobre che sarà solo il primo di una lunga serie a tingersi di nero. La giornata era iniziata in una strana calma. «Ma alle 11,30», racconta un cronista di eccezione, l’economista John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo, «il mercato era in preda a una cieca paura implacabile. Era, in verità, in preda al panico. Si poteva udire fuori dell’Exchange in Broad Street un vocio sinistro. C’era folla. Il commissario di polizia Grover Whalen si rese conto che stava succedendo qualcosa e inviò uno speciale reparto di poliziotti a Wall Street per assicurare l’ordine. Si ammucchiò più gente ad aspettare, benché evidentemente nessuno sapesse bene che cosa fare. Sul tetto di uno degli alti edifici comparve un operaio, che doveva effettuare alcune riparazioni, e subito la folla suppose che si trattasse di un suicida e si mise ad aspettare con impazienza che si buttasse giù. Si formarono capannelli di persone intorno agli uffici delle commissionarie di borsa in tutta la città, in tutto il Paese...». Come spesso accade in questi casi le voci più terribili, informazioni senza possibilità di essere verificate, circolano tra le centinaia di risparmiatori e investitori. Qualcuno parla di una decina di suicidi avvenuti nella notte. Le cronache dell’epoca riportate dal Corriere della Sera raccontano di agenti di Borsa che uscivano dai cancelli urlando e disperandosi. Le telescriventi che l’anno prima, nel 1928, erano state cambiate con altre più veloci capaci di 500 caratteri al minuto, due volte quelle precedenti, e che erano state acquistate per stare al passo con i rapidi guadagni e le altrettanto veloci nuove ricchezze, registrano in tempo quasi reale il crollo dei prezzi. Il Dow Jones a fine giornata scende a 229,5 punti: il 22% in meno del record stabilito solo meno di un paio di mesi prima, il 3 settembre 1929, quando Wall Street aveva fermato la sua corsa a quota 386,1 punti. Ma la caduta avrebbe potuto essere ben più pesante se il capo della Citibank Charles Edwin Mitchell detto «Sunshine Charlie» non avesse fatto sapere che un gruppo di banchieri a mezzogiorno si sarebbe riunito. La notizia riuscì a invertire la tendenza. Ma il sogno questa volta durò soltanto 96 ore. Come scrive il Corriere della Sera in prima pagina il 31 ottobre del 1929, 48 ore dopo il crollo, «il tramonto di questa grande follia collettiva che è stata la corsa alla fortuna nella Borsa di Nuova York, era prevedibile ed era previsto». Perché? In poche righe si descriveva quello che il 29 ottobre era accaduto: la completa scissione tra i valori delle azioni in Borsa e il valore delle società che le avevano emesse. Le statistiche americane ci offrono la storia in cifre di questo periodo di vertigine. Nel 1923 il numero delle azioni negoziate nella Borsa di New York è di 237 milioni; la cifra sale a 280 nel 1924; a 452 nel 1925; a 449 nel 1926; a 577 nel 1927; a 920 milioni nel 1928. Nei primi nove mesi del 1929 il numero delle azioni negoziate ha raggiunto gli 827 milioni, in confronto di 613 milioni nell’eguale periodo dell’anno precedente. Dietro questi numeri c’era però un meccanismo semplicissimo. Come si era arrivati a quei 20 milioni di americani che possedevano azioni? Attraverso la possibilità di comprare titoli senza versare l’intero valore ma anticipando un magro 10 per cento. Con 10 dollari potevi comprare azioni per 100. E depositando quelle azioni in garanzia potevi ottener prestiti con i quali comprare altre azioni. Tra il 1923 e il 1929 i prestiti a brevissimo termine, quelli che speculatori scaltri e risparmiatori poco accorti usavano per le incursioni in Borsa, aumentarono di cinque volte. E tutto questo nel silenzio pressoché complice di banchieri, autorità e anche politici che si godevano un’euforia che sembrava aver contagiato tutti. Lo stesso presidente Herbert Hoover eletto sul finire del 1928 dichiarava contento che «con la garanzia della pace, che durerà ancora per molti anni, il mondo si trova alla vigilia di una grande espansione commerciale». Non andò così. John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo individua 5 incontrovertibili motivi di debolezza degli Stati Uniti:
- la cattiva distribuzione del reddito: pochi ricchi che possedevano tanto
- cattiva struttura societaria che permetteva incroci azionari e riutilizzo di risorse per pagare dividendi
- cattiva struttura bancaria: troppi e fragili istituti di credito
- uno stato della bilancia dei pagamenti americana che indeboliva l’export statunitense e spingeva invece le importazioni
- basso livello dell’informazione economica (la Harvard Economic Society fu chiusa dopo la sua insistenza nel predire la ripresa).
Le varie scuole di pensiero economico si dividono su quali furono le mosse sbagliate. L’eccesso di liberismo o l’eccesso di interventismo statale? Molto più semplicemente non c’è saggezza nella folla. Soprattutto quando pensa di poter guadagnare senza fare fatica.
· 1939. L’estate che portò alla II guerra mondiale.
Paura, intrighi, minacce. L’estate che portò alla II guerra mondiale. Paolo Delgado il 9 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dal patto Molotov- Ribbentrop che sanciva l’accordo tra Russia e Germania per la spartizione della Polonia e dei paesi del baltico all’annuncio di Hitler che «avrebbe distrutto la razza ebraica in Europa». Al mattino del 25 agosto 1939 il cortile della Casa Bruna, a Berlino, era pieno di distintivi del partito nazista gettati lì da militanti delusi. Il giorno prima era stato reso noto il Patto Molotov- Ribbentrop, l’accordo sino a pochi giorni prima considerato impensabile tra la Germania nazista e l’Unione sovietica di Stalin. I nazisti la presero peggio dei rossi, che erano ormai abituati all’idea che la difesa dell’Urss, patria del socialismo, venisse sempre e comunque al primo posto. Per i nazisti, abituati non solo a considerare i rossi il nemico ma anche a guardare alle terre dell’est come preda naturale di una Germania bisognosa di lebensraum, di “spazio vitale”, la pillola fu più indigesta. Lo stesso Hitler a quel patto ci aveva creduto pochissimo, e forse aveva esitato per gli stessi motivi che avevano così profondamente deluso tanti dei suoi militanti. In privato continuava ad assicurare che lo scontro con l’Unione sovietica era comunque inevitabile. Ma al momento il trattato permetteva di invadere la Polonia, come Hitler era deciso a fare sin da marzo, non solo senza dover temere la guerra su due fronti, incubo dei generali tedeschi, ma anche con buone speranze di evitare il coinvolgimento di Gran Bretagna e Francia, che in marzo si erano fatte “garanti” dell’indipendenza della Polonia. Il patto era stato perseguito e realizzato dal più scarso e più disprezzato, anche dallo stesso Fuhrer, tra i gerarchi nazisti, il commerciante di vini von Ribbentrop.
Non era neppure uno dei “vecchi camerati”, quelli che avevano militato nella Ndsap già dagli anni Venti ed era universalmente considerato un pallone gonfiato. Tuttavia fu proprio quel politico e diplomatico di terz’ordine, nel 1939 ministro degli Esteri a immaginare, cercare e realizzare l’alleanza impossibile che apriva all’esercito di Hitler le porte della Polonia. Il Patto comportava infatti una clausola, rimasta segreta sino alla fine della guerra, in base al quale le due potenze spartivano sia la Polonia che i Paesi del Baltico. Le potenze occidentali non furono colte del tutto alla sprovvista dalla firma dell’accordo. Erano al corrente di quel che stava per succedere già da un paio di giorni. La mazzata era arrivata allora. Tuttavia, contro le previsioni di Berlino, sia la Francia che il Regno unito decisero di confermare la garanzia di intervento in caso di attacco alla Polonia. Quell’attacco, del resto, ci sarebbe stato in ogni caso, anche senza il Patto russo- tedesco. Il ritorno alla Germana del "corridoio di Danzica", la striscia di terra che metteva in comunicazione la città a maggioranza tedesca con la Prussia orientale era solo una scusa, come lo era stata l’anno prima, quando il mondo aveva rischiato la guerra per la Cecoslovacchia, la questione dei Sudeti. Hitler voleva la guerra e anzi avrebbe preferito che nessuno si mettesse per offrirgli tutto quello che voleva già nel 1938, quando la conferenza di Monaco aveva evitato all’ultimo secondo, in settembre, lo scoppio di una guerra mondiale. «Spero che stavolta nessun porco arrivi a offrire soluzioni diverse dalla guerra», disse franco e brutale ai gerarchi: il Fuhrer voleva una schiacciante vittoria militare, anche «per una questione di prestigio» come spiegò all’amico e alleato italiano Mussolini. Ma non considerava affatto improbabile una ennesima resa senza combattere delle potenze occidentali. Non fu per paura dell’intervento anglo- francese che l’attacco fu rinviato all’ultimissimo momento, quando le truppe erano già in marcia, la notte del 25 agosto. Fu perché, a sorpresa, l’ambasciatore italiano Attolico annunciò al dittatore alleato che l’Italia fascista non era in grado di onorare il "Patto d’acciaio" firmato il 22 maggio tra Italia e Germania. L’Italia sarebbe dovuta entrare in guerra subito, a fianco dei tedeschi. Non era militarmente pronta, spiegò Attolico per conto del Duce. Hitler la prese malissimo. «Gli italiani fanno come nel 1914», si lasciò sfuggire nel corso di una delle abituali sfuriate. Ma non se la prese mai con Mussolini. Addossò la colpa del voltafaccia ai Savoia, che detestava, e rinviò di una settimana l’attacco. Non perché sperasse in una soluzione pacifica. Piuttosto per verificare se fosse possibile offrire all’Italia gli aiuti necessari per entrare subito in guerra. Erano le ultime frenetiche e concitate giornate di pace. Il 1939 era stato sino a quel momento solo la lunga discesa verso una guerra inevitabile. Il 30 gennaio, sesto anniversario della presa del potere, Hitler aveva pronunciato uno dei suoi discorsi più sinistri e importante. «Se la finanza ebraica riuscirà a provocare una guerra contro la Germania il risultato sarà la distruzione della razza ebraica in Europa». Poi il Fuhrer aveva ricordato che altre volte le sue parole non erano state prese sul serio, erano state accolte con risate ma chi rideva allora aveva dovuto presto smettere. Negli anni successivi avrebbe ricordato più volte quel discorso che costituisce l’annuncio e la promessa della Shoah. Il 15 marzo la Germania aveva occupato l’ultimo lembo di Cecoslovacchia ancora libero. La Cecoslovacchia, venduta dai suoi stessi alleati a Monaco, non esisteva più. Il primo aprile si era conclusa con la vittoria del generale Franco la guerra di Spagna, “prova generale” della guerra mondiale. Una settimana dopo l’Italia occupava l’Albania. In maggio i due dittatori fascisti avevano firmato il patto d’acciaio ma già da marzo Hitler aveva annunciato ai suoi generali la decisione di occupare la Polonia. Senza incontrare più alcuna resistenza. L’anno precedente l’esercito aveva ancora criticato, senza scoprirsi troppo, la scelta di rischiare il conflitto per la Cecoslovacchia. A Monaco, se la conferenza non fosse finita con la resa travestita da pace voluta dell’inglese Chamberlain e dal francese Daladier, era già pronto il piano per un possibile colpo di Stato. Pochi mesi dopo tutto era cambiato. L’esercito si era definitivamente consegnato, per convinzione o per rassegnazione, a Hitler. La stessa popolazione tedesca era molto più ostile ai polacchi di quanto non fosse stata un anno prima ai cecoslovacchi. Ma quando all’alba del primo settembre la guerra contro la Polonia cominciò davvero e quando, due giorni dopo, Francia e Gran Bretagna entrarono in guerra, la reazione del polo tedesco fu ben diversa da quella del 1914, quando tutti avevano festeggiato la guerra riempiendo piazze e strade per salutare i soldati in marcia. Stavolta, al contrario, le strade restarono vuote, una plumbea preoccupazione salutò i militari che andavano al fronte. Hitler doveva la sua popolarità all’aver sempre vinto senza mai combattere, dalla rioccupazione delle Renania sino alla distruzione della Cecoslovacchia. I tedeschi avevano creduto che sarebbe andata allo stesso modo. Rimasero smarriti di fronte alla scoperta che la guerra cominciava per davvero. Sarebbe potuta finire meno di due mesi dopo. L’ 8 novembre, anniversario del fallito pusch nazista del 1923, un attentato nella birreria di Monaco dalla quale era partito il putsch andò a un pelo dall’uccidere il Fuhrer. A sorpresa Hitler aveva lasciato la sala in anticipo. Ci furono 8 mori e 63 feriti, ma la vittima designata si salvò. La Polonia era già stata battuta. La guerra reale con le sue decine di milioni di vittime sarebbe arrivata presto.
L’invasione della Polonia 80 anni fa «Hitler l’avrebbe fatto anche senza l’accordo con Stalin». Pubblicato domenica, 01 settembre 2019 da Corriere.it. Valeva la pena di rischiare una guerra mondiale, che poi scoppiò davvero, per la città di Danzica? Come si spiega la determinazione assoluta mostrata da Adolf Hitler ottant’anni fa, con l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939? «Per indole e per ideologia, il dittatore della Terzo Reich si comportò con assoluta coerenza. Già nel suo libro Mein Kampf aveva indicato l’obiettivo della conquista di uno “spazio vitale” ad Est per il popolo tedesco. Ed era abituato agli azzardi, a giocare sempre il tutto per tutto», risponde lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore di fondamentali studi sull’occupazione tedesca e sulle stragi naziste in Italia dal 1943 al 1945. D’altronde il Führer si era coperto le spalle attraverso il trattato di non aggressione con l’Urss, il cosiddetto patto Molotov-Ribbentrop (dai nomi dei ministri degli Esteri), che fu stipulato il 23 agosto 1939 e chiuse la Polonia in una morsa. «Ma io sono convinto — precisa Klinkhammer — che Hitler avrebbe scatenato la guerra anche se non fosse stato concluso l’accordo con Mosca. Certamente l’intesa con i sovietici lo incoraggiò, ma i piani d’attacco erano già stati definiti: anche l’ordine di attuare una provocazione a Gleiwitz, dove le SS inscenarono un finto assalto polacco a una stazione radio tedesca, era già stato impartito il 10 agosto, tredici giorni prima del patto con Stalin». Insomma, nulla avrebbe potuto fermare il tiranno nazista. «Già in un incontro riservato con il ministro degli Esteri e i vertici militari, tenuto il 5 novembre del 1937, di cui possediamo il verbale, il cosiddetto memorandum di Hossbach, Hitler aveva esposto piani che andavano ben oltre la revisione del trattato di Versailles, penalizzante per Berlino, con cui si era conclusa la Prima guerra mondiale. Delineò un’autentica politica espansionista, destando notevole preoccupazione in parte del suo uditorio, che temeva lo scoppio di un nuovo conflitto continentale». E la popolazione tedesca? Era tutta pronta a seguire il regime? «No, il ricordo del precedente conflitto mondiale pesava. Tra la gente comune l’apprensione prevaleva sullo slancio patriottico. Ma la macchina repressiva nazista aveva liquidato i partiti di opposizione, uccidendone i militanti, chiudendoli nei lager o costringendoli all’esilio. Sotto la cappa di piombo del terrore non era possibile manifestare alcun dissenso che non fossero le lamentele o le critiche a bassa voce, anch’esse peraltro duramente punite. Poi ovviamente i grandi successi bellici iniziali rafforzarono la popolarità di Hitler. Tuttavia bisogna ricordare che la quota dei volontari di guerra rimase piuttosto bassa e che molte severe condanne vennero irrogate ai soldati tedeschi per insubordinazione o diserzione. In tutto l’arco della guerra vennero emesse circa 50 mila sentenze di morte contro militari, con un ritmo ovviamente in crescita dopo la disfatta di Stalingrado». Insomma, secondo Klinkhammer, è uno stereotipo dipingere tutti i tedeschi come volenterosi esecutori agli ordini del Fuhrer: «I fanatici non mancavano certo, specie tra le SS, ma anche nella classe dirigente conservatrice crescevano i dubbi. Molti avevano condiviso la politica di revisione del trattato di Versailles condotta da Hitler, ma temevano lo scoppio di una guerra che rischiava di vedere la Germania nuovamente isolata. Alcuni cercarono anche di mandare segnali ai britannici per convincerli a non fidarsi del Terzo Reich». Eppure Londra a Parigi reagirono tardi alle mosse aggressive di Hitler, gli consentirono di annettere l’Austria e di smembrare la Cecoslovacchia. «Bisogna tener conto — osserva Klinkhammer — che la Gran Bretagna e la Francia erano potenze globali, con possedimenti coloniali estesi in tutto il mondo, e faticavano a tenere sotto controllo le spinte indipendentiste dei popoli sottomessi e le mire di Stati emergenti come il Giappone. Temevano che una nuova guerra in Europa, oltre a dissanguarle ulteriormente, avrebbe destabilizzato i loro imperi. Non credo che abbiano sottovalutato l’aggressività di Hitler, ma piuttosto la sua disponibilità a correre rischi enormi pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto. Inoltre bisogna tener conto che negli Stati Uniti prevaleva l’isolazionismo, che induceva francesi e britannici alla prudenza. Per esempio l’ambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy, padre del futuro presidente John Fitzgerald Kennedy, era un convinto fautore della necessità di un approccio morbido verso la Germania». Lo stesso orientamento che poi prevalse a Mosca, anche se Hitler non aveva mai nascosto la sua intenzione di annientare il bolscevismo. «L’Unione Sovietica — ricorda Klinkhammer — era in una condizione di debolezza per via delle feroci purghe staliniane che avevano decimato i suoi ufficiali migliori. Aveva senza dubbio bisogno di guadagnare tempo. D’altronde il protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop le assicurò notevoli vantaggi territoriali, consentendole di annettere una vasta fetta di Polonia e i tre Paesi baltici. Colpisce che oggi il presidente russo Vladimir Putin, dopo aver condannato quell’accordo come immorale, sulla scia di Mikhail Gorbaciov, nel 2009, oggi torni a giustificarlo come faceva un tempo la storiografia sovietica». Le vittorie militari del Terzo Reich nella prima parte della guerra furono impressionanti. Come spiegarle? «Senza dubbio contarono le tattiche belliche moderne, specie nell’impiego dell’aviazione e dei reparti corazzati. Ma non dimentichiamo che le forze tedesche agirono senza il minimo scrupolo, invadendo Paesi neutrali come il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, per aggirare le fortificazioni francesi della linea Maginot, in piena violazione del diritto internazionale. Infine bisogna considerare l’avvento della società di massa, cominciato già con la Repubblica di Weimar e accentuato dal nazismo. La fine del regime imperiale determinò il tramonto del dominio aristocratico sulle forze armate, consentendo l’ascesa di molti ufficiali capaci provenienti dalla piccola borghesia. Rispetto a quello del Kaiser, l’esercito di Hitler era più omogeneo, perché erano venuti meno privilegi e incrostazioni dell’antico regime. Per questo si rivelò anche più efficiente».
L’assalto di Hitler al potere globale che precipitò l’Europa nell’abisso. Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Nell’immaginario globale del nostro tempo, non vi è evento più frequentato e celebrato della Seconda guerra mondiale. Commemorazioni ufficiali, film, serie televisive, libri, videogiochi ce la ripropongono di continuo. Sembra che sull’argomento sia stato detto tutto, ma il libro L’Europa in fiamme firmato da Silvia Morosi e Paolo Rastelli, in edicola dal 3 settembre con il «Corriere della Sera», ha la giustificata ambizione di aggiungere qualcosa, di fornire un approfondimento utile alla conoscenza del conflitto da cui trae tuttora legittimità l’intero sistema dei rapporti internazionali, visto che i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dotati del decisivo diritto di veto, restano in sostanza le potenze che, in un modo o nell’altro, uscirono vincitrici da quello scontro titanico: Stati Uniti, Russia (all’epoca nelle vesti più ampie di Unione Sovietica), Gran Bretagna, Francia e Cina. «L’Europa in fiamme», di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, è in vendita dal 3 settembre con il «Corriere della Sera» a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Il fatto è che nella memoria collettiva dominano alcuni avvenimenti e non altri. Certamente occupa un posto di primissimo piano l’orrore indicibile della Shoah, quale estremo limite dell’abiezione umana. E poi alcuni passaggi bellici cruciali, collocati in genere nella parte finale della lotta. Innanzitutto lo sbarco in Normandia, ma anche l’attentato fallito ad Adolf Hitler del 20 luglio 1944, la caduta di Berlino, i marines che issano la bandiera sull’isola di Iwo Jima, le bombe atomiche sul Giappone. Per l’Italia ovviamente lo sbarco in Sicilia degli angloamericani, l’armistizio dell’8 settembre, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, il 25 aprile. Tornando indietro nel tempo, un certo rilievo mantengono l’assedio di Leningrado e la battaglia di Stalingrado (due città che hanno entrambe cambiato nome), così come l’attacco giapponese a Pearl Harbor che, nel dicembre 1941, provocò l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Di recente il cinema ha rievocato i momenti più difficili vissuti dalla Gran Bretagna nel 1940, rendendo omaggio alla figura di Winston Churchill. Assai minore è l’attenzione rivolta verso le origini e le prime battute del conflitto, vicende su cui invece, nell’ottantesimo anniversario dell’attacco tedesco alla Polonia del settembre 1939, si sofferma il lavoro di Morosi e Rastelli. In genere, poiché la responsabilità preminente della Germania nazionalsocialista nello scatenare la guerra è fuori discussione, la si dà un po’ per scontata. Allo stesso modo, poiché la rapidità e la portata dei successi colti inizialmente dal Terzo Reich furono impressionanti, se ne considera palese una superiorità militare che all’epoca non appariva affatto tale. Invece ambedue le questioni meritano una significativa ridiscussione critica. Per questa ragione Morosi e Rastelli prendono l’argomento da lontano, con gli errori compiuti vent’anni prima a Versailles dai vincitori del primo conflitto mondiale e le ricadute devastanti della crisi economica scoppiata a Wall Street nel 1929. Vicende senza considerare le quali non si capiscono i meccanismi che portarono alla conflagrazione del 1939. Ma soprattutto gli autori analizzano il modo in cui le potenze occidentali da una parte e l’Urss di Stalin dall’altra cercarono di scaricarsi addosso reciprocamente l’aggressività nazista, finendo così per agevolare i disegni di Hitler. Da una parte Londra e Parigi si mostrarono arrendevoli alla conferenza di Monaco del 1938, abbandonando al suo destino la Cecoslovacchia, mutilata, smembrata e poi in gran parte occupata dai tedeschi. Dall’altra parte Mosca, nel settembre del 1939, non esitò ad accordarsi direttamente con Berlino, attraverso quel patto Molotov-Ribbentrop che sancì la spartizione della Polonia tra Urss e Terzo Reich. Importante, nel lavoro di Morosi e Rastelli, è anche la rassegna attenta delle forze in campo, dei mezzi disponibili e delle strategie messe in atto, che consente di capire perché la macchina bellica tedesca apparve a lungo inarrestabile. La ricostruzione dei due autori non trascura ovviamente il versante italiano, anche se termina proprio con l’intervento in guerra decretato da Benito Mussolini il 10 giugno 1940, dopo la fase ambigua della «non belligeranza». Anche qui si tratta di richiamare l’attenzione su aspetti della nostra storia studiati senza dubbio dagli specialisti, ma poco presenti nella narrazione usuale del dibattito pubblico. Quando si parla delle colpe di cui si macchiò il regime fascista, si ricordano le violenze squadriste, l’omicidio di Giacomo Matteotti, le leggi razziali del 1938 e (assai meno, a dire il vero) l’invasione dell’Etiopia avvenuta tre anni prima. Ma tra le pagine infami scritte da Mussolini, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e soprattutto alla Francia, ridotta in ginocchio dai tedeschi, occupa un rango nient’affatto secondario. Basta un’occhiata alle date: le truppe del Terzo Reich entrarono a Parigi il 14 giugno 1940, quattro giorni dopo il famoso discorso del Duce dal balcone di Palazzo Venezia, e il 22 giugno i francesi firmarono la resa. L’Italia quindi infierì su un Paese già vinto per saltare sul carro del vincitore all’ultimo momento. E lo fece senza alcuna coscienza delle conseguenze a cui andava incontro in un conflitto per il quale non era affatto preparata, come sapevano benissimo Mussolini e il resto della classe dirigente di allora. Era un bluff miope e meschino, di cui la volontà di resistere della Gran Bretagna (ma anche della debole Grecia…) rivelò presto l’inconsistenza. D’altronde Mussolini si era legato mani e piedi alla Germania un anno prima, con il Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939, e il suo ritrarsi di fronte alla volontà di guerra implacabile del dittatore nazista lo esponeva a un’eventuale rivalsa dello scomodissimo alleato. Il fascismo raccoglieva così i frutti avvelenati di scelte irresponsabili che, a partire dall’impresa abissina, avevano concorso a destabilizzare un assetto internazionale fragile, in sintonia con l’espansionismo montante di Hitler e con quanto andava facendo dall’altra parte del mondo il Giappone: l’invasione della Manciuria nel 1931 e poi l’attacco alla Cina del 1937, che di fatto segnò il vero inizio della guerra in Asia. Eventi, questi ultimi, che mostrano come già a metà degli anni Trenta vi fossero tutte le avvisaglie di una tempesta globale, per lo scatenamento della quale una responsabilità non da poco grava sul nostro Paese. È una lezione da tenere a mente anche oggi. Nel momento in cui la politica estera di parte della classe dirigente italiani sembra aver perso ogni orientamento che non sia la ricerca affannosa del consenso interno, quella follia del passato, pagata a così caro prezzo, induce a riflettere sugli effetti nefasti che può avere la tentazione di scherzare con il fuoco sullo scenario internazionale senza avere i mezzi per spegnere l’incendio, se dovesse scoppiare. Il testo qui pubblicato è la prefazione scritta da Antonio Carioti per il volume di Silvia Morosi e Paolo Rastelli L’Europa in fiamme, in edicola dal 3 settembre con il «Corriere della Sera» al prezzo di 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Nell’ottantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, cominciata con l’invasione della Polonia da parte della Germania nazionalsocialista il 1° settembre 1939, gli autori hanno ricostruito le premesse e le prime battute del conflitto che sconvolse l’Europa e il mondo intero fino al 1945.
L'ultima guerra mondiale? Un grande balzo (hi-tech). Dal nucleare ai carri, dai missili fino alle jeep: così le armi ci hanno portato nel nostro futuro. Matteo Sacchi, Domenica 25/08/2019, su Il Giornale. C'è una definizione di conflitto militare fornita da Carl von Clausewitz (1780-1831) che è diventata molto celebre: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Soprattutto per quanto riguarda i conflitti moderni si potrebbe parafrasarla così: «La guerra non è che la continuazione dell'evoluzione scientifica e tecnologica con altri mezzi». E che mezzi! Può piacere o non piacere ma la Seconda guerra mondiale, la più grande e orrenda strage che l'umanità abbia mai conosciuto, è stata una folle corsa verso il futuro. Nel tremendo urto della tempesta d'acciaio gli scienziati e gli ingegneri di tutto il mondo premettero il piede sull'acceleratore di quasi tutti i rami della produttività umana. È il tema (tra gli altri) di cui si occupa Marco Lucchetti in Le armi che hanno cambiato la Seconda guerra mondiale (Newton Compton, pagg. 610, euro 14,99) che uscirà giovedì prossimo. Lucchetti, grande esperto di storia militare e di armamenti, racconta nel dettaglio il gigantesco balzo scientifico prodotto dalla guerra nella sua ricerca costante di nuove armi. Alcuni di questi sviluppi, ovviamente, sono evidenti e li abbiamo costantemente davanti agli occhi. Un esempio per tutti: senza il «Progetto Manhattan» non ci sarebbe stato nemmeno lo sviluppo dell'energia nucleare a scopo civile. Giusto per dare l'idea dell'enorme sforzo: il Progetto iniziò con poche risorse nel 1939 ma crebbe ad un ritmo forsennato sino ad occupare più di 130mila persone, tra cui moltissimi uomini del genio dell'U.s. Army, e costò quasi 2 miliardi di dollari. Oltre il 90% dei costi fu impiegato per costruire edifici e produrre materiale fissile, con solo il 10% impiegato per lo sviluppo e la produzione di armi. L'attività di ricerca e produzione ebbe luogo in più di 30 siti diversi negli Stati Uniti, Regno Unito e Canada. Senza la guerra nessuno avrebbe portato avanti una ricerca scientifica e industriale del genere così in fretta. L'uomo sarebbe arrivato di sicuro all'utilizzo dell'energia atomica ma probabilmente molti decenni dopo. Ma anche nel campo dell'aviazione. Sì, è vero che i progetti per i primi aviogetti circolavano già dagli anni Trenta (il prototipo Coanda 1 data addirittura al 1910). Ma questi velivoli come l'italiano Caproni-Campini C.C.2 avevano prestazioni non distanti da quelle dei velivoli ad elica ed il loro sviluppo stava avvenendo con grande lentezza. La guerra trasformò l'aviogetto in una priorità, proiettando l'aviazione, anche quella civile, nella contemporaneità di voli di linea capaci di superare con facilità la velocità dei caccia con motori a pistoni dell'inizio del conflitto. Ma molte altre armi hanno dato slancio allo sviluppo post bellico. Senza le V1, le V2, e Von Braun l'uomo sarebbe arrivato sulla Luna? Anche in questo caso la risposta è certamente sì, ma probabilmente molto dopo. Questi sono, come dicevamo, gli esempi più evidenti. Lucchetti accompagna il lettore in una lunga carrellata, molto ricca di immagini, che mette l'accento su tutte le armi e i mezzi innovativi del conflitto, autocarri compresi. Come racconta bene nell'introduzione molte di queste innovazioni restarono, per altro, a lungo incomprese dagli ufficiali e dagli stati maggiori che dovevano utilizzarle. Tedeschi a parte all'inizio delle ostilità erano ben pochi quelli che avevano capito come andasse utilizzato un carro armato. E anche in questo caso, gli stessi inventori del Blitzkrieg non furono esenti da errori o retromarce disastrose. Prendiamo lo studio tedesco per il gigantesco carrarmato Maus (panzer VIII). Di questo mostro iper pesante vennero realizzati solo due prototipi (ritrovati vicino al poligono di Kummersdorf), non si sa se mai usati in combattimento. Eppure era tutt'altro che una super arma. Lentissimo e pesantissimo (188 tonnellate), non avrebbe avuto nessun effetto sulle sorti della guerra. La tattica dei carri era già svoltata verso i carri medi armati con cannoni ad alta penetrazione come il Panther (che però Hitler odiava a morte). Ma alla fine il mito dei carri pesanti continuò a restare nella testa di certi generali, non solo tedeschi, ben oltre la fine del Secondo conflitto mondiale. Ma davvero gli spunti del libro di Lucchetti sono tanti, si va dalle corazzate ai camion, spesso prendendo atto di come gli italiani avessero ottimi spunti innovativi e progettuali ma purtroppo un'industria poco in grado di realizzarli e degli stati maggiori miopi. Ecco, davvero valida la parte dedicata ai mezzi di trasporto che spesso altri libri lasciano un po' in disparte. Basti ricordare che a decretare il vero successo di una idea vincente, come quella del General Purpose Vehicle che i militari americani pronunciavano Jeep, è stato soprattutto il mercato civile. A produrre questi veicoli durante il conflitto erano state svariate aziende. Ma fu la Willys-Overland che subodorando l'affare depositò la domanda di registrazione del marchio «Jeep» nel febbraio 1943. La registrazione del nome da parte di Willys inizialmente incontrò anni di opposizione, principalmente da parte della Bantam, ma anche dalla Minneapolis-Moline. La Federal Trade Commission inizialmente si pronunciò a favore della Bantam nel maggio 1943, ignorando in gran parte le affermazioni di Minneapolis-Moline, e si oppose alla Willys-Overland vietandole l'utilizzo del nome nelle proprie campagne pubblicitarie. Anche la Ftc denunciò formalmente la Willys affinché cessasse di utilizzare qualsiasi affermazione secondo cui il progetto Jeep fosse stato originato dalla stessa. Alla fine la Willys la spuntò. Ma si era già passati dalla Seconda guerra mondiale alla grande guerra della pubblicità e del mercato che dura ancora oggi.
VITE E AMORI DEGLI ANTIFASCISTI RADICALI. Marcello Sorgi per la Stampa il 3 settembre 2019. Oltre a cogliere di sorpresa mezzo mondo, il 23 agosto del 1939, il Patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei due ministri degli Esteri russo e tedesco (rimasto più famoso il primo, anche per l' intitolazione a suo nome delle bottiglie incendiarie che molta fortuna ebbero, come armi improprie, dagli Anni Trenta della Guerra di Spagna al '68), lasciò annichiliti un gruppo di esuli antifascisti italiani, increduli di fronte all' accordo tra le due grandi dittature novecentesche che il primo settembre, otto giorni dopo, doveva accendere la miccia della Seconda guerra mondiale. Erano un gruppo di irriducibili, come li definisce, fin dal titolo, il libro della storica Mirella Serri (Gli irriducibili, in uscita giovedì per Longanesi, pp. 240, 19), che fin dall' avvento del fascismo, quando ancora molti che poi si sarebbero ribellati tardivamente indugiavano, avevano colto l' aspetto autoritario e violento del regime di Mussolini e si erano impegnati a contrastarlo con tutti i mezzi, una resistenza prima della Resistenza che pose fine all' occupazione nazista e all' avventura del Duce. Nati a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, educati quasi tutti in famiglie colte e borghesi, intellettuali, pensatori, filosofi, amanti della scrittura e dei giornali, i loro nomi, anche se con diversa evidenza, sono entrati nella storia, per conoscere successivamente un oblìo a cui il libro della Serri vuole rimediare: ricostruendone le vite romanzesche, lo sprezzo del pericolo, i sentimenti, l' amicizia, gli amori, le morti tragiche. Erano Giorgio Amendola (figlio del ministro liberale Giovanni, assassinato dai fascisti), leader per tutta la sua vita della «destra» comunista e maestro di Giorgio Napolitano, due volte Presidente della Repubblica. I fratelli Emilio, Enzo e Enrico Sereni, ebrei, ministro del governo De Gasperi nel dopoguerra il primo, morto a Dachau in campo di concentramento il secondo, mancato ancor giovane, forse suicida, il terzo. E poi Nadia Gallico, moglie di Velio Spano, tra le prime donne elette all' Assemblea Costituente, Ada Ascarelli, vedova di Enzo Sereni e grande organizzatrice della partenza verso Israele di oltre 25 mila ebrei a rischio di finire deportati, Giuseppe Di Vittorio, che sarà leader della Cgil, Ferruccio Besanson e Maurizio Valenzi, che diventerà sindaco di Napoli negli Anni Settanta, dopo un lungo periodo di emarginazione seguito all' esilio a Tunisi e al ritorno in patria grazie all' aiuto dei servizi segreti inglesi, Carlo e Nello Roselli, assassinati in Francia su mandato del regime fascista dopo la rocambolesca fuga del primo dal confino a Lipari. Erano militanti della sinistra clandestina, in maggior parte comunisti nel Pcd' I non ancora Pci, socialisti, repubblicani o di Giustizia e libertà. Gli anni duri dello stalinismo, con le accuse settarie di «socialfascismo» a chiunque non fosse sottomesso a Mosca, verranno a segnare dolorose divisioni tra loro, compreso il diffuso antisemitismo che finirà col separare anche Emilio Sereni dal fratello Enzo e dalla cognata Ada. Perché anche questo accadde, ci fu un tempo in cui i comunisti, per effetto della «guerra fredda» che gelò la pace in Europa, consideravano Churchill più o meno alla stregua di Hitler e diffidavano di chiunque tra i loro militanti avesse avuto a che fare con gli inglesi. Ma fermiamoci un momento a riflettere su cosa rappresentò, soprattutto per gli esuli a Parigi, ma non solo, l'avvento del patto nazi-sovietico e dell' inizio di una guerra che in quel momento sembrava orientata a concludersi con una spartizione dell' Europa tra le due dittature di Mosca e Berlino e con la cancellazione delle «vecchie» democrazie occidentali di Francia e Inghilterra. Il ritrovarsi, da un giorno all' altro, nemici nel paese che li aveva accolti, consentendogli piena libertà politica e di iniziativa nelle loro attività clandestine. La forzata obbedienza al diktat staliniano della diffidenza verso tutte le altre forme di antifascismo che non fossero quella della fede comunista. La rottura dell' unità nella lotta contro il regime fascista che per loro affondava le radici in un' educazione e una cultura comuni, maturate negli anni dell' adolescenza. La fine di tante amicizie. Su tutte, spicca la figura di Giorgio Amendola, «Giorgione», data la sua mole enorme (un gigante da 120 chili), il carattere gioviale, la passione per il buon cibo e gli abiti eleganti, le capacità di grande oratore, dirigente e organizzatore. Un uomo che anche nei momenti difficili, sapeva prendersi tempo per apprezzare, a Parigi, l' arte, la cultura, gli spettacoli, e forse lo faceva consapevole di rischiare la vita e ignorando se il giorno dopo avrebbe potuto farlo ancora. Eretico e insieme ortodosso con Mosca, implacabile nel confronto personale con chi era in disaccordo con lui (memorabili le discussioni con Di Vittorio nella redazione del giornale per gli emigrati in Francia La voce degli italiani), tenero nell' amore per la moglie Germaine, ma disponibile, per una notte, «con una cameriera che gli era entrata nel letto». Questo era Amendola. Serri ricostruisce le storie, descrive la vita quotidiana degli esuli con il passo di un romanzo e si addentra con fini indagini psicologiche nel carattere dei personaggi. Come ad esempio la coppia Enzo Sereni-Ada Ascarelli, riparati in un kibbutz ebreo in Palestina, esperienza pratica di una sorta di socialismo a lungo sognata e in realtà deludente, per l' esasperante privazione di qualsiasi bene personale e la messa in comune di tutto, perfino le scarpe! Tal che Enzo, senza che Ada riesca a trattenerlo, sentendosi soffocato dalle regole di vita della comunità e richiamato dal suo istinto rivoluzionario, decide di partire, farsi paracadutare nella campagna toscana e finisce prigioniero dei tedeschi e poi in campo di concentramento a Dachau, dove verrà torturato e condannato a morte. Come tutti gli esuli, gli irriducibili sopravvissuti, alla fine della guerra, torneranno a casa. Ma l' accoglienza, da parte del partito «nuovo» togliattiano che si è già affidato a una nuova generazione, non sarà quella che si aspettano. Un' amarezza in più, che si aggiunge alle molte della, come la chiamavano, «generazione delle vite difficili».
· Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16.
Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.16: 65 chili di uranio sopra la città. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 Alessandra Arachi su Corriere.it. Si dice che Laura Capon abbia saputo dalla radio che alle 8.16 di quel lunedì mattina una bomba violenta - la più violenta della storia del mondo - aveva deflagrato Hiroshima, una città giapponese . In una manciata di minuti aveva bruciato 80 mila persone. Era il 6 agosto del 1945. Da suo marito Enrico Fermi Laura non era riuscita a carpire la più piccola emozione che potesse far presagire alcunché, nemmeno una smorfia. Quel lunedì mattina lo scienziato senza il quale la bomba atomica non si sarebbe mai potuta costruire, era uscito dalla sua casa di Los Alamos per raggiungere i laboratori, come tutte le altre mattine. Laura Capon era rimasta in cucina ad aspettare che si svegliassero Nella e Giulio. Fino a quel momento la moglie di Fermi non aveva nemmeno mai saputo il perché tutta la sua famiglia si fosse dovuta trasferire in quel grande complesso di Los Alamos, abitato soltanto dai più grandi fisici del mondo. Sono state le condizioni metereologiche avverse a far deviare su Hiroshima l’areoplano statunitense Enola Gay. Nei piani di volo inizialmente era previsto che il bombardiere americano si dirigesse su Kokura per sganciare quella sessantina di chilogrammi di uranio 235 contenuti nell’ordigno nucleare, il più grande mai neanche immaginato, almeno fino a quel momento. La storia ci insegna che passarono appena tre giorni, e il 9 agosto il massacro nucleare si è ripetuto, toccò Nagasaki questa volta, una dose di sei chili e mezzo di plutonio 239 e il Giappone si mise in ginocchio davanti agli Stati Uniti. Non avrebbero mai potuto immaginare, i giapponesi, che con la bomba di Nagasaki gli americani avevano esaurito le bombe atomiche. A Los Alamos ne avevano costruite tre di bombe, e una era già stata sganciata come bomba test il 16 luglio nel deserto di Alamogordo. Fermi non si era degnato nemmeno di guardarlo in faccia quell’esperimento test, aveva preferito gettare in aria dei piccoli pezzi di carta per calcolare la potenza della bomba misurando lo spostamento dalla verticale della carta per effetto della deflagrazione. Forse non aveva avuto il coraggio. La bomba atomica era stata davvero una creatura tutta sua, non avrebbe mai potuto esistere senza quella sua scoperta della radioattività indotta dai neutroni lenti , fatta tra le gloriose mura del laboratorio di via Panisperna. Gli americani l’hanno chiamata in codice «Little Boy» la bomba che Enola Gay sganciò su Hiroshima quel lunedì mattina. Un nomignolo gentile per un’ordigno che conteneva 64,3 chilogrammi di uranio arricchito all’80 per cento, e aveva un’attività fissile della massa critica che durava 1,35 millisecondi, e nell’esplosione ha liberato un’energia compresa tra i 12,5 e i 20 chilotoni, e poco importa capire nei dettagli cosa significano misure che non ci sono consuete, è sufficiente il massacro che ha provocato . Fu Albert Einstein che nel 1939 chiese che venisse dato il via alla costruzione della bomba atomica. Lo scienziato tedesco si era rifugiato a State Island, nello stato di New York, per sfuggire alle leggi razziali, e da lì scrisse all’allora presidente degli Stati Uniti Roosvelt chiedendo di creare la bomba, e di farlo al più presto, serviva la massima difesa possibile contro la follia di Adolfo Hitler. In quei tempi, infatti, Hitler aveva invaso le miniere di uranio della Cecoslovacchia, e aveva messo al lavoro i suoi fisici migliori per arrivare a costruire l’ordigno nucleare, il terrore di una simile arma in mano al Fuhrer spinse Roosvelt a dare il via al Progetto Manhattan.
· Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo).
Spagna 1936-1939, una guerra per procura (ma non troppo). Silvia Morosi e Paolo Rastelli il 29 agosto 2019 su pochestorie.corriere.it. Una “guerra mondiale per procura” Così Anthony Beevor ha definito la guerra civile nell‘ottimo volume dedicato al feroce conflitto che insanguinò la Spagna tra il 1936 e il 1939. Un concetto che anche gli autori di questo blog hanno ampiamente sviluppato nel loro libro L’Europa in fiamme , in uscita il 3 settembre con il Corriere della Sera, che racconta gli antefatti e lo scoppio del secondo conflitto mondiale a 80 anni dal quel fatale 1939. Un conflitto di cui il massacro spagnolo fu un antefatto significativo. Una definizione affascinante, quella di Beevor, che come tutte le definizioni – però – rischia l’eccessiva semplificazione. Il fronte antifascista della guerra spagnola fu vasto nelle società civili europee e americane, con il fenomeno, mai più ripetuto su scala così vasta, delle “brigate internazionali” che accorsero in difesa del legittimo governo repubblicano spagnolo aggredito dalla rivolta dei militari guidati dal generale Francisco Franco contro il governo di Fronte popolare di Largo Caballero, il “Lenin spagnolo”. Ma a livello governativo Francia e Gran Bretagna si comportarono in modo ben diverso da quanto avrebbero fatto nel settembre 1939 in risposta all’aggressione tedesca alla Polonia. Solo l’Unione sovietica rimase in qualche modo fedele a se stessa, nel bene e nel male (più nel male, almeno alla fine della guerra spagnola), mentre gli Stati Uniti rimasero alla finestra.
Aiuti a Franco – Italia fascista e Germania nazista, come era logico, presero da subito le parti di Franco, inviando armi munizioni e uomini: i volontari italiani, in gran parte camicie nere della milizia ma anche soldati dell’esercito regolare, arrivarono a ben 50 mila unità. Le aviazioni italiana e tedesca aiutarono il trasporto dal Marocco alla madrepatria dei regulares marocchini e della Legione straniera spagnola, i migliori soldati di cui disponessero i ribelli. Poi fornirono a Franco un costante appoggio aereo che ebbe non poca importanza nel determinare l’esito di molte battaglie, oltre a inaugurare l’epoca del bombardamento indiscriminato delle città (Guernica e Madrid, ma non solo). Le marina italiana e germanica protessero la navigazione dei mercantili sotto bandiera nazionalista. Finchè le pressioni internazionali non costrinsero Roma a smettere, i sommergibili italiani silurarono alcune navi rimaste fedeli alla Repubblica: visto che l’Italia non era ufficialmente in guerra con la Spagna, furono atti di vera e propria pirateria che costituiscono invero una pagina vergognosa per la nostra marina militare.
Eden prudente – Sul fronte opposto, la Gran Bretagna, pur senza affermarlo esplicitamente, decise da subito di non ostacolare il colpo di stato franchista, la cui vittoria era considerata meno dannosa per gli interessi britannici. Anthony Eden, ministro degli Esteri del governo conservatore di Stanley Baldwin, era convinto che in Spagna la guerra civile sarebbe finita con una dittatura fascista o una comunista. Tra le due, preferiva la prima, in questo confortato anche dal fatto che a fianco dei ribelli nazionalisti era schierato l’ambasciatore di Londra in Spagna e buona parte degli ufficiali della Royal Navy di stanza del Mediterraneo. Del resto molti membri del partito conservatore non nascondevano la loro simpatia per i governi tedesco e italiano che avevano in maniera tanto efficace eliminato il pericolo comunista nelle rispettive nazioni. Così Londra decise l’embargo totale sulle forniture di armi alle parti in guerra, equiparando di fatto il governo legittimo ai ribelli. Poichè inoltre il governo Baldwin non riconosceva ufficialmente la partecipazione di Italia e Germania alla lotta, ne conseguì che le uniche armi che furono di fatto bloccate furono quelle che la Repubblica tentava di procurarsi con acquisti all’estero.
Il “non intervento” – In Francia, il governo di Fronte popolare guidato da Leon Blum, in carica da poco quando si verificò il colpo di stato in Spagna, si preparò ad aiutare la Repubblica, ma fu fermato sia dalle pressioni inglesi che dalle preoccupazioni delle forze armate e degli imprenditori: la Francia stessa sembrava sull’orlo della guerra civile, con scontri nelle strade tra estremisti di destra e sinistra, e una mossa di appoggio alla Spagna repubblicana avrebbe rischiato di far sprofondare il Paese nel caos. Così la Francia, per uscire dai suoi problemi, fu la principale animatrice di quel “Comitato per il non intervento” che, con la nominale partecipazione di Parigi, Londra, Roma e Berlino, si impegnò a non fornire aiuti ad alcune delle due parti in lotta in Spagna, equiparando così, di nuovo, un governo legittimo a uno ribelle. Inoltre, poichè il confine franco-spagnolo era l’unico da cui potevano passare armi destinate alla Repubblica, almeno finchè questa rimase in possesso di una parte delle province settentrionali, ne venne di conseguenza che un altro canale di rifornimento si inaridì quasi completamente. Il tutto mentre Italia e Germania davano al comitato risposte interlocutorie e aumentavano i loro aiuti a Franco.
Usa alla finestra – Gli Stati Uniti, ancora molto isolazionisti e diffidenti verso le complicazioni europee, non si fecero coinvolgere, anche per le pressioni filo-nazionaliste dei cattolici americani, in cui primeggiò Joseph P. Kennedy, il padre del futuro presidente ucciso a Dallas: la Chiesa cattolica spagnola, fortemente schierata su posizioni di destra e quindi attore politico durante tutti gli anni precedenti alla guerra civile, era stata sottoposta a violenze, uccisioni indiscriminate, confische e dissacrazioni di chiese) nei territori controllati dalla Repubblica, il che aveva provocato la reazione dei cattolici in tutto il mondo (anche se il numero complessivo delle vittime di atrocità nazionaliste fu di gran lunga maggiore: circa 200 mila – compresi i giustiziati nelle epurazioni del dopoguerra – contro 38 mila). Tuttavia il mondo degli affari Usa fu tutt’altro che neutrale: la Texas Oil e la Standard Oil del New Jersey fornirono gran parte dei 3,5 milioni di tonnellate di petrolio che Franco ricevette a credito durante il conflitto. Ford, Studebaker e General Motors mandarono 12 mila autocarri e la Dupont de Nemours (chimica) 40 mila bombe, inviate attraverso la Germania.
L’appoggio sovietico – Così al fianco della Repubblica restarono nel mondo solo Unione Sovietica e Messico. All’inizio il dittatore Stalin, timoroso come era di irritare la Germania nazista e fautore temporaneo del “socialismo in un solo Paese“, si rifiutò di aiutare il governo legittimo di Madrid. Poi capì che il suo prestigio di leader del movimento operaio mondiale rischiava di essere molto appannato se avesse lasciato i minatori delle Asturie e gli operai della Catalogna a battersi senza armi contro i generali di destra. Così dimostrazioni “spontanee” a favore della Spagna avvennero in tutta la Russia e gli aiuti cominciarono ad arrivare. Aiuti consistenti, uomini sotto forma di consiglieri politici e militari e armi spesso equivalenti o addirittura migliori (per esempio nel settore mezzi blindati) di quelli forniti da Berlino e Roma. Ma avere un solo fornitore di armi significa avere un padrone. E la Repubblica spagnola se ne accorse presto, man mano che il conflitto si inaspriva chiedendo sforzi e risorse sempre maggiori. Quando i comunisti spagnoli decisero di rinsaldare la presa sullo Stato, impadronendosi prima di tutto delle forze di sicurezza (secondo un copione che si sarebbe ripetuto pari pari nell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale), ogni opposizione al progetto rischiava di mettere in forse le forniture di armi. E quando scoppiò in maniera decisa il conflitto tra comunisti e anarchici, soprattutto in Catalogna, quel che restava della Spagna non comunista dovette cedere al predominio del Pce, i cui vertici accusarono gli anarchici di trotzkismo con l’abituale seguito di processi-farsa, arresti illegali, torture e omicidi politici, sulla falsariga di quanto stava avvenendo nell’Unione sovietica con le “grandi purghe” di Stalin. Una “guerra civile nella guerra civile” (scrive Beevor) che indebolì fatalmente la Repubblica.
· Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto.
Anna Frank. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Annelies Marie Frank, detta Anne, chiamata Anna Frank in italiano, (Francoforte sul Meno, 12 giugno 1929 – Bergen-Belsen, febbraio o marzo 1945), è stata una giovane ebrea tedesca, divenuta un simbolo della Shoah per il suo diario, scritto nel periodo in cui lei e la sua famiglia si nascondevano dai nazisti, e per la sua tragica morte nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Visse parte della sua vita ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, dove la famiglia si era rifugiata dopo l'ascesa al potere dei nazisti in Germania. Fu privata della cittadinanza tedesca nel 1935, divenendo così apolide e nel proprio diario scrisse che ormai si sentiva olandese e che dopo la guerra avrebbe voluto ottenere la cittadinanza dei Paesi Bassi, Paese nel quale era cresciuta.
Anna nacque il 12 giugno 1929, come seconda figlia di Otto Heinrich Frank (12 maggio 1889 - 19 agosto 1980) e di sua moglie Edith Frank, nata Holländer (16 gennaio 1900 - 6 gennaio 1945), nella clinica dell'Associazione delle donne patriottiche nel parco Eschenheim, a Francoforte: questa clinica venne distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Aveva una sorella maggiore, Margot Betti Frank (16 febbraio 1926 - febbraio 1945). Fino all'età di due anni Anna visse nell'edificio in Marbachweg n. 307 e in seguito si trasferì nella Ganghoferstraße n. 24 (entrambe nel quartiere Dornbusch). La famiglia Frank viveva in una comunità mista e i figli crebbero insieme con bambini di fede cattolica, protestante ed ebraica. I Frank erano ebrei riformati: molte tradizioni ebraiche erano conservate, ma solo alcune venivano praticate. Edith era la più credente, mentre Otto, che aveva prestato servizio come ufficiale per l'esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale, lavorava come imprenditore e si occupava principalmente dell'educazione delle sue figlie, che stimolava alla lettura grazie anche alla ricca biblioteca privata che possedeva. Anna dovette sempre confrontarsi con i paragoni con la sorella maggiore Margot: questa era buona, esemplare e timida, mentre Anna era molto più vivace, piena di interessi, ma anche estroversa e impulsiva e si sentiva costantemente trattata peggio della sorella. Prima che l'avvento del nazionalsocialismo irrompesse e distruggesse la sua vita, Anna viveva tranquillamente con la sua famiglia e con i suoi amici a Francoforte. Poteva anche recare visita alla nonna Alice Frank, la madre di Otto, a Basilea. Nel 1931 questa si era trasferita con la figlia Helene detta "Leni" (zia di Anna e sorella di Otto) e i figli di lei Stephan e Bernhard (divenuto poi famoso come attore con lo pseudonimo di Buddy Elias) a Basilea, dove suo marito nel 1929 aveva aperto la rappresentanza svizzera della Opekta, una ditta producente pectina per la realizzazione di marmellate. Anna Frank viene descritta dal cugino Bernhard come una "bambina vivace, che non faceva altro che ridere". Subito dopo che la NSDAP ebbe ottenuto la maggioranza alle elezioni comunali di Francoforte del 13 marzo 1933 – poche settimane dopo l'ascesa al potere di Hitler – cominciarono a esserci delle dimostrazioni antisemite. Otto Frank cominciò a temere per il futuro della sua famiglia e insieme alla moglie cominciò a pensare che cosa sarebbe potuto succedere se fossero rimasti in Germania. Più tardi, nello stesso anno, Edith si trasferì con le figlie ad Aquisgrana da sua madre Rosa Holländer. Otto inizialmente rimase a Francoforte, in seguito ricevette l'offerta da Robert Feix di andare ad aprire una filiale dell'Opekta ad Amsterdam. Si trasferì nei Paesi Bassi per organizzare i suoi affari e per preparare l'arrivo del resto della sua famiglia. Nel frattempo, con la legge sulla cittadinanza, la famiglia Frank perse la cittadinanza tedesca.
L'esilio ad Amsterdam. Edith e la figlia maggiore raggiunsero Otto nel dicembre del 1933, Anna nel febbraio 1934 e andarono a vivere in un palazzo condominiale in Merwedeplein n. 37, nel nuovo quartiere di Rivierenbuurt in quella che al tempo era la periferia meridionale della città, dove molte famiglie tedesche di origini ebraiche avevano cercato una nuova patria. Anche in esilio i genitori si occuparono dell'educazione delle due figlie: Margot frequentò una scuola pubblica, mentre Anna venne iscritta alla scuola pubblica montessoriana nº 6 nella vicina Niersstraat. Mentre Margot eccelleva soprattutto in matematica, Anna si mostrava portata nel leggere e nello scrivere. Tra le amiche più intime di Anna dopo il 1934 si annoverano Hanneli Goslar e Sanne Ledermann. Goslar più tardi raccontò che spesso Anna scriveva di nascosto e non rivelava a nessuno quello che scriveva. Questi primi appunti sono andati persi, ma "Hanneli", come veniva chiamata da Anna, è oggi un'importante testimone le cui memorie sono state raccolte in un libro nel 1998 da Alison Leslie Gold. Un'altra amica, Jacqueline van Maarsen, raccontò in seguito le esperienze vissute insieme con Anna.
Nel 1935 e nel 1936 Anna poté ancora fare spensierate vacanze con la sua prozia parigina Olga Spitzer in Svizzera a Sils im Engadin, dove strinse amicizia con una ragazza del posto. Solo di recente, su iniziativa privata è stato eretto un monumento in ricordo di Anna dove sorgeva "Villa Spitzer" (oggi "Villa Laret").[9] Dal 1933 Otto Frank diresse la filiale olandese della ditta (tedesca) Opekta. Nel 1938 Otto avviò una seconda ditta insieme con il macellaio Hermann van Pels - anche lui in fuga con la sua famiglia ebrea da Osnabrück - per la distribuzione di sale da conservazione, erbe e spezie: la Pectacon. Nel frattempo ad Aquisgrana i nazisti espropriarono la banca di suo padre Michael, banca per altro già segnata dalla crisi finanziaria del 1929.
Nel 1939 la madre di Edith raggiunse i Frank ad Amsterdam, dove rimase fino alla sua morte nel gennaio del 1942. Di quanto pochi scrupoli si facessero i nazisti i Frank lo appresero in prima persona dal fratello di Edith, Walter Holländer, che durante la notte dei cristalli era stato arrestato e portato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, per poi ottenere un'autorizzazione speciale che gli consentì di emigrare nei Paesi Bassi. Otto Frank non si fece però distogliere dal suo ottimismo dai racconti delle sinagoghe in fiamme: definì l'accaduto come un "attacco febbrile" che avrebbe poi riportato tutti alla ragione. La speranza divenne però paura allorquando, con l'attacco alla Polonia nel settembre 1939, scoppiò la Seconda guerra mondiale. Gli ebrei in esilio temevano che anche i Paesi Bassi, che cercavano di mantenere la loro neutralità, venissero minacciati dall'espansionismo di Hitler. E in effetti il 10 maggio 1940 l'Olanda fu attaccata e occupata dalla Wehrmacht tedesca: le forze olandesi capitolarono e la regina Guglielmina volò in esilio a Londra. Presto apparve evidente che per gli ebrei dei Paesi Bassi incombeva lo stesso destino di quelli delle altre zone occupate. Otto e Edith Frank non poterono più tenere nascosti ai figli i problemi politici: fino a questo momento i genitori avevano sempre cercato di fare da scudo alle bambine, cercando di garantire loro un'apparente normalità. Come testimoniano alcune lettere rinvenute nel 2007, Otto Frank aveva più volte cercato di ottenere asilo negli Stati Uniti o a Cuba, anche con l'aiuto dell'amico Nathan Straus, che aveva contatti con la First Lady Eleanor Roosevelt; ma i tentativi furono vani. Nuove leggi antisemite toglievano loro progressivamente i diritti: vennero esclusi dalla vita sociale e da quella pubblica. In particolare, il divieto di andare al cinema colpì molto duramente Anna, che era un'entusiasta cinefila e collezionista di foto di star del cinema. Come tutti gli ebrei, dovette abbandonare la scuola pubblica a favore di uno speciale liceo per sole ragazze ebree. Fu introdotto l'obbligo per tutti gli ebrei di registrarsi in un apposito registro anagrafico (con foto e impronte digitali); in seguito dovettero registrare addirittura le loro biciclette. Quando furono obbligati a portare sui vestiti la stella gialla che contrassegnava gli ebrei, molti olandesi solidarizzarono con loro. Ma d'altro canto nacque anche un partito nazista olandese, il Movimento Nazional-Socialista. Per proteggere le sue aziende dalla confisca che colpiva le imprese gestite da ebrei, Otto Frank cedette la direzione pro forma ai suoi collaboratori ariani, Johannes Kleiman e Victor Kugler e l'impresa assunse il nome di Gies & co...
Il 12 giugno 1942, Anna ricevette per il suo tredicesimo compleanno un quadernino a quadretti bianco e rosso, sul quale incomincerà a scrivere (in olandese) il Diario, inizialmente sotto forma di annotazioni a proposito della scuola e degli amici, quindi come immaginaria corrispondenza con le protagoniste di una popolare serie di romanzi per ragazze "Joop ter Heul" della scrittrice olandese Cissy van Marxveldt, di cui lei e le amiche erano accanite lettrici.
La clandestinità. Otto Frank aveva preparato un nascondiglio nella casa retrostante (Achterhuis in olandese) l'edificio in cui aveva sede la ditta, in Prinsengracht 263, seguendo un suggerimento del suo collaboratore Kleiman. L'edificio principale, nelle vicinanze della Westerkerk, era discreto, vecchio e tipico di questo quartiere di Amsterdam; l'achterhuis era un edificio a tre piani che si trovava dietro l'edificio principale. Al primo piano c'erano due piccole camere con bagno e toilette; di sopra c'erano una camera grande e una più piccola; infine tramite una scala si arrivava al sottotetto. La porta che conduceva a questo retrocasa di quasi 50 m², che era collegata con una ripida scala all'ingresso degli uffici, venne nascosta da una libreria girevole. Otto Frank aveva chiesto aiuto alla sua segretaria Miep Gies (nata Hermine Santrouschitz): sebbene lei sapesse di andare incontro a grossi problemi nel caso fossero stati scoperti, accettò di aiutarlo e si assunse la pesante responsabilità. Insieme con suo marito Jan Gies e ai collaboratori di Frank Kugler e Kleiman, nonché Bep Voskuijl, Miep Gies aiutò gli abitanti del retrocasa. La situazione della famiglia precipitò quando il 5 luglio 1942 Margot ricevette da parte dell'Ufficio Centrale per l'emigrazione ebraica ad Amsterdam un invito a comparire ai fini della successiva deportazione in un campo di lavoro. Se Margot non si fosse presentata spontaneamente, l'intera famiglia Frank sarebbe stata arrestata. Questo episodio spinse Otto Frank a nascondersi con la famiglia prima di quanto avesse previsto. Già il giorno successivo, il 6 luglio, cominciò per l'intera famiglia una vita in clandestinità, dato che una fuga dai Paesi Bassi appariva assolutamente impraticabile. Quando il suo amico Helmut "Hello“ Silberberg andò a trovare Anna a casa sua, non la trovò più. Per sviare i controlli, i Frank avevano lasciato il loro appartamento sottosopra con un biglietto in cui dicevano di essere improvvisamente fuggiti in Svizzera. Dopo una settimana nell'Achterhuis arrivò anche la famiglia van Pels, mentre nel novembre 1942 si aggiunse il dentista Fritz Pfeffer.
6 maggio 1983 ad Amsterdam. L'iniziale speranza di Otto di poter tornare tutti in libertà dopo qualche settimana o al massimo dopo qualche mese, si rivelò vana: essi furono costretti infatti a restare nascosti per poco più di due anni. Durante questo periodo non potevano uscire né fare nulla che potesse attirare l'attenzione (ad esempio facendo rumore). Il clima di tensione nel retrocasa, dove i rifugiati vivevano costantemente nella paura e nell'incertezza, portava ripetutamente a tensioni e conflitti tra loro. Più passava il tempo, più evidenti diventavano i conflitti interpersonali. Ad esempio Anna era in conflitto con Fritz Pfeffer, con il quale doveva condividere la stanza e che quindi disturbava la sua privacy personale: per tale motivo nel diario Anna utilizzò lo pseudonimo di "Dussel" (sciocco), senza tenere in considerazione che anche per il dentista non erano tempi facili, dovendo tra l'altro stare separato dalla compagna Charlotte Kaletta che in quanto cristiana non aveva la necessità di nascondersi. Anna litigò spesso anche con sua madre, soprattutto perché Edith con il passare del tempo sembrava sempre più disperata e senza speranze, cosa che non si confaceva al carattere di Anna: il padre Otto faceva spesso da mediatore. Per Anna era particolarmente dura perché era all'inizio della sua adolescenza, quando si è lunatici e ribelli per natura, e invece lei si ritrovava rinchiusa con i genitori e obbligata a comportarsi in modo rigidamente disciplinato. Miep Gies non si occupava solo di fornire i viveri, ma anche di informare gli otto sugli eventi di guerra. A mezzogiorno tutti gli aiutanti si incontravano a tavola con gli otto occupanti del retrocasa e la sera, quando tutti gli altri lavoratori dell'impresa se ne erano andati, Anna e gli altri potevano uscire dal retrocasa e andare nell'edificio principale, dove ascoltavano alla radio le sempre più preoccupanti notizie della BBC.
Il 17 luglio partì il primo treno per Auschwitz e agli ebrei fu tolta la cittadinanza. Durante il periodo di clandestinità, Anna Frank lesse molti libri, migliorò il suo stile e si sviluppò velocemente da ragazzina capricciosa a scrittrice consapevole. Mise in dubbio che suo padre Otto amasse veramente sua madre Edith e supponeva che l'avesse sposata solo per motivi razionali. La stessa Anna cominciò a interessarsi a Peter van Pels, inizialmente descritto come troppo timido e noioso, ma dopo un momento impetuoso con tanto di episodi di tenerezza, la relazione presto finì. Dal diario si evince anche che Anna sapeva delle deportazioni e della taglia che era stata messa sugli ebrei, cosa di cui fu ella stessa vittima pochi giorni dopo l'ultima scrittura sul diario. Alcuni brani del diario in cui la ragazza, ormai alle soglie della pubertà, annota i propri dubbi e curiosità riguardo al sesso, vennero in seguito espunti dalle prime versioni date alle stampe, così come una serie di annotazioni della giovane in merito ai suoi dubbi circa l'affiatamento dei propri genitori.
L'arresto. Il mattino del 4 agosto 1944, attorno alle 10.00, la Gestapo fece irruzione nell'alloggio segreto, in seguito a una segnalazione da parte di una persona che non è mai stata identificata. Tra i sospettati vi è un magazziniere della ditta di Otto Frank, Willem Van Maaren. Nel Diario, in data giovedì 16 settembre 1943, Anna afferma esplicitamente che Van Maaren nutriva dei sospetti sull'alloggio segreto, e lo descrive come "una persona notoriamente poco affidabile, molto curiosa e poco facile da prendere per il naso". Gli otto clandestini vennero arrestati insieme con Kugler e Kleiman e trasferiti al quartier generale della SD, in Euterpestraat ad Amsterdam poi nella prigione di Weteringschans e dopo tre giorni l'8 agosto al campo di smistamento di Westerbork. Gli aiutanti non furono più in grado di proteggere i clandestini e furono costretti a mostrare il nascondiglio all'agente nazista (di origine austriaca) Karl Josef Silberbauer. Kugler e Kleiman furono portati nelle prigioni del Sicherheitsdienst delle SS in Euterpestraat. L'11 settembre 1944 furono trasferiti nel Campo di concentramento di Amersfoort. Kleiman fu liberato il 18 settembre 1944 per motivi di salute, Kugler invece riuscì a fuggire il 28 marzo 1945. Miep Gies e Bep Voskuilj, presenti al momento dell'arresto, scapparono mentre la polizia arrestava i clandestini (restando nei paraggi della palazzina). Dopo la partenza della polizia e prima del suo ritorno per la perquisizione, Mep Gies tornò alla palazzina per raccogliere quanti più fogli possibili tra quelli che l'agente Silberbauer aveva sparso per la stanza mentre stava cercando una cassetta con il denaro dei prigionieri: questi appunti furono custoditi in un cassetto della sua scrivania della ditta al fine di restituirli ad Anna o a suo padre alla fine della guerra. È possibile che alcuni scritti di Anna — oltre a un diario tenuto dalla sorella Margot, di cui Anna fa menzione — siano andati perduti. Gli otto rifugiati vennero dapprima interrogati dalla Gestapo e tenuti in arresto per la notte. Il 5 agosto vennero trasferiti nella sovraffollata prigione Huis van Bewaring in Weteringschans. Due giorni dopo ci fu un nuovo trasferimento al Campo di concentramento di Westerbork. Dato che erano stati arrestati come delinquenti, erano costretti a compiere i lavori più duri. Le donne - separate dagli uomini - lavoravano nel reparto pile: vivevano nella speranza di rendersi indispensabili nel loro lavoro, evitando così un destino ancora peggiore. Alle loro orecchie arrivavano non solo notizie positive sull'avanzata degli Alleati, ma anche quelle più tetre sui trasporti verso i campi di concentramento in Europa orientale. Secondo alcune testimonianze dei prigionieri di Westerbork, Anna sembrava persa. Dopo un lungo periodo in clandestinità aveva ritrovato la fiducia attraverso la fede. Il 2 settembre, insieme con la sua famiglia e la famiglia van Pels, durante l'appello venne selezionata per il trasporto ad Auschwitz.
Il delatore. Nonostante le ricerche fatte dopo la guerra, la persona (o forse le persone) che avvisarono la Gestapo della presenza di otto persone negli uffici di Prinsengracht non fu mai individuata con certezza. Otto Frank scrisse a Kugler, già negli anni Sessanta, che, in base alle ricerche da lui effettuate, la telefonata alla Gestapo che portò al loro arresto sarebbe stata fatta da una donna la mattina stessa del 4 agosto 1944. L'agente che arrestò gli otto rifugiati, Karl Josef Silberbauer, non seppe o non volle fornire l'identità del delatore, anche se ammise che non era pratica abituale mandare immediatamente una pattuglia subito dopo una delazione anonima, a meno che la denuncia non provenisse da informatori già noti e, pertanto, affidabili. In base alle annotazioni sul diario di Anna e ai sospetti dei dipendenti della ditta, che dopo la guerra ne misero a parte Otto Frank, il delatore fu inizialmente identificato nel magazziniere Willem van Mareen (1895-1971), assunto dalla Opekta nel 1943 per sostituire il padre di Bep Voskuijl, malato di cancro. Emerse che l'uomo, prima di essere assunto dalla Opekta, era stato licenziato dal precedente lavoro con l'accusa di furto. La giovane impiegata Bep Voskuijl affermò che van Mareen le incuteva timore e tanto lei quanto gli altri benefattori ricordarono numerosi comportamenti del magazziniere che apparivano sospetti. In più occasioni, Van Mareen era stato notato aggirarsi all'interno dell'edificio, anche al di fuori del magazzino dove svolgeva la propria attività e, almeno in un caso, avrebbe chiesto al direttore Kugler se un tal Otto Frank avesse precedentemente lavorato per la Opekta, domanda a cui Kugler rispose evasivamente, lasciando intendere che Frank e la famiglia erano riusciti a fuggire clandestinamente in Svizzera e da allora non avevano più dato notizie. Altre volte, van Maaren avrebbe interrogato con curiosità Kleiman chiedendo a chi appartenessero le stanze ubicate ai piani superiori dell'edificio e come mai mancasse un accesso diretto a detti locali. Kugler sorprese spesso van Mareen piazzare quelle che definì "trappole" (farina sul pavimento dove sarebbero rimaste impronte, oggetti in disordine sui tavoli) nei locali della ditta poco prima dell'orario di chiusura dell'ufficio ma, alla richiesta di spiegazioni, si giustificò asserendo che stava solo cercando di smascherare i ladri che avevano ripetutamente saccheggiato i magazzini. Un giorno, inoltre, van Mareen consegnò a Kugler un borsellino vuoto (appartenente a Hermann van Pels) sostenendo di averlo rinvenuto il mattino presto nel magazzino e chiedendogli se fosse suo. Van Pels confidò a Kugler di essersi effettivamente recato in detto locale la notte prima e che in tale occasione il borsellino, contenente una notevole somma di denaro e tagliandi alimentari, doveva essergli scivolato di tasca; tuttavia, quando van Mareen rese l'oggetto al direttore, i soldi mancavano. Dopo l'arresto dei rifugiati, i furti nel magazzino continuarono e in alcune occasioni furono completamente saccheggiate anche riserve di provviste (spezie, conservanti e altro) e denaro prima di allora rimasti nascosti. A detta di Miep Gies, van Mareen si sarebbe vantato di poter fare qualcosa per ottenere il rilascio degli arrestati e la donna rimase ancor più contrariata quando scoprì che la Gestapo aveva incaricato proprio lui di vigilare sulla ditta. Solo dopo la guerra Kleiman riuscì a licenziare van Mareen, avendolo colto in flagranza nell'atto di rubare.
Van Mareen non negò mai esplicitamente di aver rubato merce sul posto di lavoro: deve comunque notarsi che gli ultimi anni dell'occupazione tedesca nei Paesi Bassi furono particolarmente pesanti per la popolazione locale a causa delle requisizioni di viveri e del razionamento anche dei beni di prima necessità, e che quindi episodi di furto e vandalismo non erano affatto rari. L'ex magazziniere comunque negò con forza di aver tradito lui i rifugiati, anche se il suo collega, tal Lammert Hartog, dichiarò che, al massimo due settimane prima dell'irruzione della Gestapo, van Mareen gli avrebbe detto in confidenza che nell'edificio si nascondevano degli ebrei. Van Maaren fu indagato due volte per le sue presunte responsabilità nel tradimento dei rifugiati, la prima volta nel 1948 e quindi nel 1963, ma non emersero mai prove concrete contro di lui. L'ex nazista Silberbauer, all'epoca ancora in vita, dichiarò che il magazziniere non era noto come informatore della Gestapo e negò di conoscerlo. L'uomo si dichiarò estraneo ai fatti, sostenendo che la sua curiosità era dovuta semplicemente al desiderio di allontanare i sospetti di furto dalla sua persona e aggiunse, smentendo il collega Hartog ormai deceduto di non aver mai avuto sospetti sulla presenza di clandestini nell'edificio, pur ammettendo di aver notato "una certa aria di segretezza" ma asserendo che la notizia dell'arresto lo aveva lasciato sconvolto. Emerse, inoltre, che, durante la guerra, l'uomo aveva tenuto nascosto in casa uno dei propri figli, studente universitario, che aveva rifiutato di arruolarsi al seguito degli invasori nazisti; tale circostanza parve deporre a suo favore. Willem van Maaren morì ad Amsterdam il 28 novembre 1971 all'età di 76 anni, professando la propria innocenza fino all'ultimo. La seconda persona sospettata di delazione fu Lena Hartog-van-Bladeren (deceduta nel 1963), che aveva lavorato per diverso tempo come donna delle pulizie e collaboratrice domestica, anche presso gli uffici di Prinsengracht, anche se inspiegabilmente aveva nascosto tale circostanza agli inquirenti. Suo marito Lammert lavorava in magazzino come aiutante di van Maaren e da questi aveva sentito i racconti sulle sue osservazioni, poi raccontate anche alla moglie. Nel mese di luglio 1944, Lena Hartog avrebbe avuto un colloquio con Bep Voskuijl, chiedendole spiegazioni sulla presenza di ebrei che si nascondevano nell'edificio; l'impiegata non ammise alcunché, limitandosi a suggerire alla donna di guardarsi bene dal fare certe affermazioni, considerato il pericolo cui simili chiacchiere potevano esporre tutto il personale della Opekta. Nello stesso periodo, inoltre, Lena Hartog aveva prestato servizio presso una famiglia di conoscenti di Otto Frank e Johannes Kleiman, tali Anne e Petrus Genot, quest'ultimo collega di lavoro del fratello di Kleiman. La Hartog si sarebbe più volte lamentata con Anne Genot del fatto che alcuni ebrei si nascondevano in Prinsengracht e che ciò avrebbe provocato guai a lei e al marito se la circostanza fosse stata di dominio pubblico. Emerse in seguito che, nel vicinato, non pochi abitanti e impiegati di ditte vicine avevano nutrito sospetti sulla presenza dei rifugiati al numero 263, ma in generale era prevalso un atteggiamento di solidarietà, tanto più che in zona si nascondevano anche altri ebrei. I sospetti su Lena vengono rafforzati dalle ricerche da cui Otto Frank scoprì che probabilmente la chiamata alla Gestapo era stata fatta da una donna: ma nemmeno contro di lei si riuscì a trovare alcuna prova.
Nel 1998 la scrittrice Melissa Müller la identificò come responsabile della delazione, ma ritirò l'accusa nel 2003 allorquando la storica britannica Carol Ann Lee confutò tale tesi, supportata dalle ricerche senza esito del Istituto olandese per la documentazione di guerra (Nederlands Instituut voor Oorlogsdocumentatie, NIOD). Nel suo libro The hidden life of Otto Frank (2002) la Lee propose un nuovo nome, quello di Anton Ahlers (1917-2000), un olandese cacciatore di taglie sugli ebrei. All'epoca dell'occupazione nazista tali cacciatori di taglie erano numerosi e si guadagnavano da vivere grazie ai premi riconosciuti a chi permetteva l'arresto di un ebreo. Dalle ricerche della Lee risulterebbe che il potenziale delatore, che lavorava come informatore per Kurt Döring del quartier generale della Gestapo ad Amsterdam, aveva ricattato Otto Frank. Questa tesi tuttavia è dibattuta: il NIOD non la considera veritiera, in quanto sono supposizioni legate esclusivamente a dichiarazioni dello stesso Ahlers (che si vantava di aver svelato il luogo del nascondiglio) e dei suoi famigliari (la moglie Martha smentì il marito, mentre il fratello Cas confermò la versione del tradimento).
Nel 2009 il giornalista olandese Sytze van der Zee nel suo libro Vogelvrij – De jacht op de joodse onderduiker si occupò dell'ipotesi che la traditrice potesse essere stata Ans van Dijk. Nonostante fosse ella stessa ebrea, la Van Dijk consegnava al Bureau Joodsch Zaken ebrei che si erano nascosti e che lei attirava in una trappola, con la promessa di trovare un nuovo rifugio. Secondo van der Zee, Otto Frank sapeva che la delazione era stata opera non solo di una donna, ma di una donna ebrea: per tale motivo avrebbe taciuto per non alimentare ulteriori pregiudizi. Tuttavia van der Zee non fu in grado di risolvere questo enigma: Ans van Dijk fu comunque l'unica donna fra 39 persone a essere giustiziata per reati in tempo di guerra.
Nell'aprile 2015, nei Paesi Bassi uscì un libro (di cui è coautore uno dei figli di Bep Voskuijl, Joop van Wijk), dal titolo "Bep Voskuijl, Het Zwigen Voorbij" (ovvero: Bep Voskuijl, Basta silenzio)" che fornì una nuova versione sulla possibile identità del delatore, da identificarsi in Hendrika Petronella Voskuijl detta Nelly, sorella minore di Bep Voskuijl e a sua volta, per un breve periodo, dipendente della ditta Opekta in qualità di impiegata. Nelly Voskuijl, diversamente dal padre e dalla sorella, non faceva mistero delle proprie simpatie per il nazismo, tanto da essersi anche offerta per il lavoro volontario in Germania; tale ultima circostanza venne annotata dalla stessa Anna - molto legata a Bep Voskuijl, di pochi anni più grande di lei - nel proprio diario.
In altri passi, Anna rilevò che c'erano state tensioni a proposito della sorella di Bep, che avrebbe preteso di essere stabilmente assunta dalla Opekta. Le testimonianze di Diny Voskuijl, sorella superstite di Bep e Nelly (quest'ultima deceduta nel 2001), nonché tal Bertus Hulsman, amico d'infanzia ed ex fidanzato di Bep durante la guerra, raccolte nel libro, indicano frequenti litigi tra Nelly e Bep, durante i quali la prima avrebbe ripetutamente rinfacciato alla sorella di stare nascondendo degli ebrei. Deve inoltre notarsi che le numerose lettere scambiate tra Bep e Otto Frank dopo la guerra sono state fatte sparire tutte dopo la morte di Bep, avvenuta nel maggio 1983, probabilmente per nascondere le responsabilità di parte della famiglia Voskuijl nell'arresto e deportazione di otto persone.
Prigionia e destino dei rifugiati. Il 3 settembre 1944 Anna e gli altri clandestini vennero caricati sull'ultimo treno merci in partenza per Auschwitz, dove giunsero tre giorni dopo. Edith, che già durante la clandestinità aveva manifestato segni di depressione, morì di inedia ad Auschwitz-Birkenau il 6 gennaio 1945, secondo alcune testimoni provata dall'essere stata separata dalle figlie. Hermann Van Pels morì in una camera a gas di Auschwitz il giorno stesso dell'arrivo, secondo la Croce Rossa, o poche settimane più tardi, secondo Otto Frank, a causa di una ferita infetta. Auguste Van Pels passò tra Auschwitz, Bergen-Belsen (dove per qualche tempo riuscì a stare vicina ad Anna e Margot e addirittura a far incontrare Anna con la sua amica Hanneli Goslar, anch'ella internata nel lager), e Buchenwald arrivando a Theresienstadt il 9 aprile 1945. Deportata altrove, non si conosce la data del decesso. Peter Van Pels, pur consigliato da Otto Frank di nascondersi con lui nell'infermeria di Auschwitz durante l'evacuazione, non riuscì a seguirlo e fu aggregato a una Marcia della morte il 16 gennaio 1945 che lo portò da Auschwitz a Mauthausen (Austria), dove morì il 5 maggio seguente, appena tre giorni prima della liberazione. Fritz Pfeffer, a quanto sembra fisicamente e psicologicamente provato, dopo essere passato per i campi di concentramento di Sachsenhausen e Buchenwald, morì nel campo di concentramento di Neuengamme il 20 dicembre 1944.
Margot e Anna passarono un mese ad Auschwitz-Birkenau e vennero poi spedite a Bergen-Belsen, dove morirono di tifo esantematico, prima Margot e alcuni giorni dopo Anna. La data della loro morte non è nota con certezza, era solitamente indicata come avvenuta nel mese di marzo, ma nuove ricerche pubblicate nel 2015 l'hanno retrodatata al febbraio 1945. Una giovane infermiera olandese, Janny Brandes-Brilleslijper, che nel lager aveva stretto amicizia con le due ragazze e assistito alla morte di Anna, seppellì personalmente i cadaveri in una delle fosse comuni del campo e, subito dopo la liberazione, scrisse a Otto Frank comunicandogli la tragica notizia. Kleiman fu liberato per intervento della Croce Rossa un mese dopo l'arresto, il 18 settembre 1944, a causa delle gravi ulcere che lo affliggevano da anni. È morto ad Amsterdam nel 1959, mentre lavorava negli uffici di Prinsengracht, dove aveva ripreso le sue funzioni di procuratore della ditta. Kugler venne deportato in più campi di concentramento, sino al termine della guerra. Riuscì a evadere durante un bombardamento e a fare ritorno a Hilversum, dove la moglie, malata terminale, lo nascose nell'ultimo mese di guerra. Nel dopoguerra, Kugler si risposò e si trasferì in Canada; minato dalla malattia di Alzheimer, morì a Toronto nel 1981. Solo il padre di Anna, tra i clandestini, sopravvisse ai campi di concentramento. Rimase sempre ad Auschwitz; il campo venne poi liberato dall'esercito sovietico il 27 gennaio 1945; il 3 giugno tornò ad Amsterdam dopo tre mesi di viaggio, dove si stabilì presso Miep Gies e il marito Jan, assistendo alla nascita del loro figlio, Paul. Una volta appresa la notizia della morte di Anna e Margot, Miep consegnò a Otto il diario della ragazza, che lei stessa aveva conservato nel proprio ufficio con l'intento di restituirlo solo alla legittima proprietaria. Egli, superato l'iniziale sconforto per la perdita della propria famiglia, mostrò gli scritti della figlia a diversi amici che lo convinsero a darlo alle stampe. Otto stesso, in sede di revisione del manoscritto, ne modificò la grammatica e la sintassi, omettendo alcune parti perché considerate troppo private e poco rispettose dei compagni di sventura, in modo da renderlo adatto per la pubblicazione. Il diario venne pubblicato nel 1947 con il titolo di Het Achterhuis ("Il retrocasa" in olandese). Otto, che nel frattempo si era risposato con una superstite di Auschwitz, la viennese Elfriede Markovits, madre di un'amica di scuola di Anna, morì di cancro ai polmoni a Basilea, in Svizzera, dove si era stabilito da tempo, il 19 agosto 1980, all’età di 91 anni.
Il Diario di Anna Frank. Il diario ha inizio come una espressione privata dei pensieri intimi dell'autrice, la quale manifesta l'intenzione di non permettere mai che altri ne prendano visione. Anna racconta della propria vita, della propria famiglia e dei propri amici, del suo innamoramento per Peter nonché della sua precoce vocazione a diventare scrittrice. Il diario manifesta la rapidissima maturazione morale e umana dell'autrice e contiene anche considerazioni di carattere storico e sociale sulla guerra, sulle vicende del popolo ebraico e sulla persecuzione antisemita, sul ruolo della donna nella società. Durante l'inverno del 1944, ad Anna capitò di ascoltare una trasmissione radio di Gerrit Bolkestein — membro del governo olandese in esilio — il quale diceva che, una volta terminato il conflitto, avrebbe creato un registro pubblico delle oppressioni sofferte dalla popolazione del Paese sotto l'occupazione nazista; il ministro menzionò la pubblicazione di lettere e diari, cosa che spinse Anna a riscrivere sotto altra forma, e con diversa prospettiva, il proprio.
Esistono quindi due versioni autografe del diario:
la versione A, la prima redazione originale di Anna, che va dal 12 giugno 1942 al 1 agosto 1944, della quale non è stato ritrovato il quaderno (o i quaderni) che copriva il periodo 6 dicembre 1942 - 21 dicembre 1943;
la versione B, la seconda redazione di Anna, su fogli volanti, in vista della pubblicazione, che copre il periodo 20 giugno 1942 - 29 marzo 1944.
Il testo su cui si basò la prima edizione del 1947 (versione C) fu compilato da Otto Frank basandosi principalmente sulla versione B, apportando modifiche e cancellazioni e aggiungendo quattro episodi tratti da un altro autografo di Anna, i Racconti dell'alloggio segreto. L'edizione critica del diario, pubblicata nel 1986, compara queste tre versioni.
La casa dove Anna e la famiglia si nascondevano è ora un museo. Si trova al 263 di Prinsengracht, nel centro della città, raggiungibile a piedi dalla stazione centrale, dal palazzo reale e dal Dam. Nel 1956 il diario venne adattato in un'opera teatrale che vinse il Premio Pulitzer, nel 1959 ne venne tratto un film, nel 1997 ne fu tratta un'opera di Broadway con materiale aggiunto dal diario originale.
Non solo Anna Frank: diari di bambine dall’Olocausto. Annalisa Lo Monaco su vanillamagazine.it. Anna Frank e il suo Diario – commovente racconto della vita di una bambina come tante altre, costretta alla clandestinità dal delirio nazista – devono rimanere come punto fermo nella memoria di tutti per non dimenticare l’orrore dell’olocausto. Rutka Laskier, Renia Spiegel, Eva Heyman, sono i nomi di ragazze meno conosciute, eppure anche a loro, come ad Anna Frank, fu sottratta l’infanzia e l’adolescenza, e ne scrissero in diari personali che sono ugualmente una testimonianza della vita quotidiana di chi continuava, nonostante tutto, a credere in un futuro.
Rutka Laskier. Rutka Laskier inizia a scrivere il suo diario a 14 anni. E’ stata rinchiusa, insieme alla famiglia, nel ghetto della città polacca di Będzin fin dall’inizio della guerra, ma solo nel gennaio del 1943 inizia a tenere un diario. Scrive delle sue giornate, delle amicizie, delle prime cotte da adolescente, e dell’orrore dell’occupazione nazista. E’ breve il suo racconto, perché dopo tre mesi viene deportata ad Auschwitz, dove muore. Il suo diario è stato conservato per oltre sessant’anni da un amico sopravvissuto, che lo ha reso pubblico nel 2005. Bastano poche parole per capire l’angoscia che opprimeva questa bambina: Se solo potessi dire, è finita, muori una volta sola… Ma non posso, perché nonostante tutte queste atrocità, voglio vivere, e aspettare il giorno dopo.
Renia Spiegel. Sette quaderni di scuola cuciti insieme: il diario di Renia. In quasi 700 pagine la ragazza racconta gli ultimi quattro anni della sua vita, tra i 15 e i 18 anni. Parla quindi di argomenti “normali” per un adolescente: la scuola, le amicizie, il primo bacio con il fidanzato, ma anche di cose troppo difficili da sopportare, come vivere da ebrea nella Polonia occupata dai nazisti e del trasferimento nel ghetto di Przemyśl, nel 1942. Ricorda questo giorno; ricordalo bene, un giorno racconterai alle generazioni che verranno. Oggi alle 8 siamo stati chiusi nel ghetto. Vivo qui adesso; il mondo è separato da me e io sono separata dal mondo. Renia e sua sorella Ariana vivono con i nonni per alcune settimane nel ghetto, finché il suo fidanzato, Zygmunt Schwarzer, che può uscire grazie a un permesso di lavoro, nasconde la ragazza e i propri genitori nella soffitta della casa di un suo zio. Il nascondiglio viene scoperto grazie a un informatore dei nazisti, e Renia, insieme ai genitori di Zygmunt, sono fucilati per strada. Il ragazzo scrive le parole conclusive del diario: “Tre colpi! Tre vite perse! E’ successo ieri sera alle 22.30. Il destino ha deciso di portarmi via i miei cari. La mia vita è finita. Tutto ciò che sento sono colpi, colpi… Mia cara Renusia, l’ultimo capitolo del tuo diario è completo.”
Zygmunt, nonostante tutto, sopravvive ad Auschwitz e Bergen-Belsen, e dopo molti anni, quando ormai si è stabilito negli Stati Uniti, consegna il diario alla madre di Renia, scampata allo sterminio insieme alla figlia più piccola. Il diario è stato stampato in polacco nel 2016, e uscito in inglese lo scorso 19 settembre.
Eva Heyman. Era spaventata Eva, molto spaventata e consapevole del terribile destino cui andava incontro: “Mio piccolo Diario, io non voglio morire, voglio vivere anche se di tutto il distretto rimanessi soltanto io. Aspetterei la fine della guerra in una cantina o in una soffitta, o in un buco qualsiasi; mio piccolo Diario io mi lascerei baciare dal gendarme dagli occhi storti che ci ha portato via la farina, basta che non mi uccidano, che mi lascino vivere!” Sono le ultime parole del Diario di una bambina di soli tredici anni, scritte il 30 maggio del 1944. A una settimana di distanza i nazisti prelevano lei e i suoi nonni per deportarli ad Auschwitz, dove moriranno. Eva inizia a scrivere il suo diario nel giorno del suo tredicesimo compleanno, il 13 febbraio del 1944, forse l’ultimo piacevole evento di una vita ancora “normale”, all’interno di una famiglia agiata, anche se divisa: a Nagyvárad (oggi è Oradea, in Romania, ma allora era in territorio ungherese) vive con i nonni perché i genitori si sono separati. Nel giro di poche settimane tutto cambia: i rastrellamenti, il ghetto, e la deportazione della sua migliore amica, Marta, che la mette di fronte a quello che sarà il suo probabile destino, al quale però non vuole rassegnarsi: “Io voglio vivere a tutti i costi”. La madre, Ágnes Zsolt, definita da Eva “più bella di Greta Garbo” vive a Parigi con il secondo marito, ma torna a Budapest quando i nazisti invadono la Polonia, perché in ansia per la sorte della figlia. Viene internata nel campo di Bergen-Belsen, e riesce a salvarsi. Alla fine della guerra qualcuno le racconta che la figlia è stata mandata alla camera a gas da Josef Mengele – il dottor Morte – in persona: Ora guardati rana, i tuoi piedi sono sporchi, puzzolenti di pus! Sali sul camion! Le struggenti memorie della bambina vengono consegnate alla madre da una donna che era a servizio nella casa di Eva. Ágnes fa pubblicare il diario nel 1947, e continua a vivere con chissà quanto dolore dentro, fino al 1951, quando di suicida.
Ma ci sono altre terribili testimonianze, come quella di Tanya Savicheva, incredibilmente breve quanto potente. E si possono citare Hélène Berr, ebrea francese morta a Bergen-Belsen pochi giorni prima della liberazione, che per due anni tiene un diario dove racconta la vita a Parigi durante l’occupazione nazista; e ancora Ruth Maier, Philip Slier, Rywka Lipszyc, Miriam Wattemberg (unica sopravvissuta), Peter Ginz: tutti ragazzi e ragazze che hanno lasciato una struggente testimonianza di come sia comunque possibile vivere anche quando tutto il mondo intorno precipita nella follia. Non sono sopravvissuti, ma hanno lasciato qualcosa d’importante: La memoria, unica arma per non ricadere nuovamente nell’orrore…
“Il diario di Renia” settant’anni dopo l’Olocausto. Usa, l’Anna Frank polacca racconta l’orrore. Il Dubbio il 14 Settembre 2019. “Guardi, vedo sangue, morte, assassinii. Dio onnipotente, aiutaci. A volte penso, domani potremmo non esserci più, una fredda lama d’acciaio potrebbe separarci, ma oggi c’è ancora tempo per vivere. Domani il sole potrebbe eclissarsi». Così scriveva il 7 giugno 1942, un mese prima di essere uccisa dai nazisti, una ragazza di appena 18 anni, Renia Spiegel, nel diario segreto di quella che è già considerata la Anna Frank polacca. Per quasi settant’anni il suo drammatico resoconto giornaliero sull’Olocausto è rimasto custodito nel caveau di una banca di New York. Dopo la sua morte, la madre e la sorella, rifugiate negli Usa, non avevano avuto la forza di leggere il diario e l’avevano depositato in banca. Nel 2012 una nipote l’ha fatto tradurre in inglese. Adesso Penguin Books lo pubblica con il titolo Reniàs Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust. La cronaca, di quasi 700 pagine, va dal gennaio ’ 39, quando la ragazza aveva 15 anni, al luglio ’ 42, quando venne uccisa, e raccoglie episodi, pensieri, anche brevi poesie della giovane autrice.
Renia Spiegel, sarà pubblicato il diario della «Anne Frank polacca». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Ha solo 18 anni Renia Spiegel quando viene uccisa dai nazisti a colpi d’arma da fuoco, il 31 luglio 1942, scoperta da un soldato tedesco nel suo nascondiglio nella cittadina di Przemyśl, sud-est della Polonia. Ora viene pubblicato il diario segreto della giovane ebrea polacca, nascosto per 70 anni nel caveau di una banca di New York per volontà della famiglia superstite all’Olocausto (la madre e la sorella) e rifugiata negli Usa. Qui avevano deciso di conservarlo senza nemmeno leggerlo per non dover affrontare il dolore della Shoah attraverso le parole della ragazza. Finché nel 2012 la nipote Alexandra Renata Bellak (figlia della sorella minore di Renia) traduce in inglese le memorie della giovane già ribattezzata «l’Anne Frank polacca». Il diario (in Polonia pubblicato nel 2016 e anche al centro di un adattamento teatrale), ora esce con il titolo di Reniàs Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust («Il diario di Renia: la vita di una giovane donna all’ombra dell’Olocausto», traduzione di Anna Blasiak e Marta Dziurosz). In Gran Bretagna va in libreria il 19 settembre, edito da Ebury Publishing e distribuito da Penguin Books. In America arriva invece il 24 settembre (St. Martin’s Press edizioni). L’opera è diventata anche un documentario diretto da Tomasz Magierski e intitolato Broken Dreams («Sogni spezzati»). La cronaca del diario (quasi 700 pagine), narra gli episodi che coinvolgono la ragazza tra il gennaio 1939 (quando Renia aveva 15 anni) e il luglio 1942 (fino a poche ore prima della morte), e raccoglie eventi (la quotidianità prima dell’invasione, i bombardamenti, la vita privata, la scomparsa delle famiglie ebree dal ghetto, il primo bacio al ragazzo amato, Zygmunt Schwarzer, poche ore prima di morire), pensieri e brevi poesie («Guardi, vedo sangue, morte, assassinii. Dio onnipotente, aiutaci. A volte penso, domani potremmo non esserci più, una fredda lama d’acciaio potrebbe separarci, ma oggi c’è ancora tempo per vivere. Domani il sole potrebbe eclissarsi», scriveva un mese prima di morire, il 7 giugno 1942). Durante la guerra, la madre viene trasferita a Varsavia per lavorare in un albergo, data la sua conoscenza del tedesco. Renia e la sorella minore restano con i nonni a Przemyśl, cittadina composta quasi solo da famiglie ebree, che con l’arrivo dei tedeschi si trasforma in un grande ghetto. Il diario viene recuperato da Zygmunt (che lo porterà a termine), l’uomo di cui la ragazza era innamorata e che riesce a salvare la sorella minore. Deportato ad Auschwitz, e sopravvissuto, il giovane tiene con sé il volume che consegnerà negli anni Cinquanta alla madre e alla sorella di Renia.
Diario di Renia, la storia di una nuova Anna Frank. Chiara Pizzimenti il 15 settembre 2019 su Vanity fair. Viene pubblicato integralmente il diario di una ragazza polacca rimasto negli archivi per più di 70 anni. Renia è morta nel 1942, uccisa dagli invasori tedeschi. La sorella non ha mai avuto la forza e il coraggio di leggere il diario di Renia Spiegel. Troppo dolore nella storia della 18enne uccisa in Polonia nel 1942. Ora questo diario rimasto per più di settant’anni lontano dal mondo verrà pubblicato, in inglese, per la prima volta con il titolo Renia’s Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust, Il diario di Renia: la vita di una giovane donna all’ombra dell’Olocausto. La figlia di Elizabeth Ariana Bellak, 88 anni, ha autorizzato la pubblicazione di quanto scritto dalla sorella maggiore negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Negli Stati Uniti, dove la donna vive, e in Inghilterra è stata definita l’«Anna Frank polacca». Come la giovane che ha vissuto nascosta ad Amsterdam, Renia Spiegel era un’adolescente quando ha cominciato a scrivere. Aveva 15 anni e bisogno di condividere i propri pensieri e sentimenti. «È successo qualcosa di importante? No! Voglio solo un amico». La prima pagina è del gennaio 1939, quando la guerra non era ancora cominciata. La famiglia viveva nel Sud della Polonia. Renia appassionata di poesia aveva già vinto premi letterari. Con la guerra il trasferimento a Varsavia della madre che parlava tedesco e lavorava in un albergo. Renia e Ariana restarono con i nonni a Przemysl, città di 70 mila abitanti, quasi la metà ebrei, nella parte di territorio controllata dai russi. Con l’arrivo dei tedeschi il precipitare della situazione e la chiusura nel ghetto. Renia racconta la vita prima dell’invasione, i bombardamenti, la situazione di tutti e la vita privata, il primo bacio con l’uomo che riuscirà a salvare la sorella, ma non lei. Reina Spiegel è morta assassinata il 31 luglio del 1942. Pochi giorni prima aveva scritto: «C’è sangue ovunque io mi giri. Lo sterminio è terribile. Ovunque morte e uccisioni. Dio onnipotente, per l’ennesima volta ci umiliano davanti a te, aiutaci, salvaci! Signore Dio, lasciaci vivere, ti prego, voglio vivere! Ho vissuto così poco della vita. Non voglio morire. Ho paura della morte. È tutto così stupido, così meschino, così poco importante, così piccolo. Domani potrei smettere di pensare per sempre». L’ultima parte del diario è è scritto dal suo amato Zygmunt che lo ha nascosto. Deportato ad Auschwitz è sopravvissuto e ha portato il diario alla madre e alla sorella di Renia negli anni Cinquanta negli Usa. Per loro, a pochi anni dall’Olocausto, era devastante leggerlo e lo hanno messo in una cassetta di sicurezza. La figlia di Elizabeth lo ha fatto tradurre dal polacco e ora lo fa pubblicare.
Il terrore, il ghetto, la guerra: i diari di Reina uccisa dai nazisti. Reina Spiegel abitava a Przemysl, città della Polonia del sud. Nata nel 1924 ha iniziato a scrivere le sue pagine nel '39. E' morta assassinata il 31 luglio del 1942. La Repubblica il 21 marzo 2019.
31 GENNAIO 1939. “Perché ho deciso di iniziare un diario? Voglio solo un amico, qualcuno con cui poter parlare delle mie preoccupazioni e delle mie gioie quotidiane. Qualcuno che proverà ciò che provo io, che crederà in ciò che dico e non rivelerà mai i miei segreti”.
11 FEBBRAIO 1939. “Oggi piove. Nei giorni di pioggia sto vicino alla finestra e conto le lacrime che scendono dal vetro della finestra. Scivolano tutte, come se volessero cadere sulla strada bagnata e fangosa, come se volessero renderla ancora più sporca, come se volessero rendere brutta questa giornata, ancora più brutta di quanto non sia già”.
6 SETTEMBRE 1939. “È scoppiata la guerra! Gli aerei nemici continuano a sorvolare Przemysl, si sentono le sirene antincendio, ma grazie a Dio, nessuna bomba è caduta finora sulla nostra città”.
10 SETTEMBRE 1939. “Oh Dio! Mio Dio! Stiamo scappando da tre giorni, Przemysl è stata attaccata. Abbiamo dovuto fuggire, tutti e tre: io, Ariana e il nonno. Abbiamo lasciato la città in fiamme nel bel mezzo della notte a piedi”.
28 SETTEMBRE 1939. “Dove è la mamma? Cosa le è successo? Dio! Hai ascoltato la mia preghiera e non c’è più nessuna guerra (o almeno non riesco a vederla). Per favore, ascolta anche la prima parte della mia preghiera e proteggi la mamma dal male”.
Ecco i diari inediti di Renia, l'Anna Frank polacca. L'invasione, la fuga, il terrore, il ghetto, la clandestinità. Fino alla morte per mano dei nazisti, nel 1942. In due anni ha scritto centinaia di pagine. Che oggi la sorella ha deciso di pubblicare. Robero Flores D'Arcais il 21 marzo 2019 su La Repubblica. Mia sorella era una persona meravigliosa, si prendeva cura di me, mi fece da piccola mamma quando vivevamo nascoste. Poi ci hanno divise, i nostri destini si sono separati, lei è stata assassinata dai nazisti, io mi sono salvata. No, il suo diario non ho mai avuto la forza e il coraggio di leggerlo». Elizabeth Ariana Bellak ha 88 anni, seduta su un divano del National Arts di Gramercy Park (uno dei più vecchi club di New York), trattiene a stento le lacrime. Si commuove più volte raccontando e ricordando Renia, la sorella morta tragicamente nell’Olocausto, con cui ha vissuto gli anni più duri della guerra e della ferocia nazista. Non l’ha mai dimenticata. E adesso il diario di Renia, nascosto e scomparso nella Polonia del 1942, ricomparso un po’ misteriosamente a New York negli anni Cinquanta, tenuto in soffitta per decenni, vedrà finalmente la pubblicazione. I media americani l’hanno ribattezzata - non a torto - l’“Anna Frank polacca”, il prestigioso Smithsonian Institute le ha dedicato un convegno e ha pubblicato alcuni estratti dei suoi scritti, in primavera verrà ricordata con una cerimonia alle Nazioni Unite. E a metà settembre il diario verrà stampato in edizione integrale da una delle maggiori case editrici Usa (St.Martin’s Press), con i diritti già venduti in molti paesi europei (quelli dell’Est, Gran Bretagna, Germania, Scandinavia, Italia al momento assente) e del resto del mondo. Anna Frajilich, scrittrice e docente di letteratura alla Columbia University lo ha definito «un incredibile documento storico e psicologico, un’autentica conquista letteraria, una grande scoperta». Renia Spiegel aveva 15 anni quando iniziò ad affidare a un quaderno i suoi pensieri. «Perché ho deciso di iniziare un diario? È successo qualcosa di importante? No! Voglio solo un amico». Era il 31 gennaio 1939, la guerra era ancora lontana, lei e la sorella Ariana di sei anni più piccola (che si cambiò solo in seguito il nome in Elizabeth) stavano vivendo una vita felice, in una bella casa ai confini con la Romania. Una famiglia benestante quella degli Spiegel: il padre Bernard proprietario di terreni, la madre Rose un’affascinante donna, colta e poliglotta, Renia appassionata di poesia e già vincitrice, appena adolescente, di premi letterari, la piccola Ariana lanciata nel mondo dello spettacolo, protagonista in teatro e al cinema, nota alle cronache del tempo come la “Shirley Temple della Polonia”. Anni spensierati che ben presto lasciarono il passo alla tragedia. Con l’inizio della guerra, l’avanzata delle truppe naziste e il famigerato patto tra il Reich di Hitler e la Russia di Stalin che spaccò in due la Polonia occupata, la famiglia Spiegel venne travolta dagli eventi. Il padre se ne era già andato («non ne abbiamo più saputo niente, ho capito solo leggendo un passo del diario che i miei erano già separati», ricorda Elizabeth), la madre, grazie alla perfetta padronanza del tedesco e alle sue conoscenze, aveva trovato lavoro all’Hotel Europa di Varsavia (dove alloggiavano 300 ufficiali della Wehrmacht), Renia e Ariana si ritrovarono, senza genitori e affidate ai nonni materni, nella cittadina di Przemysl, circa 70 mila abitanti di cui più di un terzo di religione ebraica. «Io e mia sorella vivevamo nella parte controllata dai russi, a ridosso di quello che chiamavamo il “fiume dei fucili”, tedeschi armati da una parte, russi armati sull’altra riva. Papà non esisteva più, di mamma non sapevamo nulla, chi voleva incontrare i propri familiari nella parte occupata dai tedeschi doveva pagare. Solo una volta - la guerra era iniziata da poco - riuscimmo ad incontrare nostra madre». I ricordi di Elizabeth (Ariana) si intrecciano con le testimonianze di Renia - impresse con bella calligrafia, una notevole scrittura e molti disegni - nelle pagine di quello che è qualcosa di più di un semplice diario scritto da un’adolescente. La scrittura è per lei essenza di vita. Dalle commoventi poesie pubblicate sul giornale scolastico a quelle più lunghe, elaborate ed impegnate che raccoglie in un opuscolo illustrato a mano ed elegantemente rilegato («è l’unico suo ricordo che mia madre ed io abbiamo portato con noi in America») fino al diario. Un lungo racconto (sono quasi settecento pagine manoscritte) della sua terribile solitudine in una Polonia lacerata dalla guerra, della vita di tutti i giorni durante le occupazioni armate (prima sovietica e poi tedesca), le fughe, le paure, il terrore, il ghetto, le violenze naziste, le insopportabili umiliazioni. E del suo primo bacio, il 20 giugno 1941, quando i tedeschi stavano lanciando l’Operazione Barbarossa e l’invasione dell’Urss: «Renia dammi un bacio… e prima ancora di rendermi conto di quanto stava accadendo Zygo mi baciò». Il primo amore ed anche le emozioni di un’adolescente che diventa donna, le infatuazioni, le invidie, i pettegolezzi, le annotazioni di una vita privata in un mondo completamente impazzito.
Zygo è Zygmunt Schwarzer, è più grande di lei, un uomo fatto, uno dei tanti giovani ebrei che nella Przemysl del 1942 sono costretti a lavorare per i nazisti. Questo gli permette però di poter uscire dal ghetto, di avere contatti con l’esterno e con quel poco di resistenza clandestina che ancora sopravvive. È grazie a lui che Ariana sopravvive all’Olocausto. Per salvare le due sorelle Zygo sa che deve dividerle, Ariana viene affidata ad un uomo fidato («aveva una cinquantina d’anni, mi ha fatto passare per sua figlia, è stato un viaggio difficile, ho avuto paura, ho vissuto alcuni momenti di terrore, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, mi ha portato a Varsavia»), ritrova la mamma, vive nascosta prima con una famiglia cattolica («mi battezzarono, da allora presi il nome di Elizabeth, andavo tutti i giorni in chiesa») e poi insieme alla madre nell’Hotel Europa. E fu grazie a un coraggioso ufficiale tedesco («un uomo buono, che ha rischiato la vita per noi») che madre e figlia riusciranno poi a rifugiarsi in Austria fino alla fine della guerra. E di lì ad iniziare la nuova vita che le avrebbe portate nel 1946 in America. Zygmunt fa di tutto per salvare Renia, la ama profondamente come lei ama lui. Si nascondono insieme nel cimitero della città, ma il rifugio non è sicuro. Alla fine ne trova uno migliore, un attico di proprietà di suo zio che fa parte del Judenrat (il consiglio ebraico a cui i nazisti affidano la gestione della comunità) e che per questo può vivere fuori dal ghetto. È in quella casa al numero 10 della via Moniuszki che Renia, tra il giugno e il luglio 1942, affida al diario il suo crescendo di paure e di terrore: «Ovunque guardo vedo solo spargimento di sangue… Ci sono solo assassinii e morti, Dio ti prego salvaci!… Voglio vivere, mio caro Dio, aiutaci… L’intera città è in pericolo, ma ho ancora fede….». L’ultimo scritto di suo pugno è del 25 luglio: «Mamma non hai idea di quanto è terribile… sono orribilmente terrorizzata… mio caro diario, mio buono e amato amico, è arrivato il momento peggiore…». Da quel giorno Renia non scriverà più: anche l’attico di via Moniuszki non è sicuro, i nazisti danno il via alla “Aktion”, la deportazione in massa di tutti gli ebrei che vivono a Przemysl. Una deportazione che diventa ben presto sterminio. I quaderni di Renia restano in mano a Zygmunt ed è lui a scrivere dal 27 al 31 luglio le ultime annotazioni del diario: «È finita! Prima di tutto, caro diario, ti prego perdonami per essere entrato nelle tue pagine e aver cercato di portare avanti il lavoro di qualcuno di cui non sono degno. Lascia che ti dica che Renuska non ha ottenuto il permesso di lavoro di cui aveva bisogno per evitare di essere deportata, quindi deve restare nascosta… I miei genitori sono stati fortunati a entrare in città, si stanno nascondendo al cimitero. Renia ha dovuto lasciare la fabbrica, devo trovarle un nascondiglio ad ogni costo… L’Aktion è stata rimandata a causa di una disputa tra l’esercito e la Gestapo. Sto cercando di salvare tutti quelli che posso, sono riuscito a portare Ariana dall’altra parte. Ho deciso di rischiare il mio documento, pensavo che fosse la mia ultima possibilità di salvare Renuska. Oh mio Dio che orrore! Volevo salvare i miei genitori e Renia ma ho cacciato me stesso in guai ancora peggiori». Poi l’ultimo disperato messaggio affidato al diario: «Tre spari! Tre vite perse! È successo la notte scorsa, erano le 10 e 30. Il destino ha deciso di portarmi via le persone più care. La mia vita è finita. Tutto quello che riesco a sentire sono i colpi, gli spari...Mia carissima Renusia, l’ultimo capitolo del tuo diario è completo». Renia e i genitori di Zygmunt vengono assassinati dai nazisti nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1942. Lui riesce a fuggire, nasconde i quaderni che formano il diario da qualche parte, dove nessuno lo saprà mai con certezza. Sarà catturato, finirà in diversi lager, l’ultimo Auschwitz, ma riuscirà a sopravvivere. All’inizio dell’anno 1950, Ariana ormai diventata Elizabeth, vive con la madre a New York. Ed è lì che un giorno appare Zygmunt con il diario di Renia. «Mia madre era emotivamente sconvolta, noi eravamo le due sopravvissute, io ero giovane e volevo dimenticare». Per questo il diario rimane chiuso in un cassetto per così tanti anni. Sono la figlia di Ariana/Elizabeth, Alexandra Bellak e il regista di documentari polacco-americano Tomasz Magierski a far sì che il diario diventi patrimonio pubblico: «Ho saputo della sua esistenza quando ero adolescente, ma non me ne sono interessata», racconta Alexandra. «Solo quando ero al college ho voluto indagare sul passato della mia famiglia e ho capito l’importanza che poteva avere. Non parlo polacco quindi l’ho fatto tradurre. La prima traduzione non era molto bella ma si capiva comunque che aveva un grande valore non solo storico ma anche letterario, con quelle sue bellissime 60 poesie che ne fanno parte». Tomasz viene coinvolto nel progetto nel 2014: «Al consolato polacco di New York fu proiettato un mio documentario e dopo la proiezione un’elegante signora mi si avvicinò per chiedermi se volevo leggere il diario di sua sorella, scritto durante l’occupazione nazista. Aggiunse anche che lei stessa era un’attrice teatrale prima della guerra ed era chiamata la “Shirley Temple polacca”. Ero curioso, così ho incontrato Ariana e sua figlia Alexandra, che ha creduto molto nel valore storico e letterario del diario di Renia. È un testo commovente, che ha toccato il mio cuore. Insieme abbiamo creato la Fondazione Renia Spiegel e io, come regista, ho iniziato a lavorare su un documentario sulle sorelle Spiegel, una storia straordinaria e completamente sconosciuta. Abbiamo girato in Polonia e New York, il film sarà finito a maggio».
· Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra.
Diritti umani in tempo di guerra, i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Fausta Chiesa su Corriere.it. Era il 12 agosto 1949, esattamente 70 anni fa. L’Europa era uscita da quattro anni dalla guerra più terribile, che aveva fatto più di 50 milioni di morti. Quel giorno, in una conferenza diplomatica a Ginevra, fu messo nero su bianco il diritto internazionale umanitario che tuttora vige, un insieme di regole che pone limiti all’uso della forza e stabilisce standard minimi da rispettare in tutte le situazioni di conflitto armato (non soltanto alle guerre tra Stati) allo scopo di proteggere le persone che non prendono (più) parte alle ostilità, come feriti, malati, naufraghi delle forze armate e prigionieri di guerra. Le Convenzioni di Ginevra sono quattro: I Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate in campagna; II Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare; III Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra e IV Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Tante le ong e le associazioni che hanno ricordato l’anniversario. Dalla Croce Rossa Internazionale ad Amnesty. Oggi a Solferino (Mantova) - dove nel 1959 si svolse una battaglia sanguinosissima fra l’esercito austriaco e quello francese che poi portò alla nascita del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) - presso il Memoriale della Croce Rossa, si tiene una cerimonia in ricordo di quello che fu - si legge nel comunicato - «un importantissimo cambiamento per le sorti dell’Umanità. Con questa firma, sono state sancite per diritto maggiori garanzie e tutele in caso di conflitto internazionale». Secondo Amnesty, negli ultimi anni è stato documentato il disprezzo per la protezione dei civili e il rispetto del diritto internazionale umanitario in conflitti in cui erano e sono coinvolti quattro dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza: Russia, Usa, Regno Unito e Francia. Il quinto, la Cina, sta attivamente coprendo i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e forse anche il genocidio che chiamano in causa il vicino Myanmar. Tra gli altri casi citati la Siria, la Somalia, Gaza, il Sud Sudan. «Vent’anni dopo l’impegno del Consiglio di sicurezza a fare il massimo per proteggere i civili nei conflitti armati e 70 anni dopo che le Convenzioni di Ginevra cercarono di tutelare le popolazioni civili dalle atrocità della Seconda guerra mondiale, il quadro complessivo è incredibilmente tetro», ha dichiarato Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International. «Nel 2018 - ha aggiunto - l’Agenzia Onu per i rifugiati ha denunciato la cifra record di 68,5 milioni di persone costrette a vivere fuori dalle loro terre a causa dei conflitti armati e di altre forme di violenza». Il Cicr nel 2016 ha indagato l’opinione della popolazione. Due terzi dei partecipanti pensa che porre limiti alla guerra è ragionevole e che la violenza nei confronti dei servizi sanitari è inaccettabile: un’ampia maggioranza degli intervistati, infatti, disapprova nettamente gli attacchi a ospedali, ambulanze e personale medico. Un’analisi effettuata tra il 2011 e il 2019 ha dimostrato che oggi gli Stati hanno più difficoltà ad accordarsi su nuove leggi per disciplinare i conflitti armati e a verificare il rispetto di quelle in vigore. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: le norme esistenti vanno preservate. Continuiamo quindi a batterci a favore di questa recente conquista dell’umanità: il diritto internazionale umanitario. Anche Papa Francesco nell’Angelus di ieri le ha ricordate e ha colto l’occasione per lanciare un monito sulle guerre, tra le principali cause delle ondate migratorie recenti. Questi «importanti strumenti giuridici internazionali», ha sottolineato Bergoglio, «impongono limiti all’uso della forza e sono volti alla protezione di civili e prigionieri in tempo di guerra. Possa questa ricorrenza rendere gli Stati sempre più consapevoli della necessità imprescindibile di tutelare la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati. Tutti sono tenuti a osservare i limiti imposti dal diritto internazionale umanitario, proteggendo le popolazioni inermi e le strutture civili, specialmente ospedali, scuole, luoghi di culto, campi profughi. Perché la guerra e il terrorismo, è il richiamo, «sono sempre una grave perdita per l’intera umanità. Sono la grande sconfitta umana».
· Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri.
Bellolampo: 70 anni fa la strage dei Carabinieri. L'agguato degli uomini di Salvatore Giuliano costò la vita a 7 uomini dell'Arma. Diede origine al Comando Forze Repressione Banditismo di Ugo Luca e di un giovane Dalla Chiesa. Edoardo Frittoli il 20 agosto 2019 su Panorama. E' la sera del 19 agosto 1949. siamo a poca distanza da Portella della Ginestra, luogo del massacro compiuto dal bandito siciliano Salvatore Giuliano soltanto due anni prima. Sulla strada polverosa che dal Passo di Rigano, una località presso l'aeroporto palermitano di Boccadifalco porta alle alture della Conca d'Oro, un autocarro militare giace rovesciato e sventrato da una violenta esplosione. Sono le 21:30 circa quando una mina controcarro fa saltare il mezzo pesante a 12 metri dalla provinciale, portandosi via la vita di sei Carabinieri. Un settimo morirà poche ore dopo per le gravissime ferite riportate. L'intervento degli uomini del 12° Battaglione Mobileera scattato dopo che un gruppo di banditi aveva assalito con colpi di fucile e bombe a mano la vicina caserma di Bellolampo, un'azione diversiva per attirare rinforzi dal capoluogo siciliano. La strage fu organizzata da Giuliano e dai suoi uomini come atto per ribadire la propria forza nella lotta contro lo Stato Italiano, oltre che per ritorsione a seguito degli arresti dei mesi precedenti, sopra tutti la cattura del braccio destro Salvatore Candela. Nei giorni successivi all'attentato gli inquirenti rinvennero a poca distanza dal luogo dell'esplosione alcune tracce della presenza dei banditi: nascosti dalla macchia, i Carabinieri trovarono bottiglie di birra vuote, resti di cibo e carte da gioco: segno che la banda di Giuliano aveva orchestrato l'attentato con estrema calma, ed aveva azionato il detonatore della mina giusto sotto le ruote dell'ultimo mezzo militare, in tal modo da garantirsi la fuga in quanto tutti gli occupanti degli altri camion si fermarono a prestare soccorso. Da Palermo giunsero i vertici della Forze dell'Ordine, con ulteriori rinforzi. Quando furono nei pressi di Bellolampo furono anch'essi attaccati dagli stessi banditi che si ripresentarono senza timore sulla scena della strage consumata poco prima. Soltanto per un caso non vi furono ulteriori vittime, ma la Fiat 1100 e la Lancia Astura su cui viaggiavano il Maggiore di Polizia Iodice ed il Capitano Giglio tornarono a Palermo su carri attrezzi dopo essere state fatte oggetto del lancio di bombe a mano. La strage di Bellolampo, che si portò via le giovani vite dei Carabinieri Pasquale Marcone, Armando Loddo, Gianbattista Aloe, Gabriele Palandrani, Sergio Mancini, Antonio Pubusa e Ilario Russoscatenò la reazione delle Istituzioni a causa dei continui successi nella guerriglia personale del separatista Giuliano e della sua capacità di presa sulla popolazione rurale dell'entroterra siciliano. Fu dall'azione del 19 agosto 1949 che nacque il primo nucleo della Forze dell'Ordine dedicato esclusivamente alla lotta al fenomeno del banditismo, il cosiddetto "Comando Forze Repressione Banditismo" organizzato e diretto dall'Arma dei Carabinieri. Costituito da una forza di 2.000 uomini tra Carabinieri e Polizia, fu posto agli ordini del Colonnello del Servizio Informazioni militare Ugo Luca, con il quale collaborò il giovane Capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il CFRB scatenò la propria forza nei mesi successivi alla strage di Bellolampo, eseguendo centinaia di azioni e di rastrellamenti. Il 27 gennaio 1950 gli uomini del Colonnello Luca uccidono uno dei più importanti luogotenenti di Giuliano, Salvatore Pecoraro, che aveva preso parte attiva all'assalto alla caserma di Bellolampo e alla successiva strage dei Carabinieri. Salvatore Giuliano, braccato dall'azione delle Forze dell'Ordine, morirà un anno dopo la strage di Bellolampo ucciso dal suo sodale Gaspare Pisciotta che era diventato nel frattempo informatore proprio degli uomini del Colonnello Luca.
· 1979 Lo spartiacque tra due ere storiche.
1979 Lo spartiacque tra due ere storiche. Paolo Delgado il 23 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dalla rivoluzione khomeinista alla vittoria di Margaret Thatcher. In Italia finì l’unità nazionale tra Dc e Pci che si divisero sulla nascita dello Sme, il sistema monetario europeo. Ci sono anni esplosivi, la cui importanza storica si coglie al volo, ancora prima del 31 dicembre. Ce ne sono altri che cambiano le cose più discretamente ma anche più radicalmente. Il 1979, per esempio, è forse l’anno che più di ogni altro ha dato forma al presente in cui viviamo, ha fatto da spartiacque tra due ere storiche senza che sul momento lo si potesse capire a prima vista. Quell’anno cominciò con la vittoria di una rivoluzione. Il 16 gennaio lo Scià Reza Pahlevi lasciò il trono e l’Iran. Dopo due settimane, il primo febbraio, rientrò dopo 15 anni dall’esilio parigino, per insediarsi alla guida della neonata Repubblica islamica, l’ayatollah Khomeini. Quella rivoluzione aveva destato grandissime attese anche nel mondo laico, sia in Iran che all’estero. Speranze del tutto vane. Nel giro di un anno fu chiaro che il regime teocratico era anche peggiore di quello deposto. Ci volle un po’ per capire che quella rivoluzione islamica non era una bizzarria della storia ma l’annuncio di una ventata che avrebbe determinato la storia dei decenni seguenti. Poche settimane dopo, il 13 marzo, entrò in vigore il Sistema monetario europeo, Sme. Era l’anticamera dell’euro e anche l’Europa in cui viviamo oggi, quella della moneta unica e di Maastricht, emise i primi vagiti in quell’anno che cambiò tutto ma senza troppo fragore. Nello stesso anno, non a caso, si tennero per la prima volta le elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, nei nove Paesi che allora formavano la Cee, la Comunità economica europea. In Italia la nascita dello Sme fu accompagnata da un funerale: quello dell’unità nazionale, l’accordo di governo tra Dc e Pci che, prima con la formula dell’astensione, poi con quella dell’appoggio esterno a un governo Dc, aveva retto il paese nei due anni e mezzo precedenti. Quell’esperienza, per il Pci disastrosa si era in realtà già esaurita. La rottura però fu la nascita dello Sme. Il Pci votò contro e in un brillante discorso il responsabile economico del partito, Giorgio Napolitano, spiegò perché, denunciando in anticipo tutti i limiti che avrebbero poi segnato la moneta unica. A quel punto però Giorgio Napolitano aveva evidentemente cambiato idea. Il Pci uscì dall’esperienza della solidarietà nazionale, strategia su cui il segretario Berlinguer aveva scommesso tutto, con le ossa rotte e due milioni di voti in meno alle elezioni del 3 e 4 giugno. Il Pci da quel colpo non si riprese mai. Quelle elezioni misero fine a una lunghissima fase di crisi e instabilità durata tutto il decennio e che aveva toccato il picco quando, dopo le elezioni del 1976, era risultato impossibile dare vita a qualsiasi maggioranza senza un accordo, per l’epoca quasi inimmaginabile tra i due partiti maggiori, la Dc e il Pci. Il 28 marzo per la prima volta si verificò un incidente grave in una centrale nucleare, negli Usa, a Three Mile Island. Fu qualcosa in più di un campanello d’allarme. Sino a quel momento solo i movimenti ambientalisti e dissidenti avevano messo in dubbio il modello energetico futuro disegnato sull’energia nucleare. Three Mile Island iniziò a cambiare il modo di guardare al nucleare. Avvertì del pericolo. Mise in guardia in anticipo di anni su Chernobyl. L’Italia del 1979 era il paese del terrorismo. Con attentati quotidiani e le organizzazioni armate che sembravano invincibili il terrorismo era di gran lunga il primo problema del Paese. Il 7 aprile un mastodontico blitz a Padova pretese di aver quasi risolto il problema. Finirono in galera tutti i principali leader dell’autonomia operaia, con il professor Toni Negri al primo posto. Una seconda e anche più nutrita raffica di arresti sarebbe arrivata in dicembre. Gli arrestati erano accusati di essere la cupola di tutte le organizzazioni armate che si fingevano differenti per colpire meglio ma rispondevano invece ad una sola centrale di comando. Di conseguenze le imputazioni furono vertiginose, inclusa una quantità di omicidi a partire dal caso Moro. Negri fu anche accusato di essere personalmente il "telefonista" del sequestro. Erano accuse del tutto campate per aria e lo si capì presto. Ma gli arresti rispondevano a un’esigenza individuata dal pool di magistrati che si occupavano di terrorismo: quella di "togliere l’acqua intorno al pesce", cioè di prosciugare il bacino di simpatie e complicità o tacite connivenze di cui usufruivano nel Movimento di quegli anni i gruppi armati. Di conseguenza al crollo della montatura le procure reagirono con nuove e differenti accuse e insistettero su questa linea tenendo comunque in galera per anni i leader di autonomia, o costringendoli all’espatrio. Quel processo segnò il passaggio non di un solo confine ma di due limiti: le necessità dell’emergenza di turno fecero per la prima volta clamorosamente premio su quelle delle garanzie e dei diritti degli imputati, ma allo stesso tempo il potere politico delegava a un altro potere, quello togato, la gestione di un’emergenza, come non era mai capitato prima. Entrambi gli elementi, la cancellazione delle garanzie in nome dell’emergenza e il dilagare del potere togato sino a invadere aree di competenza degli altri due poteri dello Stato, il legislativo e l’Esecutivo, si sarebbero ripresentati in seguito più volte e ancora oggi segnano a fondo il presente. Ma forse la trasformazione più profonda e radicale fu quella sul momento meno vistosa. I conservatori vinsero le elezioni del 4 maggio nel Regno unito. Non era certo la prima volta che, nel bipartitismo del Regno unito, il governo toccava ai Tories. Il principale fatto nuovo era per la prima volta nella storia si insediava a Downing Street una donna. Ma quella donna era Margaret Thatcher, “la Lady di ferro”, e il suo governo avrebbe coinciso con una sterzata politica di portata più epocale che semplicemente storica. Dopo anni di politiche sociali influenzate dalla sinistra Meg Thatcher segnò la svolta neoliberismo, tenne a battesimo le politiche economiche che hanno dominato da allora ovunque. Non lo fece da sola. La rivoluzione, o controrivoluzione, neoliberista della lady di ferro non si sarebbe affermata così totalmente e radicalmente se l’anno seguente non fosse stato eletto alla presidenza degli Usa Ronald Reagan, che condivideva per intero l’impianto thatcheriano. Almeno in parte, però, anche quella vittoria fu l’effetto di un episodio verificatosi nel 1979. Il 4 novembre una folla di studenti iraniani invase l’ambasciata degli Usa prendendo in ostaggio 52 cittadini americani. Il sequestro fu lunghissimo, durò 444 giorni. Il culmine della crisi si toccò però quando il 24 aprile 1981 l’amministrazione Carter tentò un blitz in Iran per liberare gli ostaggi. Fu un disastro, con 8 marines morti sul campo. Quel fallimento spalancò le porte della Casa Bianca a Ronald Reagan. Quell’anno vide la nascita della Terza Rete Rai e del Tg3, la vittoria dei sandinisti in Nicaragua, con tutto quel che ne sarebbe conseguito in termini di operazioni dei contras in America centrale, la prima giornata dell’orgoglio omosessuale in Italia, il 30 giugno a Torino. In molti sensi e da molti punti di vista, dunque, il mondo in cui viviamo, la nostra normalità, prese le mosse nel 1979.
· Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv.
Sarajevo 1984, il febbraio magico prima della guerra in diretta tv. Trentacinque anni fa si svolsero i primi giochi olimpici invernali in un paese comunista. Oggi rimangono solo rovine. Giulia Merlo il 31 Agosto 2019 su Il Dubbio. La mascotte, il lupacchiotto Vucko, si vede ancora in qualche graffito scrostato nella periferia della città e i venditori di souvenir offrono le spillette originali ai turisti per cinque euro l’una, oppure dieci marchi bosniaci. Trentacinque anni fa, il lupo delle alpi dinariche è stato il simbolo delle Olimpiadi invernali di Sarajevo ‘ 84, le prime organizzate in un paese comunista e pensate da Tito per mostrare lo splendore della Jugoslavia. La candidatura della città si concretizza nel 1978, con la sconfitta della giapponese Sapporo, e il Maresciallo punta a farne l’evento vetrina di un intero paese. Ancora oggi, quelle settimane di festa sono ricordate come il “magico febbraio”: Tito morì quattro anni prima, nel 1980, ma nel 1984 Sarajevo era pronta ad ospitare l’Olimpiade invernale con il massimo numero di partecipanti fino ad allora, offrendo il meglio che la città avesse a disposizione. La neve non era un problema: in inverno si raggiungevano senza difficoltà i meno venti gradi e gli impianti piste da sci, cabinovie di risalita, trampolini e piste di pattinaggio erano il meglio a disposizione sul mercato. Il vero guaio era la nebbia, che poteva impedire l’atterraggio dei voli internazionali dell’aeroporto locale. Per questo, gli ingegneri avevano preparato delle sostanze chimiche da sparare in cielo per dissolvere i banchi di foschia. Oggi, di quel magico febbraio, rimangono macerie sulle montagne ed edifici ormai indistinguibili dagli altri, nella distesa di palazzi in stile socialista lungo la Zmaja od Bosne, che durante l’assedio della città cambiò nome in “viale dei cecchini”. Ad accogliere chi arriva da sud compaiono i palazzi di quello che oggi è il quartiere di Mojmilo e nel 1984 era il villaggio olimpico. Perfettamente mimetizzati nello svettare delle strutture a nido d’ape socialiste, gli appartamenti fatti costruire per gli atleti vennero poi distribuiti gratuitamente, come premio di Stato, a laureati e alti funzionari. «Il giorno in cui si è laureato in giurisprudenza, a mio padre è stato messo in mano un mazzo di chiavi di uno di quegli appartamenti», racconta Alen, trent’anni, che in estate organizza tour turistici e d’inverno fa il maestro di sci sulle stesse montagne delle Olimpiadi. La sua famiglia è stata tra le prime a venire sfollate, durante l’assedio: viveva nella zona ovest di Sarajevo, subito occupata dai serbo- bosniaci, e lui ha vissuto per i quattro anni di assedio in uno scantinato con altre sette famiglie, profugo di guerra nella sua stessa città. «La mattina si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, in cui i cittadini chiedevano se davvero la città sarebbe finita sotto assedio. Quella stessa notte, serbo- bosniache di Ratko Mladic scesero dalle montagne e sfollarono il quartiere dove vivevo. Si presentarono con un altoparlante e ci dissero di uscire di casa, poi formarono due gruppi: uno di serbi, un altro di non serbi». Lui e la sua famiglia – padre avvocato di religione musulmana, lui di quattro anni e la madre che aveva da poco partorito la sorella – erano tra i non serbi. «Ci dissero di portare con noi lo stretto indispensabile e di farci trovare pronti alle sei del mattino, perchè sarebbero arrivati dei pullman per uno scambio: noi in cambio di altrettanti serbi, provenienti dal centro città», racconta Alen, che ricorda quella notte e la fuga che seguì. «Era il 1992 e mio padre reagì come avrebbe fatto chiunque: chiamò la polizia. Loro gli dissero di prendere la sua famiglia e scappare, perchè quei pullman non ci avrebbero portato a Sarajevo centro, ma ad un campo di concentramento già costruito a Sarajevo est». Così, alle tre di notte, la famiglia fuggì, superando il ponte sul fiume Miljacka. «Da quel momento in poi, ovunque si andasse, bisognava farlo correndo», Alen ripete le parole del padre, oggi sessantenne, che durante la guerra entrò a fare parte della guerriglia di difesa della città e, per provvedere alla famiglia, correva sfidando i cecchini per arrivare al tunnel sotterraneo di 800 metri, che passava sotto l’aeroporto controllato dalle Nazioni Unite fino alla zona libera, dove recuperava medicine, armi e provviste. «Era l’unica sottile vena di approvvigionamento della città», in cui per tutti i 1452 giorni di assedio mancarono luce, acqua corrente e gas. Da quel passaggio scavato in segreto dai bosniaci, Sarajevo rimaneva flebilmente attaccata al mondo. Proprio i palazzi olimpici e tutti i condomini di cemento in stile sovietico sono stati la vera protezione dei civili, tra il 1992 e il 1995: erano gli unici con pareti abbastanza spesse da resistere ai colpi di mortaio sparati dalle montagne, molto meglio degli edifici ottocenteschi che sono il cuore della città e degli edifici della città vecchia, vicino al mercato e alla grande moschea. Oggi, quegli stessi palazzi sono ancora in piedi ma le pareti rimangono crivellate di colpi. «I mattoni rossi sulle facciate sono i punti in cui i colpi hanno distrutto le pareti ed è stato necessario ricostruirle», spiega Alen, mentre percorriamo l’arteria centrale della città, che la taglia a metà da est a ovest e corre parallela alle rotaie del tram, fatte posare per le Olimpiadi e ancora oggi mezzo principale di trasporto per i pendolari. Lungo quella stessa strada, sulla destra, sfilano l’ambasciata americana accanto all’università di Sarajevo, presidiata da una statua di Tito, poi l’Holiday Inn di colore giallo brillante che era terreno franco per i giornalisti durante l’assedio e infine la sede della radio- televisione pubblica, che gli abitanti difesero dagli attacchi perchè il mondo continuasse a poter vedere che cosa stava succedendo. A ventitrè anni di distanza dalla fine dei combattimenti, i palazzi sono stati ricostruiti, ma i segni dei bombardamenti rimangono ancora visibili. Cercare oggi quel che resta di Sarajevo ‘ 84, quando la Jugoslavia era ancora una repubblica socialista federale di sei stati e la città non era stata devastata dall’assedio, significa raggiungere due monti, l’Igman e il Trebevic. Uno accanto all’altro, sono però divisi da un confine interno: quello che divide la Bosnia ed Erzegovina dalla repubblica Srpska. Formalmente, entrambi nello stato bosniaco, di fatto due territori divisi: europeista e di etnia mista uno, filorusso e a prevalenza serbo l’altro. Per arrivare sul monte Trebevic si percorre fino in fondo la Zmaja od Bosne, si superano i resti delle fabbriche bombardate e mai rimesse in funzione, poi l’aeroporto internazionale che durante l’assedio venne occupato dalle Nazioni Unite, si attraversa Sarajevo est ( città autonoma a livello amministrativo da Sarajevo, da cui la separa una cinta montuosa e l’aeroporto) e si percorre la strada dissestata che porta fino ai 1600 metri del monte Trebevic, polmone verde che sovrasta la città. Mangiata dalla foresta ma perfettamente visibile nella sua struttura di calcestruzzo e isolante ormai marcio, rimane la pista da bob di Sarajevo ‘ 84. Un serpente lungo più di tre chilometri, dalla vetta a valle. Oggi è diventato un luogo per writers e street artists, oltre che per visite turistiche di giorno e rave party di notte. La si intravede tra gli alberi e nelle radure panoramiche, da cui si osserva tutta la città. La parte vecchia con le chiese e le moschee, quella ottocentesca coi palazzi dell’amministrazione cittadina e quella socialista, punteggiate di cimiteri piccoli e grandi: con steli bianche in quelli musulmani, di marmi neri quelli cattolici e ortodossi. «Sarajevo è crocevia di quattro religioni e tre etnie: i cattolici croati, i bosniaci musulmani, i serbi ortodossi e gli ebrei. Tutti hanno un luogo di culto nella città e la convivenza è sempre stata pacifica», spiega Alen. «Durante l’assedio morirono 12mila persone e il motto era “resistere fino all’ultima pallottola”. Gli ortodossi ricevettero dai serbi l’invito a lasciare la città indenni, ma la maggior parte rifiutarono e rimasero a combattere per difendere Sarajevo». Nel 1995, la pista da bob fu teatro dell’unico vero scontro via terra tra eserciti e della battaglia che mise fine all’assedio di Sarajevo. La montagna, già luogo di scontri durante la seconda guerra mondiale e subito occupata dai serbi nel 1992, era completamente disseminata di mine antiuomo ( nonostante le bonifiche, una bomba inesplosa è stata rinvenuta nel 2018) e la pista da bob era una sorta di sopraelevata dal terreno che permetteva ai militari di muoversi senza rischiare di innescare gli ordigni. Quando la Nato diede il via libera alla missione Deliberate Force in risposta al bombardamento del mercato di Sarajevo del 28 agosto 1995, imponendo la ritirata ai serbi asserragliati sulle montagne intorno alla città, il Trebevic fu liberato con un ultimo sanguinoso scontro. La Nato, infatti, chiese l’intervento via terra da parte dei bosniaci di Sarajevo, i quali risalirono a piedi la montagna: i serbi in ritirata utilizzarono la pista da bob come scudo, sparando dai fori aperti nel cemento. Sul versante opposto, immerso nel verde e nelle cave, si trova l’hotel Igman. Il nome è quello della montagna sulla quale sorge: 162 stanze per 5100 metri quadrati, un perfetto esempio di stile brutalista. Pensato per ospitare i turisti di lusso occidentali, era stato costruito appositamente per le Olimpiadi nei primi anni ottanta. Oggi rimane solo la struttura colossale: un ecomostro in abbandono perso nella boscaglia. Sparito l’intonaco giallo e bianco degli esterni, distrutte le vetrate che davano sulle piste da sci, l’interno è uno scheletro di mattoni e cemento, con la colossale hall dell’hotel disseminata di pneumatici e sacchi di sabbia dietro cui si nascondevano i cecchini: l’edificio è stato tra i primi ad essere distrutto e occupato dai serbi, che controllavano la corona di montagne intorno alla città per interrompere ogni comunicazione tra Sarajevo e il mondo esterno. «Tutto il resto delle strutture spiega Alen – è stato riconvertito: le piste da sci, lo stadio… solo la pista da bob e il trampolino per il salto con gli sci sono rimasti com’erano». In particolare la pista da bob «è un monito di quello che ha rappresentato la guerra per la città: ha molto più valore così». Oggi, sia il monte Igman che il Trebevic sono tornati ad essere luoghi di turismo, frequentati soprattutto dai russi, attratti dai prezzi economici. Attorno all’hotel Igman, invece, le famiglie organizzano pic- nic e camminate. Lungo il tragitto per raggiungere la radura, la segnaletica consumata è ancora visibile, come lo sono i cinque cerchi olimpi- ci che accolgono all’inizio della strada. Di quel febbraio magico, oggi, rimangono i ricordi e le macerie: nel 2018 è stata rimessa in funzione la funivia panoramica che collegava Sarajevo al Trebevic. Nel 1992, mentre preparavano l’assedio della città, le truppe serbo- bosniache la distrussero e uccisero Ramo Biber, il giovane guardiano dell’impianto, passato alla storia come una delle prime vittime del conflitto. Oggi, con quei 12 minuti di risalita, su Sarajevo sta tornando il sereno.
· 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino.
Sergio Romano per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2019. Sapevamo che trent' anni fa, dopo il crollo del muro di Berlino, alcuni uomini di Stato europei (fra i quali Mitterrand, Thatcher e Andreotti) vedevano con qualche timore e molta diffidenza la prospettiva di una Germania riunificata. Ma un articolo di Philip Stephens apparso sul Financial Times del 25 ottobre ci ricorda che Margaret Thatcher, allora primo ministro del Regno Unito, si spinse più in là. Approfittò del viaggio di ritorno, dopo una visita a Tokyo nel settembre 1989, per una sosta a Mosca dove ebbe una conversazione a quattrocchi, nella sala di Santa Caterina del Cremlino, con Mikhail Gorbaciov, presidente dell' Unione Sovietica e segretario generale del Partito comunista. Parlarono di Germania e la Lady di ferro, secondo le note prese da un consigliere di Gorbaciov (Anatolij Cerniaev), disse al suo interlocutore che la Gran Bretagna non desiderava la riunificazione tedesca «perché temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra». Per le stesse ragioni Thatcher, in quella circostanza, avrebbe garantito a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe adoperata per la dissoluzione del Patto di Varsavia (l' accordo stipulato dall' Urss con i suoi satelliti nel 1955). Contemporaneamente, secondo i ricordi di Philip Stephens, Thatcher avrebbe proposto al presidente francese François Mitterrand la conclusione di una Intesa Cordiale simile a quella che Francia e Gran Bretagna avevano concluso nell' aprile del 1904 per contenere la crescente potenza del Reich tedesco. Trent' anni dopo, le preoccupazioni della signora Thatcher mi sembrano almeno in parte giustificate. Con la sua insistenza per il frettoloso riconoscimento della Slovenia e della Croazia nel gennaio 1991, la Germania unificata ha provocato la disintegrazione dello Stato jugoslavo e la frammentazione del Balcani. Con l' apertura dell' Unione europea agli ex satelliti dell' Urss, fortemente voluta da Berlino, sono stati creati due problemi. Abbiamo accolto nella Ue Paesi che non hanno alcun desiderio di rinunciare alla propria sovranità per creare una Europa federale; e quei Paesi sono diventati satelliti della Nato pregiudicando gravemente i rapporti con la Russia. La riunificazione tedesca, inoltre, non ha soddisfatto le aspettative dei suoi promotori. Come hanno ricordato Milena Gabanelli e Danilo Taino sul Corriere del 28 ottobre, alcune regioni della Germania orientale continuano a manifestare malumori per le loro condizioni sociali. Sembra esistere ancora, paradossalmente, un patriottismo tedesco-orientale che ha favorito l' ascesa della destra radicale. Forse non avevano torto quei tedeschi, prevalentemente social-democratici, che nel 1989 avrebbero preferito una confederazione tedesca composta di due Germanie piuttosto che una Germania unificata.
Quando Havel portò l'uomo e la libertà al cuore della politica. Il saggio di Stefano Bruno Galli racconta la «rivoluzione esistenziale» del leader ceco. Giordano Bruno Guerri, Giovedì 28/11/2019 su Il Giornale. Václav Havel aveva 32 anni nel 1968, quando fiorì quella «Primavera di Praga» che oggi lo sappiamo avrebbe rappresentato l'inizio del crollo dell'Unione Sovietica, avvenuto più di vent'anni dopo. La ribellione dei cecoslovacchi venne repressa con i carri armati, e il simbolo indelebile di quei giorni sarebbe stato Jan Palach, uno studente di filosofia ventenne che per protesta si dette fuoco in piazza San Venceslao. «Era semplicemente impossibile non partecipare», dirà Havel. Aveva già rappresentato qualche sua opera, ma non era conosciuto al di fuori del suo Paese, e gli fu impedito di lavorare ancora in teatro. Possiamo immaginare, nei nove anni successivi, la sua vita di oppositore a un regime a caccia di nemici. Tuttavia nel 1977 partecipò alla stesura di Charta 77, un testo di denuncia contro il mancato rispetto dei diritti umani, civili e politici. Ne sarebbe nata la cosiddetta «Rivoluzione di velluto», che non si opponeva direttamente al regime comunista, ma ne minava le radici e la sostanza. La reazione del governo cecoslovacco fu dura: i firmatari vennero bollati come «traditori e rinnegati» e «agenti dell'imperialismo», molti persero il lavoro, o la patente, o la possibilità di far proseguire gli studi ai figli. Membro di un «Comitato per la difesa dei perseguitati ingiustamente», nel 1979 Havel venne condannato a quasi cinque anni di carcere, che scontò interamente. Eroe e martire, amato per la sua grazia gentile, dopo la caduta del Muro e del comunismo, il 29 dicembre venne eletto presidente della Repubblica, e divenne immediatamente un mito di fama mondiale. Pochi mesi dopo, mai ci saremmo aspettati, al Premio Malaparte, che accettasse il nostro invito, ma presidente della giuria era Alberto Moravia, con Raffaele La Capria, Giuseppe Merlino e altri amici oggi scomparsi. E Graziella Lonardi era inarrestabile. La grande esperta e collezionista d'arte («Il più bel culo di Capri», amava definirsi, perché non si enfatizzasse troppo la sua intelligenza), aveva fondato il premio nel 1983, e lo avevamo già assegnato anticipando qualche Nobel - a Anthony Burgess, Saul Bellow, Nadine Gordimer, Manuel Puig, John Le Carré, Fazil' Abdulovi Iskander, Zhang Jie. Ci sarebbero state altre premiazioni memorabili, anche dopo la morte di Graziella, per merito di sua nipote Gabriella Buontempo, che ne ha raccolto l'eredità, però quella del 1990 fu indimenticabile. Ero stato cooptato nella giuria, pischello, per la mia biografia di Malaparte, e Graziella aveva saputo creare, attorno al premio e al fascino di Capri, un clima di mondanità colta e divertita. Fu così che una bella mattina (tardi, con comodo) mi trovai su una barchetta a motore con Havel, Moravia, La Capria, Umberto Eco e Gianni De Michelis, all'epoca ministro degli Esteri nel VI governo Andreotti. Per richiesta di Havel e allegria di tutti andavamo a trovare Rudolf Nureyev, ritirato nello scontroso arcipelago Li Galli, sulla scogliera amalfitana. Il danzatore più celebre di tutti i tempi ci accolse con una sua elegante tristezza, era già malato di Aids, e comunque la sua malattia era sentirsi vecchio, a 52 anni. Su una terrazza assolata di mare parlò della Madre Russia, che aveva abbandonato da tanto tempo, del suo rapido ritorno su invito di Gorbacev, e del male che aveva fatto il comunismo, però sembrava non gli importasse di niente. Havel lo consolava, De Michelis lo spronava a un futuro d'ottimismo. Erano tutti famosi, e fu come trovarsi in quelle foto - poi diventate storiche, per esempio quella celebre dei futuristi a Parigi - che il tempo trasforma, da semplice foto, a foto con didascalia: primo da sinistra... L'immagine diventa storica, ma prima e dopo la posa i protagonisti ciarlano del più e del meno, badando a essere brillanti, più che a fondare sistemi e movimenti. E così fu anche quella sera, quando in un night di via Tragara mi ritrovai a ballare duro con Eco, d'improvviso lieve, e De Michelis, lieve anche lui, con i suoi lunghi riccioli e le movenze di frequentatore assiduo di discoteche che pensate all'epoca scandalizzavano, ignari com'eravamo di chi sa quali ministri degli Esteri sarebbero venuti dopo. Havel accennava qualche passo, sorridendo e battendo lievemente le mani. Poco dopo si sarebbe dimesso dalla presidenza della Repubblica Cecoslovacca per non firmare gli atti che sancivano la divisione fra cechi e slovacchi, però nel 1993 sarebbe stato rieletto presidente della Repubblica Ceca, splendido rappresentante di una destra liberale. C'erano anche tante belle donne, e prima o poi forse racconterò meglio quella notte, che per ora ho ricordato soltanto per accompagnare il lettore alla recensione di un libro. Un ottimo libro, né biografia né saggio letterario e politico, piuttosto esplorazione di una mente, di una storia e di un'ipotesi politica: Václav Havel. Una rivoluzione esistenziale, di Stefano Bruno Galli (La Nave di Teseo, pagg. 117, euro 13). Havel teorizzava «Il potere dei senza potere», come si intitola il suo libro più bello, del 1979: cioè una gestione della vita pubblica non basata su una dottrina né sul potere fine a se stesso, ma come impegno civile di tutti. Insomma, preconizzò con la sua «rivoluzione esistenziale» - un populismo che ha avuto sbocchi molto meno esaltanti di quanto sperato. Galli, che è docente di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche e assessore alla Cultura della Regione Lombardia, sottolinea la teorizzazione di Havel, che «Non credeva alla rigenerazione dal di dentro del sistema politico consolidato», perché «l'alternativa al sistema doveva essere costruita attraverso una profonda rivoluzione culturale, educando i cittadini alla libertà»: dunque, il primato della cultura sulla politica, e basti pensare al ruolo - ben spiegato nel libro - di Milan Kundera, autoesiliato in Francia. «La vita stessa nella sua imperscrutabile, misteriosa varietà e incostanza, mai poteva costringersi nella grossolana gabbia marxista», disse Havel. Riguardo ai Paesi satelliti dell'Europa orientale, nota Galli, «è legittimo parlare di un sequestro. Città, popoli e paesi, che per una consolidata tradizione storica usi e costumi, modelli culturali e comportamentali, mentalità collettive e organizzazioni economiche e produttive appartenevano all'Occidente europeo, sono stati rapiti e sottratti allo stesso Occidente per una quarantina d'anni, sino alla caduta del Muro di Berlino». Da qui, oggi, la nostra percezione dell'Europa centrale come «altra» rispetto all'Occidente. Nel saggio denso di notazioni storiche, politiche, sociali - si scoprono perle come il primo discorso di Capodanno del presidente Havel, il 31 dicembre 1990: «Forse vi chiederete quale repubblica stia sognando. Vi risponderò: una repubblica indipendente, libera e democratica; una repubblica economicamente prospera e nello stesso tempo socialmente equa. In breve, una repubblica umana che serve l'uomo nella speranza di esserne ripagata; una repubblica di persone che abbiano una cultura adeguata, perché senza di essa non si può risolvere alcun problema, sia esso umano, economico, ecologico, sociale o politico». Anche da queste parti la stiamo sognando ancora, perché «La politica», aggiunse, «non può essere solo l'arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell'intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici. Che piuttosto sia l'arte dell'impossibile, cioè l'arte di rendere migliori se stessi e il mondo». Discorsi da intellettuale, si dirà con sufficienza, mentre oggi e qui il ruolo dell'intellettuale è stato relegato ai margini della politica, quasi associandola alle ideologie. Ma è evidente che non ne guadagna né la politica, né la qualità delle democrazie, né tantomeno i cittadini.
Claudio Fabretti per “Leggo” il 25 novembre 2019. Vecchi muri crollano, nuovi muri nascono, ma quello dei Pink Floyd resta fisso da 40 anni al centro della storia del rock. Il 30 novembre 1979 si rivelava al mondo The Wall, il concept-album più amato, riprodotto, imitato e frainteso di sempre (oltre che bestseller da oltre 20 milioni di copie vendute). Mai come in questo caso le ossessioni e le paranoie di un singolo musicista sono riuscite a dar vita a un immaginario così universale. A Roger Waters bastò uno spunto banale – il suo sentirsi sempre più alienato dal pubblico del gruppo, culminato nel famigerato sputo a uno spettatore a Montréal nel 1977 – per edificare un gigantesco incubo collettivo. Perché The Wall è in fondo la colonna sonora che ognuno di noi può adattare ai suoi abissi più cupi. E al tempo stesso, i risvolti simbolici, sociali e politici dell’opera hanno finito col travalicarne la chiave psicologica individuale. Ad esempio, nella Germania divisa tra Est e Ovest, The Wall è diventato una bandiera della lotta contro quella frattura simboleggiata dal Muro di Berlino, tanto che nel 1990, con le macerie ancora fumanti di quella barriera, Waters verrà chiamato a riprodurlo dal vivo nella capitale ormai unificata, davanti a una folla immensa. In Sudafrica, Another Brick In The Wall, da canzone di protesta contro i metodi oppressivi di insegnamento che era, si è trasformata in un inno anti-apartheid. E quando in Bring The Boys Back Home - considerato dal bassista il momento-clou dello show – scorrono sul muro le immagini di un bambino che stringe la mano a un soldato, a simboleggiare gli affetti spezzati dalla guerra – è come se Waters si stesse rivolgendo alle vittime di tutti conflitti che insanguinano il pianeta. Eppure, è “solo” la storia di Pink, rockstar plasmata su Waters, che arriva a isolarsi dietro un “muro” mentale a causa di una serie di traumi psicologici (la morte del padre nella seconda guerra mondiale, la madre iperprotettiva, gli insegnanti autoritari, i tradimenti della moglie). Ma non c’è solo il messaggio. Il concept floydiano resta anche una formidabile raccolta di canzoni - da Hey You a Comfortably Numb passando per Mother - in bilico tra rock e funk, psichedelia e ballate intimiste in linea con il futuro Waters solista. Un’opera corale nata in studio di registrazione: ingegneri del suono, arrangiatori, produttori portano a compimento il percorso intrapreso sei anni prima con l’altro kolossal The Dark Side Of The Moon. E se il suono che ne scaturisce è perfetto, altrettanto straordinaria è la potenza evocativa della grafica di Gerald Scarfe, che, assieme ai disegni della copertina, curerà le animazioni dello show e del film. Già, perché The Wall è soprattutto uno dei più riusciti progetti multimediali della storia del rock: quasi impossibile immaginarlo spogliato della componente visuale, che trionferà proprio nei concerti in technicolor - portati in giro per il mondo dalla band prima e dal suo ex-leader poi - e nel film di Alan Parker del 1982, con Bob Geldof nei panni del protagonista Pink. Sarà anche il disco che porterà alle estreme conseguenze il dissidio tra Waters e gli altri. Affidato il suo testamento floydiano al requiem anti-bellico di The Final Cut (1983), il leader supremo toglierà il disturbo. Ma The Wall resterà il sigillo definitivo alla sua straordinaria stagione alla testa della band inglese.
Intervento di Nicola Zingaretti pubblicato da “Leggo” il 25 novembre 2019. Sembra una vita fa, l'uscita di The Wall. In quarant'anni abbiamo fatto in tempo a gioire per muri che crollavano, e a vederne erigere di nuovi. Come milioni di persone, ho amato alla follia questo capolavoro di ingegneria musicale, politica e ribellione. Nel corso degli anni, sono tornato spesso, come a una fonte, al suo messaggio di pacifismo, rifiuto della violenza e dell'ordine costituito, assoluto e senza compromessi, incastonato in quella maestosa architettura musicale. Ma l'emozione più grande legata a The Wall per me è più recente. Sono stato profondamente colpito quando ho letto, nel 2014, che Roger Waters aveva scoperto, dopo una lunga ricerca, che il nucleo sentimentale da cui si generò il corpo di The Wall è un fatto storico accaduto ad Anzio, sulle coste della nostra regione, a pochi chilometri da Roma. È lì che morì nel 1944 il padre di Roger Waters, soldato dell'esercito inglese: combattendo per la nostra libertà. In The Final Cut, il disco che completa The Wall, la voce narrante si chiede a un certo punto: Is for me that daddy died? Ecco, i quarant'anni di The Wall, oggi in questo complicato snodo storico in cui vediamo rivivere tensioni, istinti di guerra, nuovi muri - mi fanno pensare soprattutto al peso di una responsabilità politica ed etica: alla necessità di custodire, con cura e amore, la pace e i valori democratici che ci hanno consegnato i nostri padri e le nostre madri.
Claudio Fabretti per “Leggo” il 25 novembre 2019.
Carlo Massarini, che cosa rappresentava quel muro allora e cosa rappresenta oggi, in un’epoca in cui alcuni muri sono caduti e altri se ne vogliono costruire?
«Lì erano gli incubi personali di Waters che diventavano simbolo, che raggiunge il punto più alto quando nel 1990 è portato in scena ad Alexanderplatz, di fronte al Muro di Berlino demolito appena un anno prima. Oggi i muri vengono eretti (o minacciati) per contenere, separare: è solo l’inizio dell’evoluzione della trama di Waters, chissà se il finale sarà altrettanto liberatorio, o solo una prosecuzione dell’incubo».
Fu anche uno spartiacque nella storia dei Pink Floyd: finì con il dividere le strade del leader e del resto della band...
«Lo spunto è proprio l’ultima tappa del tour precedente, quando Waters, innervosito dalla caciara di alcuni spettatori in prima fila, sputa verso di loro e pensa che vorrebbe costruire un muro fra il palco e il pubblico. Due anni dopo, i rapporti erano ormai usurati, in parte anche per le difficoltà di realizzare un album di tal magnitudo».
La sua peculiarità sta anche nell’essere un disco multimediale, da leggere su più livelli (disco, show, film)?
«Sì, anche se non è stato il primo. Gli Who con Tommy, dieci anni prima, e Quadrophenia, avevano già declinato la storia su più medium: disco, teatro, cinema, colonna sonora (The Wall ha anche una versione operistica)».
Al di là del messaggio di Waters, è un disco in cui ognuno può trovare nuove chiavi di lettura. È anche questo ad averlo reso sempre attuale?
«Sì, rimangono leggendari l’impianto mastodontico dal vivo, che Waters ora porta in tour solista (maggior incasso di sempre di un singolo performer), e la complessità della scrittura. Vi si intrecciano tanti temi diversi: la solitudine, la guerra (da sempre un tema fondamentale di Waters, il cui padre è morto nello sbarco alleato di Anzio), l’alienazione della star, la rigidità del sistema scolastico inglese, i sistemi totalitari. E, infine, la redenzione attraverso la presa di coscienza. È un disco molto visuale, che ripercorre un viaggio interiore paranoico e disperato, dentro e fuor di metafora».
Che tipo di hit fu il singolo “Another Brick In The Wall”?
«È un unicum – per arrangiamenti, ritmo - della loro storia. Molto lontana dagli inizi psichedelici. Non volevano farla uscire a 45 giri, non con quella base simil-disco. Fu il produttore Bob Ezrin a imporsi, ed è stata una delle chiavi del successo dell’album. Il brano – col coro di bambini che incalza - ha un’efficacia pazzesca».
Perché dopo “The Wall” è diventato sempre più difficile realizzare concept-album?
«Quelli erano gli anni dei concept-album, dischi con una trama e un pensiero unificante. Da Sgt. Pepper’s ai Pink Floyd è stata una stagione memorabile. Le rock opera non sono finite lì, ma ormai tutte le band che ne avevano i mezzi si erano già cimentate. È una buona idea, ma ambiziosa, complessa e perennemente a rischio di gigantismo e banalità insieme».
Viaggio a Berlino, quel miracoloso 1989 che cambiò il mondo. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Ezio Mauro ha raccontato su Rai3 «Cronache dal muro di Berlino»; al centro dello speciale di Renato Coen su SkyTg24, materiale d’archivio e testimonianze. Per il 30° anniversario della caduta del muro di Berlino, la programmazione tv ha visto l’alternarsi e il susseguirsi di speciali, approfondimenti, sperimentazioni nella ricostruzione di un evento epocale. Su Rai3, Ezio Mauro ha raccontato «Cronache dal muro di Berlino». Lo stile è quello consueto che ha caratterizzato altri suoi speciali (come quello sui 100 anni della Rivoluzione d’ottobre); il protagonista si muove in una Berlino contemporanea avvolta dal buio, dalla pioggia e dal silenzio, provando a ricostruire, con il rigore dell’approfondimento giornalistico, il filo di una storia complessa e densa di sfumature. Realizzato da Rai Cinema e da Stand by me, lo speciale di Rai3 privilegia un approccio didascalico; Mauro si sofferma sui numeri (i km di muro e filo spinato, i milioni di persone che passarono da Est a Ovest prima del fatidico 1961, anno di costruzione della barriera) e sui luoghi chiave della Berlino di quel periodo, cercando di restituire l’essenza di un «anno dei miracoli che cambierà il mondo». Il viaggio è un quaderno di appunti nel quale si alternano personaggi centrali e laterali, come il pastore luterano-protestante Rainer Eppelmann, l’ex presidente della Repubblica tedesca Joachim Gauck, dissidente ai tempi del regime orientale, o Brigitte Seebacher, vedova di Willy Brandt, leader Spd della RFG. Di tenore diverso, lo speciale in onda su SkyTg24 di Renato Coen. Il cuore del racconto è uno studio dove il conduttore si muove attraverso una ricostruzione del muro e della città di Berlino con la «realtà aumentata». Materiale d’archivio e testimonianze (da Lech Walesa ad Achille Occhetto) fanno il resto, insistendo su un episodio leggendario: il momento in cui, con una domanda a bruciapelo, il corrispondente dell’Ansa Riccardo Ehrman costringe il portavoce della DDR Günter Schabowski a una risposta avventata che forse accelera il corso degli eventi e l’abbattimento del muro.
Ridicolo manifesto del Pd sul Muro di Berlino: noi abbattiamo i muri. Ma non l’hanno costruito i comunisti? Vittoria Belmonte domenica 10 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Ridicolo manifesto del Pd sul trentennale della caduta del Muro di Berlino. L’immagine è quella storica dei giovani che prendono a picconate l’odioso confine di pietra che divideva la Germania Ovest da quella dell’Est. Simbolo di un ‘Europa divisa tra libertà e tirannia, tra democrazia e dittatura. Un Muro voluto dal regime comunista dell’Est. Ma gli attuali eredi di quell’ideologia rimossa sembrano non rendersene conto, o meglio fanno finta di non conoscere la storia del Muro. Cosa c’è scritto infatti sul manifesto del Pd? Potete costruire muri, ci troverete ad abbatterli.
Ridicolo manifesto, la presa in giro di Meloni. Ma come, sono loro quelli che abbattono i muri? Propri gli stessi che li hanno costruiti? Il riferimento del Pd è ai muri anti-immigrati che Trump vuole edificare al confine con il Messico e che Orban invoca in Ungheria. Ma anche su questo occorre fare attenzione. L’unico muro anti-immigrati che l’Italia ha conosciuto, infatti, è stato quello voluto dal sindaco Pd di Padova, Flavio Zanonato, nel 2006. Ora quel muro, che doveva isolare il ghetto dello spaccio in Via Anelli, non c’è più. Ma fu quella giunta ad edificarlo. E Zanonato ora si trova in Articolo 1. La sinistra a sinistra del Pd. Quella evocata nel manifesto è dunque solo propaganda costruita su una gigantesca rimozione. Il Muro di Berlino fu il frutto della politica del regime comunista della Germania Est. Un non detto che impedisce di fare chiarezza quando se ne celebra la caduta. Si finge, ancora, di ignorare che sola la destra nel dopoguerra in Italia parlava dell’orrore di quel Muro. Gli altri facevano finta di nulla, per non inciampare in imbarazzanti prese di distanza dal comunismo. La ragion di Stato e il clima di compromesso storico tra Dc e Pci impediva infatti di criticare apertamente l’aberrazione di quel Muro che divideva l’Europa, la Germania e Berlino. Il manifesto del Pd è finito anche sulla pagina Fb di Giorgia Meloni che commenta ironica: “Chi glielo spiega che il muro erano loro?”. Ogni spiegazione sarebbe inutile. I dem sono davvero convinti di non essere mai stati comunisti. Sono talmente presi dai luoghi comuni che diffondono da rendere impossibile ogni forma di autocritica. A questo si riferiva Guareschi quando li accusava di essere trinariciuti. Non a caso ai tempi girava questa barzelletta. Un figlio dice al padre: – papà lo sai che gli asini volano? – Non dire sciocchezze! – Ma papà, l’ha scritto la Pravda. – Beh, figliolo, diciamo che svolazzano…
Vittorio Feltri: "Quella banda di comunisti che mi ha disgustato". La vendetta contro i compagni. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. La caduta del muro di Berlino, avvenuta 30 anni fa, è oggetto in questi giorni di commemorazioni retoriche e noiose. I giornalisti cerimonieri ne parlano senza requie quasi si trattasse di un avvenimento gioioso. In realtà quel crollo voluto dalla gente comune della Germania Est segnò la morte del comunismo, non dei comunisti. Che ancora oggi continuano a rompere le balle con le loro utopie, basta vedere quanto succede in Cina che è riuscita a mischiare il collettivismo più rigido con uno sfrenato capitalismo. Un ibrido vomitevole che tuttavia non accenna a trasformarsi in qualcosa di simile a un regime liberale. Il dì in cui la barriera oscena che divideva il popolo tedesco si sbriciolò io ero direttore di un settimanale importante, l'Europeo (Rizzoli). Il quale però non uscì per due mesi a causa di uno sciopero dei redattori (tutti) motivato dal fatto che non ero comunista, quindi sgradito all' assemblea dei colleghi. Peggio: avevo fama di essere addirittura anticomunista in quanto socialista. Il maledetto muro era pertanto cascato a Berlino eppure era rimasto in piedi, ben saldo, a Milano, anzi in Italia, dove i compagni, almeno nell' ambito della editoria, seguitavano a dettare legge, esercitando ostracismo nei confronti di coloro che non avevano simpatia per l' orda rossa. Giorgio Fattori, presidente della casa editrice (proprietaria altresì del Corriere della Sera) mi incitò a resistere e gli diedi retta, finché i vergini di sinistra, stanchi di non ricevere lo stipendio, mi accolsero, sia pur malvolentieri, quale direttore, cosicché cominciammo a lavorare e ad andare in stampa con un prodotto decente che ebbe in edicola un buon successo. Nel giro di un paio di anni, raddoppiammo le vendite mettendo al sicuro la vita del settimanale. Tuttavia quella banda di comunisti mi aveva talmente disgustato che non appena mi fu offerto di prendere in mano l'Indipendente, quotidiano nuovo e già moribondo, accettai di buon grado. Nel frattempo il segretario del Pci, Achille Occhetto, cambiò denominazione al partito, sconfessando la tradizione marxista, compiendo cioè una operazione ai limiti del ridicolo, come se il Papa all'Angelus avesse detto al folto pubblico di piazza San Pietro: cari fedeli devo informarvi che Dio non esiste, concludendo il suo discorso facendo alla folla il gesto dell'ombrello. Paradossale. Ciononostante l'ex Partito comunista è ancora qui con i propri rimasugli a menare il can per l'aia. E finge di festeggiare la caduta di quel muro schifoso sotto le cui macerie esso è idealmente morto. Vittorio Feltri
LA DONNA CHE VISSE L’ORRORE DUE VOLTE – LA STORIA DI CECILIA KOVACHOVA, SOPRAVVISSUTA PRIMA AD AUSCHWITZ E POI A UN GULAG RUSSO. DAGONEWS il 10 novembre 2019. La storia di una sopravvissuta ad Auschwitz e poi a un gulag russo ha ispirato un nuovo romanzo; Cecilia Kovachova fu portata nel campo di sterminio da Hitler da adolescente, e dopo fu spedita e in un campo di prigionia in Siberia dagli invasori sovietici nel 1945. Nel nuovo romanzo "Cilka's Journey", Cilka Klein è una schiava sessuale, alla quale viene data una posizione "privilegiata" da una guardia nazista, portando i russi a considerarla una collaboratrice. La confusione tra verità e finzione ha scatenato la rabbia della famiglia della sopravvissuta. Cecilia Kovachova aveva incontrato suo marito Ivan mentre erano entrambi prigionieri nel gulag russo. Nel libro, Ivan viene sostituito dal personaggio di Alexandr. Come la vera Kovachova, il personaggio è imprigionata nel gulag Vorkuta, un campo di prigionia istituito da Stalin che ospitava decine di migliaia di detenuti. Alla fine fu rilasciata negli anni '50 dal successore di Stalin, Nikita Krusciov, che cercava di smantellare l'eredità dell'ex dittatore. L'autrice australiana Heather Morris ha cercato di ricostruire la vita reale di Kovachova durante le ricerche per il suo libro Cilka's Journey, ma la sopravvissuta è morta nel 2004. «La storia di Cilka è quella di un'ingiustizia. Era solo una ragazza, un'adolescente, che ha vissuto due dei periodi più malvagi della storia ed è diventata un bottino di guerra - ha detto l'autrice - Solo la vergogna ha impedito alle donne come lei di parlare di ciò che era stato loro fatto». Il personaggio del libro, ad Auschwitz ha attirato l'attenzione di un alto ufficiale nazista. Una volta che l'Armata Rossa arrivò nel 1945 nell'invasione che schiacciò la Germania di Hitler, fu vista come una collaboratrice e portata in Siberia su un camion di bestiame. «Cilka ha solo sedici anni quando viene portata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nel 1942, dove il comandante la nota immediatamente per la sua bellezza. Separata forzatamente dalle altre donne prigioniere, Cilka apprende rapidamente che il potere equivale alla sopravvivenza. Quando la guerra è finita e il campo viene liberato, la libertà non viene concessa a Cilka: viene accusata di essere una collaboratrice per aver dormito con il nemico e inviata in un campo di prigionia siberiano». Tuttavia, il figliastro della Kovachova, George Kovach ha recentemente criticato il romanzo e ha detto che la madre sarebbe stata "devastata" da questa ricostruzione in cui finisce per essere rappresentata come una schiava sessuale.
Il dramma del calcio ai tempi del Muro: fughe, vendette e morti misteriose. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. «La fine della Ddr è la cosa peggiore che potesse capitare a un club e la miglior cosa che potesse capitare a un calciatore», disse un giorno Thomas Doll, ex centrocampista della Lazio e nazionale della Germania Est. Ai tempi del Muro, del resto, nessun giocatore tedesco orientale poteva trasferirsi in Occidente, ma come sempre è accaduto – e accade tuttora – sono stati molti gli atleti che hanno approfittato dello sport per provare a sfuggire alle difficili condizioni in cui erano costretti a vivere. Chi lo faceva era ritenuto un traditore, e le fughe erano considerate dei duri colpi da un potere politico che faceva dello sport (soprattutto quello olimpico, ma il calcio era comunque importante per il suo seguito popolare) un fondamentale strumento di propaganda. Lutz Eigendorf, considerato il Beckenbauer dell’Est, il 20 marzo 1979, dopo l’amichevole giocata a Giessen tra Dinamo Berlino (la squadra sotto diretto controllo del capo della Stasi, Erich Mielke) e Kaiserslautern, fuggì in Germania Occidentale lasciando la moglie Gabrielle e la figlia Sandy a Est, controllate dagli agenti: non le avrebbe viste mai più. Squalificato per un anno dalla Uefa, Eigendorf passò poi al Kaiserslautern e nel 1982 all’Eintracht Braunschweig. Il 21 febbraio 1983 accettò di farsi intervistare dalla tv tedesca Ard davanti al Muro, dove criticò apertamente il sistema calcio della Ddr. Alle 23.30 del 5 marzo 1983, Eigendorf, a bordo della sua Alfa Romeo Alfetta Gtv, si schiantò contro un albero in una curva della strada Braunschweig-Querum e morì 34 ore dopo. L’autopsia rivelò che aveva una percentuale minima di alcool nel sangue e la Procura della Repubblica archiviò il caso per guida in stato di ubriachezza. Secondo Heribert Schwan — autore del documentario «Tod der Verrater» (Morte del traditore) basato sui documenti segreti della Stasi emersi dopo la riunificazione tedesca — Eigendorf fu invece ucciso proprio in seguito al suo tradimento: gli agenti della Stasi gli avrebbero iniettato una miscela mortale di veleni e sonniferi per poi costringerlo, sotto minaccia di morte, a guidare verso la sua fine. Jurgen Sparwasser era il centrocampista del Magdeburgo vincitore di tre Oberliga (il campionato della Ddr) e della Coppa delle Coppe nel 1974, ma soprattutto l’autore del famoso gol che al Mondiale del 1974 diede la vittoria per 1-0 alla Ddr sulla Germania Ovest nella storica sfida del 22 giugno ad Amburgo: un eroe nazionale, ma non del tutto allineato. Laureato in ingegneria meccanica, nel 1980 ottenne il patentino da allenatore: il Magdeburgo gli offrì più volte il posto, ma Sparwasser ogni volta rifiutò per evitare l’impegno politico che ne sarebbe derivato e preferì diventare assistente ricercatore alla Scuola Superiore di Pedagogia di Magdeburgo. Quando la figlia fece richiesta di espatrio per abbandonare la Ddr, anche la carriera professionale di Sparwasser cominciò ad essere in pericolo: decise allora di fuggire nella Germania Ovest. Lo fece insieme alla moglie in occasione di una partita tra vecchie glorie con il Magdeburgo a Saarbrücken il 10 gennaio 1988. L’agenzia di stampa della Ddr, la Allgemeiner Deutscher Nachrichtendienst, scrisse: «Le forze antisportive hanno approfittato della presenza di una formazione di vecchie glorie del Magdeburgo a Saarbrücken per sottrarre Jürgen Sparwasser, il quale ha tradito la sua squadra». Pure i tifosi, ovviamente, dovevano essere controllati. Lo stadio della Dinamo a Berlino, per esempio, aveva una capienza limitata perché era molto vicino a una striscia di Muro: per evitare diserzioni, lo spicchio di tribuna più prossimo al Muro era sempre occupato da polizia e militari. C’era poi chi, pur da Est, tifava squadre dell’Ovest. Il caso più famoso è quello di Helmut Klopfeisch, nativo di Berlino Est ma da sempre tifoso dell’Hertha, squadra dell’Ovest. Prima del Muro il giovane Helmut era solito andare regolarmente allo stadio per le partite della sua squadra: in seguito, trascorse alcuni sabati di campionato a seguire le gare con altri tifosi a ridosso del Muro, ascoltando i suoni dello stadio dell’Hertha qualche centinaio di metri più in là, a Ovest. La polizia presto vietò quel rito, ma ciò non impedì a Klopfeisch di continuare a tifare non solo l’Hertha ma tutte le squadre occidentali (non solo tedesche) che giocavano contro club dell’Est. Costantemente sorvegliato dalla Stasi, nel 1989, poco prima della caduta del Muro, venne espulso a Ovest assieme alla moglie e al figlio. Il suo sogno, ma era solo un finto favore. Con la madre molto malata, Klopfeisch chiese infatti una proroga, che gli venne negata: vai ora o mai più, gli dissero. E lui scelse di andarsene. Cinque giorni dopo sua madre morì e il governo della Ddr non gli permise nemmeno di tornare per il funerale. Una vendetta perfetta. Andreas Thom era un grandissimo talento, ed era il pupillo del capo della Stasi, Erik Mielke, sotto il cui controllo dominava il calcio dell’Est la Dinamo Berlino, squadra del potere per eccellenza fondata nel 1966 che vinse (non senza collusioni con gli arbitri e accuse di doping) 10 titoli nazionali tra il 1978 e il 1988. Thom cresce nel club; giovanissimo, segna alla Roma in Coppa dei Campioni nel 1984; esplode definitivamente nel 1988 quando si laurea capocannoniere della Oberliga con 20 gol e viene proclamato giocatore dell’anno. Quando crolla il Muro, è il primo tedesco dell’Est a passare a Ovest firmando con il Bayer Leverkusen che versa 2,5 milioni di marchi alla Federcalcio orientale. Nel 1995 si trasferisce al Celtic, prima di chiudere la carriera con l’Hertha Berlino. È uno dei pochi giocatori ad aver giocato sia con la Ddr (16 gol in 51 partite) che con la Germania unificata. Thom è stato fortunato: per lui l’unificazione della Germanie è stata un affare. Per altri non è stato così, visto che di fatto il movimento calcistico orientale di alto livello è crollato assieme al Muro. Oggi solo due squadre ex Est militano in Bundesliga, l’Union Berlino, neopromossa, e il Red Bull Lipsia, che in realtà è un club totalmente nuovo nato nel 2009 per volontà della multinazionale austriaca (la «vera» squadra della città resta l’antica Lokomotive, in quinta serie). Gli effetti pesanti del processo di transizione li ha raccontati lo stesso Thom in questi giorni al Times: «Ricordo Jorg Stubner: era uno dei più grandi talenti dell’Est ma la fine del calcio di alto livello a Est è stata anche la fine della sua carriera». Povero e con problemi di salute, Stubner raccontò alla Bild nel 2004: «Se la riunificazione della Germania non ci fosse stata, oggi io avrei una famiglia, dei figli e un lavoro come allenatore». Morì invece poco dopo, a 53 anni. «Sapevamo di essere controllati. E più eri bravo e famoso, più ti stavano addosso», ricorda ancora Thom. Questo però non impediva altre fughe, come quella clamorosa di due suoi compagni il 2 novembre 1983. «Eravamo a Belgrado con la Dinamo per quello che sarebbe stato il mio debutto in Europa contro il Partizan – racconta ancora Thom al Times -. La mattina della partita andammo a fare un giro fuori dall’hotel e due miei compagni, Falko Gotz e Dirk Schlegel, si staccarono da noi mentre eravamo in un negozio di dischi e si rifugiarono all’ambasciata della Germania Ovest». Scelte forti, non condivise da tutti. Spesso, più che per ragioni ideologiche, solo per timore delle conseguenze. «Io non ho mai pensato di fuggire – conclude Thom -. A parte l’anno di sospensione della Uefa, avevo una famiglia e sapevo che scappare avrebbe creato enormi problemi ai miei genitori e a mio fratello...». A lui, in fondo, è bastato aspettare. Per molti altri invece il sole non è mai arrivato.
Orgoglio Gorbaciov, eroe tragico che oggi quasi non riconosciamo più. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino da Berlino e Maria Serena Natale. Il suo è un volto segnato dalle ferite della Storia. Nella notte che ricorda la più magica di tutte le notti, un volto emerge dal buio della memoria. È un volto segnato dall’età, deformato dalle malattie, velato di malinconia. Ma soprattutto è un volto solcato dalle ferite della Storia, il volto di un eroe tragico che come Icaro pensò di poter volare vicino al sole, ma finì per distruggere se stesso e l’opera che voleva salvare. Se si potesse ridurre a una sola persona, a un solo carattere il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue «Harte Wendungen», le svolte brusche, questa sarebbe molto probabilmente Michail Gorbaciov. Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che segnò la fine anticipata del secolo breve, la figura drammatica dell’ultimo leader dell’Unione Sovietica ci ricorda il destino rovesciato di un gigante senza pace, il comunista che senza volerlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni scavò la fossa allo Stato fondato da Lenin. «Non si poteva più andare avanti allo stesso modo», dice Gorbaciov nell’intervista a Der Spiegel. Già, la perestrojka come passo obbligato, ultimo, inevitabile tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, in bancarotta politica ed economica. Non fu buon marxista, in fondo, Michail Sergeevich: al contrario di quanto avrebbero fatto i compagni cinesi, che aprirono al capitalismo e strinsero le viti sulla democrazia, cominciò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, le opposizioni, il diritto a manifestare) e si mosse male e poco sulla struttura economica, con mezze riforme e aperture al mercato confuse. E intanto, costretto dalla pressione del riarmo dell’America reaganiana e sperando negli aiuti dell’Occidente cui aveva promesso di togliere il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica, fossero gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali o le aree di influenza. Quando nel 1989 il generale Sergey Akhromeyev incontrò il nuovo capo delegazione americano Richard Burt per la prima seduta negoziale del Trattato Start, gli disse senza mezzi termini che Gorbaciov aveva tradito il comunismo e che lui, che aveva combattuto a Stalingrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Non andò così. Ma l’aneddoto, mai rivelato, conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza umiliata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche lamentarsi a voce alta. Eppure Michail Gorbaciov non si pente. E questo gli fa onore. Al settimanale tedesco dice che non si potevano negare i diritti di libertà e democrazia ai popoli vicini, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, I tedeschi dell’Est. La frase con cui ammonì Erich Honecker, l’eterno leader della Ddr, innescando la sua fine, risuona ancora oggi: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Su una cosa l’ex presidente sovietico ha in ogni caso ragione da vendere. Quando afferma che dopo la fine della Guerra Fredda, i nuovi leader non hanno saputo creare una nuova e moderna architettura di sicurezza in Europa, Gorbaciov dice una verità elementare. Così come quando critica l’affrettato ampliamento a Est della Nato. Ma nella visione di Michail Sergeevich c’è ancora spazio per il futuro. Tra l’Occidente e la Russia la retorica sta cambiando, dice a Der Spiegel. Forse è la speranza di avere ragione con trent’anni di ritardo, forse è l’inguaribile l’ottimismo che tutto non sia stato inutile. Comunque andrà, avremo sempre verso quest’uomo un debito di gratitudine.
Caduto il Muro, camminiamo ancora sulle macerie. Gennaro Malgieri il 10 Novembre 2019 su Il Dubbio. I fantasmi dell’89. Le cortine di ferro ora sono in Cina e Nord Corea. Quando la mattina dell’ 11 novembre, due giorni dopo la caduta del Muro, alcuni berlinesi, ancora euforici per gli avvenimenti che soltanto due giorni prima li avevano proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi ad un cumulo di macerie, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti a quelle rovine, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”, disse con voce flebile, ma ferma. Così Mstislav Rostropovitch, uno dei più grandi musicisti del Novecento, celebrò la sua personale liberazione e quella del suo mondo prigioniero per lunghi anni in attuazione di una vendetta pianificata e consumata dai sovietici contro l’Europa, con la complicità vile di governi europei ossequiosi di quel malsano “ordine” che veniva dal Cremlino. Un mese dopo, Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata dicendo tra l’altro: “Al momento l’Europa è divisa. Ed è divisa anche la Germania. Sono due facce della stessa medaglia: è difficile immaginare un’Europa che non sia divisa in una Germania divisa, ma è anche difficile immaginare la Germania riunificata in un’Europa divisa. I due processi di unificazione dovranno svilupparsi parallelamente, e anche subito se possibile… I tedeschi hanno fatto molto per noi tutti: essi hanno cominciato da soli a demolire il muro che ci separa dal nostro ideale: un’Europa senza muri, senza sbarre di ferro, senza filo spinato”. Difficilmente oggi, trent’anni dopo quei fatti che cambiarono in parte il volto del mondo, riusciamo a percepire l’eco delle ispirate parole del grande drammaturgo ceco diventato leader politico. Ed anche le grida di gioia sono poco più d’un ricordo per noi occidentali un po’ distratti consapevoli tuttavia che l’Europa immaginata da Havel e quella sognata dai berlinesi “liberati” in una notte d’autunno non è ancora sostanzialmente unita. Andare oltre il comunismo non è stato facile, costruire in un sistema di libertà una patria comune è certamente ancora difficile. Perché i postumi di quelle ferite sanguinanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, si avvertivano ancora. Ed i loro effetti si fanno sentire, al punto che l’Europa lungi dall’essere unita, risente di antiche divisioni con le quali l’eredità geopolitica della stagione comunista si propone alla nostra attenzione dal momento che non tutto è andato come Helmut Kolh, Margareth Thatcher, Ronald Reagan immaginavano. L’Unione europea, per quanto possa sembrare paradossale, ha introiettato antiche incomprensioni e nel suo ambito gruppi di nazioni guardano a soluzioni diverse per rinnovare la struttura politica continentale. E di quella tragedia, la schiavitù di buona parte dell’Europa sembra che nessuno voglia può sentir parlare, come non si parla più della liberazione del 1989. Lo studioso francese Stephan Courtois, ideatore e curatore del Libro nero del comunismo, così ha sintetizzato gli effetti della caduta del Muro: “Rimane un’immensa tragedia che continua a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizza l’entrata nel terzo Millennio”. Ma essa sembra essere stata rimossa piuttosto che fornire gli stimoli per una nuova primavera europea. Nessuno di coloro che si compiacevano di aderire al sovietismo e giustificò la costruzione del Muro, ha speso una parola per dire che la cultura europea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere almeno in parte quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto. Sono soprattutto gli eredi di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato, a mostrarsi ancora reticenti nell’affrontare il tema del post- comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato tante aree del Pianeta. Una riflessione sul lascito del comunismo andrebbe fatta dopo tre decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni Paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, Paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro. Xi Jinping, il nuovo satrapo rosso, ha diramato direttive che rimandano alla “rivoluzione culturale”, eppure con lui non soltanto tutti fanno i conti, ma con il suo imperialismo, dispiegato soprattutto in Africa, si tratta alacremente mettendo tra parentesi le persecuzioni contro cristiani e musulmani e plaudendo ad una espansione economica fondata sullo schiavismo. Ed il grottesco e crudele tiranno nordocoreano Kim Jong- un, massacratore seriale, nel nome del comunismo, come suo nonno Kim Il- Sung e suo padre Kim Jong- Il, diventa addirittura interlocutore delle democrazie occidentali per miserabili moralmente affari economici. Per non dire di dittature che al marxismo- leninismo ancora si richiamano con una confusione semantica, culturale e politica ridicola se la stramba dottrina non venisse utilizzata come giustificazione di crimini che passano in secondo piano in larga parte del mondo. L’ultimo Muro che ancora deve cadere, dunque, è quello culturale e mercantile. Rimuovere serve soltanto a relegare i fantasmi dove non possono più nuocere, mentre l’eredità del secolo delle “idee assassine”, secondo la felice espressione di Robert Conquest , evapora lasciando un buco vasto nella memoria collettiva. E’ per questo che il Muro cadde nella notte del 9 novembre 1989? Due anni dopo la costruzione del Muro, il 26 giugno 1963, il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, in visita a Berlino, tenne il discorso più duro contro il simbolo del sovietismo trionfante: “Ci sono molte persone al mondo – disse – che non comprendono, o non sanno quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Barlino! Ci sono annunci che dicono che il comunismo è l’onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che, in Europa e da altre parti, possiamo lavorare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! E ci sono anche quei pochi che dicono che è vero che il comunismo è un sistema maligno, ma ci permette di fare progressi economici. Fateli venire a Berlino! Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. E quindi come uomo libero sono orgoglioso di dire: “Ich bin ein Berliner!”. Oggi Berlino non accende entusiasmi, ma inquietudini. Quando la politica perde l’anima è quel che accade. Mentre nuovi muri sorgono in Europa che, piegata su se stessa, si domanda quale sarà il suo destino.
Feltri: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi». E il web lo applaude. Giorgia Castelli su Il Secolo d'Italia sabato 9 novembre 2019. Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino. Nel giorno della ricorrenza che celebra la fine del comunismo filo-sovietico Vittorio Feltri racconta un fatto personale legato al giornalismo. Il direttore di Libero su Twitter scrive che «Quando cadde il muro di Berlino ero direttore del periodico Europeo, Rizzoli». E spiega che il settimanale «non usciva perché i redattori comunisti scioperarono due mesi contro di me». Per poi concludere: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi».
Feltri, pioggia di commenti sul web. Tantissimi i commenti al post. Alcuni sinistri lo insultano, ma la maggior degli utenti parte lo applaude. Scrive un utente: «Il comunismo è in piedi anche nelle televisioni, specialmente quelle che ci fanno pagare forzatamente. Rosse, propagandistiche, becere e piene di raccomandati che devono prima giurare fedeltà alla Stasi, e poi li assumono». E un’altra osserva: «Non solo nei giornali, direttore, i comunisti hanno eretto un muro contro gli italiani che la pensano diversamente da loro». E un altro ancora amaro commenta: «Pensiamo di aver abbattuto il muro di Berlino e quindi l’ideologia. Ma in realtà, vedo il “pensiero unico” sempre subdolo. Il sostantivo “condivisione” lo esprime bene: ed è vittima di ostracismo chi non si schiera». E infine: «Adesso caro @vfeltri bisogna abbattere un’altro muro in Italia… Quello rosso sinistro pdiota del Pd».
Germania: quanto è costata ai tedeschi, all’Europa e all’Italia la caduta del muro. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Danilo Taino. Un fiume di denaro per allineare la ex Ddr, ma dopo 30 anni le differenze restano e l’estrema destra vola. All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi.
Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” il 29 ottobre 2019. Quel tardo pomeriggio, mentre il Muro cadeva e Angela Merkel faceva la sauna settimanale, nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Era il 9 novembre 1989, le ombre della sera erano già calate su Berlino, a Ovest e a Est, la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città si sgretolava. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia. Oggi sappiamo però che si apriva la lunga stagione, per la Germania socialista, della rincorsa per imitare e diventare uguale alla Germania dell’Ovest, democratica, capitalista, ricca.
Il prezzo della riunificazione si paga ancora oggi. All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Nel 1991 fu introdotta la Solidaritätszuschlag – Soli –, una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta (ma nel 2018 ha raccolto ancora 18,9 miliardi di euro) e nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per almeno duemila miliardi. Nel giugno 1990, fu fondata la Treuhandstalt, alla quale fu dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Furono privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, partì un grande piano di infrastrutture che ha portato i Länder orientali ad avere strade, ferrovie, ponti, parchi, a rinnovare il 65% del patrimonio abitativo e all’eliminazione del 95% delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo.
Il contributo dei capitali italiani. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi.
Il crollo dello Sme. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.
Germania trent’anni dopo. In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.
Le grandi imprese stanno sempre a Ovest. Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.
Terreno fertile per la destra estrema. È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi. Per ragioni economiche e sociali, ma forse anche per qualcosa di più complesso che si accende nella mente di chi deve sempre imitare, in questo caso l’Occidente. «Gli imitatori non sono mai persone felici – ha scritto il presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia Ivan Krastev – Non possiedono mai il loro successo, possiedono solo i loro fallimenti».
"Eravamo bestie allo zoo. La caduta del Muro ci ha liberato di colpo". Il poeta tedesco in visita a Milano racconta come trent'anni fa finì l'incubo della Ddr. Matteo Sacchi, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, è uno dei massimi poeti di lingua tedesca: ha ricevuto il Büchner-Preis a soli 33 anni e nel 2008 ha ricevuto a Berlino l'ordine Pour le mérite per la Scienza e le Arti. Ieri era a Milano, nell'aula magna dell'Università statale, per incontrare gli studenti nel trentennale della caduta del Muro di Berlino (nell'incontro, condotto da Rosalba Maletta, ha anche ricevuto una pergamena al merito da parte dell'amministrazione cittadina). Grünbein, nato e cresciuto nella Deutsche Demokratische Republik, ha vissuto la privazione di libertà di cui il Muro era il simbolo, e ha partecipato alla lotta per abbatterlo. È quindi un testimone d'eccezione non soltanto di quegli eventi ma di come si è evoluta la Germania e l'Europa dopo il 1989. Come ha spiegato ai ragazzi, nonostante quello resti un momento trionfale, non tutto è andato come ci si sarebbe potuto aspettare: «A quel tempo, noi insorti abbiamo salutato la libertà da lontano. Noi, gli illusi del socialismo corrotto, vedevamo in essa qualcosa per cui valeva la pena morire. Oggi tutto ciò è come spazzato via; le celebrazioni per la Caduta del Muro, con la regia dello Stato sono soltanto un risveglio coi postumi della sbornia... Il credo politico nel progresso è andato in frantumi; tutte le visioni del mondo ora corrono nella direzione opposta: retrotopia, reazione, regressione su tutta la linea». Il Giornale si è fatto raccontare cosa resta e cosa no di quell'evento che ha cambiato la Storia.
Grünbein come era vivere nella Germania est, un Paese che spendeva le sue energie per creare un confine non per difendere i cittadini ma per imprigionarli?
«Era paradossale. Ci sentivamo come all'interno di uno zoo. Quando arrivavano dei visitatori dall'estero noi eravamo come le bestie nelle gabbie. Comprendevamo di essere rinchiusi proprio facendo il paragone con la libertà di viaggiare degli occidentali. La famiglia di un mio compagno delle elementari riuscì a fuggire. Lui poi mi mandava cartoline da tutte le capitali d'Europa. E questo aumentava ancora la mia sensazione di essere rinchiuso. Negli anni 80 ho richiesto un permesso per andare all'estero. Non era nemmeno una questione politica ma di claustrofobia. Quando è caduto il Muro è stata una sensazione inspiegabile, irripetibile. L'unica parola adeguata è euforia, un'euforia incontenibile».
Lei si rifiutò di prestare servizio come guardia di confine... E che questo le costò l'iscrizione all'università.
«Sì, e per quanto fossi riuscito a disertare restavo comunque un prigioniero. Continuavo a pensare Tu ci morirai prigioniero in questo Paese...».
Dov'era lei quando il muro è caduto?
«Avevo partecipato alle manifestazioni in Alexanderplatz ed ero stato anche arrestato. Le manifestazioni si erano allargate al resto del Paese, come a Lipsia, e avevamo capito che qualcosa stava cambiando in modo inarrestabile e definitivo. Però non ci aspettavamo capitasse così in fretta. Poi vidi la conferenza in televisione in cui quel corrispondente italiano chiese a Günter Schabowski da quando sarebbero stati aperti i confini. Quando rispose Immediatamente, mi precipitai in strada. Fu uno choc come se l'Impero romano invece di crollare nel corso di secoli fosse crollato nel corso di un mese».
Molti hanno da ridire su come si è svolta l'unificazione tedesca sia a Ovest che a Est. C'è un termine preciso per questo: «Ostalgie»...
«La riunificazione è stata soprattutto un fenomeno politico, il progetto della Cdu di Helmut Kohl era anche un progetto elettorale che per i partiti della Germania Ovest valeva milioni di voti e come tale è stato gestito. Per moltissime persone si è rivelato una chance, per alcuni però è stata una catastrofe. Moltissimi tedeschi dell'Est sono stati catapultati nel mercato di cui non sapevano niente. Uno Stato autoritario è anche uno Stato-mamma. Questo ha creato una delusione della libertà che è stata utilizzata soprattutto dai partiti di estrema destra. Scherzando si può dire che molti non perdonano ad Angela Merkel di essere l'unica tedesca dell'Est che ce l'ha fatta davvero. Ma onestamente per la Germania e per l'Europa l'unificazione è stata la soluzione migliore».
Lei parla spesso di retrotopia. Perché?
«La definizione è di Bauman. Secondo me la mancanza di progetti e di sogni seguita alla caduta del Muro ha innescato un meccanismo che genera utopie proiettate all'indietro. Si fa riferimento a delle Heimat, a delle patrie, che esistono solo nella nostra fantasia, non nella realtà, è una fuga verso un passato che non c'è...».
Nonostante la dittatura e l'essere cresciuto nella Dresda ancora devastata, Lei racconta l'infanzia come un periodo dorato.
«L'infanzia è l'età del potenziale infinito. Della pura gioia bisogna portarla sempre con noi. Ma senza idealizzarla, i bambini sono anche piccoli diavoli...».
30 anni senza Muro, 70 anni di NATO. Davvero l’Alleanza è nata in funzione anti-sovietica? Cristiano Puglisi il 13 novembre 2019 su Il Giornale. Pochi giorni fa, il 9 novembre, si è celebrato il trentennale della caduta del Muro di Berlino. Ma il 2019 è anche l’anno in cui cade il 70esimo anniversario dalla fondazione della NATO. Un’alleanza militare nata, secondo le letture più tradizionali, per contrastare il blocco sovietico ma che, appunto, trent’anni dopo il disfacimento di quest’ultimo, è ancora ben presente e salda in Europa. Chi qui scrive ne ha allora approfittato per scambiare due chiacchiere con Roberto Motta Sosa, saggista, studioso di storia delle relazioni internazionali, membro d el gruppo di analisti di “Geopolitica.info”, portale del Centro studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali. Dunque davvero la NATO, come vuole una vulgata ricorrente, nacque esclusivamente in funzione antisovietica? O le sue origini risalgono a momenti e finalità sancite in precedenza? “A uno sguardo retrospettivo che voglia considerare le origini della NATO – spiega Motta Sosa - sembrano offrirsi due letture, peraltro in parte complementari. La prima, rintracciandone gli antecedenti nel Trattato di Dunkirk siglato tra Regno Unito e Francia il 4 marzo 1947, inscrive gli eventi che tennero a battesimo l’Alleanza Atlantica negli anni immediatamente seguenti la fine del Secondo conflitto mondiale. Richiamandosi al concetto di ‘sicurezza collettiva’, quel trattato era espressamente rivolto contro un ritorno della minaccia tedesca e concepito da francesi ed inglesi come potenzialmente estendibile ad altre potenze. Alcuni Stati europei centro-orientali, inclusi nell’orbita sovietica, mostrarono interesse ad aderirvi ma, come illustrato dal ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin in un discorso ai Comuni il 22 gennaio 1948, furono dissuasi da Mosca. Si può ritenere che Stalin e Molotov avessero fiutato l’ambiguità di un trattato che, fungendo da ‘cavallo di Troia’, avrebbe potuto sottrarre i Paesi dell’Est all’influenza sovietica. Bevin aggiunse sibillino che la Gran Bretagna fosse ancora consapevole di dovere giocare un ruolo chiave nel prevenire un nuovo conflitto in Occidente sia nel caso la minaccia dovesse provenire (nuovamente) dalla Germania o da altrove (‘elsewhere’). È superfluo aggiungere che, con quella formula, Bevin si riferisse, in ultima istanza, proprio all’URSS, la quale dopo il ’45 aveva accelerato il processo di consolidamento della propria sfera d’influenza in Europa centro-orientale. Bevin espresse anche l’auspicio che i contenuti del Tratto di Dunkirk fossero estesi al Benelux. Così fu infatti, con la firma, il 17 marzo ’48, del Patto di Bruxelles. Dal canto suo, il Primo Ministro belga, Paul-Henri Spaak, il 28 settembre ’48 all’ONU tenne il “discorso della paura” con cui difese il Patto di Bruxelles e denunciò apertamente l’imperialismo sovietico, aggiungendo come l’URSS fosse l’unica potenza, tra quelle vincitrici del conflitto mondiale, che avesse accresciuto i propri confini attraverso conquiste territoriali. Era stato proprio Spaak, nel gennaio ’48, ad affermare che, considerata la situazione della Germania, il progetto di un’Unione Occidentale a scopo difensivo proposto da inglesi e francesi non avrebbe avuto senso se, "in pectore", non fosse stato concepito contro l’URSS e non avesse incluso gli Stati Uniti. Preceduti dai colloqui segreti intercorsi al Pentagono dal 22 marzo al 1aprile tra Canada, Stati Uniti e Regno Unito, nel luglio ’48 presero così avvio a Washington gli ‘Exploratory Talks on Security’ per la negoziazione del Trattato Nordatlantico, che venne infine firmato nella capitale statunitense il 4 aprile 1949. Queste circostanze diedero origine ad un famoso adagio attribuito a Lord Ismay (primo Segretario Generale della NATO) secondo cui l’Alleanza sarebbe nata per tenere "fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi". Una seconda tesi, che qui indichiamo brevemente, chiama in causa quella "relazione speciale" esistente tra le due sponde anglosassoni dell’Atlantico che, riscontrabile a livello embrionale negli anni in cui veniva concepita ed enunciata la Dottrina Monroe, fu rinvigorita all’indomani della Prima guerra mondiale attraverso think tank creati ad hoc quali il British Institute of International Affairs (oggi Chatham House) e il Council on Foreign Relations. All’interno di questi ‘inner circles’ sarebbero state discusse le basi su cui fondare il lungo e non sempre consensuale passaggio dall’egemonia britannica a quella statunitense. Secondo questa lettura, la nascita della NATO nel ’49 avrebbe rappresentato il suggello a tale disegno, sancendo l’inizio della ‘pax americana’”. Una lettura, quest’ultima, certamente interessante. Poiché aprirebbe una nuova prospettiva sul significato dell’Alleanza Atlantica. Come sul fatto che, nonostante la celebre frase che il segretario di Stato USA, James Baker, rivolse a Gorbaciov il 9 febbraio 1990 (“La NATO non si espanderà ad est nemmeno di un centimetro“), la sua espansione da allora è proseguita quasi inarrestabile. L’ultima novità è il possibile prossimo ingresso dell’Ucraina. Si pone dunque la questione dello scopo della NATO: difensivo o aggressivo? E quanto questo strumento, che sembra sempre di più avere lo scopo di evitare la saldatura strategica tra alcuni Paesi europei e la Federazione Russa, contrasta con i reali interessi geopolitici dell’Europa? “L’Alleanza (al pari delle installazioni militari dei Paesi membri ad essa correlate) – prosegue l’analista – ha, sin dalle sue origini, finalità dichiaratamente difensive come del resto indicato nel Preambolo e negli articoli 1 e 2 del Trattato Nordatlantico. In quanto struttura di difesa e sicurezza collettiva ovvero regionale, nel trattato che la istituì non viene menzionato alcun nemico specifico. L’unica deroga, peraltro tutt’ora oggetto di dibattito circa i suoi aspetti giuridico-internazionali, fu rappresentata dall’operazione ‘Allied Force’ condotta nel 1999 contro la Repubblica Federale di Yugoslavia senza manifesta copertura dell’ONU e motivata sulla base del principio di ‘intervento umanitario’. Bisogna inoltre ricordare che nel corso degli anni Novanta la NATO procedette ad una sorta di trasformazione, adeguando il proprio concetto strategico e le sue strutture a compiti ‘full range’ concernenti anche missioni ‘non articolo-5′ di ‘peace support’ e ‘other crisis-response operations’. Vi è poi la situazione concernente quelle che l’Alleanza ritiene siano minacce attuali alla sicurezza connesse all’acuirsi della crisi ucraina (2014) con espresso riferimento alla postura della Federazione Russa, identificata come rischiosamente asservita. A tal proposito, nel suo discorso del 7 novembre scorso, il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, parlando da Berlino, ha ribadito che l’occupazione (definita illegale) della Crimea e la violazione (imputata alla Russia) del Trattato INF rappresentino elementi di grave turbamento dell’ordine internazionale. Dal canto suo, Mosca, partner (ma) oramai quiescente della NATO, mediante la questione della cosiddetta ‘broken promise’ continua ad eccepire la violazione di garanzie (che sarebbero state) fornite alla leadership sovietica negli anni Novanta dagli Stati Uniti in merito al non allargamento ad Est dell’Alleanza Atlantica. Sarebbe tuttavia azzardato sostenere se e quanto gli obiettivi della NATO, intesa come comunità Euro-atlantica, siano ovvero appaiano in contrasto con i singoli interessi geoeconomici dei suoi membri europei, poiché se tali impedimenti fossero comprovabili risulterebbero non conformi al principio contenuto nell’articolo 2 del Trattato Nordatlantico secondo cui ciascun Stato membro deve sforzarsi di eliminare ogni ostacolo nell’ambito delle politiche economiche internazionali favorendo la cooperazione. Si può quindi forse ritenere che, almeno rispetto alle tematiche economiche, le problematiche siano riconducibili alla dimensione delle relazioni bilaterali, piuttosto che ad una contrapposizione NATO/Russia”. Recentemente il presidente francese Macron, tra i più ferventi sostenitori di una difesa europea, ha affermato (presto criticato dalla cancelliera tedesca Merkel) che la NATO sarebbe in stato di morte celebrale. La Francia vuole recuperare quel progetto di un’Europa “terza forza” tra USA e URSS (oggi il blocco eurasiatico) che già De Gaulle prospettava? E l’Europa può davvero “liberarsi” della NATO? “Macron – conclude Motta Sosa - si riferiva soprattutto al vecchio e ricorrente tema della difesa comune europea che il 25 giugno 2018, su impulso francese, ha assunto la forma della “Initiative européenne d’intervention” (IEI), a cui sino ad oggi hanno dichiarato di volere aderire, insieme alla Francia, dodici Stati europei membri (ad eccezione della Svezia, che non aderisce dell’Alleanza Atlantica, e della Norvegia, che non è membro UE) sia della NATO che dell’UE. L’Italia ha comunicato la sua adesione il 19 settembre scorso. Il Presidente francese ha posto due questioni in particolare: la necessità, dopo la fine della stagione bipolare, di un adeguamento dello ‘scopo sociale’ della NATO e l’idea che si possa costruire quella che egli ha definito l’’autonomie stratégique européene’, in antitesi alla visione di un’Europa progettata come ‘junior partner des Américains’. A ciò si possono verosimilmente accostare le mai sopite ambizioni francesi ovvero golliste, che Macron ha lasciato trasparire affermando che in caso di Brexit la Francia resterebbe l’unica potenza nucleare nell’UE. Quest’ultimo passaggio rischia tuttavia di entrare in contraddizione con quanto da lui stesso sostenuto circa il fatto che il lungo periodo di stabilità osservato in Europa dopo il ’45 sia stato il frutto di ‘une équation politique sans hégémonie qui [a permis] la paix’. Sembra inoltre di capire che per Macron, la ‘mort cérébral’ della NATO riguarderebbe soprattutto le modalità dell’intervento turco in Siria (definito “agression”) e i rischi connessi all’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica ossia le possibili conseguenze derivanti dall’incapacità dell’Alleanza e dei suoi membri europei di evitare che gli opposti obiettivi di Ankara e Damasco entrino militarmente in contatto nel teatro siriano. Quanto alla ‘liberazione europea dalla NATO’ nessun membro europeo sino ad oggi ha manifestato l’intenzione di uscire dall’Alleanza. Unicamente la Francia, come noto, si distaccò dal solo comando militare integrato nel 1966 rientrandovi però nel 2009. Se nessun alleato europeo ha sino ad oggi palesato ovvero formalizzato una simile istanza è plausibile ipotizzare due cose: o la NATO, a tutt’oggi, continua, tutto sommato, a rispondere alle esigenze dei suoi membri, oppure non si è ancora trovata una valida alternativa ad essa. Si consideri che il Trattato Nordatlantico contiene strumenti che potrebbero fornire una soluzione a tale dilemma. L’articolo 13 prevede infatti che, trascorsi vent’anni dalla firma del trattato, un membro possa cessare di farne parte trascorso un anno dal deposito della sua notifica di denuncia presso il governo degli Stati Uniti. L’articolo 12 contempla altresì l’eventualità che, dopo dieci anni dall’entrata in vigore del trattato, in qualsiasi momento le parti contraenti, su richiesta di una di esse, possano consultarsi per sottoporlo a revisione. Dai contenuti dell’intervista rilasciata da Macron all’’Economist’ il 7 novembre scorso sembra di potere prudentemente dedurre che l’IEI possa affiancarsi, anziché sostituirsi, alla NATO quale braccio operativo dei suoi membri europei nel teatro mediterraneo-mediorientale”. Una questione che balza all’occhio, visto il protagonismo proprio di Macron ma anche della stessa Merkel pone la questione di chi, in ipotesi, potrebbe rappresentare in futuro la potenza egemone di un’Europa “post-NATO”. Ma la questione fondamentale, soprattutto, è se un’Europa simile sia possibile. “Il proficuo perseguimento – conclude Motta Sosa - di una geopolitica coerente con i propri interessi nazionali è soprattutto il frutto di un efficace mix di ‘hard’ e ‘soft power’. La questione è se ciò possa avvenire anche per un agglomerato di Stati eterogenei quale è l’UE. Durante la Guerra Fredda l’Europa, perché stremata da due guerre mondiali combattute nell’arco di trent’anni, aveva delegato giocoforza buona parte del suo ‘hard power’ alla NATO ovvero ai processi decisionali facenti capo al corpo politico e militare dell’Alleanza. Piaccia o no, di fatto, per settant’anni l’’esercito comune europeo’ è stata rappresentato dalla NATO. Nei decenni, questa circostanza ha apportato dei vantaggi: dalla fine della Seconda guerra mondiale all’insorgere delle guerre jugoslave (1991) l’Europa ha vissuto una seconda ‘belle époque’, grazie anche all’ombrello fornitole dall’Alleanza Atlantica. Considerate queste premesse, porsi la questione di una leadership europea incarnata da un singolo Stato appare anacronistica, perché riproporrebbe forse lo scenario di una corsa per l’egemonia che nei primi quattro decenni del Novecento era già stata risolta chiamando in causa e accettando un egemone extraeuropeo, gli Stati Uniti. Macron, nella sua recente intervista, ha affermato di volere la Germania ‘avec nous’. Tuttavia la cancelliera e il ministro degli Esteri tedesco hanno ritenuto di censurare il giudizio del capo dell’Eliseo sulla NATO, sostanzialmente allineandosi alla “difesa d’ufficio” pronunziata da Stoltenberg. Sino ad oggi ogni residua competizione franco-tedesca è stata risolta mediante la sintesi rappresentata dalla, effettiva, ‘due diligence’ di Parigi e Berlino sui principali temi inerenti al funzionamento della comunità europea. Va da sé che mentre la Francia può oggi rivendicare un primato militare sull’antico nemico, dal canto suo, la Germania rappresenta un importante anello di congiunzione tra l’Europa occidentale e la Russia, come, ad esempio, testimoniano le questioni energetiche connesse al gasdotto Nord Stream (sgradito agli Stati Uniti). Peraltro, la storia del Novecento ha già assistito ad una alleanza europea guidata dalla Francia: nel primo dopoguerra Parigi fu patrocinatrice del sistema della Piccola Intesa, che raggruppava Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Nel 1933 tale alleanza divenne un’organizzazione internazionale con un Consiglio permanente, un Segretario e un Consiglio economico. Nata per contenere soprattutto il revisionismo ungherese, nell’agosto del ’38 quell’alleanza finì invece per stringere patti che consentirono a Budapest di riarmarsi (Accordi di Bled) esaurendosi infine nel corso di quello stesso anno a Monaco a causa della condotta delle potenze occidentali intervenute nella gestione della crisi cecoslovacca”.
· Comunisti 1969. Lobby Continua.
Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 28 ottobre 2019. "Lotta Continua promette anche un inverno più caldo". È il 28 novembre del 1969 quando La Stampa, il quotidiano della Fiat, titola così la nuova puntata dell' inchiesta di Giampaolo Pansa sui "movimenti estremisti di Milano". Scrive il giornalista: "Dice Lotta continua: “L' operaio oggi deve lottare contro due padroni: quello di sempre e quello che si è aggiunto, quello nuovo, il sindacato”. Sì esce dalla lettura del settimanale storditi da un'immagine allucinata della realtà italiana". Qualche riga dopo, Pansa aggiunge: "Nascono così i nuovi slogan: "Lotta dura-senza paura", "Lotta continua è ciò che vale se vuoi combattere il capitale". E all'orizzonte si profila, adagio, "l' inverno caldo"". L' inverno del 1969 è sicuramente caldo, ma per un altro motivo: la bomba di piazza Fontana, a Milano del 12 dicembre. Ovvero il culmine della strategia della tensione, la "Strage di Stato" ideata ed eseguita in un milieu che raccoglie pezzi dello Stato, servizi segreti non solo italiani, gruppi neofascisti, il cui obiettivo è di instaurare un regime di destra sull' esempio di quello dei colonnelli greci. Nel senso indicato da Pansa, invece, l' autunno era stato più scottante con le migliaia di ore di sciopero di tutte le categorie sociali, le battaglie dure dei lavoratori alla Fiat e alla Pirelli, i cortei degli studenti. In questo contesto, un anno dopo il '68, quando la rivoluzione per qualcuno sembrava alle porte, il primo novembre 1969 esce il numero uno di Lotta Continua, in seguito settimanale e quindi quotidiano. Inizia così da Torino la storia della maggiore formazione dell' estrema sinistra italiana, conclusasi con lo scioglimento nel 1976. Una storia che, nel 1988, avrebbe avuto come epilogo drammatico l'arresto (e poi le condanne definitive nel 1997) dell' ex capo di Lotta continua (Lc) Adriano Sofri, di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, per l' omicidio nel 1972 del commissario di polizia Luigi Calabresi. In quel medesimo 1988, in Sicilia, la mafia avrebbe assassinato Mauro Rostagno, che era stato un rappresentante di rilievo del movimento. Intanto, quel primo novembre del '69, su Lotta Continua, in prima pagina, ci sono due soli articoli. Uno è sulle lotte a Pisa; l' altro è intitolato "Operai e sindacati di fronte ai contratti". Guido Viale, uno dei dirigenti degli studenti torinesi e poi del gruppo di Lc, rammenterà che quel numero fu pagato "vendendo un quadro che ci era stato donato da Giovanni Pirelli", l'intellettuale di sinistra fratello di Leopoldo Pirelli, il padrone dell' omonima grande azienda milanese. La sigla che dà il nome al periodico, ha rievocato Luigi Bobbio, uno dei figli di Norberto Bobbio, tra i leader della stessa Lc, era apparsa già "dal 27 maggio 1969 in calce ai volantini distribuiti fuori dai cancelli della Fiat che fino ad allora uscivano con la firma 'a cura di operai e studenti'". Nel presentare il giornale, redatto allora da Bobbio e da Viale, in quel novembre del '69 si sottolinea che l' idea "è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale in una prospettiva rivoluzionaria". Lotta Continua nasce su basi operaiste e movimentiste dalla convergenza di alcuni esponenti del movimento studentesco di Torino, Trento (con Marco Boato e Mauro Rostagno), Pisa e altre città, oltre che del gruppo del "Potere Operaio" pisano, in cui militava Adriano Sofri. Proprio il trasferimento di Sofri a Torino, nella primavera del '69, e l' incontro tra alcuni studenti e operai della Fiat Mirafiori, fu determinante, scrive Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata da Feltrinelli, "nel definire la natura e l' esistenza stessa di Lotta Continua". Il movimento nato nel '69 morì in un altro novembre, quello del '76, dopo l' ultimo congresso, travolto dalla fine dell' antagonismo operaio, dalla crisi della militanza, dagli insuccessi elettorali dell' estrema sinistra, dallo scontro col femminismo. Il quotidiano sopravvisse fino al 1982. Nella Storia di Lotta Continua, Bobbio (morto nel 2018) osserva che "la crisi della militanza è l'espressione di un malessere antico, iniziato molto prima, quando l' adesione alla politica come 'scelta di vita' aveva cominciato a separarsi dalle ragioni e dagli impulsi originari che l' avevano determinata (la ribellione, il movimento) per diventare attivismo e mestiere". Dopo l' arresto di Sofri, su Lc si abbatté una campagna denigratoria. Si sostenne l' esistenza di una sorta di lobby degli ex del movimento, gente che aveva fatto carriera, dalle grandi aziende ai mass media, e che però cercava, nel contempo, di inquinare le prove sul delitto Calabresi. Enrico Deaglio, già direttore di Lotta Continua, in un' intervista del 1988 a Repubblica rispose: "Il giudice teme che gli ex di Lotta Continua possano inquinare le prove e per questo motivo nega persino gli arresti domiciliari ai 3 imputati. Il giudice Lombardi non ha nulla da temere. Aver paura di complotti a dodici anni dallo scioglimento di Lotta Continua è al di fuori della realtà. Non siamo la P2 , né una lobby con affari e potere da rivendicare. Siamo solo un club. Un club a ingresso limitato, di persone di mezza età che ogni tanto si incontrano per giocare a ping pong" .
· Internet compie 50 anni.
Internet compie 50 anni; storia di un cambiamento continuo. Il 29 ottobre 1969 la prima trasmissione di un pacchetto di dati tra due computer, inizio di una evoluzione che ha modificato le nostre vite. Ma il 5G e l'IoT sono ancora un miraggio per molti. Alessio Caprodossi il 29 ottobre 2019 su Panorama. I suoi primi cinquanta anni hanno cambiato il mondo, i prossimi cinquanta continueranno a migliorarlo. Sembra banale ma non ci sono altre possibilità di sintesi così estreme per quantificare l’impatto che ha avuto Internet sulle nostre vite, accorciando le distanze spazio-temporali e rivoluzionando il modo di comunicare, informarsi e fare acquisti, tanto per citare solo alcune delle potenzialità che all’epoca neppure i pionieri della rete avevano immaginato potessero rivelarsi tali. L’avvio delle operazioni, datate 29 ottobre 1969, con il collegamento tra un computer dell’Università di Los Angeles e un altro presso il Research Institute di Stanford, passò quasi in sordina, non solo perché non ci furono giornalisti e fotografi a raccontare e immortalare l’attimo storico, ma anche e soprattutto perché quello era l’anno dello sbarco sulla Luna, con il sigillo degli Stati Uniti nella corsa allo Spazio contro l’Urss che campeggiava sui giornali e dominava le chiacchiere quotidiane.
I primi vagiti. Per quanto in origine il progetto Arpanet fosse legato al Dipartimento della Difesa Usa e concepito in ambito militare, Internet dovette attendere un ventennio prima di diventare cosa nota oltre la ristretta cerchia di ingegneri, informatici e visionari che hanno costruito le fondamenta. In questi anni, però, si sono susseguiti alcuni dei tratti distintivi della Rete, come l’introduzione della chiocciola @, l’invio della prima email, i collegamenti oltre confine, con Norvegia e Regno Unito che si aggiunsero agli Stati Uniti, e la nascita dei domini .com e .org per identificare i vari nodi della Rete e pensionare le stringhe di numeri difficili da memorizzare (il primo dominio italiano è opera del Centro nazionale di ricerca, cnr.it).
La grande onda. Il nuovo protocollo HTTP e i collegamenti ipertestuali che permettono di legare due o più documenti tra loro tramite link sono la base su cui nel 1989 il britannico Tim Berners-Lee (nella foto qui sopra) crea il World Wide Web, cui segue il primo browser (Mosaic) che consente di navigare tra le varie pagine web. Nascono i primi fenomeni, come Napster per la condivisione dei file musicali ed eBay che apre il campo alle vendite online, mentre Nokia prima e la Apple con l’iPhone poi portano il web dentro a cellulari e smartphone. Nel 1998 arriva Google a mettere ordine tra gli ormai infiniti indirizzi web, fioriscono i blog personali, la velocità di connessione corre veloce e, a stretto giro, nascono social network (Facebook, nel 2004), piattaforme per la condivisione di video (YouTube, nel 2005) e quelle per microblogging (Twitter, nel 2006).
La sfida del futuro. La rapida successione di novità si accompagna a nuovi modi per la fruizione dei contenuti e alla centralità di oggetti che diventano irrinunciabili (come lo smartphone), anche perché il web apre scenari inediti pure in ambito lavorativo. Essere connessi diventa un’esigenza, per molti un obbligo, ma l’evoluzione non si ferma, incluse le sue derive: in principio erano i virus, ora sono le fake news con sullo sfondo la consueta querelle legata all’uso dei dati e alla protezione della privacy. E mentre si avvicina il momento delle reti di quinta generazione – che, grazie alla maggiore velocità di connessione e alla bassa latenza, consentiranno di connettere milioni di oggetti aprendo la strada all’Internet of Things, favorendo la maturazione dei processi utili per cambiare il volto delle città e completare l’agognata Smart Home - la sfida più grande è un’altra, perché il progresso generato dalla Rete è stato finora goduto da poco più di metà della popolazione mondiale. L’obiettivo del prossimo decennio è perciò consentire l’accesso al web a chi ancora non ha avuto possibilità di conoscerlo.
· Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia.
Linate, 8 ottobre 2001: 18 anni fa la tragedia. 118 vittime e un solo superstite, quando il volo SAS diretto a Copenaghen impattava con un Jet privato entrato in pista per errore. Edoardo Frittoli il 7 ottobre 2019 su Panorama. Aeroporto di Milano Linate. 8 ottobre 2001. La nebbia è fittissima sulla pista, la visibilità ridotta tra 50 e 100 metri. Poco prima delle 8 il McDonnell-Douglas MD-87 marche SE-DMA della compagnia Scandinavian si avvia al rullaggio pronto al decollo alla volta di Copenhagen. Sul volo SK686 ci sono 104 passeggeri e 6 membri dell'equipaggio. Pochi minuti dopo la torre di Linate autorizza al rullaggio per la pista 36R. Contemporaneamente dalla piazzola dell'aviazione generale si muoveva il jet privato Cessna Citation D-IEVX anch'esso autorizzato dai controllori di volo. Invece di prendere la pista di congiunzione Romeo 5, l'aereo privato prendeva la Romeo 6, mentre gli avvisatori automatici di invasione di pista erano spenti per i numerosi falsi allarmi del sistema. Alle ore 8, 10 minuti e 21 secondi l'MD-87 impattava con il Cessna alla velocità di oltre 270km/h. In pochi attimi, sulla pista grigia di Linate si verifica il più grave incidente della storia dell'aviazione civile italiana: i morti sono 118. Tutti i passeggeri e l'equipaggio del volo SAS, i quattro occupanti del Cessna e quattro dipendenti della Sea, la società di gestione aeroportuale dello scalo milanese dopo che l'MD-87 in fiamme colpì devastandolo il capannone adibito a deposito bagagli. Le cause del gravissimo incidente furono identificabili in una serie di concause: inadeguatezza della segnaletica di pista dell'aeroporto di Linate, condizioni meteorologiche avverse, assenza di strumentazione ausiliaria di sicurezza a terra (radar), negligenza del personale di controllo in tali condizioni. Il processo agli imputati per strage colposa,si è concluso dopo 7 anni con pene assai ridotte ai responsabili dell'Enav. La segnaletica di pista e i sistemi di sicurezza-navigazione dell'aeroporto di Linate sono stati completamente rivisti e aggiornati dopo il disastro dell'8 ottobre. Dal 2002 le vittime di Linate (58 gli italiani) sono ricordate nel Bosco dei Faggi all'interno del Parco Forlanini dove sono stati piantati 118 alberi a perenne ricordo. E' attivo il Comitato 8 ottobre, che riunisce i familiari delle vittime della tragedia e si occupa di sensibilizzazione e divulgazione delle informazioni sulla sicurezza del volo.
· Willy il Coyote compie 70 anni.
Willy il Coyote compie 70 anni. 10 cose che non sapete di lui. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Corriere.it. Buon compleanno, Willy il Coyote! Il coyote più famoso (e sfigato) della storia, ha appena compiuto 70 anni. Era il 16 settembre del 1949 quando uscì il primo episodio della serie intitolato Fast and Furry-ous (un gioco di parole fra furry - peloso - e furious - furioso). Da allora generazioni di bambini e adulti non hanno mai smesso di tifare per lui. Nessun altro personaggio dei cartoon, neanche Tom e Gatto Silvestro, se la passa tanto male. Quelli, al netto delle lezioni che puntualmente gli rifilano le loro inafferrabili prede (il furbissimo Jerry, l’antipatico Titti), tutto sommato sono dei bei gattoni in salute. Lui no: magro da far paura, quasi macilento, mica si diverte a giocare al gatto col topo (o col canarino). Lui, morso dalla fame, insegue l’unica preda papabile laggiù nel deserto dove vive: l’imprendibile Beep Beep, una specie di struzzo che si fa beffe di lui condannandolo ogni volta a un finale letteralmente apocalittico. Ecco allora, per tutti quelli che continuano inutilmente a fare il tifo per lui, dieci curiosità sul coyote più fantozziano della storia.
Che animale è Beep Beep? Anche se molti pensano che sia uno struzzo, o la sua versione amerinda: il nandù, Beep Beep in realtà è un uccello del deserto americano appartenente alla famiglia dei cuculidi. Nome scientifico: geococcyx californianus, comunemente chiamato roadrunner (corridore).
Chi ha inventato Willy il Coyote? Il papà di Willy il Coyote (Wyle E. Coyote nella versione originale) si chiama Chuck Jones. Oltre a Willy e Beep Beep, ha inventato altri personaggi memorabili della serie dei Looney Tunes come Marvin il Marziano e la puzzola Pepé le Pew.
A chi è ispirato Willy il Coyote? Come ha raccontato lo stesso Chuck Jones, il personaggio è ispirato al racconto semi autobiografico di Mark Twain Roughing it (in italiano «In cerca di guai»), in cui lo scrittore americano descrive il coyote come «una allegoria vivente del bisogno: ha sempre fame, è povero, sfortunato, senza amici». E ancora: «E’ lungo, magro, malato, uno scheletro spelacchiato». Praticamente: Willy.
Da Don Chisciotte a Don Coyote. Ma i riferimenti letterari non si fermano qui. Nei primi episodi Willy Coyote viene chiamato Don Coyote perché nel suo eterno inseguimento di Beep Beep somiglia a Don Chisciotte coi mulini a vento.
Willy parla mai? In genere è muto, al massimo si esprime tramite l’uso di cartelli. Solo in due corti, dove ha per antagonista Bugs Bunny, prende finalmente la parola sfoderando un comicissimo accento inglese. Non prima però di aver mostrato un esilarante biglietto da visita che recita: «Wile E. Coyote. Genius».
Dove vivono Willy e Beep Beep? Nella Monument Valley.
Cosa c’entra la coda di Willy con l’onda di Hokusai? Un’altra fonte di ispirazione per Chuck Jones sono i dipinti classici giapponesi: in particolar modo la celebre onda di Hokusai. «Le onde giapponesi non sono fatte per navigarci ma per affogarci. Il modo normale di disegnare la coda di un animale - ha detto una volta Jones - dallo scoiattolo al cane, è di farla rotonda e morbida come le onde occidentali; rovesciala e avrai la coda del coyote: non una coda da sirena ma una coda di topo».
Ma Willy cattura mai Beep Beep? Sì, succede effettivamente una volta sola in un cartoon del 1980 intitolato «Soup or Sonic». Ma il finale è anche più amaro del solito perché quando finalmente Willy raggiunge Beep Beep, essendo passato attraverso un tubo telescopico, è diventato una specie di lillipuziano e ha di fronte a sé un gigante. L’ultima inquadratura, con immancabile cartello, parla da sola: «Okay, wise guys, you always wanted me to catch him. Now what do I do?». Ok, ragazzi: avete sempre voluto che lo catturassi. E ora che faccio?
· Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.
Grazie Pippi Calzelunghe, ci hai insegnato la libertà. Cinquant’anni fa andava in onda per la prima volta la serie tv. Angela Azzaro il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. Ognuno di noi deve ringraziare uno scrittore o una scrittrice, un pittore, un poeta o una regista che con una sua opera, un suo personaggio, una sua intuizione non solo ci ha emozionati, ma ci ha cambiato la vita. È quello che è successo per molte donne nel mondo quando hanno letto Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, la scrittrice svedese morta nel 2002 all’età di novantacinque anni. È grazie alla sua fantasia che milioni di bambine nel mondo hanno potuto identificarsi con un personaggio femminile libero, ribelle, felice. Un personaggio rivoluzionario. Invece delle solite principesse, principi azzurri, baci, rane e ranocchi, piomba nell’immaginario collettivo una bambina magica e autonoma, capace e determinata, circondata da strani animali che considera la sua famiglia. Il romanzo viene pubblicato nel 1945. Lindgren si inventa la storia di Pippi Calzelunghe per la sua bambina, e costretta a letto da una caviglia rotta la mette per iscritto. Quasi venti anni dopo, nel 1969, è il momento della serie tv che consacra definitivamente il romanzo, la storia e la scrittrice. Capelli rossi legati in due code laterali, lentiggini, sorriso smagliante, scarpe enormi e calze lunghe, Pippi conquista da subito anche il pubblico italiano. Vive sola in una casetta sull’isola di Gotland con – come recita la bellissima sigla italiana – un cavallo a pois neri e la scimmia, che chiama signor Nilson. Il padre è un pirata dei mari del Sud. Le sue assenze non sono motivo di tristezza, come non crea nessun problema la mancanza della madre. Anzi, è forse proprio questa la scelta vincente. Per essere autonoma, libera e felice Pippi si deve liberare dal modello materno, stare lontana anche dal padre, da prendere a piccole dosi, e costruire da sola una nuova vita. Lindgren è stata pubblicata in oltre cento Paesi e tradotta in circa settanta lingue. Ma nella sua vasta e preziosa produzione non c’è solo la ragazzina ribelle. Ci sono una marea di personaggi e di avventure, alcuni dei quali diventano altrettante serie tv: L’isola dei gabbiani, Karlsson sul tetto, Emily. Sono tutte storie che raccontano un’infanzia in cui bambini e bambine stanno sullo stesso piano, giocano allo stesso modo, amano ugualmente l’avventura. Lindgren smonta gli stereotipi, distrugge i ruoli e con Pippi Calzelunghe compie il miracolo: costruire una storia di libertà da cui non si può tornare indietro. Ben prima che in Italia venisse pubblicato il saggio Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belot- ti, la scrittrice svedese spezza le catene di un immaginario dogmatico e stereotipato e dice alle bambine di tutto il mondo: anche voi potete sognare, anche voi potete fare le magie, anche voi potete salire sugli alberi, anche voi potete vivere da sole, anche voi… Ma non lo dice solo alle bambine. Lo dice anche ai bambini. Anche loro liberati da fardelli e ruoli, possono sprigionare la propria immaginazione. Non è un caso che Stieg Larsson, l’autore della trilogia Millennium, poi proseguita da un altro scrittore, facesse spesso riferimento a Lindgren. Uomini che odiano le donne, primo romanzo della trilogia, non poteva che essere scritto da un uomo che aveva messo in discussione se stesso e la propria identità anche grazie alle sue letture. La protagonista Lisbeth Salander che si vendica dell’uomo che la ha violentata si ispira a Pippi Calzelunghe. La trilogia è piena di riferimenti e lo stesso Larsson ammise la filiazione. Lisbeth è una Pippi dell’era digitale, una ribelle di oggi alle prese con un mondo poco fiabesco e molto violento. Eppure del personaggio di Lindgren conserva la determinazione, l’indipendenza, la voglia di raggiungere i propri obiettivi. Anche lei vive sola, non si arrende mai, neanche quando tutto sembra precipitare. Millennium è una bellissima trilogia, un affresco in alcuni casi addirittura profetico sulle contraddizioni del mondo occidentale. Ma è soprattutto un inno alla libertà femminile. Anche il protagonista maschile della trilogia, Mikael Blomkovist, si ispira al quasi omonimo giovane detective di Lindgren, e per prenderlo in giro lo chiamano come lui, Kalle. Un altro bel libro, un’altra bella storia. Oggi non ci resta che sperare che le nuove generazioni di bambini e bambine leggano il romanzo e vedano la serie tv. Molte cose sono cambiate ma l’immaginario collettivo è forse l’ambito più restio a registrare i mutamenti identitari e sociali. Per quello Pippi Calzelunghe resta ancora oggi il manuale delle ragazzine ribelli, delle ragazzine che vogliono giocare, divertirsi, stare all’aria aperta, sperimentando tutto quello che il mondo offre. L’arte della libertà si impara fin da piccole e il personaggio di Pippi Calzelunghe è il miglior esempio che si possa augurare anche alle bambine di oggi.
· Felix, che compie proprio oggi 100 anni.
Marco Giusti per Dagospia il 10 novembre 2019. Charles Lindbergh aveva un pupazzo di Felix The Cat quando sorvolò l’Atlantico nel 1927, Paul Hindemith preparò una musica originale dedicata a Felix nel 1928 per il festival di Baden-Baden, nello stesso anno l’immagine del faccione di Felix apparve come monoscopio della futura tv sperimentale, l’artista Mark Leckey ha dedicato a Felix opere e dotti studi. Nessun altro personaggio animato negli anni ’20 era popolare come Felix, che compie proprio oggi 100 anni, visto che il suo primo cartoon, Feline Follies, era uscito nel lontano 9 novembre 1919. Il suo vero ideatore, regista e principale animatore, Otto Messmer, lo aveva modellato sulla figura dei grandi comici del tempo, da Charlie Chaplin a Buster Keaton. Messmer aveva capito che per sfondare, i cartoon dovevano avere un forte protagonista ben riconoscibile e comico. Felix fu in assoluto il primo essere di cartone dotato di una certa personalità, di una stravagante forza surreale. Sia Messmer che il produttore della serie, l’australiano Pat Sullivan, che deteneva i diritti sulla serie e aveva il nome sui titoli di testa, sostenevano che Felix non era una versione maschile della Krazy Kat fumetto di George Herriman, quanto una sorta di trascrizione del “Gatto che cammina da solo” protagonista di un celebre racconto di Rudyard Kipling del 1902. Un gatto che grazie alla sua astuzia teneva testa alla donna che viveva in una caverna e aveva come motto “Io sono il gatto che se ne va da solo e per me tutti i posti sono uguali”. Come il gatto di Kipling anche Felix è totalmente libero di andare dove vuole. Inoltre può aiutarsi col suo proprio corpo fatto di inchiostro e di carta, può servirsi della coda per formare un punto interrogativo. E’ un gatto astratto, folle, ma sempre in movimento perché nasce per il cinema e non per il fumetto. Nato su richiesta di Pat Sullivan per il “Paramount Magazines” deve il nome a John King, che associò tra loro le parole latine “felis” e “felix”. Diventato popolarissimo da subito, nel 1922 diventa mascotte ufficiale dei New York Yankees, ogni cartoon, e ne usciva uno nuovo ogni due settimane, faceva incassare a Sullivan circa 10 000 dollari puliti. Messmer allarga così lo studio, chiama giovani animatori a lavorare con lui, come Al Eugster e William Nolan. “Non c’erano copioni”, raccontava Eugster, “Otto Messmer aveva tutto in testa. Un film cominciava con un’idea e degli schizzi che dava al capo animatore. Se ne parlava tutti assieme e si cominciava a disegnare. Mentre lavorava Otto pensava continuamente, ad alta voce, a nuove idee per questo film o per il successivo. Animava e pensava contemporaneamente. Non so come facesse”. E’ però Nolan a dare a Felix quella rotondità che prima non possedeva, a renderlo anche più facile da disegnare. Dei 150 cartoon di felix, molti sono dei capolavori. Con l’avvento del sonoro, però, tutto si fermò. Sullivan non voleva lasciare il muto. E nei primi anni ’30, quando ormai era arrivato Mickey Mouse, il topastro sonoro, accadde di peggio. Nel 1932 la moglie di Sullivan si uccise cadendo dalla finestra mentre cercava di farsi notare dall’autista del marito. Poi, nel 1933, muore anche Sullivan, alcolizzato e depresso. Non riuscendo a trovare in Australia un parente lontano o vicino di Sullivan che potesse prendere in mano la produzione, lo studio chiuse senza che Messmer, che era il vero artefice del successo del gatto, potesse far niente per impedirlo e vantare qualche pretesa sui cartoon. Lasciò l’animazione, dedicandosi a disegnarlo Felix a fumetti e a dare vita a grandi insegne luminose su Times Square fino agli anni ’70. Negli anni che verranno si tenterà di riportare in vita Felix, ma senza grande successo. Ma andate a rivedervi qualche vecchio cartoon di Felix e vedrete quanto è pazzo e moderno ancora oggi.
· 17 novembre 1869: inaugurato ufficiale del Canale di Suez.
Suez, Cairo e Roma e i 150 anni di storia che hanno cambiato il Mediterraneo. Il 17 novembre 1869 nasceva la nuova «via delle Indie», uno dei gangli vitali dell'economia mondiale, grazie a dei padrini italiani. Il libro di Marco Valle ne affronta il passato e il presente. Eugenio Di Rienzo, docente di Storia alla Sapienza, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. Il Giro del mondo in ottanta giorni, pubblicato da Jules Verne nel 1873, non sarebbe stato mai scritto se l'apertura del Canale di Suez inaugurato ufficialmente il 17 novembre 1869, dopo dieci anni di lavori non avesse tracciato la «via orientale verso l'Oriente» in grado di rendere immensamente più veloce il tragitto verso l'India, la Cina e il Sud-est asiatico. Se la galleria del Moncenisio, ultimata nel 1871, permetteva di compiere il viaggio Londra-Brindisi in treno, arrivati nel porto pugliese, merci e viaggiatori europei potevano, infatti, far rotta verso l'Asia in poco meno di novanta giorni perché il taglio dell'istmo consentiva, ormai, di raggiungere quella destinazione senza circumnavigare l'Africa. Come ci mostra Marco Valle, nel suo importante volume, Suez. Il Canale, l'Egitto e l'Italia, Da Venezia a Cavour, da Mussolini a Mattei (che colma una lacuna della storiografia italiana e che a tutt'oggi costituisce l'unica opera su questo tema presente nel catalogo editoriale del nostro Paese), dopo l'apertura delle rotte atlantiche nel XVI secolo, la nuova «via delle Indie» fece riacquistare al Mediterraneo e di conseguenza anche al nostro Paese una nuova giovinezza economica e strategica, come collegamento privilegiato tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Il Canale costituiva un tragitto alternativo, ambito da tutte le potenze europee, prima fra tutte l'Inghilterra, che si sforzò di favorire il processo unitario italiano con lo scopo di utilizzare il meridione della Penisola come avamposto del suo impero, potendo contare su un Regno d'Italia (amico e cliente), che, impiantato nel cuore del Mediterraneo occidentale, doveva assicurare il libero transito dei navigli britannici. I disegni e le preoccupazioni di Londra risalivano alla fine del XVIII secolo, quando il primo Bonaparte, nel corso della campagna militare in Egitto e Siria, comprese che l'apertura della direttissima di Suez avrebbe potuto emancipare l'Asia meridionale dal dominio di Londra. Né i timori della Gran Bretagna per un'azione contro l'India cessarono dopo il 1815, ma anzi si rafforzarono quando Napoleone III prese l'iniziativa di aprire una nuova «via delle spezie», con il taglio dell'istmo di Suez. Questo progetto era già riemerso con forza quando, su ispirazione del Cancelliere austriaco Klemens von Metternich, fu fondata nel 1846, a Parigi la Société d'Etudes du Canal de Suez. Del gruppo di lavoro facevano parte esperti francesi, inglesi, austriaci e, tra questi ultimi, l'ingegnere capo delle ferrovie del Lombardo-Veneto, il trentino Luigi Negrelli. Fu proprio il progetto di Negrelli a essere selezionato da una Commissione scientifica internazionale, costituitasi, nel 1854, sotto l'egida della Francia e dell'Egitto per iniziativa dell'imprenditore Ferdinand de Lesseps. A nulla valse la resistenza dell'Inghilterra per sabotare l'impresa, che prese avvio il 25 aprile 1859. La sconfitta di Londra si tramutò, però, in un'ampia vittoria diplomatica, perché, terminati i lavori, la gestione amministrativa economica e militare del nuovo percorso marittimo fu attribuita alla «Compagnia del Canale», dove sedevano i soli rappresentanti della Francia e del Regno Unito, quest'ultimi come azionisti di maggioranza dopo il 1875. Inoltre, dopo il conflitto anglo-egiziano del 1882, «Albione perfida e rapace» fortificò ulteriormente la sua posizione di egemonia arrivando, così, al controllo incontrastato dell'autostrada acquatica che collegava la nebbiosa isoletta dell'Atlantico al più prezioso gioiello del suo impero. L'Italia, nonostante la sua posizione geostrategica, fu esclusa da ogni partecipazione alla Compagnia del Canale. E ciò avvenne nonostante i tentativi esperiti nel 1882 dal ministro Pasquale Mancini (respinti da Londra) di «organizzare per la libera navigazione del Canale di Suez un servizio puramente navale di polizia e sorveglianza al quale tutte le potenze sarebbero chiamate a partecipare». Paga del suo ruolo di junior partner della «Dominatrice dei Mari», e rassicurata dalla convenienza del cosiddetto «sistema mediterraneo», la nostra diplomazia non insistette, infine, sulla possibilità di partecipare, insieme alla Spagna, all'amministrazione del Canale. La musica cambiò con Mussolini, che dopo aver conquistato l'Etiopia non fece più mistero delle sue pretese sulla «nuova rotta delle Indie». Dalla fine del conflitto, Palazzo Venezia avanzò, con insistenza crescente, ma senza trovare ascolto, l'istanza di «spezzare la sbarre del Mediterraneo che imprigionavano l'Italia nel suo stesso mare», arrivando all'internazionalizzazione di Gibilterra e a una partecipazione del nostro Paese all'amministrazione della Compagnia. Riproposte ancora nella primavera del 1940, come conditio sine qua non per mantenere l'Italia in uno stato di neutralità, queste richieste non ebbero esito. Infine Londra si dichiarò favorevole all'ingresso di un rappresentante italiano nel Board of Directors of the Suez Canal Company che poteva essere reso possibile una volta che si fossero superate alcune difficoltà procedurali. Il soddisfacimento delle ambizioni italiane arrivò, però, troppo tardi. Il tempo delle trattive era ormai finito e il 10 giugno la parola passò alle armi. Con scarso successo, però. L'unico importante risultato fu colto, infatti, dalla Regia Marina che, con il blocco del Mediterraneo centrale e dell'Egeo, riuscì a paralizzare la rotta Gibilterra-Suez, arrecando un grave danno allo sforzo bellico britannico che, dopo il 7 dicembre 1941, si trasformò in un vulnus importante per il British Empire impegnato contro il Giappone nel teatro asiatico. La rivincita dell'Italia si ebbe nel dopoguerra quando Roma abbandonò «la politica delle armi» per imbracciare «le armi della politica». La crisi mediorientale iniziata nella seconda metà del 1955, sfociata nella nazionalizzazione del Canale, aprì nuovi scenari alla nostra politica e offrì l'opportunità per un'azione ardita e consapevole rivolta a rinnovare la nostra presenza sulle principali direttrici della politica italiana. Il Medio Oriente, l'Africa settentrionale, e con essi il nodo di Suez, furono il banco di prova del cosiddetto «neo-atlantismo». In quel quadrante internazionale, con De Gasperi, Mattei, Fanfani, e poi con Andreotti, Moro, Craxi si misurò la capacità italiana di raggiungere lo status di grande media potenza mediterranea, prima del malinconico e inarrestabile declino della nostra politica estera. Questo e moltissimo altro il lettore potrà trovare nella monografia di Marco Valle, che è opera scientificamente irrimproverabile ma anche studio appassionato, nutrito da una raffinata comprensione dei temi geopolitici che furono anche grandi problemi di nostro prioritario interesse nazionale, e capace, come pochi, di coniugare, virtuosamente, la storia del passato all'analisi del presente. Suez. Il Canale, l'Egitto e l'Italia è, infatti, un saggio «adatto al tempo e all'ora», redatto in vista dell'approssimarsi del momento in cui il varco di Suez, ora raddoppiato nella sua capacità di transito, sarà chiamato a competere con la «nuova via della seta» (Silk Road Economic Belt) e con la sua controparte marittima (Maritime Silk Road) che collegherà i porti della Cina agli approdi dell'Africa e della Penisola Arabica, con conseguenze facilmente intuibili per l'intera area mediterranea, l'Europa e, forse, soprattutto per l'Italia.
· La Setta di Manson: Storia e segreti.
Roberto Festa per “il Fatto quotidiano” l'1 ottobre 2019. La sera che "mette fine agli anni Sessanta" è quella del 9 agosto 1969. Sharon Tate, starlet in ascesa, moglie di Roman Polanski e incinta di otto mesi, viene uccisa insieme a tre amici e a uno sconosciuto dai membri della "Family" di Charles Manson. Quella notte Polanski è a Londra, al lavoro al suo nuovo film. La strage avviene nella casa della coppia, un cottage in cima a una collina al 10050 di Cielo Drive. Nel 1994, la casa è abbattuta e ricostruita. Cancellano tutto, anche il numero civico. Il crimine più sconvolgente di Hollywood sopravvive da allora soltanto nella memoria. Sharon "era bellissima. Forse la donna più bella del mondo. Ma qualcuno di voi ha mai scritto di quanto era gentile?" Roman Polanski, sconvolto, si rivolge così ai giornalisti che nei giorni successivi alla strage cercano dettagli scabrosi sulla moglie. Lui l'aveva sposata con in mente un matrimonio aperto, "con una hippie, non una casalinga"; lei sperava in qualcosa di più tradizionale. Tate era nata in una famiglia texana, figlia di un colonnello dell'esercito. Parlava un perfetto italiano, avendo seguito il padre di stanza con le truppe USA a Vicenza. Quando aveva conosciuto Polanski, era una delle tante stelline in cerca di fortuna a Hollywood. Cercava di mostrarsi brava, oltre che un viso perfetto. Non sempre ci riusciva. Il suo film più celebre, La valle delle bambole, venne ridicolizzato da molti recensori. "Non riesco a considerarla seriamente, non è altro che un sex-symbol", scrisse cattivissimo il critico del Chicago Sun. Tate voleva essere qualcosa di più di un sex-symbol. In un' intervista disse che "certo, non penso di recitare Shakespeare. Ma mi vedo come una commediante leggera, alla Carole Lombard". La notte in cui i destini di molti si incrociano su una collina di Bel Air, Tate va a cena nel suo ristorante preferito, il Coyote Cafe. Con lei ci sono Jay Sebring, parrucchiere delle star ed ex-fidanzato di Tate; Wojciech Frykowski, uno sceneggiatore amico di Polanski; la donna di Frykowki, Abigail Folger, della dinastia dei magnati del caffè. Tate è triste: mancano due settimane al parto e non sa quando Polanski rientrerà da Londra. Alle dieci e mezzo i quattro tornano a casa. Nessuna ha voglia di far tardi. Le feste dai Polanski/Tate erano diventate leggendarie. Centinaia tra amici e sconosciuti le frequentavano e Sharon aveva detto che non le importava chi capitava a casa; il suo motto era "vivi e lascia vivere", quello in fondo era lo spirito del tempo. La sera del 9 agosto le luci al 10050 di Cielo Drive restano però volutamente basse. I quattro amici pensano di bere qualcosa e andarsene a letto. Qualche minuto dopo le undici l'auto dei quattro membri della "Famiglia" di Charles Manson sale per Cielo Drive. A bordo ci sono Tex Watson, Susan Atkins, Linda Kasabian, Patricia Krenwinkel. Hanno ricevuto da Manson - avventuriero con ambizioni musicali, un po' santone e un po' magnaccia, che ha messo in piedi una comune dedita a sesso libero e allucinogeni in un ranch deserto della San Fernando Valley - un ordine preciso. Distruggere chiunque si trovi nella casa al 10050, "nel modo più macabro possibile". Non sono gli occupanti della casa a tormentare Manson, bensì il luogo, i muri dove aveva vissuto Terry Melcher, un produttore musicale che dopo un iniziale interesse aveva negato a Manson un contratto. Quel villino, in stile da campagna francese, era diventato un monumento al fallimento di Manson e doveva essere distrutto. I discepoli della "Famiglia" sono strafatti di acidi; agiscono veloci, con una precisione efferata e brutale. Per strada ammazzano senza pietà Steven Parent, un ragazzo di 18 anni che li incrocia dopo aver fatto visita al custode della proprietà Polanski/Tate. Steven chiede pietà, giura che terrà la bocca chiusa. Lo accoltellano a una mano, gli scaricano quattro pallottole nell' addome. Si dirigono poi verso l' edificio principale. Entrano da una finestra e, dopo aver svegliato Frykovski che dorme sul divano del soggiorno, gli dicono di "essere il diavolo". Lo sceneggiatore cerca di scappare; viene raggiunto, pugnalato 51 volte, colpito con due proiettili al petto. Anche Abigail Folger cerca una fuga disperata. Viene uccisa con 28 coltellate ai bordi della piscina. Tate e Sebring sono legati insieme tramite una corda che li stringe al collo. Il parrucchiere delle dive è freddato con un colpo di pistola al petto. Sedici pugnalate sferrate da Watson uccidono Tate. Prima di morire, l' attrice implora i suoi assassini di lasciarla in vita per far nascere la creatura che porta in grembo. Prima di andarsene, una degli omicidi intinge un asciugamano nel sangue di Tate e scrive, sulla porta di casa "PIG", maiale. È la cameriera, il mattino seguente, a scoprire le vittime. Inizia la fase convulsa delle indagini, delle false piste, delle polemiche. Polanski viene massacrato dalla stampa per un'intervista alla rivista "Life" in cui si fa fotografare accanto alla scritta "PIG". Paranoia e terrore soffocano Hollywood. Alcuni temono che sia in corso una caccia mortale ai ricchi e famosi: si assumono nuove guardie del corpo e Steve McQueen si presenta al funerale di Sebring armato di un fucile. Solo a dicembre, dopo altri omicidi, una serie di piccoli crimini e lo spostamento della setta nel deserto del Nevada, i colpevoli verranno arrestati. Il processo che segue, nel 1970, è una sarabanda mediatica mai vista che si conclude con la condanna a morte dei colpevoli - poi commutata in ergastolo. Per allora, Sharon Tate ha smesso di essere una stellina in cerca di fortuna ed è diventata - come Martin Luther King, come Bob Kennedy - il simbolo tragico della caduta del Sogno americano. Sul suo corpo sfigurato si infrange il decennio della liberazione sessuale e delle utopie. La promessa di nuova vita precipita, di colpo, in un horror show senza senso.
Barbara Tomasino per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Non solo Woodstock. L'estate del '69 ha anche segnato la fine del sogno hippie facendo piombare un' intera generazione in un incubo atroce, con cui ancora oggi l'America fa i conti. Il 9 agosto di quell'anno, a Los Angeles, l'attrice Sharon Tate e alcuni amici che erano con lei nella villa di Cielo Drive - presa in affitto con il marito Roman Polanski - vengono barbaramente uccisi dai membri della Famiglia Manson, una setta di hippie degenerati e violenti che vivevano come fuggiaschi in un ranch abbandonato sotto la guida del famigerato Charles Manson. La strage scosse profondamente il Paese e soprattutto il pigro mondo di Hollywood che aveva toccato con mano il male assoluto professato da quel folle lucido che si credeva il nuovo messia. Ci sono voluti mesi prima che le autorità riuscissero ad inchiodare Charlie e i suoi seguaci, scoperchiando il vaso apparentemente dorato dei figli dei fiori: Manson era un cantautore mancato, pieno di livore perché rifiutato da quel mondo che tanto desiderava, e il suo innegabile carisma (unito alla straordinaria capacità di procurarsi donne e droghe) gli permise di entrare nelle grazie persino dei Beach Boys che furono convinti ad incidere un suo brano, Never Learn Not To Love. Il voluminoso La famiglia di Ed Sanders (Feltrinelli, pp. 664, euro 25) descrive accuratamente l' ascesa e la caduta di Manson, mettendo in luce gli innumerevoli flirt che la controcultura dell' epoca aveva instaurato con il più feroce assassino che l' America abbia conosciuto (pensiamo a Bobby Beausoleil, altro psicopatico membro della setta, attore feticcio di Kenneth Anger, regista maledetto e autore di Hollywood Babilonia alla cui corte in quegli anni bazzicavano i Rolling Stones, Marianne Faithfull e Jimmy Page). Emma Cline, classe 1989, ha pubblicato Le ragazze, un affresco morboso e affascinante delle giovani donne assoggettate a Manson, tra depravazioni, amore libero e vessazioni d' ogni tipo. Una delle protagoniste di quei giorni, la terribile Susan Atkins - meglio nota come Sexy Sadie in omaggio ai Beatles - ha scritto in carcere nel '77 Child of Satan, Child of God, un' agghiacciante racconto della discesa agli inferi e della "rinascita" tra le braccia di Dio, di una ragazza sbandata e sadica che si era macchiata di un delitto orrendo (fu lei a pugnalare a morte l' attrice incinta di otto mesi). Infine uscirà negli Stati Uniti (da noi in settembre) l' ultima fatica di Quentin Tarantino, presentato a Cannes nei giorni scorsi, C'era una volta a Hollywood. Il film - interpretato da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt - racconta la fine del sogno hollywoodiano attraverso la figura di un attore di western caduto in disgrazia. Nella filigrana del racconto s' intreccia anche la brutta storia di Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie. Anche Tarantino, quindi, vede nella strage di Bel Air il segno della fine di un' epoca naif e ovattata, che considerava la città degli angeli il luogo perfetto dove far proliferare l' idea insensata e terribilmente seducente di pace & amore (e soldi), almeno fino a quando un uomo venuto dall' Ohio, privo di qualsiasi talento (se non quello della persuasione) e con una svastica tatuata in fronte, non ha deciso di far crollare il castello di carta.
Antonello Piroso per “la Verità” il 9 agosto 2019. A partire dal 9 agosto 1969, l'America ha conosciuto una bella galleria di psicopatici serial killer. L' ultimo sarebbe Samuel Little - il «mostro di Reynolds» in Georgia, dove è nato - detenuto a Los Angeles. Viene definito il più prolifico, rivendicando lui 90 omicidi di donne compiuti tra il 1970 e il 2005 (ma gli investigatori gliene accreditano «solo» 34). Prima di lui abbiamo conosciuto «il cannibale di Milwaukee», Jeffrey Dahmer, il «cacciatore della notte» Richard Ramirez, «l' assassino del Green River» Gary Leon Ridgway (vittime accertate: 41; lui ha confessato di aver ucciso 71 donne). E poi Theodor Bundy, prima vittima attribuitagli quando aveva 14 anni (soppresse una bambina di 8), Dean Corll, «l'assassinio di massa di Houston», soprannome: Candy Man, 28 ragazzi uccisi, tra i 13 e i 19 anni, John Wayne Gacy , il «Clown killer» di 32 giovani, teen-ager per lo più. Di tutti costoro è possibile voi abbiate sentito vagamente parlare. Ma c'è da scommettere che invece la figura di Charles Manson e dei suoi seguaci, autori di una manciata di crimini nell' estate del 1969 - soprattutto la cosiddetta «strage di Cielo Drive», zona residenziale sulle colline tra Beverly Hills e Bel Air, compiuta nella notte tra l' 8 e il 9 agosto, dove trovarono la morte la moglie del regista Roman Polanski, Sharon Tate, incinta all' ottavo mese, e quattro suoi amici (pare che quella sera ci dovesse esserci perfino il regista Sergio Leone, che si trovava in America per scegliere i costumi per il suo film Giù la testa!, uscito poi nel 1971, ma il nostro si addormentò in albergo per il caldo) - l' avete più presente, è un nome che ricordate, un' immagine - per dir così- più familiare. E così siamo subito al nocciolo: perchè quella strage - in realtà i crimini efferati furono due: oltre a quello citato, il gruppo si macchiò dell' omicidio di un imprenditore, Leno LaBianca, e di sua moglie Rosemary - è rimasta sedimentata così a lungo, cinquant' anni, nella memoria collettiva non solo dell' opinione pubblica statunitense? Certo, in questi giorni aiuta l' uscita dell' ultimo film di Quentin Tarantino C' era una volta a Hollywood, in cui l' eccidio è uno sfondo e una cornice costante (del resto, l' industria del cinema è sempre pronta a vampirizzare i fatti di sangue: si pensi alla storia di Aileen Wuornos, unico caso accertato di serial killer donna, che da prostituta ha ucciso sette suoi clienti uomini: giustiziata nel 2002, l' anno dopo è uscito il film Monster, che ha fatto vincere a Charlize Theron l' Oscar come miglior attrice protagonista). Ma anche questo è un effetto, che non aiuta a spiegare la causa. Come non basta l' efferatezza degli omicidi: le centinaia di coltellate inferte, tanto da far parlare a sproposito di omicidi «rituali». Più banalmente, da una parte c' è un gruppo di scappati di casa (uomini, ma soprattutto donne) suggestionato da Manson, uno spiantato che voleva diventare una rockstar, e che aveva un' indubbia qualità: saper sfruttare le debolezze altrui, arrivando a esercitare un controllo che non passava attraverso la droga, quanto piuttosto attraverso il sesso ("Fai l' amore con il tuo paparino, baby"). Dall' altra c' è il jet set hollywoodiano, i «ricchi e famosi» che di colpo si sentono vulnerabili fin dentro le loro case. In altri termini, e più grossolanamente: se a morire fossero stati cinque messicani, in quell' afoso inizio di agosto, non sarebbe importato nulla ad alcuno. Tant' è che ci si ricorda dolorosamente di Cielo Drive e di Sharon Tate, ma si fa più fatica a evocare il duplice omicidio a essi collegato, quello dei coniugi LaBianca, e addirittura quello che li ha preceduti tutti, il 31 luglio, ovvero quello del musicista Gary Hinman, assassinato nello stesso identico modo. Il massacro fece da detonatore alla psicosi, tale da spingere alcune star a presenziare alle esequie delle vittime con tanto di guardie del corpo, come Steve McQueen. Amici di Polanski - gli attori Peter Sellers, Yul Brynner, Warren Beatty - offrirono perfino una ricompensa a chi avesse fornito notizie utili, mettendo una taglia sui killer, manco si fosse tornati ai tempi del Far West. Insomma: se a finire fatti a pezzi non fossero stati componenti dell' élite - e di quella più vista: gli appartenenti allo show business - e se al tempo stesso gli autori non fossero stati balordi in cerca di un omicidio «clamoroso» (in grado di scatenare un conflitto etnico tra bianchi e neri, che dovevano essere incolpati dei fatti, vinto dai neri su cui però poi avrebbe governato la «Famiglia» di Manson: e ditemi voi se questa teoria, che era nella zucca del gran capo, non era già sgangherata di suo), non saremmo qui per questo amarcord. Invece grazie a quel plurimocidio, l' establishment regolò anche i conti con la controcultura hippie, i figli dei fiori, i pacifisti che si erano opposti alla guerra nel Vietnam. Non per nulla il 3 agosto 1970, a processo in corso, il presidente americano Richard Nixon, mentre si trova a Denver per una conferenza, bollò Manson come «colpevole». Intendiamoci: Manson e i suoi meritavano il massimo della pena, pertanto furono condannati a finire sulla sedia elettrica (anche se Manson risultò essere presente solo sulla scena del delitto LaBianca), ma poi la California abolì la pena di morte, e quindi si ritrovarono tutti all' ergastolo. Lui ci mise del suo, trasformando il processo in una sua personale performance, in cui si presentava alternativamente come la reincarnazione di Satana o di Gesù Cristo, e guadagnandosi una fama imperitura. Anche perché di lì a poco una sua seguace, Lynette «Squeaky» Fromme, non coinvolta nei processi, fu condannata a 34 anni di carcere per aver tentato di uccidere nel 1975 il presidente Gerald Ford, subentrato al dimissionario (causa Watergate) Nixon. Il resto è frutto della mitologia pop. Manson su tazze e magliette vendute su Amazon, come il divo rock che avrebbe voluto essere. Il suo cognome che viene adottato da un cantante, Brian Hugh Warner, che si ribattezza Marilyn Manson per omaggiare quelle che evidentemente ritiene due icone della storia a stelle e strisce: l' attrice Marilyn Monroe e l' incarnazione del Male Assoluto. Perfino nel film del '94 Natural born killers di Oliver Stone, quando l' assassino chiede se la puntata del programma tv con lui protagonista ha fatto più ascolto di quella con Manson, il giornalista è costretto a rivelargli la verità: «Purtroppo no», e lui: «Be', certo, è difficile battere il Re». Nel novembre scorso, poi, a un' asta l' abito da sposa che Sharon Tate indossava il 20 gennaio 1968, giorno del matrimonio con Polanski, è stato battuto all' asta per 56.250 dollari. L' acquirente è rimasto anonimo. Manson è morto in galera nel novembre 2017. Così come probabilmente succederà a Leslie Van Houten, che aveva 19 anni quando pugnalò per 14 volte la signora LaBianca (non era invece nella villa di Cielo Drive), e che, condannata definitivamente all' ergastolo nel 1978, ha da allora chiesto per 22 volte la libertà vigilata.
Sharon Tate, cinquant’anni fa l’omicidio della setta di Manson: la storia e i segreti. L’8 agosto del 1969 veniva uccisa anella sua villa di Bel Air l’attrice incinta e moglie di Roman Polanski: un omicidio che segnerà la storia del costume americano. Paolo Beltramin il 9 agosto 2019 su Il Corriere della Sera.
«Lasciami vivere ancora due settimane». «Per favore, ti chiedo solo qualche giorno. Ti prego, lasciami vivere ancora due settimane». Sharon Tate, 26 anni, incinta da 8 mesi e mezzo, pensava di passare la serata in casa con gli amici: suo marito, il regista Roman Polanski, a inizio agosto 1969 era a Londra per un sopralluogo. Ma adesso lei è seminuda, in salotto, immobilizzata. «Non ne potevo più di sentirla implorare — racconterà Susan Atkins detta “Sadie”, che di anni ne ha 21, e un figlio di due — così le ho detto: senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido». La pugnala 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale. Prima di quella notte Susan Atkins e gli altri assassini non avevano mai incontrato Sharon Tate, né le altre vittime. Non sapevano nemmeno chi fossero. Era il 9 agosto 1969, sono passati cinquant’anni.
Cinque corpi senza vita. La mattina di quel 9 agosto, quando entrano nella villa al 10050 di Cielo Drive, a Bel Air, gli agenti trovano cinque corpi senza vita. Tate, modella e attrice emergente, era nata a Dallas e da adolescente aveva vissuto in Veneto, seguendo il padre colonnello dell’esercito di stanza alla caserma Ederle di Vicenza; quello tra la bellissima Sharon e il geniale Polanski, nel gennaio del 1968 a Londra, per i cinefili era stato il matrimonio dell’anno. Accanto a lei, distesi sul pavimento, vengono identificati: Jay Sebring, il parrucchiere delle star; Wojciech Frykowski, regista polacco; la sua compagna Abigail Folger, erede di un impero del caffè; fuori dalla porta Steve Parent, 18 anni, ragazzo delle consegne che passava lì per caso, ucciso con un colpo di pistola a bruciapelo. All’una di notte del 10 agosto, Atkins e i suoi amici fanno irruzione in casa di Leno e Rosemary LaBianca, proprietari di una catena di supermercati. Dopo averli torturati e uccisi, imbrattano di nuovo le pareti di insulti scritti con il sangue, e aggiungono due strane parole: «Helter skelter». Poi aprono il frigorifero e si mettono a mangiare del formaggio e una barretta di cioccolato al latte. Ad attenderli in macchina questa volta c’è anche un altro uomo, il loro leader. Si chiama Charles Manson e si è autoproclamato «l’incarnazione di Gesù Cristo e Satana insieme». Per settimane i negozi di armi sono invasi da persone terrorizzate che vogliono proteggersi. Warren Beatty, grande amico di Sebring, mette una taglia di 25 mila dollari sugli autori della doppia strage; perfino Steve McQueen racconta di avere paura e assume una guardia del corpo. Serviranno tre mesi agli inquirenti per arrivare alla pista giusta. Merito della stessa Susan Atkins: arrestata per un altro delitto, in cella racconta a due compagne le idee e le pratiche della Famiglia.
Quella fama mai raggiunta. Nato a Cincinnati, in Ohio, da una madre alcolizzata, cresciuto tra riformatori e carceri, Charles Manson arriva a San Francisco a 33 anni, all’inizio del 1967, in tempo per la Summer of Love. Grande ammiratore dei Beatles, sogna di diventare anche lui una stella della musica. Riesce a incontrare Neil Young; per qualche settimana si installa casa di Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys; ottiene un provino con il potente produttore Terry Melcher, figlio di Doris Day. Ma i suoi tentativi di diventare famoso sono tutti fallimentari. In compenso ha carisma e un grande fascino sulle ragazze, così in poco tempo fonda una comunità hippie installata allo Spahn ranch, un vecchio set di film western abbandonato con la crisi del genere. Della Famiglia, come viene chiamata la comune, fanno parte una cinquantina di persone, per la maggior parte giovani donne in fuga dai mariti o dai genitori. Si pratica il sesso di gruppo, ma soprattutto il culto della personalità del leader. Il ranch è a sole 25 miglia da downtown LA, ma nessuno può raggiungere la città. Non sono ammessi giornali, orologi né calendari. Ogni sera Manson si siede sopra una pietra con la sua chitarra. Canta, prega, filosofeggia partendo dai manuali di Scientology che ha letto in carcere. Nessuno parla senza il suo permesso. I soldi dei piccoli furti che ordina ai membri della Famiglia servono a procurare i viveri e l’Lsd. La comune è rigidamente maschilista: le donne sono subordinate agli uomini; non possono avere soldi, devono cucinare e fare i lavori più umili.
La Famiglia. Nella sua autobiografia Barbara Hoyt, testimone d’accusa al processo, racconta in modo esemplare come è entrata a far parte della Famiglia: «Avevo litigato con mio padre, non ricordo nemmeno più per cosa. Ero scappata di casa e avevo fatto l’autostop. Mi presero due ragazze — una era Deirdre Shaw, figlia di Angela Lansbury — e mi portarono allo Spahn ranch. Mi accompagnarono da Manson la sera stessa. Tirò fuori la chitarra, mi guardò negli occhi e cominciò a cantare una sua canzone, “Cease to exist”. Faceva: “Bella ragazza, smetti di esistere… Vieni qui e dimmi che mi ami. Lascia il tuo mondo, perché io sono come te, io sono il tuo tipo”. Mi sentii subito accettata e compresa, senza condizioni. Ma voi ve lo ricordate cos’è avere 17 anni?».
Helter Skelter. Nelle settimane prima delle stragi, Manson predica una nuova teoria: «Stiamo entrando nell’era dell’Helter Skelter». È il titolo di una canzone del White Album dei Beatles e secondo lui contiene una profezia segreta. Nel mondo sta per esplodere una guerra razziale tra bianchi e neri; alla fine del conflitto toccherà proprio a Manson portare il Nuovo Ordine. Ma prima bisogna accendere lo scontro, con una serie di delitti a caso, apparentemente razziali. Il pomeriggio del 9 agosto 1969 Manson chiama i suoi seguaci più fidati e ordina loro di uccidere. Da bambina Susan Atkins aveva cantato nel coro della parrocchia. Leslie Van Houten era stata la reginetta di bellezza della scuola; Charles «Tex» Watson alle superiori era un atleta e uno studente modello. Patricia Krenwinkel aveva fatto anche l’insegnante di catechismo.
Testimone chiave. Il processo comincia il 24 luglio 1970 e per il vice procuratore Vincent Bugliosi la sfida si annuncia difficile. Contro Manson non c’è nemmeno una prova materiale e gli altri imputati sono disposti a tutto, anche alla sedia elettrica, pur di far assolvere il loro maestro. Fuori dal tribunale i membri superstiti della Famiglia manifestano per mesi in suo favore. Tutti si fanno tatuare una croce sulla fronte (solo più tardi Manson trasformerà la sua in una svastica). Il dibattimento, che risulterà il più costoso della storia della California, produce 28.354 pagine di trascrizione. La svolta arriva dalla testimonianza di Linda Kasabian (nella foto), autista del gruppo nei due raid: in cambio dell’immunità, rivela ogni dettaglio dell’organizzazione. Dopo quasi 43 ore di camera di consiglio, tutti gli imputati vengono condannati a morte. Poco prima dell’esecuzione, il verdetto viene commutato in ergastolo perché la Corte suprema della California abolisce la pena capitale (sarà reintrodotta nel 1978).
Tarantino. Negli Stati Uniti non ci sono leggi che vietano di vendere magliette con la faccia di Charles Manson: su Amazon se ne possono ordinare una trentina di modelli diversi. I sociologi hanno scritto che al 10050 di Cielo Drive è stata uccisa l’utopia degli anni Sessanta; ma è anche nata l’icona pop del male assoluto. La sorella di Sharon, Debra Tate, ha ottenuto che almeno non venga distribuito il 9 agosto, giorno del cinquantesimo anniversario. Il volume scritto da Bugliosi dopo il processo, «Helter Skelter», è entrato nel guinness dei primati come il libro di «True crime» più venduto nella storia, con oltre 7 milioni di copie. I Beatles hanno spiegato più volte che il titolo della loro canzone era ispirato semplicemente allo scivolo di un luna park. La figlia di Angela Lansbury, che non era stata coinvolta in alcun modo negli omicidi, è diventata proprietaria di un ristorante italiano a Los Angeles. Altri ex membri della Famiglia sono spesso ospiti di programmi televisivi. E a breve potremo vedere nelle sale il film di Tarantino ispirato a questa vicenda «C’era una volta a Hollywood» , mentre l’uomo che voleva diventare il padrone del mondo, o almeno una rockstar, è morto per un cancro al colon il 19 novembre 2017. Su Twitter, i baby boomers hanno cercato di spiegare ai millennials che «Rip, Charles Manson», «Riposa in pace, Charles Manson», non era il commento più appropriato; ma in fondo si sa, sui social funziona così. Sharon Tate oggi avrebbe 76 anni; il suo meraviglioso abito da sposa color avorio è andato all’asta lo scorso 17 novembre a Los Angeles. Non ha mai saputo che aspettava un maschio.
Estratto del libro “Sergio Leone - Perché la vita è cinema” di Fabio Santini il 12 agosto 2019. "C’era una volta il West" incassa in Italia 2miliardi 503milioni di lire. Ma nel mondo non si saprà mai con assoluta certezza a quanto ammonta l’imperitura rendita di quel film. Sì perché, non più tardi di qualche anno fa, il film veniva proiettato in prima visione in molti paesi asiatici con i sottotitoli nella lingua locale. Leone ha in testa un chiodo fisso: ‘The Hoods’, da cui vuole sviluppare la trama per un suo film sull’America dai tempi esattamene come la concepisce lui, cioè dai tempi del proibizionismo, gli Anni ’20, ’30, agli Anni ‘60. Le major vorrebbero affidare a Leone un ennesimo western, o un film su una storia di mafia. E in pratica la sensazione che si coglie negli incontri che il regista tiene con i pezzi grossi della cinematografia americana è: noi ti facciamo fare "The Hoods" ma prima ci devi dare un altro film. E’ il 7 agosto del ’69, Leone è in viaggio di lavoro negli Stati Uniti dove ormai è una celebrità. Luciano Vincenzoni riceve un invito per un dopocena da uno scrittore americano suo amico. L’appuntamento è a casa di Sharon Tate la sera dell’8 agosto. La Tate é moglie di Roman Polanski, attrice interessante e non priva di fascino. “Dai Sergio – gli dice Vincenzoni – andiamo a farci un drink a casa Polanski, magari incontriamo gente che ci interessa”. Leone accetta senza eccessivo entusiasmo: “Beh, se proprio dobbiamo, andiamoci”. Il giorno dopo Vincenzoni riceve un altro invito. Un produttore importante di Hollywood gli offre di trascorrere il weekend a casa sua. E lo sceneggiatore accetta. Così a Leone tocca l’ingrato compito di andarci da solo a quel party. La mattina del 9 agosto, Vincenzoni apprende dalla televisione del massacro compiuto dalla Famiglia di Charles Manson a casa della moglie di Polanski. La Tate é incinta di 9 mesi ma i suoi aguzzini non hanno alcuna pietà. E la trucidano con 16 coltellate. Tutti gli invitati vengono letteralmente fatti a pezzi dalla furia omicida di quel gruppo criminale e satanista. Lo sceneggiatore è terrorizzato. Pensa che nell’eccidio abbia trovato la morte anche Leone. Gli telefona. E il regista gli risponde serafico: “Ma te pare che io vada a una festa da solo in mezzo a gente che non conosco con il mio inglese che è quello che é. Così me ne sono stato in albergo a vedermi un film…”. “E pensare che mi sentivo in colpa per avergli dato buca – conclude Vincenzoni – e invece quel bidone gli ha salvato la vita…”.
· Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna.
Gli anniversari del 2019: il crollo del Muro, l’uomo sulla Luna. Ecco il calendario. Dalla tragedia del Superga al crollo del Muro. La nascita dell’euro, Castro al potere, l’uomo sulla Luna, il delitto Ambrosoli e il terremoto a L’Aquila. Certe ricorrenze negli anni con il 9 finale, di Giovanni Caprara, Antonio Carioti, Marco Imarisio, Federico Fubini, Aldo Grasso, Giangiacomo Schiavi, Paolo Valentino del 1 gennaio 2018 su Il Corriere della Sera.
1949-Troppo forte per invecchiare. Il Grande Torino entra nel mito. Toccò a Dino Buzzati raccontare per il Corriere la tragedia del Grande Torino: «Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell’apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17.05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. Non c’erano turisti, pellegrini, non una coppia di sposi in viaggio di nozze». La squadra più forte del mondo, «troppo meravigliosa per invecchiare» decise di entrare nella leggenda, e lasciare noi nella disperazione, in un piovoso pomeriggio di settant’anni fa, schiantandosi sulla collina della città che la idolatrava. Per anni ho conservato la copertina della Domenica del Corriere, 15 maggio 1949, che mio padre aveva sfogliato mille volte con amore. L’illustrazione di Walter Molino, da colori tenui e rispettosi, raffigurava un aereo che s’infrange contro un terrapieno; s’intravede appena la cupola dello Juvarra. Il disegno è attraversato da un nembo, un bagliore sinistro che scende dal cielo giusto per illuminare una didascalia: «Il tragico urto contro un muro della Basilica, a Superga, dell’aeroplano che riportava in Patria i calciatori del Torino e i loro accompagnatori». E più sotto, accanto alla data del disastro, 4-5-1949: «Sciagura di inaudite proporzioni; ma, rapito così in piena gloria, senza decadenza né sconfitta, il Torino resta ora invitto per sempre nella memoria». Quella magica squadra (una formazione da ripetere come un mantra: bacigalupo/ballarin/maroso/grezar/rigamonti/castigliano/menti/loik/gabetto/mazzola/ossola), emana ancora una forza prodigiosa perché le figure del mito vivono molte vite e molte morti: è la forza di ciò che ci allontana dal quotidiano e scuote di emozioni il nostro cuore (Aldo Grasso)
1959-Il dittatore Batista in fuga. Cambio di regime all’Avana. Era il 1° gennaio 1959, sessant’anni fa, quando il dittatore cubano Fulgencio Batista, personaggio corrotto e legato al crimine organizzato, fuggì dall’Avana, lasciando campo libero alla guerriglia capeggiata da Fidel Castro. Il leader della rivoluzione aveva guidato il fallito attacco alla caserma Moncada del 26 luglio 1953, era stato imprigionato, poi amnistiato e costretto all’esilio in Messico. Quindi era sbarcato sull’isola nel 1956 a bordo della nave Granma con pochi compagni (tra i quali suo fratello Raul, l’argentino Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos) e aveva avviato sulla Sierra Maestra la lotta armata conclusa con il disfacimento dell’esercito di Batista. Castro divenne primo ministro nel febbraio 1959 e avviò una politica di riforme economiche egualitarie che lo mise in urto con la borghesia e con gli Stati Uniti, abituati a considerare l’Avana un proprio satellite sin da quando avevano cacciato dall’isola i colonizzatori spagnoli nel 1898. Ben presto Cuba si avvicinò a Mosca, ruppe con Washington e divenne una delle frontiere più calde della guerra fredda. Un’azione di esuli anticastristi appoggiati dalla Cia venne sgominata alla baia dei Porci nell’aprile del 1961. E si sfiorò la guerra mondiale quando i sovietici installarono sull’isola missili atomici (poi ritirati) nel 1962. Sul piano interno Castro, capo carismatico quanto autoritario, eliminò tutti gli oppositori (spesso suoi ex compagni) e instaurò una dittatura comunista filosovietica con forti venature nazionaliste e terzomondiste, in contrapposizione all’«imperialismo nordamericano». Proprio il richiamo all’orgoglio patriottico del resto ha permesso al regime cubano di superare la crisi provocata dalla caduta dell’Urss e di sopravvivere tuttora, a oltre due anni dalla morte del suo fondatore. (Antonio Carioti)
1969-Il gigantesco balzo dell’umanità sulla Luna. Che emozione quella notte di cinquant’anni fa. Era il 20 luglio 1969 e un’immagine sbiadita in bianco e nero arrivava sui nostri televisori mostrandoci in diretta il primo passo dell’uomo su un altro corpo celeste. Neil Armstrong, 38 anni e superpilota di jet, scendeva dalla navicella Aquila camminando sulla Luna nel Mare della tranquillità accompagnato da Edwin Aldrin. Milioni di persone erano testimoni nei cinque continenti e papa Paolo VI guardava l’arrivo degli esploratori celesti dell’Apollo 11 da Castel Gandolfo. Molti storici ripetono che del XX secolo solo lo sbarco sulla Luna rimarrà a significare una vera conquista della nostra specie. Le parole pronunciate da Armstrong, stringate come nel suo stile, dicevano tutto: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo dell’umanità». «Noi ci andiamo perché è difficile», diceva il presidente americano John Fitzgerald Kennedy annunciando l’impresa nata per ristabilire una superiorità politica e militare degli Usa perduta dopo che l’Unione Sovietica aveva dimostrato la capacità di lanciare nello spazio lo Sputnik e poi Yuri Gagarin e di portare anche una minaccia senza limiti proprio dal cosmo. La Nasa, sull’onda del successo, proponeva balzi ancora più ardui, come il viaggio su Marte. Ma le vicende della Terra, dalla guerra in Vietnam alle crisi energetiche, affievolirono l’entusiasmo. Si riuscì solo a costruire lo Shuttle e la stazione spaziale, embrione prezioso di future collaborazioni verso altri pianeti. Ma l’anniversario della notte della Luna, con Tito Stagno in tv che trasmetteva l’evento, ora ha un significato diverso. Perché alla Nasa negli Usa e pure in Cina e in Russia ci si prepara a un ritorno sulle sabbie seleniche; per rimanerci questa volta, e imparare lassù come lanciarsi poi nel nuovo grande balzo, verso Marte. (Giovanni Caprara)
1979-Ambrosoli, l’eroe borghese che vive ancora. È la notte dell’11 luglio 1979 quando l’avvocato Giorgio Ambrosoli paga con la vita i suoi no a un certo modo di fare finanza, a un certo modo di fare politica, a un certo modo di fare economia. Nel buio di via Morozzo della Rocca, a Milano, insieme ai bossoli di una 357 Magnum, resta sull’asfalto il coraggio di un uomo solo, di quelli che contraddicono la società in cui vivono, i suoi vizi e le sue paure. Era un avvocato serio, intransigente, il commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona. Da cinque anni lavorava sui conti truccati del finanziere siciliano alleato di mafiosi, massoni, ministri, generali e cardinali. Aveva scoperchiato intrecci occulti, speculazioni, finanziamenti sporchi, benedetti dalle istituzioni finanziarie e coperti dalla politica. Sapeva di essere in pericolo. Ma aveva cancellato dal suo codice le parole compromesso e accomodamento, cosciente di quel che faceva, in nome dell’onestà e della legge, ha scritto Corrado Stajano nel memorabile libro sul delitto Ambrosoli, intitolato L’eroe borghese, quasi un ossimoro in un Paese costretto a definire eroe chi fa il proprio dovere. Assassinato dalla mafia, da un killer venuto dall’America su mandato di Sindona, l’avvocato Ambrosoli è il simbolo di quella resistenza civile che si oppone a ogni malaffare. In un anno tremendo, avvolto da altre tenebre che si chiamano terrorismo, Brigate rosse, piste nere, P2, collusioni infami, il suo nome è una eccezione luminosa che evoca un’altra Italia, più civile, onesta, perbene. Ai funerali di un servitore dello Stato e della legge non ci sono uomini delle istituzioni: Andreotti dirà che un po’ se l’è cercata. Ma quarant’anni dopo quella morte annunciata Ambrosoli vive nelle piazze, nelle strade e nelle scuole: è una bandiera civile da alzare con orgoglio, la bandiera dell’onestà e della democrazia. (Giangiacomo Schiavi)
1989-Il crollo del Muro al via dopo quell’annuncio surreale. Nella sua fenomenologia, fu un plastico esempio di quelli che Stefan Zweig definì «momenti fatali». L’annuncio in apparenza burocratico di Günter Schabowski: «Non c’è più bisogno di visti per passare i posti di confine». La domanda di un giornalista italiano, Riccardo Ehrman: «Da quando è in vigore la misura?». La risposta surreale, dopo uno sguardo distratto a un foglio già gettato via: «Per quanto ne so, da subito». Il Muro di Berlino crollò così, in quella sera del 9 novembre 1989, quando i fratelli separati dell’Est attraversarono il confine della vergogna a piedi o a bordo delle loro Trabant e i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». Nell’autunno prossimo saranno trascorsi trent’anni dalla data che pose fine in anticipo al «secolo breve» e cambiò la storia del mondo. Con il Muro caddero le dittature del socialismo reale, si frantumò l’Unione Sovietica, finì la Guerra Fredda, cessò l’equilibrio del terrore, l’Europa allargò i suoi confini verso Est, nacque la moneta unica, mentre il dividendo della pace ci regalò il world wide web, rampa di lancio della globalizzazione. Finì una Storia. Ne cominciò un’altra per la quale non eravamo affatto preparati, privi di un paradigma per affrontarla, tranne l’illusione non priva di arroganza che il sistema liberal-democratico, rimasto senza nemico, avrebbe finito per imporsi in tutto il pianeta. Ma la fine del mondo bipolare, odioso, ma prevedibile e regolato, ha aperto la scena globale a protagonisti nuovi e antichi, segnando il ritorno prepotente della geopolitica negli affari internazionali. Sono emersi i modelli autoritari, è risorto il nazionalismo, sono tornati di moda gli uomini forti, in una frantumazione che comincia ad assomigliare al caos globale. Il Muro non ci manca. Ma non era questo il mondo che avevamo sognato. (Paolo Valentino)
1999-L’euro, tra successo e entusiasmo superficiale. La fine del viaggio in realtà era l’inizio, ma allora pochi se ne resero conto. Visto vent’anni dopo, l’ingresso dell’Italia nell’euro nel 1999 non sembra essere stato l’errore che alcuni descrivono: non è chiaro che abbia danneggiato l’export o che sia stata quella scelta a erodere il potere d’acquisto degli italiani. Anche se oggi pochi ci pensano, l’euro ha contribuito a estirpare l’inflazione che falcidiava i redditi dei ceti medi dipendenti e dei pensionati: correva al 10 per cento ancora a metà dei «mitici» anni ’80, al 6 per cento all’inizio dei primi anni ’90, ma è rimasta in media dell’1,7 per cento negli ultimi vent’anni. Né si può dire che l’euro abbia frenato l’export: il made in Italy è salito dal 17 per cento del Pil di inizio di quegli anni ’90 oggi avvolti dalla nostalgia, al 23 per cento del ’99, al 29 per cento attuale. Ma se i vent’anni nell’euro per l’Italia restano un anniversario agrodolce, forse è proprio per come iniziarono. Lo sforzo di ridurre il deficit dal 7 per cento al 3 per cento del Pil in un solo anno per entrare fu vissuto come una sfida nazionale: allora l’85 per cento degli italiani voleva l’euro. Quell’impegno consumò talmente tanta energia (chi dimentica l’eurotassa?) che si trasformò in una trappola cognitiva: compiuta la missione, noi italiani ci illudemmo che non restasse che coglierne i frutti. Sottovalutammo che quello era solo l’inizio della trasformazione necessaria a vivere sui mercati globali. Prevalse l’entusiasmo, ma superficiale. Proprio come oggi prevale un cinismo altrettanto superficiale. (Federico Fubini)
2009-Ore 3.32, la scossa più devastante: L’Aquila e le bare. Eravamo tornati a letto tranquilli. Quella notte a Roma la gente scese in strada, poi risalì e accese la televisione. Dicevano che l’epicentro era dalle parti dell’Aquila, la scossa più forte era arrivata alle 3.32, magnitudo 6.3, ma sembrava che non fosse nulla di grave, «al momento non sono rilevati danni a persone o cose». Ci volle poco per sapere che non era così. Ci sarebbero voluti giorni per contare tutti i morti, che alla fine furono 309. Le tre camerate ai lati della caserma Giudice chiudevano la piazza d’armi dove si svolsero i funerali solenni delle vittime, e impedivano così la vista delle macerie che erano ovunque. Le prime due file davanti al cardinal Bertone erano composte solo da bare bianche. Sono passati appena dieci anni, ma sembra un secolo. In quel 2009 il G8 che doveva svolgersi alla Maddalena si tenne invece nella città abruzzese. Le foto di Silvio Berlusconi e Barack Obama a braccetto sono ormai ricordi sbiaditi. Lo sforzo per aiutare i luoghi colpiti dal disastro c’è stato, questo è innegabile. Finora sono stati stanziati ventuno miliardi di euro, quasi una finanziaria. Tutte le abitazioni private sono state ricostruite con denaro pubblico. La riedificazione delle strutture pubbliche procede più lentamente e si concluderà nel 2027, con 107 edifici ancora in fase di progettazione. Per quanto criticate, le cosiddette «New Town» hanno assolto al loro compito, anche se adesso non ne è chiaro il destino, troppo pesanti per essere demolite, troppo fragili per viverci senza disagi. La ricostruzione del centro storico, completamente distrutto, è in gravissimo ritardo. Forse il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila dovrebbe farci soprattutto riflettere su questa nostra eterna propensione a metterci dapprima il cuore, per poi distrarci, passare ad altro. E lasciare la cose a metà, quando va bene. (Marco Imarisio)
Gli anniversari del 2019: sbarco sulla Luna, morte di Leonardo, strage di piazza Fontana. 80 anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, 100 dalla nascita di Salinger e Giulio Andreotti, 90 da quella di Martin Luther King. 20 anni dalla morte di De André e Kubrick, scrive Paolo Fallai il 27 dicembre 2018 su Il Corriere della Sera.
«Ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi». Celebrare le ricorrenze è uno dei modi adottati dall’uomo per esorcizzare il passare del tempo e ridimensionare la morte. Gli anniversari servono soprattutto a fornire un’agenda che ci consente di non dimenticare persone che hanno fatto parte della nostra storia e avvenimenti straordinari che l’hanno condizionata. Nel 2019 sono molte le ricorrenze di grande importanza, a cominciare dai 50 anni dello sbarco del primo uomo sulla Luna, ai 500 dalla morte di Leonardo da Vinci. Questa carrellata non ha alcuna pretesa di essere esaustiva, ognuno può aggiungere una ricorrenza che qui non è menzionata. Abbiamo privilegiato quelle principali, i 50 anni (come quelli trascorsi dalla strage di Piazza Fontana o dal concerto di Woodstock) o i 100 anni (dalla nascita di Salinger e Giulio Andreotti o dalla morte di Theodore Roosevelt e Rosa Luxemburg). Le altre sono scelte soggettive, come gli 80 anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale o i 90 anni dalla nascita di Martin Luther King, i 100 da quella di Primo Levi o i 70 dalla nascita di John Belushi. Fino ai 37 anni trascorsi dall’uscita nelle sale del film «Blade Runner» di Ridley Scott: considerato tra i capolavori della fantascienza era ambientato in un futuro spaventoso...nel 2019. Eccoci, siamo arrivati: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi...»
Leonardo da Vinci, 500 anni dalla morte. Italia e Francia promettono centinaia di appuntamenti per celebrare i 500 anni dalla scomparsa di Leonardo Da Vinci, nato ad Anchiano presso Vinci il 15 aprile 1452 e morto il 2 maggio 1519 nel castello di Amboise in Francia. Fu qui, in questa valle sulle rive della Loira che il genio toscano si trasferì nel 1516, su invito di Francesco I, portando con sé opere come La Gioconda e il San Giovanni Battista oggi conservate al Museo del Louvre. Ed è sempre qui che Leonardo è sepolto nel castello di Clos-Lucè. Artista, ingegnere, scienziato, le definizioni di Leonardo raramente riescono a comprendere tutti gli aspetti del suo genio. Figlio illegittimo del notaio ser Piero, dal 1469 si stabilì a Firenze, dove nel 1472 era già iscritto alla Compagnia dei Pittori. Nel 1476, anno in cui fu prosciolto da un’accusa di sodomia, era con Andrea del Verrocchio di cui era stato scolaro per quattro anni; ma doveva interessarsi anche alla scuola dei Pollaiolo, particolarmente per le ricerche anatomiche che vi si conducevano. Dal 1482 è a Milano alla corte di Ludovico il Moro, inviatovi, secondo alcune fonti, in qualità di musico da Lorenzo il Magnifico; ma in una sua lettera al Moro, Leonardo si dichiarava capace di inventare e costruire congegni bellici, di progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere. E’ uno dei primi curriculum vitae della storia, redatto per ottenere un impiego. A Milano egli svolse intensa attività di pittore, lavorò a un monumento per Francesco Sforza, allestì apparati per feste e fu scenografo, ingegnere militare, consultato per problemi di architettura. Questo periodo fu il più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito. In particolare Leonardo poté approfondire i propri studi scientifici e intraprenderne di nuovi, nel campo sia della fisica sia delle scienze naturali. Tra le prime opere pittoriche di questo periodo «La dama con l’ermellino» e «La Vergine delle rocce». Seconda grande opera pittorica del periodo milanese è il «L’ultima cena» nel refettorio di S. Maria delle Grazie, purtroppo giunto a noi in stato alterato dai molteplici e talora impropri interventi di consolidamento del colore, poiché era stato dipinto da Leonardo a tempera. Un restauro condotto a partire dal 1979 (durato 12 anni) ha cercato di liberare l’opera dalle varie ridipinture e ha posto come condizione primaria per la sopravvivenza del dipinto la climatizzazione dell’ambiente. Nel 1500 Leonardo fu nuovamente a Firenze, dove gli fu commissionato da Pier Soderini il David, poi affidato a Michelangelo, e compose un primo cartone per «S. Anna, la Vergine e il Bambino». Nel 1503, ebbe incarico di dipingere, su una parete della sala del Maggior Consiglio, un episodio della Battaglia d’Anghiari (sulla parete opposta Michelangelo doveva affrescare la Battaglia di Cascina). Anche qui Leonardo tentò di affrontare un problema tecnico, con l’intento di restaurare l’antico procedimento dell’encausto, convinto che la tecnica tradizionale dell’affresco non gli avrebbe concesso gli effetti di profondità delle ombre, di sfumato e di luce che egli si proponeva. Ma il risultato fu disastroso e abbandonò la pittura appena iniziata. Tra gli studi per la Battaglia d’Anghiari, quello conservato nella Biblioteca Reale di Windsor ci mostra come L. intendesse servirsi delle scatenate forze della natura per esprimere la battaglia. Forse L. eseguì in quel tempo il ritratto che va sotto il nome di Gioconda (la scoperta di un documento del 1525 permette di stabilire che si tratta del ritratto di Monna Lisa del Giocondo, come scritto da Vasari). Al celebre vago sorriso (un moto psichico colto al suo primo manifestarsi prima che divenga più determinato) s’accorda il velato paese, che dell’immagine è il commento ed eco nella mutabilità delle ombre, nelle brume che ci sottraggono le linee dei contorni; il paesaggio affonda di grado in grado in un tenebrore azzurrognolo di acque e cielo. L’attività artistica di Leonardo durante il secondo periodo milanese (1507 circa) rimane pressoché oscura. Leonardo partì da Milano il 24 settembre 1513, invitato da Giuliano de’ Medici, fratello di quel Giovanni che era stato appena eletto papa col nome di Leone X. Giunse nella Città Eterna poco prima di Natale. Vi rimase fino alla seconda metà del 1516, quando, sentendosi escluso dalle grandi opere che fervevano all’epoca nell’Urbe, emigrò in Francia al servizio di Francesco I. Risale proprio a questo periodo, tra il 1515 e il 1516, il disegno a sanguigna, che reca in basso la sua firma e la scritta «Ritratto di lui stesso assai vechio». Durante il soggiorno in Francia Leonardo compì il S. Giovanni Battista e terminò la S. Anna (entrambi al Louvre).
L’autore del giovane Holden compie 100 anni. Era nato a New York il 1 gennaio 1919, Jerome David Salinger, il grande «recluso» della letteratura americana, figlio di Sol Salinger, un ebreo di origini polacche che operava nel commercio di carni, e di Marie Jillich, di origini metà scozzesi e metà irlandesi. Quando si sposarono, la madre di Salinger cambiò il proprio nome in Miriam e si convertì all’ ebraismo. E’ morto nella sua casa di Cornish in New Hampshire, il 27 gennaio 2010. L’opera che lo ha consacrato «Il giovane Holden» («The Catcher in the Rye»), manifesto della ribellione giovanile da generazioni, esce nel 1951 e riscuote un immediato successo, anche se le prime reazioni della critica furono negative. Avventuroso anche il suo arrivo in Italia. Nel ‘ 52 la prima traduzione italiana si intitolava «Vita da uomo», con la traduzione di Jacopo Darca, venne pubblicata dal piccolo editore romano Gherardo Casini con un sottotitolo che si chiedeva «Un libro scandaloso o profondamente morale?». Il successo però sarebbe arrivato solo nove anni più tardi, con la traduzione di Adriana Motti nei Supercoralli Einaudi. Dopo la pubblicazione di Nove Racconti nel 1953, J. D. Salinger si ritira a vita privata difendendo la propria privacy con un’ostinazione quasi patologica, sino a raggiungere un isolamento da eremita. Il suo ultimo racconto venne pubblicato sul New Yorker nel 1965. L’ultima intervista è del 1974. Da allora le notizie su di lui si fanno frammentarie e contraddittorie. Di certo si sa che ha collezionato ben tre mogli, che le indiscrezioni sui suoi misteriosi inediti si sono rincorse per decenni e non si sono placate neanche con la sua morte. Ta le infinite notizie pubblicate su di lui, il New York Times rivelò una lettera con una gustosa notazione su un viaggio in Europa che Salinger compì nel 1994, sulle tracce di Kafka: salvo poi confidare all’ amico di essere sollevato all’ idea che lo scrittore non potesse assistere alla trasformazione della sua casa praghese, così scrive Salinger, in «una trappola per turisti».
Fabrizio De André ci manca da 20 anni. Fabrizio De André ha lasciato un’impronta indimenticabile nella musica del nostro tempo, durante quattro decenni di carriera artistica e continuando a collezionare la passione di generazioni dopo che lui se n’era già andato. Nato a Genova nel 1940 è morto a Milano l’11 gennaio 1999, ci ha lasciato 14 album registrati in studio oltre a una serie di singoli. Dall’esordio nel 1961 con brani come La ballata del Michè, alle prime raccolte, Volume I e Volume III, a Non al denaro non all’amore né al cielo, del 1971, che precede dio soli due anni Storia di un impiegato (1973). Nel 1984 pubblica l’album di omaggio alla lingua genovese Crêuza de mä, in collaborazione con Mauro Pagani. Nel 1990 esce «Nuvole». Dopo la sua morte Indro Montanelli scrisse nella pagina delle lettere che curava per il Corriere della Sera: «Consapevolmente o no, De André è stato uno dei migliori interpreti di un mondo e di una società, non soltanto italiana, che hanno perso il senso e la misura dei valori - o almeno di quelli che noi abbiamo sempre considerato tali - e li ha sostituiti col culto dell’Effimero. Non è colpa di De André, ammesso che di colpa si possa parlare, più colpa del momento in cui De André è nato e vissuto, e che oltre il “momento” non va». Molti anni dopo Ivano Fossati, che con De André ha condiviso una lunga amicizia e progetti musicali comuni, tra cui l’ultimo album «Anime salve», ricordava: «Ero stato un suo ammiratore molto prima che un suo amico. A poco più di vent’ anni avevo letteralmente consumato sul piatto del giradischi «Non al denaro, non all’ amore, né al cielo» e «Storia di un impiegato». Tenevo in considerazione quei due album al pari di quelli di Jimi Hendrix o degli Stones. Nessuna differenza. Come se la musica di Fabrizio fosse arrivata anch’essa dall’ America, da Plutone o da un pianeta ancora più lontano, sul quale fosse lecito scrivere canzoni in italiano. L’ eroe che aveva tradotto in musica «Spoon River», allontanandola dalla noia delle antologie scolastiche lo conoscevo già».
Anna Frank quest’anno ne avrebbe 90. Era nata a Francoforte sul Meno il 12 giugno 1929 Annelies Marie Frank, detta Anne una piccola ebrea di quindici anni che disarmò il Führer per l’eternità. Il 4 agosto 1944, alle undici del mattino una macchina scura si fermò a metà del Prinsengracht, il canale più esteso di Amsterdam. Scesero alcuni uomini in divisa e si diressero al civico 263, un edificio stretto che ospitava la ditta alimentare Gies&Co. Fecero irruzione e chiesero al personale di condurli al secondo piano, sede degli uffici. Proseguirono da soli verso un pianerottolo che finiva con uno scaffale stipato di schedari. Uno degli uomini in divisa, il sottufficiale delle SS Karl Josef Silberbauer, domandò al titolare della Gies&Co. cosa ci fosse dietro agli schedari. Non ottenne risposta. Chiese ancora, stavolta gridò, nessuno rispose. Andò lui stesso allo scaffale e lo sradicò dalla parete, rivelando l’entrata che collegava l’edificio a una casa sul retro. Era l’Alloggio Segreto che per due anni aveva nascosto otto ebrei, compresa lei: la quindicenne Anne Marie Frank. Furono tutti arrestati tranne le due segretarie e benefattrici, Miep Gies e Bep Voskuijl, che ebbero il tempo di cambiare la storia. Dopo che gli uomini armati uscirono assieme ai prigionieri, prima del ritorno di altre SS, riuscirono a entrare nell’Alloggio e impossessarsi di un quaderno con la copertina rossa e di altri taccuini che la piccola ebrea aveva scritto in quei mesi di clandestinità. I diari di Anne Frank, lo scacco matto ad Adolf Hitler. Anna Frank è morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen nei primi mesi del 1945.
Woodstock, 50 anni dal concerto del secolo. Il festival di Woodstock si svolse a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto del 1969. Vi si riferisce spesso con l’espressione 3 Days of Peace & Rock Music, «tre giorni di pace e musica rock». Prende il nome dalla vicina città di Woodstock, nella contea di Ulster. Impossibile calcolare il numero dei partecipanti, da un minimo di 400.000 a un milione di persone, per lo più giovani e giovanissimi. Il concerto cominciò venerdì 15 alle 17 con le esibizioni folk (in scaletta Arlo Guthrie e Joan Baez) ma si concluse solo il lunedì, cioè un giorno più del previsto, con l’esibizione di Jimi Hendrix. Nel frattempo erano saliti sul palco, tra gli altri, Santana, Janis Joplin & The Kozmic Blues Band, Greateful Dead, The Who, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Crosby, Still, Nash & Young. I Beatles si stavano sciogliendo, ma gli organizzatori invitarono John Lennon che chiese di estendere l’invito alla band di Yoko Ono, ma non se ne fece nulla. Si tirò indietro anche Bob Dylan, mentre i Doors avevano annullato tutti i concerti dopo le accuse di droga e oscenità rivolte a Jim Morrison. Sul festival esistono molte testimonianze fotografiche e video. Due i film principali: «Motel Woodstock» di Ang Lee (2009) e «Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica» girato nei giorni del festival e uscito nel 1970. Cosi racconta l’ultimo giorno: Sono le 8.30 del mattino del 18 agosto 1969. A Woodstock, dopo un diluvio universale che ha reso l’area del Festival un enorme acquitrino, ci sono ancora poche decine di migliaia di fans. Attendono che quella «tre giorni di pace e amore» venga chiusa da Jimi Hendrix, il più leggendario e talentuoso chitarrista della storia del rock. Con lui, un gruppo formato poche settimane prima. Il presentatore prende una topica storica nell’annunciare il concerto della «Jimi Hendrix Experience», il trio che lo stesso Hendrix aveva già sciolto. In realtà la formazione si chiama Gipsy Sun and Rainbows. Alla batteria c’è Mitch Mitchell, al basso Billy Cox, alla chitarra ritmica Larry Lee, alle congas, Jerry Velez e Juma Sultan. Le cineprese di Michael Wadleigh riprendono tutto.
Seconda guerra mondiale, 80 anni fa la deflagrazione. Con l’attacco della Germania nazista alla Polonia, il 1° settembre 1939 ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. Un conflitto destinato a durare sei anni e che ha visto contrapporsi le forze degli Alleati (Regno Unito, comprese India, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Canada, Francia. Unione Sovietica dal 22giugno 1941, Stati Uniti d’America, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941) e le cosiddette «Potenze dell’Asse» (Germania, Italia, dal 1940 al 1943, e Giappone dal 1941). Il conflitto ha provocato un numero spaventoso di morti, si calcola tra 55 e 60 milioni, e si è concluso con la vittoria degli Alleati, in Europa l’8 maggio 1945 dopo la resa della Germania, e in Asia nel settembre successivo con la resa dell’Impero giapponese dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. La guerra ha visto un coinvolgimento senza precedenti della popolazione civile nel conflitto, con bombardamenti a tappeto sulle città, rappresaglie e sterminio pianificato. La deportazione è stata adottata dal Terza Reich tedesco per annientare gli ebrei (l’Olocausto ha causato la morte di quasi sei milioni di persone) e tutte le persone che i nazisti dichiaravano indesiderabili, come intere popolazioni slave, zingari, oppositori politici e in generale tutti coloro venivano considerati nemici della «razza ariana». Il fascismo si schierò a fianco delle potenze dell’Asse fino al 1943, quando cominciò la liberazione del paese da parte delle forze alleate e si sviluppò una guerra civile di Resistenza contro i nazifascisti. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo depose Benito Mussolini che venne arrestato. Liberato dai nazisti fuggì al Nord, nei territori occupati dai tedeschi dove dette vita alla breve esperienza della Repubblica di Salò. L’8 settembre il Capo del governo italiano Pietro Badoglio annunciò l’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, firmato con gli anglo-americani il giorno 3 dello stesso mese. Il Re Vittorio Emanuele III e il governo fuggirono da Roma alla volta di Bari dove nacque il Regno del Sud. Da quel momento l’Italia era occupata dai nazisti da nord fino a Roma e Napoli, mentre da sud risalivano le truppe alleate, sostenute dalla Resistenza. La Capitale sarebbe stata liberata solo il 4 giugno 1944, Firenze l’11 agosto, mentre la Linea Gotica fu superata solo nell’aprile 1945, quando l’offensiva finale alleata permise di raggiungere la pianura Padana. Il 25 aprile è ufficialmente una delle festività civili della Repubblica italiana, scelta per ricordare la fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista e della Seconda guerra mondiale. La data del 25 aprile venne stabilita ufficialmente nel 1949, e fu scelta convenzionalmente perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, ma la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio. Il 2 maggio 1945 la pressione di alleati e partigiani costrinse alla resa le forze tedesche in Italia.
Musica: 150 anni dalla morte di Hector Berlioz. Hector Berlioz (La Côte-Saint-André, 11 dicembre 1803 – Parigi, 8 marzo 1869) è stato un compositore francese. Figlio di un medico venne inviato dal padre per seguire gli studi di medicina a Parigi, dove però nel 1826 riuscì a farsi ammettere alla Scuola reale di Musica e dove nel 1830, dopo numerosi tentativi, si aggiudica il grande concorso di composizione «Prix de Rome». Berlioz ebbe amici nell’ambiente musicale, ma anche profondi contrasti: Cherubini non lo stimava. Strinse amicizia con Franz Liszt, Fryderyk Chopin e Camille Saint-Saëns; conobbe in tarda età Richard Wagner ma con lui ruppe quasi subito i rapporti. Conobbe anche Johann Strauss e assistette personalmente ad alcuni suoi concerti. Fu un grande ammiratore delle sinfonie di Beethoven.Berlioz. Era, un uomo di profonda cultura, per leggere Shakespeare in originale studiò l’inglese, e un latinista, oltre che un grandissimo scrittore. Tra le sue opere principali la «Messe solennelle», la «Symphonie fantastique», un lavoro che gli regalerà notorietà e fama, la cantata «Sardanapale» che gli permetterà di vincere il «Prix de Rome» e quindi di passare un periodo ospite dell’Accademia di Francia a Roma. Durante il soggiorno italiano Berlioz visita Pompei, Napoli, Milano, Tivoli, Firenze, Torino e Genova; torna a Parigi nel novembre del 1832. Compone in questo periodo la sinfonia Aroldo, poi Romeo e Giulietta e la sinfonia funebre realizzata a seguito dell’inaugurazione della colonna in Piazza della Bastiglia. Nel 1833 si sposa con Harriet Smithson. Malgrado le incomprensioni linguistiche la storia procede e l’anno successivo nasce il loro unico figlio. Nella sua carriera registra solo un grande fallimento, nel 1838, con l’opera Benvenuto Cellini. Nel 1846 Berlioz adatta il libretto della Dannazione del Faust. Nel 1856 iniziò la composizione di Les Troyens. Nel 1861 lavora alla sua ultima opera, «Béatrice et Bénédict», basata su “Molto Rumore per Nulla” di Shakespeare. Muore l’8 Marzo 1869 nella sua casa di Parigi e viene sepolto nel Cimitero di Montmartre.
50 anni dalla morte di Theodore Adorno, sociologo, filosofo, studioso del pensiero e della musica. E’ difficile costringere Theodore Adorno in una particolare categoria di studioso. Nato a Francoforte nel 1903, accademico tedesco, si distinse per una critica radicale alla società e al capitalismo avanzato. Oltre ai testi di carattere sociologico, nella sua opera sono presenti scritti filosofici inerenti alla morale e all’estetica, nonché studi critici su Hegel, Husserl e Heidegger. Alla riflessione filosofica affiancò per tutta la sua esistenza un’imponente attività musicologica, aveva studiato a lungo pianoforte e ha vissuto a Vienna dove conosce Arnold Schönberg e studia composizione con Alban Berg. Tornato a Francoforte all’inizio degli anni Trenta prende contatto con l’Istituto per la ricerca sociale, allora diretto da Carl Grünberg, storico del movimento operaio. A Berlino frequenta circoli marxisti alternativi conoscendo Ernst Bloch, Bertolt Brecht e Kurt Weil. Nel ‘31 consegue l’abilitazione all’insegnamento con un saggio su Kierkegaard. Costretto dal nazismo a lasciare la Germania si trasferisce a New York. Tornerà dopo la fine della seconda guerra mondiale, per assumere la cattedra di sociologia a Francoforte. Tra i suoi testi considerati fondamentali «Minima moralia»: «La libertà - scrive - non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta». Nel ‘66 pubblica Dialettica negativa. Nel 1969, in un semestre in cui le lezioni sono interrotte da occupazioni e disordini, si rivolse alla polizia perché sgombrasse un’occupazione nei locali dell’Istituto per la Ricerca Sociale, di cui all’epoca era direttore. Il 6 agosto, dello stesso anno durante una vacanza in Svizzera, Adorno muore per un attacco di cuore.
90 anni dalla nascita di Martin Luther King. Ci sono personaggi ormai entrati in un pantheon storico che ce li fa sembrare lontanissimi, eppure fanno parte del nostro tempo. Uno dei più importanti è Martin Luther King, Premio Nobel per la pace nel 1964: era nato ad Atlanta, capitale della Georgia nel sud degli Stati Uniti, il 15 gennaio 1929. Pastore protestante, politico e attivista statunitense, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, venne ucciso a Memphis, il 4 aprile 1968. Appassionato studioso di Gandhi, King fu un convinto assertore della protesta non violenta, difensore degli emarginati, “redentore dalla faccia nera”, ha combattuto ogni sorta di pregiudizio etnico. Il 28 agosto 1963 a Washington, aveva tenuto un discorso che non sarebbe più stato dimenticato: «I have a dream...» «Io ho un sogno...». «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Sogno che un giorno, giù nell’ Alabama, i ragazzine e le ragazzine nere potranno tenersi per mano con i ragazzini e le ragazzine bianche, come fratelli e sorelle. Ho un sogno, oggi, che un giorno ogni valle sarà riempita, e ogni collina innalzata, e ogni montagna abbassata, e che i posti scoscesi vengano trasformati in pianure e quelli tortuosi raddrizzati, e che la gloria di Dio possa essere rivelata e che ogni carne umana possa esserne testimone. Questa è la nostra speranza. Questa è la fede con cui io ritorno nel Sud. Con questa fede, noi riusciremo a cavar fuori dalla montagna dalla disperazione un sassolino di speranza». Pochi giorni dopo la morte di Martin Luther King, John Conyers (rappresentante democratico del Michigan della Camera dei Deputati) propose un giorno in suo onore, ma la proposta non venne accolta. Conyers e Shirley Chisholm proposero ad ogni seduta del congresso tale idea, per 15 anni consecutivi, a partire dal 1978 si organizzarono delle marce in favore del festeggiamento del leader dei diritti civili. Alla fine, nel 1983 con 338 voti contro 90 alla camera, e 78 contro 22 al senato, la proposta divenne legge.Il Presidente Ronald Reagan firmò l’istituzione della festa nazionale per commemorare Martin Luther King, da celebrarsi il terzo lunedì di gennaio, un giorno vicino cioè al 15 gennaio, giorno della sua nascita.
Giovanni Falcone avrebbe 80 anni. Oggi è considerato uno dei simboli della lotta alla mafia, ma non ebbe un consenso altrettanto unanime in vita: Giovanni Falcone era nato a Palermo il 18 maggio 1939, ottanta anni fa. Venne ucciso in un attentato di mafia il 23 maggio 1992, quando cinquecento chili di tritolo fanno saltare in aria l’auto su cui viaggiava nei pressi di Capaci, vicino Palermo, insieme alla moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Dopo gli studi di giurisprudenza, vince il concorso in magistratura e nel 1964 diviene pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimane per circa dodici anni. Dopo l’attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare a Palermo presso l’Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro Rosario Spatola, un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che vide il procuratore Gaetano Costa - ucciso nell’agosto successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici, a capo del team di magistrati di cui fanno parte Falcone e Paolo Borsellino, viene ucciso con un’auto-bomba in via Pipitone; lo sostituisce Antonino Caponnetto, il quale riprende l’intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Si rafforza così quello che verrà chiamato «pool antimafia», sul modello delle équipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Oltre lo stesso Falcone e Borsellino, che aveva condotto l’inchiesta sull’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile nel 1980, del gruppo fecero parte i giudici Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Cosa nostra fece terra bruciata attorno ai magistrati italiani: dopo l’omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell’estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e di Paolo Borsellino, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara; per tale periodo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese per il soggiorno trascorso. Qui i due magistrati portarono a termine l’istruttoria che condusse al primo grande processo contro la mafia in Italia, passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo, che iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia. Caponnetto si apprestava a lasciare l’incarico per tornare nella sua Toscana in vista della pensione, e per la sua sostituzione si trovarono a confronto candidati Falcone e Antonino Meli, magistrato più anziano ma con nessuna esperienza in materia di mafia. Il 19 gennaio 1988, dopo una contrastata votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva. I contrasti all’interno della magistratura si fanno più aspri e nel 1991 Giovanni Falcone accoglie l’invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, che aveva assunto l’interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l’onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Viene istituita nel novembre del 1991 la Direzione nazionale antimafia, proprio per agevolare il processo di coordinamento delle indagini. La candidatura di Falcone a questi compiti fu ostacolata in seno al CSM, il cui plenum non aveva ancora assunto una decisione definitiva, prima della tragica morte del magistrato. Poche settimane dopo la morte di Falcone un altro attentato mafioso avrebbe ucciso, il 19 luglio 1992 a Palermo, anche Paolo Borsellino assassinato da Cosa nostra assieme ai cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
100 anni dalla nascita di Giulio Andreotti. Senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, grande e spesso enigmatico tessitore della politica italiana di cui è stato enfant prodige (sottosegretario con Alcide De Gasperi a soli 28 anni), Giulio Andreotti era nato a Roma il 14 gennaio del 1919, ed è scomparso il 6 maggio 2013. Ventisette volte ministro della Repubblica (di cui otto volte alla Difesa, cinque agli Esteri, tre alle Partecipazioni statali, due volte ministro delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno, dei Beni culturali e delle Politiche comunitarie) Andreotti ha fatto parte di tutte le assemblee rappresentative fin dalla Costituente. Nell’ ottobre 2011 non rinunciò a sfoggiare la sua consueta ironia smentendo la falsa notizia della sua morte: «Confido in un’ulteriore proroga da parte del Signore». Si laureò a 22 anni in Giurisprudenza. Alla stessa età divenne presidente della Federazione degli universitari cattolici italiani subentrando ad Aldo Moro, che gli aveva affidato la direzione del periodico «Azione Fucina». Fondamentale per il suo percorso politico fu però l’i n c o n t ro con Alcide De Gasperi, fondatore con Guido Gonella della Democrazia cristiana (Dc). Al termine della seconda guerra mondiale Andreotti divenne delegato nazionale dei gruppi giovanili del partito e nel 1945 fece parte della Consulta nazionale. L’anno seguente fu eletto deputato dell’Assemblea costituente. Da allora fu sempre rieletto in tutte le consultazioni politiche. Per due volte è stato eletto parlamentare europeo. Vasta nel corso della sua vita l’attività pubblicistica ed è autore di numerosi libri. Tra le sue disavventure giudiziarie la più nota è il processo per associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d’appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l’organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione] La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.
Domenico il Ghirlandaio nato 570 anni fa. Si chiamava Domenico Bigordi uno dei più importanti pittori del XV secolo. Figlio di Tommaso, orafo in via dell’Ariento (cioè dell’Argento) conquistò fama però con un soprannome, il Ghirlandaio (secondo la leggenda perché inventò le ghirlande in argento per adornare la fronte delle fanciulle fiorentine). Era nato a Firenze l’11 gennaio 1449, 570 anni fa. Fu allievo del pittore Alessio Baldovinetti ma, nella sua formazione artistica e nel primo periodo dell’attività, risentì dello stile dei grandi maestri del suo tempo: Giotto, Masaccio, Andrea del Castagno e Domenico Veneziano. Fatta eccezione per il periodo trascorso a Roma, dove lavorò per papa Sisto IV nella Cappella Sistina, Domenico visse sempre a Firenze (la chiesa S. Trìnita conserva gli affreschi con Storie di S. Francesco e la pala con l’Adorazione dei pastori, 1483-1486). Attento in seguito alle formule del Verrocchio e a quelle del primo Leonardo, si avvicinò anche alla cultura fiamminga. Nella maturità divenne uno dei protagonisti del Rinascimento fiorentino che aveva il suo protettore in Lorenzo de’ Medici e in particolare divenne di fatto il ritrattista ufficiale dell’alta società fiorentina, grazie al suo stile preciso, piacevole e veloce. Nel 1482 cominciò a lavorare all’affresco della Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio, uno dei suoi capolavori. Capo di una nutrita ed efficiente bottega, con i fratelli Davide e Benedetto, in cui mosse i primi passi nel campo dell’arte anche il giovanissimo Michelangelo Buonarroti. Giorgio Vasari nelle Vite gli attribuisce questo giudizio: «Usava dire Domenico la pittura essere il disegno, e la vera pittura per la eternità essere il musaico». Morì l’11 gennaio 1494 per una febbre pestilenziale mentre stava lavorando ad alcuni mosaici per Siena. E’ sepolto a Firenze nella chiesa di Santa Maria Novella.
I 100 anni del maestro Roman Vlad. Roman Vlad, musicista e intellettuale cosmopolita, è morto il 21 settembre 2013 a Roma, la città che, da ragazzo, appena arrivato in Italia, aveva deciso sarebbe stato la sua. Era nato a Cernovtzy, in Bucovina, nel 1919: oggi, quella cittadina si trova in Ucraina. A diciannove anni ottenne un’audizione da Alfredo Casella e diventa suo allievo al Conservatorio di Santa Cecilia, dimostrando verso il maestro una gratitudine mai venuta meno. Nel 1942 la sua Sinfonietta vince il Premio Enescu a Bucarest. È l’inizio di una duplice carriera di compositore e interprete, che presto si distingue per l’attenzione portata alla musica del proprio tempo. Ha scritto di lui il critico Sandro Cappelletto: «Come autore, non è facile racchiudere in uno stile la sua produzione, sensibile anche alle regole della dodecafonia, preoccupata di trovare sempre una propria ragione espressiva, nella strumentazione come nella vocalità. Mai dogmatico, talvolta eclettico, come risulta anche dai numerosi lavori per la scena teatrale. Per il grande coreografo Aurelio Milloss ha composto la musica di sei balletti, tra cui La dama delle camelie». Tra i suoi libri una significativa biografia critica su Stravinskij (1958), che il compositore russo definì «il miglior volume a me dedicato»; e numerose lettere di Stravinskij fanno parte del prezioso fondo da lui recentemente donato alla Fondazione Cini di Venezia, fino al volume autobiografico «Vivere la musica», pubblicato da Einaudi nel 2011. Vlad diventa presto apprezzato divulgatore, in cicli di conversazioni musicali e introduce, nel 1962 per la Rai, la serie di trasmissioni dedicate all’arte pianistica di Benedetti Michelangeli. Con la Rai il rapporto di collaborazione è rimasto sempre intenso, arrivando alla direzione artistica dell’Orchestra di Torino. Innumerevoli gli incarichi avuto come organizzatore musicale: nel 1964 a Firenze è suo il memorabile Maggio Musicale Espressionista; vennero poi la direzione artistica del Teatro alla Scala, la sovrintendenza all’Opera di Roma, la presidenza della Società Aquilana dei Concerti e della S.I.A.E, la direzione artistica dell’Accademia Filarmonica Romana della quale è rimasto fino all’ultimo presidente onorario.
70 anni dalla nascita della Nato. Il trattato istitutivo della NATO, organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, fu firmato a Washington, D.C. il 4 aprile 1949 ed entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno. Venne fondato da Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Usa. Nei tre anni successivi aderirono la Grecia, la Turchia e la Germania federale. L’organizzazione vedeva al suo interno molti Paesi dell’Europa che, al termine della seconda guerra mondiale erano entrati nella sfera di influenza USA, in contrapposizione con quello che si andava delineando come blocco comunista che faceva riferimento all’Unione Sovietica. La filosofia di base del Patto Atlantico è sintetizzata dall’articolo 5 del Trattato, quello sulla “difesa collettiva”: «Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica». Il 14 maggio 1955 nasce il patto di Varsavia, organizzazione militare speculare rispetto al patto Atlantico promossa da Mosca con tutti i paesi comunisti satelliti. Questi date segnano l’evoluzione del confronto tra i blocchi contrapposti in un periodo scandito dal terrore nucleare e dalla «guerra fredda». Nel dicembre 1957 la Nato dispiega armi nucleari in Europa. In uno dei momenti più duri di questo confronto nell’agosto 1961 cominciò la costruzione del Muro di Berlino, frontiera alzata per impedire l’esodo verso ovest e che si trasformò in una fortificazione che isolava il settore occidentale di Berlino, controllato dalle potenze occidentali in base agli accordi stipulati alla fine della guerra, trasformandolo in un’isola all’interno dei territori orientali controllati dall’unione sovietica. Il patto di Varsavia si è sciolto nel 1991, dopo la disgregazione dell’Unione sovietica. Nel 1966, per decisione del generale de Gaulle la Francia era uscita dalla struttura militare della Nato pur restandone un membro politico. Attualmente i paesi che fanno parte della Nato sono 29, di questi, 22 sono anche membri dell’Unione Europea.
40 anni fa le Br uccisero Guido Rossa. Guido Rossa era un operaio e sindacalista italiano, nato in provincia di Belluno, assassinato dalle Brigate Rosse a Genova il 24 gennaio 1979. Aveva 45 anni. La sua storia è stata raccontata da Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, nel libro, «Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli» (Einaudi Stile libero). Guido Rossa si era trasferito a Genova nel 1961, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider di Cornigliano. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. In quegli anni le Br hanno dei fiancheggiatori nelle fabbriche, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà». Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Rossa nota un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi e decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere e Guido Rossa sarà l’unico a testimoniare in aula. Le Br decidono di punirlo. L’idea è quella di una gambizzazione affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. Ma l’azione uccide Guido Rossa nella sua Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova. Poco prima delle 8 del 24 gennaio di 40 anni fa.
50 anni dalla strage di piazza Fontana. Il 12 Dicembre 1969, alle 16:37, una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 16 persone e ferendone altre 88. È l’attentato che segna l’inizio del terrorismo politico in Italia. Le indagini si orientano inizialmente verso la pista anarchica e portano all’arresto e all’incriminazione di Pietro Valpreda, ma nel corso dell’inchiesta emerge la matrice nera. Al termine di un iter processuale durato circa 35 anni e sette processi in varie città d’Italia, tutti gli accusati dell’eccidio saranno sempre assolti in sede giudiziaria, alcuni verranno condannati per altre stragi, altri invece godranno della prescrizione evitando la pena. Nel 2005 la Corte di Cassazione concluderà sostenendo che la strage di piazza Fontana fu realizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova, nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari» per questo stesso reato. Al termine il processo del 3 maggio 2005 ai parenti delle vittime verranno anche addebitate le spese processuali. In quello stesso 12 dicembre 1969, in appena 53 minuti, altri attentati colpiscono contemporaneamente anche Roma: una bomba esplode alle 16:55 all’entrata della Banca Nazionale del Lavoro, ferendo tredici persone. Altre due bombe esplodono tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, ferendo quattro persone. A Milano una seconda bomba viene rinvenuta inesplosa nella sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala: dopo i primi rilievi sarà fatta brillare, distruggendo in tal modo elementi probatori di possibile importanza. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, tra i sospettati fermati su ordine della questura c’è l’anarchico Giuseppe Pinelli, ferroviere 43enne, staffetta partigiana durante la guerra e animatore del Circolo del Ponte della Ghisolfa. Tre giorni dopo il fermo, in una pausa dell’interrogatorio da parte di Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, precipita dal quarto piano della questura e muore durante il trasporto in ospedale. Le circostanze della morte, il clima di tensione di quei giorni e alcune dichiarazioni, come quella del questore Marcello Guida, secondo cui il «suicidio» di Pinelli era la dimostrazione della sua colpevolezza, contribuiscono ad animare violente polemiche, sospetti e accuse, in particolare verso il commissario Calabresi. Nel provvedimento di archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, depositato il 25 ottobre del 1975, il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio scriverà: «L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli». In un clima di accuse e di odio il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi viene assassinato da militanti di Lotta Continua. Per l’omicidio verranno condannati in via definitiva Ovidio Bompressi e il pentito Leonardo Marino, quali autori materiali, mentre Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri quali mandanti. Nel maggio 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - che aveva definito Pinelli la diciassettesima vittima della strage di piazza Fontana - invitò al Quirinale e fece incontrare la vedova di Luigi Calabresi, Gemma, e la vedova di Pinelli, Licia. «Finalmente, signora, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi - disse Gemma Calabresi a Licia Pinelli - Finalmente le nostre famiglie si ritrovano...».
Quel Muro tra due menzogne. La "barriera protettiva antifascista" fu eretta a Berlino contro un pericolo inesistente. E l'Europa non è nata come risposta ai nazionalismi. Marcello Veneziani l'11 novembre 2019 su Panorama. Il Muro di Berlino sorse su una menzogna e la sua caduta il 9 novembre di trent’anni fa generò un’altra menzogna. La prima, grande menzogna fu come venne presentato dal regime comunista ai tedeschi dell’Est: «barriera protettiva antifascista», come la definì il capo del regime comunista di Pankow, Walter Ulbricht. Ovvero lo scopo per cui era stato innalzato era proteggere la Germania comunista da un ipotetico, minaccioso attacco fascista. I fascismi erano ormai morti e sepolti da tanti anni, nuovi fascismi non s’intravedevano all’orizzonte e mai la Repubblica «democratica» tedesca fu minacciata alle sue frontiere da qualsivoglia pericolo, infiltrazione o invasione. L’unico vero motivo per cui sorse quel Muro e che la storia tragicamente comprovò fu di impedire la libera uscita dei tedeschi orientali dal loro Paese, dalla metà di Berlino, anche solo per riabbracciare famigliari e amici che erano al di là del muro. Centinaia di tentativi, finiti tragicamente, morti sul filo spinato, abbattuti dai Vopos a dimostrare che nessuno voleva introdursi nella Germania comunista ma tanti volevano uscirne. I flussi erano in una sola direzione. Era la prova più evidente del fallimento di un regime poliziesco e repressivo. Ma la mistificazione propagandistica continuava ad agitare il pericolo della reazione in agguato, l’imperialismo fascio-capitalista occidentale...Dopo 28 anni quel Muro si sbriciolò e tante furono le cause generali ma resta un mistero perché sia avvenuto così, senza resistenze e contrasti. Si disse che il mondo era cambiato, il comunismo aveva perso la sfida col capitalismo occidentale, il mondo si faceva globale, i media volatilizzavano le frontiere e portavano nuovi modelli di vita, il consumismo trionfava. Tre figure, in modi diversi, avevano contribuito a smantellare il Muro: il presidente americano Ronald Reagan e il suo scudo stellare, il papa polacco Karol Wojtyla e il movimento di Solidarnosc, il presidente russo Mikhail Gorbaciov con la glasnost e la perestrojka. Ma una seconda grande menzogna è poi cresciuta sulle rovine del Muro e della sua memoria e tuttora si tramanda, anzi è accresciuta da quando sono sorti i nazional-populismi e i sovranismi. Si ripete sempre nei discorsi ufficiali, nelle rievocazioni istituzionali e nelle narrazioni dominanti che l’Europa unita scaturita dopo il crollo del Muro sia nata contro i nazionalismi, in risposta a essi. Un falso storico grande come il Muro. L’Europa fu possibile, coi suoi trattati, da Maastricht a Schengen, e il suo allargamento a Est, solo perché era caduto il comunismo, la cortina di ferro; e perché non c’era più l’alibi del bipolarismo Est-Ovest che costringeva mezz’Europa ad allinearsi all’Urss e l’altra metà agli Stati Uniti. Non era stato l’ostacolo dei nazionalismi a impedire l’unificazione europea. Dopo il 1945 il nazionalismo era stato sconfitto o era ininfluente, marginale coi regimi autoritari di Spagna e Portogallo. L’unico nazionalismo vigente in Europa dopo la guerra era franco-europeista, in funzione anti-egemonia americana: fu il sogno dell’Europa delle patrie, dall’Atlantico agli Urali, del Generale Charles de Gaulle. Dunque è solo una bufala politica e storiografica che l’Europa si sia unita affrancandosi dai nazionalismi. Il paradosso aggiuntivo è che più passano gli anni e più si accentua la fiaba antinazionalista dell’Europa mentre è scomparso nelle nebbie dell’amnesia collettiva e istituzionale l’eredità pesante del comunismo e le cicatrici che lasciò in mezza Europa. Si legge la caduta del Muro come un trionfo della società globale senza confini. Si abusa anzi della retorica sui muri da abbattere per giustificare i massicci flussi migratori e il diritto soggettivo e assoluto di ciascun abitante del pianeta di cambiare paese. Si dimentica un’elementare realtà: i muri più infami non sono quelli che impediscono di entrare, senza passaporto, a chiunque decida di venire, ma quelli che impediscono di uscire, nonostante il passaporto, ai propri cittadini in regola con le leggi, con lo Stato, con il fisco. Cadendo, il Muro di Berlino lasciò aperto il mondo ma in due direzioni opposte: una verso la globalizzazione e la società senza frontiere, l’altra verso le identità locali e nazionali. Del resto il Muro crollato non rese solo più aperto il mondo, ma unificò anche una nazione lacerata, come la Germania. Finì il dramma tedesco, una nazione martoriata da due sconfitte, due totalitarismi e dall’infamia della Shoah. La Germania riunita diventò esempio per le altre aspirazioni nazionali represse, a partire dall’est uscito dal comunismo. Il mondo non si fece unipolare, soggetto al Nuovo Ordine Mondiale; ma la frontiera tra est e ovest traslò in una barriera invisibile tra Nord e Sud del pianeta, tra centro e periferie, tra Occidente e Islam. Insomma la storia non finì tra le braccia dell’Impero americano e della democrazia liberale, come pensarono in quel tempo George Bush e il suo consigliere Francis Fukuyama. Ma riprese con altri scenari e altre linee di confine, altri spartiacque. Il Muro di Berlino lasciò due eredi, non uno solo, e due diverse idee dell’Europa. Una come integrazione delle nazioni in un progetto confederale e l’altra come «dis-integrazione» delle nazioni in un progetto cosmopolitico. Nazionalismo e internazionalismo, anzi sovranismo e globalitarismo ne sono i risultati. Con quel Muro finì una storia, se ne aprì un’altra. La nostra. Il mare è aperto ma tra le sue acque è riemerso l’arcipelago delle identità.
La censura sul Muro: ora è vietato parlare di comunismo a scuola. Sbianchettato il testo di Forza Italia-Lega-Fdi La sinistra: la dizione è "socialismo reale". Sabrina Cottone, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Sono passati trent'anni dal giorno della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre del 1989 che per molti è un ricordo degli occhi e del cuore, ai ragazzi è stato tramandato tra racconti familiari e The Wall dei Pink Floyd, per tutti è una data entrata nei libri di storia e nei testi che si studiano a scuola. Eppure la condanna del comunismo divide ancora, e capita, è capitato ieri che in commissione Cultura alla Camera si dibatta un'intera seduta per censurare l'espressione «dittatura comunista» di stampo sovietico, e proprio in un testo che vuole impegnare il governo a verificare che nelle scuole si celebri realmente il «Giorno della libertà» istituito nel 2015. A opporsi all'espressione «dittatura comunista» è stato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, l'area della maggioranza più radicale che fa riferimento a Leu, sostenuto dal sottosegretario al Miur, Giuseppe De Cristofaro, ex parlamentare di Rifondazione comunista oggi esponente di governo di Si. Non è caduta «la dittatura comunista», ma «la dittatura del socialismo reale», la tesi sostenuta dagli esponenti di Sinistra italiana. È così partita una battaglia da azzeccagarbugli che ha impedito di arrivare a una risoluzione condivisa. Si spera che oggi un ritorno alla realtà di ciò che è stato riporti il comunismo nel testo, così da arrivare a una mozione unitaria. Ma nel frattempo la commissione Cultura della Camera, a trent'anni dalla caduta del Muro, è rimasta travolta per un giorno dalle vecchie macerie, a dibattere se quel 9 novembre a Berlino fosse davvero caduta la dittatura comunista o il socialismo reale. La risoluzione contestata è stata presentata da Fratelli d'Italia, con Paola Frassinetti come prima firmataria, dalla Lega con Daniele Belotti e da Forza Italia con Valentina Aprea. «Il 9 novembre ha rappresentato per milioni di persone il giorno della ritrovata libertà dopo decenni di dittatura comunista» il passaggio che ha fatto inciampare i parlamentari della sinistra radicale. Le risoluzioni presentate per la discussione congiunta, con l'intenzione di fonderle in una sola, sono state tre: una di maggioranza, una seconda a firma di Alessandro Fusacchia di +Europa, confluita nella risoluzione della maggioranza, e la risoluzione del centrodestra, la prima a essere depositata e quindi discussa. Si lavorava agli impegni per stendere una risoluzione unitaria quando si è levata l'opposizione dell'area radicale di Leu alla «dittatura comunista». Uno stop inatteso che ha riportato indietro di decenni l'orologio della storia. «Dopo la risoluzione del Parlamento europeo, il comunismo è equiparato ad altri totalitarismi. Per questo, la censura è da ritenersi odiosa e inaccettabile. Sotto la cortina di ferro del comunismo, sono morte milioni di persone» è la protesta sulle labbra di Federico Mollicone, capogruppo di Fdi in commissione Cultura. «È vergognoso come questo governo non ammetta la parola comunismo, come se nulla fosse accaduto. Quanto avvenuto in commissione Cultura è inaccettabile» commenta il leghista Belotti, capogruppo del suo partito in Commissione. E l'azzurra Valentina Aprea parla di «revisionismo storico» e aggiunge: «È fondamentale insegnare alle giovani generazioni che con la caduta del Muro ci siamo liberati dalla dittatura comunista di stampo sovietico. Noi combattiamo tutti e tre i totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo. E nei Paesi del blocco sovietico la gente è stata privata della libertà a causa del comunismo».
In Parlamento un giro di parole per salvare l'idea comunista. Sabrina Cottone, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. È caduto il comunismo quando è caduto il Muro? La domanda potrebbe sembrare semplice ma in politica non lo è, come dimostra il parapiglia in commissione Cultura della Camera, dove la sinistra radicale di Leu voleva espungere le espressioni «comunismo» e «dittatura comunista» per parlare di ciò che accadeva a Berlino Est, in Unione sovietica e negli altri Paesi d'oltrecortina. Meglio un più edulcorato «dittatura del socialismo reale» per trasmettere alle giovani generazioni la memoria di ciò che è stato. Il dibattito si è acceso proprio su una risoluzione che impegna il governo a moltiplicare le iniziative di ricordo della caduta del Muro nelle scuole e nelle università. Quasi fuori tempo massimo, all'antivigilia del trentesimo anniversario del 9 novembre 1989 dichiarato con legge del 2005 Giorno della libertà, è arrivato il compromesso storico, con una risoluzione votata da maggioranza e opposizione. In un soprassalto di senso della realtà storica, il «comunismo» è tornato a esistere insieme alla «dittatura». Ma, recita il documento, la «libertà» è stata ritrovata «dopo decenni di dittatura imposta in nome del comunismo». Non una dittatura comunista ma «una dittatura imposta in nome del comunismo». Un giro di parole politicamente corrette che è piaciuto a tutti, forse anche perché ciascuno è libero di interpretarle a proprio modo. «Imposta in nome del comunismo» può significare che il comunismo in sé non fosse un'ideologia perversa, come potranno leggere e supporre senza sussulti tutti coloro che ne sono orfani e anzi continuano a credere che nel Manifesto del Partito comunista, tra le parole di Marx e Engels, nel materialismo dialettico, nella lotta di classe, fossero nascoste giustizia, uguaglianza e fraternità, e se poi mancava la libertà poco male, ma era un bellissimo progetto di vita e società incompreso, realizzato peggio, trasformatosi in orrore e violenza, in un'eterogenesi dei fini che inevitabilmente rimane incomprensibile. Ma «dittatura imposta in nome del comunismo nei paesi del cosiddetto socialismo reale» può significare anche altro, quasi l'opposto, e cioè che quel «comunismo» che sarebbe morto il 9 novembre 1989, sbriciolato insieme al Muro di Berlino, in realtà non è morto, anzi è vivo e vegeto e lotta ancora contro di noi, nei Paesi in cui oggi esiste una dittatura imposta nel suo nome. Il Partito comunista cinese, la seconda formazione politica più grande del mondo, governa la Repubblica popolare cinese. Segretario e presidente sono un'unica persona che può rimanere al potere a vita. Non è l'unico Paese in cui ciò accade. Nella circolare del Miur alle scuole si parla della caduta del Muro come «evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». E allora una delle domande dell'oggi, a trent'anni dalla caduta del Muro, resta una grande muraglia anche a scuola. Esiste ancora o no la «dittatura imposta nel nome del comunismo»?
La storia del Muro diventa radical chic. Roberto Vivaldelli suit.insideover.com l'8 novembre 2019. A 30 anni dalla Caduta del Muro di Berlino lo spauracchio delle forze progressiste che vogliono riscrivere la storia diventa uno solo: il “sovranismo”. L’ex premier Paolo Gentiloni e commissario Ue designato ha spiegato a Porta a Porta che “questa ventata nazionalista, soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri, va fortissimo e mette in discussione la democrazia liberale che quella notte aveva trionfato”. Dopo 30 anni, ha sottolineato Gentiloni, “rallegra avere tutto quello che abbiamo, ma non ci dimentichiamo che quella cosa che a noi sembrava scontata, la democrazia liberale, sarà il tema degli anni 20 del nuovo secolo, la posta in gioco vera sarà se questo sistema è davvero il sistema migliore”, ha spiegato il commissario Ue designato. Che cosa abbia a che fare la “ventata nazionalista” con la Caduta del Muro, che aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica, nessuno lo sa, se non il tentativo di individuare nel “sovranismo” il “male assoluto” che minaccia la democrazia liberale di cui i progressisti, eredi del Partito comunista italiano, sarebbero – a loro dire – i soli portavoce. “Il trentennale dalla caduta del Muro di Berlino è una festa. Ma a metà. Perché mentre celebriamo una data così significativa per l’Europa, assistiamo alla rinascita di tanti piccoli muri nel nostro continente e nel mondo. Alcuni ideologici. Altri, purtroppo, reali. Muri fisici che puntano a dividere. Vendendo l’illusione di una maggiore sicurezza. Quando invece l’unica cosa che accrescono è l’intolleranza”. Spiega invece la senatrice Laura Garavini, vicepresidente del gruppo Italia viva di Matteo Renzi. “In questo momento storico – aggiunge la senatrice – l’unico modo per celebrare il trentennale della caduta del Muro è alzare la voce contro l’imbarbarimento della mentalità comune. Venti di destra soffiano in Italia, nella stessa Germania ed in tutta Europa”.
La Caduta del Muro e le strumentalizzazioni. Anche i vescovi europei, riuniti in assemblea plenaria, commemorano la caduta del muro di Berlino e lanciano un monito rivolto ai cittadini contro i sovranismi. Il Comece si è espresso mediante una dichiarazione: il Muro, spiegano, “ci ha insegnato che costruire muri tra i popoli non è mai la soluzione, ed è un appello a lavorare per un’Europa migliore e più integrata”. Come riporta l’agenzia Sir, il riferimento dei vescovi ai nazionalismo è eloquente: “Le ideologie, un tempo alla base della costruzione del muro, non sono del tutto scomparse in Europa e sono ancora oggi presenti, seppur in forme diverse”, hanno scritto. Si tratta di riletture strumentali, a fini politici e ideologici di un evento storico che andrebbe analizzato in ben altri termini. Innanzitutto sottolineando che una cosa è riflettere sulla fine del socialismo reale, ben altro è disquisire sull’unificazione della Germania e le importanti conseguenze geopolitiche che quell’evento ebbe sulla storia europea e mondiale. Come nota l’ex segretario di Stato Henry Kissinger in Ordine Mondiale, “la caduta del Muro di Berlino rapidamente al collasso dell’orbita dei satelliti dell’Urss, la fascia di Stati dell’Europa orientali assoggettati al sistema di controllo sovietico”. Il collasso dell’Unione sovietica, nota Kissinger, “modificò il carattere dell’azione diplomatica. La natura dell’ordine europeo risultò trasformata in modo sostanziale nel momento in cui non esisteva più una consistente minaccia militare proveniente all’interno dell’Europa. Nell’atmosfera di esultanza che seguì, i tradizionali problemi dell’equilibrio furono liquidati come ‘vecchia’ diplomazia, da sostituire con la diffusione di ideali condivisi”.
La fine della Guerra fredda e il trionfo dell’egemonia liberale. Alla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti si affacciarono sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione sovietica e la conclusione dell’era bipolare, infatti, gli strateghi americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appare come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società. Si faceva inoltre sempre più largo l’idea che le nazioni potessero essere superate e il realismo politico fosse ormai un lontano ricordo. Fu un grave errore. Come ricorda il professor Marco Gervasoni, già all’epoca qualcuno, come il grande Samuel P. Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt’altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Insieme a lui John J. Mearsheimer e tutta la schiera di “realisti”.
L’unificazione incompiuta. L’ultimo aspetto da analizzare riguarda la “mancata unificazione” e il grande divario fra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Come nota il Fatto Quotidiano, “da qui bisognerebbe partire, se si vuol capire come l’ Unione stia perdendo l’ Est: dai modi e dai discorsi pubblici con cui l’ Est – Germania orientale in testa – è stato annesso e privatizzato, più che integrato e rispettato”. In Germania, ricorda Il Fatto Quotidiano, l’autocritica è in pieno corso, e non mancano libri che parlano dell’Est come di un Mezzogiorno ancora più dannato del nostro. Tra i tanti, quello di Daniela Dahn, già dissidente in Ddr, che invariabilmente denuncia le modalità di un’ unificazione cui dà il nome storicamente pesante di Anschluss, annessione. I cittadini dell’est hanno la sensazione di essere cittadini di serie B. Come riporta IlSole24Ore, il reddito di un cittadino dell’Est è comunque all’85% di quello di un cittadino dell’ Ovest, con un gap di produttività del 20% a favore della parte occidentale.
Muro di Berlino, un lungo addio. Quel collasso veniva da lontano. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Antonio Carioti, su Il Corriere della Sera. Un libro a cura di Marcello Flores, per i trent’anni dalla caduta della barriera che spaccava in due la città tedesca, rievoca i giorni che segnarono la fine del comunismo. Sotto un profilo storico di durata medio-lunga, si può perfino sostenere che il Muro cominciò a crollare prima di essere costruito. Nel senso che la stessa edificazione di una barriera che tagliava in due Berlino, per impedire il deflusso degli abitanti dalla zona orientale a quella occidentale, segnalava la debolezza della Germania comunista e del blocco sovietico, incapaci di reggersi se non a prezzo di gravi misure coercitive esercitate sulla loro popolazione. Il libro a cura di Marcello Flores, in edicola con il «Corriere» a euro 8,90 Di quella precarietà si erano avvertiti forti sintomi ben prima del 1961, anno in cui il Muro fu edificato, a cominciare dalla rivolta operaia scoppiata proprio a Berlino nel 1953 e repressa dalle truppe sovietiche. Da allora il 17 giugno, giorno in cui la sommossa aveva raggiunto il culmine, venne celebrata nella Germania Ovest come giornata dell’unità nazionale fino al 3 ottobre 1990, data della effettiva ricongiunzione tra i due Stati divisi dalla guerra fredda. Insomma, non venivano certo dal nulla, né erano soltanto frutto della pur decisiva politica di Mikhail Gorbaciov, i fatti di trent’anni fa rievocati attraverso reportage e commenti apparsi all’epoca sul «Corriere della Sera» e raccolti a cura di Marcello Flores (che firma anche un’ampia introduzione) nel libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, in edicola da oggi con il quotidiano. Quegli eventi clamorosi, che colsero il mondo di sorpresa, avevano origini lontane. Mikhail Gorbaciov guidò il Pcus dal 1985 al 1991 e cercò di riformare il sistema sovieticoUno snodo fondamentale, a tal proposito, fu proprio l’insurrezione del 1953, perché veniva non a caso dopo un evento che segnava una svolta epocale: la morte di Iosif Stalin, l’uomo che aveva di fatto plasmato in profondità il sistema sovietico (ancora piuttosto precario alla morte del suo maestro e predecessore Vladimir Lenin), lo aveva dotato di un possente apparato industriale, incentrato sulla produzione bellica, e lo aveva condotto alla vittoria nella guerra spietata contro gli invasori nazisti. Il prestigio derivante all’Urss dal suo contributo essenziale alla sconfitta del Terzo Reich e la personalità di Stalin, capo indiscusso di un movimento mondiale che dominava una parte assai rilevante della superficie terrestre e del genere umano, erano i due elementi di forza del blocco sovietico. La natura dispotica di quel sistema di potere poteva comunque essere giustificata dall’ostilità del mondo capitalista circostante, soprattutto per chi era disposto a credere che i Paesi comunisti stessero marciando, pur con inevitabili difficoltà, verso il progresso civile e l’eguaglianza sociale. La morte di Stalin privò tuttavia l’impero della sua guida, la cui leadership si basava su un misto di carisma personale e terrore diffuso, esercitato sull’intera società e sulla stessa classe dirigente dell’Urss. I suoi successori, liberi finalmente dal timore di cadere in disgrazia, pensarono di poter allentare la presa. E, al XX Congresso del Partito comunista, osarono sconfessare il capo defunto. La sfida era competere con l’Occidente sul piano della convivenza pacifica, garantendo un tenore di vita migliore agli abitanti del blocco comunista. Il calcolo si rivelò ben presto errato. La rivolta di Berlino fu il primo segnale che l’impero non si poteva tenere insieme senza usare la violenza. E la conferma venne nel 1956. Se in Polonia venne raggiunto un compromesso tra le aspirazioni all’autonomia dei comunisti locali e le esigenze del Cremlino, in Ungheria fu necessario usare i carri armati per reprimere una rivoluzione impetuosa. Poi venne la costruzione del Muro, nell’agosto del 1961, per evitare che la cosiddetta Repubblica democratica tedesca venisse dissanguata dall’esodo dei suoi abitanti attirati dal miracolo economico della Germania occidentale. Ancora più grave, nel 1968, fu l’invasione della Cecoslovacchia, perché ad essere schiacciato dall’Armata rossa fu un processo riformatore, la Primavera di Praga, avviato dallo stesso Partito comunista. Di fronte alla successiva nascita di Solidarnosc, sindacato che di fatto univa tutta la nazione polacca contro un regime esausto+, non restò che il golpe militare del dicembre 1981. La realtà ormai innegabile negli anni Ottanta era che il blocco sovietico viveva una sorta di schizofrenia strutturale tra gli ideali proclamati a parole, quelli di eguaglianza e libertà del marxismo rivoluzionario, e la realtà di un sistema oppressivo e inefficiente, retto soprattutto da un apparato spionistico e militare di proporzioni gigantesche. Ciò era palese nei più importanti Paesi satelliti (Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria), dove il consenso dei cittadini ai rispettivi regimi era assai ristretto. Il dato che spesso viene trascurato quando si paragona il Muro di Berlino ad altre barriere (quella costruita da Israele per bloccare le infiltrazioni armate o anche quella al confine tra Messico e Usa) è che spesso nella storia gli Stati hanno costruito fortificazioni per tenere fuori stranieri ansiosi di entrare nel loro territorio (si pensi alla Muraglia cinese o al Vallo di Adriano), ma lo sbarramento eretto dalla Germania orientale serviva invece a evitare la fuga dei suoi abitanti verso l’esterno. Denunciava la bancarotta di un sistema che non attirava nessuno, ma al contrario suscitava nella popolazione un’impellente desiderio di andarsene, anche a costo di rischiare la vita sotto i colpi delle guardie confinarie. Quando Gorbaciov cercò di colmare il divario tra ideali e realtà, come avevano cercato di fare prima di lui l’ungherese Imre Nagy e il cecoslovacco Alexander Dubcek, l’intero edificio cominciò a sfaldarsi. L’economia collettivista burocratizzata non era facilmente riformabile e la concessione di maggiori libertà civili era incompatibile con l’assetto a partito unico. La successiva frana conobbe nel 1989 un’improvvisa accelerazione, tanto da produrre l’unificazione tedesca con una rapidità che — lo sottolinea Flores — preoccupò anche esperti americani come Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente George Bush senior. Certo, come ha dichiarato a «la Lettura» del 16 ottobre l’ultimo premier comunista della Germania orientale Hans Modrow, quello Stato venne «barattato per denaro» da Gorbaciov in cambio degli aiuti concessi dal cancelliere occidentale Helmut Kohl. Ma si può vendere solo ciò che si possiede: la Repubblica democratica tedesca era appunto una creatura di Mosca, che poteva farne ciò che voleva. D’altronde nella stessa Urss la disgregazione del sistema si dimostrò inarrestabile. Il tentativo di bloccarla compiuto dagli aspiranti golpisti dell’agosto 1991, che cercarono di deporre Gorbaciov e di fatto consegnarono a Boris Eltsin l’opportunità per smembrare l’Urss, abortì soprattutto per la scarsa convinzione dei suoi fautori. Al comunismo leninista non credevano più gli stessi membri dell’oligarchia che con quella dottrina aveva giustificato il suo potere. Esce l’8 novembre e rimane in edicola un mese con il «Corriere della Sera» il libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, a cura dello storico Marcello Flores, in vendita al prezzo di 8,90 euro più il costo del quotidiano. Il volume — nel trentennale della svolta che segnò l’inizio della fine della divisione dell’Europa determinata dalla guerra fredda dopo il 1945 — raccoglie corrispondenze, editoriali e interviste che apparvero sul quotidiano di via Solferino tra il 17 gennaio 1989 e il 5 ottobre 1990.
Caduta del muro di Berlino, 30 anni dopo: 10 film da vedere. Il 9 novembre 1989 crollava l'ultima barriera della Guerra Fredda. Celebriamo il trentennale con 10 film su Germania divisa e muri da abbattere. Simona Santoni il 6 novembre 2019. 15 anni dopo la seconda Guerra mondiale, il mondo era percorso dalla Guerra Fredda. Berlino era l'emblema della divisione: da una parte la Berlino Ovest, che comprendeva i tre settori di occupazione alleati americano, britannico e francese, dove l'economia aveva ripreso a fiorire sull'onda della modernizzazione. Dall'altra Berlino Est, filorussa, con i sovietici che assistevano alla fuga di tanti tedeschi verso occidente, alla ricerca di maggiore fortuna. È così che il 13 agosto 1961 i sovietici innalzarono il Muro di Berlino, a dividere in due la città, con la giustificazione di mettere un freno a questa fuga. I berlinesi subirono impotenti la separazione. Negli anni, 136 persone morirono nel tentativo di scavalcare il Muro, uccisi dalle guardie della Repubblica Democratica Tedesca o in seguito alle ferite riportate nell'impresa. Il 9 novembre 1989 è la data che ha cambiato la Storia: furono aperti i posti di blocco e decine di migliaia di berlinesi dell'Est oltrepassarono la frontiera, accolti festososamente dai berlinesi dell'Ovest. A 30 anni da questo evento epocale, consigliamo 10 film belli da vedere, che parlano di Berlino e del Muro, ma anche e semplicemente di muri, da abbattere e superare. Il 9 novembre, non a caso, è la Giornata nazionale contro tutti i muri.
1) Good bye Lenin! (2003) di Wolfgang Becker. In questa lista non può mancare Good bye Lenin!, film cult tedesco che restituisce con leggerezza un'immagine chiara del post Guerra Fredda. Dà luce a una realtà poco nota come quella di Berlino Est e alla "Ostalgie", ovvero la nostalgia della vita nella ex DDR, per noi occidentali tanto difficile da comprendere quanto misteriosa e affascinante. Con Daniel Brühl. Protagonista la famiglia Kerner di Berlino Est: nel 1989, la mamma entra in coma e si sveglia alcuni mesi dopo, con il Muro ormai crollato e la società mutata. Per evitarle lo choc, suo figlio fa di tutto per fingere che nulla sia accaduto. Per il trentennale della caduta del Muro di Berlino Good bye Lenin! torna al cinema, distribuito da Satine Film.
2) Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck. Made in Germania, Oscar al miglior film straniero, è una storia di spionaggio ma non di azione e inseguimenti, è costruita su pensieri nascosti e segreti desideri sul filo di una tensione silenziosa. È ambientata nella Berlino Est del 1984, controllata dalle spie della Stasi. Ulrich Mühe, che purtroppo morì poco dopo l'Academy Award, interpreta un funzionario della Stasi che spia la vita di una coppia, registra ogni suo passo, fino a diventarne complice.
3) Uno, due, tre! (1961) di Billy Wilder. Un film che si compone a cavallo della costruzione del Muro di Berlino. Austriaco di famiglia ebraica che poi espatriò negli States, Wilder abitò la città fino fino all'ascesa di Hitler. Con i consueti toni della commedia, fa una satira sulla Guerra Fredda dal ritmo incalzante. Un dirigente della Coca Cola a Berlino Ovest vorrebbe vendere la bevanda anche nei Paesi comunisti, mentre la figlia del boss della multinazionale si innamora di un giovane della Germania Orientale...La realizzazione del film fu turbata proprio dallo storico innalzamento del Muro, il 13 agosto 1961, tanto che le riprese sotto la porta di Brandeburgo, punto di congiunzione tra Est e Ovest, furono ultimate in studio, dove il monumento fu ricostruito.
4) Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg. Thriller di spionaggio dall'impianto classico ambientato durante la Guerra Fredda, plumbeo e solido, Il ponte delle spie va alla riscoperta di un meraviglioso eroe normale, James Donovan, interpretato da Tom Hanks. Avvocato idealista, nel 1962 Donovan negoziò per la Cia il primo scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke in Germania, fra Usa e Urss. Nella Berlino fredda e austera, in cui si erge il Muro e un clima di sgomento, Donovan, chiuso nel suo cappotto e nella sua solidità morale, cercherà di ottenere il massimo. Non per la Cia, ma per il suo senso di giustizia, contro i forcaioli e in nome dei diritti civili.
5) Il giardino di limoni - Lemon Tree (2008) di Eran Riklis. Non solo Muro di Berlino. Film israeliano vincitore del premio del pubblico al Festival di Berlino, tra dramma e ironia Il giardino di limoni ci porta nel conflitto irrisolto in Medio Oriente tra palestinesi e israeliani, tra barriere fisiche e pregiudizi. Occhi neri e tenaci, Hiam Abbass è una vedova palestinese che vive in un villaggio della Cisgiordania. Il suo nuovo vicino di casa è il ministro della Difesa israeliano. Quando, per ragioni di sicurezza, le viene intimato di abbattere quel giardino di limoni che rappresenta il suo unico sostentamento e le sue radici, lei non si dà per vinta e porta la causa in tribunale. Troverà la solidarietà di un'altra donna, la moglie del ministro.
6) Torna a casa, Jimi! (2019) di Marios Piperides. Nicosia è l'unica capitale al mondo ancor oggi divisa. Da una parte, a sud, l'area greca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro, parte dell'Unione europea; dall'altra, a nord, l'area turca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro del Nord, non riconosciuta a livello internazionale. A separarle una recinzione militare. Torna a casa, Jimi!, opera prima del regista cipriota, ruota attorno a questa linea di divisione, mettendo a fuoco l'assurdità di certe disposizioni, preconcetti e "muri". Secondo la legge, nessun animale, pianta o prodotto può essere trasferito dal settore turco a quello greco. Così, quando il cane Jimi attraversa la zona cuscinetto dell'Onu, il padrone, il cantante fallito Yiannis (Adam Bousdoukos), deve inventarsi di tutto per riuscire a riportarlo indietro. Ma è più facile per un cane che per un uomo varcare il confine.
7) Il figlio dell'altra (2012) di Lorraine Lévy. A volte tutto dipende soltanto da quale parte del muro si nasce. Joseph vive a Tel Aviv, ma il suo sangue è palestinese: c'è stato uno scambio di culle alla nascita. Altrimenti sarebbe cresciuto in Palestina, nei territori occupati della Cisgiordania, dove si trova Yacine. Quando si scopre l'errore, con i due ormai ragazzi, le due famiglie (tra cui Emmanuelle Devos come mamma israeliana) provano ad avvicinarsi, ma le divergenze politiche sono troppo forti. Riusciranno invece a superare differenze e diffidenze i due giovani, entrando gradualmente nelle reciproche famiglie.
8) Tutti pazzi a Tel Aviv (2018) di Sameh Zoabi. La divisione è letta sotto forma di commedia dal regista palestinese Sameh Zoabi, che affronta il conflitto, l'occupazione e l'abuso di potere con leggerezza e soffiando sulla possibilità di dialogo. Kais Nashif, premiato a Venezia 2018 come migliore ottore della sezione Orizzonti, interpreta un giovane sceneggiatore palestinese che vive a Gerusalemme e scrive per la popolare soap-opera Tel Aviv brucia, prodotta a Ramallah. Ogni giorno, per raggiugere gli studi televisivi, deve passare attraverso un posto di blocco israeliano, dove è notato da un comandante la cui moglie è accanita fan della serie...
9) La gabbia dorata (2013) di Diego Quemada-Diez. Film spagnolo d'esordio, racconta la storia di tre adolescenti dei quartieri poveri del Guatemala che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d’America, alla ricerca di una vita migliore. Il viaggio è lungo, a bordo di treni merci o seguendo a piedi i binari delle ferrovie. Intanto, con loro, riflettiamo sui confini che dividono le nazioni e su ciò che ci divide come esseri umani. A ispirare il regista, anche le parole di un messicano di nome Juan Menéndez López, pronunciate pochi istanti prima di salire a bordo di un treno merci in corsa: "Si imparano molte cose lungo il cammino. Qui siamo tutti fratelli, abbiamo tutti le stesse esigenze. L'importante è che impariamo a condividere. Solo così potremo andare avanti, solo così potremo raggiungere la nostra destinazione, solo un popolo unito può sopravvivere. In quanto esseri umani, non siamo clandestini in nessun luogo del mondo".
10) La zona (2007) di Rodrigo Plà. Opera prima del regista uruguaiano-messicano recentemente autore del film Un mostro dalle mille teste, La zona nel 2007 vinse il Leone del futuro come miglior esordio alla Mostra del cinema di Venezia, presentato alle Giornate degli autori. All'interno di Città del Messico "la zona" è un'area privilegiata di ricchi, che si tiene separata dalla miseria del resto del mondo tramite muraglie, reticolati, videosorveglianza. Quando per un guasto tre del mondo di là, di poveri e reietti, riescono ad entrare laddove la vita scorre serena e ovattata, si scatena una terribile caccia all'uomo.
La Guerra Fredda e i segreti della Stasi: reportage di Purgatori. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto». Il 13 agosto 1961, per tamponare l’esodo di massa verso Berlino Ovest, le unità armate della Germania dell’Est costruirono quello che a Est chiamavano «barriera di protezione antifascista» e a Ovest il «muro della vergogna», un sistema di fortificazioni che simboleggerà per ben 28 anni la Guerra Fredda, fino a diventare un rudere metaforico prima ancora che di cemento armato. Sono passati 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, l’evento che nel 1989 ha segnato la fine dei regimi comunisti in Europa e della divisione del mondo tra Est e Ovest. Andrea Purgatori è andato a Berlino per riproporci non solo le scene di grande e inaspettata festa di quel 9 novembre, giorno in cui la notizia invase festosamente tutti i tg del mondo e le immagini dei picconatori del muro si ersero a simbolo, ma soprattutto per ricostruire le tappe che portarono alla costruzione di quella tetra muraglia, lunga 46 chilometri (più un centinaio di filo spinato lungo i confini occidentali della Ddr) e alta dai tre ai quattro metri, e per ricordarci che nuovi muri continuano a dividere i popoli: Berlino 1989, Mexico 2019 - Breaking The Walls (Atlantide, La7, mercoledì, ore 21,15). Purgatori ha anche intervistato Lilli Gruber, allora inviata del Tg2 nei giorni della caduta del muro, lo scrittore Peter Schneider, leader del ‘68 berlinese, il dissidente Harmunt Richter, che ha vissuto una rocambolesca fuga dalla Germania Est. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto», come ha affermato Gianluca Falanga, autore del libro Il ministero della Paranoia. La Stasi diventa così una macchina perfetta e spietata, un grande occhio per vedere tutto, un affinato orecchio per sentire anche i sospiri (ricorderete di certo il film Le vite degli altri). L’idealismo diventa terrore, non è la prima volta.
Il crollo del muro, quel giorno in cui la Guerra fredda fu archiviata a colpi di piccone. Alessandro De lellis l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. 9 novembre 1989. Bisogna rendere merito anche alle classi dirigenti della Ddr e all’Urss di Gorbaciov di aver capito che il mondo era cambiato rinunciando a intervenire militarmente. Nulla era scontato, nei giorni dell’autunno 1989. La molla che muove il meccanismo del mondo spinse gli eventi a una velocità che nessuno, popoli cancellerie servizi segreti studiosi giornalisti si era mai azzardato a ipotizzare. Il regime comunista della Germania Est, guidato dalla SED, il partito- Stato, aprì i varchi del Muro di Berlino, o meglio subì la loro apertura senza intervenire, al culmine di mesi convulsi, durante i quali aveva tentato senza successo di impedire la partenza di centinaia di migliaia di tedeschi orientali verso l’Ovest. La dirigenza della Deutsche Demokratische Republik, per quattro decenni il gendarme dei sovietici in terra tedesca, era stata spiazzata dall’avvento di Gorbaciov e della sua perestrojka. Gli ultraortodossi, con in testa il vecchio leader Erich Honecker, avevano isolato il loro Paese, 17 milioni di abitanti, chiudendo uno dopo l’altro i confini con il resto del mondo socialista. Avevano represso i manifestanti a Dresda. Quando Gorbaciov dette il benservito a Honecker, dopo una visita a Berlino in occasione dell’anniversario della DDR, il 7 ottobre, si fece avanti un nuovo leader, Egon Krenz, ex capo della gioventù comunista, che tentò di salvare un regime senza più ossigeno. Una "legge sui viaggi" avrebbe dovuto placare i tedeschi orientali, concedendo loro quella libertà di muoversi che non avevano avuto per quarant’anni. Fu un provvedimento preso in fretta e furia. Il funzionario che lo annunciò in pubblico, il portavoce Guenther Schabowski, non era ben informato di quello che stava leggendo e disse che la norma entrava in vigore da subito. I comandanti dei posti di confine non erano stati avvertiti. Alla fine vinsero le masse, la gente di Berlino Est che cominciò a premere sui varchi. Il meccanismo militare, pronto all’intervento, non scattò. Il merito va alla dirigenza della DDR e a quella di Mosca. E fu un miracolo laico, pacifista e democratico nel senso più profondo, perché a decidere fu il demos, il popolo. Il 9 novembre 1989 segna l’inizio della fine del dopoguerra e riporta al centro della scena internazionale la questione tedesca, della quale Berlino è l’emblema. Una città divisa in quattro settori, nella quale la massima autorità era rappresentata dai comandanti militari delle potenze vincitrici contro il nazismo. Dove le compagnie aeree della Repubblica Federale non potevano atterrare. Dove si continuava a morire, nel tentativo di superare i circa 160 chilometri di muraglie di cemento e fili spinati che circondavano i tre settori Ovest, una barriera fatta costruire nel 1961 dai dirigenti della DDR per impedire l’emorragia di tecnici, operai specializzati, giovani, che dal settore orientale raggiungevano i quartieri occidentali per fuggire dal regime della Stasi. Qui il mondo aveva sfiorato due guerre mondiali, nel ‘ 48, all’epoca del blocco sovietico e del ponte aereo americano, e nel ‘ 61. ‘ Die Insel’, l’isola, così nella Bundesrepublik era chiamata Berlino Ovest, una bolla di libertà, consumi, capitalismo, circondata interamente dal territorio della DDR comunista. Col passare dei decenni, l’ex capitale ( o meglio la sua parte occidentale), era diventata un avamposto davanti alla Cortina di Ferro, popolato da anziani, da giovani alternativi che occupavano palazzi fatiscenti e da immigrati turchi. Un luogo per artisti ed eccentrici, alla periferia d’Europa. Oggi si fa fatica a spiegare come si viveva nella Germania divisa in due. Ma nell’ 89, in terra tedesca, sotto la sorveglianza armata dei due blocchi Usa e Urss, convivevano le eredità delle due tragedie del Novecento, le ferite lasciate dal nazionalsocialismo e la realtà del comunismo vincitore ma ormai estenuato. Una convivenza ad alto rischio, che era diventata normalità. A Ovest, nella Bundesrepublik, era cresciuta una generazione abituata al benessere e alla protesta liberamente espressa, soprattutto contro gli Stati Uniti. La riunificazione? Era roba da conservatori, da cripto- fascisti. A sinistra, soltanto il vecchio Willy Brandt afferrò subito quanto stava accadendo e lo sintetizzò con la frase “Adesso cresca insieme ciò che reciprocamente si appartiene”. Brandt, borgomastro di Berlino all’epoca della costruzione del Muro, l’uomo del paziente riavvicinamento a Est, della Ostpolitik. La socialdemocrazia fu colta di sorpresa dall’ 89, il leader Oskar Lafontaine era apertamente contro la riunificazione, vista come atto di espansione imperialista da parte di Bonn. Il miracolo del 9 novembre, un irripetibile equilibrio tra volontà di popolo e saggezza tardiva ma provvidenziale dei responsabili che si astennero dalla violenza, fece fiorire per qualche tempo l’illusione di una DDR realmente democratica. Senza repressione del dissenso, senza Stasi, la feroce polizia politica, con la libertà di viaggiare. Sozialismus UND Freiheit, socialismo e libertà. Ma l’equivoco era tutto in quell’ “Und”. Perché la DDR, creazione della Guerra Fredda, non aveva una ragione di esistere come Stato, se la logica dei blocchi cominciava a squagliarsi. I dissidenti, i difensori dei diritti civili, intellettuali e artisti, con il coraggio dei martiri avevano sfidato il regime e messo in moto la protesta, incoraggiati e protetti da una parte della Chiesa protestante. Avevano mostrato che si poteva vincere la paura. Ma quando le masse lo capirono, agirono a modo loro: con i piedi, con il corpo. Come del resto avevano cominciato a fare dall’apertura della Cortina di ferro, in estate, quando a centinaia di migliaia erano sciamati attraverso l’Ungheria, ufficialmente Paese “fratello” e dunque visitabile per i tedeschi orientali, per fuggire in Occidente. A capire quel “votare con i piedi”, l’essere pronti ad andarsene in cerca del sogno, fu Helmut Kohl. Fischiato la sera del 10 novembre a Berlino, dove era arrivato in tutta fretta interrompendo una visita in Polonia, il cancelliere inizialmente aveva tutti contro, tranne gli Usa di George Bush senior. Il suo piano in dieci punti per la riunificazione suscitò le ire della Thatcher, i sospetti di Mitterrand, le paure dei polacchi e il rifiuto di Gorbaciov. Uno a uno, Kohl e il suo ministro degli Esteri Hans- Dietrich Genscher seppero convincere o rendere neutrali tutti. Il governo cristiano- democratico e liberale agì come una classe dirigente di rango mondiale e riuscì in un altro miracolo: una Germania unita, democratica e pacifica, nel consenso delle due grandi potenze e dei vicini. Né la sinistra occidentale, né i coraggiosi movimenti per i diritti civili dell’Est capirono questo passaggio. I tedesco- orientali a maggioranza seguirono entusiasti Kohl, decidendo di credere anche alle sue bugie, come la promessa di “paesaggi industriali fiorenti” in breve tempo. L’unione monetaria precedette l’unione politica: il I luglio ’ 90 la DDR ( che formalmente cessò di esistere tre mesi dopo, il 3 ottobre) rinunciò alla sua moneta in favore del marco della Bundesrepublik. L’enorme sforzo finanziario che la Germania unita sta tuttora affrontando per le sue regioni dell’Est non ha ancora compensato del tutto la desertificazione industriale, lo spopolamento e lo sradicamento esistenziale seguiti alla riunificazione. Ma chi criticò i tedeschi orientali per aver scelto “le banane”, cioè le sirene del benessere, non capì che il popolo voleva uscire da un Eden carcerario e retrogrado, nel quale avere un telefono era un privilegio da nomenklatura e per comprare un’auto occorrevano 17 anni. Sì, viaggiare e consumare, come gli altri tedeschi, come cittadini del mondo. Anche questa è libertà. Proprio nell’ 89-‘ 90, il biennio dei portenti, mentre il Muro si sbriciolava, cominciarono a diffondersi i primi telefoni cellulari e Internet iniziò a connettere il mondo. Forse è un caso. Forse no.
«Una mamma mi disse: solo ora rivedo mio figlio». 30 anni dopo, Barenboim ricorda la caduta del Muro di Berlino. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino, corrispondente da Berlino. Il direttore e il concerto storico per i ragazzi della La sera del 9 novembre 1989 Daniel Barenboim andò a letto presto. «Ero a Berlino in quei giorni, per registrare con i Berliner Philarmoniker. Avevamo provato tutto il giorno ed ero molto stanco. Sono andato a cena con Patrice Chéreau nel mio albergo, il Kempinski a Charlottenburg. Fu lui a dirmi che stava succedendo qualcosa ai varchi del Muro, ma non ci feci molta attenzione. Così andai a dormire». Il resto è già storia. Al mattino, quando la moglie lo svegliò presto dicendogli che era caduto il Muro, la sua prima reazione fu di pensare a un scherzo. Poi gli tornò in mente Chereau, si alzò di corsa, accese il televisore e si rese conto di aver mancato l’appuntamento del secolo. «Mi precipitai alla Philharmonie e l’orchestra mi fece una proposta: “Maestro, facciamo un concerto gratuito per la popolazione di Berlino”». Barenboim accettò, ma pose la condizione che fosse riservato solo a quelli di Berlino Est. Accadde una domenica mattina, il 12 novembre: «Fu una cosa incredibile — ricorda l’artista argentino — la gente si mise in fila di notte, dovevano presentare la carta d’identità della Ddr per poter entrare. Suonammo Beethoven, il Primo concerto e la Settima Sinfonia. Alla fine feci un piccolo discorso. Quando tornai in camerino, c’era una lunga fila di persone che volevano stringermi la mano. Si era fatto tardi, alle 4 dovevamo riprendere a registrare. Avevo giusto il tempo di mangiare qualcosa. Esco e sulla porta vedo una signora, avrà avuto 60 anni. Aveva un mazzo di fiori ed era insieme a un uomo giovane. Mi ferma. Mi dà i fiori e mi dice: “Mi sono sposata a Berlino Est 30 anni fa e ho avuto un figlio. Ma quando il bambino aveva 6 anni mio marito decise di fuggire all’Ovest, portandolo con sé. Non ho mai più avuto notizie e contatti con loro. Poi ieri sera alle 9 questo giovane ha bussato a casa mia. Sono tuo figlio, mi ha detto. Non ci credevo, sono stata travolta dalla felicità e dalla commozione. Così abbiamo deciso di festeggiare venendo al suo concerto. Siamo stati in fila insieme a parlare per tutta la notte. Grazie”. Non dimenticherò mai quella donna». Stasera, alla Porta di Brandeburgo, Daniel Barenboim chiude il cerchio, dirigendo la Staatskapelle, nel frattempo diventata la sua orchestra, nella cerimonia dedicata alla notte in cui i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». «Faremo ancora Beethoven, la Quinta, la sinfonia del destino. Ed è un rovesciamento interessante: allora ho diretto un’orchestra dell’Ovest per un pubblico dell’Est, questa volta dirigerò un’orchestra dell’Est per un pubblico in maggioranza dell’Ovest».
Lei dopo la caduta del Muro ha scelto di vivere e lavorare a Berlino. Come successe?
«La prima volta che ho diretto la Staatskapelle è stato nel 1991. Era il mio primo contatto musicale con l’orchestra. Avevano fretta dopo il crollo del Muro. Cercavano un nuovo direttore. Abbiamo tentato di organizzare un concerto, ma i due calendari non coincidevano. Così abbiamo deciso di fare solo una prova lunga con il Preludio di Parsifal. Quando sentii le prime note ebbi uno choc. Era il suono col quale ero cresciuto a Tel Aviv con l’Orchestra Filarmonica di Israele negli Anni Cinquanta. Era stata creata nel 1936 da immigrati ebrei del centro Europa: Germania, Polonia, Ungheria e Austria. Nella Ddr, a causa della chiusura dei confini e dell’assenza dei nuovi strumenti giapponesi, quel suono si era conservato nel tempo. Fu la motivazione principale che mi spinse ad accettare l’incarico».
Come ha vissuto nella città senza Muro?
«I primi dieci anni erano interessantissimi. Passeggiavi sull’Unter den Linden e pensavi di essere a Mosca. Andavi sul Kurfürstendamm e ti credevi a Parigi. Diventai molto amico con Heiner Müller, il grande regista. Insieme a lui ho fatto il Tristano al Festival di Bayreuth. Aveva una tesi interessante, che forse oggi rivaluto: la riunificazione della Germania, diceva, è stata un grande peccato. Ci sarebbe stata la possibilità di creare qualcosa di nuovo, tra socialismo e capitalismo, un sistema sperimentale».
Perché rivaluta questa tesi?
«Guardiamo ai Länder dell’Est. Lì un tedesco su 4 vota per l’AfD, un partito non solo di estrema destra ma anche con frange neonaziste. Sono stati sotto due dittature, nessuno ha spiegato loro cos’è la democrazia, non l’hanno vissuta. E poi c’è stato un trionfalismo occidentale non giustificato, molti tedeschi dell’Est hanno percepito l’unificazione come annessione. Ma nella Ddr non era tutto da buttare: l’istruzione, la sanità, le scuole di musica, la parità tra uomo e donna erano più avanzati che nell’Ovest».
Lei è amico di Angela Merkel. Cosa apprezza di più in lei?
«La cancelliera ama e conosce la musica e il suo aspetto culturale, ma il vero esperto in famiglia è il marito, il professor Sauer. Merkel è l’unica personalità politica che conosco che non si lascia mai invitare, insiste sempre per pagare i suoi biglietti. Nel 2007, quando venne alla Scala per il Tristano, nel ricevimento durante l’intervallo disse al sovrintendente Lissner che voleva pagare. Ma lui rispose che il palco reale, dove lei sedeva, non si poteva vendere. Lei volle ugualmente pagare il prezzo di due buoni posti in platea».
Trent’anni dopo questo Paese non è riconciliato sostiene Angela Merkel. È d’accordo?
«La cancelliera ha ragione. Restano molte distanze, a Est due cittadini su tre dicono di sentirsi tedeschi di seconda classe. Quando chiede a un berlinese cos’è tipico della città, vi risponde ancora nell’Est questo, nell’Ovest quest’altro. Il lavoro è ancora lungo».
È preoccupato dall’aumento degli episodi di antisemitismo in Germania?
«Certo che lo sono. Ad Halle, dove solo per caso non c’è stato un massacro. Anch’io ricevo messaggi e lettere spaventose. Qualche giorno fa, in una mail uno mi ha definito porco ebreo, dicendo che a causa mia non viene più alla Staatsoper. Le cause sono complesse. L’Olocausto stinge nella memoria, le autorità tedesche non tengono sempre la guardia alta. Ho deciso di vivere a Berlino quasi 30 anni fa perché sentivo che i tedeschi avevano fatto i loro conti con il passato. Oggi mi accorgo che qualcosa torna. Alcuni, non solo gli estremisti dell’Afd, dicono che 75 anni di colpa collettiva sono sufficienti. Sono segnali sbagliati. L’antisemitismo è una malattia».
Berlino celebra i 30 anni della rivoluzione pacifica che fece cadere il Muro. Presenti i leader di Visegrád. Partecipano anche i Paesi protagonisti della rivolta che mise fine al "Secolo breve": il 9 novembre del 1989 l'ultimo autunno della Ddr. Su La Repubblica dalla nostra corrispondente Tonia Mastrobuoni il 9 novembre 2019. Bernauer Strasse è ancora oggi un luogo pieno di memorie del Muro. Non è un caso che sia stato scelto come teatro principale per le celebrazioni del trentennale della rivoluzione pacifica che mise fine alla Ddr, il 9 novembre del 1989. Nel 1961, quando fu costruito, la Germania Est inglobò un tratto di quella strada nella striscia della morte. Gli abitanti delle case che affacciavano sulla frontiera cominciarono a buttarsi dalle finestre per non rimanere dalla parte sbagliata del Muro. Fuga dalla DDR, chi ce l'ha fatta e chi no: ''Ma in ogni caso è valsa la pena rischiare la vita''. Già nell'anno successivo, sotto la Bernauer Strasse alcuni irriducibili eroi della libertà costruirono i primi tunnel per salvare i tedeschi dell'Est dalla prigionia cui Walter Ulbricht li aveva condannati. E fino al 1985 la Chiesa della Riconciliazione che affacciava su quella strada rimase incastrata nella striscia della morte, prima che il regime la radesse al suolo. È stata ricostruita e restituita alle funzioni religiose, anche il campanile è stato ricostruito e inaugurato di recente: una parte della cerimonia si svolgerà anche qui. Ad oggi, Bernauer Strasse è uno dei rari punti della città dove sopravvivono resti della più orribile ferita che divise la Germania. Le celebrazioni ufficiali per il trentennale della caduta del Muro cominceranno in mattinata alle 9,30 alla sede della presidenza della Repubblica, al castello di Bellevue, con un saluto del capo dello Stato, Frank-Walter Steinmeier e i quattro leader di Visegrád. Presenzieranno il presidente della Polonia, Andrzej Duda, quello della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, l'omologa della Repubblica slovacca, Zuzana Caputová e János Áder, capo dello Stato ungherese. I quattro accompagneranno Steinmeier e la cancelliera Angela Merkel anche nelle cerimonie successive. Alle 10,30 Merkel, Steinmeier e i quattro leader di Visegrad si sposteranno nella Bernauer Strasse, per ricordare la rivoluzione pacifica tedesca, successivamente visiteranno il monumento dedicato alle rivolte che aprirono una breccia nella Cortina di ferro anche nei Paesi dell'Est, dov'è previsto un discorso di Steinmeier. La cerimonia ufficiale si concluderà alle 11,15 con una dichiarazione di Merkel alla Chiesa della Riconciliazione. Nel pomeriggio il testimone dell'anniversario passerà alla città di Berlino, che ha organizzato dalle 17,30 un concerto in un altro luogo simbolico della città divisa, alla Porta di Brandeburgo che per tre decenni rimase inaccessibile, attraversata dalla striscia della morte. Tra gli ospiti, Daniel Barenboim, direttore della Staatsoper, la leggenda techno DJ WestBam, Anna Loos, Banda Internationale, Zugezogen Maskulin, Die Zöllner, Dirk Michaelis e Trettmann. Cinque anni fa, per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro, l'evento principale dei festeggiamenti era stata una passeggiata di Angela Merkel, Lech Walesa e Mikhail Gorbaciov sul ponte di Bornholmer Strasse, il primo varco che si aprì poco prima di mezzanotte del 9 novembre 1989.
L’anno più lungo dell’Europa. Andrea Muratore su it.insideover.com il 7 novembre 2019. La giornata del 9 novembre segna l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989, di cui ricorre quest’anno il trentennale. La caduta del Muro fu uno degli eventi cruciali del decisivo 1989 che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda, di cui la barriera eretta dalle autorità socialiste della Germania Est era divenuta il massimo simbolo. La caduta del Muro aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica di Stalin nell’Est Europa nel secondo dopoguerra. Accelerò, senza esserne né il punto di inizio né quello conclusivo, un processo già in atto, che culminò tra il 1990 e il 1991 con la riunificazione tedesca, la transizione dell’Est Europa a un sistema di democrazia pluralista e economia di mercato (accompagnato molto spesso da gravi squilibri) e, infine, con il collasso della stessa Unione sovietica. La fine di un sistema senescente come quello del comunismo a guida sovietica riguardò tutta l’Europa orientale, secondo un effetto domino che travolse regimi politici caratterizzati da alterne fortune nel secondo dopoguerra, evaporati come neve al sole mentre esplodevano le contraddizioni che ne avevano causato la sclerosi. La stagnazione economica, la persistente influenza dei debiti contratti con le istituzioni finanziarie occidentali, la ripresa di movimenti a lungo repressi e facenti riferimento a orizzonti ideali diversi da quello comunista (Solidarnosc in Polonia), il collasso degli apparati securitari su cui si reggevano le burocrazie comuniste (come in Romania) o una convergenza di questi fattori travolsero, nel decisivo 1989, l’Europa sovietica. Tramontata formalmente due anni dopo, quando l’alleanza militare e strategica del Patto di Varsavia si sciolse ufficialmente. Ma scossa alle fondamenta nell’anno della caduta del Muro, in cui l’Europa vide la rimozione della sua faglia geopolitica e materiale più vistosa. E in cui, per un contrappasso storico, iniziò il processo di marginalizzazione del Vecchio Continente, che dal bipolarismo aveva tratto un’appendice di rilevanza strategica dopo il suicidio delle guerre mondiali, negli ordini mondiali dei decenni a venire.
Tutto parte dalla Polonia. La frammentazione dell’Europa sovietica iniziò dalla Polonia. Paese più importante, assieme alla Germania Est, dell’architettura di Mosca nell’Europa orientale. Interessata, a cavallo tra il 1988 e il 1989, da un’ondata di scioperi operai contro il regime guidato dal generale Wojciech Jaruzelski, salito al potere a inizio decennio per prevenire un’invasione sovietica dopo lo scoppio della protesta del sindacato cattolico Solidarnosc. Lech Walesa, leader di Solidarnosc, forte dell’appoggio del primo pontefice polacco della storia, Giovanni Paolo II, del rafforzamento della Chiesa cattolica polacca come elemento d’influenza nella società, di finanziamenti internazionali consistenti (tra cui quelli del Psi di Bettino Craxi) e della base operaia esaltata dalla propaganda comunista riuscì gradualmente a togliere il terreno dai piedi del regime. L’ondata di scioperi condusse alla convocazione delle prime vere elezioni della Polonia post-bellica nel giugno del 1989. La strategia di Walesa arrivò a compimento mesi prima che la caduta del Muro fosse anche solo lontanamente ipotizzabile: in un sistema ancora particolarmente ingessato, con un gran numero di seggi bloccati per il partito comunista egemone, Solidarnosc ottenne il 35%, segnando che il mutato vento della storia stava soffiando in direzione opposta al governo nazionale. Con realismo, Jaruzelski accettò il risultato, assegnando a Solidarnosc la guida di una coalizione di governo non comunista guidato dall’attivista del sindacato Tadeusz Mazowiecki. L’elezione di Walesa alla presidenza, l’anno dopo, avrebbe completato la transizione.
L’Ungheria abbatte il suo muro. I movimenti che animavano la Polonia si riverberarono ben presto sulla vicina Ungheria, in cui si erano già manifestate spinte autonome. Il futuro dell’Ungheria si aprì con la valorizzazione di un passato ben impresso nella memoria dei magiari: il perdono postumo comminato dalle autorità a Imre Nagy e agli altri eroi della rivolta antisovietica del 1956. Nel mese di giugno 1989 a Budapest, nella centralissima Piazza degli Eroi, Nagy fu solennemente commemorato in un evento che portò, tra le altre cose, alla notorietà un giovane politico liberale da poco rientrato nel Paese dopo la fine di una borsa di studio finanziata da George Soros: Viktor Orban. Poco prima l’esecutivo guidato da Miklos Nemeth aveva aperto a una serie di importanti concessioni: stop al monopartitismo, libere elezioni coi partiti democratici coinvolti e, nel mese di maggio, via libera alla rimozione della barriera elettrificata da quasi 250 chilometri che demarcava il confine con l’Austria. Dopo il primo, intenso semestre la transizione che portò alla trasformazione dell’Ungheria in una repubblica democratica tra il 1990 e il 1991 fu graduale e senza particolari scossoni.
Salta il tappo della Ddr. La mossa del governo ungherese aveva coinvolto direttamente la Germania Est, guidata dall’ultimo segretario-padrone della Sed il partito socialista unificato, Erich Honeker. Nell’estate 1989 decine di migliaia di tedeschi dell’Est iniziarono a viaggiare verso l’Ungheria per approfittare dei varchi aperti all’emigrazione. La marea montante delle manifestazioni portarono il regime a considerare più che plausibile l’ipotesi di schierare l’esercito per reprimere le proteste e le richieste di maggiore apertura e trasparenza nel Paese. La crescita delle tensioni interne al Paese portò il governo della Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) a sperare nel sostegno dell’esercito sovietico stazionante nel Paese in risposta alla sempre più dura e forte contestazione. A nulla valsero i decreti di chiusura dei confini, l’irrigidimento del Politburo della Sed, le minacce di una repressione simile a quella cinese di Piazza Tienanmen: quando nell’ottobre 1989 Mikhail Gorbacev venne in visita per celebrare il quarantesimo anniversario della Ddr, comunicò a Berlino Est che Mosca non aveva la forza politica di supportare il mantenimento dello status quo nel suo “impero” e spronò apertamente una politica di riforme. Le parole di Gorbacev furono forse l’evento più significativo del 1989. Il Segretario del Pcus demoliva così in pochi giorni l’architettura politico-militare che aveva trattenuto nell’orbita sovietica i Paesi del Patto di Varsavia. Il destino politico di Honeker era segnato: il 18 ottobre 1989 fu destituito dal Politburo e sostituito dal suo vice Egon Krenz, che guidò la politica di riforme atta a conseguire l’emigrazione a Ovest dei suoi concittadini. La Ddr riaprì i confini e quando il 9 novembre i portavoce del governo socialista annunciarono il via libera all’emigrazione diretta tra Berlino Est e Berlino Ovest, migliaia di cittadini della capitale divisa si assieparono sul Muro eretto nel 1961, iniziando a demolirlo fisicamente per raggiungere l’Occidente. Il resto è storia. Una storia che parla della riunificazione più simbolica che reale della Germania, in cui tra Est e Ovest continua a persistere un divario economico e sociale non indifferente. Caduto il Muro fisico, trent’anni dopo, la sfida dell’integrazione tra le due Germanie deve ancora essere vinta.
Cecoslovacchia e Bulgaria, transizioni rapide e morbide. Praga e Sofia furono fortemente condizionate da quanto avvenuto in Germania Est. L’effetto domino travolgente della dissoluzione dei regimi comunisti esteuropei coinvolse la Cecoslovacchia nella seconda metà del 1989. Il Forum Civico dello scrittore e dissidente Vaclav Havel intensificò la pressione per la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione e della censura, e il 17 novembre 1989 una manifestazione nella capitale per la Giornata internazionale degli studenti si espanse a macchia d’olio in un vero e proprio moto di rivolta contro il regime. Rivolta oceanica, permanente e incredibilmente disciplinata: le manifestazioni di massa che coinvolsero 800.000 persone e delegittimarono il regime comunista furono definite “rivoluzione di velluto”. In meno di un mese, il comunismo cecoslovacco evaporò, in parallelo a quanto fatto dalla Sed negli stessi giorni tra fine novembre e inizio dicembre il regime rinunciò al ruolo-guida del Partito sancito dalla Costituzione e fu avviata in maniera istantanea la transizione. Havel divenne Presidente, il Forum Civico vinse il voto popolare del 1990 e, nel 1993, la repubblica si scisse, dando origine alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia. La Cecoslovacchia era centro industriale e produttivo di grande importanza. La Bulgaria il piantone del Patto di Varsavia, forse l’unico vero Stato fantoccio privo di reale sovranità nel blocco sovietico. La tenuta del suo regime era vincolata all’esistenza del bipolarismo e della Guerra Fredda, e quando l’evento simbolicamente più significativo, la caduta del Muro, ebbe luogo, facendo capire a Sofia l’importanza del proclama neutralista dei sovietici, il vassallo veterostalinista Todor Zhivkov fu destituito in meno di 24 ore. La rapidità d’azione del Partito Comunista Bulgaro gli consentirono di sopravvivere alla fine della Guerra Fredda. Cambiata la pelle e rinnegato il marxismo-leninismo, la formazione assunse il nome di Partito Socialista Bulgaro e convocò, vincendole, le elezioni del 1990.
Il Natale di sangue rumeno. Anomalo nel contesto del 1989 fu il caso della transizione rumena. Il Paese più autonomo da Mosca, governato da Nicolae Ceaucescu, aveva pagato il suo avventurismo diplomatico e geopolitico e il suo avvicinamento eccessivamente incauto al blocco occidentale con la trappola del debito. La Romania di Ceaucescu aveva dovuto ricorrere a misure di austerità durissimeper ripagare i debiti contratti con le istituzioni internazionali. L’austerità e il razionamento di cibo, gas e altri beni di prima necessità furono, secondo molti analisti, funzionali a contenere dal 1981 in avanti la proliferazione del dissenso al di fuori di alcuni scioperi industriali e minerari. La Romania di Ceaucescu era uno Stato di polizia vigilato strettamente dalla famigerata Securitate, talmente solerte nel compiere il suo lavoro di repressione da prevenire la nascita di ogni possibile forma di dissenso. Mentre la Romania di Ceaucescu diventava il Paese più povero del blocco sovietico e i suoi tassi di mortalità infantile toccavano livelli da Terzo Mondo, il dittatore e la moglie Elena destarono scalpore per lo stile di vita lussuoso e la progressiva estraniazione dal resto del Paese. Il più emblematico esempio della paranoica volontà di autocelebrazione di Ceaucescu è il gigantesco, grigio e freddo Palazzo del Parlamento di Bucarest, cattedrale costruita nel deserto della Romania devastata dalla povertà. Ceaucescu non capì la necessità di compromessi o cambi di direzione. Quando le proteste di piazza iniziarono a moltiplicarsi anche in Romania, la dittatura reagì con brutalità. Centinaia di morti soffocarono le proteste che si estesero dalla Transilvania alla capitale Bucarest a partire dal 17 dicembre. Troppo per molti dei soldati e degli ufficiali delle forze armate, che iniziarono ben presto a ammutinarsi e a rivolgersi ai ranghi del regime desiderosi di svicolare da un confronto che rischiava di causare una devastante guerra civile. Data la struttura del potere rumeno, l’unica alternativa realisticamente possibile a Ceaucescu era una congiura interna al regime. Una resa dei conti interna. Così fu. Il 21 dicembre Ceaucescu infiammò a Bucarest una folla di 100mila persone; poche ore dopo, il ministro della Difesa Vasile Minea fu trovato morto in circostanze sospette. Suicida dopo esser stato destituito per ammutinamento, sostenne il regime. Ucciso per aver disobbedito, sostenne il neocostituito Fronte di Salvezza Nazionale (Fsn), formato da diversi membri di secondo piano dell’apparato e guidato da Ion Iliescu. A decidere l’esito della rivolta fu il sostituto Victor Stanculescu. Terrorizzato dall’idea di dover scegliere tra due plotoni di esecuzione (quello dei rivoltosi o quello del regime), Stanculescu guidò palesemente la rivolta delle forze armate. Sfruttando la situazione di caos per usarle contro il dittatore, assediato tra il 22 e il 23 dicembre dai manifestanti assiepati attorno ai palazzi di potere di Bucarest. Il tentativo di fuga in elicottero di Nicolae e Elena Ceaucescu fallì: tra il 24 e il 25 dicembre 1989 il Fsn guidò un processo-lampo contro il dittatore e la moglie che si concluse con la loro fucilazione. Il Natale di sangue rumeno concluse una decade durissima per il Paese, nella quale tra le 600 e le 1.000 persone persero la loro vita. Il golpe interno all’apparato di potere rumeno chiuse nella maniera più atipica l’anno della caduta del Muro. Il decisivo 1989: un anno al cui termine l’Europa si scoprì meno divisa ma, al tempo stesso, meno centrale nel mondo. Finito il bipolarismo, le vecchie faglie interne al continente avrebbero continuato a palesarsi. Lungi dal far finire la storia europea, la caduta del Muro l’ha rimessa in cammino.
Gloria Remenyi per ilsole24ore.com il 6 novembre 2019. Consultando i record sportivi della ex Germania Est, il nome di Ines Geipel (allora Ines Schmidt) non compare da nessuna parte. Eppure nel 1984 fu lei, insieme alle altre staffettiste della SC Motor Jena, a fermare il cronometro a 42,20 secondi sulla 4×100, stabilendo un incredibile record del mondo di società. Oggi accanto a quel risultato si leggono soltanto tre nomi (Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald e Marlies Göhr) e un asterisco. Quell’asterisco è Ines Geipel. Oggi affermata scrittrice, nonché docente presso la Scuola di Arte Drammatica Ernst Busch di Berlino, Geipel è stata un’atleta di punta della DDR: «Ho iniziato a correre per sopravvivere, per dimenticare e per scappare dal dolore» racconta. Nel 1977 la giovane Ines trovò nello sport una via d’uscita dalla famiglia opprimente in cui era cresciuta, con un padre che lavorava come agente della Stasi, la polizia segreta della Germania Est. Ma la fuga fu soltanto illusoria. Già nel 1974 il regime aveva approvato il Piano di Stato 14.25, che prevedeva la somministrazione forzata di steroidi anabolizzanti, ormoni e anfetamine agli atleti al fine di gonfiarne le prestazioni, incurante dei disastrosi effetti di queste sostanze, eufemisticamente definite “mezzi di supporto”. L’obiettivo ultimo era dimostrare la superiorità del socialismo e per conseguirlo ogni mezzo era considerato lecito. Così iniziò la parabola di una piccola nazione che diventò quasi invincibile in tutte le discipline sportive. Si diceva che gli atleti della DDR fossero «diplomatici in tuta», anche se Geipel preferisce definirli «un esercito di soldati civili». Secondo le stime più recenti le vittime del doping di Stato della DDR furono 15.000, di cui circa 10.000 donne. Tra di loro anche Ines Geipel. Per questo nel 2005, dopo il processo di Berlino e il riconoscimento formale come “vittima del doping di Stato”, la ex velocista pretese che il suo nome accanto al record venisse rimpiazzato da un asterisco. «Si preferiva dopare le donne perché su di loro l’effetto virilizzante degli ormoni maschili è nettamente più forte» racconta Geipel, che oggi a Berlino dirige l’Associazione per le vittime del doping da lei stessa fondata nel 2013. Ci parla di migliaia di atlete, in gran parte minorenni, che nella DDR vennero virilizzate chimicamente e sacrificate alla nazione a loro insaputa, rese invincibili sul campo e annientate nella vita. Le atlete della DDR conquistarono circa il 40% di tutti i titoli europei e mondiali vinti dal piccolo Stato e stabilirono record destinati a durare, di cui alcuni risultano ancora oggi imbattuti, per esempio quello di Marita Koch sui 400 metri piani (47,60 secondi; 1985) e quello di Gabriele Reinsch nel lancio del disco (76,80 metri; 1988). I loro strabilianti risultati non significavano soltanto prestigio politico per il Paese, ma valevano anche come prova lampante dell’emancipazione della donna nella Germania Est. Per tutto questo le atlete hanno pagato un prezzo altissimo. Una su tutte la pesista Heidi Krieger che a fine carriera, dopo anni di depressione e crisi, fu costretta a cambiare sesso per aver assunto lo steroide anabolizzante Oral Turinabol in quantità doppie rispetto a quelle di Ben Johnson a Seul 1988. Oggi si chiama Andreas Krieger. Sebbene la DDR sia oggi storia, non lo sono le esistenze devastate di queste atlete, le #donnedisport che raccontiamo in questo post. Nel 2000 Geipel si costituì parte civile contro i responsabili del doping di Stato della DDR al processo di Berlino, a seguito del quale il medico Manfred Höppner e il ministro dello sport Manfred Ewald furono condannati in quanto ideatori del sistema. Per Geipel e altre venti donne quello fu l’inizio dello svelamento: «Solo allora iniziammo a comprendere quello che ci avevano fatto e fu uno shock. Gli anni ’80 furono il periodo più spietato per lo sport e la violenza andava ben oltre il doping» così Geipel. Lei stessa fu “eliminata strategicamente” quando il regime ritenne che costituisse un pericolo per lo Stato, ovvero quando si innamorò di un atleta messicano e tentò senza successo di fuggire a Ovest. La Stasi intervenne, Geipel fu sottoposta a una presunta appendicectomia con cui le vennero inferte gravi lesioni all’addome; sopravvisse per miracolo, dovette lasciare lo sport e rassegnarsi all’idea di non avere figli. Solo tempo dopo seppe cosa le era accaduto. Nel 1989 riuscì a fuggire dalla Germania orientale attraverso il confine tra Ungheria e Austria. Con il team dell’Associazione, Geipel fornisce oggi assistenza a circa 2.000 ex atleti colpiti: «A distanza di 40 anni le vittime escono ancora allo scoperto. Spesso i corpi dopati necessitano di molto tempo per crollare, abituati come sono alla logica della prestazione. In più il timore e la vergogna scoraggiano molte vittime dal ricercare aiuto, specialmente quando si tratta di atleti che non si sono emancipati dal contesto in cui vivevano allora, caratterizzato ancora oggi da un’omertà diffusa che riguarda la stampa locale, i medici e i cittadini stessi» spiega la direttrice. Su 2.000 ex atleti assistiti, ben 1.500 sono donne. Dalle loro testimonianze emerge un complesso quadro di violenza strutturale: «Era un sistema patriarcale: in politica dominavano gli uomini, in ambito sportivo le allenatrici erano rare e molte donne medico si ritirarono strada facendo per ragioni etiche. L’ambiente divenne sempre più maschile e quello delle atlete invincibili si consolidò come un mito perverso. Lo sport era retto da dinamiche di pressione, sadismo e abuso. Migliaia di ragazze, in molti casi bambine sotto i 10 anni, vennero ingannate e depredate del loro sesso. Le atlete si fidavano di allenatori e medici che spacciavano pillole variopinte per vitamine e integratori. Oggi vengono al consultorio e scoppiano in lacrime. Soffrono di problemi psichici come depressione, psicosi e bulimia. La loro ossatura è distrutta per il sovraccarico degli allenamenti. In molti casi hanno subito un’interruzione dello sviluppo, il che significa ovaie atrofizzate e sterilità. Se rimangono incinte, sono soggette ad aborti spontanei. Quando partoriscono c’è la possibilità che i figli siano disabili. Per via degli ormoni alcune presentano irsutismo, altre invece perdono completamente peli e capelli. C’è chi non ha sviluppato il seno. In queste condizioni la vita diventa per le vittime un inverosimile atto di forza». Finora l’Associazione diretta da Geipel è riuscita a ottenere due leggi che riconoscono un’indennità alle vittime del doping di Stato della DDR. La prima legge riguardava 200 atleti, la seconda 1.000. Il prossimo obiettivo è ottenere una pensione politica anche per i bambini colpiti nella seconda generazione, ad oggi già 300: «L’indennità significa molto perché è una forma di riconoscimento di cui le vittime hanno estremamente bisogno» commenta Geipel. All’Associazione gli ex atleti ricevono molteplice assistenza (psichiatrica, giuridica, burocratica ecc.). Presto verranno attivati dei gruppi di autoaiuto e si potrà contare su una rete di medici specializzati. Geipel è inoltre impegnata nella ricerca di un finanziamento stabile: «La politica fa soltanto lo stretto necessario. Lo sport non ne vuole sapere: molti dei tecnici attivi durante la DDR sono stati integrati nel nuovo sistema. Negli uffici pubblici c’è chi ancora disconosce il doping di Stato». Oggi Ines Geipel va a correre ogni volta che può: «Questa passione non se n’è mai andata» dice sorridendo, «ma non provo più gioia né entusiasmo per le manifestazioni sportive internazionali. Nei corpi degli atleti e nelle loro prestazioni intravedo la lunga catena di interessi che regola la chimicizzazione dello sport. Tutti ne sono responsabili, dal medico all’allenatore passando per la politica e i fan, invece è quasi sempre l’atleta il capro espiatorio, anche quando il doping è il risultato di una cospirazione. Temo che oggi in Russia molti atleti ignorino di cosa sono vittime. Per una medaglia d’oro della DDR sono stati “bruciati” 80 bambini. La lista dei morti conta circa 500 persone, più di quanti ne abbia causati il Muro di Berlino. Lo sport esisterà sempre, ma dobbiamo porre fine a questo massacro».
Silvia Ronchey per “Robinson - la Repubblica” il 6 novembre 2019. Si dice che l' impero romano sia caduto nel 476, sotto l' onda d' urto delle cosiddette invasioni barbariche. Ma se osserviamo la storia nelle sue onde lunghe anziché nelle increspature di superficie, come ci ha insegnato lo storico novecentesco Fernand Braudel, e guardiamo ai millenni piuttosto che ai secoli o tanto meno ai decenni, vediamo che in realtà l' impero romano è caduto nel 1989, insieme al Muro di Berlino. Nel quinto secolo l' impero romano non cadde, perché aveva già cambiato indirizzo. Costantinopoli, la nuova capitale che l' imperatore Costantino aveva fondato nel 330, in quell' est del mondo che ciclicamente si impone alla gravitazione della storia, non era una Seconda Roma solo di nome. Lo era e lo sarebbe stata di fatto. In quello che fu chiamato impero bizantino, ma che i suoi cittadini continuavano a chiamare "romano", si trasferirono senza soluzione di continuità non solo la tradizione statale e l' eredità giuridica dello stato romano tardoantico, ma anche la sua più importante eredità civile: la capacità di amalgamare e integrare sempre diverse etnie. Nel quinto secolo l' ondata di genti straniere o "barbariche" che travolse la pars Occidentis investì anche la pars Orientis, ma fu inglobata all' interno delle sue strutture di potere, cosicché non solo non ne provocò la fine ma mescolandosi alle sue élite e rinnovandole inaugurò a Bisanzio un meccanismo di ricambio e ibridazione sociale e etnica che resistette per undici secoli, fino al 1453, data della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi osmani. Ma neanche a questo punto l' impero romano cadde. La sopravvivenza della cultura statale romano-bizantina fu apertamente assicurata da un lato nell' impero multietnico ottomano, suo diretto conquistatore, dove il sultano assunse il titolo di imperatore di Roma (Rûm), d' altro lato in quello russo, suo immediato continuatore, dove la Terza Roma, Mosca, nacque sotto l' egida dell' ortodossia. Nelle due propaggini nord- e sud-orientale, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie continuò. I sultani mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative, fiscali e giuridiche dell' impero bizantino, a loro volta eredi di quelle romane. Nel mondo russo Ivan IV Groznij, detto il Terribile, fece programmaticamente discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione ininterrotta di imperatori romani e bizantini. Alla sua visione si adegueranno i successivi czar ("cesari") della Russia zarista, ma anche gli autocrati dell' impero sovietico. Quando Sergej Ejzenstejn intraprese la sua trilogia sull' antico autocrate russo, Stalin, il moderno autocrate sovietico che in filigrana vi era raffigurato, lo convocò al Cremlino e gli contestò di « non avere studiato abbastanza Bisanzio». Solo con la caduta dell' impero ottomano all' inizio del Novecento e soprattutto con quella dell' impero sovietico alla sua fine, nel 1989, alla caduta del Muro, o meglio nel 1991, alla dissoluzione formale dell' Urss, l' eredità di Costantino rivendicata ininterrottamente da Ivan il Terribile a Stalin si è resa vacante, producendo, nell' implosione, un unico macroscopico sussulto tellurico in tutte le aree di irradiazione della civiltà multietnica romana, poi bizantina, poi ottomana e russo-zarista o russo-sovietica. Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno difficile comprendere il turbolento esordio del Ventunesimo secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso in quelle aree geografiche in cui gli imperi romani epigoni avevano tenuto a freno gli scontri fra etnie: dall' Illiria, oggi Balcani, al Chersoneso, oggi Crimea, nel caso del blocco sovietico, e per il quadrante ottomano - nel veloce dissolversi delle temporanee custodie coloniali e dei fragili mosaici di successive alleanze - dalle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Pakistan, Afghanistan, Iran e Iraq, fino alla Siria e al Kurdistan. Il fantasma di Bisanzio ha preso ad aleggiare vendicativo subito dopo il disgregarsi, all' inizio e alla fine del Novecento, degli ultimi due eredi di un' idea imperiale trasversale alla divisione stereotipa tra Oriente e Occidente, e tanto più a quella tra religioni. Si è allora insinuata nella nostra fantasia collettiva occidentale l' idea di uno "scontro di civiltà" tra Oriente islamico e Occidente cristiano. Un altro muro si è alzato, a dividere due entità astratte - un preteso Oriente da un preteso Occidente - che a Bisanzio avevano programmaticamente e concretamente costituito, invece, un' unica civiltà. Categorie dimenticate dal medioevo gotico - crociate, infedeli, guerra santa - hanno pervaso il linguaggio della propaganda politica postmoderna. L' evoluzione integralista ha accomunato storicamente Asia e Europa, islam e cristianesimo - ed ebraismo, fra l' altro - tra la fine del Novecento e l' inizio del nuovo millennio. E, poiché nella storia come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, il fantasma del vecchio impero, ucciso ma non morto, ha tentato, come i vampiri, di produrne di nuovi, più assetati e meno esperti. Due autocrati si sono insediati alla guida dell' ex impero zarista e dell' ex impero ottomano, in un tripudio di mezzelune e di croci. Il nuovo zar e il nuovo sultano hanno sostituito alle ideologie laiche nuove ideologie religiose, fondandovi il loro potere. Se quello romano era uno stato laico e se Costantino, il primo imperatore bizantino, aveva reso il cristianesimo religione di stato imponendo tuttavia l' estromissione del clero dal potere temporale, dopo la caduta del Muro novecentesco i potentati ecclesiastici e in generale gli estremismi religiosi hanno ripreso forza, creando, più o meno opinatamente, altri muri. Altri "barbari" si sono materializzati agli occhi di ampie fasce di opinione occidentali nelle colonne di migranti che il terremoto dell' inizio del terzo millennio ha sbalzato sulle sponde e tra le onde del Mediterraneo. Creando così altre divisioni, moltiplicando barriere e fili spinati esterni e interiori, in una quinta infinita di muri.
Vittorio Feltri, la vecchia profezia di Andreotti per sbugiardare la Merkel: "Sulla Germania aveva ragione". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Giulio Andreotti ci aveva visto bene nel lontano 13 settembre del 1984 quando pronunciò la celebre frase: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due". A distanza di parecchi anni è Vittorio Feltri a elogiare il fu ministro degli Esteri ai tempi del governo Craxi: "Aveva ragione Andreotti" cinguetta sul suo profilo Twitter in un chiaro riferimento a quella Germania che, guidata da Angela Merkel, detta legge con due pesi e due misure ai paesi dell'Unione Europea. Tra questi c'è anche l'Italia rappresentata - riportando le parole di Feltri - da quel "Giuseppino Conte" volato più volte a Berlino "a baciare la pantofola" della Merkel, in nome di "una sudditanza di cui non si capiscono le ragioni".
Andreotti, le frasi celebri - Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due. Da My24 st.ilsole24ore.com. Frase attribuita ad Andreotti in occasione dell'unificazione tedesca. Frase erroneamente attribuita ad Andreotti, il vero ideatore fu Francois Mauriac: J’aime tellement l’Allemagne que je suis ravi qu’il y en ait deux.
MURO DI BERLINO. Dalle due Germanie di Andreotti alla “guerra” di Kohl. Alberto Indelicato il 10.11.2014 su Il Sussiadiario. “Il muro di Berlino? Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo”. ALBERTO INDELICATO, ultimo ambasciatore nell’ex DDR. La caduta del Muro? “Il muro di Berlino non è mai caduto, è stato distrutto dal popolo. Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo. E’ stato distrutto da chi voleva la libertà”. Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica Tedesca, rievoca la fine della Germania comunista».
Lei ha scritto un libro, Memorie di uno stato fantasma. Perché chiama così la ex DDR?
«E’ una considerazione di ordine storico-politico. La Germania orientale era un paese comunista come lo erano la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, l’Ungheria. Il comunismo era come una vernice che copriva tutti questi paesi, o se vogliamo un grande lenzuolo dietro il quale si nascondevano i veri paesi, la loro gente, le loro storie. Nel caso della DDR invece, sotto al lenzuolo non c’era nulla».
Uno stato artificiale, un albero senza radici.
«In Germania orientale il socialismo non era l’ideologia dello stato, ma lo stato stesso. Una volta tolto il socialismo l’Ungheria sarebbe rimasta Ungheria, non c’era dubbio, come in effetti fu dopo il crollo del comunismo. Ma dietro il comunismo della DDR non c’era dietro una Germania, non c’era niente».
Cosa voleva dire rappresentare l’Italia?
«Fino al 1972 nessuno degli stati occidentali riconosceva la Germania orientale, anche se riconosceva tutti gli altri paesi comunisti. La Germania Federale (Bundesreplublik Deutschland, BRD) aveva creato la dottrina Hallstein: chi avesse riconosciuto la DDR avrebbe automaticamente rotto i rapporti diplomatici con la BRD. Poi, con le discussioni che portarono all’atto finale di Helsinki firmato il 1° agosto 1975, cominciarono dei negoziati con tutti gli stati, compresa la DDR. Arrivati a quel punto non si poteva più rifiutare il riconoscimento, che arrivò da tutti gli stati della Nato, ma con alcune limitazioni. Poi c’era Berlino, con il suo statuto speciale… Vi arrivai il 1° dicembre 1987».
Come giudica la celebre frase di Andreotti che disse di preferire due Germanie a che ce ne fosse una sola?
«Andreotti era un gran plagiario (sorride, ndr), me ne accorsi varie volte quando era ministro degli Esteri. Quando sentiva qualcosa che gli sembrava interessante o spiritosa se la annotava in un librettino che portava sempre con sé, e al momento buono la tirava fuori. Quella frase non è di Andreotti, ma di François Mauriac, che la usò negli anni 50 scrivendo sul Figaro».
E perché Andreotti la fece propria?
«Accadde ad un festival de l’Unità, che frequentava specialmente in quel periodo in cui sperava di diventare presidente della Repubblica; ma per diventarlo c’era bisogno dei voti comunisti… e quella frase suscitò l’entusiasmo in tutti i membri del Pci. Fu grave, perché non solo legittimava la DDR, di più, riconosceva, per dir così, l'”eternità” della Repubblica democratica. Chiamarono l’ambasciatore a Bonn e lo rimbrottarono. Il fatto provocò un po’ di freddo. Poi ricordo anche un altro episodio…»
Prego.
«La senatrice Carettoni (Tullia Carettoni Romagnoli, prima socialista poi indipendente con il Pci, ndr), presidentessa dell’associazione Italia-DDR, era mia amica, veniva spesso in Germania e io ero lieto di ospitarla. Le cose ormai andavano male, mi disse di aver parlato col presidente della commissione Esteri della camera, Manfred Feist, che era il cognato di Honecker, il quale le aveva detto: “sono momenti neri per noi, per fortuna in Italia abbiamo un amico…”. Era Andreotti! Non era comunista, Andreotti, ma opportunista sì».
Cosa ricorda del periodo che precedette il 9 novembre 1989?
«Un episodio che chiamo la cena degli addii. Noi ambasciatori fummo invitati a celebrare il 40esimo anniversario della nascita della DDR. C’erano tutti i capi comunisti, da Gorbaciov a Ceausescu, a Jaruzelski, a Straub, e tanti altri. C’erano anche i rappresentanti di tutti i partiti comunisti, ma non gli italiani. Honecker aveva fatto un discorso chiuso e conservatore, era stato molto più aperto quello di Gorbaciov… ad un certo punto mi accorsi che Gorbaciov era sparito, il suo posto era vuoto. Poi sparì Jaruzelski, e via via, uno ad uno, tutti gli altri. Mi venne in mente, all’improvviso, la “Sinfonia degli addii” di Haydn, nella quale ogni musicista, finita la sua partitura, prende il suo strumento e se ne va, lfino a che rimane solo il direttore. Anche la “partitura” della DDR, dopo 40 anni, stava finendo. Ci dissero che la cerimonia era finita e ci accompagnarono verso una uscita secondaria. Quando raggiunsi il mio autista capii il perché: davanti all’ingresso principale c’era una violenta manifestazione di 10mila persone che urlavano contro Honecker e il comunismo,e chiedevano libertà. Ci furono molti feriti, centinaia di arresti».
E’ ormai riconosciuto che la riunificazione tedesca è stata il capolavoro politico di Helmut Kohl. In che senso secondo lei?
«Anch’io penso che si sia trattato di un capolavoro. Kohl non fece nulla a caso, nemmeno subì gli avvenimenti, e ogni sua decisione fu attentamente calcolata, programmata. Intanto, aveva dato un sacco di soldi all’Ungheria che si ritrovava in pessime condizioni economiche. A patto, però, che questa aprisse la frontiera. Aveva immaginato bene che cosa poteva succedere. L’Ungheria aprì la frontiera, e quando i tedeschi videro in tv cosa stava accadendo, chiesero subito il permesso di andare in Ungheria… il governo, stupidamente, non capì che cosa si preparava e concesse i passaporti. La gente si precipitò in Ungheria ma non per restarci, bensì per passare in Austria. In pochi giorni se ne andarono 300mila persone».
E verso la DDR?
«In politica interna Kohl propose alla DDR una confederazione. La DDR sognava una confederazione paritaria, con elezione di pari rappresentanti nel parlamento federale; un’utopia, dato il peso demografico della BRD, ma questa prima proposta cominciò a lavorare sotto traccia nella mente non solo del governo di Honecker, ma anche della popolazione. La quale già era abbastanza agitata per tre affari: il primo, la decisione di Berlino est di concedere i passaporti a chi voleva andarsene….»
E gli altri?
«Il secondo, l’imprudenza di Egon Krenz (il braccio destro di Honecker, ndr) che era stato in visita in Cina nei giorni di Tien an men, e aveva dichiarato che se qualcosa di simile fosse successo in Germania, avrebbero saputo dove prendere esempio… Il terzo, ci furono le elezioni amministrative e per la prima volta gli oppositori, ricorrendo allo stratagemma delle schede bianche, misero allo scoperto il fatto che le elezioni erano truccate. Tutti questi elementi avevano creato uno stato di grande agitazione. Senza dimenticare, ovviamente, l’episodio dei rifugiati nell’ambasciata tedesca occidentale di Praga. La DDR fu felice di etichettarli come traditori, i “traditori” non vedevano l’ora di imbarcarsi sui treni che li portavano all’ovest. Fu uno schiaffo per il governo perché dimostrò che si voleva essere espulsi dal proprio paese».
Come spiega il fenomeno della Ostalgie, e il fatto che oggi un partito come Die Linke (erede della SED, il partito comunista di allora) prenda il 20 per cento nei vecchi Laender?
«Ognuno dei poliziotti che stavano alla frontiera per ammazzare che cercava di scappare era pagato più un professore universitario, ed erano migliaia. Nella DDR c’era un detto, secondo il quale in un gruppo di tre persone una era certamente una spia… tutti vedevano, riferivano, archiviavano, catalogavano, a volte perfino i figli contro i padri, le mogli contro i mariti. La Stasi era una polizia segreta più numerosa e perfino più efficiente di quella sovietica. Tutto questo gigantesco apparato è rimasto disoccupato, con conseguenze di lungo periodo come quelle che lei ha citato. A mio modo di vedere la Ostalgie ha una base economica; anagrafica ed economica».
Il Muro e la riunificazione fanno ancora parte della memoria storica tedesca attuale?
«Me lo auguro. La Germania, culturalmente e spiritualmente, è stata sempre una. Kohl è stato il Bismarck del XX secolo, con una piccola differenza, che Bismarck ha fatto tre guerre per unificare politicamente la Germania, mentre Kohl la guerra l’ha fatta coi soldi. Ma neanche i soldi sarebbero bastati, se non fossero stati al servizio di un profondo desiderio di unità e libertà». (Federico Ferraù)
30 anni fa la caduta del Muro di Berlino. Il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino e la conseguente apertura delle frontiere da parte della Germania orientale, cadeva uno dei simboli della «guerra fredda» e una linea di confine che divideva l’Europa tra le zone di influenza statunitense e quelle sotto il controllo sovietico. Il muro che circondava Berlino ovest e divideva in due la città era stato costruito nell’agosto 1961, per impedire ai cittadini che risiedevano nelle aree orientali di poter fuggire verso l’Ovest. Era lungo 155 chilometri e alto in media 3,6 metri. Dopo la fine della seconda guerra mondiale ai cittadini di Berlino era permesso di circolare liberamente in tutti i settori, ma con lo sviluppo della Guerra Fredda i movimenti vennero limitati; il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso nel 1952 e l’attrazione dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Est aumentò. Circa 2,5 milioni di tedeschi dell’est passarono ad ovest tra il 1949 e il 1961. Da quel momento la frontiera tra Berlino ovest e Berlino est venne fortificata e controllata militarmente mentre di fatto erano due i muri che correvano paralleli a distanza di alcune decine di metri. Non si conosce il numero esatto delle persone uccise mentre cercavano di superare il muro verso Berlino ovest. Alcune fonti ufficiali parlano di almeno 133 vittime, altre si spingono a più di duecento. Nel 1989, molti paesi che avevano fatto parte dell’area di influenza dell’unione sovietica, aprirono le loro frontiere. A novembre, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usato equipaggiamento industriale per abbattere quasi tutto quello che era rimasto. Ancora oggi c’è un grande commercio di piccoli frammenti, molti dei quali falsi. La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tra le due Germanie che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990. Il 20 giugno 1991 Berlino tornò ad essere la capitale della Germania e sede unica del parlamento e del governo federale.
40 anni fa l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini. La mattina del 29 gennaio 1979 Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica di Milano, venne ucciso da un commando di cinque militanti di Prima Linea, tra i quali Sergio Segio e Marco Donat Cattin, il figlio di Carlo, un ex sindacalista che era stato uno dei leader della Dc e più volte ministro. Quella mattina il magistrato, che aveva 37 anni, aveva appena accompagnato a scuola il figlio di 8 anni. Alessandrini era venuto a Milano da Pescara a 26 anni, avendo vinto subito il concorso da magistrato. In quegli anni violenti aveva bruciato le tappe, partecipando alle inchieste su piazza Fontana (sarebbe stato lui a firmare la requisitoria sul giornalista spia Guido Giannettini). Indagò sulle Squadre di Azione Mussolini, le cosiddette SAM, e per questo il 20 febbraio 1972 una bomba era esplosa nel suo cortile di casa. Pochi mesi prima dell’agguato mortale, nel covo di Prima Linea in via Negroli, abitato da Corrado Alunni, era stata trovata una sua foto. Era chiaro che Alessandrini era uno degli obiettivi del terrorismo a Milano. Non piaceva quel suo attivismo che lo avrebbe portato a essere il segretario dell’Associazione magistrati milanesi oltre che il primo coordinatore di un pool di giudici antiterrorismo nell’Italia del Nord. Aveva istruito i processi contro alcuni brigatisti e portava la sua esperienza sul campo anche in ambito internazionale, per esempio partecipando allo storico seminario di Cadenabbia, con esperti di mezza Europa. Nella rivendicazione dell’omicidio dei terroristi di Prima Linea Alessandrini viene dipinto come: «uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della repubblica di Milano» e come «...una delle figure centrali che il comando capitalistico usa...come macchina militare e giudiziaria efficiente e come controllo dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire». In quei giorni nel mirino, come avrebbe spiegato nel luglio 1984 Marco Donat Cattin durante il megaprocesso torinese contro Prima Linea, c’erano anche altri magistrati come Armando Spataro, Guido Galli, che poi sarebbe caduto il 19 marzo 1980, e Ferdinando Pomarici. «Abbiamo fatto varie ricognizioni e indagini – confessò Donat Cattin, che intanto si era dissociato dalla lotta armata e per questo usufruì di una pena mite -. Lui era quello che nella giornata aveva più punti deboli».
20 anni fa la morte di Stanley Kubrick. Sceneggiatore, regista, produttore cinematografico, Stanley Kubrick, (New York, 26 luglio 1928 – St Albans, 7 marzo 1999) è uno dei protagonisti della storia del cinema. La scandiscono i titoli dei suoi film, da Orizzonti di gloria (1957), Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964) , 2001: Odissea nello spazio (1968); Arancia meccanica (1971), Barry Lyndon (1975) Shining (1980), Full Metal Jacket (1987) Eyes Wide Shut (1999). Tantel e opere geniali ma neppure un Oscar Fedele fino all’ ultimo al credo dell’invisibilità come motore d’immortalità, Stanley Kubrick non ci farà mai sapere neppure come, quando e perché è morto. . Mai che andasse a una prima, mai che ritirasse un premio. «Credo nel cinema come forma espressiva primaria della nostra epoca». Fino al 1960 in America (nato a New York il 26 luglio 1928 in una famiglia borghese ebraica di origine austroungarica), indi naturalizzato inglese, prese fissa dimora nei pressi di Londra e negli studi Pinewood ha ricostruito - come Fellini, uno dei pochi a sentirlo ogni tanto al telefono e di cui si era innamorato vedendo «La strada» - perfino le giungle del Vietnam. Ha diretto in quarantacinque anni una dozzina di film di cui due poco noti, nel ‘ 55 - ‘ 56 («Il bacio dell’assassino» e «Rapina a mano armata»); gli altri dieci titoli hanno fatto moda ed epoca, basti pensare allo «scandalo» così preveggente sulla violenza di «Arancia meccanica»: «Ma non ci sono prove - diceva - che la violenza nei film o alla televisione provochi violenza sociale. L’ arte rimodella la vita ma non la crea, non la produce». Lunghe incubazioni e un maniacale perfezionismo, in nome del quale era capace, davvero, di spedire in giro per il mondo suoi emissari a controllare lo stato delle copie e delle sale nelle quali i suoi film venivano proiettati, con la possibilità di suscitare furibonde irritazioni. Kubrick, controllava tutte le fasi dell’opera, anche la pubblicità, se ne impadroniva in modo totale, compresi i diritti. Spazia dall’ antica Roma del 73 a. C. del gladiatore «Spartacus», con la sceneggiatura di Dalton Trumbo, epurato dalla caccia alle streghe , all’ infinito tecnologico esistenziale con valzer di Strauss di «2001 odissea nello spazio», il film che, previde il dominio del computer HAL 9000: arriverà agli obiettivi speciali di «2001», al lume di candela di «Barry Lyndon», nel ‘700 inglese di Hogarth e Gainsborough, alla steadycam come «protesi» dell’ occhio del regista in «Shining», il film che mescola all’ horror una sorta di autobiografico compiacimento sulla figura dello scrittore. Kubrick è morto a Harpenden, località di campagna dell’Hertfordshire, 100 km a nord di Londra. Abitava in Inghilterra con la terza moglie, Christiane, e le figlie Katharine, Anya, Vivian. Aveva 70 anni. Ignote le cause del decesso.
230 anni dalla nascita di Silvio Pellico. Nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, Silvio Pellico (25 giugno 1789 – Torino, 31 gennaio 1854) si affiliò giovanissimo alla Carboneria ed ebbe un ruolo di primo piano nella redazione del Conciliatore. Deve molto della sua formazione agli anni trascorsi a Lione presso uno zio. Torna in Piemonte nel 1809 e matura una passione letteraria che lo porterà a conoscere e frequentare Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi, Giovanni Berchet, Madame De Stael, Stendhal, George Gordon Byron. La sua prima tragedia «Francesca da Rimini» viene rappresentata con grande successo nel 1815. Aderisce alla carboneria milanese di Pietro Maroncelli e per questo motivo, scoperti dagli austriaci, viene arrestato il 13 ottobre 1820. Fu condannato alla pena di morte, poi mutata in venti anni di carcere, che trascorse all’ inizio ai «Piombi» di Venezia e poi nel carcere duro dello Spielberg. Graziato nel 1830, tornò a Torino dove pubblicò due anni dopo «Le mie prigioni». Scritte per raccontare la propria vicenda interiore e il suo ritorno alla fede, furono lette dai contemporanei come una requisitoria contro il regime austriaco e un incitamento alla ribellione popolare. Trova lavoro come bibliotecario in casa dei marchesi di Barolo, ritrovando la tranquillità e la giusta disposizione d’animo per riprendere l’interrotta attività letteraria. Sono di questi anni le tragedie «Ester d’Engaddi», «Gismonda da Mendrisio», «Leoniero da Dertona», «Erodiade», «Tommaso Moro», «Corradino», ed il trattato morale «I doveri degli uomini». Muore il 31 gennaio del 1854, a Torino, a 65 anni.
100 anni dalla morte di Theodore Roosevelt. È stato il 26º presidente degli Stati Uniti e ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1906. Theodore Roosevelt (nato a New York il 27 ottobre 1858, morto 100 anni fa a Sagamore Hill, il 6 gennaio 1919). Il suo volto è uno dei quattro scolpiti sul monte Rushmore, assieme a quelli di George Washington, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln. Divenne Presidente, in seguito all’assassinio di William McKinley, all’età di 42 anni. Eredita dal padre, «repubblicano progressista» la passione politica. Nel 1882 ottiene la sua prima carica politica come membro del parlamento dello Stato di New York. Per questa ragione deve lasciare definitivamente il corso di specializzazione alla Columbia. Nel 1884 la moglie Alice muore di parto e poco dopo muore anche la figlia. Torna in politica solo nel 1897 quando entra nell’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti William McKinley, come aiuto segretario della marina, corpo nel quale si distingue nel conflitto-lampo tra Stati Uniti e Spagna del 1898, con Cuba come teatro degli avvenimenti. Nel 1899, grazie all’ottima impressione suscitata in guerra, è eletto governatore dello Stato di New York, esponente di spicco del partito repubblicano. Tuttavia nel 1901 deve lasciare l’incarico, per ricoprire, in qualità di vicepresidente, quello ben più importante di ventiseiesimo Presidente degli Stati Uniti d’America dopo l’uccisione del presidente uscente McKinley. Quando assume il massimo incarico, Theodore Roosevelt ha appena 42 anni ed è il più giovane presidente della storia d’America. Nel 1904 viene confermato alla Presidenza ed è sua la firma del trattato che permette la costruzione del Canale di Panama e la creazione del sistema dei parchi nazionali. Nel 1905 è il mediatore della pace nella sanguinosa guerra tra russi e giapponesi la quale, l’anno dopo, gli vale il Nobel per la pace. Nel 1909 non si ricandida lasciando la scena al suo successore repubblicano William Howard Taft. Ma negli anni seguenti ne contesta duramente l’operato, tanto da staccarsi dai repubblicani, fondando un suo partito progressista, il «Bull Moose Party» che ottenne il 27,4% dei consensi (vincendo in 6 Stati), sopravanzando i Repubblicani (fermi al 23,2%) ma non i Democratici, che videro il proprio candidato, Woodrow Wilson, nominato 28º presidente degli Stati Uniti. Morì a Sagamore Hill, nello stato di New York il 6 gennaio 1919.
220 anni fa la nascita di Honoré de Balzac. Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850) è stato uno scrittore, drammaturgo, critico letterario, saggista, giornalista francese, fra i maggiori della sua epoca, ed anche il principale maestro del romanzo realista francese del XIX secolo. Scrittore prolifico, ha elaborato un’opera monumentale: La Commedia umana, ciclo di numerosi romanzi e racconti che hanno l’obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese contemporanea all’autore o, come disse più volte l’autore stesso, di «fare concorrenza allo stato civile». «Voi, il più poetico fra i personaggi che avete inventato» scriverà Baudelaire che lo amò, tirandone questo ritratto: «Il cervello poetico tappezzato di cifre come lo studio di un finanziere. L’uomo dai fallimenti mitologici, dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche». Le sue prime prove artistiche non furono molto apprezzate dalla critica, tanto che Balzac si diede ad altre attività: divenne editore, stampatore e infine comprò una fonderia di caratteri da stampa, ma tutte queste imprese si rivelarono fallimentari, indebitandolo pesantemente. Dal 1830 la sua attività letteraria divenne frenetica, tanto che in sedici anni scrisse circa novanta romanzi (sulla «Revue de Paris», sulla «Revue des Deux Mondes», ma anche in volumi e in tirature sempre più numerose, per non contare i continui racconti, aneddoti, caricature e articoli di critica letteraria). I suoi primi successi di pubblico furono «La peau de chagrin » (La pelle di zigrino, 1831) e, tre anni più tardi, «Le Père Goriot »(Papà Goriot, 1834). Balzac è considerato l’inventore del romanzo del mondo moderno. Durante tutto il XIX secolo, e durante una buona parte del XX, i romanzieri francesi e stranieri si sono pronunciati per o contro ciò che è rapidamente diventato il «modello balzacchiano». Balzac rcrede che il corpo sociale sia identico alla fauna naturale. Ritiene anche che il lavoro dello scrittore, simile in ciò a quello stesso dello scienziato, sia di descrivere e spiegare: «Dovrà essere cercata all’interno della stessa società la ragione delle sue dinamiche», afferma nella prefazione della «Comédie humaine». Il 18 agosto 1850 Honoré de Balzac morì per una peritonite e venne sepolto nel cimitero Père Lachais. L’orazione funebre fu tenuta da Victor Hugo.
100 anni fa l’assassinio di Rosa Luxemburg. Cento anni fa Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, gli storici fondatori del Partito comunista tedesco, vennero assassinati da estremisti di destra. Rosa Luxemburg era nata il 5 marzo 1871 a Zamość, in Polonia, allora parte dell’Impero russo. I Luxemburg erano ebrei come un terzo degli abitanti della città ma non avevano particolari contatti con la comunità ebraica. In casa parlavano il polacco e conoscevano bene il tedesco e il russo. Prima ancora di compiere vent’anni, in Rosa maturò l’interesse per i problemi del mondo che la portò a impegnarsi in prima persona: divenne una militante del movimento di sinistra «Proletariat». Ma questo movimento venne perseguitato e represso e nel 1895 Rosa fu costretta a lasciare la Polonia emigrando prima in Svizzera e poi in Germania. Qui sposò un tedesco: non c’era amore tra i due ma ciò le permise di ottenere nel 1989 la cittadinanza tedesca. Trasferitasi a Berlino, aderì al partito socialdemocratico, prendendo posizione contro il revisionismo teorico di E. Bernstein Nel 1902-04 lavorò alla Gazeta ludowa («Giornale del popolo») di Poznań; dopo aver criticato aspramente i tentativi di J. Piłsudski per creare difficoltà alla Russia in conflitto col Giappone, passò a Varsavia, ma fu presto arrestata (1906). Dal 1907 al 1914 insegnò economia politica alla scuola di partito di Berlino. Trovandosi sempre più a sinistra in seno alla socialdemocrazia tedesca, finì per polemizzare con K. Kautsky sulla funzione dello sciopero generale e sull’atteggiamento da prendersi verso la riforma elettorale allora proposta da Bethmann-Hollweg. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti, promuovendo manifestazioni pacifiste. L’accumulazione del capitale (1913) è considerata l’opera più importante di Rosa Luxemburg, dedicata all’analisi economica dell’imperialismo. Partendo dalla critica degli «schemi della riproduzione allargata» che si trovano nel II libro de Il Capitale di Karl Marx, Rosa Luxemburg intende dimostrare che, in un ambiente puramente capitalistico (cioè in una società composta esclusivamente da capitalisti e da proletari), l’accumulazione del capitale sarebbe impossibile, in quanto in tale ipotesi non potrebbe mai verificarsi la realizzazione del plusvalore, cioè mancherebbe la domanda per la porzione delle merci prodotte il cui valore corrisponde al plusvalore accumulato. Da qui, secondo Rosa Luxemburg, deriva la necessità per l’economia capitalista di cercare al di fuori di se stessa sempre nuovi acquirenti per le proprie merci. Nel 1916 fu tra i fondatori dello Spartakusbund; nel 1918 diresse Die Rote Fahne, quindi promosse l’insurrezione spartachista di Berlino del gennaio 1919, durante la quale venne assassinata.
270 anni dalla nascita di Vittorio Alfieri. Poeta (Asti 16 gennaio 1749 - Firenze 8 0ttobre 1803) Vittorio Alfieri ha precorso le istanze politiche e morali del Risorgimento. Autore di numerose raccolte di versi (Rime, 1804) e di un’autobiografia (Vita), dal 1776 al 1786 compose diciannove tragedie in endecasillabi sciolti, tra le quali il Saul e la Mirra sono considerate i suoi capolavori. Ai temi della libertà e della lotta contro la tirannia dedicò due trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-86). Nelle tragedie (oltre alle due citate si ricordano l’Antigone, La congiura de’ Pazzi, la Virginia, il Timoleone) l’indole eroica e appassionata di Alfieri si manifesta più intensamente. Visitò non solo le principali città italiane sino a Napoli, ma quasi tutta l’Europa. In Olanda e in Inghilterra ebbe due incontri amorosi; un terzo, a Torino, con la marchesa Gabriella Turinetti, fu indiretta cagione della sua definitiva conversione alla letteratura, alla quale già l’aveva indirizzato la lettura delle Vite di Plutarco. Assistendo la Turinetti durante una sua malattia, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, che poi, condotta a termine, fu rappresentata con lieto successo (1775): Alfieri giudicò immeritati gli applausi e decise di far qualcosa di veramente degno. Cominciò allora a studiare furiosamente e si recò due volte in Toscana per meglio apprendere la lingua: a Siena conobbe un ricco e colto mercante, Francesco Gori-Gandellini, col quale strinse l’unica forte amicizia della sua vita e che, morto, esaltò come uomo perfetto in un dialogo, La virtù sconosciuta (1786); e, a Firenze, conobbe Luisa Stolberg, moglie di Carlo Eduardo Stuart, conte di Albany, con la quale visse maritalmente fino alla morte. L’anno dopo, donò tutta la sua proprietà piemontese alla sorella Giulia, contro il corrispettivo di una rendita vitalizia. Firenze, Roma, Siena, Pisa, furono i suoi soggiorni più importanti fra il ‘78 e l’85. Tra l’85 e l’87 alternò principalmente le dimore di Martinsburg presso Colmar, in Alsazia, e di Parigi, dove nell’87 si stabilì con l’Albany e restò sino al ‘92; dove anche assistette, ammirato, ai primordî della rivoluzione, che placarono per un momento la sua radicata avversione alla Francia, patria dell’illuminismo. Presto gli eccessi rivoluzionarî lo disgustarono. Fuggito da Parigi, si stabilì definitivamente con la sua donna a Firenze. Ne ragionò sistematicamente in due trattati: Della tirannide (1777), e Del principe e delle lettere (cominciato nel ‘78, ma scritto per la maggior parte nell’85-86). Nel primo giudica il dispotismo immorale anche quando è illuminato; nel secondo dimostra come non sia affatto vero che esso giovi alle lettere. L’ultima sua fatica letteraria sono quattro commedie politiche: «L’uno», condanna della monarchia assoluta; «I pochí,» dell’oligarchia; «I troppi», della democrazia; «Tre veleni rimesta, avrai l’antidoto», in cui addita il rimedio in una fusione delle tre forme di governo. Di argomento morale e sociale altre due commedie: La finestrina e il Divorzio. La Vita (la prima parte fu scritta nel ‘90 e giunge fino a quell’anno; la seconda è del 1803, l’anno stesso della morte) «sostanzialmente e coraggiosamente veritiera - scrive il dizionario Treccani - , è, per consenso di tutti, un capolavoro, tanto è perfetta l’aderenza dello stile a quel misto di alta idealità entusiastica e d’ironia, di violenza appassionata e intima bontà, di furori e di malinconia, ch’era nel suo temperamento».
90 anni dalla stipula dei Patti Lateranensi. L’11 febbraio 1929, furono firmati i Patti Lateranensi con i quali per la prima volta dall’Unità d’Italia furono stabilite regolari relazioni bilaterali tra Italia e Santa Sede. Presero il nome del Palazzo di San Giovanni in Laterano in cui avvenne la firma degli accordi, che furono negoziati tra il Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per conto della Santa Sede e il Capo del governo primo ministro segretario di Stato Benito Mussolini per conto del Regno d’Italia. Quel Trattato stabilisce la nascita dello Stato della Città del Vaticano, di cui il Pontefice è il sovrano. Prima del 1929 era in vigore la Legge delle Guarentigie, cioè «delle garanzie», a approvata dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871. Con questa legge, il Regno d’Italia s’impegnava unilateralmente a garantire al Papa le condizioni per lo svolgimento del suo magistero spirituale. Ma Pio IX aveva sempre respinto la legge vietando ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno, con il famoso «non expedit». I Patti Lateranensi si compongono di due parti. La prima è un Trattato internazionale: la Santa Sede riconosce lo Stato italiano con Roma capitale e si vede riconosciuta la sovranità sullo «Stato della Città del Vaticano». E’ prevista una convenzione finanziaria, con cui l’Italia si impegna a pagare al Pontefice una indennità, come riparazione per aver perso lo Stato pontificio. La seconda parte è costituita dal Concordato, che regola i rapporti tra Chiesa e Regno d’Italia. Il Concordato stabilisce che la religione cattolica è la sola religione di Stato. E prevede una serie di misure, come gli effetti civili del matrimonio religioso e l’esenzione del servizio militare per i sacerdoti. Permette inoltre alle organizzazioni dell’Azione cattolica di continuare a operare e stabilisce l’insegnamento della religione cattolica come «fondamento e coronamento» dell’istruzione pubblica. I Patti Lateranensi sono riconosciuti dalla Costituzione della Repubblica italiana che all’articolo 7 recita: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Sono stati rivisti nel 1984: il 18 febbraio è stato firmato un nuovo Concordato dal presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi, e dal cardinale Agostino Casaroli, in rappresentanza della Santa Sede. In questo nuovo testo la religione cattolica non è più definita sola religione di Stato. L’ora di religione nelle scuole, fino a quel momento obbligatoria, diventa invece facoltativa. Vengono stabilite delle condizioni da rispettare perché un matrimonio celebrato col rito religioso possa essere riconosciuto come unione civile, dallo stato italiano. Viene inoltre introdotto un nuovo metodo di sostentamento della Chiesa, l’8 per mille, che entra in vigore il 1° gennaio 1990: il meccanismo attraverso il quale si può devolvere quella percentuale di gettito Irpef alla Chiesa cattolica.
100 anni dalla nascita di Primo Levi. Primo Levi è stato uno scrittore, partigiano e chimico italiano (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987). Laureato in chimica trova lavoro a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ‘43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove venivano raccolti i prigionieri ebrei. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz. È il 22 febbraio del ‘44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un «prima» e un «dopo». Viene deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. I prigionieri vengono rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, obbedire. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè «pezzo». Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via. Levi è l’häftling 174517. Funzionante. Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est. Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinché tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ‘47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto di «Se questo è un uomo» è pubblicato dalla De Silva editrice. Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel 1956 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: «Se questo è un uomo» è tradotto in diverse lingue, «La Tregua» vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ‘67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato «Storie naturali» adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ‘71 esce «Vizio di forma,» nuova serie di racconti e nel ‘78 con «La chiave a stella» vince il Premio Strega. Nel ‘81 viene edita un’antologia personale dal titolo «La ricerca delle radici» nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo «Se non ora quando?» che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ‘84 pubblica «Ad ora incerta» e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel 1986 pubblica «I sommersi e i salvati». Primo Levi si tolse la vita l’11 aprile del 1987.
100 anni dalla sua nascita di Valentino Mazzola. Uno dei più grandi numeri 10 nella storia del calcio, Valentino Mazzola nacque a Cassano d’Adda il 26 gennaio 1919. Papà operaio, famiglia povera, i primi calci in una squadra minore di Cassano d’Adda, il Tresoldi. Poi, dopo una stagione a Milano nella formazione dell’Alfa Romeo, dal 1939 al 1942 giocò al Venezia. Fu Ferruccio Novo, il presidente del Torino, a prelevarlo nel 1942 con Ezio Loik dopo un match contro il Venezia, per un milione e 250.000 lire, più contropartita tecnica di due giocatori. Si calcolò che Mazzola era costato di suo un milione. L’Inter gliene offrì dieci di stipendio all’anno nel 1947, Mazzola era assai tentato dal trasferimento a Milano, ma Novo gli offrì premi doppi rispetto ai compagni. Al Torino, in Serie A, ha disputato 195 partite con 118 gol (contando anche le coppe: 200 partite con 123 gol) e un bottino di cinque scudetti più una Coppa Italia. In azzurro 12 partite e 4 gol. L’ambientamento nei primi mesi in granata, sia per lui che per Loik, fu piuttosto difficile. Il suo primo gol granata in Serie A il 18 ottobre, Torino-Juventus 5 a 2. Un suo record singolare: ha segnato tre gol in 3 minuti (29’, 30’ e 31’) in Torino-Vicenza 6-0, il 20 novembre 1942. A Torino aprì un negozio di palloni. Faceva vita riservata, era uomo piuttosto chiuso. Valentino Mazzola morì sull’aereo che il 4 maggio 1949 si schiantò contro la Basilica di Superga, di rientro con il Grande Torino da un’amichevole contro il Benfica, organizzata dallo stesso Mazzola per l’addio al calcio dell’amico Francisco Ferreira, capitano della Nazionale portoghese. Dopo la sua morte, i figli Sandro e Ferruccio andarono con la mamma a Milano e furono tesserati per l’Inter. Sandro in nerazzurro divenne un grandissimo campione, Ferruccio fece una carriera discreta: dopo l’Inter, il Venezia di papà, la Fiorentina e la Lazio.
Valentino Mazzola, leader visionario di un grande sogno collettivo. Cento anni fa, il 26 gennaio, nasceva il giocatore-squadra del Grande Torino. Per Boniperti è stato il più grande di tutti. Morì a Superga con i suoi compagni, scrive Aldo Grasso il 24 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Il 26 gennaio non è una data come le altre per i tifosi del Toro. Cent’anni fa, 1919, nasceva a Cassano d’Adda Valentino Mazzola. Un nome entrato per meriti nell’Olimpo del calcio e poi divenuto leggenda in seguito alla tragedia di Superga, che il 4 maggio 1949 strappò al mondo intero il Grande Torino. Un avversario come Giampiero Boniperti ha sempre detto che tutte le volte che gli è capitato di immaginare il giocatore più utile a una squadra, il giocatore-squadra, non ha mai pensato a Pelé, a Di Stefano, a Cruijff, a Platini, a Maradona. Ha pensato anche a loro, ma dopo Valentino Mazzola. Era un calciatore dotato di una incredibile completezza a livello di tecnica individuale, stacco di testa poderoso, vero e proprio direttore d’orchestra in campo. Giocava interno sinistro, il numero 10, esempio della mezzala perfetta, interprete ideale dell’allora schema di gioco del Torino, il sistema, inventato da Borel e Roberto Copernico dirigenti dell’area tecnica. Valentino era un vero e proprio leader, un punto di riferimento per i compagni in campo e fuori dal rettangolo verde. Quando Oreste Bolmida, il mitico trombettiere del Filadelfia, suonava la carica, lui si rimboccava le maniche e non ce n’era più per nessuno. Partiva il mitico «quarto d’ora granata» durante il quale il Grande Torino annientava gli avversari. Come ha scritto Franco Ossola, il figlio dell’ala sinistra degli Invincibili, «Temprato da una fanciullezza e da una adolescenza severe, Valentino era cresciuto a latte e gallette, a zoccoli di legno, a scarpinate infinite o, quando andava bene, a lunghe, estenuanti galoppate in bicicletta... Valentino era per tutti il “tulèn”, ossia tolla, latta, per quel suo innato istinto a prendere a calci tutto quello che capitava a tiro dei suoi piedi». È stato il leader visionario di un grande sogno collettivo.
70 anni dalla tragedia di Superga. Nel pomeriggio del 4 maggio 1949, durante il viaggio di ritorno da Lisbona, in condizioni di scarsa visibilità per una nebbia fitta, l’aereo Fiat G.212 che trasportava la squadra del Grande Torino, i dirigenti e i giornalisti si schiantò alle ore 17:05 contro il muro della Basilica di Superga, provocando la morte istantanea di tutte le trentuno persone a bordo. Con il nome Grande Torino, benché si identifichi comunemente la squadra che perì nella sciagura, si usa definire l’intero ciclo sportivo, durato otto anni, che ha portato alla conquista di cinque scudetti consecutivi e di una Coppa Italia. L’aereo stava riportando a casa la squadra da Lisbona, dove aveva disputato un incontro amichevole contro il Benfica, organizzata per aiutare, con l’incasso, il capitano della squadra lusitana Francisco Ferreira, in difficoltà economiche. Nell’incidente morirono oltre ai giocatori tra i quali Valentino Mazzola, il portiere Valerio Bacigalupo, Guglielmo Gabetto, Romeo Menti, Ezio Loik, anche i dirigenti della squadra e gli accompagnatori, l’equipaggio e tre noti giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport); Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo, padre di Giorgio Tosatti) e Luigi Cavallero (La Nuova Stampa). Il compito di identificare le salme fu affidato all’ex commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, che aveva trapiantato quasi tutto il Torino in Nazionale. I funerali, a cui parteciparono oltre mezzo milione di persone, si tennero il 6 maggio; le salme furono portate a Palazzo Madama, da dove partì il corteo, proseguito fino al Duomo.Lo stesso giorno la FIGC proclamò il Torino campione d’Italia, a quattro giornate dal termine, approvando la proposta di Inter, Milan e Juventus.
120 anni dalla nascita di Ernest Hemingway. Scrittore statunitense (nato a Oak Park, Illinois, 21 luglio 1899 – morto a Sun Valley, Idaho, 2 luglio 1961) Ernest Hemingway tra i più celebri del Novecento, tema ricorrente di tutta la sua opera è la sfida alla morte, carattere distintivo anche di un percorso di vita singolare, conclusosi con il suicidio. Hemingway inaugurò quella narrativa sconcertante (hard-boiled) che ha avuto tanti seguaci e imitatori. Autore del più importante romanzo sulla prima guerra mondiale, «Addio alle armi» (1929), tra le sue opere principali occorre citare anche «Per chi suona la campana» (1940) e «Il vecchio e il mare» (1952) che lo porterà a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1954. A soli 30 anni venne travolto da un successo inatteso e d’improvviso si trovò al centro della scena culturale del primo dopoguerra, schiacciato tra chi lo vedeva come il più grande romanziere del ‘900 e chi non attendeva altro che un suo passo falso. Alla fama, alla ricchezza, agli encomi come alle critiche, ai trionfi come alle cadute, Hemingway opporrà la sua inarrestabile vitalità, tra fiumi di alcol, quattro matrimoni, leggendarie battute di pesca e caccia, corride, safari, un’altra guerra — quella civile spagnola — altri libri, racconti, articoli giornalistici e infine un premio Nobel. Ma il giovane leone di un tempo, perennemente pronto a sfidare la morte, non sarà neppure in grado di ritirare il prestigioso premio, complici le gravi ferite riportate in un incidente aereo, gli effetti dell’epatite e di uno stile di vita senza controllo. Sarà l’ambasciatore statunitense a Stoccolma John Cabot a ritirare il premio per lui e a leggere il discorso che Hemingway ha preparato: «Scrivere - leggerà Cabot - è un mestiere difficile, da compiersi in solitudine, una ricerca di sé da compiersi al cospetto dell’eternità. Quando uno scrittore diventa famoso, la sua presenza è richiesta in ogni luogo, e spesso, proprio per questo, il suo lavoro si deteriora». Il consiglio, quindi, è uno solo: «La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria». Ernest Hemingway, il 2 luglio 1961, prese il suo fucile e si tolse la vita.
70 anni dalla nascita di John Belushi. John Belushi (Chicago, 24 gennaio 1949 – Los Angeles, 5 marzo 1982) è stato un attore, cantante e comico statunitense di origine albanese. Considerato all’epoca del suo debutto al Saturday Night Live come uno dei maggiori talenti comici statunitensi, è rimasto celebre soprattutto per i due film (ne girò in totale solamente otto prima della prematura scomparsa) diretti da John Landis, Animal House (1978) e soprattutto The Blues Brothers (1980), nel quale recita accanto al grande amico Dan Aykroyd. Belushi morì il 5 marzo 1982 a Hollywood, California, dopo un’intossicazione dovuta a una miscela di cocaina ed eroina (speedball) all’età di 33 anni. Era il fratello maggiore di Jim Belushi. La sua biografia più nota l’ha scritta il giornalista Bob Woodward - lo stesso che insieme a Carl Bernstein rivelò lo scandalo Watergate -, si intitola «Chi tocca muore» ed è stata pubblicata in Italia da Sperling&Kupfer.
110 anni dalla nascita di Rita Levi Montalcini. Rita Levi Montalcini è stata una delle più grandi scienziate italiane del XX secolo: nasce il 22 aprile 1909 a Torino, insieme a sua sorella gemella Paola. Si laurea in medicina all’Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Torino con il Prof. Giuseppe Levi. Sin dai primi anni dell’università si dedica allo studio del sistema nervoso. Nel 1938 la proclamazione delle leggi razziali le vieta di continuare i propri studi all’università. Questo non le impedisce di continuare i propri studi sui meccanismi della differenziazione del sistema nervoso prima in Belgio e poi di nuovo a Torino nel 1940, in un piccolo laboratorio privato. Durante l’occupazione tedesca, lei e la sua famiglia trascorrono un periodo a Firenze per nascondersi dai nazisti, ma rimanendo in costante contatto con i dirigenti del Partito d’Azione. Su invito del Prof. Viktor Hamburger nel 1947 si trasferisce negli Stati Uniti alla Washington University di St Louis nel Missouri, per continuare le ricerche iniziate a Torino e per insegnare neurobiologia. Nel 1952 si reca in Brasile per continuare i propri esperimenti di cultura in vitro, presso l’Istituto di Biofisica dell’Università di Rio de Janeiro, ospite del direttore Prof. Carlo Chagas. Gli esperimenti effettuati in Brasile nel dicembre 1952 portano all’identificazione del fattore di crescita delle cellule nervose (Nerve Growth Factor, acronimo NGF). In seguito al suo ritorno a St. Louis nell’inverno 1953, viene affiancata nella ricerca dal giovane biochimico Stanley Cohen. Insieme, usando il sistema in vitro ideato da Rita Levi Montalcini, effettuano la prima caratterizzazione biochimica del fattore di crescita. Questo lavoro viene premiato con il premio Nobel per la Medicina nel 1986. Nel 1969 si stabilisce definitivamente in Italia per assumere la direzione dell’Istituto di Biologia Cellulare del CNR a Roma. Dal 1983 al 1998 ha diretto l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, inoltre è stata membro delle più prestigiose accademie scientifiche, come l´Accademia Nazionale dei Lincei, l´Accademia Pontificia, l´Accademia delle Scienze, the National Academy of Sciences negli USA e la Royal Society. La Fondazione Rita Levi-Montalcini Onlus, finanzia borse di studio a sostegno dell’istruzione di donne africane. Nel 2001 è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel 2002 ha fondato l’EBRI, un istituto di ricerca scientifica sulle funzionalità del cervello, con sede a Roma, di cui è stata Presidente fino alla sua scomparsa, avvenuta il 30 dicembre 2012, all’età di 103 anni.
30 anni dalla morte di Bruce Chatwin. Scrittore britannico autore di racconti di viaggio e romanzi, Bruce Chatwin nacque a Sheffield il 13 maggio 1940 e morì a Nizza, 18 gennaio 1989. Lavorò per la casa d’aste Sotheby (1959-66); abbandonato il lavoro in seguito a una malattia agli occhi, intraprese gli studi di archeologia all’Università di Edimburgo. Divenuto corrispondente del Sunday Times Magazine (1973-76), viaggiò in tutto il mondo, rivelando una facilità e felicità di scrittura in virtù delle quali restituì vitalità a un genere apparentemente consunto come la letteratura di viaggio. Da un viaggio in Patagonia (1974) nacque il primo dei suoi libri, In Patagonia (1977; trad. it. 1982), romanzo, saggio filosofico e resoconto di viaggio insieme, che gli dette enorme popolarità. Seguirono due libri d’impianto più romanzesco: Il viceré di Ouidah, sorta di biografia romanzata di un mercante di schiavi brasiliano, da cui W. Herzog trasse il film Cobra verde (1987), e On the black hill (1982; trad.it. 1986), storia di due gemelli che vivono completamente avulsi dal mondo esterno in una fattoria del Galles. Postumi sono apparsi il suo libro a carattere più autobiografico, Che ci faccio qui? e il volume in cui sono stati pubblicati i materiali (fotografie, schizzi, appunti) relativi al suo viaggio in Afghānistān: Bruce Chatwin: viaggio in Afghanistan.
60 anni fa il Premio Strega al Gattopardo. Nel 1959, 60 anni fa, gli Amici della Domenica assegnarono il Premio Strega a Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al suo romanzo «Il gattopardo». Un riconoscimento postumo, il primo nella storia del Premio, visto che l’autore era morto due anni prima. M anche la pubblicazione del romanzo era avvenuta dopo la sua scomparsa: era stato Giorgio Bassani a convincere Feltrinelli a pubblicare quello che sarebbe diventato un clamoroso successo editoriale, dopo che Einaudi e soprattutto Mondadori col parere decisivo di Elio Vittorini, avevano rifiutato il manoscritto. Fu un edizione molto dibattuta del Premio Strega, col romanzo che si impose con 135 voti su «La casa della vita» di Mario Praz (Mondadori) che ne raccolse 98 e soprattutto «Una vita violenta» di Pier Paolo Pasolini (Garzanti) che si fermò a 70. Il Premio venne ritirato da Giangiacomo Feltrinelli e il libro divenne il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Per il suo romanzo l’autore aveva tratto ispirazione da vicende storiche della sua famiglia, i Tomasi di Lampedusa, e in particolare dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi (nell’opera il principe Fabrizio Salina), vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Nel 1963, sei anni dopo la morte di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e quattro dopo il Premio Strega a Il Gattopardo, uscirà il celebre e omonimo film di Luchino Visconti, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Serge Reggiani, Romolo Valli, Rina Morelli, Mario Girotti e da una giovanissima Ottavia Piccolo, pellicola destinata a dare risonanza mondiale al libro. Dopo la vittoria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il Premio Strega è stato assegnato postumo solo altre due volte: nel 1986 quando fu conferito a Maria Bellonci, ideatrice col marito dello stesso premio e che era scomparsa da poche settimane, per il libro «Rinascimento privato» (Mondadori), biografia romanzata di Isabella d’Este. L’ultima volta è successo nel 1995, quando è stato assegnato a Maria Teresa Di Lascia, scomparsa l’anno precedente, per il romanzo «Passaggio in ombra» (Feltrinelli). Quell’anno vennero battuti scrittori come Luigi Malerba e Luca Canali. Andrea Camilleri, candidato con «Il birraio di Preston» non entrò neanche nella cinquina finale.
I 37 anni di Blade Runner, ambientato oggi. Blade Runner è un film di fantascienza del 1982, diretto da Ridley Scott e interpretato da Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Edward James Olmos e Daryl Hannah. La sceneggiatura, scritta da Hampton Fancher e David Webb Peoples, è liberamente ispirata al romanzo del 1968 Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick. Il film è ambientato proprio nel 2019 in una Los Angeles spaventosa dove androidi replicanti del tutto simili agli umani vengono costruiti e usati come forza lavoro nelle colonie extraterrestri. I replicanti che cercano di fuggire vengono inseguiti e distrutti da agenti speciali chiamati “blade runner”. Nel film un gruppo di replicanti sono evasi e si nascondono a Los Angeles dove vengono cercati dal poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford). Il film è considerato uno dei capolavori della fantascienza e ha il merito di aver fatto conoscere Philip K. Dick al grande pubblico. L’opera è stata molto tormentata e ne sono state distribuite ben sette versioni, l’ultima nel 2007 col titolo «The final cut». La battuta finale del replicante Roy Batty (Rutger Hauer) prima di morire è probabilmente una delle più famose della storia del cinema: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».
50 anni dallo sbarco del primo uomo sulla Luna. Il 20 luglio 1969 una navicella spaziale con equipaggio a bordo arrivò sulla Luna. Fu l’astronauta statunitense Neil Armstrong il primo uomo a mettere piede sul suolo lunare. Armstrong faceva parte dell’equipaggio della missione Apollo 11, insieme a Buzz Aldrin che lo accompagnò nell’esplorazione del terreno lunare, mentre Michael Collins rimase in orbita lunare, pilotando il modulo di Comando a bordo del quale i tre astronauti ritornarono sulla terra. L’allunaggio del Lem, il modulo su cui si trovavano Armstrong e Aldrin, toccò il suolo alle 20.18 (UTC, tempo universale su cui vengono calcolati i fusi orari, in Italia erano le 22.18). Neil Armstrong scese sei ore dopo, toccando il suolo il 21 luglio alle 02.57 (le 4.57 in Italia), pronunciando una delle frasi più famose della storia: «Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per tutta l’umanità». Aldrin lo seguì subito dopo. Armstrong trascorse due ore e mezza al di fuori della navicella, Aldrin poco meno. Insieme raccolsero 21,5 kg di rocce e materiale lunare che riportarono a Terra. La prima passeggiata lunare fu trasmessa in diretta tv e fu il primo evento televisivo mondiale. Tra il 20 e il 21 luglio 1969 la Rai realizzò 25 ore di diretta dallo studio 3 di via Teulada, condotta da Tito Stagno, Andrea Barbato, Piero Forcella e, in collegamento da Houston, Ruggero Orlando. Aldo Falivena coordinava la regia. L’Apollo 11, quinta missione con equipaggio del programma Apollo della NASA, era partito dal Kennedy Space Center, il 16 luglio e la missione si sarebbe conclusa il 24 luglio con l’ammaraggio del modulo di Comando nell’Oceano Pacifico. Il programma spaziale statunitense, articolato in 17 missioni più alcuni lanci preparatori e realizzato dalla NASA tra il 1961 e il 1972, ha portato alla circumnavigazione della Luna e per sei volte alla discesa dell’uomo sul suolo lunare. La fase culminante del programma, il cui costo complessivo è stato di circa 25 miliardi di dollari, è consistita nell’invio sulla Luna di alcuni veicoli spaziali essi stessi denominati Apollo con equipaggio costituito da 3 astronauti. Nel 1966 si svolsero i primi 3 lanci ufficiali del programma, effettuati senza equipaggio. Il 27 gennaio 1967, durante una prova di addestramento a terra, morirono i 3 astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee per un improvviso incendio scoppiato a bordo della capsula spaziale. Durante le 3 successive missioni (1967-68) furono effettuate ulteriori prove di funzionalità, volte principalmente alla verifica dei sistemi di sicurezza. Nell’ottobre 1968 fu lanciato Apollo 7, il primo con equipaggio. Nel dicembre 1968 l’Apollo 8 compì dieci giri intorno al satellite; l’Apollo 9 (marzo 1969) tentò per la prima volta, nel corso di 151 orbite terrestri, lo sganciamento, l’avvicinamento e il riaggancio del modulo lunare LEM; l’Apollo 10 (maggio 1969) effettuò una prova generale di allunaggio, durante la quale gli astronauti Thomas Stafford e Eugene Cernan scesero, sul modulo LEM, fino a 16 km dalla superficie lunare. Con quest’ultima missione il progetto Apollo era pronto per portare l’uomo sulla Luna. Il 16 luglio 1969 l’Apollo 11, con a bordo gli astronauti Edwin Aldrin, Neil Armstrong e Michael Collins, iniziò il suo volo. Dopo l’entrata nell’orbita lunare, Aldrin e Armstrong si trasferirono nel LEM, mentre Collins rimase a bordo della navicella come pilota; il 20 luglio il LEM toccò la superficie lunare, nei pressi del Mare della Tranquillità. Nel novembre 1969 fu lanciato l’Apollo 12 che portò sulla Luna gli astronauti Charles Conrad e Alan Bean. L’Apollo 13, partito nell’aprile 1970, fallì la sua missione per una grave avaria durante il volo, che costrinse gli astronauti a cancellare il piano di allunaggio. La missione fallita di Apollo 13 fu portata a termine, dopo alcune modifiche, da Apollo 14, lanciato nel gennaio 1971 con a bordo Alan Shepard ed Edgar Mitchell che allunarono nell’irregolare regione di Fra Mauro, esplorandola per oltre nove ore e raccogliendo circa 43 kg di campioni. L’Apollo 15 fu lanciato nel luglio 1971 e David Scott e James Irwin rimasero sulla Luna per 2 giorni e 18 ore, percorrendo più di 28 km nella zona del Monte Hadley con l’aiuto di un rover elettrico a quattro ruote. Prima di lasciare l’orbita lunare, l’equipaggio lanciò un subsatellite progettato per trasmettere dati sui campi gravitazionale, magnetico e di alta energia dell’ambiente lunare. Nell’aprile 1972 gli astronauti John Young e Charles Duke, portati da Apollo 16, esplorarono la pianura di Cartesio. Il programma si concluse con il volo dell’Apollo 17, compiuto nel dicembre 1972, nel corso del quale allunarono nella regione della valle di Taurus-Littrow l’astronauta Eugene Cernan e il geologo Harrison Schmitt.
Dodici dicembre 1969. Quando la lotta politica si faceva anche usando la dinamite…, scrive Piero Sansonetti il 13 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Il dodici dicembre di 49 anni fa, nel pomeriggio, alle quattro e mezza, scoppiò una bomba potentissima alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, cioè nel centro di Milano. Morirono sul colpo 13 persone, a sera morì un’altra persona, nei giorni successivi altre tre. Un anarchico innocente, Pino Pinelli, fu fermato, interrogato e poi, probabilmente, buttato dalla finestra del quarto piano della questura: fu la diciottesima vittima. Altri tre o quattro anarchici, altrettanto innocenti, furono sbattuti in galera e tenuti lì per tre anni. Poi scarcerati. Poi assolti. Uno di loro ha un nome abbastanza famoso: Pietro Valpreda. Per mesi fu indicato come il mostro. Molti giornali lo chiamavano proprio così: mostro. Era un ballerino del gruppo di Don Lurio, aveva 36 anni, fu intrappolato. Chi aveva messo davvero la bomba? Una verità giudiziaria non c’è. Si sa che i servizi segreti ebbero un ruolo decisivo e che agirono con l’appoggio di alcuni gruppi dell’estrema destra fascista. Quando si capì che gli anarchici non c’entravano nulla, la strage prese il nome, anche sui giornali, di “strage di Stato”. Vari servizi giornalistici dimostrano che gli studenti universitari di oggi, in grande maggioranza, non sanno nulla di quella strage. Molti la ignorano del tutto, qualcuno la attribuisce alle Brigate Rosse (che all’epoca ancora non esistevano). Eppure il 12 dicembre del 1969 fu un tornante della vita politica della repubblica italiana. La strage di piazza Fontana ebbe un peso politico, e un significato politico, assai superiore a quello di altre stragi, molto famose e con moltissimi morti. Per esempio la strage siciliana di Portella della Ginestra (1947) o quella della stazione di Bologna (1980, con oltre ottanta morti). Perché Piazza Fontana è così importante? Per una ragione molto semplice: è l’esempio più limpido di uso del terrorismo nella lotta politica. La bomba scoppia nel cuore dell’autunno caldo. Il 1968 aveva impresso una formidabile spinta alla politica italiana. Verso la modernità, e anche verso sinistra. Nell’autunno del 1969 in tutte le fabbriche italiane la conflittualità era giunta all’apice, e la giovane classe operaia del nord (in gran parte di origini meridionali) stava mutando radicalmente i rapporti di forza tra lavoratori e impresa. Nello stesso periodo il Parlamento stava varando riforme che cambiarono molte cose nel funzionamento della società. Una riforma della scuola che apriva l’accesso all’Università a tutti, imprimendo un colpo mortale alla scuola di classe, una legge che aboliva il reato di adulterio (esisteva ancora), una legge che permetteva il divorzio, e – proprio il giorno prima della strage – lo Statuto dei lavoratori, che limitava moltissimo il potere di quello che allora si chiamava “padronato”. Tra novembre e dicembre in Italia c’erano state manifestazioni oceaniche. Tra le quali quella del 19 novembre, quando a Milano fu ucciso, durante gli scontri, un agente di polizia, Antonio Annarumma. E poi dieci giorni dopo la gigantesca marcia, a Roma, dei metalmeccanici, che durò ore e ore e che fu conclusa dal comizio unitario dei tre capi dei sindacati metallurgici: Trentin, Benvenuto e Macario. Anche nelle università la tensione era alta. Le classi dirigenti erano indecise tra la linea della mediazione, della concessione, e quella dell’intransigenza e della reazione. Il capo del governo era un democristiano pacioso e di non grande carisma: Mariano Rumor, un veneto. Dietro di lui incrociavano le armi una Dc che guardava a sinistra, guidata in parte da Moro e in parte dal ministro del lavoro, Donat Cattin, e una Dc che voleva tornare a destra, guidata soprattutto da Fanfani, che pure dieci anni prima era stato il padre della svolta a sinistra. In questo clima, una parte dell’establishment decise che occorreva un segnale forte. E il segnale furono le bombe. Non sapremo mai chi ispirò quella strategia che fu chiamata la strategia della tensione – chi la realizzò, chi la assecondò, chi fu complice. Ma è assolutamente certo che fu una strategia. E’ impensabile che sia stato soltanto un atto di ribellione di estrema destra. La bomba di piazza Fontana, e poi le altre bombe che ci accompagnarono fino al 1984 (quindici anni) erano espressione pura e semplice di lotta politica. Ed ebbero l’effetto politico di fermare la spinta riformista del 68- 69. Ed ebbero l’effetto politico di rovesciare i rapporti di forza tra sinistra e destra all’interno della Dc. Così come era espressione di lotta politica la lotta armata (Br e Prima Linea) che coinvolse una parte della sinistra radicale a partire dal 1972, e così come era lotta politica quella combattuta in Sicilia, e anche in Calabria, dalla mafia. Con gli attentati, le uccisioni: Mattarella, La Torre, Costa, Chinnici, Terranova eccetera eccetera, fino a Falcone e Borsellino Dico per questo che il 12 dicembre del 1969 è una data da scolpire. Oggi per noi è molto difficile immaginare che la lotta politica possa essere fatta con la dinamite. Allora era così. Tutti i partiti politici avevano nel loro Dna una riserva di violenza. Tutti. Dall’estrema destra, che per una lunga fase si appoggiò anche ai servizi segreti, all’estrema sinistra, passando per la Dc e per il Pci. Lo dico da giovane testimone di quell’epoca. Quando per noi che in qualche modo eravamo coinvolti nella politica, o anche semplicemente nel giornalismo, era una abitudine usare molta prudenza, la sera, rientrando a casa, per accertarci che nessuno stesse lì ad aspettarti sotto il portone. E l’omicidio, la morte, la violenza selvaggia dell’aggressione, erano variabili impossibili da cancellare.
Ma lo dico soprattutto per osservare come le cose siano cambiate. Io non sopporto, per esempio, la volgarità e la carica di odio che accompagna, oggi, la lotta politica. Però poi ogni tanto penso a ieri: non era odio, quello, era dinamite. Allora mi consolo: meglio oggi.
· 11 settembre 2001: voci e storie del giorno più lungo.
11 settembre. Per non dimenticare...Il Corriere del Giorno l'11 Settembre 2019. L’America omaggia i vigili del fuoco, i poliziotti, i soccorritori e i comuni cittadini morti a causa degli attacchi al World Trade Center. I nomi delle 2.974 persone, esclusi quelli dei dirottatori, sono scolpiti sulle fontane a Ground Zero. ROMA – Le Twin Towers, diciotto anni dopo. Oggi New York ancora una volta ricorda l’11 settembre 2001 con la commemorazione dei quasi tremila caduti negli attacchi alle Torri Gemelle. L’America omaggia i vigili del fuoco, i poliziotti, i soccorritori e i comuni cittadini morti a causa degli attacchi al World Trade Center. I nomi delle 2.974 persone, esclusi quelli dei dirottatori, sono scolpiti sulle fontane a Ground Zero. Quest’anno nella cerimonia di commemorazione dell’11 settembre, che inizierà alle 8.25 ora di New York (le 14. 25 in Italia), durante la lettura dei nomi , sei monoliti verranno dedicati a tutti coloro che sono morti a causa dell’esposizione alle sostanze tossiche delle macerie di Ground Zero. I monoliti non hanno i loro nomi incisi ma solo una scritta: “A coloro le cui azioni nei tempi di bisogno portarono a malattie, ferite e morti”. La lettura dei loro nomi verrà interrotta da quattro momenti di silenzio. Due per i momenti in cui gli aerei hanno colpito le Torri Gemelle e due per quelli in cui gli edifici sono crollati. Anche quest’anno è previsto il Tribute in Light: due fasci di luce saranno proiettati verso il cielo dalla forma delle Twin Towers. Le luci si accenderanno al tramonto dell’11 settembre e si spegneranno all’alba del 12. Oltre 51mila persone hanno fatto sinora richiesta al fondo di indennizzo per le vittime (Vcf), che ha l’obiettivo di risarcire per le malattie e le morti legate all’11 settembre. In totale sono stati distribuiti circa cinque miliardi e mezzo di dollari. Il fondo è stato creato nel 2001 ed ha operato fino al 2004. Dopo diversi tentativi di introdurre leggi a favore dei soccorritori dell’attentato, nel 2011 l’allora presidente Barack Obama firmò il James Zadroga 9/11 Health and Compensation Act per riattivare il Vcf. Successivamente nel 2015 è sempre Obama a firmare un provvedimento per assicurare i fondi fino al 2020. Quest’estate il fondo ha rischiato di estinguersi con l’esaurirsi delle risorse. Ma, dopo la battaglia da parte del comico Jon Stewart, lo scorso 29 luglio il presidente Donald Trump ha firmato la legge “The Never Forget the Heroes” che estende i fondi a disposizione del Vcf fino al 2090, stanziando oltre dieci miliardi di dollari. In buona sostanza, viene assicurata assistenza ai soccorritori ancora in vita.
Torri Gemelle: bimba nasce il 9/11 alle 9.11 e pesa 9,11 libbre. Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 da Corriere.it. Quando le è stato comunicato, Cametrione Malone-Brown è rimasta sbalordita. Non riusciva a credere all’incredibile coincidenza. Che la sua piccola Christina sarebbe nata l’11 settembre - l’anniversario delle Torri Gemelle -, lo sapeva da giorni: il parto cesareo era fissato per le 8.55 di mercoledì sera all’ospedale metodista di Germantown, in Tennessee. Non poteva immaginare, invece, è che la nuova arrivata sarebbe venuta alla luce esattamente alle 9.11 e che il suo peso sarebbe stato di 9,11 libbre (poco più di 4 chili). Così, essendo nelle date anglosassoni il giorno preceduto dal mese, il quadro si è completato: la bimba è nata il 9/11 alle 9.11 di sera e pesava 9,11 libbre. «Lavoro in questo settore da trentacinque anni - ha detto la capo reparto che ha seguito l’operazione - e mai mi era capitato che le cifre della data, dell’ora e del peso del nascituro coincidessero perfettamente». Trattandosi per giunta dell’11 settembre, era inevitabile che la notizia facesse presto il giro degli States. «Il dottore ha annunciato la nascita di mia figlia alle 9.11 - ha raccontato il padre Justin -. Poi, quando l’hanno pesata, abbiamo sentito dei sussulti di stupore: tutti avevano realizzato quel che era successo». Così invece la madre: «Diciotto anni dopo quell’11 settembre, trovi il trionfo; un pezzo di gioia in un giorno che fu così drammatico, e fa soffrire ancora. È una nuova vita tra la devastazione e la distruzione».
C’erano una volta le Torri gemelle. Orlando Sacchelli l'11 Settembre 2019 su Il Giornale. Nel giorno in cui si celebra il diciottesimo anniversario della strage dell’11 Settembre, mi piace ricordare un’altra data, il 4 aprile 1973, quando le due Torri Gemelle furono inaugurate. Quattrocentoquindici metri di altezza, superarono l’Empire State Building (381 metri), svettando sui cieli di Manhattan dall’alto dei loro centodieci piani. La prima pietra del cantiere del World Trade Center fu posta il 5 agosto 1966, anche se la costruzione vera e propria della prima torre (la Nord) partì nel 1968, e un anno dopo fu iniziata anche la Torre Sud. L’idea di tirare su questi due imponenti grattacieli l’aveva avuta il miliardario David Rockfeller nel 1960, con un progetto il cui costo ammontava, all’epoca, a oltre 330 milioni di dollari, coperti quasi tutti dall’ autorità portuale di New York e del New Jersey, ente pubblico che gestiva ponti, gallerie e aeroporti di New York e del New Jersey settentrionale. Centro degli affari finanziari e commerciali, il World Trade Center era il simbolo del potere economico degli Stati Uniti e, al contempo, del capitalismo americano. In un normale giorno feriale il Wtc (che comprendeva in tutto sette palazzi, comprese le due torri) ospitava circa 50mila lavoratori, a cui si devono sommare i visitatori giornalieri (ogni settimana circa 200mila persone). Ciascuna torre disponeva di 72 ascensori. A progettare le due torri fu il famoso architetto statunitense di origine giapponese Minoru Yamasaki (1912-1986), considerato un maestro del “nuovo formalismo”, coadiuvato da circa ottanta collaboratori e dagli studi dell’ingegnere Leslie E. Robertson. L’architetto prese in esame decine e decine di modelli, scartando l’idea di realizzare un’unica torre, considerata troppo ingombrante, ma anche quella di fare diverse torri, per non correre il rischio di progettare un complesso simile a quelli di edilizia residenziale. Prevalse l’idea di due torri, una accanto all’altra, della stessa altezza. “Il World Trade Center sarà la rappresentazione vivente della fede dell’uomo nell’umanità – disse Yamasaki – del suo bisogno di dignità individuale, della sua fede nella cooperazione di uomini e, tramite questa cooperazione, della sua abilità a trovare la grandezza”. Presto le Torri Gemelle entrarono a far parte dello skyline di New York, conosciute in tutto il mondo grazie a decine di film che le immortalarono sullo sfondo. Dominarono il cielo di Manhattan per 28 anni, fino a quel maledetto 11 Settembre del 2001. Il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si schiantò alle 8.46, il secondo alle 9.03. La Torre Sud crollò alle 9.59, la Nord alle 10.28.
Lo speciale 11 settembre: voci e storie del giorno più lungo. Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Corriere.it. Sono passati 18 anni dal giorno più lungo della storia degli Stati Uniti: l’11 settembre 2001. Della data che ha cambiato l’Occidente sono rimaste soprattutto le immagini. Gli aerei che entrano nelle Torri, i corpi che si lanciano nel vuoto, il Pentagono in fiamme. Sul numero di 7 in edicola domani con il Corriere si ricorda l’attentato alle Torri Gemelle attraverso le voci di chi lo ha vissuto. Gli impiegati del World Trade Center, i soccorritori, i controllori di volo e i consiglieri dell’allora presidente George W. Bush. Le ha raccolte il giornalista Garret M. Graff nel libro The Only Plane in the Sky. Sul magazine ne sono pubblicati alcuni stralci. Il Capitano Jay Jonas, vigile del fuoco, ripercorre gli inizi di quella che sembrava una mattinata perfetta «come se l’aria fosse stata tirata a lucido». Poi gli schianti dei voli American Airlines 11 e United Airlines 175 dentro i grattacieli, il silenzio improvviso e la sensazione «che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno, ma affrontammo il nostro dovere». Juana Lomi, paramedico del New York Beekam Downtown Hospital si trovò a dire ai collaboratori: «Tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, fratture vanno caricati in ambulanza. Gli altri dovranno correre, usare le gambe o quel che vogliono». Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del Volo United Airlines 93, precipitato a Shanksville, rievoca l’ultima telefonata con il marito: «Dissi che avrei pregato per lui, che lo amavo. Tom ripetè di non preoccuparmi. Non mi ha mai richiamato». Graff, intervistato da Marilisa Palumbo, spiega di aver trovato oltre 5mila testimonianze e di averne messe su carta 480. «Il mio scopo — dice — non era raccontare i fatti, perché in tanti lo hanno già fatto. Il mio obiettivo era scrivere un libro che facesse riaffiorare le emozioni di quel giorno, di chi c’era. Perché tutti, non solo negli Stati Uniti, ricordiamo esattamente dove eravamo quando è successo, ma quello che non sappiamo è cosa ha significato vivere al centro della tragedia». La memoria e il presente, la ricostruzione dopo il dramma. Il nuovo Ground Zero è firmato Daniel Libeskind, il grande architetto polacco che oggi terrà una lectio magistralis a Pescara per l’ Ethic Award, assegnatogli dall’ Oscar Pomilio Blumm Forum. Nell’incontro con Alessandro Cannavò, l’autore della Freedom Tower dice di aver «sconfitto il male con la luce». Un reportage fotografico dalla Groenlandia di Fernando Moleres chiude la sezione rossa, dedicata all’attualità. Michela Mantovan spiega perché l’isola più grande del mondo è al centro di una disputa tra Danimarca e Stati Uniti. Nella parte blu, un’intervista di Raphael Abraham ad Antonio Banderas. L'attore spagnolo racconta la sua vita e il suo ritorno al cinema con Almodóvar dopo l’infarto: «Mi ha lasciato qualcosa che prima non c'era».
L'11 settembre raccontato da chi c'era: gli ultimi «Ti amo» e i corpi infuocati. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. Centodue minuti è durato il giorno più lungo del nostro secolo. Sono le 8 e 46 dell’11 settembre 2001 a Manhattan quando il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si abbatte contro la torre Nord del World Trade Center; alle 9 e 03 il secondo aereo entra nella torre Sud; alle 9 e 37 un terzo aereo colpisce il Pentagono; la torre Sud collassa su se stessa alle 9 e 59; alle 10 e 03 il volo United 93 si schianta a Shanksville, Pennsylvania, mentre i passeggeri cercano di riprenderne il controllo; alle 10 e 28 crolla in una nuvola che avvolge tutta Manhattan anche la torre Nord. Duemilaseicentosei persone muoiono dentro quello che verrà ribattezzato Ground Zero; centoventicinque al Pentagono; duecentosei sugli aerei American Airlines Flight 77, United Airlines Flight 175, American Airlines Flight 11, le cui sigle verranno per sempre ritirate dai cieli; quaranta a Shanksville. Seimila persone restano ferite. Tremila bambini perdono un genitore; cento, nati nei mesi successivi, non conosceranno mai il loro papà. Di quella giornata portiamo dentro decine di immagini: gli aerei che spariscono nelle torri, i newyorchesi ricoperti di una spessa coltre di polvere bianca, i pompieri, le macerie, le bandiere. Diciotto anni dopo, vogliamo dare spazio invece alle voci, alle parole senza filtro di chi era lì, minuto per minuto: i soccorritori, i controllori di volo, i militari, gli impiegati delle torri, i consiglieri del presidente George W. Bush sull’Air Force One, gli uomini e le donne le cui speranze si sono infrante davanti alle ultime frasi della persona amata giunte da un aereo o dai grattacieli in fiamme. I testi che seguono, sono tratti dal libro «The Only Plane in The Sky» dello scrittore Garrett M. Graff (in uscita negli Usa il 10 settembre). La traduzione è dello studio Brindani. A New York, Marilisa Palumbo ha incontrato Graff: potete leggere l’intervista completa su 7 in edicola. «In tutto il mondo, l'11 settembre iniziò come qualsiasi altro giorno. Il Congresso si stava rianimando dopo la pausa estiva. (...). A Washington, D.C., il neodirettore dell’FBI Robert Mueller aveva assunto l’incarico solo una settimana prima, il 4 settembre, e si apprestava a tenere la sua prima riunione, prevista per le 8, dedicata alle indagini in corso su un gruppo terroristico noto con il nome di al-Qaeda e il bombardamento della USS Cole nell’autunno del 2000. (...) A New York era giorno di primarie, con i cittadini chiamati a decidere quali candidati si sarebbero fronteggiati per raccogliere il testimone dell’uomo che aveva governato la città per otto anni, Rudy Giuliani. Milioni di persone, lavoratori, studenti e pendolari, si erano svegliate e iniziavano a prepararsi per affrontare la giornata, affollando treni, traghetti, metropolitane e autobus per dirigersi verso Lower Manhattan».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47°piano: «Il cielo era così limpido. L’aria così frizzante. Era tutto perfetto».
Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, Dipartimento dei Vigili del Fuoco (FDNY): «Era come se l’aria fosse stata tirata a lucido».
Luogotenente Jim Daly, Dipartimento di Polizia della Contea di Arlington (Virginia): «Un blu meraviglioso».
Joyce Dunn, insegnante, Distretto scolastico di Shanksville-Stonycreek (Pennsylvania): «Un blu puro».
Brian Gunderson, capo di gabinetto di Richard Armey, leader di maggioranza alla Camera (R-Texas): «Un blu profondo» «Alle 8:46 del mattino, il volo American Airlines 11 romba in direzione sud nel cielo sopra Manhattan, attraversando l’isola in tutta la sua lunghezza e sorprendendo chi camminava per la strada, prima di schiantarsi contro la Torre Nord, conosciuta come World Trade Center 1, a circa 465 miglia orarie»
Anthony R. Whitaker, comandante in servizio al World Trade Center, Dipartimenti di Polizia Portuale (PAPD), Torre Nord, atrio a piano terra: «Con la coda dell’occhio ho visto due persone alla mia sinistra. Stavano andando a fuoco. Correvano verso di me e poi mi sono passati a fianco. Non emettevano alcun suono. Tutti i vestiti erano bruciati, e loro erano divorati dalle fiamme».
Harry Waizer, consulente fiscale della Cantor Fitzgerald, Torre Nord: «L’ascensore cominciò a cadere, incendiandosi. Sono stato colpito al volto da una palla di fuoco che era entrata dallo spazio tra le porte e la cabina dell’ascensore. Ho visto questa palla arancione arrivarmi in faccia e poi ho avuto la sensazione - non posso chiamarlo bruciore - che mi toccasse e poi è sparita».
Michael Lomonaco, executive chef presso Windows on the World nel complesso commerciale delle Torri: «Pensai, Dio mio, stiamo tutti lavorando. Cosa sta succedendo al 106? Poi mi dissi di stare calmo, che sarebbero scesi dalle scale antincendio. Avevo piena fiducia che tutti sarebbero riusciti a scendere».
David Kravette, broker di borsa della Cantor Fitzgerald, atrio a piano terra, Torre Nord: «Il fatto che io sia vivo è un puro caso del destino. Quel giorno tutti i miei colleghi su in ufficio hanno perso la vita. Erano intrappolati, non c'era modo di uscire».
«Alle 9:03, il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud, WTC 2, a circa 590 miglia orarie».
Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, FDNY, in attesa di ordini nel posto di comando dell’atrio al piano terra della Torre Nord: «Ero lì in piedi. Come si può immaginare c’era un gran chiasso, l’acustica nell’atrio del World Trade Center non era delle migliori, c’era molta eco. Poi, tutto d’un tratto, calò il silenzio. Uno dei vigili del fuoco della squadra speciale Rescue 1 guardò verso l’alto e sentenziò: “Potremmo non arrivare a domani”. Lo guardammo e poi, scambiandoci un’occhiata, ammettemmo che aveva ragione. Ci stringemmo la mano augurandoci buona fortuna e ripetendoci a vicenda “Spero di rivederti, dopo”. Per me è molto commovente perché eravamo tutti coscienti che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno ma affrontammo comunque il nostro dovere».
Juana Lomi, paramedico del New York Beekman Downtown Hospital: «In quel momento le cose si volsero al peggio. Dissi ai miei ragazzi: “Ascoltatemi bene, le persone per cui non potete fare un triage immediato, tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, gambe fratturate, qualsiasi problema alle gambe che non permetta di correre, vanno caricati in ambulanza. Tutti gli altri dovranno correre, dovranno usare le gambe o quel che vogliono».
Andy Card, capo di gabinetto della Casa Bianca: «Stavo recapitando un messaggio che nessun Presidente vorrebbe mai ricevere, lo sapevo. Avevo deciso di riportare due dati concreti e un commento. Non volevo intavolare una conversazione dato che il Presidente era davanti alla classe. L’insegnante chiese agli studenti di tirare fuori i libri, così colsi l’attimo e gli dissi all’orecchio: “Un secondo aereo ha colpito un’altra torre. L’America è sotto attacco.” Ho fatto qualche passo indietro in modo che non potesse farmi domande».
Gordon Johndroe, vice addetto stampa, Casa Bianca: «Io ero presente in aula e mi rendo conto che sarebbe stato strano se all’improvviso fosse uscito di corsa, cosa che prima del documentario di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, non aveva mai suscitato clamore. Non è affatto parsa un’eternità, ha terminato il libro e poi si è ritirato in un’altra stanza».
Andy Card: «Ha rilasciato una dichiarazione molto concisa e si è incamminato, ma io ero dubbioso. “Torno a Washington D.C.”, aveva detto, ma io pensavo che non lo sapeva, come noi non lo sapevamo. Non sapevamo dove saremmo andati a finire».
«Alle 9:37, il volo American Airlines 77 si schianta contro l’Ala 1, la parte occidentale del Pentagono, a 530 miglia orarie».
Ted Olson, procuratore generale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: «Uno dei segretari è entrato di corsa e ha detto: “Barbara al telefono.” Ho preso subito la cornetta, felice di sentire la sua voce, ma mi ha detto che il suo volo era stato dirottato, e i passeggeri erano stati radunati in coda all’aereo. I dirottatori erano armati di coltelli e cutter. Poi ci siamo rassicurati a vicenda, perché dopotutto l’aereo era ancora in quota, stava ancora volando. Si sarebbe risolto tutto. Mi ha detto “Ok, ti amo.” Sembrava molto, molto tranquilla».
Victoria “Torie” Clarke, vicesegretario della Difesa per gli affari pubblici: «Davo per scontato che fosse stata un’autobomba. Quello che mi sembra assurdo è che sapevamo che due voli di linea avevano colpito il World Trade Center, che era un attacco terroristico, e quelli più svegli già ipotizzavano che si trattasse di al-Qaeda. Ma poi quando è successo qui, non ci è venuto in mente che potesse essere un altro aereo, tanto l’evento andava oltre la nostra comprensione. Non ci è mai passato per la testa che potesse essere un altro aereo...».
Deena Burnett, di San Ramon (California), moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Vidi sullo schermo il numero di Tom. Ero sollevata, pensavo che se mi stava chiamando dal cellulare doveva essere al sicuro in un aeroporto. Gli chiesi se stava bene ma rispose “No, sono su un volo dirottato. È lo United Airlines 93”. Mi raccontò cosa stava succedendo. “Hanno già accoltellato un tipo. Credo che uno di loro abbia una pistola”. Iniziai a tempestarlo di domande ma mi fermò: “Deena, ascoltami”. Ripeté tutto di nuovo, pregandomi di contattare le autorità prima di riagganciare. Un’ondata di terrore mi invase, come se fossi stata colpita da un fulmine (...). Gli dissi del World Trade Center. Non lo sapeva ancora, e informò anche gli altri passeggeri. “Oh mio Dio, è un attacco kamikaze”».
Lyzbeth Glick, moglie di Jeremy Glick, passeggero del volo United Airlines 93: «Ha percepito il panico nella mia voce, e abbiamo iniziato a dirci “Ti amo”. Saremo andati avanti per 10 minuti, fino a che non ci siamo tranquillizzati. Poi mi ha spiegato cosa era successo...»
Deena Burnett: «Il telefono suonò ancora: era sempre Tom, che disse soltanto “Deena”. Pensai che fosse sopravvissuto allo schianto sul Pentagono, e gli chiesi se stesse bene, ma mi rispose di no. “Hanno appena colpito il Pentagono” lo informai, e in sottofondo mi giunsero le voci dei passeggeri che riportavano la notizia. Ne percepivo la preoccupazione e li sentivo annaspare di stupore e sgomento. Poi Tom si rivolse di nuovo a me: “Sto architettando un piano”, mi disse, “Ci riprendiamo l’aereo”. Gli chiesi chi lo stesse aiutando, e mi rassicurò dicendo che erano coinvolte alcune persone, un gruppo, e di non preoccuparmi. Mi salutò con un “Faremo qualcosa, ti richiamo”, e riagganciò.
Bill Spade, vigile del fuoco della squadra speciale Rescue 5, FDNY: «Nella Torre Nord c’erano delle porte automatiche, che continuavano ad aprirsi e chiudersi per i corpi che cadevano giù».
William Jimeno, agente della PAPD: «Una persona mi ha colpito più di tutti, era come se potessi concentrare lo sguardo solo su di lui: era un signore biondo con i pantaloni color cachi e la camicia rosa tenue. Si gettò da lassù, e quando lo fece ricordava quasi Gesù sulla croce, dalla posizione, perché mentre precipitava era rivolto verso l’alto».
Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Sean mi ha chiamato verso le 9:30 di mattina. Ha detto che era al piano 105, e capii subito che non sarebbe tornato a casa. Sotto i suoi piedi c’era un intero edificio in fiamme, e lui non batté ciglio. Mi parlava senza mai perdere la sua compostezza, come in un giorno qualsiasi, e per questo suo modo di affrontare la morte avrà per sempre la mia ammirazione. Non c’era in lui ombra alcuna di paura, nemmeno quando le vetrate tutto intorno si erano surriscaldate ed era impossibile toccarle, e il fumo aggrediva i polmoni. (...) A un certo punto, quando sentii che faceva più fatica a respirare, gli chiesi se sentiva dolore. Dopo un attimo di pausa rispose di no. Mi amava tanto da mentirmi. Alla fine, quando la nube di fumo divenne troppo densa, continuò semplicemente a sussurrarmi “Ti amo” all’infinito».
«Alle 9:59, dopo nemmeno un’ora dall’attacco la Torre Sud, il secondo obiettivo colpito, collassa soccombendo alle fiamme alimentate dalle migliaia di litri di carburante contenute nel velivolo».
Donna Jensen, residente nel quartiere di Battery Park City: «Si sentiva il rat-tat-tat-tat-tat-tattat-tat degli scoppi che si susseguivano perfettamente ritmati, un rumore potente, secco e crepitante».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Ho sentito un rumore che ora non riesco a ricordare: è stato così forte, un frastuono talmente assordante che la mia mente l’ha bloccato. Mi ha spaventato a morte, e l’ho rimosso, non riesco a riportarlo alla coscienza».
Detective Steven Stefanakos, mezzo mobile 10 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Come lo schianto di mille treni merci».
Kenneth Escoffery, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 20, FDNY: «Come se ci avesse colpiti un missile».
Catherine Leuthold, fotoreporter indipendente: «Come trentamila jet che decollano in contemporanea».
Tracy Donahoo, agente del reparto trasporti, NYPD: «Il colpo fu talmente violento che sono stata sbalzata lontano. Non so a quale distanza, ma mi staccai letteralmente da terra, sentivo di essere sospesa in volo. Atterrai sulle ginocchia e su una mano. Non c’era più luce, era tutto buio pesto, non vedevo nulla e non riuscivo a respirare. Era soffocante».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord: «Credo nel giro di cinque secondi, su di noi calò l’oscurità con una violenza incredibile. Ma, cosa ancora più singolare, non c’era alcun rumore. I suoni non riuscivano più a propagarsi perché l’aria era troppo densa».
Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti: «Nonostante gli avvenimenti dell’11 settembre fossero davvero terribili, alcuni di noi avevano svolto esercitazioni per affrontare circostanze molto più pericolose e difficili, come un attacco nucleare sovietico diretto contro la Nazione. È stato utile, quella mattina l’addestramento ha dato i suoi frutti».
Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Nel silenzio sentivo il cuore battere all’impazzata. Tom disse che stavano aspettando di sorvolare una zona di campagna, e che avrebbero ripreso il controllo dell’aereo. La cosa mi spaventò enormemente e iniziai a supplicarlo: “No Tom, no. Stattene seduto tranquillo e non attirare l’attenzione”. Ma non volle saperne, disse “Se vogliono far schiantare l’aereo, dobbiamo fare qualcosa”. Allora proposi di lasciar fare alle forze dell’ordine, ma rispose: “Non possiamo aspettare l’intervento delle autorità, e in ogni caso non so cosa riuscirebbero a fare, dobbiamo pensarci noi. Penso che possiamo farcela”. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi fui io a riprendere: “Cosa vuoi che faccia? Cosa posso fare?” gli domandai. “Prega, Deena, prega e basta”. Dissi che l’avrei fatto e che l’amavo, e prima di riagganciare Tom ripeté di non preoccuparmi, che non sarebbero rimasti con le mani in mano. Non ha mai richiamato».
Steven Bienkowski, unità aeree, NYPD: «Lower Manhattan era completamente avvolta da un’immensa coltre di polvere bianca. Quando ci siamo riavvicinati in elicottero alla Torre Nord si vedevano ancora le persone buttarsi e precipitare giù, ma stavolta la scena era meno cruenta perché non li si vedeva rovinare al suolo, anzi c’era quasi un’aura di pace perché sparivano in questa nuvola bianca». «Il crollo sorprende anche i vigili del fuoco che stanno scendendo dalla Scala B con un civile ferito, Josephine Harris, e un agente PAPD evacuato con loro, David Lim».
Billy Butler, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 6, FDNY: «Ti controlli subito per vedere se hai ancora tutte le dita delle mani e dei piedi, le muovi per assicurarti che non ci sia niente di rotto. Ero malandato ma stavo bene. Stavo cercando di liberarmi spostando quegli enormi pezzi di cartongesso che mi erano caduti addosso quando a un tratto Josephine apparve tra la polvere, come il Blob che esce dalla palude. Mi sono spaventato a morte».
Norbert Rosenbaum, vigile del fuoco della Stoystown Volunteer Fire Company: «Ci avvisarono che dovevamo uscire per una missione di recupero e soccorso. Quando vidi i pezzi e tutto quanto, confidai agli altri: “Dubito che salveremo qualcuno. Quel cratere è enorme”. Tante delle cose che vidi non mi erano nuove, ero stato in Vietnam. C’erano solo parti di corpi. Tutto lì, pezzi».
James Broderick, agente della Polizia della Pennsylvania: «Ricordo l’odore. Una volta che respiri l’odore di carburante che si mescola a quello della carne umana, non te lo dimentichi più».
La drammatica e desolata espressione di un pompiere newyorkese mentre lascia il luogo della tragedia (Anthony Correia/Getty Images)
Monsignor John Delendick, cappellano, FDNY: «Un poliziotto mi si avvicinò e mentre correva al mio fianco mi disse: “Padre, può confessarmi?”. Gli risposi: “Questo è un atto di guerra, darò assoluzione generale a tutti”, e così feci».
Rudy Giuliani, sindaco di New York: «Sentii che qualcuno mi afferrava e mi trascinava via, obbligandomi a correre come si fa con gli animali o i cavalli, “ANDIAMO VIA!”. Avremo corso per circa un terzo di isolato, e io non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo. Mentre mi trascinava via gli dissi di fermarsi. Ci girammo e vidi un’immensa nube salire dal cratere. Sembrava davvero un attacco nucleare».
Sharon Miller, ufficiale della PAPD: «C’era un grande silenzio, come se tutto fosse coperto di ovatta, o di marshmallow».
Alan Reiss, direttore dell’Autorità portuale al World Trade Center: «Solo un rumore rompeva il silenzio: gli allarmi PASS».
Detective David Brink, mezzo mobile 3 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Questi allarmi, che i pompieri usano quando non riescono a muoversi e si trovano bloccati in situazioni di emergenza, hanno un suono molto penetrante. Non si sentiva altro, gli allarmi si succedevano senza tregua, e non si riusciva a distinguere da dove provenissero».
Rick Schoenlank, presidente dell’associazione di beneficenza United New Jersey Sandy Hook Pilots Benevolent Association: «C’erano imbarcazioni commerciali, rimorchiatori, traghetti, pescherecci, lance, navi ristorante che confluivano a Lower Manhattan per procedere all’evacuazione».
Capitano James Parese, Staten Island Ferry: «Non ho mai visto così tanti rimorchiatori tutti insieme».
Ian Oldaker, membro del personale di Ellis Island: «Era ora di mettersi in cammino verso casa. Insieme a una fiumana di gente, iniziammo a risalire la rampa verso il Ponte di Brooklyn. La cosa più spaventosa fu vedere le persone mettersi a urlare improvvisamente. C’erano momenti di silenzio, silenzio, silenzio, poi a un tratto le urla di chi veniva a sapere di avere perso un amico. L’uomo che camminava al mio fianco mi chiese dove si trovasse, e gli dissi che eravamo sul Ponte di Brooklyn. Indossava un completo e mi chiese cosa fosse successo. Gli risposi: “È crollato il World Trade Center” ».
Denise McFadden, moglie di Paul McFadden, vigile del fuoco, FDNY: «Quando mi telefonò, Paul era nel bel mezzo del caos. Non capivo cosa mi diceva, stava facendo un elenco di nomi di conoscenti seguiti dall’aggettivo “morto”. Sbottai: “Smettila. Cos’è, uno scherzo di pessimo gusto?”. Ma non si fermò. Continuava a pronunciare sequenze di nomi intervallati dalla parola “morto”, non riusciva a dire altro».
Tenente Michael Day, Guardia costiera degli Stati Uniti: «Entrai a Ground Zero e ricordo che c’erano resti umani ovunque. Ricordo di aver pensato di essere in guerra. Abbassai lo sguardo e vidi un piede in una scarpa. Rimasi a guardarlo per qualche minuto. Sembrava un assedio: sulle strade di Manhattan si incontravano i militari della Guardia Nazionale con i fucili d’assalto, era saltata la corrente in tutta la zona, in molti altri edifici erano divampati incendi e ovunque pioveva un’inquietante polvere grigiastra».
Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Ci siamo incontrati a soli sedici anni, al ballo della scuola; quando è morto ne avevamo cinquanta. Per quanto terribile fosse quella giornata, ricordo che non volevo che finisse, non volevo andare a dormire: finché fossi rimasta sveglia, quel giorno condiviso con Sean non sarebbe finito. Mi aveva salutato con un bacio prima di andare al lavoro, e potevo ancora dire che era successo poco tempo prima, la mattina di quello stesso giorno».
L’elicottero che portò la Cia in Afghanistan dopo l’11 settembre. Davide Bartoccini su it.insideover.com il 3 ottobre 2019. Lo chiamavano il valoroso cavallo dei “Jawbreaker”, ed è stato l’elicottero che ha infiltrato la Cia in Afghanistan all’indomani degli attentati dell’ 11 settembre. Il compito non era semplice: “Andate a trovare chi comanda Al Qaeda e uccidetelo. Li elimineremo. Prendi Bin Laden, trovalo. Voglio la sua testa in una scatola per mostrarla al presidente”. Era questo l’ordine che il capo dell’agenzia di spionaggio aveva dato ai membri del cosiddetto Nalt – “Northern Afghanistan Liaison Team” – il gruppo di operativi che doveva muovere la guerra in Afghanistan per vendicare l’attentato che aveva colpito il cuore dell’America. Oggi quell’elicottero panciuto e scuro come la notte, un Mi-17 Hip di fabbricazione russa che portava come codice identificativo il numero “91101” per evitare il fuoco amico e ricordare quella data infausta, è tornato casa, esposto nel memoriale della Central intelligence agency a Langley come simbolo della sua incredibile storia. Otto giorni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’ordine era di schierare una piccola squadra di operatori nella valle afghana del Panjshir (via Uzbekistan) per trovare e accordarsi con i mujahideen del Nord che avrebbero dovuto appoggiare una guerra contro Al Qaeda. Gli “spacca mascelle” della Cia atterrarono per la prima volta con tre milioni di dollari in contanti, suddivisi in tre semplici scatole di cartone, da consegnare ai signori della guerra dell’Alleanza del Nord come Fahim Khan (e altri con i quali la Cia forse aveva mantenuto i rapporti dopo averli foraggiati per combattere i sovietici) per permettergli di pagare le loro truppe e di convincere altre tribù a radunarsi e combattere il nuovo nemico numero uno degli Stati Uniti: Osama Bin Laden e i suoi talebani. Dopo un mese di minuzioso lavoro di intelligence e trattative svolto sotto copertura, il team speciale della Cia gettò le basi per far mettere gli “scarponi a terra” ad un piccolo contingente d’élite dei Berretti Verdi, noto come Oda 595, Operational Detachment Alpha 595, unità che avrebbe raggiunto l’Afghanistan sugli elicotteri del 160th Soar, e che avrebbe proseguito la propria missione a cavallo, con abiti locali e turbanti in testa per mimetizzarsi tra i mujahideen: come dei moderni Lawrence d’Arabia. Il grosso elicottero russo, posato su un apposito piedistallo che simula le rocce impervie del suolo afgano, è un simbolo degli sforzi eroici che gli Stati Uniti hanno condotto per rimediare all’imperdonabile errore di valutazione che ha condotto a un attentato di una tale portata da cambiare per sempre la vita in tutto l’Occidente. Gli operatori della Cia atterrarono in Afghanistan su questo “robusto e affidabile” elicottero russo per “correggere un terribile errore”, hanno dichiarato durante l’inaugurazione del memoriale Gina Haspel, attuale direttore dell’agenzia, e Gary Schroen, veterano della Cia che su quel Mi-17 volò proprio nella prima missione sulla valle del Panjshir, a meno di 5mila metri in quello che poteva essere considerato un territorio più che ostile. Durante la cerimonia Schroen ha raccontato: “Eravamo molto pesanti, tra i passeggeri, le armi, il carburante, le munizioni e tutte le altre attrezzature, la squadra stava spingendo il carico utile dell’elicottero al limite”. “Non erano affari come al solito”, ha ricordato Schroen, “guardandoti intorno nello scompartimento, avresti pensato potessero esserlo”, ma “nessuno si soffermava sul pericolo in cui ci trovavamo”, perché quella volta gli agenti della Cia erano partiti per vendicare la morte di 2.974 vittime innocenti. Ci vorranno dieci anni per raggiungere l’obiettivo e vendicare quelle vite spezzate. La testa di Osama Bin Laden finirà nelle mani dei Navy Seal del Team Six solo nel 2011. Mentre l’invasione dell’Afghanistan si rivelerà un mastodontico fallimento di strategia militare. Ma il compito affidato agli “spacca mascelle” della Cia e agli “horseman” dei Berretti Verdi poteva essere considerato portato a termine con il massimo successo. Per questo dopo 18 anni, e centinaia di voli avanti e indietro sul territorio nemico, il vecchio 91101 è tornato a casa con tutti i 10mila pezzi che lo compongono; e Schroen, davanti a quell’elicottero che conosce così bene, ha affermato che lì, immobile nel memoriale di Langley, resterà per sempre un simbolo dello sforzo compiuto dalla Cia, e un’ispirazione per chiunque lo guardi, ricordando a ogni uomo e donna dall’agenzia che ciò che apparentemente sembra impossibile in realtà è “realizzabile”.
· Il Chewing Gum dal 1869.
Il chewing gum compie oggi 150 anni: fu brevettato come metodo per pulire i denti. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. Il 2019 è quasi alla fine. In questo anno sono stati celebrati molti anniversari importanti: dalla caduta del muro di Berlino (30 anni), al primo uomo sulla Luna (50 anni) fino alla celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci. C’è anche un’invenzione che, più che celebrata, forse è curioso ricordare. Quella della gomma da masticare. Centocinquanta anni fa (sabato 28 dicembre 1869), un dentista statunitense, William Semple, brevettava, appunto, la gomma da masticare con l’obiettivo di pulire i denti e “rafforzare” la mascella.
IL PRIMO BREVETTO DEL CHEWING GUM RISALE AL 1869. Matteo Persivale per il “Corriere della sera” il 22 agosto 2019. All'homo sapiens mancano alcune caratteristiche specifiche dei ruminanti - non siamo erbivori, non abbiamo lo stomaco diviso in quattro cavità - eppure da molti millenni tende a masticare compulsivamente tutto quel che trova: gli antichi greci masticavano il mastice, i Maya la linfa coagulata dell'albero della Sapotiglia, certe tribù di Nativi Americani la linfa degli abeti. Un'attività irrefrenabile culminata nel 1869 con il primo brevetto che, grazie a un dentista dell' Ohio, ha fatto nascere ufficialmente la gomma da masticare della quale in questi giorni i ciancicatori di tutto il mondo festeggiano il centocinquantenario. Dobbiamo insomma al dottor William Finley Semple l'introduzione di una ricetta scientifica per la fabbricazione di gomme da masticare, liberate da millenni di fai da te e finalmente codificate. Certo, come succede a volte, l' antenato di un prodotto oggi molto popolare non aveva la stessa formula di oggi (vedi la Coca-Cola originale ottocentesca del dottor Pemberton, fatta con 37 grammi di foglie di coca per litro): gli ingredienti principali presenti nella formula delle gomme Semple erano, peraltro, carbone e gesso. Quello che si presentò da subito, 150 anni fa, fu il problema al quale tuttora lavorano le aziende che producono chewing gum: la tenuta del sapore. Le gomme ottocentesche infatti perdevano quasi subito il sapore (può capitare anche oggi, è una questione chimica complessa): uno dei motivi per i quali la menta si affermò rapidamente come uno dei gusti più popolari fu esattamente quello della praticità - resta «attaccata» alla gomma più a lungo. È una delle scoperte, quella della resistenza della menta, che dobbiamo a un imprenditore atipico. Nel 1880 il primo passo avanti sulla qualità della gomma lo fece William White, canadese trapiantato in Ohio. Fondò quella che oggi definiremmo una startup partì dalla cucina di casa e combinò zucchero e sciroppo di mais con la gomma naturale di chicle (un albero centramericano: da decenni ormai la gomma da masticare è sintetica). Si deve a White l'idea della forma a strisce della gomma da masticare, il primo design pubblicitario sulla confezione, e l' idea di aggiungere una sorpresa - delle piccole buffe «profezie» per ragazzi stampate sulla stagnola, all' interno. Ecco poi nel 1888 la gomma da masticare di Thomas Adams, la «Tutti-Frutti», venduta da un distributore automatico (altra idea che si rivelò geniale) che si trovava in una delle stazioni della metropolitana di New York. Poco dopo, la gomma da masticare diventa un business molto simile a quello che vediamo oggi: nel 1891 William Wrigley Jr fonda Wrigley Chewing Gum, azienda tuttora presente sul mercato in 180 Paesi (con fabbriche in 14 nazioni) e di fatto modernizza il business della gomma da masticare. Business che nel secondo dopoguerra diventa globale, coinvolgendo anche l' Italia (la Perfetti di Lainate, nei pressi di Milano, dal 2001 Perfetti Van Melle, è la casa produttrice, tra le altre, della mitica «gomma del ponte»). Ma perché, da millenni, mastichiamo con insistenza qualunque cosa ci capiti a tiro, non essendo per l' appunto animali ruminanti? La scienza, in questi decenni, ha provato a rispondere. Uno studio australiano, una decina d' anni fa, ha concluso che masticare la gomma riduce in modo significativo i livelli di cortisolo (ormone dello stress) nella saliva. I ricercatori guidati da Andrew Scholey della Swinburne University di Melbourne avevano sottoposto quaranta ragazzi a una serie di test valutandone poi prestazioni e livello di ansia, con e senza il chewing gum. Hanno così osservato che masticare gomme riduce l'ansia, aumenta il livello di attenzione. La ragione di questo effetto antistress? Non sta ovviamente nella presenza dello zucchero (poco, ma secondo i dentisti facilita carie e aumento della placca) o del dolcificante (alcuni sono peraltro lassativi: attenzione ai dosaggi), ma nel movimento ripetuto meccanicamente delle mandibole.
· Gli “space dogs”.
Marco Giusti per Dagospia il 16 agosto 2019. Bau! Pochi cani sono stati così amati dai bambini di tutto il mondo come gli eroici cani spaziali russi. Laika, il primo essere vivente che viaggiò nello spazio il 3 novembre del 1957 sulla navicella Sputnik 2 e mai più ritornò, le cagnette Belka e Strelka, che a bordo dello Sputnik il 19 agosto del 1960 percorsero 18 volte l'orbita della terra e ritornarono sane e salve accolte come eroi russi. Al punto che Brelka fece poi sei cuccioli con certo Pushok e uno di loro, Pushinska, venne regalato nel 1961 dal presidente russo Kruschev alla figlia del presidente americano John F. Kennedy. Un documentario a loro dedicato, Space Dogs, diretto da una coppia di registi austriaci, Elsa Kremser e Levin Peter, è stato da poco presentato al festival di Locarno con successo. Ma non è il solo omaggio che gli space dogs sovietici abbiano avuto in tempi più o meno recenti. È appena uscito un video dei The Chemichal Brothers, "We've got to Try", dedicato a Laika, ma ci sono canzoni dei Gorillaz, "Laika Come Home", del 2002, di Max Richter; "Laika's Journey", degli Arcade Fire, una graphic novel, un film ungherese del 2018. A Belka e Strelka è stato dedicato un film animato in 3D russo nel 2014 e una serie tv, ma dai primi anni 60 si sono in realtà sprecati gli omaggi di ogni tipo dedicati a Laika e ai suoi più fortunati compagni. Pensiamo solo a Franco e Ciccio che in 002 operazione luna di Lucio Fulci vedono lo scheletro di Laika nello spazio. Ma non ci fu un bambino allora che non si commosse di fronte alla tragedia della cagnetta sperduta nello spazio. Non sapevamo che per Laika, che si chiamava in realtà Kudrjavka (ricciolina) non era previsto nessun ritorno. Nei piani degli scienziati russi c'era solo il progetto di farla girare attorno alla terra per 8 giorni. Durò invece solo 67 minuti dopo il lancio, morendo per surriscaldamento della navicella. Cose che i russi non vollero dirci facendoci credere che stava ancora nello spazio a girare attorno alla terra per una settimana. "Le chiesi di perdonarci e ho pianto mentre l'accarezzavo per l'ultima volta" ha detto recentemente la biologa Adilya Kotovskaya ricordando il dramma di Laika. Era stata scelta una femmina perché faceva la pipì in maniera più comoda rispetto a un cane maschio e era stata scelta Laika perché era una cagnetta simpatica, allegra. Il 14 aprile del 1958 la navicella precipitò esplodendo sopra le Antille. Il sacrificio di Laika non era servito a nulla. Ci vollero tre anni per ritentare l'esperimento con due cagnette, la randagia Belka (scoiattolino) e il cane da circo Strelka (freccia). Con loro, a bordo della Soyuz 5, c'era una specie di Arca di Noè, un coniglio grigio, 42 topi, due ratti e un bel po' di mosche. Tutti gli animali ritornarono sulla terra sani e salvi e questo convinse gli scienziati russi a mandare il primo uomo in orbita nello spazio Yurij Gagarin. Ma, devo confessare, non mi sono mai davvero ripreso dalla scomparsa di Laika, che come rutti i bambini del tempo immagino chiusa dietro l'oblò della Soyuz 2, ma sveglia, con la lingua in fuori e gli occhi attenti. Ecco. Per me e rimasta lassù.
Stefano Giani per “il Giornale” il 16 agosto 2019. I martiri innocenti non hanno nome. Talvolta nemmeno cittadinanza. Non sanno di essere angeli. E l' unica strada che conoscono è quella del randagio che vaga solitario. Hanno per casa tutto e nulla. Il loro tetto è un cielo minaccioso anche quando è sereno. Ignari vagabondi del mistero. Da quaranta centimetri lo sguardo non abbraccia l' universo ma il raggio ristretto della quotidianità. Della fame. Alla luna, il lupo è abituato a ululare. Non sogna di raggiungerla. E, in fondo, non lo immaginavano neppure i meticci di Mosca. Figli di mille razze e un solo Dio, quello che vide Adamo sbarcare nel mare della Tranquillità il 20 luglio di cinquant' anni fa. First man. Ma prima. First dog. Si dice che Laika sia una stella cometa e il paradiso dei cagnolini non l' abbia accolta, per rispedirla come spirito guida di tutti i suoi simili sulla terra. Quella che lasciò il 3 novembre del '57 sullo Sputnik. La sua tomba. Dopo 67 minuti spirò nell' abbraccio perpetuo dell' universo. Un passo indietro al piccolo passo per l' uomo e al grande passo per l' umanità. Anche Laika ebbe predecessori. Una storia ignorata fino a oggi, sulla quale fa luce Space dogs - a metà strada tra docufilm e inchiesta - presentato al «Locarno Film Festival» dai due registi poco più che trentenni, l' austriaca Elsa Kremser e il tedesco Levin Peter. Il set è sulle strade desolate e angoscianti di Mosca. Intervallato da sequenze di archivio e repertorio sui tanti randagi senza tetto e senza pappa, reclutati all' improvviso dalle mani ciniche dello scienziato. Fotogrammi in bianco e nero. Sgranati. Come le coscienze sporche di chi compie esperimenti. Narrano di meticci setacciati in quelle vie oscure. Della fiducia che li convince ad affidarsi al cuore gelido dello spregiudicato. Quello che alla luna non ulula ma gioca a combattere la guerra dei mondi su una scacchiera di fantascienza. Volarono nel cosmo intubati. Collegati. Spiati nell' attimo estremo in cui cielo, luna e terra diventano tutt' uno. Per sempre. E gli occhi si chiudono sulla galassia infinita, che non è più l' orizzonte ristretto del chiostro di spuntini notturni, al quale elemosinare una briciola di wurstel. Alcuni rientrarono vivi. Forse non seppero mai di essere partiti. E neppure ritornati. Forse pensarono che si trattò di un sogno, perfino quando l' uomo (?) con il camice bianco li scollegò dai tubicini e ne medicò la tracheotomia. Vietato ululare alla luna. A pochi importò se il mantello del pelo mostrava lacerazioni. Se non era più lo stesso. Nessuno in terra si chiese come avvenne il miracolo. Perché mai il Dio dei cani avesse rispedito quaggiù quegli angeli a quattro zampe che avevano visto la luna. Con loro hanno portato un segreto che nessuno potrà mai svelare. Che cosa abbiano provato. Sognato. Pensato. Non c' è computer che registri l' intimità. Nemmeno a quattro zampe. In «premio» ebbero l' accoppiamento. Prospettiva umana di sfruttamento d' immagine. I cani non lo fanno per piacer loro ma per dare figli a Dio. O meglio, per conservare la specie. Allo scienziato la cucciolata servì per dimostrare che le funzioni genetiche non erano state alterate. E i piccoli figli del cosmo avevano radici terrene. Forse chi aveva viaggiato nello spazio, in fondo poteva ritenersi addirittura fortunato. Le selezioni erano severissime. Solo i più tenaci, resistenti, sani ed educati avrebbero potuto andare in missione. Beffa dell' immoralità. Il buono perde. Rischia la morte nell' universo. Gli altri - perché non esistono cani cattivi - vincono un vagabondaggio nei bassifondi di Mosca che non è propriamente una vita da sogno ma è meglio di un razzo dove il movimento è impedito. Il muscolo anchilosato. E ne esce uno scheletro che cammina. Insieme a loro ci furono tartarughe ma nessuna riuscì a farcela. E perfino una scimmia. Al rientro finì in discoteca. E allo zoo. Poi morì per complicazioni al fegato. Si chiamava Buh. L'unica. I martiri innocenti non hanno nome. Il piccolo passo per l'uomo era stato un grande passo di disumanità. Mai più esperimenti con gli animali, please. L' appello di Space dogs. E non solo. Nemmeno se un giorno si puntasse Marte. L' unica verità è che il cane è il miglior amico dell' uomo. Ma quest' ultimo non può dire lo stesso. La relazione inversa... Inammissibile. Purtroppo. Almeno per ora.
· Il Primo Cosmonauta della storia: Jurij Gagarin.
Jurij Gagarin. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jurij Alekseevič Gagarin (in russo: Юрий Алексеевич Гагарин?; Klušino, 9 marzo 1934 – Kiržač, 27 marzo 1968) è stato un cosmonauta, aviatore e politico sovietico, primo uomo a volare nello spazio, portando a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 a bordo della Vostok 1. In seguito a questo storico volo, che segnò una pietra miliare nella corsa allo spazio, Gagarin divenne una celebrità internazionale a cui seguirono numerosi riconoscimenti e medaglie, tra cui quella di Eroe dell'Unione Sovietica, la più alta onorificenza del suo paese. La missione sulla Vostok 1 fu il suo unico volo spaziale, anche se in seguito venne nominato come cosmonauta di riserva della Sojuz 1 conclusasi in tragedia al momento del rientro con la morte del suo amico Vladimir Komarov. Successivamente Gagarin servì come vice direttore del centro per l'addestramento cosmonauti che in seguito prenderà il suo nome. Nel 1962 venne eletto membro del Soviet dell'Unione e poi nel Soviet delle Nazionalità, rispettivamente la camera bassae la camera alta del Soviet Supremo dell'Unione Sovietica. Gagarin morì nel 1968 a seguito dello schianto, avvenuto nei pressi della città di Kirzhach, del MiG-15 su cui si trovava a bordo con l'istruttore di volo Vladimir Seryogin in occasione di un volo di addestramento. Nato a Klušino (un villaggio nell'Oblast' di Smolensk, nell'allora Unione Sovietica) il 9 marzo 1934, da padre falegname e madre contadina, crebbe in una di quelle collettività aziendali che erano sorte in Russia sul finire della rivoluzione del 1917 e si distinse a scuola per spiccate capacità nelle materie scientifiche. Tuttavia, fu costretto a interrompere gli studi a causa dell'invasione tedesca (iniziata il 22 giugno 1941), per riprenderli dopo la Guerra: frequentò l'istituto tecnico industriale di Saratov e conseguì il diploma di metalmeccanico. Fu durante i suoi studi che Gagarin cominciò a interessarsi al volo. Nel 1955 si iscrisse a un aeroclub, dove sperimentò il primo volo della sua vita su uno Yak-18. Questa passione lo portò a iscriversi a una scuola di aeronautica, dove si distinse per il suo talento. Nello stesso anno entrò a far parte dell'aviazione sovietica; si diplomò con grande profitto nel 1957 presso l'Accademia aeronautica sovietica di Orenburg. Fu proprio nel 1957 che l'URSS lanciò nello spazio lo Sputnik 1 e si gettarono le basi per i primi voli spaziali con esseri umani a bordo. Nello stesso 1957 Gagarin scelse di frequentare scuole specializzate in aviazione in Ucraina. Anche qui le sue doti apparvero subito fuori dal comune, tanto da guadagnarsi la stima e la fiducia dei suoi superiori, che gli consentirono di collaudare sofisticate apparecchiature di volo e di approntare test altamente specializzati. La sua passione per il volo lo portò a essere scelto nel 1959, insieme ad alcuni colleghi, per l'addestramento con l'obiettivo di diventare cosmonauta.
Gagarin nello spazio. «Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.» (Jurij Gagarin)
Selezionato per la missione. Dopo il soggiorno ucraino, Gagarin si trasferì a Zvëzdnyj Gorodok insieme ad altri venti candidati, per superare nuovi test attitudinali, al termine dei quali venne scelto per affrontare il primo volo orbitale con un essere umano a bordo. Come suo eventuale sostituto fu scelto il cosmonauta German Titov.
Orbita storica. Il volo dell'allora maggiore Jurij Gagarin cominciò il 12 aprile 1961, alle ore 9:07 di Mosca, all'interno della navicella Vostok 1 (Oriente 1), del peso di 4,7 tonnellate: egli pronunciò la celebre espressione - поехали! (poechali - "andiamo!") al decollo per il volo spaziale. Compì un'intera orbita ellittica attorno alla Terra, raggiungendo un'altitudine massima (apogeo) di 302 km e una minima (perigeo) di 175 km, viaggiando a una velocità di 27.400 km/h. Per tale missione Gagarin aveva scelto il nominativo кедр ("kedr", cedro), usato durante il collegamento via radio.
Quel pianeta blu. Durante il volo, guardando dalla navicella ciò che nessuno aveva mai visto prima, comunicò alla base che "la Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile". Dopo 88 minuti di volo intorno al nostro pianeta, che Gagarin trascorse essenzialmente da passeggero (il controllo della navicella spaziale era infatti gestito da un computer a terra: i comandi di bordo erano bloccati, ma attivabili in caso di necessità agendo su un’apposita chiave), la capsula frenò la sua corsa accendendo i retrorazzi in modo da consentire il rientro nell'atmosfera terrestre. Il volo terminò alle 10:55 ora di Mosca, in un campo a sud della città di Engels (Oblast' di Saratov), più a ovest rispetto al sito pianificato di rientro. Gagarin venne espulso dall'abitacolo e paracadutato a terra. Nei resoconti ufficiali si affermò che era invece atterrato all'interno della capsula, per conformarsi alle regole internazionali sui primati di quota raggiunta in volo.
Dopo il volo del Vostok 1. Migliaia di russi lo attendevano al suo ritorno e la sua impresa ebbe una grande eco in tutto il mondo. Gagarin dimostrò che l'uomo era in grado di volare oltre le previsioni, diventando a soli 27 anni il primo uomo della storia a orbitare intorno alla Terrae a osservarla dallo spazio. Venne decorato da Nikita Chruščёv con l'Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica, e fu altresì nominato Eroe dell'Unione Sovietica. In seguito collaborò alla preparazione di altre missioni spaziali, come quella della Vostok 6, che nel 1963 portò Valentina Tereškova a diventare la prima donna della storia a volare nello spazio. Inoltre, partecipò allo sviluppo della nuova navicella spaziale Sojuz. Nel 1967 riuscì a farsi nominare sostituto cosmonauta della discussa navicella spaziale Sojuz 1, che venne ribattezzata "tomba volante" ed era stata criticata dai più a causa degli evidenti errori commessi nella costruzione della stessa. In quella missione morì poi in circostanze drammatiche Vladimir Komarov. Da lì in poi Gagarin ritornò a pilotare gli aerei che aveva usato prima di entrare a fare parte del progetto spaziale, i MiG. Grande appassionato di rugby, Gagarin fu tra coloro che contribuirono alla risorgenza del gioco in Unione Sovietica dopo un periodo d'abbandono. La nuova federazione fu fondata e presieduta, fino al crollo dell'URSS, dal suo amico e collega collaudatore Vladimir Il'jušin.
Morte. Gagarin morì il 27 marzo 1968 a soli 34 anni, sette anni dopo la sua grande impresa, a bordo di un piccolo caccia MiG-15UTI, schiantatosi al suolo nelle vicinanze della città di Kiržač. Probabilmente l'aereo di Gagarin entrò nella scia di una formazione di tre Sukhoi Su-15. L'improvvisa turbolenza causata dai tre grossi caccia, ben più grandi e potenti del MiG-15 da lui pilotato, potrebbe aver fatto perdere a Gagarin il controllo del velivolo. Altre ipotesi teorizzano la collisione al suolo avvenuta a seguito della manovra fatta per evitare un altro caccia che non doveva trovarsi in quella zona. Sposato e padre di due bambine, al momento della morte Gagarin era in procinto di partire per una nuova missione nello spazio; lo storico volo del 1961 sarebbe invece rimasto il suo unico viaggio in orbita. Le sue ceneri sono state poste presso le mura del Cremlino a Mosca.
Vita privata. Credenze religiose. La figura di Gagarin venne ampiamente utilizzata dalla propaganda sovietica non solo per affermare la supremazia dell'URSS nella corsa allo spazio ma anche in favore dell'ateismo di Stato. A Gagarin è stata infatti attribuita da alcune fonti la celebre frase "Non vedo nessun Dio quassù". L'attribuzione della frase in realtà è controversa; non esiste alcuna registrazione delle comunicazioni che la riporti e potrebbe essere stata frutto della propaganda antireligiosa sovietica. In un'intervista rilasciata all'agenzia Interfax nel 2006, l'amico e collega di Gagarin, il colonnello Valentin Vasil'evič Petrov, docente presso l'accademia aeronautica militare intitolata allo stesso Gagarin, ha affermato che Jurij era battezzato nella chiesa ortodossa e credente e che ebbe varie testimonianze dirette di questa sua sensibilità verso il divino. Il colonnello è convinto che fu in realtà Nikita Chruščëv a coniare la famosa frase sull'assenza di Dio nello spazio; Petrov ricorda che il Primo segretario del PCUS dichiarò: "Perché state aggrappati a Dio? Gagarin ha volato nello spazio e non ha visto Dio". Il cosmonauta Aleksej Archipovič Leonov (il primo uomo a lasciare la sua capsula spaziale per rimanere sospeso nello spazio), compagno e amico di Gagarin, intervistato dalla rivista Foma (n. 4 del 2006) ha riferito che, poco prima del suo volo, Gagarin volle battezzare la figlia Elena e ha descritto come la famiglia Gagarin celebrasse ogni anno il Natale e la Pasqua, oltre a possedere in casa icone e immagini religiose.
Intitolazioni. A Jurij Gagarin sono stati dedicati in Russia il centro di addestramento alla Città delle Stelle dove si preparano i cosmonauti prescelti per le varie missioni spaziali e l'Accademia dell'aeronautica militare dell'URSS (poi della Federazione Russa). In suo onore è stato eretto in piazza Gagarin a Mosca nel 1980 un monumento alto 12 metri scolpito nel titanio e appoggiato su un piedistallo di granito di 27 metri e mezzo, progettato dallo scultore Pavel Bondarenko e dall'architetto Jakov Belopol'skij. Lo stadio della città ucraina di Chernihiv è a lui intitolato. Il trofeo della Kontinental Hockey League di hockey su ghiaccio si chiama Coppa Gagarin. In suo onore un asteroide è stato battezzato 1772 Gagarin e gli è stato intitolato anche un vasto cratere lunare sulla faccia nascosta della Luna. Le montagne di Gagarin, una catena montuosa della Terra della Regina Maud, in Antartide, facente parte della più grande catena delle montagne di Orvin, sono state così battezzate in suo onore.
Così morì Gagarin. La Repubblica il 24 marzo 1987. Il primo cosmonauta della storia, Yuri Gagarin, è morto il 27 marzo 1968 in un incidente aereo quando, nel tentativo di evitare un ostacolo improvviso, ha compiuto una brusca manovra, superando l' angolo di incidenza critica e provocando quindi una caduta a vite dell' apparecchio. Le cause della sciagura La Pravda a quasi venti anni di distanza, ha rivelato ieri per la prima volta le cause della sciagura aerea che è costata la vita anche all' istruttore di volo Vladimir Seryoghin. L' organo ufficiale del partito comunista dell' Unione Sovietica ricorda che per indagare sulle cause del disastro fu creata un' autorevole commissione governativa che studiò nel modo più accurato tutte le circostanze di quel volo. Purtroppo si rammarica il quotidiano comunista nessun comunicato ufficiale sui risultati dell' inchiesta fu allora reso noto. Nulla venne fuori non solo sulle cause, anche se ipotetiche, della morte di Yuri Gagarin e dell' istruttore di volo, Vladimir Seryoghin che era con lui, ma anche per quanto riguardava i fatti accertati. Il professor Serghiei Belotserkovski e il primo pedone dello spazio, l' astronauta Aleksei Leonov, rompono adesso il silenzio e ricostruiscono, in base ai materiali raccolti diciannove anni fa dalla commissione governativa, le drammatiche fasi dell' incidente. Minuto per minuto, la Pravda descrive il tragico volo, durato in tutto dieci minuti, a bordo di un Uti-Mig-15 da addestramento. Dopo aver vagliato tutte le ipotesi sui possibili guasti dell' aeroplano (che non sono emersi) e sullo stato fisico dei due piloti, compreso quella inverosimile e sacrilega che fossero ubriachi (questa ipotesi è stata scartata dopo aver compiuto un' analisi del sangue prelevato dai resti mortali di Gagarin e Seryoghin), la commissione è giunta alla seguente conclusione: in condizioni di bassa nuvolosità e di scarsa visibilità, Gagarin, di fronte ad un improvviso ostacolo (uno stormo di uccelli, un pallone-sonda o qualcosa di simile) deve aver compiuto una brusca manovra superando l' angolo di incidenza critica e provocando quindi una caduta a vite dell' apparecchio. Gagarin e Seryoghin non pensarono neppure a catapultarsi e con assoluto sangue freddo e con perizia eccezionale, cercarono fino all' ultimo di raddrizzare l' apparecchio. Ce l' avrebbero fatta se avessero avuto almeno altri 200-300 metri di quota o altri due secondi di tempo, sostengono lo studioso ed il cosmonauta. Due secondi soltanto, ma quanto è alto il loro prezzo nell' aviazone e nei voli spaziali!, conclude l' articolo rivelando, in mancanza di prove scientifiche, solo l' ipotesi della morte di Gagarin avanzata dalla commissione governativa. Il nome di Gagarin divenne noto in tutto il mondo quando il 12 aprile del 1961 alle 9,30 la voce di Yuri Levitan, lo speaker dei grandi momenti sovietici, annunciò che un russo aveva volato, per primo nella storia umana, nello spazio cosmico. Prima di lui a tentare erano stati soltanto animali. Famoso il caso della cagnetta Laika, che morì in un' astronave lanciata a perdere, ma che fornì le preziose informazioni per preparare il primo viaggio dell' uomo. Per l' Unione Sovietica di Nikita Krusciov in un mondo che stava uscendo dalla guerra fredda per sperimentare la coesistenza pacifica Gagarin divenne ben presto uno strumento di propaganda, mandato in giro per il mondo e soprattutto in occidente per esaltare il primato spaziale dell' Urss. Un lavoro in fonderia La biografia di Gagarin non aveva nulla a che fare con quella di un superman. Nato a Gjatsk, presso Smolensk, figlio di un falegname e di una mungitrice, approdò a Mosca per trovare un posto di tornitore. Non rassegnatosi a lavorare in una fonderia Gagarin segue dei corsi serali e arriva a prendere il brevetto di pilota nell' aviazione militare. Basso di statura ha bisogno di un cuscino per arrivare ai comandi del primo Mig che pilota. Quando scese dall' astronave disse: Vi prego di comunicare al partito, al governo, al compagno Nikita Krusciov, che l' atterraggio è stato normale, che sto bene e che non ho riportato nessuna ferita. Poi con tono meno ufficiale aggiunse: Il cielo è nero, la terra è azzurra, non ho incontrato angeli.
Per ricordare Jurij Gagarin, il primo uomo nello Spazio. Luigi Bignami l'1 gennaio 2019 su Focus. Il 27 marzo 1968 moriva Jurij Gagarin, il primo uomo ad andare nello Spazio dimostrando al mondo che si poteva fare - andare, e anche tornare. Il primo uomo nello Spazio, il russo Yuri Gagarin, è morto in un misterioso incidente aereo: sono trascorsi solo 7 anni dalla sua storica impresa... Più o meno così i mezzi di informazione del pianeta annunciava la morte di Jurij Alekseevič Gagarin il 27 marzo 1968. La storica impresa era stata un’incursione nello Spazio di appena 108 minuti: poco meno di due ore che ebbero però un significato politico (in piena Guerra Fredda) e tecnologico di grandissima importanza. Fatti alla mano, l'Unione Sovietica dimostrava agli Stati Uniti di padroneggiare la tecnologia che permetteva all’uomo di esplorare lo Spazio oltre la Terra. Per quel volo Gagarin divenne, e ancora oggi è, un eroe per i russi e per il mondo intero. Nulla potrà mai equiparare l'impresa di quest'uomo nell'immaginario sovietico: Jurij Gagarin è di gran lunga uno dei personaggi più amati nel firmamento delle stelle socialiste. Il 12 aprile 1961, lo stesso giorno del suo volo nello spazio, la radio e i giornali sovietici diedero notizia della storica impresa: una notizia totalmente inaspettata, perché nulla era mai trapelato, fino a quel momento. Vedi anche: numeri, retroscena e curiosità: l'impresa di Gagarin in pillole.
UNA VITA DIFFICILE. Nato il 9 marzo 1934 nel villaggio rurale di Klushino, a circa 200 chilometri a ovest di Mosca, in una fattoria collettiva, la sua istruzione fu bruscamente interrotta dalla guerra, nel 1941, quando la famiglia fu costretta a fuggire. Gagarin mostrò una passione per gli aerei fin dall'infanzia e a 20 anni si iscrisse a una scuola di volo: il brevetto gli permise poi di accedere all’aeronautica sovietica per diventare un pilota militare. Come membro dell'aeronautica Gagarin si offrì volontario nel 1959, con altri 19 piloti, per addestrarsi a pilotare un non meglio specificato "nuovo tipo di apparato", che si rivelò poi essere una navicella spaziale. Il gruppo fu ridotto a sei e infine, nell'aprile del 1961, fu scelto per la prima missione con equipaggio nello Spazio, cosa che gli fu comunicata solo pochi giorni prima del lancio. A quel punto Gagarin aveva 27 anni, era sposato con un'infermiera e aveva due figlie. IL PRIMO UOMO. Il 12 aprile 1961 alle 9:07 ora di Mosca, Gagarin pronunciò il suo famoso "poyekhali!" (andiamo!) e il vettore Semyorka partì per lanciare in orbita bassa la minuscola e claustrofobica Vostok 1 e Gagarin stesso. Pochi minuti dopo, alle 9:12, quasi al limite dell'atmosfera le prime parole pronunciate così lontano dalla superficie, le parole di un pioniere: «Vedo la Terra... è magnifica!» Dopo un volo di 108 minuti che prevedeva una singola orbita del pianeta Gagarin rientrò a Terra, ma non all’interno della navicella: con un paracadute, dopo essere stato espulso a circa 7.000 metri di quota. Questo particolare venne tenuto segreto per diversi anni, per timore che il volo non venisse omologato perché incompleto. Due giorni dopo era accolto da eroe a Mosca. Il regime sovietico organizzò per lui diversi tour per il mondo, in “missioni di pace” e propaganda, e fu ricevuto dai leader del mondo di allora, dalla regina Elisabetta II a Fidel Castro. Non gli fu mai più permesso di tornare nello Spazio, nonostante questo fosse il suo desiderio: per i sovietici era diventato un simbolo troppo prezioso per fargli rischiare la vita in missioni pericolose e la sua carriera di cosmonauta e di pilota si interruppe. Dopo qualche anno di celebrazioni e festeggiamenti pubblici, e di molte sregolatezze, Gagarin si rimise in forma e tornò a chiedere insistentemente alle autorità di poter riprendere almeno a pilotare aerei. Nel 1968 gli venne revocato il divieto di volo e fu riqualificato come pilota di jet.
L'ULTIMO VOLO. Il 27 marzo 1968, durante una missione di addestramento, il suo MiG entrò in avvitamento ad alta velocità e si schiantò al suolo. Le circostanze dell'incidente vennero messe a tacere e l'indagine divenne un segreto di Stato, alimentando così anche varie teorie complottiste antisovietiche. Dai documenti declassificati cinquant'anni dopo emerge una sorta di banalità dell'evento (anche se non le cause precise): forse una brusca manovra per evitare un pallone meteorologico, forse l'effetto di turbolenza provocato dalla scia un altro aereo molto più grande. Tra i tanti "si dice" c'è anche quello che vuole che a Gagarin fosse stata concessa una seconda missione nello Spazio. Tre giorni dopo l’incidente, i funerali di Stato con decine di migliaia di persone ad accompagnare il feretro e probabilmente altre centinaia di migliaia nel mondo, attaccate alla radio e alle televisioni. Di Gagarin oggi restano la memoria dell'impresa, il sorriso, la meraviglia che ha riportato sulla Terra, le statue, i francobolli, il centro di addestramento dei cosmonauti alla Città delle Stelle... E il nome al cratere sulla Luna dove Gagarin sognava di mettere piede di lì a qualche anno.
L'impresa di Jurij Gagarin in pillole. Elisabetta Intini l'1 gennaio 2019 su Focus. Il 12 aprile 1961, alle 9:07 ora di Mosca, dalla base spaziale di Bajkonur in Kazakistan decollava la Vostok 1, prima navicella spaziale con equipaggio umano. I 108 minuti che seguirono la videro compiere un'orbita completa intorno alla Terra per poi atterrare con successo, inaugurando trionfalmente l'era delle missioni celesti. All'interno della capsula, guidato da Terra, c'era l'uomo che in seguito sarebbe stato ribattezzato il "Cristoforo Colombo dei cieli": il pilota sovietico appena 27enne Jurij Gagarin. Tra inediti dietro le quinte e pericolosi imprevisti, la cronaca di una mattinata che fece la storia.
3461. I candidati piloti selezionati per la missione Vostok. Di questi, solo 20 affrontarono un anno di duro addestramento psicofisico basato su prove di resistenza alle vibrazioni e alle alte temperature, permanenza in camera di isolamento e risposta alle accelerazioni improvvise. Il 25 gennaio 1961 ne furono selezionati 6: Gagarin era tra questi.
COLAZIONE. La mattina del lancio Gagarin e German Titov, il cosmonauta di riserva, furono svegliati alle 5:30. Jurij eseguì i consueti esercizi, si lavò e fece colazione con un menù "spaziale": carne trita, marmellata di more e caffè. Poi i due cosmonauti indossarono una sottotuta blu, calda e leggera, e sopra una tuta protettiva arancione dotata di un sistema di pressurizzazione, ventilazione e alimentazione. In testa un paio di cuffie e un casco bianco con la scritta CCCP (URSS).
SANGUE FREDDO. Secondo lo storico spaziale Asif Azam Siddiqi, l'ingegnere sovietico Sergej Pavlovi? Korolëv, supervisore della missione Vostok 1, era talmente agitato la mattina del 12 aprile 1961 che dovette prendere una pillola per il cuore. Gagarin invece sembrava calmo, e a mezz'ora dal lancio il suo polso registrava 64 battiti cardiaci al minuto.
PIPÌ. Durante il tragitto verso la rampa di lancio, Gagarin si fermò a far pipì sulla ruota posteriore dell'autobus che lo trasportava. Da allora questo è diventato un rito obbligato e propiziatorio per tutti gli astronauti del Soyuz. Altre tradizioni perpetuate in memoria di Gagarin sono: tagliarsi i capelli due giorni prima del lancio, non assistere al trasporto e al posizionamento dei razzi e della navicella, bere un bicchiere di Champagne la mattina della partenza e firmare la porta della camera dell'hotel prima di uscire per raggiungere la rampa.
«SI VA!». La frase pronunciata da Gagarin alle 9:07 del 12 aprile 1961 quando, chiuso il portellone, cominciò il decollo.
43. I giorni di vita di Galya, secondogenita di Gagarin e della moglie Valya, quando il padre fu lanciato nello spazio. All'epoca Gagarin era già padre di una bambina di due anni, Yelena.
LA NAVICELLA. Del peso totale di 4,7 tonnellate e alta 4,4 metri, la Vostok 1 ("Oriente 1" in russo) era costituita da due parti: un modulo abitabile di forma sferica, che ospitava l'astronauta, e un modulo di servizio provvisto della strumentazione di bordo, dei retrorazzi necessari a frenare e far ricadere la sonda a Terra e di 16 serbatoi contenenti ossigeno e azoto. La capsula abitata era dotata di tre oblò, un visore ottico da orientare a mano, una telecamera, la strumentazione per rilevare pressione, temperatura e parametri orbitali, un portellone e un sedile eiettabile lungo più o meno quanto l'abitacolo di una Fiat 500 (all'epoca il cosmonauta non atterrava insieme alla navicella, ma veniva espulso all'esterno e paracadutato a Terra in fase di rientro).
IL VOLO. Partita da Bajkonur (Kazakistan), la Vostok 1 compì un'orbita completa intorno alla Terra per atterrare, dopo 108 minuti, a Smielkova (Russia occidentale). Inizialmente la capsula fu diretta verso la Siberia; quindi sorvolò l'oceano Pacifico e, già quando si trovava sopra l'Africa, si accesero i retrorazzi per frenare la navicella e consentirne il rientro. L'altitudine massima raggiunta fu di 302 chilometri e la minima di 175. La Vostok viaggiava a una velocità di 27400 chilometri orari.
DATA. Quella del 12 aprile 1961 era probabilmente la prima data utile per battere sul tempo - in piena Guerra Fredda - l'Agenzia Spaziale Statunitense nella corsa alla conquista dello spazio. Alan Shepard, il primo americano nello spazio, avrebbe tentato l'impresa il 5 maggio dello stesso anno. Quello di Shepard a bordo della capsula Freedom 7, però, fu un volo balistico che non raggiunse l'orbita terrestre (la missione non lo prevedeva) e durò poco più di 15 minuti.
MUSICA. Per permettere a Gagarin di scegliere la frequenza migliore con cui comunicare, quattro stazioni radio terrestri trasmisero musica intervallata ogni 30 secondi da un messaggio di chiamata in codice morse, per tutta la durata della missione.
PROVA TV. In piena Guerra Fredda, per gli Americani era prioritario avere la prova che i Sovietici avrebbero effettivamente mandato il primo uomo nello spazio, come da tempo si vociferava, e che non si trattasse di pura propaganda. Per questo già prima del lancio, l'Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana progettò e fece realizzare speciali stazioni in grado di intercettare le comunicazioni dei Russi. Una di queste, posizionata a Shemya, nell'arcipelago delle Aleutine (Alaska), riuscì a captare le comunicazioni tra il cosmonauta e la base terrestre demodulando la trasmissione video e permettendo pertanto di vedere le immagini di Gagarin all'interno della Vostok (cosa già avvenuta nei due lanci precedenti della navicella che avevano però ciascuno, come passeggeri, un cane e un manichino). Così a soli 58 minuti dal lancio, i vertici militari statunitensi ebbero la conferma che l'Unione Sovietica stava facendo sul serio.
SCORTE. A bordo della Vostok 1 c'erano viveri e acqua sufficienti per dieci giorni: in caso di avaria dei retrorazzi, infatti, la capsula avrebbe impiegato questo lasso di tempo a ricadere sulla Terra, per effetto della forza d'attrito presente sulla traiettoria di arrivo studiata. L'eventualità di un rientro "naturale" sulla Terra non venne mai trascurata in fase di progettazione e fu tenuta come possibilità di emergenza.
LUNA. Quella secondo cui Gagarin avrebbe desiderato vedere la Luna durante il suo viaggio è probabilmente soltanto una leggenda. La fase lunare di quel 12 aprile 1961 (Luna quasi nuova) e la distanza angolare dal Sole (20 gradi) rendevano impossibile vedere il nostro satellite, e pare improbabile che l'astronauta non fosse a conoscenza di queste condizioni.
PIANETA AZZURRO. «La Terra è blu… che meraviglia. È bellissima» le parole che Gagarin pronunciò sbirciando fuori dall'oblò.
PILOTA AUTOMATICO. Poiché agli albori dell'era spaziale non si conoscevano i dettagli sugli effetti della permanenza del corpo umano in assenza di gravità, i medici sostenevano che durante la missione il cosmonauta avrebbe sofferto di disorientamento, e che fosse pertanto consigliabile fargli fare la parte del passeggero. Ma gli astronauti erano di diverso avviso e fu raggiunto un compromesso: mentre i controlli di volo erano affidati a un autopilota, i comandi manuali potevano essere sbloccati in caso di necessità attraverso una combinazione numerica di tre cifre custodita in una busta sigillata. Nel caso di Gagarin, non fu necessario aprirla perché la capsula rientrò nell'atmosfera guidata da Terra.
DOPPIO IMPREVISTO. Alle 10:25 il modulo di servizio con gli la strumentazione e i motori per sulla Terra accese i retrorazzi per 42 secondi, ma poi fallì il distacco dalla capsula in cui si trovava il pilota. L'inconveniente modificò l'assetto della navicella che iniziò a roteare su se stessa fino a quando il calore dovuto all'entrata in atmosfera non sciolse i lacci che legavano i due moduli. A 7 mila metri di quota la capsula espulse il sedile con a bordo Gagarin: oltre al primo paracadute, però, si aprì anche quello di emergenza, e per qualche momento il cosmonauta, che nel frattempo si era separato dal sedile, temette che i lacci dei suoi due salvavita si potessero aggrovigliare.
IVAN IVANOVICH. È il nome del manichino che veniva utilizzato per testare le navicelle Vostok durante la fase di preparazione ai voli con cosmonauti in carne e ossa. Munito di una tuta spaziale e di un viso dai lineamenti umani, aveva sotto al visore la scritta MAKET ("fantoccio" in russo) in modo tale che vedendolo, nessuno potesse scambiarlo per un vero astronauta. Ciò nonostante, quando il pupazzo atterrava al suolo dopo essere stato espulso dalla capsula spaziale, ai contadini sovietici ignari della sua vera natura faceva sempre una certa impressione vedere i militari affannarsi attorno ai resti del velivolo piuttosto che precipitarsi a soccorrere il pilota.
TERRA! Alle 10.55 del 12 aprile 1961, dopo 108 minuti dal lancio, Gagarin toccò il suolo di una fattoria collettiva nella provincia di Saratov, Russia occidentale. Le prime persone che incontrò una volta atterrato furono la terrorizzata contadina Anna Taktatova e sua figlia, accompagnate da un vitellino.
PRIMA E ULTIMA. Quella a bordo del Vostok fu l'unica missione di Gagarin nello spazio. Nella prima fase successiva all'impresa è probabile che i vertici sovietici non volessero offuscare la sua immagine con un nuovo, rischioso incarico. In seguito il cosmonauta fu inserito tra le riserve del Soyuz 1 (la cui missione fallì tragicamente nell'aprile del 1967 con la morte del colonnello Vladimir Komarov, prima vittima ufficiale nella storia del volo spaziale) ma morì prima di avere una nuova opportunità.
L'ULTIMO VOLO. Il 27 marzo 1968 Gagarin decollò dalla base sovietica di Chkalovskij a bordo di un aereo supersonico, un MiG-15 UTI: con lui c'era l'esperto istruttore e collaudatore Vladimir Sergeyevich Seryogin. Alle 10:31 si interruppero le comunicazioni con la torre di controllo. I relitti del velivolo, insieme a quel che resta dei corpi dei piloti, erano avvolti da una fitta nube di fumo. Le cause dell'incidente non sono del tutto note, ma c'è chi dice di aver sentito due forti esplosioni. Le ceneri di Gagarin si trovano all'interno delle mura del Cremlino, nella Piazza Rossa a Mosca.
Si ringrazia per la collaborazione Paolo Amoroso, collaboratore del Civico Planetario "Ulrico Hoepli" di Milano e del Museo Astronomico di Brera, esperto di astronautica e volo spaziale
Ecco la verità sulla morte di Juri Gagarin. Claudia Migliore per gialli.it su storiainrete.com il 13 gennaio 2013. Avreste mai pensato che Jurij Alekseevič Gagarin cosmonauta e aviatore sovietico, il primo uomo a volare nello spazio, colui che aveva dedicato la sua vita al volo, potesse morire per un attacco di panico? E’ quello che sostiene una commissione indipendente dal governo russo dopo 9 anni di attente indagini e valutazioni e che svela il mistero della morte di Gagarin precipitato a Kiržač in Russia a bordo di un MiG15UTI il 27 marzo del 1968 a soli 34 anni. E’ il 27 marzo del 1968. Sono passati sette anni dall’impresa che lo ha reso un eroe. Compiere un’intera orbita ellittica attorno alla Terra. Gagarin sta volando a bordo di un piccolo caccia MiG-15UTI e improvvisamente si schianta al suolo nelle vicinanze della città di Kiržač in Russia. Un incidente anomalo, misterioso. Un’improvvisa picchiata e poi lo schianto. Cosa poteva aver causato la morte di un esperto aviatore, prima ancora che cosmonauta, in un volo che avrebbe dovuto essere una passeggiata diviene subito oggetto di mille ipotesi. Soprattutto dopo le frettolose conclusioni dei militari sovietici che attribuiscono l’incidente al probabile avvistamento di una sonda atmosferica o di un manto di nubi. Per loro il caso è chiuso. Il mistero risolto. Ma per molti altri non è così.
Tutte le ipotesi e le recenti scoperte. Alcool, complotto, abduzione da parte degli ufo, falsa morte per rinascere a nuova vita, omicidio. In questi quarant’anni si è sentito di tutto con una ricorrenza drammaticamente simile alla morte di molti altri personaggi famosi. In questo caso è stato scomodato persino il leader sovietico Leonid Brezhnev che invidioso del successo di Jurij Gagarin avrebbe fatto sabotare l’aereo. Le mille ipotesi negli anni hanno favorito la nascita della leggenda. L’ennesimo mistero nascosto negli archivi dell’Unione Sovietica. Fino ad oggi. L’ex colonnello dell’aviazione Igor Kuznetsov, dopo aver preso parte alle prime indagini e aver lavorato negli ultimi nove anni per risolvere questo mistero, ha dichiarato al quotidiano britannico «Daily Telegraph» quella che secondo il gruppo di studio è la possibile causa di quella “picchiata” improvvisa. Quel 27 marzo 1968 Gagarin e il suo copilota Vladimir Seryogin stanno conducendo un volo di routine ad oltre 3000 metri di altezza. Il cosmonauta si accorge improvvisamente che una presa d’aria nel suo abitacolo è stata lasciata aperta. La cabina non è adeguatamente pressurizzata e l’aereo è a 3000 metri d’altezza. Gagarin si spaventa. Si fa prendere dal panico o forse deve aver pensato all’unica cosa possibile per salvarsi la vita, scendere in picchiata ad un’altezza più sicura. Scendere, velocemente, ad oltre 145 metri al secondo. Per non morire. A quei tempi i piloti non sapevano che una discesa così improvvisa e veloce poteva provocare danni enormi. I due perdono conoscenza e si schiantano nel vicino bosco di Kiržač. Il colonnello Kuznetsov assieme ai suoi collaboratori ha usato le più moderne tecniche investigative e consultato centinaia di documenti per riuscire a scoprire le circostanze che causarono quel fatale schianto. Kuznetsov aveva anticipato queste conclusioni già alcuni anni fa. Oggi ne è fermamente convinto e chiede la riapertura del caso che gli era stata già negata nel 2007 dell’allora presidente russo Vladimir Putin. Chi sa come mai. Al momento della morte Jurij Gagarin aveva 34 anni, una moglie e due bambine ed era in procinto di partire per una nuova missione nello spazio. Lo storico volo del 1961 rimarrà invece il suo unico viaggio in orbita. Forse la sua famiglia dopo oltre quaranta anni avrà il diritto di sapere come è morto uno dei più famosi eroi nazionali russi.
Yuri Gagarin su biografieonline.it. L'astronauta russo Jurij Alekseevič Gagarin nasce il 9 marzo 1934. Cresciuto in un'azienda collettiva di quelle create in Russia dopo la Rivoluzione, in cui il padre faceva il falegname, vive la tremenda esperienza dell'invasione del suo Paese da parte della Germania. Il padre di Yuri, per contrastare l'avanzata dei nazisti, si arruola nell'esercito, mentre la madre cerca di portare lui e suo fratello maggiore, con l'intento di proteggerli, il più lontano possibile dai conflitti e dalle battaglie. In seguito, nel suo percorso scolastico, attirato dalle materie scientifiche, decide di specializzarsi in qualche settore tecnico, inscrivendosi ad una scuola di stampo professionale in Mosca. Gli anni di studio sono segnati da difficoltà economiche di vario tipo, tanto che più volte è costretto ad abbandonare la scuola per intraprendere qualche lavoro di tipo manuale e poco qualificato. Mentre è ancora studente inizia ad interessarsi agli aerei e a tutto ciò che è in grado si solcare il cielo, iscrivendosi presto alla locale scuola di volo. Si accorge, e per primi i suoi insegnanti, che è dotato di un vero e proprio talento in questo campo e una volta diplomato nel 1955 entra nell'aviazione sovietica. Anche in mezzo a provetti piloti, appare chiaro che le doti del giovane asso sono sopra la media, tanto che viene sottoposto a test che esulano dai normali standard o a prove altamente specializzate. Non solo: l'aviazione lo sceglie anche per testare nuovi sistemi e apparecchiature di volo. Il passo da lì a desiderare di volare "più in alto" è breve. Si offre infatti volontario per diventare astronauta. Non molto tempo dopo un volo intorno alla Terra di 108 minuti consegnava alla storia come primo uomo nello spazio uno sconosciuto ufficiale di 27 anni dell'aviazione sovietica. Era il 12 aprile 1961. La sua missione, come la maggior parte delle imprese spaziali sovietiche, non viene preannunciata. Gagarin viene lanciato alle 9:07 - ora di Mosca - dal cosmodromo di Baikonur all'interno dell'astronave "Vostok 1", del peso di 4,7 t. Entrato regolarmente in orbita, compie un giro attorno alla Terra, raggiungendo una distanza massima di 344km (apogeo) e minima di 190 km (perigeo). Gagarin è stato il primo uomo a sperimentare lo stato di imponderabilità e ad effettuare osservazioni del nostro pianeta dallo spazio esterno. Dopo 78 minuti di volo accese i retrorazzi che frenarono la corsa della "Vostok" e la portarono sulla traiettoria del rientro. I sovietici sostennero che l'astronauta rimase all'interno della capsula, la quale scese dolcemente per mezzo di paracadute sulla terra ferma; secondo fonti americane, invece, l'astronauta fu catapultato a sette mila metri di altezza e discese con un proprio paracadute. L'atterraggio avvenne alle ore 10:55. L'impresa di Gagarin è considerata fondamentale perché dimostra che l'uomo può resistere alle tremende sollecitazioni della partenza e del rientro all'ambiente ostile dello spazio extraterrestre. Dopo Gagarin, primo astronauta della storia e primo uomo che ha portato a compimento un volo spaziale attorno alla Terra, bisognerà attendere vent'anni esatti per vedere lanciato da Cape Canaveral il primo shuttle statunitense. L'exploit di Gagarin è un trionfo per l'Urss. L'America avrebbe recuperato il terreno che la separava dai sovietici, arrivando sulla Luna solo otto anni più tardi. Il volo nello spazio è stato segnato indelebilmente dalla guerra fredda, e ogni lancio era l'occasione - per una superpotenza o per l'altra - di piantare la propria bandiera. Oggi i giorni del confronto spaziale tra superpotenze sono finiti, e Russia e Stati Uniti lavorano insieme per costruire la stazione spaziale Alpha. Gagarin muore prematuramente a soli trentaquattro anni. Passano solo sette anni dalla sua conquista dello spazio quando il 27 marzo 1968 muore a bordo di un caccia da addestramento. Il caccia, un Mig 15, aveva a bordo anche un pilota collaudatore molto esperto: per ordine del Cremlino, Gagarin non poteva volare da solo (per questioni di sicurezza). Sempre il Cremlino gli aveva impedito anche di ritornare nello spazio: un eroe non doveva morire per qualche incidente. Invece nella più banale delle situazioni Gagarin cadde. Ma il mistero sulla sua fine è fitto. Varie sono le spiegazioni avanzate ufficiali e ufficiose. Ecco le principali:
1) Dopo l'incidente vennero avviate diverse inchieste le quali spiegarono che il Mig-15 di Gagarin era entrato nella scia di una altro caccia in volo. Il Mig perse il controllo è precipitò. Nella zona, non lontano da Mosca, c'era un fitta nebbia e i due jet non si erano visti.
2) Il controllo del traffico aereo militare era molto carente e autorizzò il volo del caccia nella zona dove volava Gagarin quando doveva invece impedirlo. Tenendo conto che i due jet non potevano volare a vista i controllori dovevano esercitare un controllo che invece non c'è stato.
3) Il servizio meteorologico nella zona di volo di Gagarin non aveva segnalato la presenza di dense nubi basse nelle quali invece si venne a trovare il Mig. Per un'avaria all'altimetro il caccia fece delle manovre troppo basse finendo al suolo.
4) C'è infine un'ipotesi fantasiosa. Quella dell'omicidio che sarebbe stato ordinato dal Cremlino dove allora comandava Breznev, per togliere di mezzo un personaggio che stava diventando ingombrante e poco gestibile. Il mistero rimane.
A Juri Gagarin è stato dedicato in Russia il centro di addestramento dove si preparano i cosmonauti prescelti per le varie missioni spaziali e a suo onore è stato eretto a Mosca nel 1980 un monumento alto 40 metri, costruito in Titanio.
Yuri Gagarin, la storia del primo uomo nello spazio. Silvia Artana il 12/04/2018 su Mondofox. Il 12 aprile 1961, Yuri Gagarin compiva un'orbita completa intorno alla Terra a bordo della Vostok 1 ed entrava nella leggenda. Ecco la storia del primo uomo nello spazio. Il 12 aprile 1961, Yuri Gagarin è stato il primo uomo ad andare nello spazio. Con la sua impresa, il cosmonauta sovietico ha aperto la strada verso nuovi, incredibili orizzonti ed è diventato leggenda. In occasione dell'anniversario del volo della navicella Vostok 1, noi di MondoFox vi proponiamo un viaggio alla scoperta della storia di un eroe normale, che da uno sperduto villaggio di campagna è arrivato a conquistare le stelle.
La biografia. Yuri Gagarin (Jurij Alekseevič Gagarin) nasce il 9 marzo 1934 a Klušino, un piccolo villaggio rurale nella regione (oblast') di Smolensk, nell'allora Unione Sovietica. La sua famiglia è composta dai genitori Alexey Ivanovich Gagarin, falegname e muratore, e Anna Timofeyevna Gagarina, mungitrice, dai fratelli maggiori Valentin e Zoya e dal minore Boris. Il giovane cresce in una delle collettività aziendali sorte in Unione Sovietica alla fine del 1917 e nel 1941 si ritrova a fare i conti con l'occupazione tedesca. Un ufficiale nazista si stabilisce nell'abitazione dei Gagarin e Yuri, il padre, la madre e Boris sono costretti a vivere per quasi due anni in una minuscola capanna di fango nel loro cortile, mentre Valentin e Zoya vengono deportati in Polonia ai lavori forzati. I due fanno ritorno nel 1945 e nel 1946 la famiglia si trasferisce a Gzhatsk, che dopo la morte del cosmonauta è stata ribattezzata Gagarin, dando il nome al distretto di Gagarinsky. Qui Yuri riprende gli studi interrotti a causa della guerra e si specializza come fonditore. Le sue qualità non passano inosservate e il giovane viene selezionato per un programma speciale nella vicina Saratov, acquisendo le ulteriori qualifiche di stampatore e tecnico trattorista. Proprio mentre si trova a Saratov, Yuri inizia ad appassionarsi al volo e si offre volontario per l'addestramento presso un club locale, imparando a pilotare i biplano e i monomotore d'addestramento Yakovlev Yak-18. Il suo eccezionale talento gli apre le porte dell'esercito. Il futuro cosmonauta viene inviato dietro raccomandazione presso la Prima scuola piloti dell'aeronautica Chkalov a Orenburg e nel 1957 diventa pilota di MiG-15. Completato l'addestramento, il giovane viene mandato di stanza in una base al confine con la Norvegia, dove impara a pilotare in condizioni climatiche estreme e scala rapidamente le gerarchie, acquisendo il grado di tenente dell'Aeronautica sovietica nel 1957 e di tenente anziano nel 1959. Nello stesso anno, Yuri è selezionato per il Programma spaziale portato avanti in gran segreto dall'Unione Sovietica. Il giovane ufficiale supera brillantemente le durissime selezioni e alla fine viene scelto come pilota della navicella Vostok 1. Il 12 aprile 1961, entra nella storia diventando il primo uomo a volare nello spazio e a compiere un'orbita completa intorno alla Terra. Il successo della missione fa di Yuri un eroe nazionale e un prezioso simbolo della potenza dell'Unione Sovietica. Per questa ragione, il cosmonauta viene escluso dalle successive missioni, per timore che possa rimanere vittima di un incidente. L'impresa di Yuri Gagarin finisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dopo avere viaggiato a lungo per il mondo per pubblicizzare il programma spaziale sovietico, nel 1962 Yuri torna in patria e inizia a servire come deputato il Soviet dell'Unione. Intanto, continua la carriera nell'esercito. A novembre 1963 viene promosso colonnello e a dicembre dello stesso anno diventa vice direttore dell'addestramento presso la base Star City, che si occupa della formazione dei futuri cosmonauti. La vita di Yuri finisce tragicamente il 27 marzo 1968. Mentre è in volo su un MiG-15UTI, si schianta al suolo nei pressi della città di Kiržač. Il primo uomo nello spazio muore ad appena 34 anni, lasciando la giovane moglie Valentina e le figlie Yelena e Galina.
Le missioni Sputnik e il Programma Vostok. L'epoca della esplorazione spaziale inizia ufficialmente il 4 ottobre 1957 con il lancio dello Sputnik 1. La missione è il coronamento del programma portato avanti dall'Unione Sovietica per mettere in orbita satelliti artificiali.
Lo Sputnik 1 (che in cirillico significa compagno di viaggio e per estensione satellite in astronomia) compie 1.400 orbite e 70mila km, mentre la strumentazione al suo interno rimane funzionante per 57 giorni. Il satellite brucia andando completamente distrutto durante il rientro il 4 gennaio 1957. Il successo e la enorme eco mediatica della missione spingono i sovietici a lanciare un secondo satellite, lo Sputnik 2, stavolta con a bordo un essere vivente, la cagnolina Laika. Dopo avere orbitato intorno alla Terra dal 3 novembre 1957 al 14 aprile 1958, il satellite fa rientro senza problemi come previsto vicino a Mosca. Invece, la povera Laika muore poche ore dopo il lancio a causa degli sbalzi di temperatura. Il 15 maggio 1958 (al secondo tentativo), l'Unione Sovietica manda in orbita lo Sputnik 3, che pone ufficialmente fine al Programma Sputnik. Tuttavia, in Occidente vengono identificati come Sputnik anche i 6 satelliti artificiali lanciati successivamente, che invece rappresentano i prototipi delle navicelle Vostok. Facendo riferimento a tale (erronea) denominazione, lo Sputnik 9 e lo Sputnik 10 (lanciati a pochi giorni di distanza uno dall'altro, a marzo 1961), rivestono particolare importanza, perché rappresentano le prove generali per mandare in orbita un uomo. Infatti, a bordo di entrambi ci sono un cane e un manichino. Dal 1961, la corsa allo spazio dell'Unione Sovietica intraprende due strade diverse. Da un parte, viene promosso il Programma Cosmos per la messa in orbita di generici satelliti. Dall'altra, viene varato il cosiddetto Programma Vostok per lanciare nello spazio un essere umano. Per individuare il cosmonauta da fare viaggiare all'interno della navicella, l'Unione Sovietica dà il via già nel 1959 a una eccezionale ricerca di candidati, che prevede non solo parametri stringenti in termini di conoscenze tecniche e doti fisiche, ma anche di qualità morali. In particolare, gli uomini e le donne selezionati devono avere una vita a prova di scandalo e conforme agli ideali del regime. Alla fine, da un gruppo monster di 3mila aspiranti cosmonauti, la lista si riduce a 400 e poi a 20. Tra loro c'è anche Yuri Gagarin. Il giovane ufficiale inizia con i compagni un duro periodo di addestramento, che il 31 maggio 1960 porta all'ufficializzazione dei nomi dei 6 potenziali piloti della navicella Vostok 1. Yuri viene selezionato insieme ad Andrijan Grigor'evič Nikolaev, Pavlo Romanovyč Popovyč, German Stepanovič Titov, Anatoli Kartaschov e Valentin Varlamov. Dopo varie traversie e un tragico incidente che costa la vita a uno dei candidati, Yuri Gagarin diventa il primo pilota della Vostok 1, insieme al secondo German Stepanovič Titov (al quale sarà affidato il lancio della Vostok 2). Il momento tanto desiderato, atteso e temuto arriva all 9:07 ora di Mosca del 12 aprile 1961. La navicella Vostok 1 viene lanciata dal cosmodromo di Baikonur, dopo che Yuri dà l'ok alla partenza con la celebre esclamazione "poechali!", ovvero "andiamo!". Il cosmonauta compie un'intera orbita intorno alla Terra e rimane in volo per 108 minuti, viaggiando lungo una traiettoria ellittica con perigeo di 169 km e apogeo di 315 km. Benché Yuri sia una eccellente pilota, la navicella è comandata da Terra, con la possibilità di sbloccare i comandi manuali in caso di necessità. Fortunatamente, la missione si svolge senza intoppi (a parte un problema con l'apertura dei paracaduti frenanti, che tuttavia non ha conseguenze) e Yuri atterra nella steppa, nelle vicinanze del villaggio di Smelovka. Quando esce dalla Vostok 1, il cosmonauta si trova davanti Anna Takhtarova e sua nipote Rita, che stavano raccogliendo patate in un campo vicino. La donna è atterrita, invece la ragazzina è incuriosita e chiede a Yuri se arriva dallo spazio. A quel punto, il cosmonauta risponde: "Proprio così". Il Programma Vostok procede con altri 5 lanci e il 16 giugno 1963 segna un altro eccezionale primato storico, quando Valentina Vladimirovna Tereškova diventa la prima donna a volare nello spazioa bordo della Vostok 6.
La morte di Gagarin. Yuri Gagarin muore il 27 marzo 1968. Il cosmonauta si schianta al suolo con il suo MiG-15UTI mentre sta effettuando una esercitazione con l'istruttore di volo Vladimir Seryogin. Le cause dell'incidente non sono mai state del tutto chiarite e l'indeterminatezza ha fatto fiorire diverse fantasiose teorie complottiste. Ma seppure offrano risposte diverse, le varie indagini concordano sull'assenza di eventi e fatti "misteriosi". Secondo l'inchiesta condotta dal KGB e declassificata nel 2003, un controllore di volo avrebbe fornito a Yuri delle informazioni obsolete sulle condizioni climatiche, mentre nella preparazione del suo aereo sarebbero stati lasciati dei serbatoi all'esterno. Questi due fattori avrebbero impedito al cosmonauta di riprendere il controllo del suo MiG-15UTI, perso per evitare la collisione con uno stormo di uccelli o un altro aereo. Un'altra teoria suggerisce che a causare l'incidente sia stata una perdita di pressione all'interno dell'abitacolo, causata da uno sfiato lasciato aperto per errore. Invece, l'indagine realizzata dal Comitato Centrale del Partito Comunista offre una conclusione analoga a quella del KGB. Yuri avrebbe compiuto una manovra improvvisa in condizioni meteorologiche molto difficili per evitare un pallone sonda o un banco di nubi e avrebbe perso il controllo del MiG. Infine, il responsabile dell'inchiesta promossa da una Commissione statale, Alexey Leonov, ritiene probabile che a causare l'incidente sia stato un jet Sukhoi, che volava a bassa altitudine senza rendersene conto a causa del maltempo. Il velivolo, molto più grosso e potente del caccia di Yuri, avrebbe abbattuto la barriera del suono, generando una turbolenza che avrebbe mandato in rotazione il MiG-15UTI, facendolo precipitare.
Le citazioni più famose. Al di là della facciata di eroe nazionale, Yuri Gagarin è un uomo di grande fascino e carisma, che non ha dimenticato le sue origini umili e che in più occasioni mostra una eccezionale sensibilità e gentilezza d'animo.
Una delle sue più celebri frasi è quella che pronuncia quando vede il mondo dallo spazio: La Terra è blu [...] Che meraviglia. È bellissima.
In un'altra dichiarazione, parla della sua visione privilegiata per inviare un messaggio di pace: Girando intorno alla Terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro pianeta. Il mondo dovrebbe permetterci di preservare ed aumentare questa bellezza, non di distruggerla!
Il pragmatismo dell'"eroe normale" emerge nel ricordo dell'atterraggio: Quando mi videro con la mia tuta spaziale, trascinando il paracadute mentre camminavo, iniziarono ad indietreggiare impauriti. Dissi loro di non spaventarsi, che ero un sovietico come loro, che era tornato dallo spazio e doveva trovare un telefono per chiamare Mosca.
E l'"uomo come tutti" parla in occasione di un viaggio ufficiale a Manchester, in Gran Bretagna, dopo la missione con la Vostok 1. Nella città inglese piove a dirotto, ma Yuri insiste perché la capote dell'auto su cui viaggia rimanga abbassata: Se tutte queste persone si sono dimostrate disponibili ad accogliermi e possono stare sotto la pioggia, anch'io posso.
Invece, ci sono molti dubbi sul fatto che mentre era nello spazio il cosmonauta si sia dedicato a riflessioni di carattere teologico: Non vedo nessun Dio quassù.
Secondo un collega e amico di Yuri, il colonnello Valentin Vasil'evich Petrov, la frase sarebbe da attribuire al leader dell'Unione Sovietica e Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS), Nikita Sergeevič Chruščëv.
I film ispirati a Yuri Gagarin. Per quanto quella di Yuri Gagarin sia una figura leggendaria, il mondo del cinema sembra avere poco interesse a portarla sul grande schermo. Tuttavia, qualche film c'è. Il più celebre è Gagarin. Primo nello spazio (2013), che racconta la vita del cosmonauta e celebra l'impresa compiuta a bordo della navicella Vostok 1. Il lungometraggio porta la firma del russo Pavel Parkhomenko. Un'altra pellicola dedicata al lancio avvenuto il 12 aprile 1961 è il documentario sperimentale First Orbit (2011), realizzato e prodotto dal regista britannico Christopher Riley in collaborazione con l'astronauta italiano Paolo Nespoli e l'Agenzia Spaziale Europea. Pensato per la diffusione digitale, il lungometraggio ripercorre passo passo (letteralmente) il viaggio intorno alla Terra compiuto dalla Vostok 1 e permette di vedere quello che ha visto Yuri nel suo pionieristico volo. Invece, Il tempo dei primi (2017) di Dmitrij Kisseliov è una rappresentazione di fantasia della corsa allo spazio dell'Unione Sovietica (in competizione con gli USA) e del Programma Vostok.
Yuri's Night: l'evento che celebra le esplorazioni spaziali. Il 12 aprile è un giorno di enorme importanza nella corsa allo spazio. Nel 1961, Yuri Gagarin è il primo uomo a entrare in orbita intorno alla Terra. Nel 1981, avviene la prima missione dello Space Shuttle Columbia. Per celebrare questi importanti avvenimenti (il secondo dei quali è già un omaggio al primo), dal 2001 ogni anno in questa data in tutto il mondo si festeggia la Yuri's Night. Ideata da Loretta Hidalgo Whitesides, George T. Whitesides e Trish Garner during durante lo Space Generation Forum in occasione della UNISPACE III Conference del 1999, la manifestazione ha come obiettivo di "educare e fare emergere la nuova generazione di esploratori", attraverso un mix di incontri, dibattiti, iniziative e festeorganizzati da molteplici soggetti e rivolti ad altrettanti partecipanti (dalla NASA, a scrittori e ricercatori di fama mondiale, fino a gruppi di amici). Per conoscere gli eventi in programma nella propria città o in qualunque parte del Pianeta, basta collegarsi al sito ufficiale della Yuri's Night. Invece, per proporre un'attività è necessario registrarsi. Siete pronti a volare nello spazio?
Gagàrin, il primo uomo nello spazio. Ora che resta a noi “terrestri”? Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 di Indro Montanelli su Corriere.it. Non credo che ci sia stato nulla d’ipocrita e di convenzionale nell’esultanza del mondo intero per la prima avventura dell’uomo nel cosmo, così felicemente conclusasi. Forse qualcuno avrebbe preferito che il protagonista fosse stato americano, invece che russo. Ma questa è una considerazione secondaria e, in fondo, cosi miserella che nessuno ha osato formularla. Non abbiamo fatto in tempo a sentirci solidali con Yuri Gagàrin mentre volava a trecento chilometri dalla Terra semplicemente perché in quel momento non sapevamo che stesse volando. Ma la notizia del suo avvenuto ritorno nel pianeta di partenza (eh già, d’ora in poi bisognerà abituarsi, a parlare e a ragionare in questi termini) ci ha riempito di orgoglio. L’uomo è uscito dal suo “habitat”, ha messo una ipoteca sugli spazi, ha affermato i suoi diritti sull’intero cosmo. E qui mi fermo per non naufragare nella retorica: non ce n’è nessuna peggiore di quella ispirata dalle grandi conquiste della scienza. Eppure, a volerci proprio parlare col cuore in mano, l’esultanza e l’orgoglio non escludono, nell’animo della gente, un certo sbigottimento e una vaga paura, non si sa bene di che, ma di qualcosa. Non ce lo diciamo, forse per vergogna; ma ce lo leggiamo negli occhi l’uno dell’altro, e ciò crea fra noi, fra noi “terrestri”, una specie di oscura omertà. È un sentimento impreciso e mescolato, non facilmente analizzabile. Prendo il mio caso, non perché lo consideri di eccezione, ma anzi appunto perché non lo è, e quindi molti lettori potranno riconoscervi il proprio. Cosa rappresenta, per me l’avventura astronautica di Yuri Gagàrin, oltre all’uscita dell’uomo dal suo “habitat”, l’ipoteca sugli spazi, eccetera eccetera? Rappresenta l’annientamento di tutte quelle personali esperienze dalle quali derivavo qualche motivo di soddisfazione. A sedici anni passai per un ragazzo audace perché andai in bicicletta da Fucecchio a Firenze. Fra i venti e i ventidue mi feci una fama di avventuroso perché me ne andai a studiare a Parigi, di lì emigrai in Norvegia e in Canada e tornai in Patria circonfuso di un alone salgariano. Pensavo con orgoglio: «Chissà quante cose avrò da raccontare ai miei nipoti, quando sarò vecchio!». I nipoti non li avrò mai, perché non ho avuto figli, almeno legittimi. Ma quante altre imprese ho affrontato nella mia vita, quasi unicamente per il gusto di raccontarle un giorno a questi ipotetici nipoti che non avrò? E da questo lato è una grossa fortuna che non li abbia perché, dopo Yuri Gagàrin, essi non mi avrebbero mai ascoltato. L’astronauta ha reso insignificanti il mio forsennato turismo di giornalista viaggiante, i miei giri del mondo a ripetizione e tutte le esperienze che ne ho ricavato. Esse non sono che “terrestri”, Dio mio. E cosa può trovarvi da imparare, o anche soltanto da incuriosirsi, una generazione che già vive con lo sguardo rivolto alla Luna e a Marte? Yuri Gagàrin ha fatto di me il nonno di me stesso. Da quando egli è tornato dal suo volo in orbita, tutte le volte che apro bocca mi sembra di udire il padre di mio padre, che per tutta la vita seguitò a raccontare un suo famoso viaggio da Fucecchio a Roma, che di famoso ebbe soltanto questo: il treno arrivò a Roma proprio in diciotto ore, come prometteva l’orario delle ferrovie. Il progresso, si capisce, rende sempre le esperienze di un uomo superate agli occhi di suo figlio. Ma l’impresa di Gagàrin non supera soltanto quelle nostre, le svuota addirittura e le annulla. È come se, d’improvviso, ci mutilassero del nostro passato, togliendogli ogni senso e significato. Il sospetto ci coglie di aver vissuto invano, noi che abbiamo vissuto soltanto in questa terra, di questa terra e per questa terra. Ripeto: è un sentimento confuso e vago, che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. Ma c’è. Ce lo leggiamo negli occhi l’uno dell’altro. È la nostra terrestre complicità. Ma ce n’è anche un altro, anch’esso inconfessato e difficilmente confessabile: la paura. Il mistero dell’universo, di paura non ce ne faceva più, perché ad esso ormai eravamo abituati. Noi siamo nati sapendo di non sapere e con la convinzione che non si sarebbe mai potuto sapere. Per quanto grandi e rapidi fossero i progressi che la scienza realizzava sotto i nostri occhi, rimaneva in noi la convinzione oscura e profonda, forse superstiziosa, che oltre i limiti del nostro “habitat” non si sarebbe potuti andare. Eravamo convinti che avremmo potuto inventare degli aggeggi per vedere, palpare, auscultare gli altri mondi; ma varcare - noi di persona - i confini di quello nostro, no. A questo punto la scienza, credevamo, doveva fermarsi per cedere il passo all’intuizione poetica, alla speculazione filosofica e, soprattutto, alla rivelazione religiosa che le comprende tutt’e due. Quel gran buio che ci circondava ci teneva caldo come una coltre d’ovatta in cui era piacevole dormire e sognare. Ed ecco, invece, Yuri Gagàrin andare ad accendervi la prima lampadina. Indro Montanelli, toscano, nato nel 1909, scrisse sul Corriere dal 1938. Il 3 luglio 2001 uscì l’ultima Stanza di risposta ai lettori. Morì il 22 luglio a 92 anni. Da parecchio tempo sapevamo che c’erano, in Russia e in America, dei Gagàrin che si allenavano per farlo. Ma non eravamo convinti che ci sarebbero riusciti, eppoi non ci hanno dato il tempo di prepararci al fatto compiuto. Oramai non c’è più da avere dubbi (stavo per dire: non c’è più da farsi illusioni): l’uomo ci va, negli spazi, ne vedremo avventurarvisi a schiere e sempre più addentro, fino a rispondere alla domanda cui, in fondo, speravamo di non poter mai rispondere: siamo soli, nel creato, oppure no? Lasciamo stare la fantascienza e le congetture. Restiamo ai nostri sentimenti terrestri. Noi siamo così impreparati a risolvere questo dubbio, che non sappiamo nemmeno cosa augurarci. Quando m’interrogo - e ormai non posso farne più a meno - mi rendo conto che ambedue le ipotesi mi fanno ugualmente paura. L’idea che noi siamo gli unici esseri viventi in questo immenso cosmo, in questa infinità di mondi cui non si riesce ad assegnare né una fine né un principio, mi sgomenta non meno del sospetto che ce ne siano altri, chissà come fatti e dove alloggiati con cui, prima o poi, dovremmo entrare in contatto. Sì, d’accordo, le prospettive che tutto ciò dischiude alla nostra iniziativa sono meravigliose. Ma io non riesco ad esaltarmene che con parecchie riserve suggerite dallo sbigottimento e, se volete, dalla viltà. Sì, ho paura. Ho francamente paura di questa avventura a cui Gagàrin ha dato l’avvio col suo portentoso volo. Forse è lo stesso sentimento irrazionale e assurdo che provarono i nostri padri alla notizia che alcune caravelle avevano violato le Colonne d’Ercole e scoperto l’altro emisfero. Però non è soltanto mio. Esso non infirma l’esultanza per l’ipoteca messa dall’uomo sugli spazi, eccetera eccetera, che rimane vera e sincera. Ma ci convive. Saranno i pregiudizi, saranno le abitudini, saranno le superstizioni; ma sulle Colonne d’Ercole che Gagàrin ha violato, noi abbiamo sempre letto, o creduto di leggere, nell’ immaginazione, la scritta off limits, e almeno per il momento non riusciamo a liberarci da un vago e indefinito “complesso” di sacrilegio. Noi scriviamo per un giornale, dove le parole vivono ventiquattr’ore soltanto. Quindi non c’è pericolo che le mie passino alla posterità e che la posterità ne rida. Ma è proprio questo che ci consente di essere sinceri fino in fondo. Così mi sento di poter dire ciò che, probabilmente, molti altri avranno pensato e cioè che la impresa di Gagàrin, oltre alla solidarietà dell’uomo per l’uomo e all’orgoglio per il suo ardire e il suo sapere, in me ha suscitato, per reazione, una specie di disperato amore alla Terra, a questa nostra buona Terra, che mai mi era apparsa cosi bella, così ricca, così completa, come da quando il primo uomo l’ha abbandonata, sia pure per un’ora soltanto. Come mi accorgo di volerle bene, Dio mio, come la calpesto volentieri, come sarò contento, d’ora in poi, anche d’inciamparci, ogni tanto, e di picchiarci il muso, o magari di rompermici il femore, come mi riempie di gioia la certezza di non essere in tempo, per quanto rapida possa essere la conquista degli spazi, a venire seppellito altrove che nella terra della Terra. Non sapevo di nutrire questi sentimenti. È Gagàrin che me li ha rivelati. In fondo, gliene sono grato. Il cosmonauta eroe urss morì in aereo a 34 anni. Solo una volta nello spazio, ma per primo. Tanto è bastato a renderlo un mito. Yuri Gagàrin nacque in Russia nel 1934. Durante gli studi, interrotti a causa della Seconda guerra mondiale, si appassionò al volo e si iscrisse a una Scuola di Aeronautica. Il 12 aprile 1961 volò nello spazio sulla navicella «Vostok 1». L’impresa lo rese una celebrità nell’Urss. Morì 7 anni dopo, appena 34enne. Beffa del destino: in un incidente aereo.
· La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna.
La missione Apollo 11: così l'uomo sbarcò sulla Luna. Il Saturno V, con la navetta Apollo e il suo equipaggio, vennero lanciati in perfetto orario mercoledì 16 luglio 1969 e arrivarono nell'orbita lunare sabato 19 luglio. Domenica 20, mentre Collins restava sul modulo di comando, chiamato Columbia, Armstrong e Aldrin entravano nel modulo lunare, chiamato Aquila. Alla 13/ma orbita lunare i due moduli si separarono e Aquila accese i motori per cominciare la discesa. La Repubblica il 16 luglio 2019. In tutto il mondo oltre 500 milioni di persone seguivano dalle tv ogni fase della missione col fiato sospeso. Nelle poche ore trascorse sulla Luna i due astronauti lavorarono per raccogliere 22 chilogrammi di rocce lunari. Poi alzarono la bandiera americana e lasciarono sul suolo lunare la targa con le tre firme dell'equipaggio e quella dell'allora presidente Richard Nixon: "Qui nel luglio 1969 misero per la prima volta piede sulla Luna uomini venuti dal pianeta Terra, siamo venuti in pace per l'intera umanità". Le tappe della missione:
Il lancio. In 2 minuti e 42 secondi, il razzo raggiunge una velocità di 9.800Km/h ed entra nell'orbita terrestre.
Inserimento translunare. Dopo un'orbita terrestre si riaccende il terzo stadio per sei minuti, dopodichè inizia il viaggio verso la luna.
Trasposizione e attracco. Il modulo di comando ruota di 180°, aggancia il modulo lunare e lo estrae dal terzo stadio. Così si connettono agli alloggi dell'equipaggio. Il terzo stadio si stacca per raggiungere il suolo lunare.
Inserimento in orbita lunare. Tre giorni dopo la partenza, il motore principale del modulo di comando si accende per rallentare l'astronave e raggiungere l'orbita lunare.
l modulo lunare (LEM). E' composto da due stadi: lo stadio di discesa, per far atterrare verticalmente il modulo lunare, e uno stadio di ascesa con gli alloggi degli astronauti. Il primo resterà sul suolo lunare.
Allunaggio. Due astronauti entrano nel modulo lunare, che si separa e scende sulla Luna, mentre il modulo di comando, pilotato dal terzo astronauta, resta in orbita.
Lo sbarco. Il 20 luglio avvenne lo sbarco: il primo a scendere fu Neil Armstrong, seguito da Buzz Aldrin. Durata della missione: 8 giorni.
Riaggancio in orbita. Lo stadio di ascesa entra in orbita e aggancia il modulo di comando, poi, il modulo lunare viene sganciato per impattare sulla Luna.
Inserimento transterrestre. Si accende il potentissimo motore del modulo di comando, che fa uscire l'astronave dall'orbita lunare e la riporta in quella terrestre.
Il rientro. Il modulo di comando si separa dal modulo di servizio. Il primo rientra nell'atmosfera protetto dallo scudo termico, il secondo brucerà completamente.
Il rientro. Il modulo di comando si separa dal modulo di servizio. Il primo rientra nell'atmosfera protetto dallo scudo termico, il secondo brucerà completamente.
L'uomo sulla Luna, lo sbarco impossibile che oggi fa sognare Marte. Matteo Marini il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Sono passati cinquant'anni, ma l'orma sulla superficie lunare e la bandiera a stelle e strisce restano il simbolo del viaggio verso altri mondi. Che oggi potrà contare su nuove tecnologie e alleanze allora impensabili. Gli americani dovevano raggiungere la Luna, a tutti i costi, per surclassare i sovietici nella corsa allo spazio. Era una sfida tecnologica e politica ma portava in grembo anche un sogno, assecondava una predisposizione naturale, la curiosità di spingersi oltre, la voglia di conoscenza. Le colonne d’Ercole ormai sono l'atmosfera e la gravità della Terra. Il nuovo mondo, la superficie di un altro pianeta. Quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin posarono lo scarpone sulla soffice polvere del Mare della Tranquillità, era il 20 luglio 1969, sei ore dopo aver toccato il suolo con il modulo Eagle, l'Aquila, il buon esito della missione era ancora tutt’altro che scontato. Il presidente Nixon aveva già pronto in tasca il discorso da tenere nel caso in cui i due astronauti scesi sulla Luna non fossero stati in grado tornare indietro. Iniziava con queste parole: "Il fato ha decretato che gli uomini che sono andati sulla Luna per esplorarla in pace, resteranno sulla Luna per riposare in pace". Ma non andò così. Sei missioni hanno portato in tutto 12 uomini a sbarcare sul nostro satellite naturale in poco meno di tre anni e mezzo, dal 1969 al 1972. Tutti maschi, tutti americani. Oggi li potremmo chiamare “daredevil”, temerari scavezzacollo, se vogliamo anche loro malgrado, per i rischi che si trovarono a correre. La lista di inconvenienti durante le varie missioni Apollo è lunga. A cominciare dalla prima discesa con l'Apollo 11, quella di Armstrong e Aldrin, quando il computer si mise a fare le bizze. Saltò fuori che Aldrin aveva tenuto operativo il radar per tornare in emergenza verso il modulo in orbita se ci fossero stati problemi. Troppe cose da gestire per un computer super affidabile ma dalla potenza paragonabile a un Commodore 64. La disavventura dell’Apollo 13 la conosciamo tutti, il serbatoio di ossigeno che esplose durante la fase di crociera. Jim Lovell che disse la celebre frase “Houston, abbiamo avuto un problema”, un’orbita sola attorno alla Luna senza scendere e il rientro in emergenza. Lo stesso Armstrong aveva rischiato la vita durante un test con il modulo Lem. E d’altronde quelli che sarebbero dovuti essere i primi astronauti delle missioni Apollo, Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee, persero la vita nell’inferno scoppiato dentro alla capsula sigillata dell’Apollo 1. Era il 27 gennaio 1967, due anni e mezzo prima dello sbarco di Armstrong e Aldrin. Un dramma che scosse come un terremoto l’America, plumbeo auspicio per un’avventura che si rivelò poi un successo. Sulla Luna gli uomini hanno camminato, saltellato, guidato auto e giocato a golf. Per la prima volta un piede umano calcava la superficie di un altro mondo. Pur nell’impaccio della tuta i loro muscoli sollevavano un peso diverso, un corpo sei volte meno gravoso. Grazie ai campioni raccolti, ora sappiamo che la Luna è una ‘gemella diversa’ della Terra, con una composizione simile a quella del nostro Pianeta. Nel 1971 David Scott, astronauta dell’Apollo 15, portò con sé una piuma per dimostrare la teoria dei gravi in diretta tv. La lasciò cadere assieme a uno dei martelli che usava per raccogliere pietre. Essendo nel vuoto pressoché assoluto, toccarono il suolo nello stesso momento, come accadrebbe sulla Terra se non ci fosse atmosfera. “Galileo aveva ragione”, disse Scott. Insomma era un altro mondo, ma con le stesse leggi. Sembra banale, ma non lo è, perché nessuno fino ad allora lo aveva mai vissuto. Un anno e due missioni dopo la Luna era diventata sì, quasi banale. Più che altro superflua. L’avventura era cominciata nell’estate di Woodstock ma anche della “escalation” del Vietnam (mentre i Creedence Clearwater Revival cantavano l’Apocalisse in Bad Moon rising). Nel 1972 Nixon chiuse anticipatamente il programma Apollo, annullando le ultime tre missioni. Dopo le umiliazioni dello Sputnik e Gagarin, la sfida con l’Unione Sovietica era vinta, l’America ormai correva solo contro se stessa, nello spazio, mentre all’orizzonte si profilava la sconfitta in una guerra che aveva logorato il Paese. La corsa allo spazio e la conquista della Luna hanno dipinto immagini nitide nell’immaginario collettivo, scavato solchi profondi nell’evoluzione tecnologica e plasmato la cultura pop. Nel 1968 usciva 2001 Odissea nello spazio. Girato tra il ‘65 e il ‘66, proprio al culmine delle operazioni del programma Gemini statunitense. Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke raccontarono il conflitto con la macchina, la sfida e la solitudine dello spazio. Più ci si allontana dalla Terra e più si fa i conti col proprio intimo, mentre si è circondati dal vuoto e dal silenzio: dove un essere umano non potrebbe mai sopravvivere. Come un copione che ripete la fiction, Neil Armstrong fu costretto a escludere il computer di bordo dell’Eagle e scendere con una manovra manuale. Anche se l’Agc (Apollo guidance computer) non era così “cattivo” e nemmeno così intelligente come Hal 9000. Proprio Kubrick fu al centro della tesi complottistica più celebre di tutte, secondo la quale sarebbe stato lui il regista del “finto allunaggio”. Teoria che è diventata, come la conoscenza, globale e soprattutto ora trova migliaia di adepti in giro per il mondo. Nell’estate del 1969, a pochi giorni dall’approdo sulla Luna, David Bowiecantava Space Oddity, di Major Tom che fluttua oltre la Luna, “e non c’è nulla che possa fare”. E poi divenne Ziggy Stardust. Abbandonato al silenzio con se stesso. Lo spazio ha plasmato così anche la concezione che abbiamo di noi come specie umana. Capace di arrivare sempre più lontano con i razzi progettati da un ex ufficiale delle SS naziste. Eppure sempre più fragile, alla deriva su un pianeta perso nel buio. È un labirinto di contraddizioni che si amplia a ogni passo. C’è una foto che rende bene l’idea. È stata scattata da Michael Collins al modulo Lem che sta risalendo con a bordo Armstrong e Aldrin di ritorno dalla superficie della Luna. Sullo sfondo c’è la Terra. Bene, in quello scatto compare tutta l’umanità: passata presente e futura. Eccetto lui. C’è la Terra con tutti noi, ci sono i due astronauti che si avvicinano. È l’unico dietro la linea dell’obiettivo, un diaframma tra lui e tutto il resto. Per più di un giorno Collins era rimasto nel Columbia a orbitare in attesa del rendez-vous con i colleghi. In quelle ore, quando vedeva la Terra scomparire all’orizzonte e lui si affacciava sul lato nascosto senza possibilità di comunicazioni radio, era l’essere umano più lontano e solo mai nato. Una specie di icona che, assieme alle altre, ci rimette al nostro posto nell’Universo, un’altra, piccola, rivoluzione copernicana, come l’immagine divenuta nota col titolo di Earthrise, scattata dagli astronauti dell’Apollo 8 nel dicembre del 1968, che mostra l’alba della Terra dalla Luna vista per la prima volta da un essere umano. E il Blue marble, altro scatto iconico della Terra “piena”, la “biglia blu” immortalata dall’oblò dell’Apollo 17 nel dicembre del 1972. E infine il Pale blue dot, quel puntino azzurro appena percettibile nell’infinito. Siamo noi ripresi dalla sonda Voyager 1 che si girò per volere dello scienziato, visionario, umanista e divulgatore Carl Sagan, da sei miliardi di chilometri di distanza. Dagli anni ‘60 a oggi le avventure spaziali hanno rivoluzionato la nostra conoscenza fisica, chimica, matematica e tecnologica. Allo stesso tempo hanno fissato uno specchio così lontano da noi da poterci mostrare tutto il vuoto che abbiamo attorno. Ora che sulla Luna stiamo per tornarci, vale la pena guardarsi indietro e capire quanto le cose siano cambiate. La corsa allo spazio aiutò l’uomo a implementare le tecnologie che usiamo ancora oggi, non ultimo i circuiti integrati, gli antenati dei primi computer grazie alla miniaturizzazione dei componenti. Ma quello fu uno sforzo solitario, quasi velleitario fatto con dispositivi affidabili sì ma ai limiti della sufficienza per un’impresa così grande. Mezzo secolo dopo siamo diventati una civiltà spaziale. Senza le tecnologie legate allo spazio non potremmo vivere e arrivare in orbita: è diventata quasi routine. Grazie soprattutto alla collaborazione internazionale. La Nasa non ne ebbe bisogno negli anni ‘60, tutto il programma Apollo è costato più di 25 miliardi di dollari negli anni ‘60 e primi ‘70 (150 al giorno d’oggi). Ora è indispensabile. Raggiungere la Luna 50 anni fa era un lancio di dadi. Nessuna agenzia spaziale oggi e nessun astronauta sarebbero disposti a correre questi rischi. Ora possiamo farlo in tutta sicurezza, forse già nel 2024 gli americani porteranno la prima donna a calpestare quel suolo. La Luna questa volta non dovrà essere più la meta. Ma una tappa. Cinquant’anni fa sembrava che il sogno di costruire colonie e vivere su un altro pianeta fosse alla portata. E invece per i successivi 47 anni gli uomini (e anche donne, finalmente) non sono mai andati oltre i 400 chilometri di altezza, più o meno la quota alla quale orbita la Stazione spaziale internazionale. Ed è proprio dal laboratorio scientifico in orbita, nel quale si sono incontrati americani, russi, europei, giapponesi e canadesi, insomma (quasi) tutto lo spazio che conta eccetto i cinesi, che servirà ripartire per costruirne un altro molto più lontano. In orbita attorno alla Luna. Non sogniamo più, lo stanno progettando gli ingegneri e gli astronauti di Nasa, Esa e Roscosmos. Dalla Luna, dove un giorno forse fonderemo colonie, estrarremo acqua, elio-3 per la fusione fredda e carburante, e faremo il vero grande salto, verso Marte. Von Braun ci voleva andare già negli anni ‘80. Subito dopo il successo dell’Apollo 11, il padre del razzo Saturno V, il più grande e potente mai costruito che ha spedito i primi pionieri sulla Luna, aveva un piano per arrivare a toccare anche il Pianeta rosso. Lo stop fu granitico, lo spazio era il grande sogno di Kennedy, non quello di Nixon. E per fortuna, verrebbe da dire. Se andare sulla Luna era un stato un grande azzardo, fare rotta verso Marte sarebbe stato un suicidio. Paragonato alla potenza di calcolo del ‘cervello’ che guida una qualsiasi sonda spaziale, il computer di bordo dell’Apollo è una pascalina. Ma i problemi da risolvere restano ancora tanti. Nonostante le sfuriate del presidente Trump che vorrebbe vedere una bandiera americana sventolare (questa volta con più gagliardia, Marte a differenza della Luna un’atmosfera e del vento li ha), gli uomini della Nasa abituati ad aver a che fare con le pretese dei politici sanno che il Pianeta rosso è ancora irraggiungibile. Fare tappa sulla Luna è necessario per sviluppare le tecnologie indispensabili per portare uomini fino a Marte. Dove gli equipaggi saranno così distanti da escludere qualsiasi ritorno rapido in caso emergenza (a dispetto di quanto si vede in Star Trek e Star Wars, non si può girare l’astronave e dare gas). In un’interessante analisi pubblicata dalla rivista del Mit di Boston, Konstantin Kakaes spiega come “il programma Apollo abbia fallito nel fare il ‘salto gigante’. Il suo successo fu portare la tecnologia del tempo il più lontano possibile, così come i faraoni avevano costruito le piramidi più grandi possibili. Era un monumento all’ingenuità e alla determinazione. Ma i monumenti sono, per progetto e definizione, dei punti di arrivo, non degli inizi”. Forse è questo ciò che abbiamo imparato dalla corsa alla Luna: “Dobbiamo andarci, non tornarci”. Sono le parole del direttore generale dell’Esa Jan Woerner in un’intervista su Le Scienze di questo mese. Andarci ora, non come ci si è andati allora. Sarà una sfida comune. E allora troverebbero davvero un altro senso le parole con cui si chiudeva il discorso di Nixon, quello mai pronunciato, in onore degli astronauti caduti: “Ogni essere umano che solleverà lo sguardo alla Luna nelle notti che verranno saprà che c’è un angolo in un altro mondo che è per sempre dell’umanità”.
Allunaggio, Tito Stagno e quella telecronaca che cambiò la storia della televisione. Antonio Dipollina il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Il battibecco con Ruggero Orlando e negli Usa Piero Angela che mandò gli operatori a riprendere solo i volti delle persone comuni che seguivano l'impresa. Quel giorno intero di una diretta memorabile. Lo sanno tutti, anche chi non era nato allora: Tito Stagno urlò che il modulo aveva toccato, Ruggero Orlando dall’America disse che non era vero, partì il battibecco live per dieci milioni di telespettatori italiani notturni (gli altri 990 milioni in giro per il mondo se ne disinteressarono parecchio). E mentre battibeccavano Orlando a un certo punto disse: ha toccato adesso. Nel senso che era successo alcuni secondi prima ma loro stavano litigando e la frase storica – come rievoca ancora oggi il novantenne Stagno – ovvero “Eagle has landed” lanciata a quelli di sotto col naso in su da Neil Armstrong semplicemente ce la perdemmo. È un po’ la metafora del paese (o di molte vite personali) magari. Stagno equivocò la messa in azione dal modulo di una sorta di antenna che doveva saggiare il terreno con richiami sonori (vagamente, par di capire, tipo il beep dal paraurti posteriore quando parcheggi a rischio) e la frittata andò in scena. Questa è ovviamente la parte spassosa e che ci piace ricordare di più – e proprio tutti, se pensano a Tito Stagno, pensano a quello. Ma la faccenda dello sbarco in tv fu una storia pazzesca, meravigliosa per tutto il mondo: con una tv giovanissima, soprattutto da noi, un solo canale e per la prima volta in assoluto la sensazione di una comunità felice e curiosa assiepata per un singolo evento (uno dei rari precedenti, per dire, fu la Corea di Pak-Doo-Ik e non fu la stessa cosa). E valeva per il mondo intero, con l’Unione Sovietica che si rassegnò a dare vaghe notizie (mentre la Cina ignorò del tutto la cosa) e l’Occidente in festa. Margherita Hack disse un giorno che a occhio la missione di Colombo in America doveva essere stata assai più pericolosa e appassionante ma, come dire, l’assenza della tv ne condizionò assai la percezione nonché il ricordo, oggi. Da noi, fu quasi un giorno intero di diretta – una maratona come si dice, oggi, la prima – il meglio del meglio a raccontare, nomi da commuovere, da Stagno a Orlando, a Enzo Forcella a Gianni Bisiach, di qua e di là dell’oceano. Negli Usa un Piero Angela (ospite del figlio Alberto nello speciale di Raiuno in onda sabato prossimo) che ha una grande intuizione e manda gli operatori in giro ordinando di ignorare le immagini della tv e riprendere solo i volti delle persone comuni che guardavano: ne venne fuori un servizio memorabile. E un sacco di altre storie così. Magari non ha la rilevanza del valore assoluto della missione in sé e dei suoi contorni scientifici d’avanguardia, ma davvero, per la televisione, e per quello che avrebbe rappresentato in futuro per l’intera umanità, quel giorno dello sbarco fu una svolta epocale. Anche la tv aveva toccato, eccome: i cuori del mondo, e la vita di tutti che non sarebbe mai stata più la stessa.
Tito Stagno e l’allunaggio in diretta: «Che notte calda in tv, ci calammo i pantaloni». Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Gian Antonio Stella e Paolo Virtuani su Corriere.it. A un certo punto, arrivò il trionfo planetario del mezzobusto: «A Roma era una giornata torrida, noi resistevamo da ore ma ormai in studio non c’era aria condizionata che tenesse… Diecimila fari accesi, un caldo terribile. Ci levammo la giacca. E continuammo la chiacchierata in maniche di camicia. Il Direttore, che era la buonanima (brava persona) di Villy De Luca, ci fece: «Cortesemente, vi dispiace rimettervi la giacca?» Andrea Barbato, che coordinava l’edizione straordinaria del Telegiornale, disse: «Obbediamo». Però si rimise la giacca e si calò i pantaloni. E tutti, fino al ginocchio, abbassammo i pantaloni. Tanto c’erano le scrivanie, coprivano tutto…» Mezzo secolo dopo, Tito Stagno, il conduttore di quella serata e quella notte indimenticabili, ricorda tutto come fosse ieri. Certo, lui non era un mezzobusto vero e proprio, di quelli in onda solo per leggere i testi altrui sul «gobbo». Aveva sì l’abbronzatura perenne e la zazzera bionda da tirabaci («Giuro: biondo naturale. Edda, digli che alla prima botta di sole ero biondo!») ma erano sopiti da un paio di occhialoni che gli davano l’aria del secchione. E può vantare una carriera ricca di interviste, inchieste, reportage (fu lui a seguire Paolo VI nello storico viaggio in Terrasanta), eventi speciali di ogni genere, compresa la direzione della Domenica Sportiva. Il cuore della sua vita, però, nell’immaginario collettivo degli italiani, resta quella notte. Che lo fece battezzare da Mariano Rumor come «astronauta ad honorem» ed era stata preparata anni prima, quando era passato davanti a una telescrivente proprio mentre ne usciva una notizia... «L’Unione Sovietica ha messo in orbita il primo satellite artificiale. Si chiama Sputnik. Era l’ottobre del ’57»
E voi non ne sapevate nulla…
«No. Però io non fui preso del tutto alla sprovvista perché non so dove, non so quando, avevo letto un articolo in cui si parlava dei satelliti artificiali e delle conseguenze della messa in orbita di un satellite artificiale. Mi ci ero appassionato…».
E quello fu il tuo primo piccolo passo verso la Luna...
«Sì. Da allora seguii i voli della cagnetta Laika, del primo astronauta Jurij Gagarin, della prima passeggiata nello spazio di Aleksej Leonov… Gli Stati Uniti erano indietro, allora. Finché arrivò John Kennedy che davanti al Congresso disse: «We choose to go on the Moon (noi abbiamo scelto di andare sulla Luna) not because it is easy (non perché è facile) but because it is hard (ma perché è difficile). Manderemo due americani sulla Luna e li faremo tornare sulla terra sani e salvi».
Tirava un’aria d’ottimismo: pochi anni prima Oggi aveva titolato «Andremo nella Luna in tre ore e 27 minuti».
«Si, buonanotte. Fu un’impresa strepitosa. Conquistare la Luna, ragazzi, con quei mezzi di allora! Se penso a com’era il computer di bordo! Quello dell’Apollo 8 aveva la potenza di un telefonino di oggi. L’intero sistema di computer di Houston, cuore della missione, aveva quella di un personal computer. Con questi mezzi siamo andati».
Tutto pareva possibile, allora…
«Lo spirito di “Apollo” dall’America aveva diffuso voglia di creare, di fare… Uno spirito di solidarietà, di pensare all’altro, preoccuparsi dell’altro. Così nacque l’impresa della Luna, mettendo insieme un esercito di scienziati, medici, informatici, militari…».
Eri ottimista?
«Io sì. Soprattutto dopo il volo della navicella Apollo 8, comandante Frank Borman, partita a Natale 1968 e rientrata dopo aver lasciato per la prima volta l’orbita terrestre e aver girato intorno alla Luna dieci volte: un viaggio di 800.000 chilometri andata e ritorno. L’avevamo vista anche noi, da vicino. La superficie grigia, desolata, inaccessibile, ancora inviolata e in primo piano i crateri lunari, queste immagini terribili…».
Perché terribili?
«Beh, i crateri lunari, ragazzi.. Grigi, bui, minacciosi… Immaginavi “pensa se mi buttassero lì dentro...”».
E nel buio si sentì la voce dei tre astronauti…
«Che recitavano un brano della Genesi: “In principio Dio creò il Cielo e la Terra… Anche i tecnici in studio erano emozionatissimi…».
Tifare per l’America era anche stare contro i russi, no? Dall’altra parte c’era Satana...
«Non mi pare. Anzi, i russi si comportarono benissimo. Avvertirono gli americani che avrebbero mandato un satellite per assistere allo sbarco e diedero perfino alla Nasa le coordinate di Lunik 15».
Afa a parte, quella notte come andò? Si parla di 8.000 sigarette fumate, 6.000 caffè, 250 persone al lavoro, 150 a darsi il turno tra gli invitati in studio…
«Esagerazioni! Però la Rai, di solito sparagnina, quel giorno offrì un buffet incredibile…».
Ma per stare sveglio non «mangiasti» solo aspirine?
«Diciamo vitamina C».
Perché solo vitamina C?
«Provoca quel fenomeno che si chiama eretismo...Mi fermo qui».
Per 28 ore e 20 minuti consecutivi sveglio…
«Ho un fisico che obbedisce. Obbediva, almeno. Per preparare tutto arrivai molto presto. Anche per fiondarci dentro l’aria condizionata della Rai. Ma non fu tutta una diretta. Nell’attesa mandavamo in onda telefilm di fantascienza e altri inserti. C’era pure una sfilata di moda. Una modella si chiamava Luna. Era nera. E un sacco di ospiti».
Finché, sul più bello, arrivò il panico.
«Panico no, però… Insomma, sparirono le immagini. Tutto nero. Mario Conti, il regista, bravissimo, capì che l’unica cosa che poteva far “vedere” era la mia emozione…“Che faccio”, mi chiedevo? Avevo assistito a Houston alla simulazione di alcune manovre. Pensai: facciamogliele immaginare, alla gente, quello che non può vedere... E allora descrivevo: “I due uomini sono in piedi, uno accanto all’altro, davanti a loro il quadro di comando, decine di leve, pulsanti…”».
E di colpo, riecco la diretta: e tu bisticci con Ruggero Orlando che era a Houston…
«Ma no, ma no, non fu un bisticcio. Erano arrivati a venti metri, dieci metri, due metri... Poi, pausa. Suoni confusi. Disturbati. Mi parve di sentire: “We.. We got land”, o roba del genere. Dissi: “Ha toccato!” Attento: non dissi “è atterrato”. Ma “ha toccato, toccato il suolo lunare”. E Ruggero: “No, non ha toccato”».
Chi aveva ragione?
«Dal suo punto di vista lui, perché la navicella aveva solo toccato il suolo lunare con antenne per saggiare la pendenza del terreno e non rischiare un ribaltamento. C’era carburante, nella navicella, per soli 8 secondi. Otto secondi! Immagina la tensione. La cosa buffa è che nella “ciacolada” fra me e Ruggero a un certo punto ci siamo persi Armstrong che diceva: “Eagle has landed! Aquila è atterrata”. Che casotto, ragazzi! Il mondo intero, in quel momento, uscì alla finestra a vedere il cielo. Da Singapore a Cagliari: “Siamo andati sulla Luna”! Meglio:“Seus arribbaus a sa luna!”».
E finalmente, dopo altre ore di diretta…
«Uscii da Via Teulada che era l’una di notte. Mi ricordo che mi salutò un giovanotto. Era Herbert Pagani. Arrivai a casa, piombai sul letto. Il giorno dopo apro gli occhi, vedo il sole, decido d’andare con mia moglie a Fregene. Mi stendo sul lenzuolo e mi addormento. Un sonno vigile, sentivo i passi della gente, gli schizzi, qualcuno che giocava a palla, pah pah pah… A un certo punto una voce: “Anvedi Tito Stagno! Pare morto!” Hai capito i romani? Poteva dire pure: “È stato bravo però!”».
Sic transit gloria mundi…
«Ma il più bravo, quella sera, fu il mio amico Alfonso Gatto. Disse: “Ho visto una barchetta sulla Luna, con mia mamma, Papa Giovanni, Marilyn Monroe, Martin Luther King…” Poesia. Purissima poesia».
Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 19 giugno 2019. Avremo modo nei prossimi giorni di occuparci dei programmi dedicati al 50° anniversario del primo passo dell' uomo sulla Luna, «un' impresa che cambiò il mondo per sempre». Intanto, ci piace riproporre un brano di Giorgio Manganelli (tratto da «Lunario dell' orfano sannita») per pensare anche all' altro lato della Luna. «Il capolavoro della programmazione dell' evento storico si ebbe quando il primo uomo, toccando la Luna, disse una qualche frase da libro di testo: "Questo piccolo passo inaugura" e non ricordo più bene cosa inaugurasse; certamente c'entrava il futuro, l'umanità, il progresso, la scienza, il benessere, la moralità. Il tutto spiegato da un militare in carriera. Era una frasaccia banale e scolastica, che aveva l' aria di essere compilata da un professore di liceo autore di libri di testo ampiamente adottati, e che era stata pensata in funzione televisiva; giacché come una volta la storia assumeva la policroma grazia delle vetrate chiesastiche, oggi si racchiude e minimizza nello schermo grigiastro del televisore». Non contento, ecco un' altra osservazione di Manganelli (tratta da «Ufo e altri oggetti non identificati»): «In questi giorni si fa un gran parlare di quella notte magata in cui, vent' anni fa, l' uomo, più esattamente il signor Armstrong, mise un piede sulla luna, e recitò il suo temino che si era preparato a casa. Ricordo quella notte perché io andai a dormire come al solito e non assistei allo spettacolo straordinario. Stupido vero? Assolutamente». I grandi scrittori servono a farci vedere quello che non vediamo.
Neil Armstrong, lo scout che divenne il primo uomo sulla Luna. Giacomo Talignani il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Sua la celebre frase pronunciata durante l'allunaggio: "Un piccolo passo per l'uomo, un gigantesco balzo per l'umanità". In un giorno qualsiasi del 1936 il piccolo Neil di appena sei anni ottenne da suo padre il permesso di saltare la lezione di catechismo. Entrambi, passando per la pista di Warren (Ohio), notarono un aereo Ford Trimotor che apparteneva a un pilota atterrato da poco. Decisero di andare a scoprirlo: alla fine fecero un giro su quell'aeroplano e in Neil esplose un amore che durò per tutta la vita, quello per il volo. Questo "fuoco", la passione per gli aerei e l'esplorazione dello spazio, 33 anni dopo lo portarono sulla Luna: per tutti Neil Armstrong rimarrà sempre il "primo uomo sulla Luna", il celebre astronauta della frase "un piccolo passo per l'uomo, un gigantesco balzo per l'umanità", ma la sua storia non inizia in maniera così semplice. Nacque a Wapakoneta (Ohio) il 5 agosto del 1930, figlio di Stephen Koenig, un contabile e Viola Louise Engel, casalinga, e presto ebbe due fratelli più giovani, June e Dean. La vita del piccolo Neil ruotava tutta intorno alla famiglia: a causa del lavoro del padre, revisore per lo Stato dell'Ohio, dovevano spostarsi in continuazione da una città all'altra, tanto che questo - sosterranno in seguito alcuni biografi - sviluppò nel carattere di Armstrong una certa ritrosia nel fare nuove amicizie e aprirsi completamente con gli altri. Era un po' schivo, - confermeranno in futuro i colleghi - ma fra i più bravi nel suo lavoro. Quando Neil aveva 14 anni, la sua famiglia tornò a stabilirsi a Wapakoneta dove il giovane iniziò - mentre frequentava la Blume High School - a prendere lezioni di volo: a 15 anni aveva già il suo brevetto da pilota, ancor prima di prendere la patente dell'auto. In questo periodo il futuro astronauta fu anche scout, un'esperienza che lo segnerà a tal punto da portare con sé anche nel viaggio verso la Luna il distintivo da lupetto. Crescendo iniziò gli studi in ingegneria alla Purdue University, ma dovette interromperli per partire per la Guerra di Corea dove fu aviatore. In guerra partecipò a 78 missioni, fu autore di bombardamenti e riuscì a salvarsi miracolosamente dopo essersi lanciato con il seggiolino eiettabile. Rientrato in America decise di finire gli esami e fra i corridoi dell'università conobbe Janet Elizabeth Shearon. Si sposarono il 28 gennaio 1956 ed ebbero tre figli, Eric, Karen e Mark. Karen morì di polmonite all'età di due anni. Conseguito un master, Neil iniziò a lavorare in un gruppo che studiava velivoli che successivamente fu aggregato alla Nasa. Con l'agenzia spaziale continuò a volare, collaudare, progettare aerei e stabilire record, fino a iniziare il percorso di addestramento: nel 1962 divenne astronauta. Quattro anni dopo, gli fu affidato il comando di Gemini 8: in quella prima missione, insieme a David Scott, fu il primo astronauta a collegare due veicoli in orbita. Pochi mesi dopo il tragico incidente dell'Apollo 1, Armstrong si ritrovò insieme ad altri 17 astronauti, - molti veterani del programma Gemini - ad un incontro diretto da Deke Slayton, che esordì dicendo: "I ragazzi che voleranno nelle prime missioni lunari sono quelli in questa stanza". Così Neil scoprì di essere stato inserito nell'equipaggio di riserva della nona missione Apollo. Ma tra missioni annullate a causa di ritardi, rotazione degli astronauti e cambi di programma, nel 1968 - a due giorni dal Natale - Armstrong si ritrovò comandante della spedizione che avrebbe tentato l'allunaggio. Due le date che cambiarono per sempre la sua vita: il 20 luglio 1969 e il giorno dopo. Nel giro di 48 ore Neil avrebbe raggiunto la Luna e posato la prima orma pronunciando quelle parole indimenticabili. Soltanto diversi anni dopo, in alcune interviste e biografie, Armstrong confessò tutti i timori di fallire la missione: "Ero sollevato, estasiato ed estremamente sorpreso del successo che avevamo ottenuto". Rientrati sulla Terra, iniziò un altro capitolo della sua vita, il post luna di Armstrong: era diventato una celebrità. Ospite in tv, richiestissimo per spettacoli e spot, convegni internazionali sulla ricerca spaziale, incontri con presidenti, autografi. Per Neil iniziò così una carriera da stella, lui che per primo aveva messo piede sulla Luna. In Italia nel 1970, presente a Fiumicino, gli dedicarono perfino un Boeing Alitalia a suo nome. Fu poi insegnate e uomo d'affari, si risposò nel 1994 e si trovò al centro di diverse battaglie legate alla sua immagine e al suo nome: in molti tentarono di sfruttarla e l'ex astronauta, oltre a cause e denunce, smise perfino di firmare autografi che venivano rivenduti a prezzi folli. Quando il 25 agosto 2012 morì, a 82 anni, dopo le complicanze per un intervento chirurgico alle coronarie, la sua famiglia gli dedicò un lungo addio destinato ad essere ricordato: "Era un eroe schivo che servì con onore la sua patria Piangiamo la morte di un uomo davvero buono, celebriamo anche la sua straordinaria vita, nella speranza che serva come esempio a tutti i giovani del mondo che possano lavorare duro affinché i loro sogni diventino realtà. Onorate il suo esempio di servizio, il traguardo e la modestia, e la prossima volta che doveste camminare all'aperto in una notte chiara e vedere la Luna sorridervi, pensate a Neil Armstrong e fategli un occhiolino".
Eleonora Barbieri per “il Giornale” del 21 ottobre 2018. Il Primo Uomo è nato di domenica. Il 20 luglio 1969, Viola Armstrong si è alzata alle cinque e mezza del mattino, per andare a messa. Qualche ora dopo, suo figlio Neil è sbarcato sulla Luna. Dopo qualche ora ancora, sempre suo figlio Neil è il Primo Uomo, quello che mette piede, per primo, sulla Luna. Quello che compie «un piccolo passo per un uomo», ma «un grande passo per l'umanità». Neil Armstrong, il Primo Uomo, era nato in realtà il 5 agosto del 1930 (compie 39 anni mentre è ancora in quarantena, dopo il ritorno sul pianeta Terra) a Wapakoneta, una cittadina dell' Ohio. Diceva: «Camminare sulla superficie lunare, su una scala di difficoltà da uno a dieci, per me valeva uno. La discesa lunare, sulla stessa scala, probabilmente valeva tredici». A tre anni impara a leggere, spronato dalla madre Viola che, oltre a essere molto religiosa, è anche una grande lettrice. In prima elementare, Neil legge cento libri. Nei suoi primi quattordici anni di vita, la famiglia si trasferisce sedici volte, su e giù per l' Ohio: eppure, in ogni nuova cittadina o nuova scuola, Neil si ambienta perfettamente. Neil è, fin da bambino, un ingegnere: a suggellare questo suo stato dell' anima serve solo la laurea che arriva, puntuale, dalla Purdue University, dove segue il programma di ingegneria aeronautica. Sarà lui stesso a dire, molti anni dopo: «Sono e sarò sempre un ingegnere un po' nerd, con i calzini bianchi e il portapenne da taschino, nato grazie al secondo principio della termodinamica, imbevuto di tabelle al vapore, innamorato dei diagrammi di corpo libero, trasformato da Laplace e alimentato da un flusso comprimibile». In quella missione erano in tre: Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Mike Collins. Per autodefinizione di Collins, dei «cordiali estranei». Non c'era feeling particolare, e Buzz Aldrin patì tremendamente, prima, durante e dopo la missione, che non fosse toccato a lui l'onore del «primo passo». Neil era il comandante e, in teoria, sarebbe dovuto scendere per primo Aldrin dalla scaletta. Ma la Nasa decise diversamente: «Sapevamo che sarebbe stato un nuovo Lindbergh e che la sua fama sarebbe stata eterna. E che tipo di persona volevamo per quel ruolo? Una leggenda, un eroe americano... Quell' uomo era Neil Armstrong. Neil era Neil. Calmo, tranquillo e profondamente sicuro. Non aveva un ego spropositato, non era il tipo pronto a pavoneggiarsi: Ehi, sarò il primo uomo sulla Luna!». Non lo era. Era un ingegnere, aveva deciso di sposare sua moglie Janet dopo averla vista una volta (e, come precisò lei, «non era uno che prendeva in fretta le sue decisioni»), aveva perso una figlia di due anni per un tumore al cervello (e forse fu anche questo dolore immenso, mai esibito, a spingerlo a candidarsi per il programma spaziale della Nasa, proprio pochi mesi dopo la morte della piccola Karen), era stato pilota in Corea del Nord (dove aveva rischiato di morire), aveva fatto il collaudatore di aerei pericolosi e sperimentali, aveva volato su razzi potentissimi e superveloci, aveva sperimentato la «centrifuga» a un numero di giri quasi disumano, fino a perdere il senno, aveva sfiorato la morte nella missione Gemini 8, nel 1965; e quando, nella preparazione per il programma Apollo, un veicolo di addestramento per l' allunaggio era impazzito e saltato per aria all' improvviso, e lui era riuscito a buttarsi fuori e a salvarsi per un istante, dopo pochi minuti si era seduto in ufficio e aveva ripreso a lavorare sulle sue equazioni. Non parlava della famiglia e, dopo la missione, accolto da eroe, preferì nascondersi sul lato oscuro della Luna. Tornò in Ohio. Trovò un posto da accademico, all' università di Cincinnati. Ricevette medaglie, onori, proposte politiche (tutte rifiutate). Soffriva di mal di mare, e di mal d' aereo. Al ritorno dalla Luna, la navicella fu recuperata in mare; mentre lui e Aldrin aspettavano i sommozzatori, erano terrorizzati all' idea di vomitare davanti alle telecamere. Ma, del resto, la mentalità delle missioni era di un certo tipo, come spiegò proprio uno di quei sommozzatori: «Ci dissero: prima salvate le rocce lunari. Di quelle ne abbiamo solo una borsa, di astronauti ne abbiamo tanti»... Il più famoso, il Primo Uomo, è morto il 25 agosto del 2012, in un letto di ospedale, per le complicazioni di un intervento chirurgico.
Neil Armstrong ha rilasciato poche interviste, anche dopo la sua impresa storica. L'ultima in ordine di tempo è quella alla televisione australiana «Cpa», pubblicata da La Stampa lo scorso 26 maggio 2012. Un racconto distaccato, da cronista, a 43 anni dall'allunaggio con il modulo Eagle. Che dà anche la misura dell'uomo Armstrong, del suo rispetto per i grandi avversari nella conquista dello spazio in quegli anni, i sovietici. L'uomo dal «sangue di ghiaccio», abituato a correre rischi enormi, non nasconde gli azzardi che caratterizzarono il programma della Nasa, nella corsa contro il tempo per rispettare la promessa di Kennedy del 1961: «Sulla Luna entro il decennio». Poche settimane dopo l'intervista, il 6 agosto, l'astronauta avrà una crisi cardiaca, seguita da un intervento chirurgico per impiantare quattro by-pass. Operazione che purtroppo si è rivelata inutile.
Alex Malley - da La Stampa. "La gente ama le teorie di cospirazione, ed è vero che ne vennero fuori anche a proposito del nostro atterraggio sulla Luna. Ma io ero sereno, sapevo che prima o poi qualcun altro sarebbe andato lassù, e avrebbe trovato l'attrezzatura e la macchina fotografica, che avevamo lasciato noi». Neil Armstrong racconta la sua avventura con modestia, acume, e prospettiva da grande pioniere del viaggio umano nella conoscenza. «Con 800 mila persone che lavoravano per la Nasa, come si sarebbe potuto tenere il segreto?» scherza all'idea di una messa in scena. Armstrong ha 81 anni, e 43 ne sono passati da quando è stato il primo essere umano a mettere piede sulla superficie lunare, assieme al collega Buzz Aldrin. Ricorda i dettagli minuti sulle traversie tecniche che l'emozione e l'estrema tensione del momento hanno impresso nella sua memoria. E anche l'enorme soddisfazione per il risultato raggiunto, tecnico e ideale.
Ci racconta gli ultimi 12 minuti prima dell'allunaggio?
«Ci avvicinavamo e il computer di bordo ci stava mostrando dove la navicella sarebbe atterrata. Ma era un posto accidentato, brutto. Proprio al fianco di un cratere di circa 100-150 metri, con delle discese molto ripide coperte da pietre tonde enormi. Un luogo dove non era bello scendere».
Che cosa avete deciso allora?
«Arrivati a tre minuti dalla meta, sono passato alla guida manuale del mezzo, come fosse un elicottero. Dovevamo trovare un punto più agevole stando al di fuori del cratere. Siamo a 70 metri, vedo un'area più soffice (Armstrong parla mentre sullo schermo corrono due immagini parallele: a sinistra il filmato reale girato dal velivolo, con la Luna che è sempre più vicina, a destra la mappa della stessa area, anch'essa in avvicinamento, come è riprodotta oggi da GoogleSpace). Sulla sinistra vedete la polvere che si sta sollevando... Sappiamo a questo punto che ci sono restati 20 secondi di carburante per finire il volo d'andata.... Ecco, questa è l'ombra della mia gamba che sta per toccare il terreno. Eagle è atterrata».
C'era tempo per emozionarsi?
«Per una stretta di mano... ma in quel momento sapevamo di essere a rischio per l'altissima temperatura. Il nostro pensiero era per i problemi termici che potevano venire fuori. Dovevamo essere pronti a risalire in tempo per ripartire, dopo quello che dovevamo fare lì».
Come piantare la bandiera americana sul suolo lunare...
«Avevamo raggiunto in quel momento l'obiettivo che il presidente John Fitzgerald Kennedy aveva indicato. A quello pensai, mentre il presidente (Nixon, ndr) chiamò dalla Casa Bianca per complimentarsi. Dobbiamo riconoscere che questo traguardo non sarebbe stato raggiunto senza la concorrenza dei sovietici. Bisogna mettere quell'impresa nel contesto storico: un russo era già andato in orbita, noi avevamo mandato solo Alan Shepard, ma per 20 minuti. Fissare, come fece JFK, l'obiettivo della Luna con alle spalle solo 20 minuti di volo era al di là del credibile, su un piano tecnologico».
Ma andò bene...
«Non era solo una corsa tecnica allo spazio. Allora c'erano due concezioni ideologiche sul futuro del mondo che si scontravano. E fu una gara che permise ad entrambi i nostri programmi di compiere ciò che è stato possibile. Mettemmo dai due lati della bandiera i medaglioni con i nomi dei nostri compagni della Nasa e degli astronauti russi morti nel corso della sfida cosmica fino a quel punto. Fu un momento di estrema tenerezza».
«Un piccolo passo per l'uomo ma un balzo gigantesco per l'umanità ». Quando pensò a questa frase che disse, e che è poi rimasta il simbolo del successo di Apollo 11?
«Soltanto dopo che l'atterraggio era riuscito bene».
Nel viaggio non tutto era andato perfettamente però...
«Beh, il computer aveva lanciato a un certo punto un allarme, mentre eravamo in fase di discesa. Sono momenti complessi, molte cose devono succedere contemporaneamente. Io non aveva capito di che cosa volesse avvisarci il computer, e chiesi aiuto alla torre di controllo sulla Terra. Non ci misero molto a risolvere il giallo, c'erano problemi di sovraccarico per il software, ma tutto era ok per ciò che riguardava la manovra di atterraggio».
Aveva avuto paura quando le fu chiesto se la sua squadra era pronta per partire?
«Sarebbe meglio aspettare un mese, dissi ai miei capi, ma siamo in una gara e bisogna prendere le opportunità quando ci sono. Siamo pronti. Sapevo che avevamo il 90% di chance di tornare vivi sulla Terra, ma solo il 50% di possibilità di atterrare con successo al primo tentativo».
Sul futuro delle conquiste spaziali cosa prova oggi, con il budget della Nasa per il 2013 tagliato del 38%?
«La Nasa è stato uno degli investimenti pubblici di maggior successo nel motivare gli studenti a far bene e a raggiungere ciò che possono raggiungere, ed è triste che stiamo oggi indirizzando il programma spaziale in una direzione che ridurrà l'entusiasmo per i giovani».
Usa, l'accordo segreto sulla morte di Neil Armstrong: sotto accusa, l'ospedale pagò alla famiglia 6 milioni di dollari. Secondo quanto rivela il New York Times, il Mercy Health-Fairfile Hospital di Cincinnati avrebbe preferito transare con i due figli dell'astronauta che contestavano una cura sbagliata, per evitare la pubblicità negativa che aver causato la morte dell'eroe americano avrebbe comportato. La Repubblica il 24 luglio 2019. Ci fu un accordo segreto da sei milioni di dollari per chiudere e mantenere segreta la controversia sulla morte di Neil Armstrong, il primo uomo sulla luna, deceduto nel 2012 a 82 anni dopo una operazione al cuore eseguito il 7 agosto di quell'anno dopo un blocco alle arterie coronarie e conseguente applicazione di un bypass: lo rivela il New York Times, proprio il giorno in cui si concludono le celebrazioni per il 50ennale della missione Apollo 11. Secondo il quotidiano, i due figli di Armstrong contestarono il trattamento post chirurgico prescritto al padre al Mercy Health-Fairfile Hospital di Cincinnati. Le infermiere rimossero i fili per un pacemaker temporaneo cosa che avrebbe causato un'emorragia nella membrana intorno al cuore. L'ospedale si difese dalle accuse ma alla fine decise di pagare 6 milioni di dollari per sistemare la questione ed evitare una pubblicità devastante, con l'associazione alla morte di un eroe americano. Nonostante il Nyt sia entrato in possesso di 93 pagine di documenti legati alla vicenda, incluse le opposte perizie mediche di parte, inviate da una fonte che ha preferito restare anonima (il mittente ha incluso una nota in cui auspica che le informazioni possano salvare altre vite), alcuni documenti sono già pubblici e consultabili sul sito del tribunale e confermano la storia. La famiglia di Armstrong inizialmente aveva chiesto 7 milioni di dollari, dei 6 ottenuti circa 5,2 miloni sono stati divisi equamente tra i due figli dell'astronauta, Mark e Rick. Il fratello e la sorella, Dean A. Armstrong e June L. Hoffman, hanno ricevuto 250 mila dollari a testa e sei nipoti 24 mila dollari ciascuno. La vedova del cosmonauta, Carol, sua seconda moglie, nulla perché non ha voluto partecipare all'accordo.
Buzz Aldrin, dallo sbarco sulla Luna verso l'infinito (e oltre). Giacomo Talignani il 16 luglio 2019 su La Repubblica. E' stato il secondo a mettere piede sul satellite nel 1969, assieme a Neil Armstrong. Sua la gran parte delle foto scattate lassù. Oggi, a 89 anni, chiede a Trump e al modo di continuare a sognare, per arrivare su Marte. Ancora prima di mettere piede sulla luna Edwin Eugene "Buzz" Aldrin sembrava prepararsi a una vita da eterno secondo. Per fortuna il tempo e un lungo percorso per uscire dalla depressione oggi raccontano un Aldrin diverso, un eroe iper celebrato nonché un eccentrico nonno di famiglia che ha finalmente superato quel "secondo posto" difficile da digerire. A 89 anni, oggi Aldrin ha diversi nipoti, e sogna per i suoi Stati Uniti un nuovo allunaggio. La storia dei tempi di "ingresso" sulla Luna è nota: Armstrong, comandante della missione, fu il primo a scendere dagli scalini e a mettere piede sul suolo mentre Aldrin entrò in scena 19 minuti dopo e a lui si devono la maggior parte delle fotografie scattate lassù. Questo episodio marcò la vita di Aldrin sia durante la preparazione della missione - quando si rese conto che sarebbe stato il "secondo" e cercò di far cambiare idea ai suoi superiori - che una volta tornato a Terra. Ci vollero anni per metabolizzare l'esperienza. Nato nel 1930 come il collega Armstrong, Aldrin venne al mondo a Montclair nel New Jersey (Stati Uniti) il 20 gennaio. Suo padre era un aviatore dell'esercito durante la prima guerra mondiale e poi fu dirigente d'azienda. Aveva due sorelle e una di queste, Fay Ann, lo soprannominò "Buzz" (dalla parola brother pronunciata buzzer). Boy scout e sportivo, era destinato a una carriera militare in marina per voler del padre ma, soffrendo di mal di mare, virò poi sull'aeronautica. Appassionato di aerei e di spazio si laureò alla United States Military Academy nel 1951 in ingegneria meccanica. A differenza del suo futuro comandante, che ebbe un percorso da civile, Aldrin venne arruolato nell'aeronautica militare statunitense prestando servizio come pilota di jet da combattimento e partecipò a 66 missioni (abbattendo due MiG-15) nella guerra in Corea. Sposato, ha avuto tre figli: Michael, Janice e Andrew e diversi nipoti (nel tempo si è poi risposato altre due volte). Rientrato a casa dalla guerra riuscì a conseguire un dottorato in astronautica al Mit e venne selezionato, dopo aver fallito una prima prova, dalla Nasa. I colleghi, a causa della sua tesi di dottorato (fu il primo con questo titolo fra gli astronauti) intitolata "Line-of-Sight Guidance Techniques for Manned Orbital Rendezvous" cominciarono a chiamarlo anche "dottor Rendezvous". Nel 1963 il suo nome era già nella lista dei possibili astronauti per la missione Gemini 9. Tre anni dopo, trascorse più di cinque ore in attività extraveicolare nella missione Gemini 12 stabilendo un nuovo record. Il 20 luglio 1969 il grande sogno, atterrò sulla luna. Come da protocollo scese per primo il comandante e, quasi venti minuti dopo, "Buzz" passeggiò per circa due ore e quindici minuti scattando foto e raccogliendo campioni per le rivelazioni scientifiche. Fu la prima e unica persona - in quanto credente - a tenere una piccola cerimonia religiosa sulla Luna. Le sue prime parole appena messo piede lassù furono "Beautiful view". E' lui, Aldrin, l'uomo immortalato (da Arstrong) mentre saluta la bandiera: la maggior parte delle immagini scattate il 21 luglio ritraggono infatti proprio Buzz. Tornato sulla Terra, come per i colleghi della missione, anche per lui ci fu un momento di celebrità. Poi, dopo il suicidi della madre, Aldrin scivolò in un lungo periodo di depressione e isolamento. Ufficialmente lasciò la Nasa nel 1971 con una carriera fantastica alle spalle: in totale quasi 290 ore nello spazio e quasi 8 di queste spese in attività fuori dal veicolo. Un anno dopo si dimise anche dal servizio attivo dell'Air Force e iniziò a scrivere libri, fra i quali un'autobiografia. Nei suo testi c'è anche il racconto della sua malattia e dell'alcolismo, degli anni bui dopo aver lasciato la Nasa. In quel tempo fu perfino arrestato e protagonista di alcuni spiacevoli episodi, finché nel 1978 smise di bere. Negli anni, fra numerose onorificenze, lauree ad honorem e premi, è stato autore di nuovi studi sulle traiettorie spaziali, giochi strategici per il computer (Buzz Aldrin's Race into Space), ha creato società e fondazioni benefiche, avviato collaborazioni con scrittori per romanzi fantascientifici e a lui sono dedicati diversi personaggi dei cartoni animati. Le cronache lo annotano anche fra i massoni (è stato membro di diverse logge), per un breve periodo presidente della Commissione sul futuro dell'industria aerospaziale Usa e, fra le curiosità, come una delle persone più anziane ad aver raggiunto il Polo Nord (a 86 anni). Anche di recente, in una intervista a Repubblica, ha ribadito il suo interesse per un futuro sviluppo di attività su Marte e la speranza che si arrivi a un nuovo allunaggio con la luna che funga "non da destinazione ma da punto di partenza (verso Marte, ndr)". Alla morte di Neil Armstrong, Buzz si è detto rattristato per la scomparsa di "un vero americano e il miglior pilota che abbia mai conosciuto. Avevo davvero sperato che il 20 luglio 2019, Neil, Mike e io saremmo stati insieme per commemorare il 50° anniversario del nostro sbarco".
DAGONEWS il 19 giugno 2019. Il tempo stava per scadere. Il modulo dell'Apollo 11 stava facendo la sua discesa verso la superficie lunare il 20 luglio 1969 quando la luce di carburante si accese. A 100 piedi (30 metri) dal suolo, non era quello di cui gli astronauti avevano bisogno. Il serbatoio dell’Eagle era quasi all’asciutto. In una nuova video intervista sul primo sbarco sulla Luna, Buzz Aldrin, pilota del modulo lunare della missione, descrive come ha tenuto la lingua a bada quando è apparsa la spia e la voce di Charlie Duke, comunicatore della Nasa, ha informato Aldrin e Neil Armstrong che avevano solo 60 secondi. «Ok. Cento piedi. Sessanta secondi. Faremo meglio a scendere» ricorda Aldrin che pensò di non mettere in agitazione Armstrong che aveva già abbastanza pensieri per la testa. Da un'altitudine di circa 500 piedi aveva preso il controllo del modulo lunare e si stava muovendo con cautela. Nessuno sapeva come avrebbe funzionato il modulo e proprio mentre scendevano apparve un grande cratere che voleva dire un enorme disastro per gli uomini e la missione. Gli astronauti avevano già dovuto fare i conti con diverse spie d’allarme nel modulo, ma la storia del carburante era l’ennesimo problema che avrebbe potuto portare gli astronauti alla decisione di abortire la missione. Eagle scese per altri 90 piedi nei successivi 30 secondi, lasciando all'equipaggio mezzo minuto di carburante per percorrere gli ultimi 10 piedi fino alla superficie lunare. Nell'intervista registrata al Science Museum di Londra nel 2016, ma rilasciata giovedì per la prima volta, Aldrin afferma che è stato solo in quella fase avanzata che si è sentito più fiducioso sull'atterraggio. «Ho pensato, ah, ce l'abbiamo fatta».
Aldrin: "Ciao Luna, ora voglio Marte". Buzz Aldrin nell'epica impresa dell'Apollo 11 sul suolo lunare. L'ex astronauta dell'Apollo 11: costruiremo una colonia ma l’America rischia di perdere la sfida. Francesco Semprini il 15/7/2009 su La Stampa. La Lollo e la Luna, la celebrità e il buio della depressione, le sfide del passato e quelle del futuro. Buzz Aldrin, il secondo uomo ad aver messo piede sulla Luna, celebra i 40 anni dalla missione dell’Apollo 11 con «Magnificent Desolation», un libro scritto in collaborazione con Ken Abraham, in cui racconta la desolazione vissuta tra i paesaggi lunari e le amarezze terrene. Lo incontro alla presentazione al pubblico di New York, in un’affollata sala di Barnes & Noble. L’eroe della Luna, 79 anni e 6 mesi il 20 luglio, ostenta lo smalto del pilota e scommette su Marte per riaccendere la passione per lo spazio.
E’ ancora in contatto con Gina Lollobrigida?
«Ci può scommettere. La stimo tantissimo: è una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, è una gioia ogni volta che ci vediamo».
La conosce da 40 anni, ma da ragazzo quali erano i suoi eroi?
«Flash Gordon e Buck Rogers. Mi piaceva che, nonostante fossero personaggi della fiction, vivessero in una versione dello spazio alla quale noi terrestri potevamo identificarci. Davano un senso di sicurezza».
Non ha avuto paura di perdere questa sicurezza sulla Luna?
«La missione dell’Apollo 11 è stata preparata per molti anni, da quando per primo ne parlò Kennedy nel 1961. Ci fu affidato un compito importante e l’unico obiettivo era andare fino in fondo. Il nostro addestramento è stato tecnico, fisico e mentale: oltre il 68% del training era sulle emergenze e dovevamo abituarci a far fronte agli imprevisti. Era un modo per tenere a freno le emozioni».
Del resto lei, la Luna, ce l’ha nel sangue: giusto?
«Se si riferisce al nome da nubile di mia madre, Moon, è vero, ma non mi ha condizionato affatto. E soprattutto non ho avuto trattamenti di favore dalla Nasa, come qualcuno ancora insinua».
Qual è stata la sensazione più intensa lassù?
«La mancanza di gravità, la leggerezza dei movimenti, la lentezza nel fare le cose, anche le più semplici. Lo scenario di straordinaria desolazione dove ci siamo ritrovati con Neil Armstrong era maledettamente affascinante».
Ha un bel ricordo, quindi?
«Non è il posto migliore per mettere su casa. E’ stato duro vivere in un luogo simile con tanti sbalzi di temperatura. Insomma, un ambiente ostile. E’ stato un grande traguardo per l’uomo, ma il posto in sé è desolato. Parlo però di una desolazione magnifica».
Per questo ha sentito il bisogno di raccontarlo in un libro?
«Il libro è stato una sfida, vivere di nuovo quelle sensazioni assieme alle persone che fanno parte della mia vita di oggi».
La desolazione l’ha trovata anche sulla Terra?
«Si ha un’idea falsata degli astronauti e si pensa che siano persone fredde e determinate, quasi fatte in serie. In realtà siamo diversi: c’è l’introverso, l’estroverso, chi è sicuro di sé e chi è più apprensivo. Io, poi, ho probabilmente ereditato un’inclinazione depressiva da mia madre. Si tolse la vita un anno prima della missione e allora tirai dritto. Pensavo che tutto andasse avanti, ma poi...».
Poi le emozioni trattenute sono esplose al ritorno sulla Terra?
«Dopo la celebrità, è cresciuta in me una repulsione per quella vita così ordinata e carica di responsabilità: West Point, la Corea, il Mit, la missione spaziale, la minaccia atomica. Sono fuggito cercando di crearmi una nuova vita, ma è stato più difficile del previsto ed è stato facile perdersi. L’alcol è diventato una sicurezza».
Come ne è uscito?
«Con l’aiuto di specialisti, amici e soprattutto di Lois, la mia terza moglie. Col tempo sono tornato a vivere e oggi vado in giro a raccontare la mia esperienza: incontro tanti bambini, ho lavorato con Homer Simpson e sono diventato un rapper con Snoop Dogg. Ma è con questo libro che ritengo di aver completato la mia riabilitazione e ora guardo al futuro».
Qual è il prossimo traguardo nella corsa spaziale?
«Ritengo che gli Usa debbano smettere di utilizzare le loro risorse per le missioni sulla Luna. Sono cose che dovrebbero fare altri Paesi che lì non sono ancora andati. Noi dovremmo puntare su un programma per creare un insediamento permanente su Marte, un posto decisamente migliore. E’ una sfida necessaria anche per riaccendere la passione per lo spazio».
E’ un suggerimento al suo collega Charles Bolden, il nuovo direttore della Nasa?
«Sono convinto che i russi vogliano arrivare prima di noi su Marte e l’America rischia di trovarsi indietro nella sfida».
Quanto dovremo aspettare?
«Forse il 2036. Ci sono voluti 66 anni per passare dai fratelli Wright all’Apollo 11 e ne serviranno altrettanti per passare dalla Luna a Marte».
Paolo Ricci Bitti per Il Messaggero il 22 luglio 2019. Quando ci vuole ci vuole, tanto è vero che Buzz Aldrin, il secondo uomo a camminare sulla Luna, non ha riportato alcuna conseguenza penale per quel pugno sferrato al volto di un tipo che crede che le missioni Apollo siano un inganno ordito dal governo americano con la complicità della Nasa e degli studios di Hollywood. Opinione più che legittima, per quanto non sostenuta da prove, ma comunque da non impugnare come una clava aggredendo l'anziano astronauta in pubblico accusandolo di essere «un codardo, un bugiardo e un ladro». Pesanti calunnie che hanno innescato il destro dell'eroe dell'Apollo 11, come registrato in un video diffuso in questi giorni durante i quali si ricorda il 50° anniversario della conquista della Luna. Un video visto e twittato da oltre due milioni di persone in poche ore. In realtà l'episodio è del 2002 e riguarda, come riporta Usa Today, Bart Sibrel, del Tennesee, che all'epoca aveva 38 anni, così come Buzz Aldrin di anni ne aveva allora 72 quando reagì con le maniere forti a quelle assurde accuse espresse con tanta e immotivata veemenza nei confronti per di più di una persona di quell'età. La polizia lasciò poi perdere ritenendo, con coerenza, che il pluridecorato Aldrin fosse stato provocato. In questi giorni dedicati all'epopea lunare la vicenda è stata rievocata andando a ricercare lo stesso Sibrel che non ha cambiato idea sulla cospirazione che avrebbe coinvolto 400mila persone per fingere di mandare l'uomo sulla Luna persino con la complicità indiretta anche dei russi che seguirono in diretta lo sbarco con le loro sonde senza poter fare altro che ammettere la sconfitta.
Michael Collins, dall'Italia all'Apollo 11: il segreto del terzo uomo sulla Luna. Giacomo Talignani il 16 luglio 2019 su La Repubblica. Ricordato come l'astronauta che non mise mai piede sul suolo lunare, raccontò di non essersi mai sentito solo laggiù, mentre aspettava i suoi compagni. Per noi sarà per sempre il figlio della Lupa che sfiorò la luna. C'è anche una targa al numero 16 di via Trastevere a Roma che lo ricorda: "In questa casa nacque il 31 ottobre 1930 - recita l'iscrizione sul marmo - Michael Collins, intrepido astronauta della Missione Apollo 11, primo uomo sulla Luna. Roma fiera di questo suo figlio posa a ricordo perenne". In realtà Collins, uno dei tre astronauti della celebre missione, sulla Luna non ci mise mai piede, motivo per cui per tutta la vita questo eccezionale astronauta è rimasto decisamente nell'ombra rispetto alla fama dei colleghi Neil Armstong e Buzz Aldrin che eseguirono la camminata lunare. Eppure il suo ruolo fu determinate per la riuscita dell'operazione e il ritorno a casa. Collins, che oggi ha 89 anni, nacque nella capitale italiana dato che il padre allora era di stanza come Generale Maggiore dell'esercito presso l'ambasciata statunitense. Dopo un breve periodo romano tornò in America, dove continuò a spostarsi insieme alla famiglia (aveva un fratello maggiore e due sorelle) passando dall'Oklahoma a New York, fino a Porto Rico, Texas e Virginia. Proprio in un volo a Porto Rico rimase stregato dall'amore per gli aeroplani. Dopo la Seconda guerra mondiale si trasferì a Washington dove si laureò nel 1948 e seguendo le orme del padre iniziò un percorso con le forze armate unendosi all'Aeronautica degli Stati Uniti. Pilota di combattimento, durante la sua scalata per diventare ufficiale conobbe la moglie Patricia Mary Finnegan, con cui ebbe tre figli: Kate (poi nota attrice), Ann e Michael. Accumulò quasi 5mila ore di volo e la sua carriera da astronauta non fu subito felicissima: "scartato" come pilota Air Force, riuscì però a entrare in una seconda selezione nel terzo gruppo dei prescelti, specializzandosi poi in attività Eva (extra veicolari). Collins partecipò alle missioni Gemini 7 e Gemini 10, passeggiando nello spazio). Era considerato un pilota appassionato, un buon pescatore e un uomo dotato di creatività (ideò lui il logo "Eagle") e sensibilità. A lui fu affidato per esempio anche il delicato compito di incontrare le mogli e le famiglie di alcuni astronauti deceduti in missione. Nel 1968, a causa di un'ernia al disco che gli impedì di pilotare l'Apollo 8, la sua carriera spaziale sembrava essere messa in dubbio: invece, dopo mesi di addestramento e una graduale ripresa, in qualità di esperto gli fu assegnato il compito di pilota del Modulo di Comando e di Servizio (CSM) dell'Apollo 11. La sua missione era rimanere in orbita intorno alla Luna mentre Armstrong e Aldrin avrebbero effettuato la famosa camminata. Per paradosso pur non mettendo piede sulla Luna, in quella orbita rimasta storica Collins fu l'essere umano più lontano dalla Terra e anche il più isolato a livello di comunicazioni. Eppure nei lunghi minuti di attesa dei compagni, come si legge nel libro scritto una volta tornato (Carrying the Fire), Collins confessò in realtà di non essersi mai sentito solo. Anzi, era pieno di "consapevolezza, soddisfazione, fiducia, quasi gioia". Ha sempre descritto l'allunaggio come una missione "pensata e fatta da tre uomini" e anche se non lasciò le sue orme sul suolo lunare, il suo ruolo è stato decisivo nell'impresa. Pochi anni fa, in una intervista a The Guardian, Collins ha raccontato di essere stato invece molto preoccupato per la sicurezza di Armstrong e Aldrin: allora fu messo in conto anche il fatto che potesse essere lui l'unico sopravvissuto, considerate le scarse probabilità di successo. Tornato a Terra, dopo un incarico sotto la presidenza Nixon e un periodo da direttore del National Air and Space Museum, nel tempo raggiunse il grado di Generale maggiore prima di ritirarsi dall'esercito nel 1982. Oltre a essere stato sottosegretario dello Smithsonian Institution, ha poi avviato alcune iniziative private, fra cui una propria società di consulenza. Collins ha scritto numerosi libri, ricevuto un innumerevole quantità di medaglie e premi ed è stato inserito in diverse "Space Hall of Fame". Oltre a varie apparizioni televisive e cinematografiche, a lui i Jethro Tull e diversi altri gruppi hanno dedicato versi e canzoni. Famoso per il suo sangue freddo e la sua capacità di guidare il Modulo di Comando fino al punto favorevole al riaggancio col Modulo Lunare, oltre che primo uomo a vedere di persona la faccia nascosta della Luna, a chi gli chiedeva se avesse mai sofferto di solitudine ha sempre risposto "ho volato da solo su aeroplani per diciassette anni, l'idea di essere da solo su un veicolo non mi allarma. Nel Columbia avevo una casa felice. Quella costruzione è come una cattedrale in miniatura".
Oriana Fallaci, ostinata guastafeste al servizio dei lettori. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Francesco Cevasco su Corriere.it. È come quell’onda che torna e ritorna. Sempre con la stessa forza. E così sono i libri di Oriana Fallaci. Eccoli che tornano. E raccontano, tutti, una storia: quella, soprattutto, di chi li ha scritti. Una specie di autobiografia per titoli. Non c’è libro della Fallaci che non sia un tassello della sua autobiografia. Raccontava le dive di Hollywood e le donne-Penelope, il colore della Luna e l’odore del napalm in Vietnam, i padroni del mondo e le ciliegie dei ricordi domestici. E c’era sempre di mezzo lei e il suo «dico e scrivo quello che penso; fine». Era fatta così. Si pensi a Solo io posso scrivere la mia storia: dice già tutto. Non l’ha mai nascosto: ho fiducia solo nei miei lettori, degli altri non m’importa (tempo perso dire che è stata ripagata). Gli altri sono i giornalisti e i critici. I giornalisti: «Mi dispiace non poter leggere gli articoli sulla mia morte. Descriveranno come io non ero». I critici: «Parassiti che lavorano sul lavoro degli altri, cioè anche il mio. Da loro non mi aspetto nulla di buono. Sono guidati dall’arroganza e dal livore. Dalla gelosia per chi scrive nonché dalla pigrizia. Perché di rado si scomodano a leggere ciò che giudicano: i libri; li sfogliano e basta. Con me non sono mai giusti e mai gentili».
Oriana Fallaci era severa anche con se stessa: «Sono alta un metro e 56 centimetri scarsi e peso 43 chili: la gente, quando mi conosce, è sorpresa da tanta pochezza. Io allargo le braccia e dico: Tutto qui!». Ovviamente, di sincero in questa frase ci sono solamente i numeri: l’Oriana, come la chiamavano quando lei non sentiva, aveva una sofferta ma grandiosa autostima. «Sono una rompiballe, lo so. Sai cosa dicevano gli astronauti americani? Un modo sicuro di tornare dalla Luna è quello di portare con noi l’Oriana». E il pensiero va, ovviamente, a Quel giorno sulla Luna.
Ecco un altro titolo: Intervista con la Storia. «Uno dei miei libri che ho amato di più». Amava ricordare quando davanti a Khomeini si tolse l’obbligatorio chador e gli rivolse la blasfema invettiva: «Vada al diavolo!». E quando rimproverò a un tizio di nome Kissinger: «Questa è una stupida frase da cowboy». Delle interviste aveva un’opinione precisa: «Le detesto, le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevano ai cosiddetti Potenti-della-Terra». Erano quelle che lei definiva «da leccaculi»; che davano voce soltanto all’intervistato. Lei no. Lei la sua voce la voleva far sentire, eccome. A costo di soffocare quella dell’interlocutore («Ma era giusto, perbacco! Il giornalismo fatto attraverso le interviste l’ho inventato io!»). L’Oriana non si è mai sentita una giornalista e basta; ha sempre avuto dentro il furore dello scrittore prestato al giornalismo giusto il tempo per covare e far sbocciare il demone della letteratura. «Quando sto scrivendo un libro dico: sono incinta di un libro. Quando l’ho finito dico: ho partorito un libro».
Un figlio mai nato che avrebbe amato più di un libro c’è stato nella vita di Oriana : Lettera a un bambino mai nato. Ci sono due parole, ne bastano due, che parlano d’amore. Sono «Forse» e «Ora». Facciamo raccontare a lei: «Nelle prime trentasei edizioni Lettera a un bambino mai nato si concludeva così: “Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non conta perché la vita non muore”. Dalla trentasettesima edizione ho cambiato così: “Tu sei morto. Ora muoio anch’io…”. Quel “forse” è diventato “ora” non per un ripensamento ma alla fine di una bella e tormentata storia d’amore». La storia d’amore è quella con Alekos Panagulis. Sarebbe stato anche suo quel figlio. Alekos, nella casa di Atene in cui allora viveva con Oriana, intercettò le bozze del libro. Le trovò nascoste in una pentola. La Fallaci non accettava intrusioni nel suo lavoro nemmeno da lui. Cambiò, Panagulis, il finale cancellando la frase che rivelava la morte della donna («questo è un assassinio, non si uccide così una povera donna che già soffre tanto», tentò di spiegare a Oriana). Ma Oriana, fatta com’era, nonostante il gesto d’amore di Alekos, si adirò. E se ne andò a Firenze. Tre giorni dopo Panagulis la raggiunse e le propose un compromesso: non «ora» muoio ma «forse» muoio. E (per amore!) Oriana accettò. Almeno fino alla trentasettesima edizione.
Ecco che piano piano la Fallaci diventa sempre più umana. La immaginate che parla, si commuove, quasi intona — in una sera di pensieri e ricordi — un discorso sulla musica? Ecco il fedele ricordo. Diceva Oriana Fallaci: «Grieg, Sibelius, Smetana, Dvorak. E poi sinfonie nordiche. Mi riconosco nella musica non mediterranea. Chiedo scusa a chi ne resterà ferito, ma io non ho mai amato le canzoni napoletane. Né le nenie arabe né il flamenco. Quei suoni sono sempre stati per me un rumore molesto. Io ho un motivo musicale in testa che più di chiunque altro mi tocca il cuore e il cervello. E questo motivo è Greensleeves. La sua dolcezza e la sua malinconia mi struggono talmente che dico: Quando sarò morta, non sprecate tempo ai funerali. Anche se mi buttate sotto un ulivo, per me va bene. Ma se buttandomi suonate Greensleeves, mi fate una cortesia». (Greensleeves è un inno all’amore dedicato a una donna dalle maniche verdi simbolo di giovinezza e sensualità, citato anche da Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor).
UOMO SULLA LUNA. Il mistero di quell’ignoto che Paolo VI capì meglio di Armstrong. Mario Gargantini il 19.07.2019 su Il Sussidiario. Cinquant’anni fa i primi due uomini scesero sulla Luna: ecco come vissero quel momento due testimoni d’eccezione, Oriana Fallaci e Paolo VI. Tanti in questi giorni celebrano, con più o meno retorica, lo storico evento di cinquant’anni fa dello sbarco dell’uomo sulla luna, quando due uomini hanno per la prima volta toccato il suolo lunare lasciandovi quelle impronte fotogeniche che sono molto più che un simbolo perché parlano di noi, raccontano dell’uomo, del suo inestinguibile desiderio di conoscere, di esplorare, di investigare, di incontrare. Si ricordano le prime passeggiare di Niels Armstrong e Buzz Aldrin su quella che quest’ultimo ha chiamato “magnifica desolazione”, dalla quale hanno rischiato di non ripartire data la non prevista inclinazione con la quale il modulo lunare è atterrato (pardon, allunato). Sono tanti i personaggi che, insieme ai tre astronauti dell’Apollo 11, si possono associare al ricordo di quell’impresa e ne abbiamo selezionati due, molto diversi tra loro ma altrettanto colpiti da quegli avvenimenti; due testimoni le cui considerazioni conservano un tenore di grande attualità e possono aiutare noi uomini di un altro secolo, proiettati verso altri traguardi spaziali (Marte, asteroidi, comete…) a convivere con gli entusiasmi e con i timori che imprese del genere comportano. Parliamo di Oriana Fallaci, inviata speciale del settimanale L’Europeo a Houston e a Cape Kennedy, e di Paolo VI, assiduo frequentatore in quei giorni della Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Santa Sede a Castel Gandolfo. Ma prima ancora dobbiamo citare un altro testimone che, in anticipo di un secolo, ha narrato, meglio di Tito Stagno e di Ruggero Orlando, la prima missione sul nostro satellite: è Jules Verne, autore dei romanzi Dalla Terra alla Luna (1865) e Intorno alla Luna (1870). Verne è il padre della fantascienza ma qui si è superato, descrivendo alcuni aspetti e alcune situazioni straordinariamente simili a quelle dell’Apollo 11: come la scelta della Florida come base di lancio; o la forma e le dimensioni della capsula-proiettile progettata dai soci del Gun Club di Baltimora, non molto diverse da quelle del modulo di servizio spinto verso la Luna dal potente razzo Saturn V; o ancora i retro-razzi propulsori necessari, sia nella fiction che nella realtà del luglio 1969, a portare la navicella fuori dall’orbita lunare per il ritorno a casa degli astronauti; e questi, in entrambe i casi, sono tre. Certo, per farli entrare nella capsula alla partenza Verne non è riuscito a immaginare l’ascensore e li ha fatti salire con una scala a pioli; come pure non ha pensato a una tuta a più strati e allo scafandro. Però ha descritto con vivace realismo il momento in cui si avverte l’assenza della gravità, il passaggio della “linea neutra”, il “punto d’eguale attrazione”; ed è arrivato a immaginare la possibilità di una passeggiata nello spazio, quella che oggi siamo abituati ad ammirare come “EVA, Extra-Vehicular Activity”; infine è spettacolare la scena del recupero in mare della capsula, riconosciuta da un piroscafo in mezzo al Pacifico, esattamente come accadrà all’Apollo 11. Ma veniamo ai due testimoni prescelti. La Fallaci è stata ben più che una cronista di quelle epiche giornate; col suo tipico approccio, di chi vuole partecipare a ciò che descrive, ha pensato di trasferirsi negli States per lunghi periodi negli anni 60, vivendo a Houston e diventando un’ospite fissa del centro di addestramento della Nasa. La giornalista-scrittrice ha voluto capire dall’interno come si stava preparando la storica missione promossa dagli appassionati discorsi del presidente John Kennedy: quello del maggio 1961 al Congresso e quello del settembre 1962 in Texas, con quell’epica conclusione “Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio, e di fare altre cose, non perché siano facili ma perché sono difficili”. Oriana ha voluto rendersi conto direttamente di queste difficoltà, ha studiato i dettagli del programma di volo, ha visto i diversi progetti alternativi ideati per effettuare l’allunaggio, ha provato il simulatore di volo e l’assenza di gravità. Ma soprattutto ha incontrato i protagonisti: gli astronauti, i tecnici, gli scienziati, a cominciare da Werner von Braun; ha voluto conoscere gli astronauti nella loro normalità quotidiana, fino a diventare amica di alcune delle loro mogli, cercando di capire cosa vivevano davvero quando affermavano di non avere paura per il mestiere del marito. E quel 20 luglio del ’69 era lì a Cape Kennedy, ha visto da una ventina di metri Armstrong, Aldrin e Collins “proprio mentre – racconterà su L’Europeo – si avviavano verso quel camioncino che li porta al razzo, una specie di camioncino del lattaio. Erano molto sorridenti, molto contenti, io ero un po’ sorpresa, perché gli altri che ho visto, anche quelli dell’Apollo 10, erano sempre un po’ aggrondati, pensierosi. Invece questi ridevano proprio con allegria. Dietro il vetro del casco spaziale ho visto bene i denti bianchi che sorridevano. Erano molto belli”. Nei reportage della Fallaci – come nel libro che li raccoglie, Quel giorno sulla Luna – c’è tutta l’emozione che accompagna un’impresa unica; c’è tutta l’ammirazione per la bravura, la genialità, l’audacia di chi vi ha partecipato nei diversi ruoli; c’è la riflessione di chi ha vissuto quei momenti senza lasciarsi dominare esclusivamente dall’emozione, senza nascondere dietro al trionfo tutti gli aspetti problematici e anche negativi, senza rinunciare a interrogarsi sul perché. Oriana è preoccupata per la possibile assuefazione anche a un fatto così clamoroso, teme che il tempo possa consumare anche un evento di queste proporzioni: “Ci si abitua a tutto, anche al miracolo di essere usciti dalla nostra prigione per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare sulla terra e diventare un uomo”. In quella notte straordinaria tutti i 500 milioni di telespettatori che hanno seguito le dirette delle tv in bianco e nero, si sono rispecchiati negli sguardi dei tre astronauti, si sono sentiti un po’ artefici di quel grandioso risultato. La Fallaci però avverte una inadeguatezza: “Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per essere giudicato da noi”. E con un profondo senso di realismo commenta: “A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio alla Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità”. Sull’umanità che si rivela in simili occasioni rifletteva anche Paolo VI, dopo aver seguito con attenzione e apprensione fino a tarda notte i servizi televisivi della Rai. Ne aveva già accennato all’Angelus di domenica 20 quando, dopo aver augurato un felice esito per la missione lunare, aveva invitato tutti a “meditare sull’uomo, sul suo ingegno prodigioso, sul suo coraggio temerario, sul suo progresso fantastico. Dominato dal cosmo come un punto impercettibile, l’uomo col pensiero lo domina. E chi è l’uomo? Chi siamo noi, capaci di tanto?”. La mattina di lunedì 21 aveva poi inviato ai tre astronauti un messaggio che si apriva con un solenne Gloria a Dio! ripetuto “come inno di festa da parte di tutto il nostro globo terrestre, non più invalicabile confine dell’umana esistenza, ma soglia aperta all’ampiezza di spazi sconfinati e di nuovi destini”. Il messaggio proseguiva con un “onore a voi, uomini artefici della grande impresa spaziale! Onore agli uomini responsabili, agli studiosi, agli ideatori, agli organizzatori, agli operatori! Onore a tutti coloro che hanno reso possibile l’audacissimo volo … che allarga alle profondità celesti il dominio sapiente e audace dell’uomo”. Infine il 23 luglio, un giorno prima del rientro dell’Apollo sulla Terra, era tornato sull’esigenza di meditare su quanto era accaduto: “Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi!”. Si era rivolto soprattutto al mondo giovanile, attraversato dai fermenti della contestazione, invitandoli a “sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale”, nella convinzione che “il campo scientifico merita ogni interesse” contro ogni tentazione di disfattismo e di “spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo”. Aveva proseguito indicando una tendenza insita nella natura umana, tanto più avvertita quanto più l’uomo progredisce; l’ha chiamata tendenza cosmica: “chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio… Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale… Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza”. Infine aveva esortato i fedeli a non temere “che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta”. All’epoca queste parole non hanno avuto la risonanza mediatica che avrebbero oggi; forse avrebbero favorito una migliore comprensione della storica frase di Armstrong (“That’s one small step for a man, but one giant leap for mankind”), indicando la natura del “grande balzo” e dando un degno significato alla parola “umanità”.
La Luna di Oriana Fallaci di Michele Magno su startmag.it. Tra giugno e luglio di cinquant’anni fa Oriana Fallaci (1929-2006) raccontò da Cape Kennedy e da Houston il viaggio sulla Luna. Incontrò i protagonisti e, sulle pagine dell’’Europeo, commentò la preparazione della missione, il lancio dell’Apollo 11, l’allunaggio del 20 luglio 1969. E poi il rientro degli astronauti e lo studio dei materiali riportati a terra. Quegli scritti vennero poi raccolti in un volume, ripubblicato da Rizzoli (2018) e intitolato “La Luna di Oriana”. Da questo libro sono tratti i brani che seguono.[A cura di Michele Magno]
Un uomo, messo acconto a quel razzo, sembra meno di una formica. È un razzo così ciclopico che la sua altezza equivale a quella di un grattacielo con trentasei piani, la sua ampiezza è quella di una stanza di sette metri per sette. Pieno di carburante, pesa trentaseimila tonnellate. Per alzarsi, ha bisogno di una spinta pari a quattromila tonnellate. Se ne raggiungi con un ascensore la cima, io l’ho fatto, ti coglie il terrore. E di ciò non ti rendi conto alla televisione o quando lo guardi dal recinto della stampa che è il più vicino alla pista di lancio: un chilometro e mezzo. La torre che lo sostiene è altrettanto grossa, tutto intorno la pianura è deserta: ti mancano i termini di paragone, e solo il boato che segue la fiammata da apocalisse ti riconduce alla realtà. Poi lo spostamento d’aria che ti investe come un mastodontico schiaffo. Ma è una realtà irreale: mentre lui sale dentro l’azzurro sputando come una cometa di fuoco arancione, tuonando l’esplodere di mille bombe, non credi ai tuoi occhi e ti senti quasi offeso nelle tue dimensioni umane. Offeso, ricordi che in fondo è una bomba, nacque da una bomba che si chiamava V2 e non serviva a volare nel cosmo, serviva a distruggere la città, a massacrare gli inermi. Pensaci al momento in cui è partita per la Luna, il 16 luglio. La data è il 16 luglio. L’ora le nove e trentadue del mattino. Il luogo, Cape Kennedy in Florida. […] Non illudiamoci. Gli uomini continueranno come prima a soffrire, a uccidersi nelle guerre, a offendersi nelle ingiustizie, e con la Luna allargheranno i confini della loro perfidia e del loro dolore. Ma allargheranno anche quelli della loro intelligenza, della loro curiosità, del loro coraggio e, se le insidie non si materializzeranno, può anche darsi che il Grande Spettacolo diventi una buona avventura […][…] Il razzo, da qui, si vede benissimo, ce l’ho proprio davanti, Dio com’è bello! Uno degli spettacoli più belli che abbia mai visto perché l’hanno illuminato con una trentina di riflettori, sai, allo stesso modo in cui noi in Europa illuminiamo i monumenti… E’ anche lui un monumento. Un monumento alto come un grattacielo di trentasei piani, tutto in metallo, ma il metallo non si vede: si vede solo la luce. È come un unico fascio di luce, un immenso gioiello che brilla nel buio, lanciando bagliori, e… guarda, è commovente. Sì, credo che commovente sia la parola giusta. Commovente come una stella. Sai, verso le due del mattino, quando sono arrivata, m’ha preso come un nodo alla gola. Visto da lontano sembrava proprio una stella caduta sulla Terra: è difficile restare freddi dinanzi a cose del genere. Come sarà difficile restare freddi al momento in cui il razzo partirà. […] È da quando l’uomo apparve sulla Terra e alzò gli occhi al cielo e vide il pianeta che chiamiamo Luna, è da allora che l’uomo sogna di andarci… E fra poche ore ci va. Con tutti i suoi difetti, le sue colpe. […] L’uomo, dice Pascal, non è né angelo né bestia ma angelo e bestia: e questo viaggio sta per essere compiuto dagli uomini, non dagli angeli. Gli uomini sono quello che sono: vogliono far soldi anche su Lourdes e sulla Luna. Non sono buoni, o non spesso. Ma se aspettassimo di diventare buoni per fare le cose, non faremmo mai nulla: sì o no? Tu parli di volgarità, io parlerei piuttosto di bene e di male: lo sai che anniversario è oggi? Lo scoppio della prima bomba atomica ad Alamogordo. Quando Fermi ed Oppenheimer e gli altri provarono l’ordigno terribile che fu usato poi a Hiroshima. Gli uomini sono così: inventano la bomba atomica, uccidono con essa centinaia di migliaia di creature, e poi vanno sulla Luna. Nè angeli né bestie ma angeli e bestie. Io non me ne dimentico neppure quando mi lascio commuovere dall’immensa stella che chiamiamo razzo Saturno. E penso che in questo momento centinaia di creature stanno morendo in Vietnam, e che, nel momento in cui il razzo si staccherà dalla Terra e tutti grideranno al miracolo, almeno una creatura o dieci creature moriranno uccise da una pallottola, da un colpo di mortaio… Meno quattro, meno tre, meno due, meno uno, e il razzo si prepara a partire, un uomo si prepara a morire… E’ atroce. Eppure sulla Luna bisogna andarci lo stesso. E chissà che non serva a migliorare un poco gli uomini, a farli essere un poco più angeli e un po’ meno bestie. […] Eccolo, eccoci…meno otto, nove, sei, cinque, sette, quattro, tre, due, uno, fuoco! Dio, Dio, Dio! (Alla televisione si vede un gran fumo bianco uscire dal razzo poi il fumo si scurisce e si allarga in corolla). Lo vedete? Non s’è ancora alzato, ecco, si alza, sale, guarda come sale, bello dritto, che lancio! Mai visto un lancio così! Perfetto! Lo senti il rumore? Qui c’è stato uno spostamento d’aria che ci ha quasi buttato per terra… Guarda come sale… come sale! Dio, ci vorrebbe Omero per descrivervi quello che vedo! Dio, a volte gli uomini sono così belli! Sentilo, il rombo! Sembra un bombardamento, ma non ammazza nessuno, mioddio! Oh, che cosa stupenda… si alza così lentamente, sai, lentamente…va sulla Luna…la Luna… Vorrei che oggi nessuno morisse.” […] All’improvviso ci accorgemmo che l’ora era giunta e tutto cambiò. E non ci importò più che la Luna rappresentasse un volgare scopo politico, non ci importò più che i due uomini scelti dal caso fossero antipatici. La Luna divenne qualcosa di religioso e i due uomini divennero qualcosa di santo: un simbolo di tutti noi, vivi o morti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, noi pesci che cerchiamo sempre altre spiagge senza sapere perché. […] […] Erano due uomini che nessuno aveva scelto perché migliori degli altri e il loro unico merito consisteva nell’essere bravi piloti, ma non migliori di altri. Umanamente non valevano granché. Privi di fantasia e di umiltà, prima della partenza si erano mostrati arroganti, durante il volo non si erano resi simpatici: mai una frase dettata dal cuore, un motto scherzoso, un’osservazione geniale. Avevano visto la Terra che si allontanava centinaia di migliaia di miglia e tal privilegio s’era risolto in un’arida lezione di geografia: «Vedo a destra la penisola dello Yucatán, a sinistra la Florida…». Qualcuno li aveva definiti “unmanned crew”, equipaggio senz’uomo, il termine che si usa per le astronavi che non hanno persone a bordo, insomma dei piloti automatici. Amareggiato e deluso dal loro silenzio, li perdonavi solo sapendo che avevano paura, ma neanche ciò bastava ad amarli mentre l’ora si avvicinava. Nel distintivo della Nasa fatto disegnare dai tre astronauti si vedeva un’aquila che scende con le ali spiegate e gli artigli spalancati fra i crateri della Luna. Osservandolo, alcuni avevano ricordato che l’impegno di sbarcare sulla Luna entro il 1970 era stato assunto da John Fitzgerald Kennedy dopo la crisi di Cuba, anzi dopo la Baia dei Porci, per scopi strettamente politici. C’era bisogno di una grossa impresa che restituisse prestigio e rispetto agli Stati Uniti e la Luna era apparsa la soluzione più facile e più clamorosa. Lo stesso Lyndon Johnson aveva confermato ciò in una trasmissione televisiva […] […] Armstrong dovette aprirlo, allungando la mano sinistra, proprio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del LM (modulo lunare – ndr), la parte inferiore del LM, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro Controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo una immagine sulla TV! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce McCandless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripetevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man!». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio, Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esitazione, perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del LM bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder… i piedi del LM sono affondati nella superficie per circa uno, due pollici… la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del LM».
L’UOMO CHE ANDÒ SULLA LUNA DOPO AVER MESSO INCINTA ORIANA FALLACI. Barbara Costa per Pangea News dell'11 marzo 2019. “Ho detto al dottore che non posso permettermi il lusso di stare a casa, a riposo, né quello di rivelare che sono incinta”. E non può permetterselo perché è una donna orgogliosa, che lavora duro, fa l’inviata, e si chiama Oriana Fallaci. Il padre del suo bambino non c’è perché Oriana non glielo dice che è incinta, vuole crescere quel figlio da sola, e poi con quest’uomo non ha una storia, non ce l’ha mai avuta, ma non è tutto, la verità è che lui è sposato, e per il suo lavoro è famoso in tutto il mondo. Perché questo ‘lui’… mi sa che ha camminato sulla Luna. È stato un colpo di testa, la passione di una notte, forse qualcuna in più, e la Fallaci ci ha fatto l’amore senza precauzioni perché convinta di non poter avere bambini. Ne è convinta da quando ha perso quel primo figlio il cui padre non voleva né lui, né la madre. Il figlio mai nato di Alfredo Pieroni, nome che oggi non vi dice niente, ma è stato un giornalista del Corriere della Sera, e autore di libri. Alfredo era figo e dongiovanni, non voleva Oriana né altri legami, e quando lei rimane incinta, lui le dà i soldi per abortire. Sono soldi mai spesi, Oriana perde il bambino per un aborto spontaneo, si sente male per strada, a Parigi, ed è sola. Superata una lunga depressione, dimenticato Pieroni, Oriana mette su i mattoni per diventare la Fallaci, ed è una donna che vive da sola per scelta, ama gli uomini che vuole, senza dare né aspettarsi impegni.
Negli anni ’60 Oriana è spesso in Texas, alla NASA, con gli astronauti che si stanno preparando a conquistare la Luna, e che fuori e dentro l’America sono i nuovi eroi, le star che rubano attenzione ai divi del cinema e dello sport. Sono i protagonisti de Il sole muore, e di Quel giorno sulla Luna, i due libri che Oriana Fallaci dedica al viaggio lunare, ma pure del postumo La Luna di Oriana, uscito da poco, che raccoglie suoi inediti scritti per L’Europeo: articoli che si avvicinano, vivono quegli allunaggi, per poi allontanarsene maledicendoli. Il richiamo di quella notte, 20 luglio 1969: chi c’era stava con gli occhi fissi alla tv, ma a Houston c’era anche lei, la Fallaci. Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Mike Collins, i primi ad aprire le porte del cielo, Oriana li ha conosciuti, ma questi dell’Apollo 11 sono i tre astronauti a lei più antipatici, Armstrong soprattutto, un robot freddo, incapace di emozioni, e forse proprio per questo scelto dalla NASA come comandante di un viaggio in rotta verso l’ignoto. Ma a Oriana sta antipatico per un motivo personale, Armstrong ha rubato il posto e la gloria a chi le sta a cuore, quel Pete Conrad che sulla Luna ci va nella missione successiva, l’Apollo 12, e sotto la tuta ha una foto e un ciondolo di Oriana.
È Conrad il padre del bambino? L’ho creduto a lungo, dopo aver letto La Luna di Oriana non so più, vi è una Oriana così amica della moglie di lui, sembra impossibile che le abbia fatto un torto simile. Eppure…l’intesa con Pete è massima, palpita tra le righe, nelle parole della Fallaci si sente che Conrad non è come gli altri: la loro è un’amicizia che supera l’affetto, va oltre la stima, è forte come è forte la loro rottura: litigano per la politica, Conrad è un repubblicano, Oriana un’apolitica innamorata della politica, e lui si arrabbia così tanto da cacciarla di casa, e quando Oriana gli telefona e gli chiede se davvero pensava quanto urlatole la sera prima, litigano ancora, e lei gli scrive una lettera che lui fa a pezzi. Non si vedranno mai più. Nel 1999 Conrad muore in un incidente stradale: Oriana non va al suo funerale, né scrive, parla alla vedova. Forse il padre del bambino di Oriana non è Conrad, la verità non lo sa nessuno, si procede per ipotesi come fa Cristina De Stefano, bravissima nel suo Oriana. Una donna, la biografia della Fallaci più completa, e va detto che De Stefano ha avuto libero e ghiotto accesso ai diari, le lettere, le foto più intime della Fallaci. E tra queste foto ce n’è una che a Oriana fa male al cuore, è nel libro postumo, è quella di Jim Lovell con lei, in Toscana, a Greve in Chianti. Non mi dite che non sapete chi è Jim Lovell, non avete mai visto il film Apollo 13? È lui, cioè Tom Hanks, quello di “Houston, abbiamo un problema”, l’astronauta che è riuscito a rientrare sulla Terra dopo che i comandi della sua astronave erano andati a farsi benedire.
Anche quello tra Lovell e Oriana è un rapporto speciale, lui porta nello Spazio, sotto la tuta, 13 amuleti comprati in Italia, in vacanza con lei, 13 talismani contro la malasorte, contro quel 13 della sua missione che teme infausta. Anche Lovell è sposato e padre, tutte le mogli degli astronauti sono gelose di Oriana, e temono la sua vicinanza ai mariti: il suo fascino, la sua esoticità non sta nel fatto che sia una straniera, ma che sia una donna non sposata che vive a New York, vista dal Sud degli Stati Uniti come la città del vizio e della perdizione. Oriana parla agli astronauti di argomenti che quelle mogli – quasi tutte casalinghe – non sanno capire, né discutere. Quegli uomini che dalla personalità di Oriana sono attratti e intimoriti. Il secondo bambino di Oriana vive nel suo grembo cinque mesi: lo perde la sera di Natale 1965. Questo bambino mai nato sarà il protagonista della Lettera, scritta in prima versione, di getto, nel gennaio 1966, e rimasta chiusa a chiave in un cassetto fino al 1974. L’amicizia tra Oriana e gli astronauti finisce molto male. Ottenuta la Luna, essi tornano sulla Terra insuperbiti, ubriachi di gloria. Oriana non li riconosce più, e per la delusione guarderà alla Luna con rabbia, e rimpianto. La sua passione per lo Spazio rimarrà in sonno per quasi 15 anni, fino a che arriverà un altro astronauta a tentarla, a farla innamorare. Ma questa è tutt’altra storia, di un’altra Oriana, racchiusa in altri libri.
Luna Italiana, Rocco Petrone e il viaggio dell'Apollo 11. A 50 anni dall’allunaggio un documentario prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana in collaborazione con NASA e diretto da Marco Spagnoli. Corriere Tv il 18 luglio 2019. “Nessuno potrà mai dire abbastanza bene di Rocco Petrone. Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco". Con queste poche parole Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center e addetto alle operazioni di lancio, restituisce tutto il peso di una figura rimasta a lungo in ombra, ma che ha avuto un ruolo centrale nel lungo e difficile percorso che ha portato, il 20 luglio del 1969, alla discesa dell'uomo sulla Luna: Rocco Petrone (1926-2006), un uomo timido e ombroso, inflessibile, infaticabile, che si è guadagnato il soprannome di "tigre di Cape Canaveral". Il documentario LUNA ITALIANA, diretto da Marco Spagnoli e prodotto dall'Istituto Luce-Cinecittà per A+E Networks Italia con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana e in collaborazione con la Nasa, ricostruisce la vita e la personalità di Rocco Petrone, direttore delle operazioni di lancio dell'Apollo, collaboratore chiave di Wernher Von Braun, che ha svolto un ruolo chiave nella conquista del cosmo. Ispirato dal libro di Renato Cantore, Dalla Terra alla Luna, Rocco Petrone, l’Italiano dell’Apollo 11, edito in Italia da Rubbettino, questo documentario ricostruisce la vita di questo figlio di emigranti della Basilicata: nato negli USA e, grazie allo Ius Soli, cittadino americano, poté frequentare l’Accademia di West Point, laureandosi poi in ingegneria al MIT. Entrato nel leggendario gruppo di ingegneri che ad Hunstville in Alabama fondarono il nucleo di quella che nel 1958 sarebbe diventata la NASA, realizzò con loro la promessa di John Fitzgerald Kennedy di portare l’uomo sulla Luna prima della fine degli anni Sessanta. Il documentario, presentato in anteprima nel corso dell’evento Matera 2019 Capitale Europea della cultura, proprio in quella Basilicata che diede le origini al protagonista di questa storia, andrà in onda in esclusiva su History (canale 407 Sky) il 20 luglio alle 22.40. Grazie a rare immagini di repertorio provenienti dagli archivi dell’Istituto Luce, Teche Rai, Associated Press, BBC e NASA, Luna Italiana racconta la storia della corsa allo spazio, ovvero il duello tra America e Unione Sovietica, in un viaggio attraverso la scienza, la cultura pop e la vita politica di quegli anni. Una storia emozionante che, oltre alla viva voce di Petrone e di altri protagonisti di quell’epoca straordinaria e irripetibile, si avvale della testimonianza di